naturalizzazione della mente e pensiero riflessivo

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Naturalizzazionedellamenteepensieroriflessivo

ArticleinTeorie&modelli·February2014

CITATION

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136

2authors:

AldoStella

UniversitàperStranieridiPerugiaeUniver…

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UniversitàdegliStudidiPerugia

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Teorie & Modelli, n.s., XVII, 2, 2012, (25-47)

NATURALIZZAZIONE DELLA MENTE E PENSIERO RIFLESSIVO

NATURALIZATION OF THE MIND AND

REFLECTIVE THOUGHT

Aldo Stella* & John L. Dennis †

* Dipartimento di scienze Umane e Sociali, Università per Stranieri di Perugia & Dipartimento di Psicologia, Università “La Sapienza” di Roma. † Dipartimento di Psicologia, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

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Riassunto

Naturalizzazione della mente e pensiero riflessivo

Il programma di naturalizzazione della mente, inteso nella forma di un riduzionismo radicale, che mette capo alla concezione del monismo materialistico, trova un ostacolo nella naturalizzazione del pensiero riflessivo. Tale forma di pensiero, infatti, risulta irriducibile, proprio per il suo disporsi su due livelli diversi, quello del pensiero pensante e quello del pensiero pensato. La differenza che intercorre tra il pensiero riflessivo e le procedure meccaniche, cui il programma naturalista “forte” riduce la mente, è dunque sostanziale. Le seconde possono configurare solo implicazioni orizzontali; di contro, il pensiero riflessivo configura un’implicazione verticale, giacché l’atto di pensiero è implicato dalla procedura come emergente oltre di essa. Del resto, il programma naturalista non può prescindere dal pensiero riflessivo, per la ragione che è solo in virtù di tale pensiero che può valere quale programma. Il programma, infatti, si configura come progetto di ricerca in ordine ad un oggetto proprio perché emerge oltre l’oggetto stesso dell’indagine. Parole chiave: programma naturalista, naturalizzazione della mente, pensiero riflessivo, atto noetico, procedura dianoetica, implicazione.

Abstract

Naturalization of the mind and reflective thought

The naturalization of the mind program, understood in its radical form, that produces the conception of materialistic monism, has an obstacle: the naturalization of reflective thought. This form of thought is irreducible, because it is arranged on two levels: thought itself and meta-thinking (thoughts of thoughts). The difference between reflective thought and mechanical procedures to which a “strong” naturalist program reduces the mind it is therefore substantial. Mechanical thought procedures can only configure horizontal implications while reflective thought configures vertical: the act of thought emerges over procedures that require it. The naturalization of the mind cannot separate itself from reflective thought, because without the reflective thought the program naturalization of the mind could not even begin. The program, in fact, is configured as a research project for the reason that emerges beyond the object of research. Key-words: naturalist program, naturalization of the mind, reflective thought, noetic act, dianoetic procedure, implication.

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1. Introduzione Il presente lavoro intende analizzare il programma volto a naturalizzare l’epistemologia, che si è poi esteso fino a comprendere anche la naturalizzazione della mente. Esso si colloca, quindi, all’interno del dibattito presente in quell’ambito di ricerca denominato filosofia della mente, incentrato sul tema del rapporto mente-corpo nonché sul tema della coscienza. Ebbene, il nostro intento è quello di mostrare le conseguenze del programma naturalista, inteso nella sua forma di riduzionismo più radicale, facendo riferimento, in particolare, al pensiero riflessivo. Tale riferimento si impone per un duplice ordine di ragioni. Innanzi tutto, per la ragione che tanto le domande quanto le risposte in ordine ai temi indicati richiedono tale forma di pensiero. In secondo luogo, per la ragione che il programma naturalista, se interpretato come monismo materialistico, rischia di cancellare il pensiero riflessivo dall’ambito della ricerca scientifica condotta sui processi mentali e ciò in conseguenza del fatto che il pensiero riflessivo non può non venire inteso come una procedura logica o dianoetica che si fonda su un atto teoretico di intellezione, cioè su un atto noetico che la stessa procedura richiede come emergente oltre di essa. Per questa ragione il pensiero riflessivo deve venire distinto dalle procedure meccaniche che caratterizzano, per esempio, i processi cognitivi e la logica intesa come calcolo logico, ancorché proprio a procedure meccaniche, biologiche o cognitive, il programma naturalista riduca la mente dell’uomo. Nel caso la mente venga risolta in processi biologici, parleremo di riduzionismo materialista; nel caso venga risolta in processi cognitivi meccanici, parleremo di riduzionismo funzionalista. Poiché la naturalizzazione della mente, almeno nella forma più radicale, nega che si possa parlare di fenomeni emergenti, dal momento che afferma l’esistenza di un’unica realtà, quella rappresentata dai fenomeni fisici, ne consegue che intendere il pensiero come atto significa porsi fuori dal programma indicato. Perdere il valore dell’atto, inoltre, significa perdere il senso di una procedura di pensiero che non sia meccanica, ma illuminata e guidata dall’atto stesso.

2. Il programma naturalista Il termine “naturalismo”, come è noto, indica quella

concezione che poggia sull’assunto che nulla esiste fuori dalla natura. Ovviamente, anche l’uomo deve essere compreso, in tutte le sue

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manifestazioni, solo come essere naturale e sulla base degli stessi concetti utilizzati dalle scienze empiriche e sperimentali per la spiegazione del fenomeni naturali.

Il naturalismo, non di meno, abbraccia teorie che possono essere più o meno radicali (cfr. Agazzi & Vassallo, 1998). La teoria più radicale può venire definita naturalismo ontologico e per questa teoria la realtà è costituita esclusivamente dagli oggetti indagati dalla fisica, così che naturalismo ontologico e fisicalismo tendono a coincidere e si parla di naturalismo fisicalista. Di contro, il naturalismo epistemico afferma che l’unica forma di conoscenza è quella offerta dalle scienze naturali e, soprattutto, dalla fisica.

Va notato altresì che alcuni studiosi (per es., De Caro & Macarthur, 2004) preferiscono parlare di naturalismo scientifico e naturalismo liberalizzato. Con la prima espressione si fa valere la concezione di coloro che tendono a rifiutare tutte le entità e le proprietà refrattarie alla naturalizzazione (per es., Field, 1992). Di contro, con la seconda espressione si fa valere la concezione secondo la quale l’ambito di ciò che è naturalisticamente accettabile è più vasto dell’ambito di studio delle scienze della natura (per es., McDowell, 1993).

Fermo restando, insomma, che il naturalismo tende a rifiutare ogni forma di “soprannaturalismo”, il vero problema consiste nel definire la categoria del “naturale” e cioè se essa debba comprendere solo ciò di cui si occupano le scienze della natura (De Caro, 2006).

In questo lavoro, noi concentriamo l’attenzione sulla forma più radicale di naturalismo, che mette capo ad un riduzionismo estremo e alla concezione del monismo materialistico. Il naturalismo ontologico, pertanto, non verrà qui considerato nell’accezione proposta, ad esempio, da Boniolo (2006), per la quale esso si configura come «quella posizione filosofica secondo cui la nostra ontologia è composta di un “qualcosa” di naturale» (p. 100), ma nell’accezione per la quale esso riduce tutta l’ontologia a cose esclusivamente naturali o materiali, così da configurare un riduzionismo radicale, e non un riduzionismo solo locale, che è poi quello proposto dallo stesso Boniolo (p. 109).

Gioverà ricordare, ad ogni buon conto, che il programma naturalista è stato applicato in primo luogo all’epistemologia e Quine (1969) ha proposto di assumere la teoria della conoscenza come un capitolo della psicologia. Più precisamente, la conoscenza che l’uomo ha del mondo, secondo Quine, deriva da ciò che egli percepisce e la percezione deve venire pensata come un rapporto naturale, ossia come un rapporto che si instaura tra due esseri naturali (uomo e mondo). Tale rapporto si fonda sulle stimolazioni sensoriali e, dunque, su relazioni causali e la scienza che studia queste relazioni causali è appunto la psicologia. Quest’ultima, del resto, si occupa anche di un’altra relazione causale, quella che sussiste tra gli oggetti, in quanto conosciuti, e gli oggetti intesi come reali, cioè come oggetti del mondo, presupposti nella loro indipendenza e autonomia rispetto al loro venire conosciuti.

La domanda cui si deve cercare di fornire risposta non è più quella, di origine kantiana, “Come è possibile la conoscenza?”, ma diventa “Come si realizza di fatto la conoscenza, che è un processo naturale e causale?”. Va rilevato che, quando Quine propone il suo programma, ha come riferimento il modello comportamentista. La successiva rivoluzione cognitiva, non di meno, non lo indebolisce,

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ma anzi lo rende ancora più convincente. Tale rivoluzione, infatti, si fonda primariamente su un cambiamento molto significativo di paradigma che avviene in fisica, dove la teoria dell’informazione apporta una ventata di novità. Il concetto di informazione diventa così elemento fondamentale anche per spiegare la mente e il suo funzionamento.

3. Naturalizzazione della mente e prospettiva

cognitivista

Se i comportamentisti avevano semplicemente negato la mente, o la sua rilevanza in ambito scientifico, i cognitivisti, invece, considerano la risposta ad uno stimolo funzione anche di variabili nascoste, ossia di processi interni, non direttamente osservabili. Ebbene, tali processi interni sono i processi cognitivi, intrinsecamente legati alla componente cognitiva dello stimolo, l’informazione, e alle regole con cui tale informazione viene processata. La mente, cacciata dalla porta, rientra così dalla finestra, perché ora non si ritiene più che sia scientifico solo ciò che è osservabile, bensì viene considerato scientifico anche ciò che è computabile, perché può venire poi riprodotto da un elaboratore artificiale, dunque perché è simulabile. La Computer Science ha fornito un grande contributo al sorgere del modello cognitivista classico o simbolico, giacché la mente è stata assimilata al software di un computer, il cui hardware è biologico (il cervello) anziché elettronico. Il principio di implementabilità multipla, inoltre, prevede che uno stesso programma possa implementare più hardware, dato il carattere astratto della computazione. Quest’ultima viene così ad esprimere in forma esemplare l’attività della mente umana, che riceve, elabora e scambia informazione con l’ambiente. L’elaborazione, inoltre, è un’operazione di trasformazione di forme (le forme in ingresso o input) in altre forme (output) e avviene in conformità a regole, cioè in forza di processi meccanici (automatici, inconsci). Il programma di naturalizzazione dell’epistemologia, da un lato, si avvale della rivoluzione cognitivista; dall’altro, fornisce un significativo impulso ad un altro programma naturalista: quello volto a naturalizzare la mente, cioè a risolvere la mente in un insieme di processi equiparabili a processi naturali, perché descrivibili in termini causali. Nel caso in cui la mente viene risolta in processi cognitivi meccanici, si configura quello che abbiamo convenuto di definire il riduzionismo funzionalista; nel caso in cui viene risolta in processi biologici, si configura quello che abbiamo convenuto di definire il riduzionismo materialista, che si traduce nella concezione del monismo materialistico.

La psicologia scientifica naturalizzata, pertanto, si assume il compito di cogliere le leggi che stanno alla base dei processi mentali e la distinzione kantiana fra regno della natura e regno della libertà viene di fatto a cadere, perché anche la mente dell’uomo viene fatta rientrare nel regno della natura e pensata secondo processi soltanto meccanici, dunque secondo un modello determinista. Lo studioso che per primo ha coniugato il programma di naturalizzazione dell’epistemologia con quello di naturalizzazione della mente è stato Goldman (1978, 1986 e 1993) e con Goldman si

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afferma una scuola di pensiero che viene definita affidabilismo esternista. Per i sostenitori di questa concezione, le credenze che l’uomo si forma intorno al mondo sono legittimate non dal rispetto di determinati principi teorici o dalla conformità a criteri stabiliti teoricamente (come è per la concezione internista), ma dalla affidabilità del processo causale, ossia sono giustificate da un assunto. L’assunto è che i processi causali che danno luogo alla configurazione del campo percettivo, dunque del mondo con cui l’uomo ha a che fare, sono appunto una garanzia sufficiente per la verità delle credenze che l’uomo si forma intorno ad esso. Di contro, la credenza non sarà giustificata se il suo processo di formazione non procede, o procede in modo non affidabile, dall’oggetto o dall’evento cui il contenuto della credenza si riferisce. Ciò implica che la giustificazione consiste nella determinazione delle leggi causali che conducono, in una percentuale di casi molto alta, a credenze vere. Anche le credenze che derivano da fonti diverse dai canali sensoriali – per esempio, da ragionamenti o da catene di inferenze tra credenze, ma anche da processi non inferenziali – in tanto sono affidabili in quanto si fondano su processi causali, giacché per l’affidabilista un’inferenza è una relazione causale tra enunciati. L’obiezione che può venire rivolta all’affidabilista è che questa sua teoria non si fonda solo su leggi causali, ma anche su ragioni che siano in grado di legittimarla, così che almeno la credenza da essa espressa non si fonda soltanto su un processo causale. Tuttavia, per rispondere all’obiezione, l’affidabilista non usa una contro-argomentazione, bensì sostiene che la naturalizzazione dell’epistemologia non prevede una meta-epistemologia, cioè un livello ulteriore sul quale si dispone la riflessione critica concernente il primo livello. V’è, insomma, un unico livello, quello della epistemologia, perché un livello propriamente teorico, o meglio teoretico, dove si decide della natura della giustificazione e della conoscenza non può esistere, se distinto da quello nel quale effettivamente conosciamo attraverso la scienza. Da un lato, si fa valere così la naturalizzazione del metodo del conoscere; dall’altro, la naturalizzazione dell’oggetto stesso del conoscere, cioè la mente dell’uomo. In una qualche misura, quindi, si procede a naturalizzare il soggetto che mette in atto il processo conoscitivo, riducendolo ad un qualunque altro oggetto e perdendone quell’emergenza che dovrebbe connotarlo in quanto soggetto. Si potrebbe dire che, se la mente che conosce, analogamente a quanto accade nella biologia, nella fisica e nella psicologia sperimentale, viene indagata a qualsiasi livello con lo stesso metodo con cui le scienze naturali studiano i propri oggetti, allora la naturalizzazione del metodo determina inevitabilmente anche la naturalizzazione dell’oggetto dello studio e, in ultima istanza, anche la naturalizzazione del soggetto conoscente.

4. Il monismo materialistico

Così Cimmino (2012) sintetizza la prospettiva naturalista: «Il fatto è che la caratteristica precipua della prospettiva naturalista è quella di ritenere che la realtà sia composta da un unico tipo di cose, fondamentalmente dalle entità indagate dalla fisica (si parla infatti di naturalismo fisicalista» (p. 55). La conseguenza, sul piano

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dell’indagine condotta sulla mente, è la seguente: «L’attività mentale è così considerata identica a quella del cervello, a sua volta identico a un insieme di processi fisici, per quanto incredibilmente complessi» (Ibidem). Indagare la conoscenza, per la forma più radicale e riduzionista di naturalismo, significa, dunque, non altro che indagare l’attività cerebrale deputata al conoscere. Non per niente, la stessa ricerca psicologica di tipo empirico e sperimentale viene considerata un livello di indagine ancora generico, quasi un preambolo di quella che sarà l’indagine neurobiologica e, infine, dell’indagine fisica, che costituisce per il naturalista la vera scienza di ciò che, approssimativamente, viene definito il mentale. Per questa ragione, il cognitivismo classico o simbolico è stato fortemente criticato, dal momento che basava l’analogia mente-computer sulla dualità di hardware (il cervello, nel caso della intelligenza biologica o naturale; il substrato elettronico, nel caso della intelligenza artificiale) e di software (l’insieme dei programmi che possono implementare tanto l’hardware biologico che quello elettronico). Il dualismo, insomma, viene considerato con sospetto in ogni sua forma, proprio perché contrasta con il programma naturalista, volto, nella sua forma più estremista, a ridurre l’oggetto di studio alla realtà fisica, considerata appunto l’unica realtà veramente esistente. Pensare la mente come una sostanza, una sostanza che pensa, per dirla con Cartesio, e contrapporla alla sostanza corporea, cioè alla materia, è un errore che non può più essere accettato, come esplicitamente afferma Damasio (1994). In effetti, come afferma Dennett (1991), «Fin dall’attacco ormai classico di Gilbert Ryle (1949) a ciò che egli chiamava “il dogma cartesiano dello spettro nella macchina”, i dualisti sono sulla difensiva. La posizione dominante, variamente espressa e sostenuta, è il materialismo: esiste un solo tipo di sostanza, e cioè la materia – la sostanza fisica di cui si occupano la fisica, la chimica e la fisiologia – e la mente è in un certo senso niente altro che un fenomeno fisico. In breve la mente è il cervello» (trad. it., p. 45). Il dualismo, secondo i sostenitori del monismo materialistico, non è in grado di spiegare l’interazione che sussiste tra la mente e il corpo: se la mente non è un insieme di stati fisici, come può influenzare il cervello? «Come è possibile – scrive ancora Dennett – che la sostanza mentale possa sia eludere tutti i rilevamenti fisici sia controllare il corpo?» (p. 47). In tal modo, la naturalizzazione radicale della mente mette capo al monismo ontologico, giacché implica tre punti fondamentali: i fenomeni mentali, in tutti i loro aspetti, coscienza e intenzionalità incluse, sono fenomeni naturali; tali fenomeni, quindi, sono descrivibili e spiegabili solo mediante ricerche empiriche, che si fondano sul principio di causalità e sono volte a reperire leggi; qualsiasi forma di dualismo interazionistico è errata, perché vìola il principio di chiusura del mondo fisico, secondo il quale nessun evento fisico può annoverare tra le sue condizioni di esistenza causalmente necessarie un evento che non sia anch’esso fisico. Anche fra i sostenitori dei qualia, cioè delle esperienze qualitative fatte in prima persona (come il percepire il profumo di una rosa o il colore azzurro del cielo), molti si sono convertiti al monismo materialistico. Searle (1997 e 2004), che pure ha difeso la realtà della coscienza in polemica con Dennett, non di meno ha

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parlato di monismo di sostanza e di dualismo di proprietà, nel senso che la materia sarebbe l’unica sostanza effettivamente esistente, ancorché essa si presenti in due proprietà distinte, una delle quali consiste appunto nel presentare stati di coscienza. Il monismo materialistico ha coinciso con il recupero di quel realismo metafisico, che pure era stato definito ingenuo, e questo recupero avviene anche da parte di chi, come per esempio Dennett (1991), non manca di descrivere accuratamente in cosa propriamente consista l’ingenuità: «Ingenuamente consideriamo quasi tutte le caratteristiche che rientrano nella nostra esperienza come proprietà oggettive delle cose esterne, osservate “direttamente” da noi, ma sin da bambini impariamo a riconoscere una categoria intermedia di oggetti – abbagli, luccichii, bagliori, macchie di colore – che sappiamo essere prodotti in qualche modo dall’interazione tra oggetti, la luce e il nostro apparato visivo. […] Varie forme di energia fisica bombardano i nostri sensi, subendo nei punti di contatto una “trasduzione” in impulsi nervosi che viaggiano verso il cervello. Quello che passa dall’esterno all’interno non è niente altro che informazione e benché la ricezione dell’informazione possa provocare la creazione di qualche oggetto fenomenologico (per esprimersi nel modo più neutrale possibile), è difficile credere che l’informazione stessa – che è soltanto un’astrazione concretizzata in qualche mezzo fisico modulato – possa essere l’oggetto fenomenologico» (trad. it., pp. 64-69).

5. La definitiva naturalizzazione della mente

La naturalizzazione della mente, se intesa in senso “forte”, cioè come riduzionismo radicale, da un lato è frutto della concezione del monismo materialistico; dall’altro, offre ulteriori argomenti al progetto di Quine volto alla completa naturalizzazione dell’epistemologia e all’affermazione di una prospettiva riduzionistico-fisicalistica. L’aspetto interessante, che merita di venire sottolineato, è che il rigido determinismo, operante all’interno di questa concezione, è stato messo in discussione dalla stessa fisica teorica e, in particolare, dalla fisica quantistica, che ha privilegiato un’interpretazione probabilistica dell’universo ultramicroscopico. Si viene così a determinare un curioso fenomeno: la psicologia, che ha come suo modello la fisica, finisce per proporre una concezione del mondo, cioè un materialismo assoluto, che la stessa fisica tende a mettere in discussione. Scrive, a questo proposito, De Caro (2002): «In effetti, le proprietà che alla materia venivano tradizionalmente attribuite (essa era vista come solida, estesa, isotropica, inerte, impenetrabile, ubiqua; inoltre si pensava che si conservasse e obbedisse a leggi rigidamente deterministiche) sono incorporate solo in parte, e talora non lo sono affatto, nella fisica contemporanea, e la stessa nozione di “materia” è stata ormai soppiantata da quella di “massa”. Inoltre, la fisica odierna ritiene che la massa possa scambiarsi con l’energia; che essa sia uno distorsione dello spazio, il quale a sua volta non è isotropico; che entità fisiche fondamentali come i campi non possiedano massa, e così via. Quindi poco, o nulla, sopravvive oggi del materialismo classico. Ma allora cosa intendono i filosofi contemporanei, specialmente quelli non digiuni di scienza, quando si dicono “materialisti”?» (pp. 168-169).

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La domanda posta da De Caro è, a nostro giudizio, fondamentale. Tuttavia, non ci pare che lo sforzo degli studiosi e dei ricercatori sia volto a fornire una qualche risposta ad essa. Ci sembra, al contrario, che si proceda eludendo tale domanda e ritenendola, semmai, un fastidioso ostacolo alla ricerca stessa. Quest’ultima, anche in ambito cognitivista, è in genere volta a realizzare il progetto di naturalizzare la mente, tant’è vero che la concezione cognitivista classica o simbolica è stata progressivamente sostituita dalla concezione sub-simbolica, fautrice del modello connessionista e delle reti neurali, ossia di reti artificiali che simulano il funzionamento delle connessioni tra i neuroni. In tale concezione il concetto di rappresentazione interna di stati esterni, che nel modello classico aveva avuto tanta importanza nel recupero della mente contro il riduzionismo comportamentista, subisce una profonda trasformazione. Per il modello classico la rappresentazione è un simbolo che viene elaborato da processi che avvengono in conformità a regole. Per questa ragione, una qualche forma di dualismo è ancora conservata, dal momento che la mente, cioè l’insieme dei simboli e dei processi cognitivi che si applicano ad essi, non sono la realtà, ma la rappresentazione della realtà. Inoltre, i processi elaborativi (il software) vanno distinti dal substrato (l’hardware) che essi vanno ad implementare; tale substrato è biologico (il cervello), nel caso della mente; elettronico, nel caso del computer. Di contro, per i sostenitori del modello connessionista le rappresentazioni sono sostituite da pattern di attivazione della rete, i quali sono il frutto di semplici effetti fisici di cause fisiche presenti nell’ambiente e la cui elaborazione non avviene in base a regole, ma in base ai pesi che caratterizzano le connessioni sussistenti tra le unità interne della rete. Questi pesi sono essi stessi entità e cause fisiche, in modo tale che la mente diventa pleno iure un oggetto naturale, venendo meno ogni caratteristica che possa differenziarla da oggetti fisici e da cause fisiche. Scrive, sul progetto naturalista, Parisi (2000): «L’eso-scienza dell’uomo è un programma di naturalizzazione degli esseri umani, dove naturalizzazione significa studiare gli esseri umani e i loro prodotti (il loro comportamento e la loro vita mentale, le società umane e il loro cambiare storico, le loro culture e tecnologie, l’arte, la filosofia, la religione, la stessa scienza) come oggetti naturali, in continuità con le scienze della natura, senza introdurre nessuna essenziale diversità tra gli esseri umani e il resto della realtà studiata dalla scienza. […] Quello che annuncia il programma di naturalizzazione è un ulteriore passo avanti in quella progressiva sostituzione della scienza alla filosofia che caratterizza lo sviluppo storico della conoscenza umana della realtà» (pp. 183-184). Ebbene, precisamente su questa sostituzione intendiamo ora riflettere. In effetti, l’espressione filosofia andrebbe adeguatamente specificata e noi riteniamo di poterlo fare indentificando il pensiero filosofico con il pensiero riflessivo e critico, cioè con quel pensiero che può svolgere la funzione critica e, soprattutto, autocritica perché è in grado di riflettere su sé medesimo. Considereremo filosofica, pertanto, ogni considerazione e ogni argomentazione che si costituisca in forza di tale pensiero, che potrebbe venire definito un pensiero di secondo livello, cioè un pensiero che può sottoporre ad

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indagine qualunque oggetto perché può assumere anche sé stesso come oggetto di indagine.

6. Il pensiero riflessivo

La funzione riflessiva del pensiero è stata al centro della ricerca filosofica. Aristotele si pone il problema del pensiero che pensa sé stesso già parlando dell’anima e del suo rapporto con gli intelligibili in atto (De anima, III, 429 b, 9), e perviene al concetto di «pensiero del pensiero (noesis noeseos)» (Metafisica, XII, 1072 b, 20), che viene inteso come il fondamento stesso dell’attività del pensare. Tommaso d’Aquino ribadisce che «l’intelletto riflette su sé stesso» (Summa theologiae, I, q. 85, a. 2) e Locke identifica la riflessione con la coscienza (Saggio sull’intelletto umano, II, 1, 4). Kant, parlando di Critica della ragion pura (1781-1787), lascia intendere che l’esercizio critico del pensiero si compie sia sulla ragione pura (genitivo oggettivo) sia in virtù della ragione pura (genitivo soggettivo) e Hegel identifica il principio con l’idea, la quale ha la capacità di sdoppiarsi, facendosi altra a sé stessa, pur rimanendo sé stessa. Infine, Gentile parla di “pensiero pensante” e di “pensiero pensato” (1913 e 1916), in modo tale che il pensiero pensato risulta essere il pensiero-oggetto e il pensiero pensante il pensiero-soggetto, ossia il pensiero che oggettiva sé stesso. Si potrebbe dunque affermare che la consapevolezza della sensazione, che in Aristotele si affianca all’autocoscienza, intesa come pensiero del pensiero, a muovere da Kant diventa il primo livello in cui si configura l’autocoscienza stessa, così che quest’ultima, nella prospettiva idealista, finisce per comprendere e inglobare la coscienza del sentire, che invece viene valorizzata nella sua specificità dalla concezione empirista.

A nostro giudizio, la dualità di pensiero pensante e di pensiero pensato ripropone, in qualche modo, la distinzione di nous e dianoia, proposta inizialmente da Platone (Repubblica, VI, 510 b) e ripresa poi da Aristotele (Metafisica, V, 6, 1016 b, 1-3 e VI, 4, 1027 b, 31-33). Il nous, infatti, può venire inteso come l’atto con cui il pensiero riconosce sé stesso, laddove la dianoia configura l’espressione dell’atto in forma oggettivata, dunque nella forma di una procedura logica o discorsiva.

Il problema consiste nell’intendere adeguatamente l’atto mediante cui il pensiero sa di essere pensiero. In genere, con l’espressione nous si intende un atto intuitivo, così che il sapersi del pensiero vale come quell’atto immediato che precede e fonda ogni mediazione, cioè ogni procedura. Se non che, in tal modo si vengono non solo a distinguere due forme di pensiero, ma si arriva al punto di contrapporle. A noi sembra di poter affermare, invece, che le due forme sono bensì distinte, ma sono intrinsecamente vincolate.

Quando il pensiero pensa sé stesso, infatti, esso da un certo punto di vista si differenzia, cioè si distingue in un pensiero pensante et in un pensiero pensato. Tuttavia, da un altro punto di vista, mantiene la sua identità di pensiero. Questa caratteristica del pensiero è veramente peculiare: il pensiero ha un’identità con sé medesimo che non va intesa nel senso di un’unità immediata, tale cioè che è sé stessa nel suo contrapporsi alla differenza. L’identità del pensiero, di contro, è mediata, dal momento che accetta la differenza e la ingloba

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come suo momento fondante. La mediazione, dunque, è la riflessione stessa. In virtù dell’atto riflessivo il pensiero si identifica differenziandosi e si differenzia identificandosi. Esso, pertanto, si presenta non come un’unità monolitica, cioè come un’unità statica e inerte – al modo di ogni altra determinazione empirica –, ma come un’unità dinamica e vitale.

Ciò significa che i contenuti del pensiero debbono venire considerati in una duplice valenza: essi, da un lato, valgono come “altri” dal pensiero; tuttavia, da un altro lato, costituiscono precisamente ciò che viene pensato e, quindi, risultano essenziali al porsi del pensiero in forma determinata. Se il pensiero non pensasse qualcosa, insomma, sarebbe pensiero di nulla: non sarebbe pensiero affatto. Per questa ragione abbiamo affermato che il pensiero fa della differenza il momento essenziale del suo costituirsi, quella differenza che invece sembra venir meno nei qualia. Del resto, la proprietà riflessiva indica proprio che, per pensare sé stesso, il pensiero non solo deve potersi differenziare, ma anche riconoscersi in questa differenziazione.

Quanto detto consente di comprendere il valore della proprietà riflessiva. Poiché il pensiero poggia sulla differenza, esso è sia l’atto noetico del suo sapersi sia la procedura dianoetica che lo esprime come discorso, cioè come linguaggio. Il linguaggio, in tal modo, rappresenta la differenza dal pensiero, che tuttavia non si oppone ad esso, ma che anzi lo compie e lo realizza. La nostra ipotesi (Stella e Dennis, in press) è, in conclusione, la seguente: il pensiero riflessivo può venire considerato come la sintesi di atto noetico e procedura dianoetica. Tale sintesi, non di meno, domanda di venire adeguatamente pensata. L’atto è l’emergere del pensiero sui suoi contenuti, emergere che consente al pensiero di staccarsi anche da sé stesso e di porre le proprie forme oggettivate. Queste ultime, invece, sono le modalità in cui il pensiero si svolge, ossia le forme che consentono al pensiero di esprimersi in un discorso (linguaggio), che può essere più o meno formalizzato. A nostro giudizio, ciò consente di superare sia il monismo sia il dualismo di sostanze.

Il medesimo concetto potrebbe venire espresso anche così: la procedura dianoetica vale come una duplice espressione. Innanzi tutto, essa esprime in forma discorsiva e determinata ciò che è stato oggettivato, e cioè il contenuto del pensiero. In secondo luogo, e questo ci sembra un punto di estrema rilevanza, essa esprime, anche se indirettamente, lo stesso atto oggettivante, dal momento che si pone come procedura solo in virtù del suo intrinseco rinviare a tale atto. In questo senso, la procedura può venire intrepretata come segno dell’atto che la legittima e la pone in essere.

Proprio perché implicato dall’oggettivazione, l’atto oggettivante è vincolato e, pertanto, perde quel valore assoluto che la concezione idealista gli ha invece attribuito. In tal modo, esso cessa anche di valere come un atto indicibile, necessariamente consegnato ad una concezione mistica del pensiero. Esso, insomma, si caratterizza sia per il fatto che emerge come la condizione dell’oggettivazione, e come una condizione che non può venire direttamente oggettivata (se venisse direttamente oggettivata, infatti, si richiederebbe una nuova condizione oggettivante, e ciò all’infinito); sia per il fatto che può venire oggettivato indirettamente, cioè mediante quelle forme procedurali che traducono orizzontalmente la sua emergenza verticale.

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Che è come dire: l’atto non può essere interamente oggettivato perché, se lo fosse, cesserebbe di valere come condizione oggettivante; né può essere direttamente oggettivato perché, se lo fosse, finirebbe per esserlo interamente. Di contro, venendo oggettivato indirettamente, viene anche oggettivato non interamente, e cioè attraverso forme espressive che valgono come suoi segni.

Questa a noi sembra una prospettiva che evita tanto il riduzionismo radicale, il quale mette capo necessariamente ad un monismo materialistico (fisicalistico), quanto, come detto, il dualismo di sostanze, proprio per la ragione che l’atto non è ipostatizzabile.

7. Naturalizzazione della mente e pensiero riflessivo Ci poniamo la seguente domanda: il programma di naturalizzazione della mente può prescindere dal pensiero riflessivo? Tale domanda si impone perché la caratteristica del pensiero riflessivo, come detto, è quella di essere soggetto e oggetto della riflessione stessa, così che la distinzione di livelli si impone necessariamente: il livello in cui il pensiero si pone come soggetto della riflessione non può coincidere con il livello in cui il pensiero si pone come oggetto della riflessione medesima. Proprio per questa sua caratteristica, il pensiero riflessivo esprime il passaggio dal pensare al sapere: il noema (il contenuto del pensiero) è saputo perché la noesis (l’atto pensante) riconosce sé stessa nella sua forma oggettivata (il noema, appunto) e questo riconoscersi del pensiero è precisamente il suo sapersi: il suo sapersi sapere. L’atto è innegabilmente implicato dalla procedura come suo fondamento e la procedura è ciò che l’atto inevitabilmente implica quale sua espressione in forma determinata (oggettivata). La prima implicazione è retroduttiva-ascendente; la seconda è deduttiva-discendente. Il pensiero riflessivo, in ragione del fatto che si struttura come duplice implicazione, del momento attuale e del momento procedurale, non può venire ridotto ad uno solo dei due momenti, cioè all’aspetto procedurale. La procedura, inoltre, va essa stessa intesa in un senso duplice: se si costituisce “in conformità a regole” secondo la forma automatica descritta per i processi cognitivi e che caratterizza anche la logica formale, allora vale come un calcolo, configurandosi come una manipolazione automatica (inconscia) di segni in base a regole (Marconi, 2001, pp. 31-79). Se, invece, essa si fonda sull’atto noetico, allora si trasforma in procedura dianoetica. In quest’ultimo caso, si tratta non tanto di un conformarsi a regole, come nel primo caso, quanto piuttosto di un seguire regole, poiché il momento procedurale è illuminato e guidato dall’atto di pensiero, che, sapendo sé stesso e il fine cui la procedura è rivolta, sa anche scegliere la procedura più adeguata per raggiungerlo. Va aggiunto, tuttavia, che la distinzione tra “seguire” una regola ed essere “conforme” ad essa, pur chiara in linea di principio, di fatto non è facile da riconoscere (Marconi, 2001, p. 54). Proprio per le ragioni indicate la proprietà riflessiva non può non venire distinta dalla proprietà ricorsiva, che esprime una procedura esclusivamente meccanica. Di contro, il pensiero riflessivo non è meccanico sia per la ragione che sceglie di seguire le regole e le regole da seguire, sia per la ragione che discute le premesse da cui

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muove nel suo procedere e, dunque, non assume acriticamente, ma prima di procedere retrocede problematicamente sui propri assunti. Il pensiero riflessivo sorge dalla domanda di verità e non da esigenze semplicemente funzionali o pratico-operazionali. Il tema della verità è del tutto estraneo al pensiero meccanico, nel senso che questa forma di pensiero è costretta semplicemente a presupporre la verità nella forma dell’assunto, il quale non può mai venire discusso dalla procedura che lo usa. Anche il tentativo di Tarski, volto a configurare una semantica logica in forza della distinzione di un duplice livello, quello del linguaggio-oggetto e quello del metalinguaggio, di fatto assume la verità come corrispondenza (adaequatio), senza avvedersi che proprio questa assunzione domanda di venire legittimata. Di contro, il pensiero riflessivo è non soltanto critico, ma è altresì autocritico, perché discute anche il proprio esprimersi in forme procedurali. Queste ultime vengono bensì riconosciute come inevitabili, ma l’inevitabilità delle forme espositive non viene confusa con l’innegabilità del fondamento. L’atto noetico, infatti, non può evitare di esprimersi in forme procedurali, dal momento che solo mediante esse acquista una determinatezza; tuttavia, non si riduce a nessuna forma oggettivata, per la ragione che la condizione oggettivante non può non emergere oltre ogni oggettivazione. Si potrebbe dire, quindi, che il pensiero riflessivo può porre sé stesso come oggetto di indagine critica perché svolge tale indagine in virtù della domanda di verità, che si pone nell’intenzione di discutere anche ciò che si usa per procedere, e cioè gli assunti e le regole. Tale intenzione di verità costituisce, dunque, l’essenza autentica del pensiero riflessivo e critico (Stella & Dennis, 2009), perché vale come fondamento di una ricerca che non trova un compimento empirico, giacché la verità che viene trovata, proprio perché relativa ad assunti, a regole e a contesti determinati, non esaurisce mai la verità che viene effettivamente cercata, e che si intende non sia condizionata da altro che da sé stessa. Ebbene, la domanda che si impone è la seguente: c’è spazio per il pensiero riflessivo in un programma di radicale naturalizzazione della mente? A nostro giudizio, l’emergere verticale dell’atto noetico viene negato dalla concezione rigidamente naturalista, che rifiuta ogni emergenza e ogni dualismo. Essa nega l’emergenza, perché riconosce e accetta un unico livello di conoscenza, quello descritto dalle scienze empiriche e sperimentali; rifiuta qualsiasi dualismo, perché si muove in una prospettiva di monismo materialistico e il concetto stesso di “atto di pensiero”, inteso come irriducibile alle forme da esso fondate, imporrebbe un dualismo che per questa concezione è inaccettabile. Per la prospettiva naturalista si danno solo procedure, esprimibili in forma di enunciati collegati tra loro in forza di implicazioni orizzontali, che dispongono l’implicato sullo stesso piano dell’implicante, così da produrre una reciprocità che non può non negare l’emergenza del fondamento sui suoi fondati. In quest’ultimo caso, infatti, non si ha a che fare con una implicazione orizzontale, ma con una implicazione verticale, per la ragione che il fondamento viene richiesto come emergente sul sistema che esso fonda, ossia come collocantesi su un livello diverso rispetto a quello del fondato. La sua emergenza oltre il sistema, del resto, è richiesta dal sistema stesso, che riconosce non soltanto l’impossibilità di

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assumere come fondamento un proprio elemento, ma anche la necessità di una condizione che sia fondante (condizionante) perché non viene essa stessa condizionata. L’atto di pensiero è estraneo alla concezione naturalizzata della mente, intesa nel senso di un radicale riduzionismo. Se, per usare un’espressione cara agli psicologi, lo si descrive come insight, cioè come intuizione, ebbene anche in questo caso esso costituisce un problema per la scienza naturalizzata, perché configura una forma di pensiero non descrivibile secondo i parametri delle scienze empiriche. L’illuminazione improvvisa, infatti, si dispone eccentricamente rispetto a quelle procedure che costituiscono l’unica forma di pensiero interamente determinabile e calcolabile. Ci si viene, pertanto, a trovare in una situazione che ammette due sole vie di uscita. Aut si nega il pensiero riflessivo, e allora si realizza una piena naturalizzazione della mente; aut si mantiene il pensiero riflessivo, ma allora il programma naturalista incontra un ostacolo significativo, almeno se il programma è volto a realizzare un riduzionismo radicale e mette capo ad una concezione di monismo materialistico. Nel primo caso, se cioè si negasse il pensiero riflessivo, allora eo ipso si perderebbe la stessa possibilità di giustificare come si sia potuto concepire il programma naturalista, come lo si sia potuto confrontare con altre prospettive e come lo si sia potuto scegliere, rifiutando legittimamente ogni altra concezione. Se, infatti, si desse il solo pensiero automatico, questo pensiero, da un lato, non saprebbe di essere tale; dall’altro, non potrebbe venire determinato come automatico, per la ragione che per determinare si deve differenziare e, dunque, esso risulta automatico soltanto se confrontato con un pensiero che automatico non è. Inoltre, tale pensiero non potrebbe venire utilizzato per raggiungere un qualche obiettivo, dal momento che il fine deve venire individuato e scelto da un pensiero che sia consapevole di sé, dunque da un pensiero riflessivo. Nel secondo caso, si sceglie di mantenere il pensiero riflessivo e si compie tale scelta perché si è consapevoli che non è possibile prescinderne. Si è consapevoli, detto con altre parole, che la stessa consapevolezza altro non è che il prodotto del pensiero riflessivo, grazie al quale non soltanto si pensa, ma si sa ciò che si pensa, incluso il fatto di sapere di pensare e, infine, di sapere di sapere. Se non che, se si mantiene il pensiero riflessivo, non si può non mantenere anche l’emergenza del pensare come atto oltre la procedura che su tale atto si fonda, così che risulta difficilmente praticabile la strada volta a naturalizzare radicalmente il mentale. In questo caso, infatti, il pensiero richiede due livelli nel suo disporsi riflessivamente: il livello in cui si pone il pensiero oggettivato e il livello in cui si pone il pensiero oggettivante. Per il programma naturalista, però, è accettabile soltanto il primo livello, perché solo il pensiero oggettivato può venire analizzato secondo il metodo e i criteri delle scienze empiriche. E tuttavia, in questa pretesa di attribuire l’essere solo a ciò che viene naturalizzato, ci si dimentica del significato che ha il participio passato. Esso indica il modo della passività, così che a rigore si dà un pensiero oggettivato in quanto, e solo in quanto, si dà un pensiero oggettivante o, in altre parole, la mente può venire naturalizzata in quanto, e solo in quanto, si dà anche una mente naturalizzante.

Pensare l’oggetto indipendentemente dal soggetto significa

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dimenticare che l’oggetto è ob-iectum, cioè “gettato davanti”. Se ciò di fronte a cui l’oggetto è gettato non fosse, nemmeno l’oggetto sarebbe. L’assolutizzazione dell’oggetto è insensata tanto quanto l’assolutizzazione del soggetto: entrambe non colgono la natura relativa, perché relazionale, tanto dell’uno quanto dell’altro.

Per questa ragione, quel naturalismo che mette capo alla concezione del monismo materialistico, in forza del riduzionismo radicale che propone, merita di venire adeguatamente discusso. 8. Monismo materialistico come assolutizzazione

dell’oggetto

Il monismo materialistico sostanzialmente coincide con l’assolutizzazione dell’oggetto e implica che all’oggetto viene sottratto il fondamento che è l’altro da sé, il soggetto appunto. Inoltre, se al sostantivo “monismo” si aggiunge l’aggettivo “materialistico”, allora si determina ciò che, invece, si postula come assoluto. Che è come dire: se una sola realtà effettivamente fosse, allora essa non potrebbe venire in alcun modo determinata, giacché ciò che pone la determinatezza di una qualunque identità è precisamente quel limite che identifica solo in quanto vincola l’identico al diverso. Orbene, il monismo materialistico, per un verso, pretende di affermare che solo la materia è, così da assumere la materia come l’assoluto stesso; per altro verso, pretende di determinare l’assoluto, specificandolo come “materiale”. Se non che, la specificazione in senso materiale dell’assoluto implica la negazione dell’assoluto stesso, perché implica quella relazione ad altro da sé che l’assoluto non può non escludere proprio in quanto assoluto. Dire “monismo materialistico”, insomma, è fare uso di un ossimoro: è come dire “circolo quadrato”. Inoltre, l’assolutizzazione dell’oggetto comporta la negazione di quanto viene affermato dalle stesse scienze cognitive, le quali definiscono l’oggetto un costrutto cognitivo, cioè non tanto la causa del processo percettivo, quanto l’effetto di tale processo. La causa sono gli stimoli e le informazioni in esso contenute; l’effetto è ciò che si produce a muovere dall’elaborazione di tali informazioni, che coincide precisamente con il percetto, cioè con l’oggetto della comune esperienza. Solo ingenuamente il percetto può venire fatto coincidere con un presunto oggetto reale, indipendente dal soggetto.

In riferimento al tema dell’oggettività, quindi, andrebbe adeguatamente considerato il ruolo che il sistema di rilevamento ha nella costituzione dell’oggetto rilevato. Se si riflettesse su tale questione, ci si accorgerebbe che non ha senso parlare di oggettività come se si trattasse di un dato o di un insieme di dati. L’oggetto della comune esperienza, insomma, non configura l’oggettivo, bensì l’oggettuale, ossia ciò che è in stretta relazione con il soggetto che quell’oggetto rileva. Di contro, l’oggettività, pensata in senso forte, non può non venire intesa come un ideale cui tendere, un ideale che ha una funzione fondamentale in ordine al processo conoscitivo: lo mantiene perennemente in vita. Infatti, ciò che viene di volta in volta trovato, e cioè le molteplici conoscenze che si riferiscono agli oggetti della comune esperienza, non esaurisce ciò che viene veramente

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cercato, cioè la realtà oggettiva colta nella sua indipendenza da ogni ipoteca soggettiva. Ciò consente di affermare che l’interpretazione del soggetto ha un ruolo decisivo anche nell’ambito delle scienze naturali e, dunque, consente di andare oltre la stessa contrapposizione del cosiddetto “argomento dei due regni”. Come indicato da Engel (1996), «pretendendo di essere una scienza naturale, la psicologia intende, esplicitamente o no, sottoporre la mente umana a una spiegazione di tipo causale paragonabile a quelle delle scienze naturali, e di conseguenza negare la libertà umana» (trad. it., p. 12). Se si intende salvaguardare proprio tale libertà, allora, secondo Engel, che riprende Kant, si deve fare ricorso all’«argomento dei due regni» o «argomento ermeneutico», per il quale «le scienze dell’interpretazione e della comprensione non possono fondarsi sugli stessi principi della scienze naturali» (p. 13). Ebbene, la nostra opinione è che la componente ermeneutica sia ineliminabile anche all’interno delle scienze della natura, poiché non soltanto la categorizzazione o codifica dell’evento la richiede, ma altresì la richiede il rilevamento dell’evento stesso, sempre vincolato ad un sistema messo a punto dall’uomo a muovere da determinate premesse. Il monismo materialistico tende pertanto a riproporre quel realismo metafisico che, come abbiamo cercato di evidenziare, non può non essere considerato ingenuo. Del resto, quando si parla di un’unica sostanza si capisce quale sia l’obiettivo, e cioè superare il dualismo mente-corpo, ma non si comprende come si possa negare ogni forma di dualismo. Come giustificare, infatti, la relazione? Quest’ultima non può non instaurarsi fra due termini, che sono richiesti come differenti l’uno dall’altro. Se non che, in una prospettiva di monismo materialistico questi due termini devono venire considerati due “accidenti” di un’unica sostanza, per usare una terminologia aristotelica, così che la loro differenza può venire prodotta solo dalla forma, visto che la sostanza permane appunto la medesima. In tal modo, però, si ripropone una nuova forma di dualismo, quello che sussiste tra materia e forma, come indicato dallo stesso Aristotele. Infine, è da rilevare che, se usando l’espressione “stati mentali” si intendesse sempre e comunque “stati cerebrali”, come un monismo materialistico conseguente e radicale esigerebbe, allora si farebbe fatica a comprendere come i nessi causali, che vincolano tra di loro gli stati cerebrali, possano tradursi in nessi logici, che strutturano l’argomentazione. L’implicazione, infatti, configura non una derivazione empirica, come il nesso causale, ma una inferenza logica, di per sé vincolata a regole e non a leggi induttivamente rilevate.

9. Conclusioni

Il programma di naturalizzazione della mente, se inteso nella forma di un riduzionismo radicale, trova un forte ostacolo nella naturalizzazione del pensiero riflessivo. Tale forma di pensiero, infatti, risulta non solo innegabile, poiché la sua negazione implica un nuovo atto di pensiero riflessivo, ma altresì irriducibile, proprio per il suo disporsi su due livelli diversi, quello del pensiero pensante

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e quello del pensiero pensato. Il primo emerge sul secondo e pertanto non vi si riduce. La differenza che intercorre tra il pensiero riflessivo e le procedure meccaniche di pensiero è dunque sostanziale. Le seconde possono configurare solo implicazioni orizzontali, dal momento che antecedente e conseguente si collocano al medesimo livello. Di contro, il pensiero riflessivo configura un’implicazione verticale, giacché l’atto di pensiero è implicato dalla procedura come emergente oltre di essa. Proprio per questa ragione il pensiero riflessivo, riproponendo quella dualità di livelli che il programma naturalista vorrebbe invece negare, non può non opporsi a tale programma. Quest’ultimo, d’altra parte, non può prescindere dal pensiero riflessivo, per la ragione che è solo in virtù di tale pensiero che può valere quale programma. Il programma, infatti, si configura come progetto di ricerca in ordine ad un oggetto proprio perché emerge oltre l’oggetto stesso dell’indagine. Bibliografia

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