oreste e amleto: variazioni sul mito

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ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITÀ DI BOLOGNA SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI Corso di laurea in Filologia, letteratura e tradizione classica Oreste e Amleto: variazioni sul mito Tesi di laurea in Storia dello Spettacolo nel Mondo Antico Relatore Prof: Renzo Tosi Correlatore Prof. Federico Condello Presentata da: Valentina Mancinelli Sessione prima Anno accademico 2013-2014

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ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITÀ DI BOLOGNA

SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI

Corso di laurea in

Filologia, letteratura e tradizione classica

Oreste e Amleto: variazioni sul mito

Tesi di laurea in

Storia dello Spettacolo nel Mondo Antico

Relatore Prof: Renzo Tosi

Correlatore Prof. Federico Condello

Presentata da: Valentina Mancinelli

Sessione

prima

Anno accademico

2013-2014

INDICE

INTRODUZIONE 1

1. SHAKESPEARE: «SMALL LATINE, LESSE GREEKE» 4

1. 1 Elizabethan English Grammar School 4

1. 2 Traduzioni, letture e reimpiego dei classici 6

1.3 Il greco in Shakespeare 13

2. ORESTE E AMLETO FRA MITO, TRAGEDIA E LEGGENDA 18

2. 1 Oreste nella letteratura greca 18

2. 2 Amleto in Saxo Grammaticus e Belleforest 21

2. 3 The Spanish Tragedy, Ur-Hamlet e Hamlet 25

2. 4 Similarità delle vicende 29

3. PASSI IN PARALLELO 34

3. 1 Il prologo: la guardia e il re 35

3. 2 Il lutto e Niobe 38

3. 3 Clitemestra e Gertrude 45

3. 4 Claudio, Clitemestra e il simbolismo del serpente 50

3. 5 Il matricidio, la coscienza e il senso del male 55

3. 6 Vendetta e adulterio 63

3. 7 Orazio e Pilade 69

3. 8 Ofelia ed Elettra 73

CONCLUSIONI 77

BIBLIOGRAFIA 79

INTRODUZIONE

L’Amleto di Shakespeare rappresenta una delle più alte vette della produzione

drammaturgica di tutti i tempi. La tragedia del principe danese dà conto di una serie di

tematiche esistenziali, morali, politiche e religiose quanto mai attuali. D’altro canto, la

grandezza di un’opera si estrinseca in parte, se non integralmente, nella sua perdurante

contemporaneità. Emblematico, a tal riguardo, il titolo di un famoso volume di Jan Kott,

Shakespeare Our Contemporary. Ma se l’eccezionalità di un’opera si manifesta

nell’universalità delle tematiche trattate, allora non sarà casuale né tantomeno inusuale

ritrovare espresse quelle stesse tematiche in altre opere, senza che per questo si debba

ipotizzare fra di esse un rapporto diretto. Tale pare essere il caso dell’Amleto: vendetta,

colpa e follia sono solo tre fra le più evidenti analogie che si rintracciano ponendolo in

parallelo con un altro capolavoro del teatro occidentale, l’Orestea di Eschilo, scritta oltre

duemila anni prima dalla nascita dello stesso Shakespeare. L’Orestea, nella sua interezza,

tramite il dispiegamento ordinato delle vicende all’interno della trilogia, prende ad oggetto

la saga familiare degli Atridi, portando a compimento la narrazione di un unico tragico

destino, quello di Oreste, figlio di Agamennone.

A prima vista potrebbe apparire quasi inverosimile che il Bardo dell’Avon ignorasse

la trilogia eschilea o, se non questa in particolare, che non conoscesse almeno una qualche

versione della vicenda di Oreste declinata in forma letteraria nel mondo classico greco

(includendo quindi nelle possibili varianti, oltre ai tre tragediografici attici, anche Pindaro e

Omero1). Tante e tali le similarità fra le due storie che il dubbio non può che insinuarsi

furtivo. Sia Oreste che Amleto sono costretti a vendicare la morte di un padre, re, ucciso a

tradimento, di ritorno dalla guerra, da un usurpatore al trono il quale si avvale, per la

preparazione e l’esecuzione del delitto, dell’ausilio della fedifraga moglie del re. Inoltre,

l’orrore del matricidio e la follia, vera o presunta, sono aspetti peculiari e idiosincratici che

caratterizzano entrambe le vicende. Ma un elemento, oltre al finale, le distanzia: il ruolo

della madre nel regicidio. Per Eschilo la colpa ricade su Clitemestra, Egisto è una figura di

secondo piano. In Shakespeare accade il contrario: Claudio ordisce il regicidio e la colpa di

1 L’Orestea di Stesicoro non può aver avuto alcun impatto su Shakespeare, essendo giunta in età moderna in forma altamente frammentaria.

1

Gertrude è solo nella sua tacita connivenza.

Molto è stato scritto sulle connessioni dell’Amleto con la tragedia antica. È

significativo che l’argomento sia stato trattato meno dagli studiosi shakespeariani che dai

filologi classici. Ponendo come dato incontrovertibile che Shakespeare non conoscesse la

tragedia greca, l’argomento non è stato trattato come forse avrebbe meritato. Al contrario, il

‘complesso di Edipo’ di Amleto è stato analizzato abbondantemente nella letteratura

scientifica moderna, con analisi ispirate sia dai testi di Freud che da quelli di Jung, in

particolare, dalla sua teoria degli archetipi.

I temi dell’assassinio regale, del destino ereditario, delle vendette intergenerazionali,

dell’incesto, dell’adulterio, dei tetri banchetti, della violazione della sacralità permeano le

storie di Esiodo, Pindaro, Omero, e dei tragediografi attici. Per di più, le radici classiche di

Amleto sembrano estendersi oltre il dramma mitico, tramite allusioni ai corrotti imperatori

romani Claudio e Nerone. Amleto ha una tale varietà di elementi e riferimenti classici che

ogni possibile fonte di questo capolavoro elisabettiano non dovrebbe essere esclusa a priori,

ma vagliata e considerata con cautela.

La trattazione più importante e dettagliata del rapporto fra Amleto e Oreste è

rappresentata dallo studio di Gilbert Murray del 1914, Hamlet and Orestes: A Study in

Traditional Types. Murray non solo ha proposto un raffronto con l’Orestea e le due Elettre,

ma ha inserito nel suo studio anche l’Andromaca, l’Ifigenia fra i Tauri e l’Oreste di

Euripide. Ebbe inoltre il merito di collegare per la prima volta lo studio della storia del mito

di Oreste con le Gesta Danorum di Saxo Grammaticus e le Ambales Saga islandesi. Fu

anche il primo a confrontare il personaggio di Ofelia con quello di Elettra, e quello di

Orazio con Pilade. «There are first the broad similarities of situation between what we may

call the original sagas on both sides; that is the general story of Orestes and Hamlet

respectively. But secondly, there is something much more remarkable; when these sagas

were worked up into tragedies, quite independently and on very different lines, by great

dramatists of Greece and England, not only do most of the old similarities remain, but a

number of new similarities are developed. That is Aeschylus, Euripides, and Shakespeare

are strikingly similar in certain points which do not occur at all in Saxo or Ambales or the

Greek epic». Murray propone l’esempio della follia del protagonista, che è molto simile in

Euripide e Shakespeare, ma del tutto diversa dalla leggenda nordica di Saxo o dalla saga

2

islandese di Ambales.

La domanda che si pone infine è se Shakespeare conoscesse o meno il greco. La

risposta che si dà è un no categorico, ma introduce la possibilità che Shakespeare fosse

potuto venire a conoscenza dei classici tramite le conversazioni con altri colleghi

drammaturghi, meglio istruiti di lui. Il problema fondamentale per lo studio comparato

della drammaturgia attica e di quella shakespeariana è da sempre stato rappresentato da una

sorta di tacito riconoscimento della scarsa cultura letteraria dell’autore elisabettiano. Per

quanto sconcertante possa apparire la raffinatezza, l’allusività, la sensibilità aristocratica e

lo stile di Shakespeare in considerazione delle sue ‘umili’ origini, ancora oggi la quasi

totalità degli studiosi non ha dubbi sulle scarse conoscenze filologiche e letterarie che

questi avesse avuto. Certo, molte sono state anche le teorie sorte circa l’attribuzione delle

opere di Shakespeare: la cosiddetta corrente degli Anti-Stratfordiani ne ha messo in dubbio

la paternità sin dal diciottesimo secolo, ipotizzando nel tempo una mole portentosa di

attribuzioni, passando da Francis Bacon a Christopher Marlowe. Ma la critica più auorevole

continua a rigettare queste ipotesi. A mio avviso, piuttosto che cercare di attribuire ad autori

differenti l’opera shakespeariana, andrebbe riconsiderata l’idea che dello Shakespeare di

Stratford si è creata nei secoli circa la sua scarsa educazione filologica e letteraria.

In questo lavoro, tenterò innanzitutto di rilevare le incongruenze che sussistono fra i

dati storici relativi all’educazione ricevuta da Shakespeare e l’opinione secondo cui le sue

competenze fossero incompatibili con una eventuale fruizione e conoscenza dei classici

greci. Nel tentativo specifico di ricercare affinità fra l’Amleto e la drammaturgia attica verrà

in seguito proposta una comparazione tematica delle vicende, sulla scorta del lavoro già

citato di Murray. In ultimo, verranno prese in considerazione e trattate separatamente delle

singole analogie fra personaggi ed episodi, con relativi riferimenti testuali. Credo infatti che

limitarsi a redigere analisi comparative senza avvalersi delle fonti primarie – sia nell’ipotesi

in cui ciò sia da ricollegare a considerazioni aprioristiche circa l’inesistenza di rapporti

diretti fra l’autore inglese e il teatro attico, sia che invece ci si accontenti di rilevare

paralleli tematici generali fra le vicende per trarre deduzioni di carattere opposto – sia

un’operazione incompleta e di per sé invalidante. Nel mio piccolo, ho cercato di evitare

questa situazione.

3

1. SHAKESPEARE:

«SMALL LATINE, LESSE GREEKE»

Da sempre, stuoli di filologi e studiosi hanno negato a Shakespeare la possibilità di aver

subìto influssi d’alcun genere dalla lettura e conoscenza dei classici greci, basando tale

asserto sulla scarsa o quasi nulla pṕ reparazione linguistica che a questi si ascriveva della

lingua greca. Com’è noto, tale giudizio è legato a filo doppio con la testimonianza del

drammaturgo suo contemporaneo, Ben Jonson, il quale, nel ricordo che ne delineò nel

poema presente nella prefazione al Primo Folio delle opere complete di Shakespeare del

1623, To the memory of my beloved, the Author, Mr. William Shakespeare, and what he hath

left us, ne rammenta lo «small Latine and lesse Greeke». Trattandosi di un elogio funebre, è

verosimile che Jonson intendesse allora esaltarne la genialità, piuttosto che proporre un

giudizio critico sulle competenze linguistiche del collega. A Shakespeare riconosceva infatti

l’enorme merito di essere riuscito a raggiungere livelli di espressione lirica d’incomparabile

bellezza, pur non avendo alle spalle una formazione scolastica d’élite, ma avendo

frequentato una semplice Grammar School inglese di epoca elisabettiana2.

Questo capitolo cercherà dunque di fornire delle indicazioni relative all’educazione

ricevuta da Shakespeare nella Grammar School di Stratford, per poi utilizzarle come

strumento interpretativo della famosa frase di Jonson. In ultimo verranno indicati alcuni

passi dell’opera di Shakespeare che vengono generalmente addotti a prova della familiarità

che questi aveva con la lingua greca.

1. 1 Elizabethan English Grammar School

Se si pensasse alle Grammar Schools come a delle odierne scuole elementari e medie, si

rischierebbe di fare un torto enorme alle prime. Nella mastodontica opera in due volumi

William Shakspere’s Small Latine & Lesse Greeke (1944) lo studioso Thomas Whitfield

Baldwin, dopo aver descritto in dettaglio il funzionamento delle Grammar Schools inglesi

di XVI secolo, prestando massima attenzione al trattamento dello studio del latino che in

2 Per quanto riguarda la formazione scolastica di Shakespeare cf. Schoenbaum 1987, pp. 62–63; Ackroyd 2006, p. 53; Wells et al. 2005, pp. xv–xvi.

4

esse avveniva, e portando ad oggetto di indagine la stessa King’s Free Grammar School di

Stratford che, ipoteticamente, Shakespeare avrebbe frequentato da ragazzo, mostra come

tali istituti fornissero all’epoca la miglior preparazione che si potesse ottenere in ambito

umanistico e letterario. Gli studi universitari erano infatti di tipo quasi esclusivamente

‘tecnico’ e ‘professionale’, poco o nulla aggiungevano alle competenze di carattere

‘speculativo’. Queste ultime, acquisite nelle Grammar Schools, erano di gran lunga

superiori a quelle a cui siamo abituati oggi. Il latino, in particolare, aveva un ruolo chiave

nella formazione letteraria degli allievi: oltre allo studio delle opere dei maggiori autori

classici quali Ovidio, Virgilio, Orazio, Seneca e Cicerone, solo per citarne alcuni, si era

anche tenuti a redigere vere e proprie composizioni in lingua. Non bisogna dimenticare che

il latino rappresentava in quel momento la grande lingua colta, non solo tecnica (John

Owen, ad esempio, scrisse i suoi epigrammi in latino), e che tale rimarrà fino alla fine del

Settecento. Nelle scuole inglesi, addirittura in pieno XIX secolo, si sosteneva che la lingua

inglese non fosse adatta ai commenti dei testi classici, i quali dovevano continuare ad essere

redatti in latino.

Nel capitolo finale dell’opera, a conclusione del suo immenso lavoro, Baldwin

scrive (II, pp. 662-663) che Shakespeare «had such knowledge and techniques as grammar

school was calculated to give. We have no direct evidence that he ever attended grammar

school a single day. […] But the inference is an inevitable one, amounting almost to

certainty. […] The internal evidence and such external evidence as survives conspire

together to indicate that Shakespeare pretty certaintly had at Stratford the benefits of the

complete grammar school curriculum». Tale preparazione influenzò inoltre Shakespeare

nell’adozione di un principio basilare per la futura crescita da drammaturgo: il costante

impiego dell’imitatio e dell’aemulatio.

Bisogna dunque ammettere una conoscenza approfondita della lingua latina (a

discapito dello «small latine»). Per quanto riguarda la lingua greca la questione è diversa. A

quei tempi, nelle Grammar Schools, il greco non veniva propriamente insegnato, se non

nelle sue linee essenziali come propedeutiche allo studio del latino, e piuttosto che lo studio

dei ‘classici’, agli studenti veniva sottoposta la lettura del Nuovo Testamento in greco.

Partendo da questo genere di considerazioni non è difficile comprendere per quale

motivo si continui a rigettare l’ipotesi secondo cui Shakespeare conoscesse la letteratura

5

greca. La formazione scolastica del tragediografo inglese gli precludeva probabilmente

l’accesso ai testi in lingua originale e, a meno che non si desideri prestar fede alle ipotesi

Anti-Stratfordiane, secondo cui dietro al piccolo drammaturgo si sarebbe celato un qualche

personaggio di spicco3, fosse un nobile, un altro drammaturgo (Christopher Marlowe in

primis) o, addirittura, un complesso di altri drammaturghi, si è indotti ad avallare tale

opinione. Il testo di James A. K. Thomson, Shakespeare and the Classics (1966), scritto in

un periodo in cui venivano diffusamente messi in luce i riferimenti eruditi presenti nei

drammi di Shakespeare, era inteso proprio a screditare questo genere di ipotesi. Si parlava

allora di ‘disintegrators’, secondo i quali non sarebbe stato possibile assegnare ad un’unica

persona dell’educazione di Shakespeare, un canone talmente pregno di passaggi eruditi4.

1. 2 Traduzioni, letture e reimpiego dei classici

È chiaro che la questione avrebbe assunto toni differenti se fossero esistite traduzioni

inglesi delle opere dei grandi autori classici greci. Ma in epoca elisabettiana,

sfortunatamente, ne esistevano pochissime. Restringendo il campo di interesse al solo

dramma attico, non ne esisteva alcuna, ad eccezione di una Jocasta di George Gascoigne e

Francis Kinwelmersh, edita nel 1566. Era questa a sua volta basata sulla traduzione italiana

di Lodovico Dolce delle Fenicie euripidee. Risulta dunque evidente che, in assenza di testi

in traduzione e di competenze linguistiche specifiche, la conoscenza del dramma attico era

preclusa ai più, ivi incluso Shakespeare. Scrisse a tale riguardo George K. Hunter (1978, p.

3 Il film ‘Anonymous’ di Roland Emmerich, del 2011, è solo l’espressione più ‘popolare’ di questo generedi mistificazioni storiche. Il problema, a mio avviso, non sarebbe sorto se non si fosse preteso, sindall’inizio, di sminuire le competenze linguistiche, letterarie, filologiche, storiche di Shakespeare, conl’intento di magnificarne la naturale genialità. Per uno sguardo generale sulla ‘questione shakespeariana’cf. Shapiro 2010 e Gibson 2005.

4 Circa la questione della paternità delle opere di Shakespeare e l’attuale temperie critica cf. Kathman 2003,p. 621: «antiStratfordism has remained a fringe belief system»; Schoenbaum 1991, p. 450; Paster 1999, p.38: «To ask me about the authorship question [...] is like asking a palaeontologist to debate a creationist’saccount of the fossil record.»; Nelson 2004, pp. 149–51: "I do not know of a single professor of the1,300-member Shakespeare Association of America who questions the identity of Shakespeare [...]antagonism to the authorship debate from within the profession is so great that it would be as difficult fora professed Oxfordian to be hired in the first place, much less gain tenure […]»; Carroll 2004, pp. 278–9:«I have never met anyone in an academic position like mine, in the Establishment, who entertained theslightest doubt as to Shakespeare’s authorship of the general body of plays attributed to him.»; Pendleton1994, p. 21: «Shakespeareans sometimes take the position that to even engage the Oxfordian hypothesis isto give it a countenance it does not warrant.»; Sutherland & Watts 2000, p. 7: «There is, it should benoted, no academic Shakespearian of any standing who goes along with the Oxfordian theory.»; Gibson2005, p. 30: «[...] most of the great Shakespearean scholars are to be found in the Stratfordian camp.»

6

179) che «the Greek drama (except for Euripides in some of his aspects) was necessarily

inaccessible to the Elizabethans». D’altronde, erano marginali anche eventuali mediazioni

derivanti da fonti secondarie quali potevano essere gli autori latini. Fra questi, Seneca per la

tragedia era il medium più importante, avendo rappresentato per tutto il Rinascimento «the

most available and prestigious ancient tragedian5». Polonio, nell’Amleto stesso, indica

Seneca e Plauto quali primi modelli rispettivamente per la tragedia e la commedia6.

La fase iniziale del teatro elisabettiano tradisce segni inequivocabili della presenza

senecana. La prova esterna è fornita dal famoso attacco di Thomas Nashe del 1589 ad un

drammaturgo popolare di cui denigra i metodi come caratteristici di coloro che

busy themselves with the endeavours of art, that could scarcely Latinize their neck-verse if

they should have need; yet English Seneca read by candle-light yields many good

sentences, as “Blood is a beggar” and so forth; and if you entreat him fair in a frosty

morning he will afford you whole Hamlets, I should say handfuls, of tragical speeches. But

O grief! Tempus edax rerum. What’s that will last always? The sea exhaled by drops will in

continuance be dry, and Seneca, let blood line by line and page by page, at length must

needs die to our stage; which makes his famished followers [...] to intermeddle with Italian

translations. Wherein how poorly they have plodded [...] let all indifferent gentlemen that

have travelled in that tongue discern by their twopenny pamphlets.

Thomas Nashe, 15897

Scritte all’ombra del principato neroniano, le tragedie di Seneca sono caratterizzate da una

continua preoccupazione per il verificarsi di crimini orribili e abusi tirannici del potere. I

suoi protagonisti sono spinti a uccidere da passioni dissennate come la rabbia, la lussuria, la

gelosia, la brama di vendetta; la maggior parte di loro, a differenza della maggior parte

degli eroi di Shakespeare, sono consapevolmente ingiusti, ma guidati da istinti che

sembrano umanamente incontrollabili (fantasmi, Furie e divinità) e sono spesso maledetti

dalle conseguenze di mali radicati nel loro passato; così, nonostante gli sforzi e la loro

5 Martindale 1990, p. 30. 6 Amleto, 2.2.366: «Seneca cannot be too heavy, nor Plautus too light.»7 Nashe 1958, pp. 311-315. La famosa battuta di Nashe viene interpretata come indicazione del fatto che i

drammaturghi elisabettiani avevano familiarità con le traduzioni contemporanee delle opere (Brower1971, p. 148). Ma esistono anche interpretazioni alternative. Si veda, ad esempio, Hunter 1978, pp.193-194.

7

caparbietà, sembrano più le vittime che gli agenti responsabili del proprio destino. Un’altra

caratteristica tipica è il loro irresistibile spirito di affermazione del sé; possono

esemplificare la nozione stoica di un’identità personale indistruttibile (come l’Ercole sul

monte Eta), ma più spesso si tratta di una distorsione perversa di questo ideale (come nel

Tieste e nella Medea). Gli eroi e le eroine tragiche di Seneca vedono i loro crimini come

possibilità di espressione e imposizione del sé e svolgono questa individualità appassionata

tramite monologhi e soliloqui lunghi e retoricamente molto elaborati.

George Steiner (1961, pp. 20-21) scrive che i drammaturghi elisabettiani –

infrangendo le unità aristoteliche di tempo e spazio, fecendo a meno dei Cori e combinando

intrecci tragici a intrecci comici senza discriminazione8 – si liberarono da ogni precetto

redazionale di ascendenza neoclassica. Per fare ciò, si avvalsero di ogni strumento utile,

senza rifiutare alcun elemento tratto dalla pratica e dall’esperienza: «saccheggiarono

Seneca» e da lui presero la retorica, i fantasmi, gli aforismi morali, e il gusto dell’orrido e

della vendetta sanguinosa; ma non le convenzioni austere e artificiose del teatro

neoclassico. Shakespeare, secondo Steiner, oppose cioè allo spirito della tragedia greca una

diversa concezione della forma tragica e una diversa tipologia di esecuzione, più consona ai

tempi.

A mio avviso però, la tragedia shakespeariana è molto più simile a quella greca che

a quella latina9. Per quanto numerosi possano essere i ‘furti’ a Seneca, la somiglianza con la

tragedia attica è ben superiore, perché concettuale. Simon Goldhill (1986), guardando alle

tragedie greche non come ad opere isolate, a testi autonomi, ma come a parti di un discorso

sociale più ampio che comprende la ritualità, la politica, la definizione dei ruoli sociali e

civili (cittadino, marito, moglie, figlia, ecc.), sostiene che il teatro ha un posto centrale nella

concettualizzazione ed enunciazione dell’ideologia civica di Atene. La tragedia non si

8 Su quest’ultimo punto è utile, a mio avviso, fare una precisazione. Benché molti studiosi, nell’intento dievidenziare le differenze fra il teatro greco classico e quello elisabettiano, facciano sovente richiamo allamancanza di elementi propriamente ‘comici’ nel primo a differenza del secondo, io non credo che ciò siadel tutto vero. Nella tragedia attica vi sono numerosi episodi a carattere umoristico, utilizzati con intentiassolutamente seri. Solo per citare un caso, nel Filottete di Sofocle, l’improvvisa riapparizione di Ulisse(v. 974) è un chiaro esempio di umorismo in scena. La vera differenza non risiede nell’assenza o nellapresenza di elementi comici all’interno dei drammi – d’altra parte, non è pur vero che le tetralogie atticheterminavano con un dramma satiresco? -, ma nello spazio, motivato dai diversi periodi storici, dedicato adalcuni determinati aspetti. Kitto (1956, p. 225) scrive: «The essential difference between the Greek andthe Elizabethan drama may be expressed in the formula Concentration, not Extension».

9 Sul legame fra la drammaturgia shakespeariana e quella greca, cf. Barkan in De Grazia – Wells 2001, pp.31-47; Martindale 1990, pp. 29-44.

8

limita a convalidare le norme della comunità, non è un monito moralistico contro le

trasgressione; la tragedia è di per sé un discorso trasgressivo che chiama deliberatamente in

causa tutte le istituzioni sociali, ivi inclusa quella della tragedia. Da qui il crescente

interesse nei drammi di V secolo riguardo alle convenzioni teatrali: l’esame critico è

inerente alla forma stessa della tragedia, e non nasce, come a volte si pretende di dire, con

Euripide. Nell’epoca dell’ἐκκλησία democratica e della ῥητορική sofistica, la ‘teoria del

linguaggio’ rappresenta un problema politico e ideologico; e una preoccupazione ricorrente

della tragedia è quello di dimostrare il potere, l’ambiguità, l’artificiosità o la

convenzionalità del linguaggio come sistema di segni. Tutto questo si ritrova in maniera

quasi identica nel teatro di Shakespeare, non solo nei drammi storici (in cui questi elementi

sono talmente evidenti che parlarne risulta scontato), ma anche nelle tragedie e nelle

commedie. Nell’Amleto in particolare, l’ambiguità del linguaggio diventa strumento

drammaturgico di estrema rilevanza.

I drammaturghi attici hanno sondato, con le loro opere, il valore di verità di un

mezzo caratterizzato da possibilità di manipolazione, capacità d’inganno e tavolta,

inadeguatezza rispetto all’ampia gamma di significati: quasi nessuna frase in una tragedia

può essere presa unicamente nel suo primo e più superficiale significato. Ogni parola pare

circondata da tensioni e ambiguità e deve essere interpretata senza pregiudizi ideologici e

personali basati su chi la propone e dai valori che questi incarna. Il dominio della tragedia è

in ciò che si colloca oltre il controllo o, al più, che ne è ancora fuori: da qui l’esplorazione

della violenza della sessualità, della follia, dell’illusione e dell’irrazionale, il lato oscuro

dell’intelletto – magia, maledizioni, passioni – e il linguaggio dell’ambiguità, delle

contraddizioni, e dell’incontro degli opposti. Ma anche questo è Shakespeare e, nella

fattispecie, Amleto.

Riporto dunque una lunga citazione di Nemi D’Agostino (1994, pp. 34-5), che

descrive bene il senso di quanto ho cercato fin qui di esporre. «Ho avuto per le mani una

ristampa diplomatica, in un carattere goticheggiante difficilissimo a decifrarsi, delle

cosidette tragedie di Seneca, stampata a Londra nel 1581. Era così famosa nell’ambiente dei

teatri, che il maligno Thomas Nashe insinuava che i suoi colleghi, compulsandola a lume di

candela, ne ricavavano “molti Amleti”. È un’opera nota agli anglisti. Una vernice di

stoicismo è spalmata su degli “oratori” che sembrano ispirati all’orrore che sarà stata la vita

9

a Roma sotto Nerone. T.S. Eliot li definì dei “freaks”, degli esempi bizzarri di dramma non

teatrale. Nell’ulteriore adattamento dei traduttori elisabettiani, il pesante latino di Seneca

diventa un curioso linguaggio tra medievale e manieristico. Ma più perdevo gli occhi su

quella mostruosità epocale, più mi rendevo conto che quel libro somigliava al Socrate

descritto dal suo innamorato Alcibiade nel Simposio: un goffo Sileno di legno, che si apre e

rivela dentro di sé le immagini degli dei. Difatti, si tratta di una vera scelta, doppiamente

adattata, della grande tragedia greca. Eschilo è riscritto nell’Agamennone, Sofocle

rappresentato dall’Edipo, dall’Ercole Eteo (dalle stupende Trachinie) e dal Tieste; il resto,

tranne l’Ottavia (che avrà pure insegnato qualcosa a chi cominciava a scrivere drammi

storici) è calcato su Euripide: Ercole furente, Medea, Fedra, Fenicie e Troiane. Una

crestomazia che ben riflette la diversa fortuna di quegli antichi nelle epoche di mezzo:

parecchio Euripide, poco Sofocle e quasi niente Eschilo. Come fanno anche le traduzioni

più brutte e ritoccate, quei rifacimenti elisabettiani riuscivano a dare una qualche lontana

idea degli originali. La tragedia greca era lì, agonizzante con solo qualche segno di vita, ma

abbastanza per dare a un genio l’idea del suo antico splendore. Shakespeare compulsò

certamente a lume di candela, difatti toni e modi dell’Agamennone si ritrovano nel

Macbeth, una delle più «greche» e originali delle sue tragedie. Shakespeare aveva

pochissimo greco, ma quel romano di Cordoba, pessimo scrittore di allucinanti e allucinate

tragedie, ebbe il grande merito di accostare Shakespeare ai Greci».

Prescindendo da analogie concettuali, si continua a ritenere pressocché impossibile che

Shakespeare avesse letto i testi dei classici greci in lingua originale e che di conseguenza

non avesse con questi alcuna confidenza – Thomson (1966, p. 238.) icasticamente scrive

«Greek is out of the question». Diversamente, come già detto, non si nega a quella latina

(Ovidio, oltre che Seneca, in particolar modo10) un importante ruolo per la genesi dei testi

shakespeariani. L’importanza che hanno rivestito le letture nella produzione del

drammaturgo inglese non è più da tempo oggetto di dibattito. Con il termine ‘lettura’,

naturalmente, non si fa riferimento ad una generica e superficiale consultazione, ma ad una

ben più ampia varietà di interazioni11. Ad eccezione di qualche strenuo ‘negazionista’, la

maggior parte degli studiosi concorda oggi nel ritenere Shakespeare un avido lettore, che

10 Cf. Miola 1992.11 Cf. Miola 2000, p. 168: «The term ‘reading,’ of course, covers a wide variety of interactions».

10

attingeva manibus plenis ai testi altrui per la creazione e redazione delle proprie opere.

Scrive Robert Miola (2000, p. 2.): «Shakespeare created much of his art from his reading»,

dove con ‘reading’ si intendono sia i testi dei suoi contemporanei che quelli di scrittori più

antichi. Per quanto riguarda la letteratura greca ci si limita sostanzialmente ad evidenziare

coincidenze e parallelismi tipologici, negando un vero e proprio influsso derivante dalla

lettura attiva dei testi. Su queste basi teoriche sono da leggere anche i lavori di Adrian Poole

(1987)12, Humphrey D. F. Kitto (1956) e Gilbert Murray (1914), che hanno cercato di

evidenziare tendenze simili fra la drammaturgia greca e quella shakespeariana senza

presupporne rapporti diretti.

Una visione differente mostrano in proposito Louise Schleiner (1990) ed Emris

Jones (1997). Entrambi notano che all’epoca erano disponibili svariate traduzioni e

commentari in latino di alcuni drammi attici. L’edizione Basel del 1555 di Eschilo riportava

la traduzione in latino di Jean de Saint-Ravy (Sanravius) di Montpellier che, per quanto

inaccurata, era ampiamente diffusa nel sedicesimo secolo. Ancora più diffuse erano poi le

traduzioni in latino di Euripide. Nel 1567, a Ginevra, venne perfino pubblicata un’antologia

di traduzioni di opere scelte dei tre tragediografi attici, redatte da filologi di notevole

spessore quali Erasmo, Buchanan e Camerarius il Vecchio. L’edizione era a cura di Henri

Estienne, e l’opera si intitolava Tragoediae selectae Aeschyli, Sophoclis, Euripidis. Cum

duplici interpretatione Latina, una ad verbum, altera carmine. Del 1527 era invece la prima

traduzione in latino di Alessandro Pazzi de’ Medici dell’Elettra di Sofocle a cui fece

seguito nel 1556 quella di Coriolano Martirano. Tali traduzioni, secondo gli studiosi sopra

citati, sarebbero state delle fonti a cui Shakespeare avrebbe potuto attingere senza

problematiche relative ad eventuali carenze linguistiche. Secondo la Schleiner, Shakespeare

sarebbe stato agevolato nel reperimento di tali testi dalla collaborazione, nel biennio

1598-99, con Ben Jonson che fu, assieme a lui, drammaturgo per quell’anno nella

compagnia dei ‘Chamberlain’s Men’. Jonson infatti possedeva una biblioteca personale

estremamente ben fornita13 e benché i dati relativi ad essa siano oggi solo parziali, essendo i

cataloghi andati in gran parte distrutti a causa di un incendio nel 1623, si hanno ancora delle

12 Adrian Poole evidenzia il vasto range di ruoli e significati che può assumere la tragedia in tempi e luoghidifferenti, e offre una interpretazione della tragedia greca attraverso un parallelo con quellashakespeariana. «Greek and Shakespearean tragedy [. . .] affirms with savage jubilation that man’s state isdiverse, fluid, and unfounded» (p. 2). Poole propone quindi una lettura del Re Lear in parallelo all’Edipoa Colono e alle Baccanti, di Amleto in parallelo all’Edipo re e del Macbeth in parallelo all’Orestea.

13 Evans 1987.

11

attestazioni che rivelano quali fossero alcuni dei testi in suo possesso. Fra questi, appaiono

menzionati un’antologia bilingue greco-latino del 1614 – pubblicata dall’editore Pierre de

la Roviere e che conteneva una serie di opere fra cui dei drammi di Euripide e la versione di

Saint-Ravy dell’Orestea – un’edizione del 1581 delle tragedie di Euripide in latino, e

almeno quattro opere solo in greco, fra cui uno Scholia in septem Euripidis Tragoedias

(Venezia, 1534). Queste ultime attesterebbero la capacità da parte di Jonson di consultare i

testi direttamente in lingua originale. Seppure non si è in grado di determinare quali

specifiche opere in latino possedesse Jonson all’epoca dei ‘Chamberlain’s Men’, è tuttavia

plausibile che non ne fosse del tutto sprovvisto e che, ad esempio, potesse avere la

traduzione del Sanravius dell’Orestea. Poiché il prestito di libri fra drammaturghi e studiosi

era abitudine ampiamente praticata al tempo, Shakespeare avrebbe potuto avvalersene

durante l’anno di collaborazione con Jonson che risulta di pochissimo anteriore, se non

addirittura contemporanea, alla stesura dell’Amleto.

In merito a quest’ultimo, Louise Schleiner continua suggerendo che Shakespeare

avesse potuto assistere nel 1599 alla rappresentazione di due drammi dell’‘Admiral

Company’, intitolati Agamemnon ed Orestes’ Furies (o Orestes Furious)14, non pervenuti

fino ai giorni nostri, di Thomas Dekker e Henry Chettle, e che ne avesse tratto ispirazione

per la produzione del suo Amleto, notando le affinità fra la storia di Oreste e la leggenda del

principe danese. I titoli delle opere dell’‘Admiral’ ricalcano la divisione in due parti

dell’Orestea del Sanravius e, plausibilmente, ne indicano la ripresa della trama. Thomas

Dekker d’altra parte, vantando la sua conoscenza del greco, ridicolizzava e biasimava i suoi

contemporanei che si limitavano a leggere i testi greci in traduzione:

O you booksellers (that are factors to the liberal sciences) over whose stalls this drones do

daily fly humming, let Homer, Hesiod, Euripides and some other mad-Greeks with a band of

the Latins lie like musket shot in their way when these Goths and Getes set upon you in

your paper fortifications. It is the only cannon upon whose mouth they dare not venture;

none but the English will take their parts.

Thomas Dekker, 160315

14 I drammi risultano in un elenco nel diario dell’impresario teatrale inglese Philip Henslowe.15 Dekker 1968, pp. 29-30.

12

Scrive in conclusione la Schleiner che «[...] it is quite plausible that Shakespeare saw the

1599 Agamemnon and Orestes’ Furies, in all probability a redaction of the two-play

Oresteia current among readers of Latin; he might even have become interested enough to

look through scenes or passages of the Choephori (which was complete in the Latin text of

the supposed Agememnon) and of Euripides’s Orestes. While writing Hamlet, he would

have wanted to learn how other authors besides Caxton had told of Orestes: he must have

recalled Caxton’s intermingling of the Pyrrhus and Orestes father-revenge stories, important

to Hamlet in the Pyrrhus material of the First Player scene, and perhaps Caxton’s statement

that writers left different versions of these events16».

1. 3 Il greco in Shakespeare

Nel già citato lavoro di Thomson (1966), con riferimento a due episodi del Tito Andronico

(1.1.135-39; 1.1.384-87), l’autore dichiara un’origine non autentica dell’opera, poiché

entrambi i passi in questione rivelerebbero la conoscenza, da parte dell’autore, sia

dell’Ecuba euripidea che dell’Aiace sofocleo. Le Metamorfosi di Ovidio infatti non

giustificherebbero il riferimento nel Tito alla tenda di Polimestore in cui avvenne

l’accecamento di lui da parte della regina troiana (dato presente, invece, nella tragedia di

Euripide, ai vv. 57-58), né il trattamento di Ulisse «as a chivalrous foe17». Diversamente,

Charles e Michelle Martindale (1990), accennano alla prima questione come ad uno

«slender peg» (p. 44), un esile appiglio. Thomson cita anche altri passi di altre opere per

suggerire la lettura in greco di Luciano e Omero.

Degno di nota è il dibattito circa l’autenticità dei sonetti 153 e 154. I due trattano lo stesso

argomento: Cupido si addormenta nei pressi di un laghetto e viene scoperto da un gruppo di

vergini devote alla casta Diana che gli rubano il brando di fuoco che provoca amore,

andandolo a raffreddare in uno stagno vicino.

16 Schleiner 1990, pp. 44-45. L’opera di Caxton a cui si fa riferimento è la traduzione quattrocentesca delromanzo cavalleresco francese di Raoul Lefevre, Recuyell of the Historyes of Troye, o Troy book, chesarebbe stata la fonte per la composizione del resoconto della morte di Priamo per mano di Pirro descrittanell’Amleto.

17 Thomson 1966, pp. 57-58.

13

The little love-god lying once asleep,

Laid by his side his heart-inflaming brand,

Whilst many nymphs, that vowed chaste life to keep,

Came tripping by; but in her maiden hand

The fairest votary took up that fire

Which many legions of true hearts had warmed;

And so the general of hot desire

Was, sleeping, by a virgin hand disarmed.

This brand she quenched in a cool well by,

Which from Love’s fire took heat perpetual,

Growing a bath and healthful remedy,

For men diseased; but I, my mistress’ thrall,

Came there for cure, and this by that I prove:

Love’s fire heats water, water cools not love.

Son. 15418

Quasi all’unanimità i filologi ammettono per questi come fonte originaria un epigramma

greco di Mariano, autore dei V-VI secolo d.C, presente nell’Antologia Palatina. Un rapido

confronto del sonetto 154 con l’epigramma in questione, non può che rivelare le evidenti

affinità:

τᾷδ᾽ ὑπὸ τὰς πλατάνους ἁπαλῷ τετρυμένος ὕπνῳ

εὗδεν Ἔρως, Νύμφαις λαμπάδα παρθέμενος.

νύμφαι δ᾽ ἀλλήλῃσι,

τί μέλλομεν; αἴθε δὲ τούτῳ

σβέσσαμεν,

εἶπον, ‘ ὁμοῦ πῦρ κραδίης μερόπων.’

λαμπὰς δ᾽ ὡς ἔφλεξε καὶ ὕδατα, θερμὸν ἐκεῖθεν

νύμφαι Ἐρωτιάδες λουτροχοεῦσιν ὕδωρ.

AP IX, 627

Le analogie sono così lampanti che, se si ammette l’autenticità dei due sonetti, bisogna di

conseguenza ammetterne la discendenza diretta dal greco o, come propone Hutton (1914),

18 L’edizione usata è quella a cura di Katherine Duncan-Jones, del 1997, per la «Arden Shakespeare».

14

l’esistenza di una qualche fonte a noi ancora ignota. Nel primo caso però vi è il problema

dell’assenza di traduzioni: le uniche disponibili in latino erano del 1556 e del 1603, ma la

prima non può essere stata usata per incongruenze testuali mentre la seconda presenta

inconciliabilità di carattere cronologico19. L’autore dunque avrebbe dovuto leggere i testi

necessariamente in lingua greca.

Un altro aspetto della questione è costituito dai neologismi ellenizzanti presenti nelle opere

shakespeariane e dall’uso di nomi greci per i personaggi dei drammi. Il caso più noto, per

quanto riguarda il lessico, è quello del termine academe, che appare per la prima volta nella

letteratura inglese in Pene d’Amor Perdute (1.1.12-14):

Our court shall be a little academe,

Still and contemplative in living art

Per quanto riguarda i nomi grecizzanti invece, si fa spesso riferimento a quelli di Laerte ed

Ofelia, personaggi dell’Amleto. William Jones (1960, pp. 9-10.) scrive che l’adozione del

nome Laerte segnala il tema centrale della vicenda dell’Amleto, ovvero il rapporto

padre-figlio: «careful check of Hamlet and the Odyssey reveals even more valid reasons for

the use of the name Laertes. At the beginning of Hamlet, the prince sits brooding over the

wedding feast. At the beginning of the Odyssey, Telemachus sits brooding among the

wooers to his mother. To both sons comes news of a supernatural visitation: Hamlet hears

of the Ghost, Telemachus hears from Athena cum Mentor. Both supernatural agents demand

that the sons take action to restore their fathers to their rightful positions, one to the crown

of Ithaca, the other to eternal rest. And in both Hamlet and the Odyssey it is the sons’

responses to these supernatural demands that bring about the remaining action». Così,

anche il nome di Ofelia, dal greco ὀφείλω, non sarebbe una scelta casuale.

Volendo trarre delle conslusioni da quanto qui velocemente passato in rassegna, mancano

forse delle prove sufficienti a dimostrare che Shakespeare conoscesse talmente bene il

greco da poter approcciare i drammi attici direttamente in lingua originale ma, d’altro

canto, neppure ve ne sono a sostegno del contrario. La letteratura latina rappresentava la

19 La datazione dei sonetto si aggira tra gli anni 1592-1598.

15

principale fonte d’ispirazione per gli scrittori del Rinascimento, ma circolavano numerose

traduzioni latine dei classici greci: l’ipotesi secondo cui si potesse usufruire di quelle, in

mancanza di competenze linguistiche appropriate in greco, non è da rigettare a priori.

Pare tuttavia evidente l’impossibilità di valutare a quali livelli fosse il «lesse

Greeke» di cui scrive Jonson. Tale argomento risulta ancor più vero se si considera che

neppure per il «Latine» sembrerebbe possibile accogliere passivamente la determinazione

di «small» che ne viene data. Certo è che Shakespeare non sarebbe stato il primo a veder

sminuite le proprie conoscenze a seguito della circolazione di uno stringato e ambiguo

aforisma decontestualizzato e poi passato a sintetizzarne il ‘sapere’: il caso di Petrarca,

«sine litteris virum bonum», come lo definirono i veneziani Leonardo Dandolo, Tommaso

Talenti, Zaccaria Contarini e il reggiano Guido di Bagnolo, potrebbe a tal proposito far

riflettere. Piuttosto dunque che ricercare affinità di carattere meramente linguistico fra

drammaturgia shakespeariana e letteratura greca, allo stato dell’arte, credo sia più

opportuno ricercare, almeno in prima istanza, affinità tipologiche, tematiche e concettuali.

D’altronde, le fonti generalmente accettate per l’Amleto giustificano, se non completamente

almeno in larga misura, le convergenze con i drammi attici, essendone esse stesse portatrici,

senza implicare la necessità d’interazioni dirette fra Shakespeare e i Greci.

In ultimo, credo che sapere se Shakespeare avesse letto o meno i suoi autori latini

preferiti in originale o in traduzione e domandarsi se e quanto conoscesse il greco conti

molto meno rispetto al capire cosa abbia effettivamente incontrato nelle sue letture e di

come poi ne abbia fatto uso. In aggiunta a una buona selezione di traduzioni, non bisogna

dimenticare che Shakespeare ebbe accesso al mondo antico anche attraverso compendi,

raccolte, antologie, dizionari, enciclopedie e manuali che organizzavano quello che ogni

persona colta dell’epoca avrebbe dovuto conoscere dei Greci e dei Romani: «the classical

presence was ubiquitous20». E altrettanto importante, come quello che Shakespeare lesse sul

mondo antico, fu quello che vide e sentì su di esso nella città in cui visse e lavorò come

drammaturgo, Londra.

Nel capitolo seguente passerò in rassegna le tragedie attiche relative al mito degli Atridi e la

tragedia di Amleto, segnando per entrambi i relativi antecedenti storici. L’analisi delle

similarità fra le vicende assumerà carattere principalmente ‘ontologico’, in modo tale da

20 Miola 1983, p. 9.

16

evidenziare caratteristiche simili a livello di plot.

17

2. ORESTE E AMLETO

FRA MITO, TRAGEDIA E LEGGENDA

Prima di entrare nello specifico tramite una comparazione testuale delle opere, propongo

uno sguardo d’insieme alle variazioni narrative a cui sono state sottposte le vicende di

Oreste e Amleto nel tempo, in modo tale da rilevare quali fossero le similarità sussistenti fra

le storie dei due personaggi, prima che Shakespeare ponesse mano alla composizione del

suo dramma.

2. 1 Oreste nella letteratura greca

La figura di Oreste riveste un ruolo paradigmatico nella drammaturgia attica di V secolo.

Appare per la prima volta nella letteratura all’interno dell’Iliade (IX, 142), ma è

nell’Odissea che iniziano a esserne meglio delineati i tratti: Oreste diviene una figura

‘esemplare’. Nestore lo indica a Telemaco come esempio di comportamento da seguire in

qualità di giovane figlio di re, ingiustamente spodestato:

αὐτὰρ ἐπὴν δὴ ταῦτα τελευτήσῃς τε καὶ ἕρξῃς,

φράζεσθαι δὴ ἔπειτα κατὰ φρένα καὶ κατὰ θυμόν,

ὅππως κε μνηστῆρας ἐνὶ μεγάροισι τεοῖσι

κτείνῃς ἠὲ δόλῳ ἢ ἀμφαδόν· οὐδέ τί σε χρὴ

νηπιάας ὀχέειν, ἐπεὶ οὐκέτι τηλίκος ἐσσί.

ἦ οὐκ ἀΐεις οἷον κλέος ἔλλαβε δῖος Ὀρέστης

πάντας ἐπ’ ἀνθρώπους, ἐπεὶ ἔκτανε πατροφονῆα,

Αἴγισθον δολόμητιν, ὅ οἱ πατέρα κλυτὸν ἔκτα;

καὶ σύ, φίλος, μάλα γάρ σ’ ὁρόω καλόν τε μέγαν τε,

ἄλκιμος ἔσσ’, ἵνα τίς σε καὶ ὀψιγόνων ἐῢ εἴπῃ.

(Od. I, 293-302)

Questo non è l’unico riferimento, le menzioni sono numerose21. D’altra parte le analogie fra

21 In totale sono cinque le attestazioni di Oreste all’interno dell’Odissea (I, 30, 40, 298; III, 306; IV, 546; XI,

18

la casa degli Atridi e quella di Ulisse sono di per loro molteplici22: sia Egisto che i Proci

tentano d’impossessarsi della casa del re insidiando la donna di lui, mentre questi è via per

la guerra; il re, di rientro in patria, è costretto a fronteggiare degli usurpatori violenti; infine,

entrambi, Telemaco e Oreste, vengono ingiustamenti privati del loro legittimo diritto di

successione al trono. Quello che qui può interessare maggiormente è il fatto che,

nell’Odissea, venga fatta menzione dell’uccisione di Egisto, ma che non si parli della morte

di Clitemestra per mano del figlio. Di questo episodio si trova per la prima volta

indicazione in Esiodo23, per poi passare a Stesicoro, e, da questi, plausibilmente, a Pindaro e

a Eschilo. Non è chiaro se la Pitica XI sia anteriore o successiva alla trilogia eschilea; con

molta probabilità le opere hanno una datazione assai vicina.

Eschilo presentò la sua trilogia alle Grandi Dionisie del 458. Essa era composta

dalle tre tragedie Agamennone, Coefore ed Eumenidi e dal dramma satiresco Proteo, andato

perduto. La storia si dipana, tramite la convenzionale scansione tripartita, lungo un periodo

non inferiore ai dieci anni, narrando le vicende cardine della casa degli Atridi dal ritorno in

patria di Agamennone, dopo dieci anni d’assedio alla rocca di Troia, fino alla definitiva

assoluzione di Oreste dalla colpa di matricidio. L’argomento cardine diviene, come spesso

accade in Eschilo, il conflitto fra volontà e destino, libero arbitrio e divinità, e il motore

della vicenda è rappresentato dal tema della vendetta e della colpa ereditaria. Più che mera

narrazione di eventi, il mito in scena è mezzo di sublimazione del reale, strumento

educativo (nell’accezione etimologica del termine) e di conseguenza catartico. La

complessità della trilogia non è da rintracciare nell’evolversi della trama e neppure nella

rappresentazione psicologica dei personaggi. La forza del dramma eschileo risiede nella

trama intricata di cause ed effetti, commenti e giudizi, spiegazioni e rimandi che permeano

la scena.

La storia, nelle sue linee essenziali, è oltremodo semplice: nella prima tragedia,

Agamennone, dopo essere stato accolto trinfalmente dal popolo di Argo24 per il ritorno da

Troia, viene ucciso assieme alla principessa troiana Cassandra, suo ‘bottino di guerra’, dalla

461).22 Per uno studio sulla presenza della vicenda degli Atridi all’interno dell’Odissea, cf. D’Arms-Hulley

(1946).23 Hes., fr. 23a (M-W), 27-29. 24 Conviene ricordare che nella mitologia arcaica Agamennone era re di Sparta, non di Argo. Lo

spostamento ad Argo della vicenda rappresenta un tipico espediente eschileo che intende attualizzare ilmito nell’Atene dei suoi giorni.

19

moglie di lui, Clitemestra, e da Egisto, suo cugino, divenuto amante della donna. I due,

dopo il regicidio, si pongono al comando della città. Nel dramma successivo, le Coefore, ha

propriamente inizio la vicenda di Oreste: costui torna ad Argo dopo un esilio forzato durato

circa dieci anni, accompagnato dall’amico Pilade; ricongiuntosi alla sorella Elettra, su

imposizione di Apollo vendica la morte del padre, uccidendo sia Egisto che Clitemestra. Il

matricidio però lo macchia di una colpa tremenda e il dramma si conclude con la fuga di

Oreste che vede approssimarsi contro di lui le Erinni della madre. Nell’ultima tragedia,

Oreste, ancora perseguitato dalle Erinni, dopo essersi assicurato la protezione di Apollo a

Delfi, si reca ad Atene dove viene istituita un’asseblea di cittadini, per volere di Atena, che

dovranno deliberare sulla sua sorte25. I voti degli uomini si rivelano equamente distribuiti

fra assoluzione e condanna e solo il voto aggiuntivo di Atena riesce a sancire la fine delle

pene di Oreste. Le Erinni, pacificate infine con la città, si trasformano in divinità benigne,

le Eumenidi appunto, a cui viene attribuito un culto ad Atene.

Sofocle nell’Elettra26 riprende sostanzialmente la trama delle Coefore: Oreste che

vendica la morte del padre uccidendone gli assassini. La differenza principale rispetto alla

narrazione eschilea risiede nel ruolo di spicco che viene ad assumere la figura di Elettra, la

quale non si ricongiunge al fratello se non nel finale dell’opera e che mostra un carattere

ben più forte rispetto a quello della versione precedente. Tratta in inganno anche lei come i

due regnanti dalla falsa notizia, propalata ad arte, della morte di Oreste, disperata, decide di

vendicarsi da sé. Quando Oreste, in realtà vivo e giunto in città assieme a Pilade e al

Pedagogo, le svela l’inganno, Elettra lascia al fratello l’esecuzione della vendetta.

Euripide narra le vicende della casa di Agamennone in due tragedie: l’Oreste e

l’Elettra27. Entrambi i drammi stravolgono le narrazioni precedenti, pur mantenendo integro

il motivo della vendetta come motore primo della vicenda, aggiungendo elementi

drammaturgici estranei sia ad Eschilo che a Sofocle. Nell’Elettra, Oreste torna in patria

dopo un esilio decennale in Focide, dove era stato inviato dal vecchio aio di Agamennone,

per proteggerlo dagli assassini del re, e trova la sorella, sposa di un umile ma virtuoso

25 Nelle Eumenidi appare chiaro come le unità aristoteliche di tempo e spazio fossero in realtà una merasemplificazione e generalizzazione delle convenzioni drammaturgiche; l’aver assegnato per troppo tempoun carattere perentorio alle categorie di cui parla Aristotele ha rappresentato a lungo un ulteriore ostacoloallo studio comparato del teatro greco e di quello elisabettiano.

26 La datazione è incerta. Probabilmente ascrivibile al 418 a.C..27 Anche delle tragedie di Euripide la datazione è incerta. Per quanto riguarda l’Elettra, è all’incirca

contemporanea dell’omonima sofoclea, forse del 417 a.C..

20

contandino, che vive in campagna. Inizialmente in incognito, viene riconosciuto dal

vecchio aio e, con Elettra, progetta il duplice omicidio. Prima si procede a quello di Egisto,

assassinato mentre compie un sacrificio, e poi a quello della madre, mandata a chiamare da

Elettra con l’inganno, facendole credere di aver partorito. Subito dopo il matricidio i due

giovani sono presi dal rimorso ma l’intervento ex machina dei Dioscuri chiarisce loro che la

vendetta era imposizione di Apollo e che per questo era ineludibile, e spiega inoltre

l’evolversi successivo degli eventi. Il dramma si conclude con la partenza dei fratelli da

Argo, costretti nuovamente a separarsi, questa volta però, per sempre.

Nell’Oreste la trama si complica incredibilmente. Il matricidio è avvenuto. Oreste,

reso folle dalle Erinni della madre, attende con Elettra l’esito del giudizio del popolo di

Argo nei loro confronti riguardo all’accusa di matricidio e regicidio: se colpevoli saranno

meritevoli di morte. L’aiuto che sperano di ottenere da Menelao, fratello di Agamennone, si

rivela fallace e vengono condannati dal popolo sobillato da Tindaro, padre di Clitemestra,

alla pena capitale. Viene tuttavia loro concessa la possibilità di darsi la morte per propria

mano. Con l’aiuto di Pilade tramano per avere salva la vita: uccidono Elena, moglie di

Menelao e sorella di Clitemestra, e prendono in ostaggio Ermione, la figlia dei primi due.

Proprio quando hanno in scacco gli Argivi e stanno per dare alle fiamme la reggia della

città, Apollo appare come deus ex machina e dà loro una serie di istruzioni il cui effetto è

quello di cancellare tutto ciò che è accaduto, inclusa la morte di Elena: ingiunge infine ad

Oreste di sposare Ermione e di recarsi ad Atene per il giudizio definitivo.

Lo scarto più evidente nella trattazione del mito da parte dei tre tragediografi attici

risiede nella diversità relativa allo spessore psicologico dei personaggi e alla complessità

della trama, più ampi in Sofocle e, soprattutto, Euripide rispetto ad Eschilo. Ma la struttura

portante della trilogia originaria, vendetta-matricidio-persecuzione-assoluzione, continua a

rappresentare la cornice entro cui si muovono anche i due più giovani drammaturghi.

2. 2 Amleto in Saxo Grammaticus e Belleforest

Prima che Shakespeare portasse in scena la figura di Amleto, imprimendola per sempre

nell’immaginario collettivo come icona del ‘dubbio’ e della ‘vendetta’, questa aveva già da

tempo fatto la sua comparsa non solo nei teatri inglesi di XVI secolo, ma anche in altre

21

tipologie di opere letterarie. Benché ci sia accordo nel ritenere che non l’abbia usata come

fonte principale per la redazione della propria opera, la leggenda del principe danese, così

come viene trattata da Shakespeare, viene generalmente ricondotta alla storia narrata nei

libri III e IV delle Historiae Danicae di Saxo Grammaticus, scritte alla fine del XII secolo,

e pubblicate la prima volta in volume nel 1514 con il titolo di Danorum Regum heroumque

Historiae. Shakespeare adottò probabilmente la versione della leggenda narrata da François

de Belleforest, pubblicata nella raccolta di racconti cavallereschi intitolata Histoires

Tragiques nel 1570 (e seguita da molte edizioni successive). Non sembra esistano

traduzioni inglesi della storia di Amleto anteriori al 1608.

La narrazione di Saxo prendeva avvio ricordando come il padre di Amleto,

Horvendil, dopo aver sconfitto il re di Norvegia in duello, venisse assassinato dal fratello

Fengo, che aveva preso poi in moglie la vedova di lui, Gerutha. A differenza della tragedia

di Shakespeare, lo zio di Amleto non fa mistero del suo omicidio, giustificandolo con i

maltrattamenti del re alla moglie. In realtà il suo scopo era unicamente quello di prendersi

regno e moglie del fratello. Amleto intende vendicare l’assassinio, ma per evitare che

qualcuno sospetti dei suoi piani, si finge pazzo, inizia a comportarsi come uno sciocco e a

parlare in modo sibillino. Proprio i suoi discorsi, che sono una miscela di sagacia e follia

insieme, rendono Fengo inquieto e sospettoso tanto che, temendo l’inganno, si propone di

testare la veridicità dell’instabilità mentale del nipote. Vengono allora messi in atto tre

tentativi di smascherare Amleto ma tutti e tre falliscono. In primo luogo si cerca di

sorprenderlo in atteggiamenti intimi con una ragazza che fa da esca, parandoglisi sul

cammino in una boscaglia. Ma Amleto, intuendo il tranello, si allea con la ragazza e ne

ottiene il silenzio e i suoi favori. Successivamente, un amico di Fengo suggerisce di mettere

nella stessa stanza Amleto e sua madre, e spiare cosa lui le dica: ma anche in questo caso

Amleto scopre l’inganno e uccide la spia, ne smembra il corpo e lo dà come mangime ai

maiali e quando torna dalla madre l’accusa amaramente di aver dimenticato il suo primo

marito e di averne sposato il fratello. A questo punto, anche senza prove della sanità

mentale del nipote, Fengo invia Amleto in Gran Bretagna assieme a due servitori che

recano una lettera segreta al re inglese in cui gli si richiede la morte del giovane.

Quest’ultimo intercetta la missiva, sostituisce il nome dei suoi compagni al suo e aggiunge

l’invito al re di concedergli in sposa la figlia. Dopo l’esilio in Gran Bretagna, Amleto torna

22

in Danimarca e trova in corso le sue esequie. Riuscito ad entrare nel palazzo, uccide Fengo

nel suo letto, ottenendo così la vendetta attesa da tempo per l’assassinio del padre. Incerto

della reazione del popolo, esce con coraggio dal palazzo a fare un discorso

auto-apologetico28:

[1] Me tam iustae vindictae ministrum, tam piae ultionis aemulum, patricio suscipite

spiritu, debito prosequimini cultu, benigno refovete contuitu. [2] Ego patriae probrum dilui,

matris ignominiam exstinxi, tyrannidem repuli, parricidam oppressi, insidiosam patrui

manum mutuis insidiis elusi, cuius, si superesset, in dies scelera percrebrescerent. [3]

Dolebam et patris et patriae iniuriam; illum exstinxi, vobis atrociter et supra quam viros

decuerat imperantem. [4] Recognoscite beneficium, veneramini ingenium meum, regnum, si

merui, date; habetis tanti auctorem muneris, paternae potestatis heredem non degenerem,

non parricidam, sed legitimum regni successorem et pium noxae parricidalis ultorem. [5]

Debetis mihi recuperatum libertatis beneficium, exclusum afflictantis imperium, ademptum

oppressoris iugum, excussum parricidae dominium, calcatum tyrannidis sceptrum. [6] Ego

servitute vos exui, indui libertate, restitui culmen, gloriam reparavi, tyrannum sustuli,

carnificem triumphavi. [7] Praemium penes vos est; ipsi meritum nostis, a vestra merces

virtute requiritur.

Saxo Grammaticus, Gesta Danorum, 4.1.7

Amleto viene eletto re e ne vengono narrate altre avventure prima che questi trovi la morte

in battaglia.

Le somiglianze con la tragedia di Shakespeare sono molteplici: la storia del

fratricidio, l’usurpazione e l’incesto; la finta pazzia e il fine uso del linguaggio come

strategie di una lenta vendetta. I tre episodi-nucleo vengono sviluppati e rimaneggiati da

Shakespeare, soprattutto la parte relativa ad Amleto e la ragazza subisce molte revisioni.

L’anonima ragazza della narrazione di Saxo diventa infatti Ofelia, colei che Amleto ama

eppure maltratta. L’amico del re che fa da spia nel secondo tentativo di smascherare Amleto

28 Anche nell’Oreste di Euripide il protagonista si difende di persona davanti al popolo, usando quasi glistessi argomenti. Eur. Or. 932-42: «ἔλεξε δ᾽: ὦ γῆν Ἰνάχου κεκτημένοι, / πάλαι Πελασγοί, Δαναΐδαιδεύτερον, / ὑμῖν ἀμύνων οὐδὲν ἧσσον ἢ πατρὶ / ἔκτεινα μητέρ᾽. εἰ γὰρ ἀρσένων φόνος / ἔσται γυναιξὶνὅσιος, οὐ φθάνοιτ᾽ ἔτ᾽ ἂν / θνῄσκοντες, ἢ γυναιξὶ δουλεύειν χρεών: / τοὐναντίον δὲ δράσετ᾽ ἢ δρᾶσαιχρεών. / νῦν μὲν γὰρ ἡ προδοῦσα λέκτρ᾽ ἐμοῦ πατρὸς / τέθνηκεν: εἰ δὲ δὴ κατακτενεῖτ᾽ ἐμέ, / ὁ νόμοςἀνεῖται, κοὐ φθάνοι θνῄσκων τις ἄν: / ὡς τῆς γε τόλμης οὐ σπάνις γενήσεται.»

23

diventa in Shakespeare Polonio, ciambellano di corte e padre di Ofelia, trafitto dal principe

mentre era nascosto dietro a una tenda nella camera di Gertrude. E i due sventurati

accompagnatori del principe in Inghilterra sono in Shakespeare Rosencrantz e Guilderstern.

Un altro particolare è che la storia di Saxo ha luogo nello Jutland, così come quella di

Shakespeare al castello di Elsinore, che altro non è che Helsingør, città danese, dove nel

Cinquecento era stato costruito il castello presso cui le navi mercantili (molte inglesi) si

fermavano a pagare il dazio di ingresso nel Baltico. Quel castello era certamente noto nella

Londra di Shakespeare.

La differenza sostanziale è che con Shakespeare, Amleto diventa il moderno eroe

del dubbio e dell’incertezza. Vuole e non vuole vendicarsi. Più intelligente e sensibile di

altri, egli è corroso e paralizzato dal suo stesso vortice di pensieri. Finge la pazzia, ma poi si

fa misteriosamente irretire dalla sua finzione. L’Amleto di Saxo sa invece unire la forza

brutale e la decisione all’astuzia e al calcolo paziente. La sua lentezza è tutta studiata, ed

egli attua la sua vendetta senza esitare, punto per punto, fino a diventare re. Quella di

Shakespeare è una tragedia: Amleto non diventa re; lui e tutti i suoi rivali muoiono. Per

Saxo la storia della Danimarca è la storia dei suoi re legittimi. L’acclamazione finale da

parte del popolo sancisce questa legittimità anche per il suo Amleto.

Nella sua traduzione e commento al testo di Saxo, William Hansen (1983) indica

che l’autore medievale mescolò elementi della tradizione orale scandinava ad elementi

letterari e a deliberate eco storiche. Secondo Hansen, Saxo si avvalse dell’opera di Valerio

Massimo per plasmare il suo dettato, sulla scorta della narrazione di questi della vicenda del

romano Lucio Giunio Bruto, anch’egli fintosi pazzo per vendicare la morte del padre,

assassinato da Tarquinio il Superbo. Ma la leggenda di Amleto trova riprese anche

nell’Edda in prosa29, in un brano del poeta Snæbjörn databile al 980 circa, e nell’Ambales

Saga islandese30. Per quanto riguarda la prima, Gilbert Murray (1914) evidenzia che nel

29 La cosiddetta Edda in prosa è un manuale di versificazione destinato agli scaldi e scritto da SnorriSturluson attorno al 1220-1230. Essa rappresenta un commento in prosa, sotto forma di racconti dialogati,a numerose strofe di poemi facenti parte della cosiddetta Edda poetica, di argomento sia mitico sia eroico.L’autore attinge al patrimonio antico germanico e lo commenta in quanto materia che i poeti a luicontemporanei, gli scaldi, dovevono conoscere. Il testo venne intitolato da Snorri stesso Edda. Per quantoriguarda la genesi dei carmi le conoscenze attuali sono approssimative. Attraverso l’analisi della lingua ifilologi hanno ipotizzato che essi siano stati composti tra il IX e il XII sec.

30 Nella sua forma attuale la Saga è una produzione moderna, appartenente al XVI o forse all’inizio delXVII secolo. Il valore del testo dipende principalmente dalla possibilità che, soprattutto nei capitoliiniziali, si possano rintracciare elementi appartenenti alla leggenda di Amleto precedente alla versione di

24

carme in questione viene messa in luce l’abilità di Amlóði di creare enigmi.

Ad ogni modo, come già anticipato, oggi si ritiene che Shakespeare non abbia letto

le Historiae di Saxo, ma la versione della leggenda che ne diede Belleforest nelle Histoires

Tragiques. L’autore francese si discosta in due punti dalla versione di Saxo: introduce la

relazione anteriore all’assassinio del padre di Amleto fra Gerutha e Fengo e ispessisce il

ruolo di lei nel piano di vendetta di Amleto sull’usurpatore. Quest’ultimo elemento non è

presente in Shakespeare.

2. 3 The Spanish Tragedy, Ur-Hamlet e Hamlet

I precedenti scenici della tragedia di Amleto sono di più difficile identificazione31.

Certamente la Spanish Tragedy di Thomas Kyd mostra caratteristiche simili alla tragedia di

Amleto, anche se, per certi versi, a parti inverse: vi è qui la vendetta di un padre per la

morte del figlio. L’opera venne pubblicata nel 1592, dopo essere stata scritta e messa in

scena fra il 1586 e il 1587, e introduce alcuni elementi che saranno portanti anche nella

tragedia di Shakespeare: il fantasma del morto che chiede vendetta, una rappresentazione

nella rappresentazione e la seconda vendetta, quella che nell’Amleto sarà di Laerte nei

confronti del padre Polonio. Oltre alla Spanish Tragedy, si attribuisce a Kyd anche

l’originario precedente scenico dell’Amleto, il cosiddetto Ur-Hamlet, anteriore alla Spanish

Tragedy, che avrebbe trattato la vicenda di Amleto così come descritta nella tradizione

scandinava, introducendo gli elementi innovativi che Kyd userà poi anche per la Spanish

Tragedy.

L’esistenza di questo testo, l’identità del suo autore, e il suo ruolo come fonte

shakespeariana rimangono importanti interrogativi per quanto riguarda lo studio delle fonti

dell’opera32. Allo Ur-Hamlet allude probabilmente Thomas Nashe nella sua introduzione al

Saxo. Che la maggior parte della Saga è tratta dalla storia danese, ristrutturata sotto l’influenza di raccontipopolari, dei romanzi arturiani, e delle storie di Tamerlano, non si può dubitare. Il nome Ambales,evidentemente evoluto da Amblethus, una variante tardiva di Amlethus, e punta con molta probabilità aqualche sorta di epitome di Saxo.

31 Per uno studio completo e dettagliato delle fonti shakespeariane per l’Amleto cf. Aasand and Clary 2010 eMuir 1978.

32 Cf. Jack 1905.

25

testo del Menaphon di Greene del 1589. I pochi riferimenti che Nashe fa al riguardo

suggeriscono che Thomas Kyd avrebbe scritto un dramma intitolato Hamlet, inseribile nel

solco della tradizione senecana: «English Seneca read by candle-light yields many good

sentences, as ‘Blood is a beggar’, and so forth; and if you entreat him fair in frosty

morning, he will afford you whole Hamlets33». Sia la questione circa l’esistenza di uno

Ur-Hamlet che l’identificazione di Kyd come autore potenziale dell’opera dominano ancora

gli studi critici in merito alle fonti del dramma di Shakespeare.

Ma quali sono allora le innovazioni shakespeariane relative alla trattazione della

vicenda? The Revenge of Hamlet Prince [of] Denmark as it was lately acted by the Lord

Chamberlain his men fu registrata allo Stationer’s register nel luglio del 1602. Una

versione non autorizzata dell’opera ‘by William Shake-speare’, con svariate inesattezze,

edita nel 1603 (il cosiddetto primo in-quarto), suggerisce che in quell’anno l’opera fosse

stata rappresentata già da un po’ di tempo. All’interno dell’opera stessa, il riferimento alla

grande popolarità delle compagnie che mettevano a recitare dei giovani ragazzi al posto di

attori adulti (2.2.313-33) è sempre stato interpretato come un esplicito rimando di

Shakespeare alla ‘guerra dei teatri’ di Londra avvenuta attorno al 1601 e al successo della

redivive ‘children’s companies’34. La ‘guerra dei teatri’, fu vissuta da Shakespeare in prima

persona come attore-drammaturgo di una compagnia stabile, negli anni in cui questa, di cui

il poeta era socio e azionista, recitava al Globe, mentre i fanciulli si esibivano al teatro dei

‘Frati Neri’ (Blackfriars). Questi attori giovanissimi erano reclutati in gran parte fra i

cantori della cappella reale (Children of the Chapel). Il passo in questione non si trova

nell’in quarto del 1604, ‘the good quarto’, generalmente ritenuto la versione ufficiale

dell’opera (ristampata con poche varianti nello stesso formato, nel 1611 e nel 1622). Infine,

una terza versione della tragedia è quella pubblicata nell’in-folio delle opere compete di

Shakespeare del 1623. Quest’ultimo è più breve del secondo in-quarto ma aggiunge circa

ottanta versi che non si trovavano in quell’in-quarto. L’esistenza di tre versioni differenti fra

loro per episodi ed estensione mostra chiaramente che la tragedia non è stata redatta nella

sua forma definitiva sin dal principio ma che, come ogni grande opera, è stata rimaneggiata

dall’autore più e più volte.

33 Greene (1996), p. 86.34 Cf. Chambers (1923), pp. I, 379-82; II, 19-21, 41-3.

26

Le principali innovazioni rispetto alle vicende narrate da Saxo e Belleforest sono

dunque:

1. l’assassinio segreto del re;

2. il fantasma che rivela ad Amleto l’omicidio ed esige vendetta;

3. l’introduzione dei personaggi di Laerte e del giovane Fortebraccio;

4. l’ampliamento e l’elevazione del ruolo di Ofelia;

5. l’inserimento della compagnia di teatranti e la scena della rappresentazione;

6. la morte di Amleto successiva all’uccisione dell’usurpatore.

Fra questi, sicuramente la presenza del fantasma e la rappresentazione nella

rappresentazione erano già presenti in Kyd. Così come anche lo spostamento della vicenda

da un’ambientazione pre-Cristiana, nella narrazione di Belleforest, a un elegante e raffinato

ambiente ‘moderno’.

Nell’Amleto di Shakespeare vi sono tre trame distinte: la principale è quella della

vendetta, mentre le sottotrame riguardano la storia tra Amleto e Ofelia, e la guerra

incombente con la Norvegia. Di seguito vengono esposti gli eventi principali della ‘revenge

tragedy’. Il fantasma del padre di Amleto appare a Orazio, Marcello e Bernardo. Orazio

chiede all’apparizione di parlare (1.1.127), ma questa rifiuta acconsentendo in un

successivo incontro a parlare in privato con Amleto. Durante il dialogo il fantasma gli rivela

di essere suo padre e con le parole «So art thou to revenge, when thou shalt hear» (1.5.7) ha

inzio la tragedia vera e propria. Il re morto dice ad Amleto di essere stato avvelenato dal

fratello Claudio, mentre dormiva nel suo giardino, e chiede di essere vendicato «Revenge

his foul and most unnatural murder» (1.5.25). Per accertare la colpevolezza di Claudio,

Amleto decide di far rivivere l’assassinio del padre tramite una rappresentazione teatrale

nel castello, The Murder of Gonzago. «The play’s the thing / Wherein I’ll catch the

conscience of the king» (2.2.606-07): Claudio mostra segni di stizza e irrequietezza e

dimostra in tal modo la sua colpa. Amleto è allora sicuro dell’assassinio (3.2.284). Gli si

presenta l’opportunità di uccidere Claudio solo, nella sua stanza, ma decide di non

intervenire perché in quel momento Claudio sta pregando: ucciderlo in preghiera non

sarebbe stata davvero una vendetta perché l’ucciso sarebbe poi andato in paradiso. Durante

27

una dura conversazione con la madre nella camera di lei, Amleto uccide Polonio, nascosto

dietro a una tenda, scambiandolo per Claudio (3.4.22). Il fantasma del padre appare di

nuovo, recriminando al figlio di non aver ancora ucciso Claudio e aggiungendo di essere

tornato «to whet thy almost blunted purpose» (3.4.111). Amleto però viene esiliato da

Claudio in Inghilterra per l’omicidio di Polonio (4.3.46), e manda con lui Rosencrantz e

Guildenstern a spiare le azioni del nipote, pianificandone l’uccisione sul suolo inglese.

Amleto però riesce a tornare sano e salvo in Danimarca, grazie a dei pirati che avevano

catturato la sua barca e che lo avevano rilasciato con la promessa di una ricompensa futura

e avverte Orazio, con una lettera, del suo rientro (4.6.11). Anche Claudio viene a sapere del

ritorno di Amleto e cospira con Laerte, figlio di Polonio, per l’uccisione di Amleto: durante

un duello per vendicare la morte del padre, Laerte avrebbe usato una spada dalla punta

avvelenata e Claudio avrebbe avuto una bevanda avvelenata da usare all’occasione

(4.7.126-161). Il duello viene vinto da Amleto che infine pugnala Claudio (5.2.311) e lo

costringe a bere il vino avvelenato (316), ma muore anch’egli a causa di una ferita ricevuta

durante lo scontro con Laerte (348), non prima però di aver scambiato con questi parole di

perdono.

La vicenda di Ofelia è strettamente legata a quella della vendetta. All’inizio della

tragedia sia Laerte, suo fratello, in procinto di partire per Parigi, che Polonio, suo padre,

mettono in guardia la ragazza dai sentimenti di Amleto. Dopo la rivelazione del fantasma,

Amleto appare nella camera di Ofelia, pallido e spettinato, tanto che lei ne è spaventata e

corre a raccontare al padre dell’incontro, ma Polonio crede che sia stato il rifiuto di Ofelia

ad aver spinto il giovane sull’orlo della pazzia e riferisce lo strano comportamento di

Amleto a Claudio, presentando una vecchia lettera d’amore del giovane a Ofelia. Sotto la

spinta di Claudio, Polonio invia la figlia a scoprire elementi nuovi sulle condizioni di

Amleto, ma questi, quando lei lo saluta, la aggredisce verbalmente. Questi comportamenti

scostanti, uniti all’uccisione del padre, fanno impazzire completamente Ofelia che poco

dopo si toglie la vita. Rientrato dall’Inghilterra, Amleto, in compagnia di Orazio, incontra il

corteo funebre di Ofelia e viene sopraffatto dal dolore, dichiarando infine il suo profondo

amore nei confronti della ragazza (5.1.270-72).

L’ultima ‘sotto-trama’ è quella della guerra con la Norvegia. Il padre di Amleto

aveva sconfitto in duello il re norvegese Fortebraccio. Il figlio di questi, per rivendicare il

28

possesso dei territori sottratigli dal padre di Amleto, organizza una spedizione contro la

Danimarca. Pochi sono i riferimenti all’interno del dramma a riguardo della spedizione e

dell’arrivo del giovane Fortebraccio. Ma nella scena finale del dramma, Amleto morente,

divenuto principe di Danimarca dopo la morte di Claudio, decreta che suo erede regale sarà

il giovane principe Fortebraccio e chiede a Orazio di informare il nuovo re di tutti gli eventi

che hanno portato alla sua tragica fine:

HAMLET But I do prophesy th’election lights

On Fortinbras; he has my dying voice.

So tell him, with th’occurrents more and less

Which have solicited - the rest is silence.

Amleto, 5.2.334-37

2. 4 Similarità delle vicende

Confrontando le versioni del mito greco con le leggende nordiche, Gilbert Murray, nel suo

intervento del 1914 alla British Academy, tenuto nell’ambito dell’annuale convegno

intitolato ‘Shakespeare Lecture’, evidenziò una serie di caratteristiche specifiche e peculiari

che accomunano i due gruppi.

1. Il padre del protagonista viene ucciso da un parente che poi sposa la regina e usurpa

il trono; da qui, l’eroe, spinto da comandi soprannaturali, porta a compimento la

vendetta.

2. È sempre presente una sorta di timore e riluttanza riguardo all’assassinio della

madre.

3. L’eroe è offuscato dalla ‘follia’.

4. Per alcuni aspetti, sia Oreste che Amleto hanno delle personalità particolari,

soprattutto in rispetto al loro essere dei grandi personaggi tragici. L’Amleto di

29

Shakespeare viene descritto come un ‘pazzo trasfigurato’. In particolare, entrambi

gli eroi presentano talvolta un aspetto esteriore disordinato o trasandato. Entrambi

gli eroi hanno anche un atteggiamento morboso nei confronti delle donne: nelle

leggende nordiche questo appare tramite l’uso di un linguaggio offensivo e volgare

dell’eroe nei confronti delle donne e nei loro riguardi, nella tradizione greca invece

compaiono giudizi denigratori quali quello di Oreste nell’omonima tragedia

euripidea (v. 1590): «οὐκ ἂν κάμοιμι τὰς κακὰς κτείνων ἀεί.»

5. Di minore importanza sono le coincidenze per cui

a. entrambi gli eroi erano lontani da casa quando inizia il dramma principale,

b. entrambi sono in pericolo perché ci sono persone che attentano alla loro vita,

c. entrambi hanno «a good deal with the dead».

6. Infine, ci sono molti punti di somiglianza tra i personaggi collegati a ciascuno di

questi eroi:

a. I padri sono simili per molti aspetti.

b. In alcune caratteristiche personali stringenti le madri dei due eroi sono simili, e,

almeno in Saxo, le stesse caratteristiche appaiono nella donna di Amleto.

c. Ogni eroe ha un amico e confidente fidato.

d. In ogni gruppo di leggende ci sono una giovane donna e un uomo molto

vecchio, le cui caratteristiche e la cui relazione reciproca presentano aspetti

peculiari.

Tali analogie e coincidenze non possono semplicemente essere ritenute casuali e lasciate

nell’ombra. Meritano di essere analizzate e, in qualche modo, giustificate. Nella ricerca di

una spiegazione per la ricca matrice di connessioni tra le figure di Oreste e Amleto, Murray

è ostacolato dall’opinione secondo cui la Grammar School di Stratford non sarebbe stata in

grado di fornire a Shakespeare una preparazione adeguata alla consultazione delle fonti

primarie in greco. Scartando in partenza ogni possibile connessione tra l’Oreste dei drammi

attici e l’Amleto di Shakespeare, viene rigettata dunque anche l’ipotesi per cui la conquista

romana dell’Inghilterra o i mercenari scandinavi alla corte di Bisanzio avrebbero potuto

30

fornire un ponte per la trasmissione dei testi. Secondo Murray non esisteva infatti alcun

collegamento diretto tra le saghe nordiche e i drammi greci, ed è portato a concludere, data

la mancanza di prove storiche, che «the ultimate similarities between Euripides and

Shakespeare are simply due to the natural working, by playwrights of special genius, of the

dramatic possibilities latent in that original seed». Riteneva però che l’elemento comune

nelle storie di Oreste e Amleto fosse la storia rituale di quello che chiama ‘Golden-Bough

Kings’35, che è alla base anche delle rappresentazioni tradizionali dei Mummers le quali, pur

profondamente degradate e volgarizzate, non sono del tutto scomparse nei paesi del Nord

Europa.

Quando si prova ad analizzare un mitologema, bisognerebbe tralasciare l’approccio

meramente testuale e letterario, evitando ogni sorta di enfasi relativa a epoca, autore, testo,

in modo tale da poter pervenire a una prospettiva culturale più ampia, in grado di usare i

metodi d’indagine della mitologia comparata – supportata dall’antropologia culturale – per

rintracciare ed esaminare aspetti universali o specifici di una cultura, riguardo a una

determinata tematica. La mitologia, in quanto fenomeno culturale, può essere definita come

un sistema organizzato di credenze magico-religiose che assieme a delle norme di

comportamento etico, pratiche rituali, istituzioni sociali e artefatti associati a essi,

costituisce la sfera della spiritualità umana, a cui normalmente si dà il nome di religione.

Ogni sistema di credenze magico-religiose ha lo scopo di creare un modello del mondo

inteso a soddisfare le esigenze specificamente umane di conoscenza e comprensione

generalizzata della realtà e di ricerca di senso dell’esistenza. A quest’ultima si è sempre

tentato di sopperire tramite la creazione di complessi religiosi in cui narrazioni mitiche

costituivano dei modelli esplicativi e interpretativi dei principi che governano l’uomo e

l’universo. E il linguaggio attraverso cui i miti realizzano le loro funzioni di

schematizzazione e spiegazione del mondo è composto da segni e immagini a carattere

prettamente simbolico.

Murray, da parte sua, evidenzia la somiglianza tra Gaia, Rhea, Giocasta e

Clitemestra nel mondo greco da un lato e Amba, Gerutha e Gertrude nelle leggende

35 Il riferimento è a Fraser, The Golden Bough: A Study in Comparative Religion, pubblicato per la primavolta nel 1890 e poi gradualmente ampliato fino all’edizione definitiva del 1915. Fraser propose unapproccio innovativo agli studi religiosi, analizzandoli come fenomeni culturali piuttosto che inprospettiva teologica. La sua influenza sul pensiero e la letteratura europea fu sostanziale.

31

nordiche dall’altro. La stessa similarità esiste fra i vecchi re e i giovani vendicatori

all’interno dei vari racconti. L’origine di queste somiglianze è senza dubbio l’antica

concezione religiosa, comune almeno alla maggior parte dei popoli indoeuropei, secondo

cui l’Inverno uccide l’Estate, o il Nuovo Anno uccide il Vecchio, ed è a sua volta ucciso dal

suo successore.

Nella vicenda narrata da Saxo, Murray ravvisa una analogia fra Horvandillus, padre

di Amleto e l’antico dio teutonico Aurvendill, la cui moglie, Gròa, viene identificata con la

‘Terra Verde’. Aurvendill, secondo la leggenda, aveva ucciso il suo nemico Collerus, re

vichingo e fu poi a sua volta ucciso dal fratello e vendicato dal figlio36. Questi collegamenti

sembrano implicare, secondo Murray, «a great unconscious solidarity and continuity,

lasting from age to age, among all the children of the Poets, both the Makers and the

Callers-forth, both the artists and the audiences. In artistic creation, as in all the rest of life,

the traditional element is far larger, the purely inventive element far smaller, than the

unsopihisticated man supposes».

Una analogia simile a quella fra Horvandillus e Aurvendill può essere rintracciata

nella vicenda di Agamennone37. La sua è una morte particolare: viene ucciso mentre è

inviluppato in una rete gettatagli sopra il capo, con un piede ancora nella vasca da bagno e

l’altro per terra, in una stanza annessa al palazzo ma che non fa parte dello stesso. Muore

cioè né vestito né svestito, né in acqua né sulla terraferma, né nel suo palazzo né fuori: una

situazione che ricorda la morte dell’eroe della mitologia gallese Lleu Llaw Gyffes, per

mano della moglie infedele Blodeuwedd e dell’amante di lei Gronw Pebr, narrata nel

Mabinogion.

Tutte queste vicende rappresenterebbero il mito del re sacro che muore a mezza

estate, della dea che lo tradisce, del successore che prende il suo posto e del figlio che ne

vendica l’uccisione.

Jan Kott (1967), influenzato dall’Antropologia Strutturale di Levi Strauss, propone

una personale analisi in parallelo del mito greco e del mito nordico. Molte delle sue

conclusioni appaiono troppo fantasiose per poter essere prese seriamente in considerazione,

ma su di un punto presenta un’acuta osservazione, che potrebbe essere aggiunta ai paralleli

36 Cf. Dumézil 2001, pp. 193-98.37 Per una interpretazione della nascita della saga degli Atridi, cf. Untersteiner 1972, pp. 176-77.

32

proposti da Murray e motivare la divergenza fra i due miti. Kott si sofferma infatti su due

triadi di morti, Agamennone-Egisto-Clitemestra versus Amleto padre-Gertrude-Claudio. A

suo dire, la differenza relativa alla morte della madre nelle due variazioni (matricidio vs.

suicidio-omicidio) non rappresenterebbe un particolare problema interpretativo38 e che la

differenza paradigmatica risiede nella diversa sequenza di morti e nel loro corrispettivo

afferire a una trama del tipo della ‘revenge tragedy’ o a una di spessore etico-religioso. In

entrambi i casi, la morte fondamentale è posta in coda alla triade: se il tema prevalente è

quello della vendetta, l’ultimo assassinio sarà quello dell’usurpatore, nel caso del tema

etico-religioso è invece il matricidio a essere l’ultimo. L’aver separato questa triade dal

resto delle morti presenti nelle rispettive vicende pone l’accento su quanto effettivamente

può essere probabilmente ascritto al proto-mito originario. La figura di Oreste infatti, nella

saga atridica, è un’aggiunta posteriore39 e la stessa cosa si può pensare di Amleto per la saga

nordica.

Tutte queste analogie fra le due serie di saghe fanno supporre l’esistenza di un

mitologema originario in grado di giustificarne la presenza. Eppure, fra la tragedia di

Shakespeare e i drammi attici le convergenze sono più nitide e non si limitano

esclusivamente alla trama o a determinate caratteristiche dei protagonisti. Le analogie sono

testuali, oltre che tematiche. E questo, a mio avviso, rinsalda il legame esistente fra i due.

Nel capitolo seguente saranno dunque trattati alcuni aspetti testuali delle narrazioni per

verificare se, oltre alle affinità relative alla storia, si possano inferire rapporti più stringenti

fra Shakespeare e la drammaturgia attica.

38 In realtà, la divergenza è ampiamente significativa: dal matricidio greco si dipanano tutta una serie diconseguenze etiche e religiose che non avrebbero modo di estrinsecarsi senza che tale questione venissesollevata.

39 Cf. Untersteiner 1972, p. 338.

33

3. PASSI IN PARALLELO40

Si è visto che nella caratterizzazione di Amleto e Oreste vi sono similarità interessanti.

Anche se il secondo non riveste lo stesso ruolo predominante all’interno della trilogia

eschilea come il principe danese nell’Amleto (nell’Agamennone Oreste non appare

nemmeno), a discapito dello «small latine and lesse greeke», i due personaggi sembrano

essere stati concepiti in maniera tanto simile che non ci si può esimere dal sospettare che

Shakespeare avesse in mente Oreste mentre raappresentava Amleto. Tale opinione è

rafforzata dal fatto che le antiche versioni della vicenda di Amleto non evidenziavano

somiglianze così nette, nel dileneamento dei caratteri, con i drami attici. Le differenze fra

Oreste e Amleto sono senza dubbio molte ma paiono irrilevanti rispetto alla mole di

affinità.

Entrambi si confrontano con lo stesso problema e assolvono allo stesso dovere:

ottenere vendetta per l’assassinio del padre. Oreste è spinto dall’oracolo di Apollo, Amleto

dal fantasma del padre. L’obbiettivo principale della vendetta di Oreste è rappresentato

dalla madre. La situazione dell’adulterio è la medesima: come Egisto ha sedotto

Clitemestra, così Claudio ha sedotto Gertrude. Nell’Amleto l’obbiettivo principale è

Claudio, e il fantasma del padre chiede esplicitamente ad Amleto di non avventare la

propria ira contro la madre. Tuttavia è lei a presentarsi costantemente nel flusso dei pensieri

del giovane, molto più spesso di Claudio, e Amleto scaglia icasticamente parole che sono

come «daggers to her» benché, nei fatti, abbia deciso di non farne uso. Un ulteriore aspetto

di divergenza è che nella tragedia di Shakespeare la situazione dell’incesto diventa una vera

e propria ossessione.

Risulterà interessante notare che gli atti dell’Amleto in cui sono maggiormente

presenti analogie con i drammi attici sono il primo e l’ultimo: come in una cornice, la

‘revenge tragedy’ (che nei restanti tre atti si protrae lungamente a causa dei dubbi di

Amleto) sembra incastonata nel riferimento alla vicenda di Oreste. A riprova di ciò, sia il

primo che il quinto atto iniziano con una scena che richiama ineluttabilmente alla mente

l’Orestea: la guardia nel primo atto si ricollega all’inizio dell’Agamennone mentre la scena

40 Le edizioni usate per le citazioni dai testi originali sono quella di Storr (1914), per l’Elettra di Sofocle,Murray (1913) per l’Oreste e Smyth (1926) per l’Orestea. Per l’Amleto, l’edizione usata è quella di PhilipEdwards 2003.

34

nel Cimitero si riccolega all’apertura delle Coefore. In questo capitolo verranno quindi

confrontati in parallelo episodi, temi e personaggi, in modo tale da verificare direttamente,

tramite le fonti primarie, le diversità e le analogie.

3. 1 Il prologo: la guardia e il re

Come già anticipato, quel che colpisce in prima battuta dalla lettura in parallelo

dell’Orestea e dell’Amleto è l’apertura di entrambi sulla scena di un turno di guardia.

Nell’Agamennone, seduto sul tetto della reggia degli Atridi41, una guardia attende il segnale

che annunci la caduta di Troia. Nell’Amleto, del re morto, appare inaspettato il suo

fantasma. In entrambi i casi le guardie sono sollevate nel momento in cui termina il proprio

turno, sia che si tratti di una fine momentanea (Shakespeare), sia che si tratti di un termine

definitivo (Eschilo). Quando appaiono i fuochi che in staffetta si propagano da lontano per

annunciare la caduta di Troia, così come predisposto da Clitemestra, le parole della guardia

in Eschilo risuonano, perlomeno inizialmente, colme di gioia:

Φύλαξ νῦν δ᾽ εὐτυχὴς γένοιτ᾽ ἀπαλλαγὴ πόνων

εὐαγγέλου φανέντος ὀρφναίου πυρός.

ὦ χαῖρε λαμπτὴρ νυκτός, ἡμερήσιον

φάος πιφαύσκων καὶ χορῶν κατάστασιν

πολλῶν ἐν Ἄργει, τῆσδε συμφορᾶς χάριν.

Aeschl. Ag. 20-24

Similmente, all’inizio dell’Amleto, quando Bernardo arriva a dare il cambio a Francisco,

questi lo ringrazia con parole che paiono quasi sproporzionate rispetto alla situazione:

FRANCISCO For this relief much thanks, ’tis bitter cold

And I am sick at heart.

Amleto, 1.1.7-8

L’analogia più evidente è nell’impiego dei termini ‘ἀπαλλαγή’ e ‘relief’, l’uno la

41 Il termine utilizzato da Eschilo è ἄγκαθεν.

35

traduzione dell’altro, ma anche nella condizione di profondo disagio che avvertono

entrambi durante la guardia. L’uno è avvinto dal ‘φόβος’, l’altro è ‘sick at heart’. Ciò che

aumenta la sofferenza è l’assenza di accadimenti che caratterizza le rispettive notti: «Not a

mouse stirring», recita Francisco, mentre in Eschilo è la conta delle stelle a essere

indicativa della noia.

Il successivo punto di contatto fra le scene è l’avvistamento del re. L’apparizione del

fantasma, nel dramma di Shakespeare, getta sin dall’inizio una luce tetra sulla vicenda,

scurendone i toni e avvicinandola al tipo di tragedia in voga nel teatro elisabettiano, quella

plasmata sulla drammaturgia senecana, lugubre e truce. Ma più che il buio, la presenza del

re morto in scena stampa su di essa sin dai primi versi il marchio della ‘vendetta’ che,

assieme al ‘dolore’, permea l’intera vicenda. Così paradigmatico è anche l’avvio della

tragedia nell’Agamennone: la patina di ansia, paura e mistero trapela dalle parole del

πρόσωπον προτατικόν della guardia e da quelle successive del Coro degli anziani, ed è

tipicamente figlia del dettato eschileo.

Solitamente si fa discendere l’adozione della figura del fantasma in Amleto dal

teatro senecano: le due tragedie che portano in scena un’ombra sono il Tieste e

l’Agamennone. È interessante notare come, anche in tal caso, si stagli un legame forte con

la saga atridica. Nel Tieste è l’ombra di Tantalo a introdurre la vicenda, mentre

nell’Agamennone, ad anticipare gli eventi luttuosi che seguiranno, è l’ombra di Tieste. In

quest’ultima tragedia, Seneca ascrive all’ombra sentimenti profondamente umani,

soprattutto un forte odio, anche da morto, che la porta a fuggire la luce non meno che le

tenebre, vagando inquieto in cerca di vendetta. Sicuramente l’influenza di Seneca ha

giocato un ruolo importante sia per Shakespeare che per l’autore del supposto Ur-Hamlet, e

ugualmente per la Spanish Tragedy di Kyd. Il parallelo con l’ombra di Tieste nell’Amleto è

evidente, facendo riferimento all’atteggiamento menzionato del rifuggire la luce. Lo

testimoniano le parole di Orazio che riferisce ad Amleto l’incontro con il fantasma del re

avvenuto nella notte:

HORATIO But even then the morning cock crew loud,

And at the sound it shrunk in haste away

And vanished from our sight.

Amleto, 1.2.217-219

36

Lo confermano anche le parole del fantasma nella successiva apparizione, quella del

giuramento:

GHOST The glow-worm shows the matin to be near,

And gins to pale his uneffectual fire.

Adieu, adieu, adieu. Remember me.

Amleto, 1.5.89-91

Come in Seneca, lo spirito non riesce a trovare requie nel suo dolore; ciò che lo muove e lo

tormenta non è un odio generico, ma il desiderio che 1’assassinio non resti invendicato e il

timore che «the royal bed of Denmark be / A couch for luxury and damned incest.»

(1.5.82-3): di qui l’ingiunzione ripetuta a giurare e 1’esortazione di Amleto, dopo avergli

assicurato la vendetta, a riposare e deporre le proprie pene: «Rest, rest, perturbed spirit.»

(1.5.18342). Dunque è dai testi senecani che discende la predilezione nel teatro

rinascimentale per questo genere di prologo-apparizione. Già nella Spanish Tragedy viene

adottato questo modello, portando a recitare il prologo 1’ombra di Andrea, nobile spagnolo;

ugualmente fece Marlowe nell’Ebreo di Malta, che mise a recitare il prologo addirittura

l’ombra di Machiavelli. Shakespeare dal canto suo innova l’elemento drammaturgico

inserendo l’apparizione dell’ombra all’interno dell’azione drammatica, sia nel prologo,

dove rimane silente, che nelle scene successive.

Ad ogni modo, influenze senecane a parte, il riferimento anche in questo caso torna

alla famiglia di Oreste. Quanto poi al turno di guardia, l’assonanza con l’Agamennone

eschileo appare forte. Se congiunta alla presenza del re, sia nel caso in cui torni a casa dalla

guerra ignaro ancora del futuro destino di morte, sia nel caso in cui l’assassinio sia già

avvenuto, l’affinità della scena diviene ancora più evidente. È quasi banale evidenziare

quanto l’incipit di un dramma sia evocativo e al contempo propedeutico al prosieguo di

tutta la vicenda. Le supposte fonti shakespeariane non iniziano con una scena simile e

neppure fra i vari drammi attici si incontrano prologhi del medesimo tipo43.

42 Cf. la scena in Kyd, Spanish Tragedy, 1.543 Probabilmente influenzato dall’interpretazione freudiana della vicenda di Amleto, Jean Cocteau fa

iniziare la sua personale trattazione della vicenda edipica, nella Machine Infernale (1934), proprio con unturno di guardia, esattamente come avviene nell’Amleto.

37

3. 2 Il lutto e Niobe

Il topos del lutto smisurato e ingiustificato appare evidenziato in maniera preponderante

nell’Elettra di Sofocle. Di questa, come detto, esistevano almeno due traduzioni in latino

nel XVI secolo. Confrontando i passi del tragediografo greco con quelli di Shakespeare,

soprattutto nella seconda scena del primo atto, appaiono chiaramente evidenziati i

medesimi punti.

GERTRUDE Thou know’st ’tis common, all that lives must die,

Passing through nature to eternity.

HAMLET Ay madam, it is common.

GERTRUDE If it be,

Why seems it so particular with thee?

Amleto, 1.2.68-75

Siamo ancora nel primo atto, Amleto fa la sua prima comparsa in scena. È silenzioso e

scuro in volto: la perdita del padre, di cui ancora non sospetta la morte violenta e innaturale,

e il repentino nuovo connubio della madre con il fratello del defunto marito, lo hanno fatto

sprofondare in un abisso di dolore e risentimento. Nel passo appena citato, la madre gli

rammenta che la morte fa parte del ciclo naturale delle cose, per chiunque, e che di

conseguenza non vi è nulla che distingua la sua sventura da quella di altri esseri umani. Ma

per Amleto non vi è alcuna consolazione in un simile approccio agli eventi e non può

impedirsi di addolorarsi a dismisura.

Nell’Elettra sofoclea avviene uno scambio di battute simile a quello appena

proposto fra Amleto e la madre: questa volta però è il Coro delle donne di Argo, e non la

madre, ad ammonire la figlia di Agamennone in merito all’inutilità di un lutto così

marcatamente sentito. Anche il Coro greco ricorda alla protagonista del dramma che quello

relativo alla perdita di un padre è un evento naturale, comune a tutti gli uomini e non

dunque riservato a lei sola e che un lamento eccessivamente protratto e sostenuto non giova

a nessuno.

Χορός ἀλλ᾽ οὔτοι τόν γ᾽ ἐξ Ἀΐδα

38

παγκοίνου λίμνας πατέρ᾽ ἀν-

στάσεις οὔτε γόοισιν οὔτ᾽ εὐχαῖς.

ἀλλ᾽ ἀπὸ τῶν μετρίων ἐπ᾽ ἀμήχανον

ἄλγος ἀεὶ στενάχουσα διόλλυσαι,

ἐν οἷς ἀνάλυσίς ἐστιν οὐδεμία κακῶν.

τί μοι τῶν δυσφόρων ἐφίει;

[…]

οὔτοι σοὶ μούνᾳ, τέκνον,

ἄχος ἐφάνη βροτῶν,

πρὸς ὅ τι σὺ τῶν ἔνδον εἶ περισσά,

οἷς ὁμόθεν εἶ καὶ γονᾷ ξύναιμος,

οἵα Χρυσόθεμις ζώει καὶ Ἰφιάνασσα,

Soph. El. 137-143, 154-163

L’Elettra che descrive Sofocle è una donna in preda al θυμός, combattiva e forte quasi come

Antigone e come quest’ultima intende prestare fede alla sua interiore legge morale. Le

parole del Coro non sono sprezzanti, ma razionali e quasi commosse, come quelle di

Gertrude. Nell’Amleto tale parte è affidata alla madre perché, a differenza del mito greco, in

lei non vi è odio nei confronti del figlio. In Sofocle, Clitemestra non avrebbe potuto

pronunciare parole tanto piane. Il ruolo predominante di Clitemestra nell’omicidio del re

viene assunto da Claudio, non da Gertrude, nel dramma di Shakespeare. In questo primo

riferimento al lutto, si ha piuttosto un monito contro la smisuratezza insensata e la

mancanza di un giusto equilibrio, aspetti, questi ultimi, fondamentali nella tragedia greca.

È interessante notare che sia in Shakespeare che in Sofocle a questo punto del

dramma viene fatto riferimento a Niobe, nella sua veste simbolica d’immagine del dolore. Il

rapporto che si instaura con la figura mitica all’interno dei due drammi è però antitetico. In

Shakespeare, Niobe viene ironicamente associata alla figura della madre che, a pochi mesi

dalla morte del marito, convola a nuove nozze con il di lui fratello. Nel suo primo

soliloquio Amleto dice:

HAMLET A little month, or ere those shoes were old

With which she followed my poor father’s body

Like Niobe, all tears, why she, even she -

39

O God, a beast that wants discourse of reason

Would have mourned longer […]

Amleto, 1.2.47-51

Sofocle, al contrario, propone un parallelo più propriamente tragico, in cui non è presente

alcuna ironia. Paragona le lacrime senza fine di Niobe a quelle di Elettra:

ἰὼ παντλάμων Νιόβα, σὲ δ᾽ ἔγωγε νέμω θεόν,

ἅτ᾽ ἐν τάφῳ πετραίῳ

αἰεὶ δακρύεις.

Soph. El. 150-52

In entrambi i passi ciò che viene evidenziato di Niobe è la sua umanità, non la sua

discendenza divina, tramite cui diventa simbolo di estremo dolore. Nonostante le parole di

Elettra che dichiara di venerarla come una dea, in realtà il rimando è alla sfera delle

passioni umane. La coincidenza potrebbe essere certo casuale, ma è significativa sotto un

ulteriore punto di vista. Niobe era figlia di Tantalo e della Pleiade Dione44. Le origini di

Tantalo sono assai discusse: suo padre, secondo alcuni, era Zeus. Niobe ebbe in sposo

Anfione, un altro figlio di Zeus e re di Tebe. Ricca e potente, chiese al suo popolo di essere

venerata al posto della dea Latona, e che venissero predisposti sacrifici nel tempio in suo

onore, piuttosto che alla dea. Riteneva infatti di essere più venerabile di Latona per aver

messo al mondo quattordici figli45, sette maschi sette femmine, al contrario dei due soli

della dea. Per vendicare tale insulto, i figli di quest’ultima, Apollo e Artemide, uccisero la

progenie di Niobe, davanti agli occhi della madre che, testimone del massacro, rimase muta

di fronte a un orrore e a un dolore tanto grandi. Continuò a piangere per i figli anche dopo

essere stata tramutata in una statua da Zeus in persona46. Il riferimento a Niobe in entrambe

le tragedie in oggetto si giustifica proprio tramite il simbolismo del dolore infinito che la

donna del mito è venuta ad assumere.

44 Plut. Vitae 33; Pherec. in Sch. Eur. Or. 11; Hyg. Fab. 83; Paus. III 22 4.45 Secondo Omero i figli di Niobe erano dodici; secondo Esiodo (a quanto risulta da vari scoliasti) erano

venti; secondo Erdoto quattro; secondo Saffo diciotto. Ma secondo la versione seguita da Euripide eApollodoro, essi erano quattordici.

46 Hyg. Fab. 9 e 10; Apollod. III 5 6; Il. XXIV 612 e sgg.; Ov. Met. VI 146-312; Paus. V 16 3, VIII 2 5 e I21 5.

40

D’altra parte, la presenza di Niobe nel primo monologo di Amleto riporta alla mente

anche la figura di suo padre, Tantalo. Costui era talmente benvoluto dagli dèi da essere

ammesso ai banchetti di nettare e ambrosia sull’Olimpo. Secondo alcune versioni del mito

tentò di rubare il cibo degli dèi, per distribuirlo ai suoi amici mortali. Ma la sua colpa più

grande, la causa della maledizione che porterà sofferenze alle generazioni future e condurrà

in ultima analisi al matricidio di Oreste, fu il tentativo d’ingannare gli dèi servendo loro, a

un banchetto, la carne del figlio Pelope47. Per questo reato fu punito con la distruzione del

suo regno e dopo la morte, condannato a non vedere mai saziate la sua fame e la sua sete48.

Pelope fu in seguito resuscitato dagli dèi (totalmente integro tranne che per la spalla

sinistra, costituita d’avorio, resasi necessaria perché Demetra, ancora assorta nel dolore per

la perdita di Persefone, non accortasi di ciò che aveva nel piatto, aveva mangiato la spalla

originale), ma, come suo padre, anche su di lui incombeva una maledizione. Dopo aver

richiesto l’assistenza dell’auriga Mirtilo per conquistare la mano di Ippodamia, figlia di

Enomao, ed essere riuscito nell’impresa49, quando Mirtilo mostrò troppo interesse per la

donna, Pelope lo scaraventò da una rupe50. Mentre precipitava giù, l’auriga maledisse

Pelope, scagliando una maledizione che ricadde pesantemente sui figli di Pelope, Atreo e

Tieste. Quest’ultimo, in età adulta, commise adulterio con la moglie di Atreo, Erope, e rubò

di soppiatto il vello d’oro che avrebbe decretato l’assegnazione del regno di Micene a uno

dei due fratelli51. L’inganno di Tieste era stato però smascherato, grazie alla predilezione di

Zeus nei confronti di Atreo, e aveva portato all’esilio del primo e all’ascesa al potere del

secondo52. Scoperta poi l’infedeltà della moglie, Atreo aveva richiamato Tieste a Micene

con il pretesto di riconciliarsi e, a un ennesimo macabro banchetto, aveva servito al fratello

le carni dei figli di lui, e dopo che Tieste ne ebbe mangiato con appetito, fece portare dai

servi le teste sanguinanti dei bambini, i loro piedi e le loro mani, adagiati su un piatto. A

quel punto Tieste lanciò anche lui, a sua volta, una maledizione sulla stirpe di Atreo53.

Ulteriori dettagli della vicenda narrano di come Tieste, su consiglio dell’oracolo di

Delfi, ingravidò la figlia Pelopia in modo da poter generare un figlio che avrebbe potuto

47 Hyg. Fab. 83; Ov. Met. VI 406.48 Diod. IV 74; Plat. Crat. 28; Luc. 77 17; Od. XI 582-92; Ov. Met. IV 456; Pind. O. I 60; Apollod.7 Epit. II;

Hyg. Fab. 82.49 Pind. O. I 87; Luc. 83 19; Diod. IV 73; Apollod.7 Epit. II.50 Strab. Hist. X 1 7; Soph. El. 508 e sgg.; Apollod.7 , Epit. II; Paus. VIII 14 7.51 Apollod.7, Epit. II 11; Sch. Eur. Or. 812; Sch. Il. II 106.52 Apollod.7, Epit. II 12; Sch. Il. II 106; Eur. Or. 1001; Ov. Ars 327 e sgg.; Sch. Eur. Or. 812.53 Hyg., Fab.e 86 e 97; Eur. Hel. 392; Il. II 131e sgg.

41

vendicarsi di Atreo54. Questi era appunto Egisto che sedusse Clitemestra durante la

decennale guerra di Troia, aiutando la donna nell’omicidio del marito Agamennone al suo

ritorno in patria, e che a sua volta venne ucciso da Oreste. Nell’Odissea (I 35 e sgg. e III

263-75), Zeus ricorda il tradimento di Egisto e di come questi avesse ignorato il consiglio

di Ermete di non uccidere Agamennone, perché il figlio di lui, Oreste, si sarebbe poi

vendicato. Nell’Orestea (Ag. 1220-1391, 1521 e sgg. ed Eum. 631-35) è Egisto a colpire

per primo Agamennone con una spada a doppio taglio, dopo essere stato imbrigliato da una

rete gettatagli addosso da Clitemestra la quale lo colpisce definitivamente, decapitandolo

con la doppia scure, per vendicare il sacrificio della figlia Ifigenia55.

La composizione di queste maledizioni e crimini ereditari rende la casa di Atreo la

più tragica di tutte (assieme a quella dei Labdacidi) nella mitologia greca. Ingannare gli dèi

e chiedere di essere adorato al loro posto sono crimini che pongono le basi per una catena di

omicidi, vendette, adulterii, incesti e cannibalismo.

Agamennone è il figlio maggiore di Atreo e nei drammi post-omerici sembra

aggravare la maledizione di famiglia sacrificando la figlia Ifigenia ad Artemide, per

consentire ai Greci di salpare verso Troia a muoverle guerra. Il sacrificio era in realtà

necessario sulla base di un oracolo che avvertiva i Greci dell’ira di Artemide nei loro

confronti. Nell’Ifigenia fra i Tauri di Euripide, Ifigenia viene salvata all’ultimo minuto

dalla sostituzione di lei, sull’ara, con un cervo. La ragazza è condotta fra i Tauri dove

continua a vivere e diviene sacerdotessa della dea. Le cose finiscono meno bene per

Ifigenia nella versione di Sofocle, in cui lei viene condotta nel campo greco in Aulide con la

promessa del padre di farle sposare Achille. Anche se Achille stesso è abbastanza disposto a

consumare il matrimonio – in una versione, si offre di difenderla da coloro che chiedono il

suo sacrificio – la ragazza, in coscienza, accetta docilmente il suo destino.

In questo assoggettamento al proprio destino Ifigenia è molto simile a Ofelia.

Entrambe sono innocenti nobili promesse spose a dei principi guerrieri, pedine di scambio

per i piani dei padri le quali finiscono vittime dei giochi politici di corte. I fratelli di

entrambe, Oreste e Laerte, cercano vendetta contro gli assassini dei genitori. Laerte, che

utilizza un inganno, muore nel tentativo di effettuare la propria vendetta, mentre Oreste

impazzisce a causa dalle Furie.

54 Apollod.7, Epit. II 13-14; Hyg., Fab. 87 e 88; Serv. A. II 262.55 Soph. El. 99; Aeschl. Ag. 1372 e sgg. e 1535.

42

Se il riferimento a Niobe in Shakespeare può essere stato semplicemente dettato dal

valore simbolico che questa era venuta ad assumere, soprattutto in età medievale, a seguito

della lettura delle Metamorfosi di Ovidio (6.146-312) in cui viene narrata la vicenda del

tramutamento in pietra, ciò non toglie che anche in questo caso, come in quello del prologo

con fantasma, nuovamente vi sia una allusione, voluta o meno, alla saga atridica.

Tornando al topos del lutto, il richiamo alla mancanza di misura nella gestione di questo

che avevano indicato il Coro nell’Elettra sofoclea e Gertrude nell’Amleto shakespeariano,

viene ora esacerbato e assume i toni di una vera e propria condanna. Come già anticipato, le

parti in gioco in questo caso sono quelle di Clitemestra e Claudio. Nel dramma inglese le

parole di Claudio fanno riferimento alla non eticità di un comportamento tanto sconsiderato

quale è quello che sta tenendo Amleto.

CLAUDIUS In filial obligation for some term

To do obsequious sorrow; but to persever

In obstinate condolement is a course

Of impious stubbornness, ’tis unmanly grief,

It shows a will most incorrect to heaven,

A heart unfortified, a mind impatient,

An understanding simple and unschooled.

For what we know must be, and is a s common

As any the most vulgar thing to sense,

Why should we in our peevish opposition

Take it to heart? Fie, ’tis a fault to heaven,

A fault against the dead, a fault to nature,

To reason most absurd, whose common theme

Is death of fathers, and who still hath cried,

From the first corse till he that died today,

’ This must be so.’

Amleto, 1.2.91-106

Il nuovo re di Danimarca parla di colpa contro gli dèi, di empietà e dissennatezza. Le sue

parole non sono piene di comprensione come quelle di Gertrude, ma rivelano un forte astio

43

e un vivo sentimento di stizza. Nell’Elettra non è Clitemestra in prima persona a

pronunciare le parole di sdegno per il dolore incontenibile della figlia, ma Elettra stessa

riferisce al Coro le lamentele della madre.

Ἠλέκτρα ἐγὼ δ᾽ ὁρῶσ᾽ ἡ δύσμορος κατὰ στέγας

κλαίω, τέτηκα, κἀπικωκύω πατρὸς

τὴν δυστάλαιναν δαῖτ᾽ ἐπωνομασμένην

αὐτὴ πρὸς αὑτήν. οὐδὲ γὰρ κλαῦσαι πάρα

τοσόνδ᾽ ὅσον μοι θυμὸς ἡδονὴν φέρει.

αὕτη γὰρ ἡ λόγοισι γενναία γυνὴ αὕτη γὰρ ἡ λόγοισι γενναία γυνὴ

φωνοῦσα τοιάδ᾽ ἐξονειδίζει κακά:

ὦ δύσθεον μίσημα, σοὶ μόνῃ πατὴρ

τέθνηκεν; ἄλλος δ᾽ οὔτις ἐν πένθει βροτῶν;

κακῶς ὄλοιο, μηδέ σ᾽ ἐκ γόων ποτὲ

τῶν νῦν ἀπαλλάξειαν οἱ κάτω θεοί.

Soph. El. 282-92

Come nel discorso di Claudio anche qui le parole di Clitemestra bruciano di risentimento e

sono intese a mortificare il comportamento del figlio (in questo caso, della figlia) che si

strugge di dolore per la morte del padre. In entrambi i casi il riferimento è agli dèi e alla

mancanza di rispetto nei confronti della religione. Claudio parla di «impious stubbornness»

mentre Clitemestra si riferisce alla figlia come a un «δύσθεον μίσημα». L’atteggiamento di

Claudio e Clitemestra rispetto a quello tenuto dal Coro e da Gertrude in precedenza, in

merito al medesimo argomento, è profondamente diverso. La comprensione ha ceduto il

posto all’incomprensione e il giudizio etico con sfumature religiose relativo al

comportamento luttuoso ne è un simbolo evidente.

Da tali analogie sembrerebbe inoltre possibile inferire un parallelo leggermente

diverso da quello proposto normalmente fra Claudio ed Egisto e Gertrude e Clitemestra:

pare infatti più evidente la similarità che passa fra Claudio e Clitemestra piuttosto che

quella fra quest’ultima e la madre di Amleto, quanto meno in relazione all’astio nei

confronti del giovane. D’altronde il personaggio di Egisto, all’interno dei drammi attici,

vede ridotta all’osso la propria importanza rispetto a quanto invece accadeva nei poemi

44

omerici. Il ruolo di assassino è ormai pienamente interpretato dalla madre che assomma in

sé i caratteri di vindice (originariamente appartenenti a Egisto, in quanto figlio di Tieste), di

usurpatrice al trono e di fedifraga. La vendetta di Clitemestra non è più quella di Egisto: lei

uccide il marito per vendicare la morte di Ifigenia, e tale sarà il movente per l’azione dei

figli. Nell’Amleto, invece, è l’invidia di Claudio a spingere al patricidio, lui ne è colpevole,

non Gertrude, che partecipa senza avere in realtà alcun reale movente.

Un ulteriore motivo di analogia è il fatto che qui come nell’Amleto il lamento si

protrae in solitudine, mentre gli altri sono fuori a festeggiare.

3. 3 Clitemestra e Gertrude

Prima di andare a considerare ulteriori motivi di analogia fra Claudio e Clitemestra, si

possono identificare quelli che legano le due madri. Clitemestra, come già detto, si è

sostituita all’Egisto dei poemi omerici nella rappresentazione del personaggio che incarna il

male da vendicare. Eppure ancora un aspetto accomuna le due donne: l’essere entrambe

fedifraghe. Egisto e Claudio sono, rispettivamente, cugino e fratello dei defunti mariti. Il

carattere incestuoso dell’adulterio di Gertrude viene fortemente stigmatizzato da Amleto,

differentemente da quanto accade invece nella vicenda di Oreste. Nel terzo atto del dramma

shakespeariano, quando Amleto si reca nella stanza della madre per parlarle e finisce per

uccidere Polonio nascosto dietro a una tenda, il giovane esprime un forte rammarico per il

comportamento della madre, irrispettoso nei confronti di un marito oltremodo degno.

HAMLET No by the rood, not so.

You are the queen, your husband’s brother’s wife,

And, would it were not so, you are my mother.

Amleto, 3.4.14-16

Disapprova a tal punto la mancanza di fedeltà che addirittura è spinto a rinnegare la propria

madre. Un atteggiamento simile è tenuto da Oreste nell’omonima tragedia di Euripide,

quando questi dialoga con Tindaro, padre di Clitemestra, adirato con il nipote per la

vendetta sanguinosa perpetrata ai danni della figlia.

45

Ὀρέστης ἡ σὴ δὲ θυγάτηρ — μητέρ᾽ αἰδοῦμαι λέγειν —

ἰδίοισιν ὑμεναίοισι κοὐχὶ σώφροσιν

ἐς ἀνδρὸς ᾔει λέκτρ᾽: ἐμαυτόν, ἢν λέγω

κακῶς ἐκείνην, ἐξερῶ: λέξω δ᾽ ὅμως.

Eur. Or. 557-60

Qui è l’αἰδώς56 a essere chiamato direttamente in causa. Nel tentativo di giustificare il

matricidio, Oreste fa appello a un concetto simile alla fides latina: se anche si è macchiato

di un crimine talmente grande da dover subire un processo per valutare se potrà o meno

essere assolto, accusa d’infedeltà la madre e difende il suo operato additandolo come

necessario a preservare la Grecia da eventuali future mancanze di lealtà delle altre donne. Il

padre, agli occhi di Elettra e Oreste, era un uomo andato via dalla patria per combattare

contro dei nemici. Così anche nell’Amleto il padre è visto come incarnazione del

condottiero, salvatore e protettore della patria, onorabile al contrario del fratello.

Nell’Elettra di Sofocle, viene esplicitata la tracotanza di Clitemestra, l’aver osato

tenere un atteggiamento inconciliabile con i dettami divini. La scena è simile:

Ἠλέκτρα ἴδω δὲ τούτων τὴν τελευταίαν ὕβριν,

τὸν αὐτοέντην ἡμὶν ἐν κοίτῃ πατρὸς

ξὺν τῇ ταλαίνῃ μητρί, μητέρ᾽ εἰ χρεὼν

ταύτην προσαυδᾶν τῷδε συγκοιμωμένην:

Soph. El. 271-274

In tutti e tre i passi i giovani lamentano il fatto di dover chiamare madre una donna che per

gli atteggiamenti fedifraghi tenuti nei confronti del proprio legittimo marito, non lo

meriterebbero. Nell’Amleto (soprattutto nel Primo In-Quarto) la regina non è accusata

esplicitamente dell’omicidio del marito. Questo scarto rispetto ai drammi attici ne implica

anche il differente atteggiamento tenuto dai figli. Nelle tragedie greche la colpa di

Clitemestra è duplice al contrario di quanto avviene in Shakespeare. Nel Primo In-Quarto,

si fa esplicito riferimento all’innocenza della donna nell’omicidio:

56 Sull’importanza del concetto di αἰδώς, cf. Dodds (1951).

46

QUEEN But, as I have a soul, I swear by heaven

I never knew of this most horrid murder.

Amleto (Primo In-Quarto), 2520.1

In Eschilo, il riferimento alla vergogna che si prova nel chiamare madre una donna indegna

di tale nome, non è ugualmente esplicito, ma l’indicazione della condanna a un

atteggiamento non consono a una moglie greca è evidente all’interno delle Coefore. Anzi,

tale passo è estremamente simile a un altro dell’Amleto, in cui la generalizzazione delle

conseguenze nefaste a cui conduce un comportamento lussurioso è messo in bocca ad

Amleto. Naturalmente nelle Coefore un simile commento generale è affidato al Coro, e non

alle parole di un singolo personaggio della tragedia:

Χορός ἀλλ᾽ ὑπέρτολμον ἀν-

δρὸς φρόνημα τίς λέγοι

καὶ γυναικῶν φρεσὶν τλαμόνων καὶ

παντόλμους ἔρωτας

ἄταισι συννόμους βροτῶν;

ξυζύγους δ᾽ ὁμαυλίας

θηλυκρατὴς ἀπέρω-

τος ἔρως παρανικᾷ

κνωδάλων τε καὶ βροτῶν.

Aeschl. Ch. 594-601

La sferzante condanna della ‘libidine donnesca’ è presentata anche in Shakespeare con toni

di riprovazione e di forte sdegno, nel medesimo intervento in cui si accenna ironicamente

alle lacrime di Niobe.

HAMLET Oh most wicked speed, to post

With such dexterity to incestuous sheets.

It is not, nor it cannot come to good.

But break, my heart, for I must hold my tongue.

Amleto, 1.2.156-159

47

Oltre a questo riferimento ve ne sono altri di simile spessore, ancora più lirici, icastici ed

enfatici. Sempre all’interno del medesimo intervento, Amleto estende il giudizio, prima

confinato alla sola madre, a tutto il genere femminile, denigrandone la debolezza e

l’incostanza.

HAMLET Let me not think on’t; frailty, thy name is woman -

A little month, or ere those shoes were old

With which she followed my poor father’s body

Amleto, 1.2.146-8

Un altro punto di contatto riguarda la tempistica del tradimento. Gertude e Clitemestra sono

accusate di essere scivolate fra le braccia dei propri amanti con una rapidità intollerabile.

Amleto, non è ancora a conoscenza del retroscena dell’assassinio del padre e si limita

dunque a criticare la rapidità con cui la madre è passata dal lutto per la morte del marito ai

festeggimenti per il nuovo matrimonio. Proprio i festeggimenti sono odiosi ad Amleto come

all’Elettra di Sofocle. Anche qui la coincidenza è evidente: nel passo in questione

dell’Amleto, i collegamenti rintracciabili fra il testo shakespeariano e la drammaturgia

attica, sono tutti afferenti alla tragedia di Sofocle.

HORATIO M y lord, I came to see your father’s funeral.

HAMLET I pray thee d o not mock m e fellow student,

I think it was to see my mother’s wedding.

HORATIO Indeed my lord, it followed hard upon.

HAMLET Thrift, thrift, Horatio. T h e funeral baked meats

Did coldly furnish forth the marriage tables.

Amleto, 1.2.176-181

Nell’Elettra non è il banchetto nuziale a infastidire la ragazza, ma i festeggiamenti che

Clitemestra tiene in ricordo dell’uccisione del marito. Da una parte vi è l’immagine del

banchetto funebre che si tramuta in banchetto nuziale, dall’altro quello della festa in onore

di Agamennone che si trasforma in banchetto che ne festeggia la sua morte. Secondo

48

un’antica tradizione storica argiva infatti, nel giorno 13 del mese di Gamelione57 (Gennaio)

si svolgevano ad Argo, in onore di Agamennone, cerimonie e riti riparatori, ma agli occhi di

Elettra questi ultimi appaiono come una perversa profanazione della sua sciagurata madre

che ne stravolge il senso più profondo e pio.

Ἠλέκτρα ἡ δ᾽ ὧδε τλήμων ὥστε τῷ μιάστορι

ξύνεστ᾽, ἐρινὺν οὔτιν᾽ ἐκφοβουμένη:

ἀλλ᾽ ὥσπερ ἐγγελῶσα τοῖς ποιουμένοις,

εὑροῦσ᾽ ἐκείνην ἡμέραν, ἐν ᾗ τότε

πατέρα τὸν ἀμὸν ἐκ δόλου κατέκτανεν,

ταύτῃ χοροὺς ἵστησι καὶ μηλοσφαγεῖ

θεοῖσιν ἔμμην᾽ ἱερὰ τοῖς σωτηρίοις.

Soph. El. 275-81

Sia Elettra che Amleto si sentono soli nella situazione, contro tutto e tutti. Per quanto

riguarda Elettra, l’isolamento è anche rappresentazione di una trasgressione rituale58 oltre

che etica.

L’analogia fra le due madri sembrerebbe sbilanciata sul versante del tradimento nei

confronti del marito. Gertrude non è colpevole, agli occhi di Amleto, dell’assassinio del

padre, questo infatti è completamente ascritto a Claudio. Nondimeno un altro aggancio fra

le due figure femminili si instaura in relazione al matricidio. Nelle tragedie greche

l’assassinio della madre è propedeutico al prosieguo della vicenda e, soprattutto, si rende

necessario a seguito del ruolo di spicco che assume Clitemestra nell’uccisione. Eppure, nel

finale delle Coefore, si assiste al dubbio di Oreste che si appresta a uccidere la madre. È la

scena in cui Pilade interviene, recitando l’unica sua battuta di tutto il dramma, ricordando

all’amico come sia più importante il rispetto di un oracolo che l’adempimento dei doveri

familiari.

Ὀρέστης Πυλάδη τί δράσω; μητέρ᾽ αἰδεσθῶ κτανεῖν;

Πυλάδης ποῦ δὴ τὰ λοιπὰ Λοξίου μαντεύματα

57 Il tredicesimo giorno del mese di Gamelione coincideva con la luna piena del calendario lunare. Pare che il sacrificio del re avesse sempre luogo durante la luna piena.

58 Finglass2007, p.185

49

τὰ πυθόχρηστα, πιστὰ δ᾽ εὐορκώματα;

ἅπαντας ἐχθροὺς τῶν θεῶν ἡγοῦ πλέον.

Aeschl. Ch. 899-902

Pilade assolve in questo caso al ruolo di ἀλάστωρ atto a far superare il dissidio tragico tante

volte paventato nel corso della tragedia da Oreste. Il gesto della madre di scoprire il seno

per suscitare nel figlio l’idea della maternità, viene superato dal riconoscimento del

maggior peso da assegnane alla volontà divina di fronte al rispetto dei rapporti di

consanguineità. Tuttavia il dubbio finale di Oreste rappresenta un nuovo aggancio alla

figura di Amleto. Questo punto sarà meglio discusso nel prosieguo della trattazione,

nell’ambito della tematica del matricidio.

3. 4 Claudio, Clitemestra e il simbolismo del serpente

Si è già detto dell’analogia principale fra i personaggi di Claudio e Clitemestra relativa al

ruolo principale svolto da entrambi in relazione all’uccisione del re. Si è anche visto

l’atteggiamento simile dei due nei confronti del lutto di Elettra e Amleto. Ora si cercherà di

analizzare un ulteriore punto di contatto che ha a che fare con la simbologia.

Un simbolo è un segno, naturale o artificiale, a cui nel processo immaginativo sono

associati oggetti, fenomeni, condizioni ambientali o idee ed emozioni della psiche umana. Il

carattere associativo di questo processo consente di tenere assieme il segno iniziale con una

vasta gamma di rappresentazioni simboliche e analogiche, che talvolta creano fitte e

intricate reti di rimandi e relazioni.

Il serpente59 è un animale che riveste da sempre un ruolo simbolico di spicco in

letteratura e iconografia, atto a descrivere innumerevoli significati, talvolta ambigui e

persino antitetici fra loro. Questa ambivalenza deriva dal fatto che esso rappresenta

genericamente l’energia, la forza vitale nelle sue più svariate forme, ma anche dal fatto che

spesso vengano presi in considerazione aspetti singoli e particolari, piuttosto che l’animale

nella sua interezza.

Per molte antiche civiltà, simboleggiava il mondo sotterraneo, ctonio, e il regno dei

59 Per un approfondimento sulla simbologia del serpente, cf. Biedermann 1992

50

morti, probabilmente in relazione alla caratteristica dei serpenti di trascorrere gran parte

della propria vita nascosti, fra pietre o in buche sotterranee. Un altro, più sottile, carattere

del serpente afferisce alla sua apparente capacità di ringiovanimento attraverso il processo

della muta, il cambio stagionale della sua pelle. Inoltre, degne di nota sono anche le

caratteristiche relative alla sua nascita da un uovo come un uccello e alla capacità di

uccidere con il suo morso velenoso.

Molto notevoli sono le associazioni con la vita e con la morte; per questa ragione il

serpente svolge un ruolo altamente significativo in molte e diverse culture. Il serpente

biblico, l’incarnazione di Satana nel giardino dell’Eden, diventa in seguito l’ὄφις “messo su

un’asta” di Mosè60, interpretato come archetipo del Cristo crocifisso61. Sempre nell’Antico

Testamento, il bastone di Aronne venne trasformato in un δράκων, capace di divorare i

bastoni dei maghi del Faraone62. Nella mitologia norrena lo Jörmungandr, un enorme

serpente, avvolge la terra, simbolo del mare, richiudendosi su se stesso, come un

οὐροβόρος. Non diversamente il suo omologo egiziano, il gigantesco Apophis,

rappresentazione del Caos e del buio, minaccia costantemente l’ascesa del dio Sole, Ra. La

figura dell’οὐροβόρος è di particolare interesse: rappresenta il ciclo dell’eterno ritorno o,

più in generale, l’eternità.

Molte tradizioni simboliche tendono a sottolineare il ruolo negativo del serpente (ad

esempio, il pericolo del suo morso velenoso); di conseguenza, le creature che si pensa

possano uccidere i serpenti (l’aquila, la cicogna, il falco) vengono ad assumere

connotazioni positive. D’altra parte vi sono complessi mitologici molto antichi che

includono misteriose carattaeristiche positive del serpente, tendenzialmente legati

all’aspetto della rinascita e del ringiovanimento. Il serpente può rappresentare, ad esempio,

la benedizione degli antenati defunti, o anche essere associato alla guarigione e alla

reincarnazione (ad esempio, i serpenti sacri di Asclepio63). Per gli antichi Egizi, l’οὐραῖος

(rappresentante un cobra) simbologgiava la corona capace di sputare veleno contro i nemici

del Faraone; veniva anche rappresentato avvolto attorno al disco solare e associato a varie

60 Numeri 2:8-961 Giovanni 3:14-15: «E come Mose innalzò il serpente nel deserto, così deve essere innalzato il Figlio dell’

uomo, affinché chiunque crede in lui abbia la vita eterna». [Il testo è della Nuova Diodati (1991)]62 Esodo 7:9-1263 Il caduceo, avvolto da un serpente, del dio della Medicina Asclepio, fa riferimento al simbolismo

terapeutico che può venire ad assumere l’animale.

51

divinità.

Nelle civiltà precolombiane dell’America Centrale, il serpente appare come il

simbolo del quinto giorno del calendario. Per lo piu presagiva sofferenza per i nati sotto tale

segno, destinato a diventare mercanti o guerrieri, sempre girovaghi senza fissa dimora.

Tuttavia Quetzalcóatl (“serpente piumato”), ornato di piume verdi, era una divinità di

grande significato religioso, che apparentemente rappresentava l’armonizzazione della

dualità uccello-serpente (e quindi cielo-terra). In tutto il mondo questo abbinamento è di

grande importanza come simbolo dell’unione degli opposti polari64.

Nei sistemi filosofici di origine asiatica il serpente Kundalini, arrotolato alla base

della colonna vertebrale, simboleggia l’energia vitale risvegliata ed elevata attraverso la

meditazione. Il serpente nel giardino dell’Eden, che ha portato Eva a disobbedire al

comandamento di Dio di non mangiare il frutto dell’Albero della Conoscenza, è chiamato

Samael nella leggenda ebraica medievale, un nome associato anche a Lucifero. Il serpente,

nella Bibbia, si rivolge alla donna perché è più suscettibile dell’uomo. La psicologia

junghiana vede il serpente (come tutti gli altri rettili) come creatura simbolica risalente ai

primi secoli della terra e della razza umana, rappresentante una forza potente e primordiale.

La figura del serpente appare nel mito di Oreste sin dalla versione stesicorea,

documentata dal frammento PMGF 219 Davies, in cui un serpente insanguinato appare in

sogno a Clitemestra65. Questa riconosce in esso il re Plistenide, cioè Agamennone, secondo

l’interpretazione più corrente. La simbolica da rilevare in quel caso è quella dell’animale

ctonio legato al mondo dei morti. Scrive Untersteiner66 che «il serpente, simbolo delle

potenze ctoniche, appare insistentemente nelle rappresentazioni figurate, già a partire

dall’età geometrica, in cui diventava connessione col mondo dei defunti, e ben presto viene

raffigurato accanto a questo di cui diventa simbolo». Eschilo sicuramente tenne presente,

nella redazione della sua trilogia, il sogno narrato da Stesicoro, ma apportò alcune

modifiche rispetto alla versione precedente. Nell’Orestea infatti l’aspetto serpentiforme è

assunto da Oreste in persona, non dal padre.

Al termine del primo episodio delle Coefore, il Coro riferisce a Oreste che

64 Cfr. M. Lurker, Adler und Schlange 1983.65 Per l’interpretazione del sogno di Clitemestra cfr. The Serpent at the Breast, William Whallon.

«Transactions and Proceedings of the American Philological Association» (1958), pp. 271-275; M. L.Sancassano, Il serpente e le sue immagini: Il motivo del serpente nella poesia greca dall’ Iliade all’Orestea. Como: Edizioni New Press, 1997, pp. 173 ss.

66 Cf. Lapini et al. 2002, p. 17.

52

Clitemestra, sconvolta da un sogno notturno, ha inviato libagioni sulla tomba di

Agamennone. Spinto dal giovane, il Coro gli rivela la natura del sogno:

Χορός τεκεῖν δράκοντ᾽ ἔδοξεν, ὡς αὐτὴ λέγει.

[…] ἐν ι παιδὸς ὁρμίσαι δίκην.

[…] αὐτὴ προσέσχε μαζὸν ἐν τὠνείρατι.

[…] ὥστ᾽ ἐν γάλακτι θρόμβον αἵματος σπάσαι.

Aeschl. Ch. 527, 529, 531, 533

Clitemestra ha sognato di partorire un serpente, di avvolgerlo fra fasce, come fosse un

neonato, e di offrirgli il seno da cui sarebbe uscito latte misto a sangue. Oreste riconosce

subito nel sogno una premonizione del matricidio: lui è il serpente, uscito dal grembo

materno, che tornerà a vendicarsi contro il seno stesso della madre che lo ha nutrito.

Ὀρέστης ἡ δ᾽ ἀμφὶ τάρβει τῷδ᾽ ἐπῴμωξεν πάθει,

δεῖ τοί νιν, ὡς ἔθρεψεν ἔκπαγλον τέρας,

θανεῖν βιαίως: ἐκδρακοντωθεὶς δ᾽ ἐγὼ

κτείνω νιν, ὡς τοὔνειρον ἐννέπει τόδε.

Aeschl. Ch. 548-550

Riconoscendosi nel serpente del sogno della madre, ottiene anche un ulteriore associazione

alla figura del padre, il δράκων Agamennone, poiché nell’adempimento dei doveri oracolari

se ne fa degno erede67. In questo senso, il serpente viene ad assumere un significato

simbolico nuovo, relativo alla sua capacotà di rinascita: Oreste infatti rappresenterebbe la

rinascita del padre Agamennone. La madre, d’altra parte, comprende il significato del sogno

in punto di morte, capisce di aver generato e allattato la serpe che l’ucciderà e, scoprendo il

seno, tenta di richiamare il figlio al rispetto del legame di consaguineità. In tal modo però

67 Garvie 1986, pp. 193-194. Mario Untersteiner (in Lapini et al. 2001, p. 25 ) scrive: «La preparazione dellavendetta è subordinata alla spiegazione del sogno di Clitemestra, che rappresenta per Oreste l’ultimagaranzia del volere divino, in quanto il motivo dell’incontro dei due fratelli e quello del sogno si fondonoin unità. Due eventi oscuri e misteriosi, finché isolati, ora si illuminano vicendevolmente e portano Orestead una ferma decisione. Infatti Oreste si riconosce nel serpente generato in sogno da Clitemestra [...].Questo auto riconoscimento si concreta in un’affermazione dell’eroe tutt’uno con la sua stirpe, quale stadiventando Oreste, che si sforza di vincere, con la forza del ragionamento e con la decisione implacabileche questo infonde, le forze demoniche, così vive in lui. Tutto questo avviene nella luce apollinea:l’ordine violento dato dal dio si trasfigura in dialettica.»

53

offre essa stessa l’occasione al figlio di compiere il matricidio così come prospettato nel

sogno.

Ciò che più interessa ai fini dell’analisi in parallelo con l’Amleto è però un’altra

similitudine: all’interno della trilogia tragica, infatti, è Clitemestra in persona a essere

paragonata più volte a una serpe. Essa si discosta grandemente dalle madri venerabili dei

Greci descritte nei poemi omerici. Cassandra la definisce δάκος, animale che morde68 e la

assimila a un’ἀμφίσβαινα69. Secondo Maria Lucia Sancassano (1997, p. 167) questa

sarebbe una delle prime attestazioni in cui si delinea «attraverso l’associazione con la

donna, l’immagine del rettile insidioso e astuto che tanta fortuna avrà nel mondo

cristiano-medievale». Oreste, da parte sua, nelle Coefore propone una lunga metafora per

cui Clitemestra sarebbe la serpe dalle innumerevoli spire entro cui ha trovato la morte suo

padre, identificato con un’aquila.

Ὀρέστης Ζεῦ Ζεῦ, θεωρὸς τῶνδε πραγμάτων γενοῦ:

ἰδοῦ δὲ γένναν εὖνιν αἰετοῦ πατρός,

θανόντος ἐν πλεκταῖσι καὶ σπειράμασιν

δεινῆς ἐχίδνης. τοὺς δ᾽ ἀπωρφανισμένους

250νῆστις πιέζει λιμός: οὐ γὰρ ἐντελεῖς

θήραν πατρῴαν προσφέρειν σκηνήμασιν.

Aeschl. Ch. 246-251

Successivamente il giovane torna sulla medesima similitudine identificando la madre con

una μύραινα e una ἔχιδνα70 (v. 994). Così anche il Coro, ai vv. 831-836, esorta Oreste a

farsi come Perseo e a sconfiggere Medusa, il mostro con la testa cinta di serpenti, e ai vv.

1044-1047 si rallegra che il giovane abbia liberato la città di Argo dal giogo di due serpenti,

Egisto e Clitemestra, tagliando loro la testa. Le Erinni, dal canto loro, hanno il capo cinto di

serpi (Coef. v. 1050).

Shakespeare ricorre spesso all’immagine del serpente nelle sue tragedie: si ritrova

68 Oreste usa lo stesso termine al v. 530 delle Coefore per indicare la serpe al seno del sogno della madre69 Cf. Aeschl. Ag. 1233. Questa figura deve il suo nome alla credenza per cui, avendo una testa a entrambe

le sue estremità, poteva avanzare avanti o indietro con la medesima facilità. A volte è raffigurata con gliartigli di un uccello e le ali appuntite di un pipistrello. Poteva esprimere l’orrore e l’angoscia associati asituazioni ambivalenti.

70 Sulla figura del serpente nella mitologia greca cf. Visintin 1997 e Sancassano 1997.

54

nel Macbeth e in Cleopatra ad esempio, e per questo motivo Gilbert Murray (1914) non si

sofferma se non per poche righe sul parallelo riguardante tale immagine nelle due vicende.

Eppure l’analogia sembra evidente, soprattutto in considerazione di tutti i possibili

parallelismi che si possono rintracciare fra le figure a cui è ascritta la principale colpa di

parricidio nelle due vicende, rispettivamente Claudio e Clitemestra. D’altra parte la

metafora del serpente nell’Amleto si colloca all’interno del primo atto, quello in cui sono

maggiormente evidenti le analogie con la storia di Oreste.

GHOST A serpent stung me. So the whole ear of Denmark

Is by a forged process of my death

Rankly abused; but know, thou noble youth,

The serpent that did sting thy father’s life

Now wears his crown.

Amleto 1.5.36-39

Come nel dramma attico, anche in Shakespeare la figura del serpente si ricollega

all’immagine dell’inganno, e alla trama d’insidie tessute dagli assassinii affinché il delitto

potesse essere perpetrato. Nell’Amleto, l’allusione enigmatica è sciolta attraverso il

riferimento alla corona: viene reso così evidente il tema dell’usurpazione al trono.

Probabilmente Shakespeare fu fortemente influenzato dalla simbologia biblica ma, anche in

questo caso, si ripropone l’analogia con i drammi attici. E se stavolta l’affinità non riguarda

il plot ma il simbolismo uilizzato, la relazione che si insaura – per non voler supporre la

discendenza dell’immagine in Shakespeare dal teatro greco – potrebbe essere valutata a

livello di mitologema.

3. 5 Il matricidio, la coscienza e il senso del male

Il tema del matricidio risulta trattato in maniera molto differente fra Eschilo e Shakespeare.

Ma tale differenza si appiana quando si considera l’Oreste euripideo. Molti aspetti

‘pragmatici’ di Amleto sembrano infatti plasmati sulla rappresentazione del personaggio di

Oreste delineato da Euripide nell’omonima tragedia, piuttosto che su quella definita da

Eschilo. A partire dal tema del matricidio, fino a giungere a quello della follia, dell’aspetto

55

fisico e della propensione all’inganno e agli enigmi, i due personaggi sembrano essere l’uno

l’alter ego dell’altro. Gli elementi di cui sopra sono trattati in maniera dissimile non solo in

Eschilo, ma anche nei precedenti nordici della saga amletica. Per quanto riguarda il tema

della follia, ad esempio, sia in Saxo che nelle saghe norrene, questa è descritta in termini ai

limiti della ferinità. Tornando a Eschilo, come si è visto, i personaggi mancano di uno

sviluppo psicologico interiore a cui fa seguito l’andamento della trama. Essa è data solo dal

verificarsi di eventi esterni, non concernenti la psicologia dei personaggi. In Euripide, al

contrario, la sfera intima e privata è analizzata più nel profondo. Quelle di Euripide sono

‘persone’ più che personaggi.

Un aspetto che non attiene alla sfera psicologica ma che sembra collegare Amleto

con l’Oreste di Euripide, riguarda il tema del matricidio. Nell’Amleto il fantasma del padre

ammonisce il figlio di non sporcarsi le mani facendo del male alla madre.

GHOST But howsomever thou pursues this act

Taint not thy mind, nor let thy soul contrive

Against thy mother aught. Leave her to heaven

And to those thorns that in her bosom lodge

To prick and sting her. […]

Amleto, 1.5.84-88

In Eschilo non ci sono simili ammonimenti, e viene presentata la possibilità di un ciclo

indefinito di vendette e sofferenze finché la maledizione non sia annullata e la giustizia

raggiunta tramite l’istituzione di un’assemblea giudicante in grado di ripristinare l’ordine.

Ogni accadimento spinge Oreste a compiere il matricidio in vista del finale tematico sul

concetto di giustizia a cui fa capo la trilogia. Le Erinni del padre esigevano vendetta. In

Euripide, al contrario, all’inizio della tragedia, dopo un breve dialogo con la sorella, Oreste

richiama alla mente il matricidio e sembra porsi dei dubbi sulla bontà del suo

comportamento. Afferma addirittura che il padre, vedendolo in procinto di uccidere la

madre, lo avrebbe trattenuto.

Ὀρέστης οἶμαι δὲ πατέρα τὸν ἐμόν, εἰ κατ᾽ ὄμματα

ἐξιστόρουν νιν, μητέρ᾽ εἰ κτεῖναι χρεών,

56

πολλὰς γενείου τοῦδ᾽ ἂν ἐκτεῖναι λιτὰς

μήποτε τεκούσης ἐς σφαγὰς ὦσαι ξίφος,

εἰ μήτ᾽ ἐκεῖνος ἀναλαβεῖν ἔμελλε φῶς,

ἐγώ θ᾽ ὁ τλήμων τοιάδ᾽ ἐκπλήσειν κακά.

Eur. Or. 288-293

Questo episodio, solo immaginato da Oreste, sembra lo stesso messo in scena nell’Amleto

in cui sembra che queste esatte parole del personaggio euripideo vengano rappresentate da

Shakespeare in palcoscenico.

Nella quarta scena del terzo atto, quella in cui avviene l’uccisione accidentale di

Polonio e il successivo feroce dialogo di Amleto con la madre, nella stanza della regina, il

fantasma del re morto – visibile solo al figlio71 – appare intimandogli di riflettere e di non

perdere la lucidità e di non smarrire la strada della vera vendetta scagliando la propria ira

contro la persona di Gertrude.

HAMLET A king of shreds and patches -

Save me and hover o’er me with your wings,

You heavenly guards ! - What would your gracious figure ?

GERTRUDE Alas he’s mad!

HAMLET D o you not come your tardy son to chide,

That lapsed in time and passion lets go by

Th’important acting o f your dread command? Oh say!

GHOST D o not forget. This visitation

Is but to whet thy almost blunted purpose.

But look, amazement on thy mother sits.

Oh step between her and her fighting soul:

Conceit in weakest bodies strongest works.

Amleto, 3.4.103-113

Gertrude teme che il figlio sia impazzito, ritenendolo preda di potenti allucinazioni. A mio

parere, l’analogia che si instaura fra i due episodi appena evidenziati amplifica il parallelo

71 Anche Oreste, nel finale delle Coefore, a seguito dell’assassinio di Clitemestra, vede lui solo le Erinni della madre, iniziando da lì il suo travaglio.

57

tematico della pazzia, già indicato da Murray. In tal caso però, l’analogia è più forte:

sebbene la pazzia rappresenti un elemento comune ai gruppi di saghe greche e nordiche,

l’episodio rappresentato da Shakespeare sembra quasi un’allusione vera e propria al

passaggio euripideo. D’altra parte, la follia di cui è vittima Oreste in Euripide, si distanzia

da quella di Eschilo quanto da quella di Saxo. Con Euripide ci si trova di fronte a un

conflitto intimo, psicologico, di certo non assimilabile alla ferinità delle saghe nordiche o

alla persecuzione delle Erinni di Eschilo.

Da questo trattamento innovativo del tema della follia, risulta ancora più chiaro che

Euripide suggerisce una prospettiva affatto nuova all’interpretazione della vicenda. Viene

additata la futilità e l’inutilità della sofferenza che scaturisce dalla vendetta, contestando la

validità del primo atto vendicativo e annullando così il valore stesso dei comandi divini,

riportando la tragedia su di un piano terreno, più umano. La follia, ugualmente, è vissuta

come travaglio psichico e psicologico, non si limita al piano religioso e non è un semplice

atto persecutorio delle divinità ctonie. Anche Shakespeare riporta la tragedia su di un piano

umano senza tuttavia tralasciare in toto gli aspetti morali e religiosi. Così, nell’Amleto l’atto

della vendetta è analizzato meticolosamente sotto differenti punti di vista e viene in parte

posticipato proprio perché inconsciamente rifiutato come compito moralmente più

impellente rispetto a quello della redenzione della madre che dunque ne prende il posto. Il

fantasma del padre è un’entità spirituale, sovrannaturale, ma l’attitudine al dubbio di

Amleto è umana. Lo scetticismo è comune in egual misura a Oreste e ad Amleto.

Quest’ultimo mette in discussione l’entità del fantasma:

HAMLET […] The spirit that I have seen

May be a devil […]

Amleto, 2.2.551-552

E Oreste è ugualmente scettico riguardo al dio che gli ha ordinato di uccidere la madre:

Ὀρέστης […] Λοξίᾳ δὲ μέμφομαι,

ὅστις μ᾽ ἐπάρας ἔργον ἀνοσιώτατον

Eur. Or. 285-286

58

Anche Menelao, nella lunga stiticomitia con il nipote, rimarca il carattere ingiusto

dell’ordine divino. Il sospetto cade sull’intera base di convincimenti religiosi

‘antropomorfici’ e la divinità così intesa viene criticata e allontanata. Anche Amleto, a suo

modo, rigetta l’idea cattolica elisabettiana dell’autenticità del mondo spirituale, anche se,

apparentemente, continua a castigarsi per non aver portato a compimento il comando del

fantasma. Il suo coinvolgimento nel compito di riportare ordine nel regno moralmente

corrotto di Danimarca è una questione terrena e decisamente umana che non ha niente a che

vedere con la sfera spirituale.

Il tema della redenzione dal peccato ereditato dalla madre acquisisce il predominio

nella sua coscienza. Euripide è ugualmente interessato alla purificazone di Oreste da un

punto di vista umano (senza quindi chiamare in causa l’ausilio che garantisce Apollo nelle

Eumenidi di Eschilo) e quando Menelao domanda:

Μενέλαος οὐδ᾽ ἥγνισαι σὸν αἷμα κατὰ νόμον χεροῖν;

Eur. Or. 429

è interessato a questo genere di redenzione, terrena, non divina. Oreste dichiara più e più

volte nel corso della recitazione, in una sorta di difesa in absentia del popolo di Argo che

avrebbe dovuto giudicarlo, che colpevole del matricidio non era lui, ma Apollo, e che dal

dio si sarebbe dovuto esigere il pagamento del misfatto. Ponendo la divinità ai livelli dei

comuni mortali, ne mette paradossalmente in luce l’inconsistente antropomorfismo e lo

biasima, finendo per rigettarlo. Così anche per quanto riguarda l’intervento ex machina di

Apollo nel finale della tragedia: nella sua assenza di connessione con gli eventi fino a quel

momento narrati, evidenziando il forte iato fra giudizio terreno e risoluzione divina,

Euripide ne critica l’irrazionalità e, lungi dal lasciare lo spettore sollevato da una

conclusione così poco in sintonia con tutto ciò che l’ha preceduta, insinua il sospetto,

l’angoscia, il dubbio della fallacia degli dèi. Come scrive Massimo Di Marco, a proposito

dell’Oreste: «Proprio quando tutto sembra risolversi, egli scopre che la vicenda

rappresentata non ha soluzione in una dimensione umana o perlomeno non ha una soluzione

che possa soddisfare il suo senso morale. La cesura con ciò che precede è troppo forte, e lo

riconduce alla realtà, strappandolo di fatto all’illusione scenica proprio nel momento in cui

59

– con la mirabolante epifania del dio – il teatro celebra il trionfo dell’illusionismo72».

Il castello di Elsinore rappresenta il regno del male, ma anche del caos, del

traviamento, del rovesciamento dei giusti valori: nessun dubbio di Amleto trova risposta.

Come già evidenziato in precedenza, nel dramma inglese non vi è la risoluzione dei

conflitti. La morte di tutti i personaggi maggiori della vicenda assimila il finale a quello

euripideo: in entrambi i mondi i valori si sono estinti. Sia Euripide che Shakespeare sono

interessati a evidenziare i concentti di colpa e di peccato. La differenza sta nell’assenza, in

Euripide, del concetto di redenzione, che invece interessa molto a Shakespeare.

Si potrebbe dire che in un confronto fra Shakespeare, Eschilo ed Euripide si passa

da un parallelo inerente alle situazioni esterne, i fatti, a uno inerente alla sfera interna, la

psicologia. In Eschilo e Sofocle la natura fisica degli eventi aveva una controparte spirituale

e religiosa che poneva l’uomo di fronte a forze superiori, tali da fargli capire di essere solo

un burattino nelle mani delle divinità, e di non potersi sottrarre al proprio destino. L’Oreste

di Eschilo e l’Edipo di Sofocle non hanno possibilità di usare il libero arbitrio. Il primo è

stato costretto al matricidio da Apollo – e l’alternativa sarebbe stata patire l’ira del dio. Il

secondo aveva un destino già scritto, a cui risultava impossibile sottrarsi. Ma con Euripide,

Oreste diventa un personaggio differente e molto più vicino ad Amleto.

In Eschilo Oreste è un personaggio piatto. Quando nelle Coefore vede per la prima

volta le Erinni, non vi è alcuna indicazione del suo stato mentale al riguardo. D’altra parte,

la sua pazzia è attribuita oggettivamente alla vista delle Erinni e paradossalmente sembra

non avere nulla a che fare con la sua coscienza di colpevolezza o con i suoi stati psichici.

Oreste è totalmente convinto della giustizia della propria azione e rimane tale fino alla sua

assoluzione. Non vi assolutamente alcuna connessione fra senso di colpa e stato mentale: il

suo dubbio alla vista del seno materno scaturisce dalla paura delle Erinni della madre, non

da un rinnovato amore per la madre. Quando Oreste dice:

Ὀρέστης ἀλλ᾽, ὡς ἂν εἰδῆτ᾽, οὐ γὰρ οἶδ᾽ ὅπη τελεῖ,

ὥσπερ ξὺν ἵπποις ἡνιοστροφῶ δρόμου

ἐξωτέρω: φέρουσι γὰρ νικώμενον

φρένες δύσαρκτοι: πρὸς δὲ καρδίᾳ φόβος

ᾁδειν ἕτοιμος ἠδ᾽ ὑπορχεῖσθαι κότῳ.

72 Di Marco 2000, p. 282.

60

ἕως δ᾽ ἔτ᾽ ἔμφρων εἰμί, κηρύσσω φίλοις

κτανεῖν τέ φημι μητέρ᾽ οὐκ ἄνευ δίκης,

πατροκτόνον μίασμα καὶ θεῶν στύγος.

Aesch. Ch. 1021-1029

nessun collegamento viene tracciato fra l’azione e l’incipiente pazzia. Vi è unicamente il

convincimento di aver operato nel giusto e poiché l’ordine di Apollo non avrebbe potuto

essere disatteso senza gravissime conseguenza per Oreste stesso.

In Euripide invece, l’atteggiamento tenuto da Oreste nella medesima situazione è

diverso. Il dramma si colloca temporalmente sei giorni dopo l’assassinio della madre. La

follia di Oreste viene presentata immediatamente come uno stato mentale, dalle parole della

sorella, Elettra, che lo assiste nel delirio:

Ἠλέκτρα [...] χλανιδίων δ᾽ ἔσω

κρυφθείς, ὅταν μὲν σῶμα κουφισθῇ νόσου,

ἔμφρων δακρύει, ποτὲ δὲ δεμνίων ἄπο

πηδᾷ δρομαῖος, πῶλος ὣς ὑπὸ ζυγοῦ.

Eur. Or. 42-45

Il vendicatore non è più in uno stato di superiore integrità morale, dettata dalla protezione

della divinità. Lo stesso dolore è vissuto da Elettra, quando pronuncia sul corpo

addormentato di Oreste:

Ἠλέκτρα ἔκανες ἔθανες, ὦ

τεκομένα με μᾶτερ, ἀπὸ δ᾽ ὤλεσας

πατέρα τέκνα τε τάδε σέθεν ἀφ᾽ αἵματος:

ὀλόμεθ᾽ ἰσονέκυες, ὀλόμεθα.

σύ τε γὰρ ἐν νεκροῖς, τό τ᾽ ἐμὸν οἴχεται

βίου τὸ πλέον μέρος ἐν στοναχαῖσί τε καὶ γόοισι

δάκρυσί τ᾽ ἐννυχίοις, ἄγαμος

ἐπὶ δ᾽ ἄτεκνος ἅτε βίοτον ἁ

μέλεος ἐς τὸν αἰὲν ἕλκω χρόνον.

Eur. Or. 195-207

61

Tali parole sembrano proiettare uno stato di futulità interiore, sofferenza, uno stato di

disintegrazione sotto l’impatto delle passioni innaturali, mentre la sterilità, che risulta

quando le forze della vita sono distrutte, è indicata dall’ultimo verso. Ogni frase sembra il

seme di un’esperienza interiore. L’indagine nella psiche del personaggio è andata crescedo:

con la nuova dimensione psicologica data da Euripide, la tragedia greca muove i suoi ultimi

passi nel suo percorso di maturazione e cambiamento. Nel processo, qualcosa della

grandezza cosmica di Eschilo e la concentrazione e concisione di Sofocle viene perso ma la

tragedia diventa definitivamente più moderna. Sarà l’Oreste di Euripide a dire, con

impressionante modernismo:«δουλεύομεν θεοῖς, ὅ τι ποτ᾽ εἰσὶν οἱ θεοί» (v. 418). Se Amleto

è stato chiamato il più moderno fra i drammi shakespeariani, è anche il più vicino allo

spirito euripideo, e l’Oreste di Eupiride è più simile ad Amleto che all’Oreste di Eschilo.

In Eschilo non vi è senso di colpa, mentre in Euripide il protagonista è torturato dal

senso di colpa, così come Amleto è torturato dal senso di colpa dovuto alla sua

identificazione con la madre. Quando Menelao gli domanda quale malattia lo distrugge, il

giovane risponde:

Ὀρέστης ἡ σύνεσις, ὅτι σύνοιδα δείν᾽ εἰργασμένος.

[… ]

λύπη μάλιστά γ᾽ ἡ διαφθείρουσά με —

Eur. Or. 396, 398

La coscienza fa la sua prima apparizione all’interno della vicenda. Per la prima volta nel

dramma attico il protagonista si assume piena responsabilità dell’atto compiuto e vuole

trovare una maniera per riscattarsi. Si assiste agli albori della nascita dell’Amleto

shakespeariano, in cui la dimensione interiore rappresenta l’aspetto più originale del

personaggio e quello che motiva la dilazione della vicenda per tre lunghi atti (dal secondo

al quarto) senza che si porti a compimento la vendetta nel modo lineare e rapido con cui si

presenta nelle Coefore.

62

3. 6 Vendetta e adulterio

Il fantasma esorta categoricamente Amleto:

GHOST List, list, oh list!

If thou didst ever thy dear father love -

[...]

Revenge his foul and most unnatural murder.

Amleto, 1.5.22-23,25

e ancora:

GHOST If thou hast nature in thee bear it not;

Let not the royal bed of Denmark be

A couch for luxury and damned incest.

Amleto, 1.5.81-83

L’allusione all’assassinio e all’incesto inizia da questo momento a essere predominante

nella conscienza di Amleto e sebbene la sua «prophetic soul» avesse già sospettato di

Claudio, la sua mente è ora preoccupata dall’idea del «dammed incest». La sua mente

lavora così su due livelli: consciamente sa di dover vendicare la morte del padre, mentre

inconsciamente è proteso ad analizzare la colpa della madre. Entrambi i temi assumono una

valenza enorme per Amleto che si sente quasi soffocato dal peso del male che lo circonda.

Ne risulta una struttura drammaturgica particolare, che assume le sembianze di un ‘giallo’

di stampo psicologico, ma lo stesso Amleto non può scappare a momenti di «sore

distraction» che, la maggior parte delle volte, si manifestano in forma di pazzia. Il

riferimento alla presenza del male viene presentato in numerose battute di Amleto:

HAMLET The time is out of joint: O cursed spite,

That ever I was born to set it right. –

Amleto, 1.5.189-90

Qui, la distorsione e il dolore non sono da intendersi esclusivamente in connessione alla

vendetta dell’assassinio del padre, ma indicano uno stravolgimento del giusto equilibrio

63

delle cose nel mondo, il prevalere del male sul bene: avviene un passaggio dal particolare al

generale e la sua condizione personale diviene immagine della condizione umana generale.

Nell’Orestea l’imposizione di Apollo non lascia spazio a valutazioni e reazioni

individuali di Oreste: si tratta di un comando divino la cui inadempienza minaccia tremende

conseguenze (non ci sono minacce da parte del fantasma in Amleto).

Ὀρέστης οὔτοι προδώσει Λοξίου μεγασθενὴς

χρησμὸς κελεύων τόνδε κίνδυνον περᾶν,

κἀξορθιάζων πολλὰ καὶ δυσχειμέρους

ἄτας ὑφ᾽ ἧπαρ θερμὸν ἐξαυδώμενος,

εἰ μὴ μέτειμι τοῦ πατρὸς τοὺς αἰτίους:

τρόπον τὸν αὐτὸν ἀνταποκτεῖναι λέγων,

ἀποχρημάτοισι ζημίαις ταυρούμενον:

αὐτὸν δ᾽ ἔφασκε τῇ φίλῃ ψυχῇ τάδε

τείσειν μ᾽ ἔχοντα πολλὰ δυστερπῆ κακά.

τὰ μὲν γὰρ ἐκ γῆς δυσφρόνων μηνίματα

βροτοῖς πιφαύσκων εἶπε, τὰς δ᾽ αἰνῶν νόσους,

σαρκῶν ἐπαμβατῆρας ἀγρίαις γνάθοις

λειχῆνας ἐξέσθοντας ἀρχαίαν φύσιν:

λευκὰς δὲ κόρσας τῇδ᾽ ἐπαντέλλειν νόσῳ:

ἄλλας τ᾽ ἐφώνει προσβολάς Ἐρινύων

ἐκ τῶν πατρῴων αἱμάτων τελουμένας:

Aeschl. Ch. 269-284

Non vi è traccia di libertà decisionale o possibilità di allontanarsi dal compito imposto. Ma,

come anticipato, l’analisi di Shakespeare, delineata attraverso l’apprensione di Amleto nei

confronti del male nel mondo, si estende al di là dell’atto singolo dell’omicidio e

dell’adulterio. La visione di Eschilo mantiene una salda associazione fra vendetta e

comando divino fino alla fine della trilogia. Ciò non implica che non si venga a creare una

visione più profonda e generica di male, ma che vengono adottati mezzi differenti per farlo:

infatti è una delle funzioni del Coro quella di esprimere natura e condizione del genere

umano. Il male scaturisce dall’atto empio: omicidio e lussuria. Nell’Orestea, oltre al Coro,

vi è un altro personaggio che esplicita questa genealogia del male: Cassandra. La prima

64

visione dell’assassinio di Agamennone nella vasca si collega infatti a quella delle «stragi

consanguinee»73 e dell’«adulterio»74 all’interno della casa di Atreo. Insieme costituiscono il

complesso di mali che passano di generazione in generazione e che in ultimo si manifestano

nel tradimento di Clitemestra con Egisto e nell’assassinio di Agamennone. I due motivi

della vendetta e del tradimento sono ben evidenziati e costituiscono una sorta di traccia nell

schema generale della trama complessiva.

Egisto e Clitemestra uccidono il re. Inoltre il Coro accusa Egisto di aver sedotto la

regina e di essere un profanatore del talamo nuziale. Questi eventi coinvolgono due

personaggi: entrambi sono colpevoli e la punizione per le colpe di cui si sono macchiati è

loro inflitta in accordo con la nozione primitiva di giustizia, quella delle divinità ctonie.

Eschilo presenta tale nozione perché la pone a fondamento della successiva indagine in

merito al tema generale della giustizia: quella infatti è la prima, semplice tipologia

presentata da Eschilo nelle Coefore e che successivamente nelle Eumenidi evolve in un

nuovo concetto che corrisponde alla grazia connessa alle nuove divinità olimpiche, in

particolare a Zeus.

In Shakespeare non vi è questo equilibrio, questo schema causa-effetto. I motivi

dell’omicidio e dell’adulterio sono indagati nel dettaglio ma non si incastrano in uno

schema netto come in Eschilo. Omicidio e adulterio, incarnazioni del male, implicano un

insieme d’interminabili reazioni nella mente di Amleto e prima dell’atto finale la loro

natura, e la natura del male in generale, vengono sviscerate nel dettaglio. Nel vortice della

coscienza fanno il loro ingresso i dubbi. La preoccuapzione nei confronti del male, unita ai

dubbi, pongono Amleto di fronte a dei bivi. Così, mentre la trama procede, la vendetta su

Claudio è indefinitamente procrastinata e rifuggendo il mondo dell’azione, Amleto si

rifugia in quello del pensiero e della speculazione in cui la situazione individuale diventa

riflessione sulla condizione umana.

Dunque la trattazione della vendetta e dell’adulterio in Shakespeare, lungi

dall’essere immediata e semplice come in Eschilo, è complicata dallo spostamento

dell’analisi da un piano esterno a uno interno, da quello individuale a quello universale,

dall’azione alla riflessione e dall’aspetto puramente fisico a quello morale e spirituale del

73 Agamennone, vv. 1090-1092:«μισόθεον μὲν οὖν, πολλὰ συνίστορα / αὐτόφονα κακὰ καρατόμα, /ἀνδροσφαγεῖον καὶ πεδορραντήριον».

74 Agamennone, vv. 1191-1193:«ὑμνοῦσι δ᾽ ὕμνον δώμασιν προσήμεναι / πρώταρχον ἄτην: ἐν μέρειδ᾽ἀπέπτυσαν / εὐνὰς ἀδελφοῦ τῷ πατοῦντι δυσμενεῖς».

65

peccato. Per questo motivo la preoccupazione di Amleto riguarda soprattutto la questione

del peccato materno sul piano morale e spirituale. A tal proposito si è parlato di

atteggiamento edipico, intravedendo nel giovane un eccessivo attaccamento alla madre che

diventa ossessione di redimerla e di recedere dall’intento di uccidere Claudio.

Oreste al contrario non è minimamente coinvolto a livello emozionale nei confronti

della madre. Vi è un unico punto in cui tentenna sul da farsi, nel finale delle Coefore,

quando chiede aiuto a Pilade. Ma il suo imbarazzo non è legato alla sfera dei sentimenti, ma

sempre e solo a dei precetti culturali legati ai legami di consaguineità.

Amleto, a eccezione del primo in-folio in cui escplicita l’innocenza della madre,

sospetta della sua connivenza nell’assassinio del padre:

HAMLET A bloody deed? Almost as bad, good mother,

As kill a king and marry with his brother.

Amleto 3.4.28-29

La differenza sta nel fatto che il compito di Oreste è semplicemente quello di assolvere un

ordine divino e che Eschilo lo utilizza per illustrare il passaggio di un uomo dal ruolo di

vindice a quello di vittima per presentarne il processo come punto di svolta da un modello

di giustizia primitivo a uno nuovo e democratico. Eschilo è interessato a Oreste soprattutto

per questo aspetto e a Elettra nel suo spronarlo alla vendetta: una volta assolto tale ruolo, la

taglia fuori dall’azione. È il caratteristico comportamento senza psicologia di quasi tutti i

personaggi tragici eschilei. Anche il personaggio di Clitemestra non è compiutamente

delineato.

Diversamente, il Coro è coinvolto emozionalmente, generalizzando aspetti etici e

teologici degli eventi. In Eschilo, esso assolve alla funzione d’illuminare diversi aspetti

della situazione drammatica, incluse le sue implicazioni spirituali e i commenti su di esse,

così da evidenziare gli aspetti e le tematiche essenziali della tragedia. Il Coro può prendere

parte all’azione senza effettivamente parteciparvi, avvertendo o consigliando, ad esempio,

altri personaggi in situazioni critiche. All’epoca di Shakespeare, il Coro era praticamente

scomparso dalle scene ma la sua funzione viene rilevata da un diverso strumento

drammaturgico, il soliloquio: ogni personaggio, nei propri soliloqui, dice la verità, riguardo

a se stesso e agli altri, e persegue una specifica e personale norma etica, per quanto poi

66

possa comportarsi in maniera ingannevole nei confronti degli altri personaggi. Claudio ad

esempio rivela il suo crimine e prega di ottenere la redenzione nel soliloquio del terzo atto

(Amleto 3.3.36-72), esprimendo il contrasto fra la sua apparenza e la realtà.

Si potrebbe dire che Shakespeare riscrive il personaggio di Oreste ampliandone la

definizione psicologica. La situazione dei due è simile, ciò che li distingue è la profondità

emozionale. Kitto (1956, pp. 336-7), a conclusione della sua opera, scrive che «we may

compare Hamlet with Orestes. Externally, they are in a similar position. But when

Aeschylus has shown us that Orestes is an avenger pure in heart, and that his dilemma is

from every point of view an intolerable one, it is not far wrong to say that his interest in

Orestes, as a character, is exhausted; anything more would be unnecessary. Hamlet exists in

a different kind of tragedy, one which requires that we should see how the contagion

gradually spreads over his whole spirit and all his conduct». Addita la stessa mancanza di

profondità psicologica anche nei personaggi di Elettra e Oreste in Sofocle e propone quindi

un giudizio finale sulla differenza che sussiste fra tragedia greca e tragedia elisabettiana:

«Greek tragedy presents sudden and complete disaster, or one disaster linked to another in

linear fashion, while Shakespearean tragedy presents the complexive, menacing spread of

ruin; and that at least one explanation of this is that the Greek poets thought of the tragic

error as the breaking of a divine law (or sometimes, in Aeschylus, as the breaking down of a

temporary divine law), while Shakespeare saw it as an evil quality which, once it has

broken loose, will feed on itself

and on anything else that it can find until it reaches its natural end». Irving Ribner (1960)

analizzando lo sviluppo delle tragedie di Shakespeare nel corso della sua carriera, parla di

una ‘crescita nella visione morale’ (p. 7) e della tragedia come di una forma di religione

nella ricerca di una ‘affermazione di ordine’ (p. 9). Identificando Tito Andronico, Romeo e

Giulietta e Riccardo III come le tragedie ancora estremamente legate nella loro genesi al

modello senecano, riconosce che con l’Amleto e in ultimo con l’Otello, la tragedia di

Shakespeare raggiunge la sua vera maturità (p. 115).

L’importanza ascritta alla problematica del peccato e il relativo confronto con il

male stabilisce un’identità, nella parte iniziale dello schema dell’Amleto e dell’Orestea, fra

le due rispettive ambientazioni, la Danimarca e Argo. I sentimenti di Amleto nei confronti

del suo Paese lo portano a descriverlo come fosse una specie d’inferno. Tali sentimenti sono

67

così preponderanti nel corso dei primi tre atti che costituiscono una sorta di progressione

attraverso di esso. Il viaggio in Inghilterra, la sua prigionia e il ritorno in Danimarca che

occupa il terzo atto, preparano un cambiamento di prospettiva, come se lui emergesse dal

lungo soggiorno nel regno del male e tornasse, finalmente, preparato all’azione. Si assiste a

una riconciliazione fra eventi e Destino, attraverso il principio del πάθει μάθος:

HAMLET There’s a divinity that shapes our ends,

Rough-hew them how we will -

Amleto, 5.2.10-11

È indotto ad accettare gli eventi e ad affermare che

HAMLET Not a whit, we defy augury. There is special providence in

the fall of a sparrow. If it be now, ’tis not to come; if it be not to

come, it will be now; if it be not now, yet it will come - the

readiness is all. Since no man of aught he leaves knows, what is’t

to leave betimes? Let be.

Amleto, 5.2.192-196

Questa accettazione del Destino e il riconoscimento del potere provvidenziale tramite un

percorso di sofferenza accomuna Amleto a Oreste, e l’opera shakespeariana, almeno in

qualche scena del finale, si avvicina allo spirito religioso dell’Orestea. Se la parte centrale

dell’Amleto può rappresentare una sorta di Purgatorio – il periodo di sofferenza e

apprendimento – il suo viaggio può essere visto come apportatore di un cambiamento in lui

e, in particolare, il contatto con l’acqua come una specie d’investitura battesimale. Si

potrebbe allora dire che, alla fine, Amleto perviene a uno stato di rigenerazione, anche se

solo parziale. Per quanto riguarda Oreste, la riconciliazione avviene solo per volere di un

evento superiore, il voto di Atena in assemblea, e si tratta comunque solo di una

riconciliazione ‘tematica’: le Erinni che si riconciliano con la città di Atene e con le divinità

olimpiche testificano tale valenza.

La risoluzione del conflitto è quindi parziale sia nell’Amleto che nell’Orestea: nella

seconda non vi è alcuna risoluzione del conflitto interiore del protagonista poiché questa

68

viene generata direttamente dall’alto, non da una presa di coscienza del personaggio,

nell’Amleto invece non vi è una totale risoluzione poiché di questi avviene la morte.

Eppure, nell’annuncio dell’arrivo del giovane Fortebraccio sembra leggersi la medesima

risoluzione ‘tematica’ presente nell’Orestea.

3. 7 Orazio e Pilade

Le Coefore si aprono con Oreste e Pilade che si lamentano sulla tomba di Agamennone.

Quando Elettra si avvicina accompagnata dalle donne del Coro, i due si nascondono.

L’episodio ha un analogo nella prima scena dell’atto finale dell’Amleto, quando il giovane e

Orazio si nascondono all’arrivo del corteo funebre che porta la salma di Ofelia. Mentre

Elettra piange sulla tomba del padre e si domanda dove sia il fratello, Oreste e Pilade

rientrano in scena fra lo stupore delle donne. Un movimento scenico simile avviene anche

nell’Amleto quando, dopo aver scoperto che la funzione funebre nel cimitero era in ricordo

di Ofelia, Amleto esce allo scoperto e interrompe i lamenti (e le maledizioni) di Laerte.

Già in un commento all’Amleto del XVIII secolo era stato notato il parallelismo tra

le coppie Amleto-Orazio e Oreste-Pilade75. Come compagno di Oreste, Pilade appare in tutti

e tre i tragici greci. Ma sia Eschilo che Sofocle lo trattano come un personaggio minore, e

solo Euripide presenta il rapporto tra Oreste e Pilade come un legame di armonia tra

individui di uguale statura (Eur. El. 82-85;. Eur Or. 1157-61).

L’Oreste di Eschilo mostra pochi segni di esitazione – fondamentalmente solo nel

finale ricordato in chiusura del paragrafo precedente – lasciando i dubbi e le perplessità al

Coro. L’Elettra di Sofocle si assume invece piena responsabilità delle sue decisioni, senza

mostrare dubbi, e non ha dunque alcun bisogno di appoggi esterni per intraprendere

l’azione. Infine, l’Oreste di Euripide è un personaggio per certi aspetti miserabile, caduto in

uno stato di fisiologica follia e stanchezza: è un eroe indebolito che necessita la presenza di

un altro elemento, oltre al Coro, destinato a sostenerne il ruolo di protagonista nella

vicenda. In realtà, tale ruolo di supporto, come già accennato, è presente nelle Coefore di

75 Cf. Davies (1784), III pp.1-152; Il parallelo fra Orazio e Pilade si accorda con quanto sostenuto da Bloom(1987) che vede in Orazio il personaggio che, amando Amleto, fornisce un legame tra lui e il pubblico;Amleto altrimenti, come un personaggio che «represents by negation» avrebbe perso la sua «universalityof appeal» (p. 61).

69

Eschilo (896-903) quando Pilade sprona Oreste alla vendetta. Appena tre versi sono

sufficienti a piegare la volontà del giovane, precedentemente sollecitato dal Coro a

commettere l’atto cruciale.

Il personaggio di Pilade di Euripide cessa di essere una mera ombra di Oreste ed

emerge per diventare una dramatis persona a pieno titolo. Pilade intende condividere il

destino di Oreste, condannato a morte, giustificando la decisione di morire insieme con la

sua partecipazione all’omicidio di Clitemestra.

Πυλάδης ἐπίσχες. ἓν μὲν πρῶτά σοι μομφὴν ἔχω,

εἰ ζῆν με χρῄζειν σοῦ θανόντος ἤλπισας.

Ὀρέστης τί γὰρ προσήκει κατθανεῖν σ᾽ ἐμοῦ μέτα;

Πυλάδης ἤρου; τί δὲ ζῆν σῆς ἑταιρίας ἄτερ;

Ὀρέστης οὐκ ἔκτανες σὴν μητέρ᾽, ὡς ἐγὼ τάλας.

Πυλάδης σὺν σοί γε κοινῇ: ταὐτὰ καὶ πάσχειν με δεῖ.

Ὀρέστης ἀπόδος τὸ σῶμα πατρί, μὴ σύνθνῃσκέ μοι.

σοὶ μὲν γὰρ ἔστι πόλις, ἐμοὶ δ᾽ οὐκ ἔστι δή,

καὶ δῶμα πατρὸς καὶ μέγας πλούτου λιμήν.

γάμων δὲ τῆς μὲν δυσπότμου τῆσδ᾽ ἐσφάλης,

ἥν σοι κατηγγύησ᾽ ἑταιρίαν σέβων:

σὺ δ᾽ ἄλλο λέκτρον παιδοποίησαι λαβών,

κῆδος δὲ τοὐμὸν καὶ σὸν οὐκέτ᾽ ἔστι δή.

ἀλλ᾽, ὦ ποθεινὸν ὄμμ᾽ ὁμιλίας ἐμῆς,

χαῖρ᾽: οὐ γὰρ ἡμῖν ἔστι τοῦτο, σοί γε μήν:

οἱ γὰρ θανόντες χαρμάτων τητώμεθα.

Eur. Or. 1069-84

Poco dopo Pilade occupa brevemente il centro della scena, quando medita il piano per

salvare le loro vite, proponendo un’impresa audace e sanguinosa. Euripide conferisce

all’ombra dell’eroe alcune delle funzioni di supporto ascrivibili, in precedenza, interamente

del Coro.

Al termine dell’Amleto, dopo il duello finale, Orazio mostra una φιλία nei confronti

dell’amico paragonabile a quella di Pilade per Oreste relativa al passaggio poco sopra

citato: anche lui infatti, vedendo Amleto morente, vorrebbe morire assieme a lui, e solo

70

l’ulteriore intervento di Amleto gli impedisce il gesto estremo.

HAMLET Heaven make thee free of it! I follow thee.

I am dead, Horatio. Wretched queen adieu.

You that look pale, and tremble at this chance,

That are but mutes or audience to this act,

Had I but time, as this fell sergeant death

Is strict in his arrest, oh I could tell you -

But let it be. Horatio, I am dead,

Thou livest; report me and my cause aright

To the unsatisfied.

HORATIO Never believe it.

I am more an antique Roman than a Dane.

Here’s yet some liquor left.

HAMLET As th’art a man,

Give me the cup. Let go, by heaven I’ll ha’t.

0 God, Horatio, what a wounded name,

Things standing thus unknown, shall live behind me!

If thou didst ever hold me in thy heart,

Absent thee from felicity awhile,

And in this harsh world draw thy breath in pain

To tell my story.

Amleto, 5.2.311-328

L’analogia dunque riguarda sia l’atto di φιλία dei rispettivi compagni nei confronti dei due

eroi, sia il successivo intervento dei protagonisti volto a impedire la morte di quelli.

Passando alla tragedia di Shakespeare, si potrebbe pensare che questi avesse

presente il modello euripideo Oreste-Pilade e che se ne sia appropriato in quanto istanza

innovativa del modello di relazione eroe-Coro (che ormai in epoca elisabettiana non

esisteva quasi più), e che lo abbia utilizzato nella forma della coppia Amleto-Orazio. Nel

contesto del parallelismo strutturale tra Oreste-Pilade e Amleto-Orazio si può fare

riferimento a quanto scrive Louise Schleiner (1990) a riguardo: «My hypotheses about

Pylades-Horatio and the churchyard scene are as follows. Early on in writing the play,

71

Shakespeare drafted the scenes where Horatio is the Pyladean foreigner — must have

Danish customs explained to him, reminisces about Wittenberg, and so forth. As the writing

proceeded, Shakespeare was working for scene from the Ur-Hamlet and had sometimes to

assign Horatio the habitué kind of functions. The churchyard scene, like the «foreigner»

aspect of Horatio, is, so far as anyone has known, an invention of Shakespeare’s: the two

features do not occur in Belleforest’s tale of Amleth, the source of the Ur-Hamlet, nor in

Saxo Grammaticus, nor in Fratricide Punished. If these two features did appear in some

source or analogue, it would be likely that they were in Shakespeare’s immediate source,

the Ur-Hamlet. In fact, we have no evidence that they appeared anywhere in versions of the

Hamlet story before Shakespeare».

Le analogie fra la vicenda di Oreste e quella di Amleto non si fermano

semplicemente alla trama: dall’analisi di molti passi finora discussi sembrerebbe che sia,

per certi versi, la struttura interna della tragedia ad aver subito influssi dal dramma attico. Il

personaggio di Orazio si staglia all’interno della vicenda in maniera diversa rispetto al resto

dei personaggi secondari: la sua sembra essere una ‘identità corale’. Generalmente il

personaggio di Orazio viene interpretato in maniera abbastanza linerare, come l’amico

(compagno di scuola e confidente) del protagonista. Quest’ultimo, incontrando Orazio per

la prima volta nel dramma, gli si rivolge con le parole «my good friend»76, mentre Orazio si

chiama suo «poor servant ever» (1.2.162-62). Si potrebbe quindi pensare che le parole di

Amleto in realtà non si propongano di definire il loro rapporto, ma semplicemente

d’indirizzare una forma standardizzata di saluto cordiale; nella stessa scena Amleto chiama

Orazio un «fellow-student», espressione abbastanza neutra. In alcuni episodi, ma in forma

molto velata, si potrebbe rintracciare l’intenzione di Amleto di fare di Orazio il suo

confidente (3.2.75-77; 3.2.300-304), ma alla fine ne trascura sempre i consigli. Già nelle

scene del fantasma (1.4-5) Amleto stenta a trattare Orazio come un ‘buon amico’, e nel

momento culminante non fa distinzione fra lui e Marcello (1.4.84-89). Questi pochi esempi

permettono di considerare l’interpretazione tradizionale di Orazio come amico-confidente

di Amleto, se non dubbia, quanto meno limitata. D’altra parte il personaggio di Amleto è

costitutivamente portato alla solitudine e la presenza del personaggio del ‘fidato buon

76 Anche in questo caso esiste un parallelo nell’Oreste di Euripide quando, dopo il dialogo con Menelao,Pilade entra in scena e viene salutato da Oreste con le parole «φίλτατον βροτῶν» (v. 725) e «ἡδεῖανὄψιν» (v. 727).

72

amico’ potrebbe apparire incongruente con tale caratteristica preponderante di Amleto. Di

conseguenza, la figura di Orazio può essere letta in vari modi, senza fissarsi su di un’unica

individualià: può essere percepito come la figura tipica dello ‘straniero’, o come quella di

un cortigiano danese, o di un filosofo, o un ufficiale che in precedenza aveva servito il

padre di Amleto. Queste sfaccettature multiple sono più che evidenti a chiunque avesse

letto con attenzione l’opera. Eppure, uscendo dallo schematismo tradizionale

dell’incasellamento dei personaggi all’interno di una cornice esegetica ‘moderna’, tutte

queste contraddizioni non sembrano essere particolarmente significative e paiono anzi

appianarsi se si considerassero la sua funzione e il suo ruolo nei termini del sistema

drammaturgico greco.

In contrapposizione alla tragedia classica, in cui i due elementi del Coro e del

protagonista hanno uno spessore scenico simile (e nella tragedia euripidea, quando il Coro

diventa più debole, la sua funzione sembra in parte riassegnata a Pilade), nell’Amleto

shakespeariano l’eroe si allontana spesso dai suoi compagni. La funzione del Coro viene

infatti parzialmente rilevata dai soliloqui: Amleto non ha lo stesso bisogno di sostegno che

invece caratterizza i personaggi tragici greci e tuttavia, nel finale, questo legame con Orazio

(più Pilade che Coro in questa scena) è definitivamente rinsaldato. Orazio, non morendo,

ricorda un eroe classico. Nell’ecatombe dell’ultima scena bisogna infatti notare più d’ogni

altra cosa le figure di Orazio e del giovane Fortebraccio: tramite essi l’ordine e la giustizia

vengono ristabilite nel regno di Danimarca, sia a livello etico e religioso che a livello

sociale e politico, esattamente come accade in tutti i drammi attici che trattano la vicenda di

Oreste, prima fra tutti l’Orestea.

3. 8 Ofelia ed Elettra

Il personaggio di Ofelia riveste un ruolo fondamentale nella tragedia di Amleto: in qualità

di donna amata dal principe danese ne rappresenta, secondo un’interpretazione di stampo

freudiano, il suo alter ego. Come Amleto, subisce la perdita violenta di un padre e

impazzisce, letteralmente, a seguito di questa. La tragicità del suo personaggio risiede,

esattamente come gli eroi della tragedia greca, nella sua innocenza, nell’essere sottoposta a

un destino crudele di cui non ha alcuna colpa. Il suo nome si ricollega al ruolo che

73

interpreta nella vicenda di Amleto, di amica e compagna, ma, nell’impossibilità di assolvere

ad esso, si riconnette al l’essenza stessa della tragedia. Il parallelo fra l’Elettra di Sofocle e

Amleto è già stato analizzato nell’ambito del discorso sul lutto e sul dolore. Se, nell’analisi

del dramma shakespeariano, si considera Ofelia come un’estensione psicologica del

personaggio principale, anche senza chiamare in causa interpretazioni psicanalitiche, è

possibile stabilire ulteriori analogie con il personaggio di Elettra, non sofocleo stavolta ma

euripideo77.

Le analogie più evidenti si trovano dell’Oreste. Tornando brevemente sul significato

etimologico e concettuale del nome di Ofelia, si può ricordare che Oreste chiami la sorella

«μόνην ἐπίκουρον» (Or. vv. 305-06): anche lei, come Ofelia, rappresenta l’unico vero aiuto

che ha il protagonista, differente, non superiore, rispetto a quello che interpretano Pilade e

Orazio. Sia l’una che l’altra donna necessitano l’intervento del proprio fratello per

vendicare la sorte del padre. È chiaro che una lettura di questo genere pone Laerte nella

posizione di Oreste e, conseguentemente, di secondo alter ego di Amleto.

OPHELIA I hope all will be well. We must be patient, but I cannot

choose but weep to think they would lay him i’th’ cold ground. My

brother shall know of it […]

Amleto, 4.5.68-70

Elettra, non diversamente da quanto accade in Sofocle, lamenta la propria condizione ma i

termini del suo lamento si ispessiscono con riferimenti alla condizione d’inferiorità che lei

vive in qualità di donna. Nel dialogo iniziale con il Coro, recita:

Ἠλέκτρα σύ τε γὰρ ἐν νεκροῖς, τό τ᾽ ἐμὸν οἴχεται

βίου τὸ πλέον μέρος ἐν στοναχαῖσί τε καὶ γόοισι

δάκρυσί τ᾽ ἐννυχίοις, ἄγαμος

ἐπὶ δ᾽ ἄτεκνος ἅτε βίοτον ἁ

μέλεος ἐς τὸν αἰὲν ἕλκω χρόνον.

Eur. El. 201-07

77 Marguerite A. Tassi (2011, p. 87) ricollega il personaggio di Ofelia anche a quello della Cassandraeschilea. Le visioni della sacerdotessa nell’Agamennone sarebbero simili a quelle di Ofelia,

74

Ofelia, dal canto suo, non si chiama da sé ἄγαμος, ma l’essere una donna ‘a metà’ è

riportato nelle parole di Gertrude durante il rito funebre per la sua morte.

GERTRUDE I hoped thou shouldst have been my Hamlet’s wife.

I thought thy bride-bed to have decked, sweet maid,

And not t’have strewed thy grave.

Amleto, 5.1.212-14

nel dolore per la morte della ragazza, mostra un attaccamento materno, rinforzando l’ipotesi

della relazione intrinseca che sussiste fra Ofelia e Amleto.

D’altra parte, il legame che c’è fra Oreste ed Elettra non è meno ambiguo di quello che si

instaura fra i personaggi della tragedia di Shakespeare. Anche in questo caso, sono le parole

stesse dei personaggi a indicare una somiglianza.

HAMLET I loved Ophelia; forty thousand brothers

Could not with all their quantity of love

Make up my sum. What wilt thou do for her?

Amleto, 5.1.236-38

Nella scena del cimitero, Amleto avvista il corteo funebre a cui partecipano la madre,

Claudio e Laerte e, dopo aver riconosciuto che è in onore di Ofelia, rivela il dolore per la

perdita della ragazza, amata da lui quanto e più di un fratello. Questo amore dai contorni

indefiniti è quello che lega anche Elettra e Oreste. Dopo aver saputo del destino di morte a

cui sono stati condannati dal popolo di Argo, entrambi si lasciano andare a dichiarazioni

d’affetto che superano in intensità il normale affetto fraterno.

Ἠλέκτρα ὦ φίλτατ᾽, ὦ ποθεινὸν ἥδιστόν τ᾽ ἔχων

τῆς σῆς ἀδελφῆς ὄνομα καὶ ψυχὴν μίαν.

Ὀρέστης ἔκ τοί με τήξεις: καί σ᾽ ἀμείψασθαι θέλω

φιλότητι χειρῶν. τί γὰρ ἔτ᾽ αἰδοῦμαι τάλας;

ὦ στέρν᾽ ἀδελφῆς, ὦ φίλον πρόσπτυγμ᾽ ἐμόν,

τάδ᾽ ἀντὶ παίδων καὶ γαμηλίου λέχους —

προσφθέγματ᾽ ἀμφοῖν τοῖς ταλαιπώροις πάρα.

75

Eur. Or. 1045-51

Se nel caso di Amleto l’amore sensuale si trasforma in amore fraterno, in Elettra e Oreste

avviene l’esatto contrario. I sentimenti, in entrambi i casi, si mescolano fra loro in una

commistione dai contorni non più netti. Credo che tale analogia sia una delle più incisive e

originali fra quelle che possono indicare un rapporto diretto fra Shakespeare e i classici

greci.

76

CONCLUSIONI

In questo lavoro ho tentato di delineare le caratteristiche che accomunano la tragedia

shakespeariana di Amleto ai drammi attici che hanno come argomento la vicenda di Oreste,

in particolare l’Orestea di Eschilo, l’Elettra di Sofocle e l’Oreste di Euripide. Un iniziale

raffronto fra le storie ha evidenziato un possibile collegamento a livello di mitologemi.

Agamennone come Horvendil (il padre di Amleto nella narrazione di Saxo) rappresenta il

topos del vecchio re ucciso a tradimento da un usurpatore e dalla propria moglie, divenuta

amante di quest’ultimo. La vicenda rappresenterebbe simbolicamente l’avvicendamento del

vecchio col nuovo. L’inserimento del personaggio del figlio è probabilmente un espediente

successivo, che non rientrava nel nucleo originario del mito. In questo, Oreste e Amleto

sono espressione del medesimo elemento: il giovane figlio che vendica la morte del padre

ingiustamente assassinato.

Le affinità di carattere mitico non spiegano però le numerose analogie testuali che si

incontrano procedendo nella lettura in parallelo delle opere. L’Amleto di Shakespeare

sembra essere una riscrittura in chiave moderna delle tragedie attiche. L’aspetto a mio

avviso più interessante della questione è rappresentato dalla struttura circolare della

tragedia elisabettiana: è sorprendente che Shakespeare apra e chiuda il suo dramma con due

episodi che ricordano da vicino l’inizio dell’Agamennone e quello delle Coefore. La scena

della guardia (primo atto) e quella della tomba (ultimo atto) sembrano essere allusioni

troppo esplicite alla trilogia eschilea perché si possa semplicemente parlare di coincidenza.

In epoca elisabettiana non era certamente possibile mettere in scena un dramma

simile, in lunghezza, a quelli attici poiché sarebbe risultato troppo breve. Le aspettative del

pubblico ai tempi erano ben diverse da quelle del pubblico ateniese di V secolo a.C.. Di

conseguenza risultava inevitabile un trattamento della vicenda più articolato a livello di

trama: si è visto che l’intreccio nell’Amleto prevede l’intersezione di tre trame

interconnesse, di cui la principale risulta quella della vendetta. D’altronde, le trame

secondarie si ricollegano anch’esse alla vicenda di Oreste. Ofelia rappresenta l’alter ego

femminile di Amleto mentre la vicenda di Fortebraccio sancisce nel finale una rinnovata

costituzione dell’ordine sovvertito. Non vi è un ritorno allo status quo né in Amleto né nelle

Eumenidi. Entrambe le tragedie chiudono un ciclo di evoluzione. Se nell’Orestea si assiste

77

alla consacrazione di un concetto di giustizia democratica e della supremazia delle divinità

olimpiche rispetto a quelle ctonie, nell’Amleto il cambiamento risiede nel passaggio da

un’investitura regale a carattere familiaristico ed ereditario (presentata tramite un ciclo di

morti violente) ad una a carattere meritocratico.

Amleto e Ofelia compendiano nella propria persona caratteristiche che

appartengono sia ad Oreste che ad Elettra. Il rapporto simbiotico che esiste fra le due

coppie è evidente in Euripide e in Shakespeare: un rapporto fraterno che sembra sfociare in

amore sensulae e, viceversa, un amore sensuale che assume caratteri di legame fraterno. La

dimensione psicologica dei personaggi elisabettiani non trova riscontro nei drammi eschilei.

Se qualcosa Shakespeare ha tratto da Eschilo, si è trattato di eventi e situazioni. Lo sviluppo

interiore è da ricollegare ad Euripide e, in parte, a Sofocle. I motivi del lutto e del dubbio

sono da ascriversi, rispettivamente, all’Elettra di Sofocle e all’Oreste di Euripide, a cui,

icasticamente, rimorde la coscienza, come rivelerà nel dialogo sticomitico con Menelao.

Ulteriori motivi di analogia si incontrano nell’analisi in parallelo dei personaggi di

Clitemestra e Claudio, e di Orazio e Pilade, mentre pare che la funzione assolta dal Coro

nella tragedia greca venga assunta tendenzialmente dai soliloqui dei personaggi

shakespeariani. I mezzi e le modalità espressive cambiano, ma i temi, gli episodi e i

personaggi mantengono un forte legame di affinità fra loro.

Quanto messo in luce non basta ad implicare un collegamento diretto fra

Shakespeare e i tragediografi attici, eppure resta il dubbio che negli anni ci si sia assestati

su un’opinione riguardante l’educazione del drammaturgo inglese più dettata da pregiudizi

che dall’effettivo parere che si può trarre da una lettura accorta dei suoi testi. I riferimenti

eruditi all’interno delle opere di Shakespeare sono numerosi e talvolta non si giustificano

facendo riferimento alla conoscenza che questi aveva della letteratura latina. Oreste e

Amleto rappresentano due facce della stessa medaglia e, forse, continuare perentoriamente

a negare il legame genetico che esiste fra i due è solo indicativo di una volontà di adeguarsi

ad una credenza generale, divenuta cogli anni imperante e difficile da confutare,

riguardante la genialità innata di Shakespeare e la paura di sminuirne la portata qualora

venisse indicata l’ascendenza classica, non più solo latina, di tante sue opere.

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