leibniz e la relatività (versione italiana)

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1 Vincenzo De Risi Leibniz e la Relatività. Una discussione fra Hans Reichenbach e Dietrich Mahnke sulla teoria leibniziana del movimento e del tempo. § 1. Introduzione. Uno degli episodi più significativi della ricezione di Leibniz all’inizio del ventesimo secolo fu senz’altro la lettura delle sue opere di filosofia naturale come anticipazione della teoria della relatività di Einstein. Si credeva così di rialzare la fama di scienziato di Leibniz, troppo a lungo messa in cattiva luce, si diceva non senza qualche punta di nazionalismo, dalla brillante stella newtoniana; di confermare lo straordinario talento anticipatorio del filosofo, che aveva mostrato tutti i suoi segni nell’edizione della sua opera logica, ma anche in tanti altri campi della scienza – come si credeva e si scopriva allora; e magari persino di illustrare la neonata teoria di Einstein con qualche nome d’alto metafisico che la tenesse a battesimo. Non era certamente la prima volta che la fortuna leibniziana dovesse tanto a fraintendimenti e false tracce, e probabilmente non fu neppure l’ultima. Certo è che negli anni venti del Novecento era difficile veder menzionare Einstein, nei circoli filosofici almeno, senza che poche righe dopo si trovasse scritto il nome di Leibniz. Questa attitudine precursoria di Leibniz, che assunse talvolta la forma addirittura grottesca d’un grande pensatore che non aveva fatto niente altro che dire a mezza bocca ed quasi per metafora ogni trovata brillante che altri avrebbe poi messo a frutto, fu particolarmente dannosa, mi pare, nel caso della teoria della relatività. Anziché produrre, com’era per caso ma felicemente avvenuto altrove, fantasie fruttuose in filosofi e scienziati che si facessero continuatori, e anzi primi artefici, delle congetturate idee leibniziane, qui l’accostamento con Einstein produsse soprattutto una peggiore comprensione delle straordinarie novità fisiche della Relatività, e un quasi completo occultamento del senso storico ed epistemologico della dinamica leibniziana. I Relativisti erano troppo affaccendati a sviluppare quella scienza così ricca di promesse per dedicarsi all’esame storico accurato, e gli

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Vincenzo De Risi

Leibniz e la Relatività. Una discussione fra Hans Reichenbach e Dietrich Mahnke sulla teoria leibniziana del movimento e del tempo. § 1. Introduzione.

Uno degli episodi più significativi della ricezione di Leibniz all’inizio del ventesimo secolo fu senz’altro la lettura delle sue opere di filosofia naturale come anticipazione della teoria della relatività di Einstein. Si credeva così di rialzare la fama di scienziato di Leibniz, troppo a lungo messa in cattiva luce, si diceva non senza qualche punta di nazionalismo, dalla brillante stella newtoniana; di confermare lo straordinario talento anticipatorio del filosofo, che aveva mostrato tutti i suoi segni nell’edizione della sua opera logica, ma anche in tanti altri campi della scienza – come si credeva e si scopriva allora; e magari persino di illustrare la neonata teoria di Einstein con qualche nome d’alto metafisico che la tenesse a battesimo. Non era certamente la prima volta che la fortuna leibniziana dovesse tanto a fraintendimenti e false tracce, e probabilmente non fu neppure l’ultima. Certo è che negli anni venti del Novecento era difficile veder menzionare Einstein, nei circoli filosofici almeno, senza che poche righe dopo si trovasse scritto il nome di Leibniz. Questa attitudine precursoria di Leibniz, che assunse talvolta la forma addirittura grottesca d’un grande pensatore che non aveva fatto niente altro che dire a mezza bocca ed quasi per metafora ogni trovata brillante che altri avrebbe poi messo a frutto, fu particolarmente dannosa, mi pare, nel caso della teoria della relatività. Anziché produrre, com’era per caso ma felicemente avvenuto altrove, fantasie fruttuose in filosofi e scienziati che si facessero continuatori, e anzi primi artefici, delle congetturate idee leibniziane, qui l’accostamento con Einstein produsse soprattutto una peggiore comprensione delle straordinarie novità fisiche della Relatività, e un quasi completo occultamento del senso storico ed epistemologico della dinamica leibniziana. I Relativisti erano troppo affaccendati a sviluppare quella scienza così ricca di promesse per dedicarsi all’esame storico accurato, e gli

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storici seri da parte loro restavano impigliati nelle difficoltà del calcolo tensoriale e abbandonavano a metà l’impresa teorica. Ne nacque insomma più confusione che chiarezza, e taluni fraintendimenti che perseverarono per lungo tempo sia presso i fisici che presso i filosofi.

In questo panorama vi furono, tuttavia, alcune eccezioni notevoli di autori che riuscirono a dominare tanto le difficoltà tecniche della nuova teoria fisica che le fonti storiche leibniziane. Uno di costoro fu certamente Cassirer, che provenendo da studi leibniziani, e quasi neo-leibniziano egli stesso, arrivò a scrivere una fondamentale monografia sul significato filosofico della teoria einsteiniana – nella quale, con buona cautela, egli non vide senz’altro il necessario sviluppo dell’idea dinamica di Leibniz.1 Ma il maggiore contributo in questa direzione fu senz’altro quello offerto da Hans Reichenbach, il quale pubblicò sulla rivista Kant-Studien del 1924 un importante e celebre saggio sulla teoria del moto in Huygens, Leibniz e Newton, nel quale, fra le altre cose, metteva a paragone la filosofia naturale leibniziana con la teoria della relatività.2 Reichenbach era allora un qualificatissimo interprete delle implicazioni filosofiche della nuova fisica, e aveva già dedicato alla Relatività due importanti monografie, Relativitätstheorie und Erkenntnis Apriori del 1920, e poi la Axiomatik der relativistischen Raum-Zeit-Lehre del 1924, nonché una mezza dozzina di articoli specializzati; e anche la sua penetrazione storica dei testi leibniziani, sebbene non perfetta, risulta di gran lunga superiore a quella di molti suoi contemporanei.3

Questo articolo del 1924 attirò l’attenzione, fra gli altri, del fenomenologo Dietrich Mahnke, il quale poco intendeva la teoria di Einstein, ma molto aveva letto Leibniz, e già si era fatto fama considerevole, e giusta, di studioso leibniziano fra i migliori della sua generazione; nel 1917 aveva scritto un ardito libro, assai più teorico che storico, intitolato Eine neue Monadologie, nel quale tentava di coniugare, non senza qualche ingenuità, Husserl e Leibniz, e sul finire del 1924 stava rivedendo le bozze del suo libro storico su Leibniz, Leibnizens Synthese von Universalmathematik und Individualmetaphysik, che sarebbe stato pubblicato l’anno successivo.4 Proprio in quelle settimane, e anzi la vigilia di Natale

1 Cassirer 1920. Cassirer era troppo buon conoscitore di Leibniz, oltretutto, per non conoscere i luoghi “non-relativistici” delle opere fisiche leibniziane, che infatti nel saggio sulla Relatività subito menziona per mostrare come il concetto di relatività dello spazio e del moto non avesse raggiunto ancora la piena maturità nel secolo diciottesimo. La vicinanza di Leibniz ad Einstein, semmai, Cassirer la ravviserà nell’impianto metodologico generale, non nella dottrina fisica in senso stretto; cf. Cassirer 1943. 2 Reichenbach 1924a. Reichenbach lamenta qui (p. 417) che nessuno fino ad allora s’era ancora reso conto di come la teoria einsteiniana fosse figlia della filosofia naturale leibniziana, non Einstein medesimo, che aveva sempre discusso e combattuto la teoria newtoniana, e neppure “il primo relativista della nuova epoca”, Mach, il quale non aveva dedicato a Leibniz molto più che uno sprezzante commento sulla di lui sovrabbondante metafisica. E’ un’esagerazione, perché Cassirer aveva scritto il suo saggio già da quattro anni, e non era certo il solo a parlarne (vedi per esempio Enriques 1922); è vero però che fu proprio l’articolo di Reichenbach che aprì le discussioni “plenarie” del mondo accademico su Leibniz e la relatività. Anche la critica a Mach è un tanto ingenerosa, perché è anzi assai probabile che lo stesso Reichenbach abbia avuto l’idea di scrivere sulla teoria del moto di Leibniz e Huygens proprio perché nella Mechanik (Mach 1883) si contrapponeva la teoria di Newton a quella di questi altri due scienziati suoi contemporanei. 3 Oltre ai due libri Reichenbach 1920b e 1924c vedi almeno Reichenbach 1920a, 1921, 1922a, 1922b, 1922c, 1924b. Per un inquadramento storico dei contributi di Reichenbach sulla relatività vedi Hentschel 1990, pp. 358-64. 4 Mahnke 1917 e 1925.

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del 1924, Mahnke lesse il saggio di Reichenbach su Kant-Studien e subito gli scrisse critiche e domande. Reichenbach rispose una lettera cortese, e Mahnke ribatté dilungandosi alquanto sulla propria interpretazione della filosofia della natura leibniziana. Queste tre lettere, alle quali non sembra che ne siano seguite altre, sono oggi custodite negli Archives for Scientific Philosophy di Pittsburgh, e il lettore ne troverà una trascrizione in Appendice.5

Prendendo spunto dal breve ma vivace dibattito fra Reichenbach e Mahnke su Leibniz e la teoria della relatività, vorrei cercare di cogliere alcuni importanti punti di contatto, ma soprattutto di distanza, fra la lettura di Leibniz, a metà strada fra il neo-kantiano e l’empirista, propria di Reichenbach, e la lettura, di fenomenologia imperfetta vorrei dire, propria di Mahnke. Per molti versi infatti queste due interpretazioni rappresentano i poli opposti fra i quali situare tutte le altre esegesi dell’opera scientifica e metafisica di Leibniz, e il tema assai ristretto e tecnico della filosofia naturale leibniziana consente meglio di altri di metterne a fuoco le differenze e i punti di contatto. Appare anche evidente che entrambi gli autori, Mahnke e Reichenbach, debbono molto al confronto con Leibniz per la piena formulazione delle loro personali vedute filosofiche e addirittura per la parabola delle proprie idee sullo sfondo del mondo filosofico dell’epoca, e si può dunque sperare che la lettura incrociata delle due interpretazioni possa gettare luce tanto sulle dottrine di Leibniz quanto su quelle di due fra le maggiori scuole filosofiche del primo Novecento.

Varrà la pena di spendere qualche parola sui due protagonisti della corrispondenza (§§ 2 e 3), e poi vedere più dappresso alcune fra le differenze interpretative maggiori fra Reichenbach e Mahnke. I temi principali affrontati nella corrispondenza sono due: quello della relatività del moto, e quello della teoria causale del tempo, entrambi legati a doppio filo alle interpretazioni filosofiche della teoria della relatività. Esamineremo il primo ai §§ 4-9, e il secondo ai §§ 10-16.

§ 2. Reichenbach.

Hans Reichenbach (1891-1953) è un pensatore troppo noto perché occorra ripeterne la vita o la dottrina. Può essere utile tuttavia ricordare brevemente la sua situazione intellettuale nel 1924. Egli stava allora allontanandosi dalle posizioni (quasi) neo-kantiane abbracciate nella giovinezza. Il suo libro del 1920 sulla Relatività e la conoscenza a priori era d’impostazione vagamente neo-kantiana, e vagamente marburghese, e tentava di rileggere il trascendentalismo kantiano alla luce della teoria di Einstein. L’operazione gli riusciva a mezzo, e così Reichenbach da un lato conservava qualcosa del lessico e degli stilemi kantiani, e dall’altro andava esplicitamente oltre ogni ragionevole ortodossia reinterpretando arditamente il senso dell’apriorismo. Ciò non era in sé stesso sufficiente, pareva allora, per cessare d’essere kantiani, giacché in effetti anche Cohen, Natorp e Cassirer ammettevano senza difficoltà che in Kant v’era, sì, qualcosa di vivo, ma anche però molto di morto; e che si doveva badare allo spirito e non alla lettera della Critica. Ciò è particolarmente evidente nel rifiuto nettissimo di ogni forma di psicologismo nella lettura marburghese dell’opera di Kant. La Critica della ragion pura non parla della coscienza, ma della scienza: sensibilità, immaginazione, intelletto, sono nomi mal trovati per funzioni logiche; fenomeni e illusioni trascendentali sono oggetti d’una teoria epistemologica, non di 5 La segnatura della corrispondenza è HR-016-37-08, 09, 10. Queste carte sono pubblicate con la gentile autorizzazione degli Archives for Scientific Philosophy di Pittsburgh. Desidero ringraziare inoltre Ralf Krömer per avermi aiutato nella trascrizione delle lettere.

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una psicologia (trascendentale o no); spazio e tempo nulla hanno a che vedere con la fisiologia della percezione, ma solo con le condizioni generali della scienza della natura; e così via. Lo scopo della Critica, concludeva Cohen, non è di spiegare quel che avviene nel mio animo, ma ciò che c’è in un manuale di fisica.6 Reichenbach era più cauto, e non gli pareva che si potesse conservare Kant senza nessun elemento di fenomenologia della coscienza. Egli stesso indulge più volte, nel libro del 1920, a considerazioni psicologiche o addirittura fisiologiche; è già tuttavia evidentissimo che la dimensione propriamente epistemologica è l’unica che lo interessi veramente. Ed è anche evidente, d’altra parte, che egli avesse frainteso fin dal primo momento il senso dell’operazione trascendentale di Kant, sacrificandola al principio dell’empirismo.

In ogni caso proprio quel 1920 diede a Reichenbach occasione di ricredersi sulla propria interpretazione. Il suo libro provocò la reazione di Cassirer, che gli scrisse una lettera d’apprezzamento, nella quale tuttavia rimarcava che la lettura reichenbachiana di Kant era senz’altro troppo psicologista.7 E provocò anche la reazione di Schlick, il quale pure gli scrisse numerose e importanti lettere, nelle quali provava a convincerlo, e con successo, che il suo “a priori relativizzato” fosse assolutamente incompatibile con l’originario disegno kantiano in ogni sua verosimile interpretazione, e che i principi costitutivi con i quali Reichenbach rileggeva i principi trascendentali kantiani erano, a dirla chiaramente, niente altro che convenzioni.8 Fu così che Reichenbach abbandonò del tutto lo psicologismo, spinto da Cassirer e dal proprio demone, e insieme allo psicologismo però anche Kant, spinto da Schlick. Nel suo secondo libro sulla Relatività, quello del 1924, Reichenbach parlava ormai esplicitamente di convenzioni, e non di principi a priori, e avvertiva il lettore di tener ben distinte le condizioni logiche della conoscenza, che sole interessano, da quelle meramente psicologiche. Negli scritti dei medesimi anni, con la foga del convertito recente, in effetti, raramente Reichenbach perde l’occasione di parlar male di Kant e dei numerosi problemi del Criticismo, tutti legati alla dimensione psicologica e fenomenologica, anziché puramente logico-epistemologica, della teoria.9

E’ in questo momento che avviene l’incontro con Leibniz. Come era successo anche ad altri neo-kantiani marburghesi, e a Cassirer stesso, Reichenbach trova in Leibniz un Kant perfettamente spogliato dagli elementi psicologistici. Vi ritrova uno spirito simile a Kant, una simile attenzione alla teoria della scienza, un idealismo non incompatibile con l’empirismo ma per certi versi ad esso alleato, e pure un buon numero di altre teorie assai kantiane. Ma qui tutto appare sotto la luce della logica pura, come lì, in Kant, tutto era confuso dalla psicologia, dalle facoltà dell’animo, dall’Io, dall’appercezione, dall’intuizione e dalla volontà. Leibniz, questo Kant defenomenologizzato, potrà forse essere il padre nobile dell’impresa filosofica del nascente neo-empirismo berlinese.

6 Naturalmente le posizioni di Natorp erano molto più sfumate di quelle di Cohen, e più aperte verso una lettura fenomenologica della Critica. Cassirer su questo punto, però, sembra seguire più Cohen che Natorp. Sulle letture neo-kantiane della teroria della relatività vedi Ferrari 1995. 7 La lettera di Cassirer è anch’essa a Pittsburgh, segnatura HR-015-50-09. Essa è discussa in Ryckman 2003. 8 HR-015-63-22. Su questo scambio vedi Coffa 1991 e Friedman 1994. Negli stessi anni Schlick ribadiva anche pubblicamente le sue posizioni in Schlick 1921. 9 Vedi per esempio Reichenbach 1924a, p. 426. La critica di Reichenbach allo psicologismo era diretta contro la prospettiva Critica dei Kantiani della sua epoca, ma anche contro l’Empiriocriticismo (e insomma il positivismo fisiologizzante) di Mach.

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Reichenbach non poteva ignorare, naturalmente, che una vastissima parte della produzione filosofica leibniziana era dedicata proprio alla teoria della coscienza e della sensibilità, diciamo pure alla fenomenologia; e che l’autore dello Specimen Dynamicum e l’inventore del Calcolo aveva pur scritto i Nouveaux Essais. Ma il punto rilevante, crede Reichenbach, è che la fenomenologia leibniziana non s’insinua nella filosofia della natura. Non c’è nulla nelle ricerche di dinamica di Leibniz che faccia riferimento alla sua teoria della sensibilità: vi sarà forse troppa metafisica, e qualche richiamo di troppo a Dio (ma non poi molti, e spesso comunque più di facciata che di sostanza) ma nulla che richiami invece la struttura psicologica della coscienza. Leibniz come filosofo naturale si comportava da autentico fisico, e aveva prodotto una dinamica in stile marcatamente fisicalistico. Non così era Kant, invece, e nessuno può sperare di raccapezzarsi nei Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft senza aver prima digerito la Critica e tutto il sistema delle facoltà dell’animo. L’impresa di filosofia naturale kantiana è strutturalmente fenomenista, non fisicalista, agli occhi di Reichenbach, e dunque da rifiutare senz’altro.

E’ dunque così, con lo sguardo rivolto ad un Leibniz scienziato fisicalista e nemico d’ogni fenomenologia nella spiegazione della natura, che Reichenbach avvicina il problema della relazione fra dinamica secentesca e Relatività generale nel suo saggio del 1924 sulla teoria del moto.

§ 3. Mahnke.

Non è quindi difficile rendersi conto che l’interpretazione di Leibniz data dal fenomenologo Dietrich Mahnke (1884-1939) debba essere di segno radicalmente opposto.10 Egli aveva studiato con Husserl a Göttingen nei primi anni del secolo e si considerò sempre un suo discepolo fedele; fra i due esiste una lunga e importante corrispondenza.11 A partire dal 1912 Mahnke aveva cominciato a pubblicare opere su Leibniz, sia di carattere storico che teorico, e Leibniz era divenuto ben presto il centro dei suoi interessi filosofici.12

L’interpretazione mahnkiana di Leibniz svolge, almeno fino alla metà degli anni venti, le direzioni che Husserl stesso aveva qua e là indicato nelle sue opere, non senza tuttavia che vi fosse un qualche ritorno intellettuale e che Husserl stesso apprendesse qualcosa dalle ricerche storiche del proprio allievo. Semplificando un poco, sembra che l’interpretazione husserliana di Leibniz abbia attraversato tre fasi.13 Negli ultimi anni del diciannovesimo secolo Husserl, tutto intento alla preparazione delle Logische Untersuchungen, dovette trovare in Leibniz soprattutto il logico antipsicologista e l’autore di un progetto di Mathesis Universalis che egli trovava prossimo alle proprie ricerche.14 Le prime opere di Mahnke su Leibniz trattano soprattutto questi temi di logica e di combinatoria. Ma a partire dalla svolta trascendentalista del pensiero husserliano, dagli anni cioè nei quali la fenomenologia si estende ad una teoria generale della coscienza, anche Leibniz muta in parte il proprio ruolo. Egli viene riguardato adesso come il grande anticipatore della teoria

10 Per una biografia di Mahnke vedi Woltmann 1957 e Mancosu 2005. Per una breve esposizione della sua dottrina monadologica vedi Poser 1986. 11 Essa è nel terzo volume del Briefwechsel husserliano, in Husserl 1994, pp. 391-520. 12 Oltre alle due importanti opere già menzionate, vedi Mahnke 1912a, 1912b, 1913, 1924, 1927. 13 Una periodizzazione simile si trova anche in Van Breda 1966. 14 Il luogo classico è il § 60 dei Prolegomena alle Ricerche (Husserl 1900/13).

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dell’intenzionalità, e accanto alle opere logiche Husserl studia, e cita, le opere leibniziane sull’epistemologia e sulla teoria della sensibilità. Le Ideen del 1913 sembrano testimoniare in più luoghi l’interesse vivissimo di Husserl per la teoria della conoscenza leibniziana.15 Mi pare che sia questo il periodo di maggiore vicinanza fra Husserl e Leibniz, e in ogni caso è questo il periodo dell’apice creativo di Mahnke, il quale si adegua alle inclinazioni del maestro e discute soprattutto dei concetti leibniziani di espressione e di idea. L’opera teorica più importante di Mahnke, la menzionata Nuova Monadologia del 1917, è soprattutto una vasta rilettura della Monadologie leibniziana alla luce della teoria husserliana dell’intenzionalità:

Das Erleben einer Monade kann am besten mit einem scholastischen Terminus, den Franz Brentano wieder zu Ehren gebracht hat, charakterisiert werden als eine intentio, die über den augenblicklich gegebenen Erlebnisinhalt hinaus gerichtet ist auf einen dem Gewühl des Gegebenen Sinn verleihenden Erlebnisgegenstand. Er gehört zum wesen jeder bewussten Sinneswahrnehmung, wie die Phänomenologie in Sinne Husserls feststellt, dass sie ein Ding wahrnimmt, von dem nur einige Eigenschaften durch sinnliche Qualitäten präsentiert sind.16

In una lettera a Mahnke dello stesso anno Husserl apprezza quest’operazione di storia

critica del pensiero leibniziano e arriva ad affermare di sentirsi monadologo egli stesso, «Ich bin eigentlich Monadologe», e inoltre:

Ich fühle mich heute noch Leibniz nahe, und Ihre Interpretation der Monadologie, so wie Sie dieselbe in wenigen Sätzen andeuten, ist mir ganz und gar verständlich, ja sie ist, wenn ich nach diesen Sätzen mich orientiere, ganz und gar auch die meine.17

Vi sarà tuttavia anche una terza fase della ricezione husserliana del pensiero di Leibniz,

più esplicita ma anche più critica, sul finire degli anni venti. Quando Husserl si dedicherà alla costruzione del mondo dell’intersoggettività, nelle Cartesianische Meditationen, i riferimenti a Leibniz saranno numerosi, ed egli parlerà esplicitamente di monadi e di comunità monadica. Tuttavia in questi anni Husserl vorrà marcare soprattutto la differenza fra la propria ricerca della dimensione intersoggettiva e il solipsismo metafisico leibniziano. Mahnke invece stava rivolgendo i suoi interessi altrove, in quegli anni, e Leibniz cessava di essere al centro della sua produzione. Soprattutto però era Husserl stesso a non essere più al

15 Nel corso della discussione David Rabouin ha notato che in ogni caso Husserl continuò ad occuparsi dei suoi progetti di Mathesis universalis anche negli anni successivi, e quindi a menzionare Leibniz in quei contesti. Si tratta dunque di un allargamento di prospettiva assai più che di un mutamento di interesse. 16 Mahnke 1917, § 16, p. 14. 17 Husserl a Mahnke, 5 gennaio 1917, in Husserl 1994, pp. 407-408. Nella stessa lettera Husserl ricorda anche la sua passione giovanile per la filosofia di Leibniz: «Ihre Liebe zu Leibniz kann ich sehr wohl nachverstehen. In jungen Jahren habe ich mich offenen Augen öfters in der Erdmann-Ausgabe von Leibniz gelesen und zweifellos hat das auf mich, so sehr anders ich damals noch eingestellt war, stark gewirkt», e insiste inoltre sul carattere intenzionale della teoria della conoscenza leibniziana: «Leibniz übersieht nicht ganz die Intentionalität, das Vorstellen besagt wohl für ihn etwas sehr Weites, ziemlich so weit wie intentionales Erlebnis reicht. Aber die immanente Motivation, in der sich alle Innerlichkeit entfaltet und die etwas anderes ist als Kausalität, möchte ich nicht in mathematische Notwendigkeiten auflösen».

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centro dell’attenzione teorica di Mahnke. Insomma questa svolta critica nei confronti della monadologia non ebbe echi diretti nelle opere del discepolo leibniziano di Husserl. Egli scrisse al proprio maestro una lettera di apprezzamento sulle Meditazioni Cartesiane, ma era a quel punto troppo leibniziano, o forse addirittura troppo kantiano o neo-positivista, per cogliere la differenza fra il metodo husserliano e quello monadologico.18 I primi anni trenta segnarono dunque il distacco definitivo fra Husserl e Mahnke, in una crisi teorica che fu consumata tutta in alcuni dettagli, assai importanti, dell’interpretazione di Leibniz. Questa divergenza interpretativa sembra che sia stata causata dal familiarizzarsi di Mahnke con altre letture della filosofia leibniziana, le quali lo portarono progressivamente a distaccarsi dall’idea originaria della propria interpretazione. Non è escluso che Reichenbach stesso vi abbia contribuito, e in ogni caso già nelle lettere del 1924 sulla teoria leibniziana del moto, delle quali vogliamo occuparci, Mahnke talvolta già oscilla dentro e fuori dell’orizzonte fenomenologico. § 4. La teoria leibniziana del moto.

Una delle maggiori confusioni che si produssero nella testa di scienziati e filosofi al primo apparire della teoria della relatività generale riguardò precisamente il tema della relatività del moto. Sembrò ad alcuni, a molti in effetti, che la teoria einsteiniana rappresentasse la fine di quel mostro metafisico, tanto criticato in anni recenti da Mach e dai suoi, che era lo spazio assoluto newtoniano. Era dunque un’operazione per molti versi assai ovvia quella di volgersi di nuovo ai “relativisti” anti-newtoniani, che quello spazio assoluto e quel moto assoluto avevano rifiutato, e affermare allora che Descartes, Huygens, Leibniz fossero stati vendicati dalla fisica più recente. Ma appunto questa ingenuità storica produsse una valanga di fraintendimenti, ché se lo spazio di Einstein non era più certo quello di Newton, non per questo assomigliava di più a quello di Leibniz. E così, in mezzo a confusioni piuttosto serie, e anche di ordine squisitamente matematico, fra covarianza e invarianza, fra trasformazioni di coordinate e movimenti dello spazio, fra calcolo tensoriale intrinseco ed estrinseco, fra campo gravitazionale e Strukturfeld, ben pochi si raccapezzavano, e la via del ritorno alla relatività del moto pre-newtoniana era spesso un miraggio di semplicità ed eleganza. Non conviene entrare tuttavia nel groviglio di ragioni storiche che convinsero alcuni dei maggiori protagonisti della rivoluzione relativistica, ma certo non tutti, dell’incompatibilità fra la nuova fisica e il moto assoluto, giacché esse sono assai complesse e in ogni caso sono state splendidamente raccontate altre volte; né conviene discutere la questione sotto il profilo teorico e tentare di specificare quanto di relativistico vi sia nella teoria della relatività e quanto no, e in che senso dunque quegli scienziati avessero

18 Ecco le durissime osservazioni che Eugen Fink scriveva a Husserl a proposito dell’opinione di Mahnke sulle Meditazioni Cartesiane: «Mahnkes Fehlinterpretation der „transcendentalen Implikation der Monaden“ ist bedingt durch das Verfehlen des prinzipiellen Problemhorizontes, in welchem allein diese phänomenologische These zu Recht besteht: er verkennt der Sinn der „phänomenologischen Reduktion“. Das zeigt sich: 1.) am Begriff der Monade, der bei ihm keineswegs ein transcendentaler Begriff, sondern ein ontologischer ist. Monade wird mit der „mikrokosmisch“ geschlossenen, individuell-subjektiven Innenwelt (der Immanenz) gleichgesetzt. 2.) Daran, dass das Problem der Konstitution verstanden wird als die Frage nach dem Zusammenhang von „Innenwelt“ und „Aussenwelt“...» (Fink to Husserl, 30 November 1933; Husserl 1994, p. 519). Mahnke era insomma un metafisico, non un fenomenologo. Non s’interessava più al problema di una Konstitution fenomenologica del mondo, ma quasi di un Aufbau ontologico (se non nel senso di Carnap, almeno nella linea Helmholtz–Hertz–Schlick).

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ragione, e in quale senso invece torto: del resto sotto alcuni aspetti la questione è talmente complicata da essere dibattuta ancora aspramente nella filosofia della scienza contemporanea. E’ sufficiente dire che il nome di Leibniz rappresentò più una scorciatoia concettuale, e direi quasi un vicolo cieco, nei tentativi di venire a capo della natura e dei fondamenti della fisica relativistica, che una fonte di chiarezza. Lo stesso Reichenbach non fu completamente immune da questo incantesimo sospeso a metà fra la storia e la teoria.19

In ogni modo, il problema che subito s’impose ai più avveduti lettori di Leibniz, e Reichenbach era certamente uno di questi, è se la tesi della assoluta (cioè dinamica) relatività del moto, che costoro ravvisavano nella teoria generale della relatività, fosse effettivamente riscontrabile nella filosofia naturale leibniziana. Accadeva infatti che i meno avveduti lettori questa tesi la volessero ritrovare in Leibniz senza difficoltà, cosa affatto contraria a molte evidenze testuali, e finivano così nel peggiore dei pasticci, perché assimilavano erroneamente Einstein a Leibniz, e poi Leibniz ad Einstein, facendo sostenere ad entrambi idee che non seguivano affatto né dalla teoria dell’uno né da quella dell’altro, e che erano nel migliore dei casi una forma, magari pure semplificata, di filosofia meccanica machiana.

E’ noto infatti che accanto ad una gran messe di dichiarazioni leibniziane tutte concordi nel rifiutare lo spazio assoluto newtoniano e a rivendicare la completa relatività del moto20, ve ne sono altre, un poco minoritarie, nelle quali Leibniz sostiene senza ambiguità

19 Per esempio sembra che nel 1924 Reichenbach ritenesse che la Teoria della Relatività Generale realizzasse effettivamente il Principio di Mach nella forma assai forte che afferma che tutte le forze inerziali sono prodotte (e non solo modificate) dalla distribuzione della materia nello spazio. Egli scrive ad esempio, parlando della disputa Leibniz-Clarke, che Clarke (nella Quinta Risposta, §§ 26-32; GP VII, p. 425) «folgert aus Leibniz’ Standpunkt, daß die Teile der rotierenden Sonne ihre Zentrifugalkraft verlieren müßten, wenn alle äußere Materie um sie herum vernichtet würde. Diese Folgerung ist in der Tat richtig, und die moderne Physik gibt sie zu» (Reichenbach 1924a, p. 429). Il che naturalmente è falso, perché se anche tutta la materia venisse annientata resterebbe la struttura di Minkowski (o meglio di Schwarzschild) dello spaziotempo (date certe ragionevoli condizioni al contorno) e dunque la rotazione del Sole produrrebbe una forza centrifuga. I fisici migliori dell’epoca, Weyl ed Eddington per esempio, avevano ben chiara questa incompatibilità fra teoria einsteiniana e relativismo machiano forte, ma occorre dire che essa impiegò parecchio tempo per diventare patrimonio comune. Nella seconda metà del secolo scorso l’esempio delle forze centrifughe nello spazio di Minkowski è stato invece un argomento spesso sollevato a favore della concezione newtoniana dello spazio assoluto, contro quella leibniziana. Non mi pare un caso che Reichenbach s’inganni su questo punto fondamentalissimo proprio in un saggio di critica storica, e temo che questo sia un esempio di alto livello di quella confusione sui fondamenti della fisica che fu più accresciuta che diminuita dai paragoni con l’opera leibniziana. Reichenbach torna su questo tema, senza aver mutato parere, anche nella Raum-Zeit-Lehre, vedi Reichenbach 1928, § 34, pp. 246-52. Per uno sviluppo dell’argomento, vedi qui di seguito le note 34 e 35. 20 Fra le moltissime che si potrebbero citare prendo la seguente da un appunto dello Specimen Dynamicum, poi non pubblicato, che esprime la posizione leibniziana chiarissimamente anche in relazione al movimento circolare: «Motus quoque naturam vidi. Adeo prehendi etiam spatium non esse absolutum quiddam aut reale, adeoque nec mutationem pati nec motum absolutum posse concipi, sed omnem motus naturam ita esse respectivam, ut ex phaenomenis mathematico rigore non debeat determinari posse, quidnam quiescat, aut quanto motu quodnam corpus moveatur, ne circulari quidem motu excepto, quanquam aliter visum sit Isaaco Newtono, insigni viro (quo nescio an majus ornamentum habuerit Anglia erudita), qui cum multa praeclara circa motum dixerit, hujus ope ex ipsa vi centrifuga discerni posse putavit, in quo subjecto sit motus, in quo non potui assentiri. Interim etsi Mathematica determinatio Hypotheseos verae nulla sit, motus tamen verus ei subjecto cum ratione a nobis tribuitur, in quo simplicissimam hypothesin, et ad phaenomena explicanda aptissimam facit; de caetero non tam de subjecto motus, quam de respectivis rerum inter se mutationibis quaeri ad usum sat est; cum nullum sit punctum fixum in universo» (Leibniz 1982, pp. 22-23; il brano non

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che occorre bene distinguere fra il moto apparente e il moto vero. Sebbene infatti sia impossibile, a quanto pare, percepire alcuna differenza se il corpo A si muove verso il corpo B, o il corpo B verso il corpo A, sicché il moto è relativo, o meglio involve qualcosa di relativo (involvat aliquid respectivum), tuttavia un corpo sarà in movimento (vero) se in esso si trova la causa del moto stesso, e in quiete se questa causa non c’è:

Motus est mutatio situs. Movetur, in quo est mutatio situs, et simul ratio mutationis. … Moveri dicitur situm habens in quo causa est mutati situs, seu ex quo mutati ejus cum alio situs ratio redditur. Quod si sufficiens ex ipso ratio redditur, hoc unum movetur, caeteris quiescentibus; sin minus, plura simul moventur.21

Non è difficilissimo comprendere le ragioni storiche che spinsero Leibniz a sostenere

una tesi siffatta. Fra queste, la più importante si deve trovare, probabilmente, nella sua teoria logica delle relazioni, in base alla quale non possono esistere relazioni “puramente estrinseche” cioè tali che non siano fondate nei termini della relazione. 22 Così, la forza che è causa del movimento (che nella giovinezza di Leibniz era la quantità di moto, e negli anni della maturità la vis viva) non può essere una proprietà relazionale del sistema meccanico nel suo complesso, ma deve necessariamente inerire (in maniera assoluta) ad un corpo oppure ad un altro; e allora questo corpo, oppure quell’altro, saranno i reali soggetti del movimento.

Quel che è più difficile, invece, è capire come Leibniz potesse sostenere un’opinione di questo genere e tuttavia ancora dirsi relativista riguardo al movimento; e in effetti questa sua posizione non fu affatto compresa dai suoi contemporanei. Leibniz arrivò addirittura a sostenere questa sua tesi del “moto vero” in un luogo delicatissimo della sua disputa contro Newton, e cioè al § 53 della sua Quinta Lettera a Samuel Clarke:

Cependant j’accorde qu’il y a de la difference entre un mouvement absolu veritable d’un corps, et un simple changement relatif de la situation par rapport à un autre corps. Car lorsque la cause immediate du changement est dans le corps, il est veritablement en mouvement; et alors la situations des autres par rapport à luy, sera changée par consequence, quoyque la cause de ce changement ne soit point en eux.23

Messo di fronte ad una tale affermazione, Clarke vi ravvisò in effetti niente altro che la

completa capitolazione dell’avversario, e per così dire la sua resa incondizionata, dopo un anno di dispute feroci, al partito degli assolutisti:

era in Gerhardt e dunque non era noto a Reichenbach, il quale però poteva contare su un simile passaggio che si trova nella lettera di Leibniz a Huygens del 14 settembre 1694: vedi dopo, nota 30). 21 La prima citazione è tolta agli Initia rerum mathematicarum metaphysica, GM VII, p. 20. La seconda alla lettera di Leibniz a Des Bosses del 12 dicembre 1712, in GP II, p. 473. 22 Vedi su questo punto Mugnai 1992. 23 GP VII, p. 404.

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Whether this learned Author’s being forced here to acknowledge the difference between absolute real Motion and relative Motion, does not necessarily infer that Space is really a quite different Thing from the Situation or Order of Bodies; I leave to the Judgement of those who shall be pleased to compare what this learned Writer here alleges, with what Sir Isaac Newton has said in his Principia Lib. 1 Defin. 8.24

Leibniz morì prima di poter rispondere, e così anche gli interpreti moderni sono

rimasti privi di lumi su come egli pensasse di accordare la teoria del mouvement absolu et veritable a quella del motus respectivus.

Noi in effetti, rispetto a Clarke e agli altri contemporanei di Leibniz, siamo in possesso di una molto maggiore quantità di scritti, di lettere, e di riflessioni private e talvolta privatissime del grande filosofo, fra le quali possiamo sperare di trovare indizi per la soluzione della difficoltà. Fra queste carte sono soprattutto rilevanti i molti scritti che Leibniz dedicò alla discussione sopra i massimi sistemi, voglio dire il sistema tolemaico e il copernicano. In questi studi Leibniz enuncia un’altra tesi assai famosa, quella della equivalenza delle ipotesi, in base alla quale ogni fenomeno fisico, e principalmente poi il movimento, si lascia spiegare con una pluralità di principi differenti; sicché la rotazione del Sole oppure della Terra sono solo differenti teorie che egualmente bene spiegano le medesime apparenze. Vi è tuttavia una differenza, nota Leibniz, e non da poco: l’ipotesi copernicana è più semplice di quella tolemaica.25 I medesimi fenomeni sono qui spiegati in maniera più diretta, e chiara, e facile. Non vi è dubbio che uno scienziato moderno, del secolo diciassettesimo, debba preferire il sistema eliocentrico. In un certo senso dunque (e occorre capire quale sia questo senso), il Sole è veramente fermo, e la Terra veramente in moto: la scienza può e anzi deve assumere questa ipotesi come l’unica vera.

Che la teoria della semplicità dell’ipotesi sia considerata da Leibniz nel medesimo giro di pensieri di quella della determinazione del moto vero mediante la forza si vede chiaramente da brani come questo:

Ut vero res intelligatur exactius, sciendum est Motum ita sumi, ut involvat aliquid respectivum et non posse dari phaenomena ex quibus absolute determinetur motus aut quies; consistit enim motus in mutatione situs seu loci. Et ipse locus rursus aliquid relativum involvit, etiam ex Aristotelis sententia, qui definivit superficie ambientis. Hinc in rigore omne systema defendi potest, ita ut ne ab angelo quidem Metaphysica certitudine aliquid absoluti determinari inde queat, quoniam ipsa conditio est legum motus, ut omnia eodem modo in phaenomenis eveniant, nec dijudicari possit utrum et quatenus corpus aliquod datum quiescat vel moveatur, nisi rationem majoris explicabilitatis habendo, idque adeo verum est ut ne vis quidem agendi verum sit motus absoluti iudicium.26

24 GP VII, p. 428. 25 Nel corso della discussione Ralf Krömer e Jean Seidengart hanno notato che non è vero che la descrizione del sistema solare data da Copernico sia (sensiblimente) più semplice di quella di Tolomeo. Con ogni evidenza Leibniz intendeva, sotto il concetto di sistema copernicano, la teoria eliocentrica così come essa si era evoluta nel secolo e mezzo che separa Leibniz dal De Revolutionibus, dopo cioè la scoperta delle leggi di Kepler e della nuova meccanica. 26 Tentamen de Motuum celestium Causis (1689), GM VI, p. 146.

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Tuttavia queste affermazioni leibniziane, pure numerose, non sembrano gettare luce

chiara sui termini del problema, né sulla compatibilità del moto vero e dell’apparente. E infatti la prima ragione di dissidio fra Reichenbach e Mahnke, nella loro corrispondenza del 1924, fu proprio come interpretare queste oscillazioni “non relativiste” del Leibniz anticipatore della teoria della relatività.

§ 5. L’argomento mancante. La soluzione di Reichenbach, assai semplice per la verità, fu quella di affermare che

Leibniz aveva sì intravisto la relatività dinamica del moto, ma che tuttavia non aveva saputo difenderla dagli attacchi di Newton; ed era rimasto così un precursore, ma solo un precursore, della fisica einsteiniana.27 Leibniz insomma si sarebbe trovato davanti ad una serie di evidenze sperimentali, come il famoso esperimento del secchio, e così, incapace di offrire una spiegazione della forza centrifuga, avrebbe ammesso a denti stretti che c’è, in effetti, il vero moto. Era dunque una contraddizione, nulla di più, e Clarke aveva tutte le ragioni di rallegrarsi e considerare fallito il tentativo di Leibniz di fondare una dinamica relativistica. Quel che mancava a Leibniz era l’argomento di Mach contro lo spazio assoluto, e questa fu la ragione del trionfo di Newton fino a che Mach non escogitò, appunto, il famoso argomento, e Einstein diede poi sostanza fisica a quell’intuizione filosofica.28

La soluzione reichenbachiana alle difficoltà concettuali della posizione di Leibniz, tuttavia, non pare del tutto persuasiva. Esse lascia intendere che sia stata la corrispondenza con Clarke, diretta da dietro le quinte, come si sa, da Newton in persona, a presentare a Leibniz per la prima volta la difficoltà delle forze d’inerzia, e che egli, fra quel luglio del 1716 nel quale ricevette la Quarta Risposta di Clarke e il novembre dello stesso anno, nel quale morì, non sia riuscito a dar coerenza ad una dottrina che s’era impigliata in una così

27 Ciò è ribadito con grande chiarezza, per esempio, contro i facili entusiasmi di Mahnke, nella lettera di Reichenbach in Appendice. Qui si può menzionare di passaggio la più sottile interpretazione di Hermann Weyl, successiva di pochi anni al saggio di Reichenbach su Kant-Studien. Weyl menziona Huygens, Leibniz e Mach come aderenti alla teoria della relatività dinamica del movimento ma, al contrario di Reichenbach e più correttamente di lui, mostra poi come la relatività einsteiniana dia su questo punto ragione a Newton assai più che a loro. Tuttavia, aggiunge Weyl, Leibniz, al contrario di Huygens e Mach, aveva anche un concetto dell’inerzia come di un principio dinamico, e dunque come di qualcosa che è determinato dall’influenza reciproca dei corpi: e questo concetto è giusto (solo che l’inerzia è poi una proprietà dello Strukturfeld, e non dei corpi stessi, ciò che Leibniz non poteva sospettare). Insomma quel ragionamento che sopra noi abbiamo condotto con le forze vive, mostrando come per Leibniz il moto vero si individua con la presenza di siffatte forze, Weyl lo fa con le forze d’inerzia, il che è ben possibile perché esse pure fanno parte della dinamica leibniziana; e così egli recupera qualcosa di un Leibniz relativista malgré lui. Insomma: per Reichenbach Leibniz è troppo poco relativista per essere einsteiniano, per Weyl è invece troppo poco assolutista, ma sulla buona strada. Questa interpretazione di Leibniz mi pare un unicum nel panorama filosofico della prima metà del secolo scorso. Cf. Weyl 1927, § 16. 28 «Damit tritt allerdings ein ernster Riß in die Leibnizsche Bewegungslehre ein, denn mit dieser Unterscheidung ist ja die Newtonsche Auffassung zugegeben. Hier fehlt Leibniz das Machsche Argument, das allein die Relativität der Bewegung auch dynamisch verteidigen kann» (Reichenbach 1924a, p. 428). Per una discussione del ruolo del principio di Mach nella fisica di Einstein vedi Barbour Pfister 1995, e qui soprattutto Norton 1995.

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straordinaria difficoltà. Sennonché non solo Leibniz era benissimo al corrente della difficoltà offerta dal moto circolare fin dall’epoca del suo viaggio a Parigi (1672-76)29, ma le definizioni sopra menzionate del vero movimento ricorrono in tutti gli anni della produzione scientifica di Leibniz, e certamente anche negli anni precedenti non solo alla corrispondenza con Clarke, ma addirittura alla pubblicazione (1687) dei Principia di Newton. Non furono dunque certamente Clarke, o Newton, o qualche evidenza sperimentale, o qualche secchio, che spinsero Leibniz ad abbracciare la dottrina del vero moto, né egli non ebbe tempo a sufficienza per ponderare la coerenza della propria soluzione. Se insomma vi è una reale inconseguenza nell’assunzione del moto relativo e del moto vero, questa inconseguenza è senz’altro talmente strutturale alla filosofia naturale leibniziana da essere, per dir così, nata con essa. Il che sarebbe certamente gravissimo, ma appunto perciò, e perché l’incoerenza sarebbe stata ben evidente a tutti e certo anche a Leibniz, c’è da dubitare che egli non avesse una risposta più che adeguata a questa difficoltà così ovvia.

In ogni caso colpisce certamente come la soluzione di Reichenbach alle difficoltà leibniziane si muova su un terreno fisicalista, cominciando (nella teoria del moto di Descartes e Huygens) e finendo (nella meccanica newtoniana) appunto tutta interna alla discussione fisica. La risposta di Mahnke, che tenta di difendere Leibniz dall’accusa di contraddizione, si articola invece introducendo un elemento radicalmente fenomenista nella filosofia naturale leibniziana.

§ 6. Movimenti noumenici.

Occorre distinguere, dice Mahnke, fra monadi e fenomeni, e fra movimento dell’anima e movimento del corpo. Le monadi certo mutano, e la forza alla quale Leibniz si richiama è appunto la forza che produce questo cambiamento (“Bewegung”) noumenico, che è spirituale (“psychische oder wenigstens seelenähnliche”) ed è senz’altro assoluto (vero). Ma poiché questo regno degli spiriti che è l’insieme delle monadi è espresso e rappresentato nei fenomeni, ed ogni caratteristica spirituale è incarnata in una certa apparenza corporea, ecco che il mutamento spirituale deve essere rappresentato nel fenomeno, ed è anzi effettivamente rappresentato, come mutamento fenomenico, e cioè come movimento corporeo. Nel processo di rappresentazione, tuttavia (dice Mahnke), quel mutamento spirituale assoluto è radikal relativiert, sicché esso è espresso da un movimento puramente relativo. La contraddizione dunque sarebbe evitata, secondo la ricostruzione di Mahnke, con un mossa tipicamente kantiana, passando al fenomenismo: i due corni dell’antinomia cadono l’uno nel noumeno (il moto vero) e l’altro nel fenomeno (il moto relativo).

29 Ecco una dichiarazione dello stesso Leibniz: «Comme je vous disois un jour à Paris qu’on avoit de la peine à connoistre le veritable sujet du mouvement, vous me répondìtes que cela se pouvoit par le moyen du mouvement circulaire, cela m’arresta; et je m’en souvins en lisant à peu près la même chose dans le livre de Mr. Newton; mais ce fut lorsque je croyois déjà voir que le mouvement circulaire n’a point de privilege en cela. Et je voy que vous estes dans le meme sentiment. Je tiens donc que toutes les hypotheses sont equivalentes et lorsque j’assigne certains mouvements à certains corps, je n’en ay, ny puis avoir d’autre raison que la simplicité de l’hypothese, croyant qu’on peut tenir la plus simple (tous consideré) pour la veritable» (Leibniz to Huygens, 4/14 September 1694; GM II, p. 199). Fra gli inediti parigini si trovano in effetti innumerevoli definizioni del moto nelle quali si afferma che il corpo che si muove è quello nel quale è la causa del mutamento. Vedi per esempio il Pacidius Philalethi del novembre 1676, in A VI, 3, n. 78, p. 535; C 599.

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Non sorprende che la soluzione “kantiana” non piacesse a Reichenbach. Più strano è, per molti versi, che piacesse a Mahnke.

Sotto il profilo strettamente testuale tale interpretazione sembra piuttosto insostenibile. In nessun luogo, infatti, nel quale Leibniz distingue fra moto relativo e moto vero, o anche semplicemente parla del moto vero in sé stesso, egli fa mai menzione delle monadi e di un movimento, o mutamento, sovrasensibile. Sicché Leibniz non solo non spiega da nessuna parte che cosa mai significherebbe questa “relativizzazione radicale” di volizione e percezione in un movimento reciproco dei corpi, ma neppure mai accenna al fatto che gli uni debbano essere assoluti e l’altro relativo. Qui mi pare che Reichenbach l’abbia vinta su Mahnke senza troppa difficoltà: i passi “incriminati” della corrispondenza con Clarke o degli altri scritti sull’assolutezza del moto parlano senz’altro di forze fenomeniche e di movimento vero di corpi nello spazio, e non sembrano raccontare per metafora un semplice cambiamento degli appetiti d’un gruppo di anime. Leibniz scrive, in quei luoghi, da fisicalista e non da fenomenista.

Vi è tuttavia certamente qualcosa di giusto e di importante nell’interpretazione di Mahnke. Se lasciamo cadere la discussione sull’origine spirituale del mutamento relativo dei corpi, otteniamo (in prospettiva quasi fisicalista) semplicemente che Leibniz starebbe affermando che vi è un moto vero dei corpi, alla base di quello relativo che noi percepiamo, sennonché questo moto vero non è tuttavia percepito nel fenomeno. La metafisica leibniziana insomma (e la sua teoria delle relazioni, come abbiamo visto prima), impone che se A e B si muovono di moto relativo apparente uno dei due sia in moto vero, perché è dotato di forza, e l’altro invece (per esempio) no, perché di forza non ne ha. Ma noi, però, che osserviamo quel movimento relativo di A e di B non abbiamo la possibilità di dire dove la forza si trovi. Il moto vero c’è (e per ragioni metafisiche ci deve essere), ma non si vede. Si tratta insomma di distinguere l’ambito ontologico da quello epistemico. Questo sembra il ragionamento di Mahnke, una volta spogliato della sovrastruttura spiritualista (resta una distinzione fra fenomeni e noumeni nel senso che la forza qui si considera come cosa in sé, e cioè non percepibile come tale). E questa è anche la ricostruzione della teoria leibniziana del moto che è offerta dai migliori e più attenti interpreti contemporanei della filosofia naturale di Leibniz.30

Mettendo da parte, ora, il giudizio su una tale (importante) ricostruzione, resta strabiliante che essa sia stata avanzata da Dietrich Mahnke. Si vede bene infatti che una tale interpretazione della filosofia leibniziana si basa fortemente sulla possibilità che vi siano oggetti e proprietà noumeniche che non sono espressi fedelmente nel fenomeno. Vi è un mutamento nel noumeno e questo sarà espresso nel fenomeno come un moto corporeo: bene. Ma vi è anche la causa di tale mutamento nel noumeno, ed essa non sarà affatto espressa nel fenomeno: e noi non possiamo saper nulla sul “moto vero”. La relativizzazione radicale del mutamento della quale parla Mahnke, dunque, è fondata su un limite dell’espressività fenomenica. Si può certamente discutere se Leibniz avrebbe ammesso che vi siano proprietà noumeniche non espresse e non esprimibili nel fenomeno; molti luoghi dei suoi scritti sembrano far inclinare verso una risposta negativa. La famosa frase leibniziana sull’osservabilità, tanto citata da fenomenologi e idealisti, «quand il n’y a point de

30 Vedi sopratutto Garber 1995, pp. 306-309, che discute ampiamente e intelligentemente il problema.

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changement observable, il n’y a point de changement du tout»31, sembra potersi applicare senza difficoltà alle forze, e visto che noi il mutamento lo osserviamo, ma la forza no, porterebbe a concludere, tout court, che non vi sono forze. L’interpretazione di Mahnke, insomma, deve ammettere che Leibniz, metafisico assai più che fisico, e kantiano assai più che fenomenologo, ammettesse cose in sé delle quali non si ha notizia alcuna nelle apparenze. Ciò è in fortissimo contrasto con un’interpretazione puramente fenomenologica della filosofia leibniziana, quale era stata offerta da Husserl e, soprattutto, da Mahnke medesimo nel 1917. La Neue Monadologie, infatti, era tutta volta a dimostrare che Leibniz aveva escluso le kantiane cose in sé, inconoscibili, dalla propria filosofia, e che le monadi, e il mondo noumenico tutto, sono fedelmente rappresentati nelle apparenze fenomeniche.32 Pare dunque che nel 1924 egli avesse mutato parere.

§ 7. Convenzioni e verità.

Vi è tuttavia anche una seconda strategia argomentativa di Mahnke, nella sua corrispondenza con Reichenbach, mediante la quale egli vorrebbe mostrare che non vi è contraddizione alcuna nella teoria leibniziana del movimento. Questa seconda strategia anziché richiamarsi alla distinzione fra fenomeni e noumeni fa appello a quei luoghi di Leibniz, che abbiamo già menzionato, nei quali il filosofo parla di una pluralità di ipotesi per spiegare il medesimo fenomeno, e della scelta di quella più semplice.

Anche in questo caso la posizione di Mahnke appare piuttosto sorprendente, giacché egli sembra intendere queste affermazioni leibniziane come una forma antica (e magari precursoria) di convenzionalismo. La contraddizione fra il moto vero e il moto relativo non c’è, dunque, perché a rigor di termini il moto non è né vero né relativo, ma convenzionale. Possiamo parlare di moto vero, certo, ma solo perché abbiamo deciso di pigliare quello per moto vero in una certa teoria del moto, e la nostra scelta del sistema meccanico più adeguato è determinata dalla comodità dell’ipotesi, cioè dalla sua maggiore semplicità. Sbaglia anzi Reichenbach quando afferma che Leibniz non è pervenuto ad un perfetto relativismo perché mancava dell’argomento di Mach, giacché se uno legge con attenzione i suoi testi di dinamica si accorge facilmente che la teoria dell’equivalenza delle ipotesi è

31 «On replique maintenant, que la verité du mouvement est indipendente de l’observation, et qu’un vaisseau peut avancer sans que celuy qui est dedans s’en apperçoive. Je reponds que le mouvement est indipendant de l’observation, mais qu’il n’est point indipendant de l’observabilité. Il n’y a point du mouvement, quand il n’y a point de changement observable. Et même quand il n’y a point de changement observable, il n’y a point de changement du tout» (Fifth Paper to Clarke, § 52; GP VII, pp. 403-404). 32 Vedi per esempio passi di questo tenore: «Das transzendentale Bewusstsein, das in allen Einzelseelen lebendig ist und ihre übersubjektive Geisteseinheit ermöglicht, ferner seine objektiv gültigen Begriffe, die den subjektiven Phänomenen überindividuelle und ewige Bedeutung geben, würden am ehesten die Bezeichnung als „Ding an sich“ oder nooÚmena verdienen, weil sie die Welt nicht relativ zu einem bestimmten subjektiven Erleben, sondern nur relativ zum Bewusstsein überhaupt, also in absoluter Allgemeingültigkeit wiedergeben. Wir ziehen es aber vor, hier lieber von den „Dingen für alle“ oder den „objektiven Dinge“ zu sprechen. Denn es gehört zum Wesen jedes „objektiven Dinges“, das wirklich existiert, sich auch subjektiv darzustellen, nämlich einem bestimmten Individuum immanent als „Ding für sich“ und sämtlichen übrigen transzendent als „Ding für andere“ oder sinnliche „Dingerscheinung“. Und man könnte nun auch mit gutem Rechte, wie es Schopenhauer, Beneke, Lotze u. a. tun, statt den bloss ideellen „Dingen für alle“ vielmehr den real existierenden, ihren eigenen Begriff in voller, evidenter Anschaulichkeit erlebenden „Dingen für sich“ das „Sein-an-sich“ zuschreiben. Wir wählen daher, um Missverständnisse zu vermeiden, unsere eigene Terminologie» (Mahnke 1917, p. 98).

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perfettamente conforme anche con una spiegazione relativistica del moto circolare, e che Leibniz sapeva bene cosa rispondere all’esempio newtoniano del secchio.33 Egli non ha forse sviluppato la sua teoria della rotazione nel dettaglio, ma le considerazioni epistemologiche sono più che sufficienti a mostrare che se una teoria della rotazione è almeno possibile, la quale non richieda uno spazio assoluto, essa sarà senz’altro da preferire ad una teoria che lo richieda, visto che abbiamo ragioni d’altro genere, metafisiche e logiche, per rifiutare quest’idolo dogmatico. E’ dunque di nuovo il convenzionalismo, o il convenzionalismo assieme a certi principi metafisici, che salva Leibniz dalla contraddizione.34

La posizione di Mahnke deve risultare incredibile a chiunque conosca la polemiche accesissime che avevano diviso Husserl e Schlick sul tema del convenzionalismo solo pochissimi anni prima, e proprio in relazione ad alcune posizioni espresse da Husserl nelle Ideen.35 Così, se prima il fenomenologo Mahnke inclinava verso il kantismo, qui si inoltra un poco nel neo-positivismo.

33 In questo caso Mahnke riuscì a convincere Reichenbach. Nella terza lettera in Appendice, infatti, Mahnke sottolinea un passaggio dalla Dynamica leibniziana del 1690, in GM VI, p. 197, che Reichenbach non aveva preso in considerazione in Reichenbach 1924a, quando aveva affermato che a Leibniz mancava l’argomento di Mach (vedi prima, nota 29). Nella Raum-Zeit-Lehre del 1928 Reichenbach corregge il tiro e dice che l’argomento machiano, pur non essendo stato formulato da Leibniz chiaramente, “può legittimamente essere estrapolato” dal passo suggeritogli da Mahnke (§ 34, p. 246 nota 1). Più recentemente Howard Stein ha sostenuto (senza saper nulla del contributo di Mahnke alla questione) che questa concessione di Reichenbach a Leibniz è eccessiva, e che da GM VI, p. 197 non si riesce affatto a cavare nulla che assomigli al Principio di Mach (vedi Stein 1977, p. 7 e nota 5 alle pp. 31-32). Mi pare che Stein abbia ragione, e che dall’argomento di Leibniz nella Dynamica si possa concludere al più che se nell’universo leibniziano la materia eterea fosse annientata non vi sarebbe gravitazione, e non già che non vi sarebbe forza centrifuga per un corpo in rotazione. 34 La questione qui è piuttosto delicata. Non pare che il principio di semplicità, da solo, potesse essere sufficiente a Leibniz senza prendere in considerazione altri principi metafisici. Riprendiamo l’esempio del Principio di Mach nella sua forma forte: sotto questo punto di vista allora la relatività einsteiniana, che quel principio rifiuta, è assai più newtoniana che leibniziana. Ammettiamo ora che si riesca a correggere questo aspetto della teoria einsteiniana, producendo una teoria nella quale in un universo vuoto si annullano le forze inerziali; ammettiamo per esempio che sia questo il caso della teoria Brans-Dicke. Ammettiamo inoltre che, a causa dell’indeterminazione induttiva sperimentale, non fossimo in grado di escogitare alcun experimentum crucis che discriminasse la teoria di Einstein da quella di Jordan, Brans e Dicke (secondo le parole di Mach, l’universo ci è dato una volta sola, e proprio non ci riesce di far ruotare un secchio senza stelle fisse, per verificare che ne è della forza centrifuga). Quale teoria dovremmo adottare, secondo Leibniz e Mach? Quella di Einstein è più semplice, ma ha lo spazio assoluto (o qualcosa che gli assomiglia); la Brans-Dicke elimina lo spazio assoluto, ma introduce un campo scalare che complica le equazioni (per arrivare, nella nostra ipotesi, ai medesimi risultati sperimentali). Mach forse sceglierebbe Einstein, perché afferma più volte che la semplicità e la praticità d’un’ipotesi devono essere le sole guide; egli non s’è mai posto il problema, perché la definizione d’inerzia che egli stesso aveva proposto nella sua Mechanik doveva essere altrettanto semplice di quella newtoniana. Leibniz invece probabilmente accetterebbe la Teoria Brans-Dicke, perché egli ritiene di essere in possesso di argomenti metafisici contro lo spazio assoluto. Esso non rappresenta soltanto un problema per l’economia dell’ontologia (per cui il nostro Mach potrebbe voler ampliare l’ontologia con questo mostro, lo spazio assoluto, al fine di snellire l’ideologia), ma è un problema per il suo stesso concetto, che è contraddittorio, o quantomeno viola il principium rationis e quello dell’identità degli indiscernibili. Sicché la ricerca della semplicità fisica deve essere corretta con la coerenza ai più generali principi metafisici. Per una teoria machiana in stile classico (cioè newtoniano, non relativistico come la Brans-Dicke), vedi il sistema in Lynden-Bell 1995. 35 La polemica fra Schlick e Husserl era assai antica, ed era iniziata con Schlick 1910 e Schlick 1913. Tuttavia l’attacco più vistoso di Schlick fu sferrato a Husserl nel § 18 della prima edizione (1918) della Erkenntnislehre

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Reichenbach, dal canto suo, recentemente convertito proprio da Schlick al convenzionalismo, e pur fervente ammiratore di Leibniz, rifiuta l’interpretazione di Mahnke. E dice invece che Leibniz non utilizzava la semplicità dell’ipotesi come un criterio di scelta di tipo, diciamo così, pragmatista, ma come indizio del vero moto: il quale vero moto, dunque, secondo Leibniz c’è oggettivamente e non solo convenzionalmente. Ma ciò contraddice, secondo Reichenbach, sia l’interpretazione troppo generosa e modernizzante di Mahnke, sia l’affermazione leibniziana della relatività del movimento.36

Appare piuttosto evidente che qui Reichenbach abbia ragione sotto il profilo interpretativo, e non sembra affatto che Leibniz abbia mai considerato la semplicità come un criterio epistemologico di convenienza: essa era piuttosto per lui un criterio ontologico per la creazione del mondo, nel senso che Dio crea il mondo seguendo le leggi più semplici che sono compatibili con una certa varietà e ricchezza degli enti (simplex est sigillum veri). Non importa adesso che Leibniz abbia lasciato sempre abbastanza nel vago l’articolazione concreta e l’esatto significato di questo criterio di semplicità, ma solo che esso non può in nessun senso riguardarsi semplicemente come soggettivo. Si consideri per esempio il seguente brano, contemporaneo e tanto simile a quello citato in precedenza dal Tentamen:

Cum verò nihilominus homines motum et quietem assignent corporibus, eiam illis, quae neque ab intelligentia, neque ab interno instinctu moveri censent, videndum est quo sensu faciant ne falsa dixisse judicentur. Et respondendum est eam Hypothesin eligendam esse, quae est intelligibilior; neque aliud esse veritatem Hypotheseos, quàm ejus intelligibilitatem. Et cum diverso respectu non tam hominum et opinionum, quàm potius rerum ipsarum quae tradendae sunt una Hypothesis aliâ sit intelligibilior et scopo proposito convenientior; etiam diverso respectu una erit vera, altera falsa. Ut proinde veram esse Hypoyhesin nil aliud sit, quam recte adhiberi.37

(Schlick 1918/25), alla quale Husserl rispose con grande violenza nella prefazione del 1920 alla seconda edizione della Sesta Ricerca Logica (Husserl 1901/22). Schlick in parte corresse il tiro, e in parte ribadì le critiche, nella seconda edizione (1925) del proprio volume. La polemica qui riguarda soprattutto il concetto husserliano di ideazione, ma la critica di Schlick si iscrive in una più ampia discussione del convenzionalismo. Schlick continuerà ad attaccare la fenomenologia, comunque, ancora negli anni trenta. 36 Vedi Reichenbach 1924a, p. 433: «In seltsamer Weise gehen hier moderne und alte Ansichten durcheinander. Leibniz ist sich klar darüber, daß die Auszeichnung der wahren Bewegung nicht auf unmittelbaren Beobachtungen beruht. Auch die Dynamik liefert nicht einen direkten Nachweis der Kraft, denn für jede der gleichberechtigten Auffassungen der Bewegung läßt sich auch eine dynamische Hypothese ersinnen. Nur die Einfachheit der Erklärung („la semplicité de l’hypothése“) ist der Vorzug der ausgezeichneten Bewegungsannahme, also etwa des Kopernikanischen gegenüber dem Ptolemäischen System. Dieses ist nur das für die Erklärung der Phänomene geeignetste (ad explicanda phaenomena aptissima). Aber er meint doch, daß die einfachere Erklärung eben deshalb die wahre wäre (qu’on peut tenir la plus simple, tout consideré, pour la veritable), und so führt ihn die Untersuchung der logischen Äquivalenz der dynamischen Erklärungen doch wieder auf die metaphysische Auszeichnung der einen Bewegung zurück». 37 E’ un testo erroneamente pubblicato da Couturat (C 590-91) come prefazione al Phoranomus. Sebbene col Phoranomus non c’entri nulla, esso fu certamente scritto nel medesimo lasso di tempo, e cioè durante il viaggio italiano di Leibniz, fra il 1689 e il 1690. Reichenbach non mostra di conoscerlo, ma menziona (Reichenbach 1924a, p. 43 nota 2) un testo ad esso vicino, che era stato parzialmente edito da Gerhardt in GM VI, pp. 145-47, e che adesso appare nel gruppo di saggi De Praestantia Systematis Copernicani in A VI, 4C, n. 377, pp. 2065-75. Certamente per una svista, invece, il testo pubblicato da Couturat non è stato inserito nell’edizione dell’Accademia delle opere di Leibniz.

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Qui appare piuttosto evidente che il tentativo di Leibniz non è né quello di sostituire il concetto di verità con quello di comodità di una teoria (che Leibniz forse direbbe “supernominalismo”), né di affiancare l’un concetto all’altro, come se vi fosse la verità e poi maniere più e meno comode (più o meno semplici) d’esprimerla, ma proprio quello di rendere intrinseci i due concetti, di modo che vera è la teoria semplice, e non le altre che pure esprimano gli stessi fatti. La verità coincide con l’intelligibilità, il mondo è perfettamente razionale, prodotto dalla ragione per la ragione, dalla semplicità per la semplicità dell’intelletto, sicché il principio di semplicità è assieme epistemologico e ontologico.38 Non so dire quanto la teoria leibniziana “classica” della verità (come inerenza del predicato nel soggetto, per esempio) fosse pronta ad accogliere al proprio interno questa irruzione di un concetto architettonico, quello della semplicità; ma certo è che questo tentativo definitorio fu esplicitamente compiuto da Leibniz negli anni della maturità, e che il senso del “razionalismo” leibniziano divenne allora incompatibile, come pare, col convenzionalismo.

Quest’ultima affermazione di Reichenbach, dunque, che la semplicità dell’ipotesi non sia il fondamento d’una convenzione ma un indizio per la scoperta del moto assoluto, mi pare che sia molto vera, e che possa metterci sulla strada di comprendere l’opinione di Leibniz sull’intera questione del movimento, la quale, se non m’inganno, si trova da qualche parte a metà fra l’interpretazione di Mahnke e quella di Reichenbach.

(In quest’ultimo dissenso fra Reichenbach e Mahnke c’è forse qualcosa di più profondo. Reichenbach ammette che la soluzione leibniziana, di tener per vero ciò che è più semplice, contiene qualcosa di moderno, nonostante che essa debba essere interpretata in senso epistemicamente forte e anzi ontologico. Solo, aggiunge Reichenbach, qui il principio di semplicità è usato a sproposito: perché la teoria della relatività ha mostrato la radicale relatività del moto e dunque parlare di moto assoluto non ha alcun senso, neppure convenzionalmente.39 Reichenbach utilizza insomma un convenzionalismo metateorico, per il quale convenzionale non è il sistema di riferimento (quello è soltanto relativo), ma la teoria stessa del moto (la teoria della relatività generale, per esempio, rispetto alla fisica minkowskiana con forze universali). Mahnke invece quando parla della pluralità delle ipotesi non si riferisce ad una pluralità di teorie, ma soltanto ad una pluralità di sistemi di coordinate non inerziali, che è qualcosa di completamente differente. La ragione di ciò potrà trovarsi forse nel fatto che Mahnke riteneva che il suo Leibniz fenomenologo ammettesse una sorta di intuizione eidetica delle leggi: sicché queste non possono essere convenzionali, ma sono semplicemente date nell’intuizione intellettuale.40 Convenzionale potrà essere l’oggetto che è sottoposto alla forza, non la legge della forza.)

38 Si veda per esempio questa chiarissima affermazione leibniziana del 1700: «Realitas porro aestimanda est et multitudine et varietate et ordine rerum, et ut verbo dicam quantitate intelligibilitatis, quod etiam indicat omnia esse propter intelligentes» (De Risi 2006, p. 58). 39 Abbiamo già menzionato più volte il fatto che Reichenbach sosteneva che la relatività einsteiniana conducesse effettivamente alla radicale relatività del moto (e dello spazio). Il ragionamento presente sul cattivo uso del principio di semplicità in Leibniz è in Reichenbach 1924a, p. 433, nota 3. 40 Vedi per esempio: «Kant ist aktiver Rationalist, weil er Willensmensch und „Idealist der Freiheit“ ist; Leibniz dagegen ist zunächst intuitiver Noëtiker, weil er in erster Linie theoretischer Mensch ist. [...] [Pichler] hält Leibniz also für einen intuitiven Noëmatiker, dem Noëma und Hyle wie Form und Inhalt zu einer einheitlichen Gegenstandsanschauung verschmelzen. In Wahrheit dagegen steht Leibniz, wie wir wiederholt gesehen haben, Husserls Phänomenologie viel näher. Denn auch er hält die wesensverschiedenen Regionen

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§ 8. Movimenti oscuri. Proviamo dunque adesso a districarci un poco nel complesso groviglio

dell’epistemologia leibniziana. Cercheremo di farlo tentando un’interpretazione della filosofia naturale di Leibniz che sotto certi aspetti può considerarsi una radicalizzazione della prospettiva fenomenologica di Mahnke, la quale recupera parecchi elementi della lettura fisicalista reichenbachiana.

Occorre introdurre nel nostro contesto di filosofia naturale la nozione fenomenologica dei gradi di chiarezza e distinzione delle percezioni e delle idee. Si trova così che Leibniz parla della indeterminazione del fenomeno, cioè del fatto che un fenomeno è soggetto ad una pluralità di possibili spiegazioni, appunto perché ogni fenomeno, in quanto tale, è il prodotto di un’apprensione confusa della realtà. Il fenomeno è per Leibniz l’oggetto della percezione sensibile, e la sensibilità, nella teoria della conoscenza leibniziana, è l’organo della conoscenza confusa. Tale confusione ha come conseguenza che vi sono lati del fenomeno che non esprimono adeguatamente la cosa in sé stessa (la monade o l’aggregato di monadi), cioè che la conoscenza delle cose attraverso i fenomeni è strutturalmente incompleta. L’indeterminazione della teoria fisica che pretende di spiegare il mondo fenomenico è dunque semplicemente una conseguenza della fenomenicità del mondo stesso.

D’altra parte, però, questa dottrina della indeterminazione strutturale del fenomeno in quanto tale rispetto alla teoria non è del tipo immaginato da Mahnke, cioè tale che vi siano contenuti oggettivi del mondo noumenico i quali non possono essere espressi fenomenicamente, e dunque un regno di cose in sé (o di proprietà delle cose in sé) al di là dei fenomeni e irrappresentabile in essi: ogni contenuto è in quanto tale passibile di espressione fenomenica, e non vi è mistero naturale che non possa essere svelato. Accade così che possiamo spiegarci quei passi sulla determinazione del moto del sistema solare secondo la lettura non convenzionalista, e più aderente ai testi e allo spirito della filosofia leibniziana, che era stata offerta da Reichenbach. Il principio architettonico della semplicità delle ipotesi è soltanto un mezzo che possediamo per rendere più chiare e più distinte le nostre idee sulla Natura. In base a tale principio architettonico noi riusciamo ad affermare che la Terra gira, e il Sole sta fermo, e quindi ad individuare dove effettivamente si trova la forza motrice e la quantità di moto (nella Terra, cioè, e non nel Sole), ciò che era precluso dall’interpretazione di Mahnke, fatta di proprietà inconoscibili per principio e di convenzionalismo che supplisce all’inconoscibilità.

Beninteso, questo vero moto della Terra è esso stesso assai ipotetico, e nuove osservazioni, percezioni più chiare, o ipotesi architettoniche più semplici (un’altra teoria del moto, o un’altra teoria della circolazione dei corpi celesti nell’etere) potrà condurci ad affermare che il moto reale non è né quello tolemaico né quello copernicano, ma un altro ancora. Il fenomeno ci resta sempre indeterminato, perché è fenomeno, e il moto vero non

der noëmatischen Objektivität und hyletischen Subjektivität deutlich auseinander und schaltet zur Vermittlung zwischen ihnen an zentraler Stelle einer dritte, die noëtische Region der intentionalen Geistesakte, ein; und auch er gründet wie Husserl die Noëmatik auf die Noëtik, die Vernunftobjektivität auf die objektivierende Vernunft...» (Mahnke 1925, pp. 486 e 513; altri esempi si possono trovare numerosi in Mahnke 1917).

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lo afferriamo che ipoteticamente. Si vede bene che in questo contesto cade la dicotomia quineana fra indeterminazione induttiva ed indeterminazione teorica di una teoria, dove la prima sarebbe causata dall’insufficienza del dato sperimentale, e la seconda, più radicale, dal fatto che nonostante tutti i dati sperimentali che si possano raccogliere, restano tuttavia numerose teorie possibili per spiegarli.41 L’indeterminazione leibniziana è induttiva, perché quel che manca sono dati, e soltanto dati; ma è anche teorica perché è impossibile, non solo difficile, raccogliere tutti i dati.

§ 9. Ideali fittizi.

Occorre chiarire meglio quest’ultimo punto e dissipare un facile equivoco, che mi pare sia poi il problema fondamentale. Si potrebbe cioè interpretare questa teoria leibniziana dell’indeterminazione del fenomeno e del vero moto, come una teoria regolativa. Si potrebbe dire: il moto vero c’è, ma non può essere determinato con esattezza; tuttavia con sempre migliori conoscenze sperimentali e sempre maggiore astuzia teorica, ci approssimiamo ad esso, pur senza mai raggiungerlo (perché i nostri esperimenti sono finiti, e la nostra migliore astuzia comunque inefficace dinanzi alla cieca impenetrabilità della Natura). Questa ricostruzione, assai naturale, tuttavia, non distinguerebbe poi molto la teoria leibniziana dalla stessa teoria di Newton, il quale beninteso sapeva benissimo che il proprio spazio assoluto (e moto assoluto) non è immediatamente afferrabile sperimentalmente, ma va costruito con approssimazioni di sistemi inerziali. Ma soprattutto questa teoria sarebbe a grandi linee la medesima di Kant, così come egli la espone nella sezione dedicata alla Fenomenologia dei suoi Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft: nei quali lo spazio assoluto (e dunque il moto vero) è un ideale regolativo al quale ci si avvicina indefinitamente.42

Sennonché la faccenda non può stare così in Leibniz. Il punto davvero delicato è proprio nella nozione di fenomeno, il quale per Leibniz esprime in maniera più o meno fedele un mondo in sé stesso, il quale è un universo di spiriti senza tempo, senza spazio e senza moto, perché spazio, tempo, movimento, sono soltanto i correlati espressivi (fenomenici appunto) che sorgono dalla rappresentazione imperfetta, velata, confusa, di quel mondo noumenico. Ma allora si vede che questo presunto ideale regolativo, il moto vero, che le nostre indagini sempre più minuziose del mondo fenomenico mirano a ricostruire, è un ideale fasullo. Quando possedessimo, per assurdo, una conoscenza perfetta, e cioè chiara e distinta, dell’intero mondo fenomenico, la quale ci renderebbe finalmente

41 Vedi Quine 1970. 42 Il testo kantiano si legge in KgS IV, pp. 558-65. La posizione di Kant è in effetti un poco più complessa di quella esposta brevemente qui, perché egli assume come ideale regolativo non già il moto assoluto (il quale è anche secondo lui un concetto contraddittorio), ma lo spazio assoluto come condizione di possibilità del moto relativo. La distinzione kantiana cade dunque fra il moto vero e il moto apparente, entrambi i quali sono relativi. Non credo, tuttavia, che convenga entrare nel merito di queste ulteriori articolazioni, che comunque non aggiungono molto alla prospettiva generale, che è quella, che sola qui ci interessa, di una costruzione regolativa di un sistema inerziale. Reichenbach era comunque ben consapevole della complessità della posizione kantiana, come si legge in Reichenbach 1924a, pp. 429-30, nota 2, dove Reichenbach ribadisce che la distinzione kantiana sarebbe stata comunque “anticipata” e anzi migliorata da Leibniz. Per una lettura di quegli anni di questo nodo della filosofia naturale kantiana vedi Schneider 1921. Per un’ottima ricostruzione, storica e teorica, della dottrina kantiana dello spazio assoluto come ideale regolativo vedi Friedman 1992, pp. 136-64.

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capaci di determinare senza più dubbio, oscillazione o imbarazzo il movimento vero e la vera forza, ecco che noi stringeremmo fra le mani non più un fenomeno ma un noumeno. Il fenomeno infatti sussisteva a causa della sua confusione e della sua oscurità. Ma questo noumeno è un oggetto sovrasensibile, senza spazio, senza tempo, e (per quel che ora ci interessa) senza moto. Ogni domanda sul vero moto e sulle vere forze, pertanto, cesserebbe. Questo moto assoluto, dunque, che per essere moto deve essere fenomenico, e per essere assoluto non può esserlo, è niente altro che una contradictio in adjecto. E non può essere un ideale regolativo.

E’ facile rendersi conto che questa distinzione fra Leibniz e Kant riposa in ultima analisi sulle loro differenti concezioni del rapporto fra sensibilità e intelletto, e che Kant, che ha assunto la sensibilità come una facoltà indipendente dal pensiero, non trova nessuna contraddizione in una conoscenza perfetta del fenomeno in quanto fenomeno, e quindi nel porre quest’ultima come ideale regolativo (che non si raggiunge soltanto a causa della struttura limitata della nostra sensibilità); mentre Leibniz, che ha fatto della sensibilità un grado imperfetto dell’intelletto, non può ammettere la conoscenza perfetta del fenomeno in quanto tale.

Più in generale, e sotto il profilo più ampio della storia delle idee, si potrebbe forse aggiungere che questo ideale morale e illuministico kantiano, di un continuo progresso verso una maggiore conoscenza, che deve, e dunque può, essere perseguito, era parzialmente estraneo a Leibniz, il quale parla talvolta di progresso, ma sempre in toni assai cauti. E che aveva di esso, mi pare, un’idea più simile a quella di Husserl, secondo la quale guadagnare una nuova evidenza è tutt’uno col produrre, altrove, un adombramento e una dimenticanza. Sicché anche questo moto assoluto (come lo spazio assoluto del resto) non era per lui un ideale da ricercare, o che si potesse ricercare. Vi sono solo teorie, parziali e locali, che qui e lì, talvolta, ci additano e ci fanno intravedere per speculum et in aenigmate, attraverso e al di là dei fenomeni, il vero moto. § 10. La teoria leibniziana del tempo.

Mi pare che tale ricostruzione della dottrina leibniziana del moto possa rappresentare almeno un inizio di spiegazione di quelle affermazioni dall’apparenza contraddittoria sul movimento relativo e quello reale. Ma prima di provare a trarre delle conclusioni, veniamo all’altro argomento principale della corrispondenza fra Reichenbach e Mahnke, il quale poi è anche il secondo nucleo filosofico dell’interpretazione di Leibniz come precursore della teoria della relatività: la teoria del tempo.

Si trova infatti che qui e là nei propri scritti Leibniz talvolta svolge alcune considerazioni a favore di una teoria causale del tempo, una teoria, cioè, secondo la quale il tempo non sarebbe altro che la manifestazione percettiva, e quasi l’epifenomeno, di relazioni causali più profonde e più autentiche.43 Egli non si preoccupò mai, tuttavia, di stendere un trattato, o anche soltanto un saggio, di tale teoria: e tutto ciò che noi oggi abbiamo sono alcuni appunti, tutti ad uso personale, brevi, oscuri, ellittici, che il grande filosofo stese in alcune occasioni. Il suo pensiero non sembra affatto nitido, né coerente, su quest’argomento, e vi è molto da dubitare che egli sia mai stato in possesso di una teoria 43 Sul carattere riduzionista, o no, della teoria leibniziana vedi Arthur 1985 e Cover 1997. Nel seguito parlerò comunque di teoria causale del tempo riferendomi a Leibniz, sebbene vi possano essere dubbi (vedi § 16) che si possa equiparare la ratio leibniziana alla causa in senso proprio.

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della temporalità in senso pieno. Si può addirittura sospettare, anzi, che tale teoria non solo non vi fosse, ma che riuscisse a Leibniz addirittura impossibile a edificarsi, nel senso che le altre parti della sua metafisica non lasciavano spazio alla costituzione di una filosofia del tempo.44

Come che sia di ciò, tuttavia, resta il fatto che in un’opera dell’estrema maturità leibniziana, gli Initia rerum mathematicarum metaphysica del 1715, egli azzarda qualcosa di più in questa direzione, e pone le basi di quella che sembra, in effetti, una complessa teoria causale del tempo.

Questo tipo di teorie, variamente declinate, ebbero una certa fortuna nel corso del diciannovesimo secolo (non certo a merito di Leibniz ma a causa della Critica di Kant) e all’inizio del nuovo secolo vi fu una serie di pensatori che volle vedere nella teoria della relatività di Einstein una conferma di quell’interpretazione del fenomeno temporale.45 Come nel caso della relatività del moto, o del principio di Mach, è assai dubbio che la fisica einsteiniana effettivamente imponga una siffatta lettura filosofica, e nella seconda metà del secolo ventesimo si sono sollevate molte voci a smentire la necessità, l’opportunità, o addirittura la possibilità stessa di una teoria causale del tempo nell’ambito della teoria della relatività.46 Negli anni venti, tuttavia, la teoria causale era molto invitante, e pareva spiegare molte cose della nuova fisica. Reichenbach se ne fece uno dei più lucidi e fecondi interpreti, e in effetti la sua Axiomatik del 1924 è essenzialmente un’assiomatica del tempo.47 Non stupisce, dunque, che nel saggio su Leibniz del medesimo anno egli provi ad interpretare, ed era la prima volta che qualcuno se ne prendeva la pena, gli Initia leibniziani, e a darne una ricostruzione razionale che ne colmasse le molte lacune e potesse mostrare come, e fino a qual punto, Leibniz fosse, o no, un precursore pure di questo aspetto così fondamentale della fisica einsteiniana. Non vi può essere dubbio, d’altra parte, che come per i suoi

44 Ho articolato un po’ meglio questo punto in De Risi 2007. 45 Quasi tutti gli autori che si cimentarono verso la fine dell’Ottocento all’edificazione di teorie causali del tempo erano kantiani o comunque fortemente influenzati dalle Analogie dell’esperienza. Vedi, un esempio fra tutti, Lechalas 1895. All’inizio del Novecento l’ottavo capitolo di Russell 1914, che pure discute una teoria causale del tempo (questa volta non kantiana), poteva aver influenzato alcuni neo-positivisti (e certamente Carnap) su questo argomento. La prima sistematizzazione della teoria della relatività come teoria causale del tempo è probabilmente Robb 1914; quella più vicina all’opera di Reichanbach è Lewin 1923; subito dopo apparve anche Carnap 1925. Reichenbach, dal canto suo, era del resto ben consapevole di dare soltanto un’interpretazione della Relatività. 46 Il punto fondamentale è che nella seconda metà del secolo scorso la relatività fu sempre più geometrizzata, e una volta che scienziati e filosofi si familiarizzarono con gli spazi di Minkowski e di Lorentz ben pochi ritennero che la nozione di causa potesse risultare più chiara di quella di tempo: sicché ragioni epistemologiche per tentare la riduzione non ce ne erano quasi più; e le ragioni metafisiche erano viste assai male. Vedi per esempio il dibattito fra Bas Van Fraassen e John Earman (Van Fraassen 1970, Earman 1973, Van Fraassen 1973). Recentemente le interpretazioni puramente geometriche della relatività hanno cominciato ad essere contestate in nome di letture più attente alla dinamica (vedi Brown 2005), che forse potrebbero rigenerare gli approcci causali alla dottrina del tempo. Per una critica più generale alla necessità che la teoria delle relatività imponga una teoria causale del tempo, e più in particolare ad alcuni aspetti dell’assiomatica reichenbachiana, vedi Friedman 1977. Per una difesa della prospettiva reichanbachiana, anche se non del dettaglio dell’assiomatizzazione, vedi invece il classico (e per certi versi superato) Grünbaum 1973, pp. 179-208. 47 Reichenbach 1924c. Reichenbach continuerà ad occuparsi del problema fino agli ultimi mesi della sua vita; le sue ricerche successive sull’argomento sono state pubblicate postume in Reichenbach 1956, dove, al § 3, egli ancora individua in Leibniz il primo teorico di una teoria causale del tempo.

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contemporanei così anche per Reichenbach lo stimolo ad interpretare la teoria della relatività come una teoria causale del tempo venisse da Kant, e che mentre egli si provava ad assiomatizzarla avesse squadernate dinnanzi a sé le pagine dell’Analitica dei Principi. Fu anche nel corso di quest’impresa, come pare, che Reichenbach s’avvide delle insufficienze della filosofia kantiana rispetto alla nuova fisica. Cosicché, finito il lavoro teorico e rivoltosi a quel Leibniz che egli veniva scoprendo, non solo vi ritrovò l’anticipazione della propria opera e di quella di Einstein, ma lo giudicò, ancora una volta, assai migliore di Kant. 48

La questione era di nuovo quella dello psicologismo. Ammettere, come faceva Kant, che il tempo fosse una forma dell’intuizione, e un’intuizione pura esso stesso, e che la causalità come principio logico soltanto strutturasse, anziché produrre, questo materiale intuitivo, originariamente acquisito dalla coscienza per altra fonte, era per Reichenbach all’origine di tutti i difetti dell’impostazione kantiana. Egli non si stanca di ripetere che la determinazione einsteiniana del tempo, che pure dipende in maniera assai forte (al contrario della newtoniana) dall’osservatore, tuttavia “non dipende dalle percezioni dell’osservatore, ma piuttosto dagli schemi che ordinano la sua conoscenza” perché tale teoria “si rifà soltanto alle condizioni logiche della conoscenza, e non a quelle psicologiche”.49 Reichenbach sa bene che Cassirer aveva fatto leva sulla dipendenza della simultaneità dall’osservatore in relatività ristretta per infilar dentro alla nuova fisica l’Io trascendentale, e che insisteva a dare tuttavia un’interpretazione antipsicologista di quest’ultimo, e del kantismo in generale. Ma abbiamo già notato come Reichenbach fosse persuaso ormai che questa fosse una plausibile lettura di Kant, e che la via kantiana si prestava quantomeno a una “gefährliche Irreführung”.50 48 Reichenbach 1924a, p. 421 nota 1, ci informa che egli non conosceva ancora i luoghi leibniziani sulla teoria causale del tempo quando, pochi mesi prima, scriveva la sua assiomatizzazione (Reichenbach 1924c). Una discussione, solo storica, dell’interpretazione reichenbachiana della teoria del tempo di Leibniz apparve pochi anni dopo sempre su Kant-Studien; vedi Gent 1926. L’anno successivo Weyl 1927 discuteva anch’esso (§ 16) la teoria leibniziana degli Initia in relazione alla relatività einsteiniana. 49 Reichenbach 1924b, § 1 (trans. Maria Reichenbach). Reichenbach aveva inviato questo suo saggio violentemente anti-psicologista a Mahnke, come si legge nella nostra corrispondenza in Appendice. Vedi anche Reichenbach 1924a, p. 422: «Auch die Kantische Zeitlehre (wie sie etwa in der 2. Analogie der Erfahrung formuliert ist), reicht an die Leibnizsche Erkenntnis nicht heran. Der unglücklichen Kantischen Bestimmung der Zeit als anschaulicher Bedingung der Kausalität ist die Leibnizsche Formulierung als allgemeines Ordnungsschema der Kausalreihen überlegen. Dies tritt allerdings erst vom Standpunkt einer auf Axiomatik begründeten Erkenntnistheorie klar zutage». 50 La discussione di Cassirer sulla soggettività trascendentale nella teoria della relatività è in Cassirer 1920. Opinioni non troppo diverse (ma certo meno timorose dell’accusa di psicologismo) erano state espresse anche da Weyl 1917 (II, § 6, p. 72), che all’epoca era decisamente orientato verso la fenomenologia. L’opinione di Reichenbach sull’operazione di Cassirer, che sotto questo profilo tendeva dunque ad assimilare la teoria leibniziana del tempo con quella kantiana senza scorgerne le distinzioni anti-psicologiste è dunque questa: «Cassirer sucht dort [in Cassirer 1902] die nahe Verwandtschaft beider Lehren nachzuweisen, wärhend es mir unter dem Eindruck der inzwischen erfolgten relativistischen Lösung des Problems notwendig scheint, die Leibnizsche Raumlehre der Kantischen noch überzuordnen» (Reichenbach 1924a, pp. 425-26 nota 3; alla stessa pagina 426 si legge la frase di Reichenbach sui “pericolosi fraintendimenti”). Sullo psicologismo della concezione kantiana del tempo vedi anche Reichenbach 1924c, § 3. La più importante opera sulla teoria causale del tempo successiva a quella di Reichenbach è il grande saggio del 1935 di Henryk Mehlberg, il quale pure ripete che Leibniz avrebbe anticipato la teoria causale di Kant e di Einstein, ma che Leibniz sarebbe, al contrario di Kant, anti-psicologista; sennonché Mehlberg ritiene che questo sia un difetto, e non un pregio, della teoria leibniziana, giacché è a suo avviso indispensabile avere una teoria che connetta l’esperienza interna del tempo con il tempo oggettivato della fisica (cf. Mehlberg 1935). Sull’argomento vedi anche Putnam 1991.

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Neppure Leibniz, beninteso, era arrivato davvero alla concezione puramente causale del tempo propria della relatività einsteiniana,

aber seine Raum-Zeit-Lehre führt direkt zu diesem Resultat hin, während die Kantische ihm im Wege stand, und auch durch die Doppeltheit von transzendentaler Idealität und empirischer Realität den objektiven Charakter von Raum und Zeit nur sehr ungenügend formulierte.51

Ma quali sono dunque i difetti della teoria leibniziana? Dove ha egli fallito

nell’anticipazione di teorie più complete? Sono queste le questioni principali della discussione fra Reichenbach e Mahnke.

§ 11. La simultaneità perduta.

Cerchiamo dunque di capire qualcosa della struttura della teoria causale del tempo offerta, così frammentariamente, da Leibniz. Il luogo fondamentale preso in considerazione dagli interpreti, da Reichenbach in poi, è il seguente brano tolto ai menzionati Initia rerum mathematicarum metaphysica del 1715:

Si plures ponantur existere rerum status, nihil oppositum involventes, dicentur existere simul. … Si eorum quae non sunt simul unum rationem alterius involvat, illud prius, hoc posterius habetur. … Et ideo quicquid existit alteri existenti aut simul est aut prius aut posterius.52

E’ abbastanza evidente, in quell’involvere rationem alterius che qui si stia parlando di

qualcosa come una teoria causale della successione, sebbene, a dire il vero, la ragione leibniziana non sempre si lasci ricondurre docilmente alla nozione di causa. E’ anche evidente, d’altra parte, che quel primo nihil oppositum involvere rimandi invece al principio di contraddizione, cioè alla definizione leibniziana di possibilità come non-contraddizione. A questo punto, tuttavia, risulta in tutta evidenza anche il nostro problema: che riguarda la liceità della conclusione che si trae in quelle ultime righe. Resta da chiedersi, cioè, perché mai due stati di cose (esistenti) che si oppongono, e dunque non possono coesistere, debbano essere causalmente connessi e perciò cronologicamente ordinati in successione. O anche, viceversa, perché mai due stati di cose (esistenti) logicamente compatibili e simultanei debbano per forza essere causalmente indipendenti.

Il problema è dunque, in prospettiva leibniziana, niente meno che quello del rapporto che sussiste fra il principium contradictionis, che regola e dirige la simultaneità, e il principium rationis, che invece determina la successione. E il rapporto fra tali principi, come è molto noto a tutti gli interpreti, non si lascia sciogliere facilmente nei testi leibniziani; al punto che sarà uno dei massimi motivi di dibattito nella Germania del diciottesimo secolo, che si divise fra convinti assertori della riducibilità d’un principio all’altro e altrettanto

51 Reichenbach 1924a, p. 426. 52 GM VII, p. 18.

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irriducibili anti-riduzionisti; tutti poi confusissimi su quali fossero, più nel dettaglio, le relazioni fra queste due massime regole.53

Ma soprattutto, quando si sposta l’attenzione dai termini generali della questione all’applicazione che Leibniz ne fa nella propria teoria del tempo, e dal Settecento si passa al Novecento, si vede molto chiaramente che è proprio la teoria della relatività einsteiniana che, ammettendo l’esistenza di eventi né simultanei né causalmente connessi, nega la conclusione leibniziana e conferisce dunque piena visibilità, e direi quasi drammaticità, a questo problema.54

Si tratta della questione, tanto dibattuta ai tempi di Reichenbach, della convenzionalità della simultaneità nella teoria einsteiniana. Accade infatti in Relatività che, dati eventi O, P, Q, tali che Q sia nel cono di luce futuro di P, ma nessuno dei due nel cono di luce di O, si possa determinare in maniera oggettiva che P precede Q, ma non però se O è simultaneo all’uno oppure all’altro (giacché non gli è causalmente connesso). E si dovrà ricorrere ad una convenzione.55

Ma alla stessa maniera non sembra che la teoria leibniziana possa escludere che uno stato di cose O sia compatibile (cioè non involva opposizione) tanto con uno stato di cose P quanto con uno stato di cose Q, ma che tuttavia P e Q siano fra loro incompatibili e causalmente connessi. Si avrebbe così, di nuovo, che P e Q sono fra loro determinati temporalmente, ma non si saprebbe poi dire a quale dei due sia simultaneo O. Quel che manca o fa problema, insomma, è la transitività della relazione leibniziana di compatibilità, giacché se O e P, e O e Q sono compatibili a coppie non pare che se ne possa dedurre che lo sono anche P e Q. D’altra parte non sembra neppure che Leibniz potesse o volesse ricorrere ad una soluzione convenzionalista, che pare lontanissima dalla maniera di pensare del secolo diciottesimo, né ad una dipendenza della simultaneità dalla velocità dell’osservatore, e dunque si trovava, semplicemente e un’altra volta ancora, a metà strada fra una teoria assolutista newtoniana ed una relativista einsteiniana, senza sapere bene come cavarsi d’impaccio, e quasi più per errore che per calcolo.

Reichenbach leggeva dunque la teoria causale del tempo di Leibniz a questa maniera, e non stupisce affatto, in quegli anni di discussione così accesa sul concetto relativistico di simultaneità, che egli ravvisasse negli Initia, come prima nella teoria del moto, un’anticipazione e un’occasione mancata.56

§ 12. La simultaneità ritrovata.

Reichenbach lamenta dunque che la costruzione leibniziana del tempo non determina completamente l’orizzonte di simultaneità (perché la mancanza di nesso causale non è sufficiente a ciò). Mahnke, come in precedenza a proposito del moto relativo, tenta una

53 Mahnke 1917, § 32, p. 32, offre invece una lettura piuttosto semplificata del problema. 54 La possibilità opposta, invece, quella di eventi sia causalmente connessi che simultanei, è negata dalla teoria della relatività. Della causalità simultanea nel sistema di Leibniz parleremo brevemente al § 13. 55 Friedman 1983, pp. 177-78, nota correttamente che Reichenbach confonde sistematicamente fra convenzionalità della simultaneità (che riguarda la determinazione del valore di e nella formula del tempo di propgazione del segnale) e relatività della simultaneità (che concerne invece lo stato di moto dell’osservatore), e che tale confusione ha prodotto una quantità di false interpretazioni del significato della relatività ristretta. Forse anche la sua lettura di Leibniz non è passata immune attraverso questa ambiguità. 56 Vedi Reichenbach 1924a, p. 421 (testo e nota 1), e la corrispondenza con Mahnke in Appendice.

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difesa di Leibniz. Negli Initia, nota Mahnke, Leibniz offre un argomento per la determinazione completa del luogo temporale di uno stato di cose qualsiasi; eccolo qui:

Status meus prior rationem involvit, ut posterior existat. Et cum status meus prior, ob omnium rerum connexionem, etiam statum aliarum rerum priorem involvat, hinc status meus prior etiam rationem involvit status posterioris aliarum rerum atque adeo et aliarum rerum statu est prior. Et ideo quicquid existit…57

Uno stato di cose, dunque, involvit rationem degli stati di cose ad esso successivi, ma

tuttavia involvit (diciamo pure: simpliciter) gli stati di cose ad esso simultanei, a causa della connessione fra tutte le cose. Tale stato di cose, dunque, determina una sezione temporale di simultaneità, e attraverso tale sezione, esso risulta determinato cronologicamente anche rispetto a quegli altri stati di cose che, direttamente, non gli sono connessi causalmente.58

La soluzione appare brillante, non appena vi si ragioni un poco sopra. Alcuni interpreti moderni della teoria leibniziana del tempo, certo spinti dalle pionieristiche ricerche reichenbachiane, si sono provati, in effetti, a ricostruire un’assiomatizzazione formale della teoria leibniziana del tempo (per tanti aspetti simile all’assiomatica relativistica di Reichenbach), e hanno trovato che opportune interpretazioni del passo leibniziano ora menzionato consentono di formulare una teoria tanto complessa quanto coerente.59

Resta tuttavia da capire bene cosa mai significhi quell’involvere (simpliciter) leibniziano, ovvero la Verknüpfung aller Dinge di cui parlano Reichenbach e Mahnke.

§ 13. Influsso fisico.

Una prima possibilità è quella di dare un significato fisico a questa nozione. Leibniz stesso sembra incline talvolta a ritenere che la propria cosmologia, che presenta un universo pieno nel quale la materia spinge altra materia all’infinito, comporti che sÚmpnoia p£nta e che dunque ogni parte dell’universo fisico sia immediatamente connessa con tutto il resto, e ne abbia in sé l’impronta.60 Cosicché vi sarebbe in effetti un’azione reciproca, una

57 GM VII, p. 18. Il luogo è menzionato nella seconda lettera di Mahnke, ma era noto anche a Reichenbach 1924a, p. 421. 58 E’ probabile che a ben guardare neanche questa spiegazione, priva di ipotesi aggiuntive, sia sufficiente a risolvere il problema della determinazione totale del tempo, perché essa non pare eliminare la possibilità di un tempo ramificato, che pure la teoria generale della relatività deve poter prendere in considerazione. Tuttavia forse queste ipotesi aggiuntive si possono effettivamente trovare nella metafisica leibniziana, come ad esempio che uno stato di cose abbia per causa un solo altro stato di cose (perché la causa eguaglia l’effetto, o perché la causalità è in realtà una relazione interna, etc.). In ogni caso la questione qui, mi pare, si è troppo allontanata dai reali problemi leibniziani e dunque si perde inesorabilmente nella nebbia della vaghezza interpretativa. E’ vero tuttavia che l’assiomatizzazione relativistica di Reichenbach 1924c ha ancora oggi alcuni punti di valore per quel che riguarda la relatività speciale (o la relatività generale se si ammette l’esistenza di una superficie di Cauchy globale), mentre i modelli di Gödel, e poi le ricerche di Carter, di Penrose, etc. rendono difficile accettare l’assiomatica reichenbachiana del tempo per la teoria generale della relatività nella sua forma più ampia. Vedi comunque le riserve espresse da Winnie 1977. 59 Vedi Winnie 1977, e poi Arthur 1985, senz’ombra di dubbio i migliori contributi all’interpretazione della filosofia leibniziana del tempo. Richard Arthur è tornato recentemente sull’argomento nel suo nuovo libro su Leibniz (ancora in stampa), migliorando ancora l’assiomatizzazione e rispondendo persuasivamente alle critiche cha da varie parti erano state mosse alla sua ricostruzione. 60 Cfr. Monadologia, § 61, in GP VI, p. 617. L’idea della connessione fisica del tutto si trova già nei primissimi scritti della giovinezza di Leibniz e precede dunque probabilmente quella successiva, più metafisica, legata al

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Comunanza (Gemeinschaft) fra tutti gli stati di cose, la quale potrebbe essere il fondamento fisico della relazione di simultaneità.

Non è tuttavia probabile che questa soluzione kantiana potesse essere quella di Leibniz, né che essa varrebbe davvero a definire la simultaneità. In primo luogo non è affatto chiaro come dovrebbe configurarsi fisicamente, nella filosofia naturale di Leibniz, questa dipendenza di ogni cosa dal tutto, giacché se anche si ammettesse un effetto causale dell’intero universo su ogni parte della materia, non risulterebbe tuttavia affatto ovvio che l’universo si potrebbe ricostruire a partire dalla parte, visto che una pluralità di cause differenti potrebbero avere effetti eguali. Ma, soprattutto, questo effetto causale dell’intero universo sulla singola parte, affermato talvolta in sede metafisica, sembra smentito poi in sede fisica, giacché la teoria cartesiana dei vortici, alla quale Leibniz aderisce in tutte le proprie costruzioni cosmologiche, è costruita appunto con lo scopo di giustificare il moto locale e un’interazione causale non globale (il vortice stesso come dominio di chiusura della causalità fisica).

Si tratta poi di capire (in secondo luogo) se questa interazione fisica, ammesso che vi sia, possa essere adatta a determinare non solo la successione ma anche la simultaneità. E’ certamente vero, infatti, che Leibniz, come tutta la fisica pre-relativistica, non ammette che vi sia una velocità massima di propagazione dei segnali e dunque degli effetti causali; tuttavia egli nega decisamente (al contrario di Kant) la possibilità dell’azione a distanza, e cioè che tale velocità sia attualmente infinita. Ciò sembra sufficiente ad escludere che la relazione di simultaneità possa essere fondata su una Wechselwirkung causale istantanea.61

E in terzo luogo, poi, vi è il problema dell’assenza, a rigore metafisico, di qualsiasi tipo di influsso fisico reale nella filosofia leibniziana, che quindi renderebbe derivativa e solo fenomenica quella stessa causalità empirica sulla quale si vorrebbe fondare la temporalità, e dunque la condizione di possibilità del fenomeno medesimo.62

Insomma, come che si rigiri l’argomento non pare che la soluzione della Terza Analogia potesse essere accettata da Leibniz, e pare invece che egli s’avvicinasse alla relatività einsteiniana almeno in questo senso: che la simultaneità non dev’essere fondata su una forma di causalità reciproca (come se A involvit simpliciter B fosse eguale ad A involvit rationem B et B involvit rationem A), ma di assenza di nesso causale. La teoria di Leibniz aveva così almeno il vantaggio di non doversi impelagare nelle formidabili difficoltà che

concetto astratto di espressione e alla nozione di concetto completo. Anche quest’idea più astratta della connessione, del resto, si trova nella Monadologia (§ 56, GP VI, p. 616), e Leibniz sembra prenderle per equivalenti. A me non pare che lo siano affatto, e che la loro forza sia molto differente, quasi che la nozione fisica sia una sorta di fossile che ancora vive nel sistema della maturità o almeno nelle sue esposizioni più divulgative. 61 Vedi il menzionato luogo di Friedman 1983 per una discussione sull’importanza che la velocità massima di propagazione del segnale ebbe, forse a torto, in Reichenbach 1924c. Reichenbach 1920, come è noto, riteneva che la finitezza della velocità massima di propagazione di un segnale fosse un principio sintetico a priori. Il punto fondamentale è naturalmente che l’azione sia istantanea, non che sia “a distanza”; cf. la nota 2 alla seconda lettera di Mahnke, in Appendice. 62 Mehlberg 1935 sosteiene invece, ma mi pare erroneamente, che la teoria leibniziana dell’armonia prestabilita contenga “implicitamente” la teoria kantiana dell’influsso fisico.

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affliggono le teorie che ammettono una causalità simultanea, o una distanza temporale fra causa ed effetto che “verschwindend ist”.63

§ 14. Influsso metafisico.

In ogni caso questa soluzione kantiana e fisicalista, di interpretare quell’involvere come un influsso fisico, non fu avanzata da Reichenbach, che la riteneva, come s’è notato, del tutto inadeguata alla nuova fisica e pertanto ingeneroso attribuirla forzatamente a Leibniz. Resta la possibilità d’intendere, sulla scorta delle dichiarazioni leibniziane dell’inesistenza di un influsso fisico reale, quel legame fra tutte le cose in senso assai più metafisico. Si ricorre allora alla nozione astratta di espressione, e si nota che ogni monade, secondo Leibniz, percepisce più o meno oscuramente tutto il mondo, e dunque contiene rappresentativamente in sé medesima tutto quel mondo, e quindi la possibilità di ricostruirlo.64 Se io nel mio atto percettivo istantaneo esprimo l’intero universo, allora evidentemente so anche (sia pure oscuramente) ciò che è simultaneo a questo atto. La relazione metafisica d’espressione “si propaga” dunque istantaneamente in tutto l’universo, supplendo a quell’azione immediata a distanza che Leibniz negava in sede di filosofia naturale (per usare una metafora fisica di ciò che fisico non è più).

Questa, neanche a dirlo, è la soluzione di Mahnke.65 Essa non poteva essere accettata da Reichenbach, giacché poneva nuovamente al cuore della costruzione fisica leibniziana tutta quanta una metafisica e una psicologia razionale delle facoltà cognitive. Si vede dunque che anche sul tema della temporalità le posizioni dei due contendenti sono nettissime, verso il fisicalismo rigoroso l’uno, verso la fenomenologia e la metafisica l’altro.

Gli interpreti moderni della teoria causale del tempo di Leibniz lasciano per lo più indeterminato in che cosa si risolva questa leibniziana connessione di tutte le cose, ma certamente tendono più verso l’ottimismo interpretativo di Mahnke che verso il pessimismo di Reichenbach; e intendono senz’altro la connessione universale come una relazione immediata e totale fra gli stati di cose (come sembra che sia, insomma, l’espressione). Partendo da questa prospettiva “mahnkiana” essi riescono dunque a ricostruire in maniera coerente e formale la teoria causale del tempo presentata da Leibniz negli Initia; attraverso uno speciale “assioma di connessione” l’indeterminatezza della simultaneità, lamentata da Reichenbach nella costruzione leibniziana, è corretta; la relazione di compatibilità fra stati di cose si dimostra transitiva; le sezioni temporali risultano determinate oggettivamente, e così pure, alla fine, un orizzonte assoluto di simultaneità. E’ così eliminata dalla teoria leibniziana qualsiasi tentazione relativistica, e già Mahnke concludeva infatti che: «Von einer Relativierung der Gleichzeitigkeit kann also bei Leibniz durchaus nicht die Rede sein».66

63 Per Kant, vedi KrV, A 202-203, B 247-49; KgS III, pp. 175-76. Più in generale su questo tema cf. per esempio la menzionata disputa fra Van Fraassen 1970 e Earman 1973. E’ vero tuttavia che proprio il ricorso ad una struttura extra-logica, quella dell’intuizione pura, consentirebbe forse a Kant alcune mosse verso la risoluzione del problema (ad esempio se la struttura topologica del tempo non dipendesse dalla struttura causale, ma fosse data nell’intuizione a priori); ma si tratta di una soluzione che sarebbe senz’altro preclusa a Leibniz. 64 Si considera rilevante cioè il summenzionato § 56 della Monadologia, anziché il § 61. 65 Essa è espressa nella terza lettera in Appendice. 66 Seconda lettera di Mahnke in Appendice.

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§ 15. Tempi oscuri.

Tale ricostruzione del pensiero leibniziano appare convincente, ma forse un po’ povera. Vorrei adesso tentare non già di negare, ma di ampliare, questa interpretazione, per mostrare come all’interno del quadro così costituito sia possibile recuperare alcune delle critiche e delle istanze avanzate da Reichenbach. Il risultato sarà ancora una volta ottenuto radicalizzando il carattere fenomenologico dell’interpretazione di Mahnke.

Chiediamoci innanzitutto cosa ne è del nostro problema originario, quello della relazione fra il principio di contraddizione e quello di ragione. Dall’interpretazione avanzata da Mahnke risulta che quel nihil oppositum involvere della definizione leibniziana di simultaneità debba essere equiparato a quell’involvere simpliciter della connessione fra tutte le cose, e cioè che se A e B non si oppongono, allora si involvono. Gli interpreti moderni, costretti alla chiarezza dalle formule, semplificano ancora, e pongono che il contrario di nihil oppositum involvere sia appunto involvere rationem, cosicché tutti e tre gli involvere leibniziani del passo degli Initia si riducono ad una sola nozione primitiva, quella di causalità (o meglio di ragione). Così il principio di contraddizione è sparito senza lasciar tracce, e il nostro problema è stato tagliato con una definizione che dice quel che si voleva dimostrare, e cioè che se due cose si oppongono, e dunque non sono simultanee, allora si implicano causalmente; e poi, con l’assioma di connessione, che se due cose, invece, non si oppongono, allora si involvono a vicenda.67

Ma a me pare, in verità, che si può provare a ricevere un senso più pregnante di quel non comportare opposizione, quello cioè della semplice compossibilità in un medesimo tempo (la quale si basa sul principium cotradictionis come fondamento della possibilità), e un senso più debole di quell’involvere simpliciter, che non comporti che dato uno stato di cose (un contenuto monadico in un istante) allora resti determinato necessariamente (ex hypothesi) l’intero universo. Mi pare abbastanza evidente, infatti, che questa nozione forte (di espressività totale) dell’involvere ci conduce direttamente a ciò che alcuni interpreti leibniziani hanno chiamato superessenzialismo, o insomma ad affermare che ogni monade è strutturalmente legata a tutto quanto un mondo. E mi pare che il sistema leibniziano sia così soggetto ad un peculiare collasso modale, che finisce col rendere inutili tutte le sue riflessioni su libertà, mondi possibili, eccetera, e lo consegna direttamente all’aborrito spinozismo.68

L’interpretazione che stiamo considerando, dunque, banalizza la nozione di compossibilità simultanea (a mio avviso espressa da quel nihil oppositum involvere), nel senso che ogni stato di cose (esistente) è compatibile soltanto con una sola serie (pure esistente) di altri stati di cose ad esso simultanei.

Ma soprattutto essa banalizza il concetto stesso di causa, perché in effetti è una teoria che, a dispetto delle apparenze, non tratta di una pluralità di oggetti e stati di cose, ma di

67 Mi riferisco sempre a Winnie 1977 e ad Arthur 1985. 68 Questa è stata, beninteso, la tesi di parecchi interpreti del pensiero di Leibniz, dal secolo diciottesimo ad oggi, e non è affatto facile negarla, giacché vi sono molti luoghi nei quali Leibniz sembra effettivamente essere spinoziano obtorto collo. In De Risi 2007, pp. 463-77, ho provato ad offrire una teoria “fenomenologica” o “trascendentalista”, come si vuole, del sistema modale leibniziano. Quella che presento qui a proposito della simultaneità è soltanto un caso particolare (pure sfrondato di alcuni dettagli piuttosto essenziali) di quella teoria generale.

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una sola cosa (l’universo) in diversi stati. Sicché si potrebbe dire che il fatto che tu ora stia leggendo è causa del sorgere del sole domani, perché il tuo leggere involve necessariamente tutto lo stato dell’universo in questo istante, ed esso per conto suo è causa del fatto che il sole sorgerà domani. C’è un senso nel quale quest’ultima conclusione sarebbe senz’altro riguardata come vera da Leibniz, ma non senza una pluralità di distinguo. In ogni caso, così com’è, essa rende del tutto inservibile il concetto di causa per qualsiasi uso scientifico od esplicativo della realtà. Essa riduce in effetti la complessità dei nessi causali del mondo ad un ordine totale, che poi viene allora facilmente identificato con la successione temporale.

Mi pare che la maniera per sfuggire a questo genere di semplificazioni, e di recuperare un concetto pieno di compossibilità e contingenza dei simultanei, sia di prendere sul serio le piene potenzialità del concetto di espressione. E’ vero, cioè, che il principio di determinazione dell’orizzonte di simultaneità si deve trovare nella relazione espressiva (e non, per esempio, nell’influsso fisico), e quindi che la teoria temporale leibniziana abbia questo ineliminabile sapore metafisico; ma questo concetto di espressività può e deve essere declinato fenomenologicamente secondo i diversi gradi della chiarezza percettiva. L’insieme delle mie percezioni chiare (distinte o no) ha un orizzonte assai limitato. Questo orizzonte, che beninteso io posso ampliare al di là dei suoi limiti fisiologici con argomenti architettonici e razionali, e insomma con la conoscenza della Natura (questo è d’altronde il vasto significato del concetto leibniziano di percezione), è tuttavia sempre finito. Al di là di esso vi è il vasto oceano delle rappresentazioni oscure, le quali tuttavia per me sono nulla. Ciò che non percepisco ora (in questo senso ampio), io non posso dire che sia ora, e oltre il mio ristretto orizzonte di simultaneità il resto dell’universo è per me del tutto indeterminato riguardo alla sua collocazione temporale. Io insomma costruisco un sistema locale di simultaneità, nel quale valgono tutte le regole e tutta l’assiomatizzazione che abbiamo visto in precedenza (un intorno di causalità banale), senza poter tuttavia determinare, e dunque banalizzare, la struttura causale globale.

Potrebbe sembrare che questo sia “psicologismo”, e cioè una concezione epistemica della modalità in generale e della modalità temporale in particolare; non è tuttavia così, giacché, come abbiamo osservato nel caso del moto assoluto, l’oscurità percettiva è per Leibniz una condizione di possibilità della stessa percezione, non una contingenza di essa. Senza oscurità non vi è sensibilità, non vi è fenomeno, e dunque non vi è tempo. L’orizzonte di simultaneità assoluta, dunque, non solo non è determinato oggettivamente da nessun atto percettivo, ma non è neppure determinabile in linea di principio; non solo esso non esiste realmente, ma non esiste neppure idealmente, cioè come ideale regolativo (perché è contraddittorio). Vi è un senso forte, dunque, nel quale non si può dire che la sezione temporale di simultaneità sia scoperta più di quanto essa non sia invece costituita nella successione degli atti percettivi. Vi è certamente una forte analogia fra la possibilità di determinare un orizzonte globale di simultaneità assoluta (e dunque un ordine totale del tempo) e la possibilità di determinare lo spazio assoluto e il moto reale; il carattere locale delle costruzioni leibniziane dello spazio e del moto relativo ha dunque la stessa origine, come mi pare, delle sue costruzioni solo locali della simultaneità. I due problemi sono connessi anche nel senso che l’individuazione del moto vero richiede, come abbiamo visto, la conoscenza della causa del moto stesso; e lo stesso è richiesto, naturalmente, per la costruzione di una teoria causale del tempo. E’ dunque la medesima “oscurità

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trascendentale” che avvolge la conoscenza delle cause a determinare la relatività del movimento e insieme dell’ordine temporale.69

Si vede che qui siamo ad una negazione di un concetto di simultaneità assoluta, il quale tuttavia non ha proprio nulla a che vedere con la relatività einsteiniana, perché non riguarda né la relatività del sistema di riferimento né la convenzionalità della metrica o dell’isotropia di propagazione dei segnali. La negazione della simultaneità deriva invece semplicemente da una lettura fenomenologica integrale delle potenzialità insite nella metafisica leibniziana. Questa lettura offre per molti versi un’immagine del tempo assai più simile a quella di un Bergson o di uno Husserl, che di un Einstein. Non c’è da stupirsi che Reichenbach non si sia avventurato in una siffatta interpretazione di Leibniz, giacché abbiamo visto come egli rifiutasse l’intervento della fenomenologia nella fisica e della psicologia della percezione temporale nella determinazione della simultaneità. E’ anche vero d’altra parte che, come nel caso del moto assoluto, Dietrich Mahnke poteva essere più vicino a tale soluzione, ma preferì tuttavia offrirne una che, per essere più semplice, finiva però per smarrire la prospettiva fenomenologica dalla quale egli stesso voleva prendere le mosse. 70

§ 16. Nota sulla topologia.

In margine alla discussione sulla teoria leibniziana del tempo, credo che valga ora la pena di menzionare brevemente un altro tema trattato nel saggio di Reichenbach su Leibniz del 1924, e di qualche rilievo nelle discussioni sulla teoria della relatività. Reichenbach nella Axiomatik aveva offerto una costruzione della successione temporale articolata in due momenti: dapprima si costruisce quella che egli chiama la struttura topologica del continuo temporale, la quale è, in effetti, più che una struttura topologica una struttura d’ordine; e successivamente le si aggiunge la struttura metrica vera e propria, cioè la misura della distanza fra gli istanti precedentemente ordinati. Reichenbach ritiene che Leibniz stesso, negli Initia, fosse pervenuto alla costruzione di una struttura topologica, prima che metrica, del tempo; e che ciò fosse senz’altro da ascriversi ai suoi profondi studi sulla geometria,

69 Arthur 1985 osserva dunque molto acutamente che una teoria causale del tempo interamente fenomenica è per Leibniz completamente fuori discussione, perché essa presupporrebbe come condizione preliminare la conoscenza completa delle cause del moto, la quale è impossibile. La teoria leibniziana del tempo riposa dunque necessariamente su un sostrato metafisico (cioè su una teoria dell’espressione e dell’attività monadica), che vieta di dirla fisicalista in senso pieno e, in certa misura, addirittura di dirla una teoria causale tout court (se per causa s’intende, cioè, una relazione puramente fisica e fenomenica). 70 Avendo già presentato diverse volte delle forti riserve sulla completezza o la chiarezza della dottrina leibniziana del tempo, non credo di dover ribadire che si tratta qui di un’interpretazione molto libera che, partendo da premesse generali della metafisica di Leibniz, tenta di ricostruire, o meglio costruire per la prima volta, una teoria sull’argomento. Essa vuole fornire un punto di vista alternativo, ma non esclusivo, rispetto alle ricostruzioni di Winnie e di Arthur, giacché mi pare impossibile determinare quale fosse, ammesso che vi fosse, la posizione storica reale di Leibniz. Segnalo inoltre che vi è un luogo (A VI, 4A, n. 147, p. 629), menzionato da Arthur, nel quale Leibniz parla apertamente dei simultanei non come compossibili ma come connecessari. Tuttavia è un brano precedente alla corrispondenza con Arnauld e alle riflessioni di Leibniz sugli Adami possibili e gli Adami generali, e non so se egli sarebbe stato dello stesso avviso anche negli anni della maturità e della vecchiaia; inoltre sembra che in quel brano Leibniz si facesse partigiano di una dottrina della simultaneità come causazione reciproca (à la Kant), che invece nel seguito abbandonerà decisamente.

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l’analysis situs, che anticipavano, una volta ancora, le ricerche novecentesche nel campo della topologia.71

Ora, a me pare che di topologico vi sia molto poco negli studi leibniziani sull’analysis situs, i quali si occupano prevalentemente, e anzi quasi esclusivamente, di geometria metrica.72 Vi è tuttavia qualcosa di vero nell’affermazione reichenbachiana, sebbene forse ciò non vada ascritto alla preveggenza, ma piuttosto ad un certo smarrimento, della teoria leibniziana.

Accade infatti che la relazione fondamentale della geometria leibniziana, quella di situazione (situs), sia definita attraverso il concetto di congruenza. Quest’ultimo poi è definito il più delle volte mediante l’invarianza di qualità e quantità della figura (cioè come una similitudine che non modifica la misura). Ma se uno infine si chiede come Leibniz definisca qualità e quantità, si trova risospinto dalla matematica alla metafisica, o meglio alla fenomenologia. Dopo infatti aver tentato varie strade, Leibniz (diciamo a partire dagli anni novanta del Seicento) si risolve a questo passo, che a me pare assai importante nell’economia generale del suo pensiero: definire (e non già solo caratterizzare) la qualità e la quantità mediante l’atto di compercezione.73 Questa “svolta fenomenologica” della filosofia leibniziana, che nello stesso periodo portava ad una serie di altri mutamenti nel sistema metafisico, aveva però come conseguenza che il situs, cioè la distanza, potesse applicarsi soltanto a quelle cose che, in linea di principio, possono essere compercepite, e cioè esistono simultaneamente. Ciò aveva il vantaggio di caratterizzare propriamente lo spazio attraverso la nozione di situazione (giacché lo spazio è l’ordine della simultaneità), ma anche il difetto, per dir così, di eliminare forzatamente qualsiasi considerazione situazionale dalla definizione del tempo: conclusione che Leibniz non esita a trarre in tutta la sua coerenza. Egli dice allora che gli istanti temporali sono dotati di positio l’uno rispetto all’altro, e cioè di una relazione d’ordine reciproca, ma non però di situs. E’ dunque questa la ragione (fenomenologica, dunque, più che matematica o fisica), per la quale Reichenbach trova quella peculiare costruzione della relazione d’ordine temporale negli Initia, la quale non comporta relazioni situazionali, e dunque alcuna considerazione della distanza; e che Reichenbach piglia dunque per topologica.

Il tempo leibniziano, insomma, è strutturalmente non metrico: è innanzitutto un tempo della coscienza (come nei menzionati Bergson e Husserl). E si pone il problema se esso possa addirittura mai essere metrizzato. Leibniz, come abbiamo notato, non sembra 71 Per la questione sotto il profilo teorico vedi gli assiomi IV,1 e IV,2 ai §§ 10 e 11 di Reichenbach 1924c. Il luogo di Leibniz sarebbe GM VII, p. 25, e l’interpretazione reichenbachiana del passo si legge in Reichenbach 1924a, pp. 422-23. 72 Per l’argomentazione di ciò debbo rimandare al secondo capitolo di De Risi 2007. 73 La prima caratterizzazione in questo senso appare già in una lettera a Gallois del 1677, ma essa diventa una definizione vera e propria solo nello Specimen Geometriae luciferae (1695) e negli scritti ad esso vicini. La definizione a Gallois è la seguente: «Apres avoir bien cherché, j’ay trouvé que deux choses sont parfaitement semblables, lorsqu’on ne les sçauroit discerner que per compraesentiam, par example, deux cercles inegaux de même matiere ne se sçauroient discerner qu’en les voyant ensemble, car alors on voit bien que l’un est plus grand que l’autre. Vous me direz: je mesureray aujourdhuy l’un, demain l’autre; et ainsi je les discerneray bien sans les avoir ensemble. Je dis que c’est encor les discerner non per memoriam, sed per compraesentiam: parce que vous avez la mesure du premier presente, non pas dans la memoire, car on ne sçauroit retenir les grandeurs, mais dans une mesure materielle gravée sur une regle, ou autre chose. Car si toutes les choses du monde qui nous regardent, estoient diminuées en même proportion, il est manifeste, que pas un ne pourroit remarquer le changement» (A III, 2, n. 79, p. 227-28; A II, 1, n. 158, p. 380 ; GM I, p. 180).

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concedere molto spazio al convenzionalismo; e la spazializzazione del tempo, cioè l’attribuzione di una situazione ad ogni istante, non si capisce in base a quale principio (non empirico, evidentemente) dovrebbe mai effettuarsi.74

La questione, in effetti, ha conseguenze non solo matematiche, ma anche strettamente filosofiche, perché col passare del tempo la nozione di situazione finì per assumere, nell’ambito del sistema leibniziano, il ruolo generalissimo di sintesi percettiva. La percezione infatti è, secondo una celebre definizione di Leibniz, l’espressione dei molti nell’uno, ma questa espressione è poi realizzata in rapporti situazionali, i quali producono, appunto, la rappresentazione spaziale (il fenomeno). Leibniz però, per le ragioni che abbiamo accennato, non possiede un’analoga sintesi temporale, e cioè (per usare la terminologia kantiana) delle autentiche categorie dinamiche.75 Fra le molte conseguenze di questo fatto c’è anche quella che il tempo gli risulta così disarticolato in istanti, come accade in talune recenti presentazioni fisiche. E’ interessante notare come queste moderne ipotesi cosmologiche (quella di Julian Barbour, per intenderci) ritengano in effetti di ispirarsi direttamente al modello leibniziano per quel che riguarda la relatività “machiana” del moto, e colleghino l’impossibilità di una sintesi temporale reale all’impossibilità della determinazione dello spazio assoluto e del vero moto.76

A noi sarà sufficiente, tuttavia, l’aver rilevato che la costruzione leibniziana della “topologia” temporale non era poi fondata sulla topologia, ma sulla fenomenologia, e che Reichenbach, ancora una volta, coglieva qualcosa di profondo che era sfuggito a molti e forse a tutti, deformandolo tuttavia in una prospettiva fisicalista che poco si addice alla filosofia leibniziana.

§ 17. Conclusione.

Abbiamo così messo a confronto le interpretazioni di Reichenbach e di Mahnke su due temi assai importanti della filosofia leibniziana, il moto e il tempo. Sembra che una ricostruzione coerente del pensiero di Leibniz debba cogliere alcuni motivi validi dell’una e 74 Nel menzionato passaggio degli Initia Leibniz sembra suggerire che si debbano porre alcune condizioni sull’esistenza nel tempo degli oggetti empirici. Questo è però un passaggio delicatissimo, perché pone come condizione di possibilità della costruzione del tempo oggettivo (metrico) una condizione fenomenica che da quel tempo dovrebbe essere condizionata. Per una lettura in questa direzione, vedi De Risi 2007, p. 359 and note 47. In ogni caso si può anche ricordare che Leibniz riteneva che alcune leggi fisiche fossero esse stesse a priori, e quindi forse ci sarebbe la possibilità di basarsi su alcune di queste regole funzionali per la determinazione, ad esempio, dei moti periodici. Per comprendere l’importanza della determinazione del tempo uniforme nella fisica del Seicento, vedi ad esempio già la giovanile Theoria Motus abstracti, in GM VI, p. 70; GP IV, p. 231; A VI, 2, n. 41, p. 267; e poi il testo del 1679, On the universality of Number, and on Time, in De Risi 2007, p. 622. Per una soluzione assai ingenua della questione, ma di sapore “topologico”, vedi Mahnke 1917, § 53, p. 52. 75 La positio non è una modalità sintetica, come si evince dal manoscritto degli Initia rerum mathematicarum metaphysica (cf. De Risi 2007, p. 483 nota 31). Né lo è la appetition che fa passare da una rappresentazione all’altra (Monadologie, §§ 11-16; GP VI, pp. 608-609), giacché essa è soltanto metale ed ideale (un’intenzionalità non necessariamente riempita). 76 Questa è in effetti la nota dottrina leibniziana della transcreatio, che si presenta per la prima volta nel Pacidius Philalethi del 1676 (A VI, 3, n. 78, p. 560; C 617), ma riappare fino agli ultimi anni della riflessione leibniziana (Leibniz a De Volder, 11 ottobre 1705; GP II, p. 279). Il Pacidius è ricco di argomentazioni tratte da Sesto Empirico; per quanto riguarda il problema della relazione fra causalità e tempo, vedi Adv. Phys. B, 232-35. Per un’esposizione divulgativa delle idee dinamiche di Barbour vedi Barbour 1999; per il rapporto con Leibniz qualche cenno già in Barbour 1989.

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alcuni dell’altra interpretazione; senza però che questo dia luogo a una qualche lettura anfibia, mezzo positivista e mezzo fenomenista, della filosofia leibniziana. Al contrario, pare che sia proprio una certa radicalizzazione della prospettiva fenomenologica che consente, meglio di altre, di ridare compattezza alle molte oscillazioni e complessità di quel pensiero sempre in divenire. Tale lettura marca anche assai bene, mi pare, i limiti e i punti di forza di quelle interpretazioni degli anni venti.

La prospettiva puramente fisicalista di Reichenbach si rivela inadeguata, nel senso che la teoria della sensibilità (e insomma la dottrina fenomenologica) della filosofia leibniziana deve installarsi anche nel cuore della sua filosofia naturale, e Leibniz, homo metaphysicus77, non fu, non volle, e non poté essere un fisico puro nel senso novecentesco e positivista del termine. Come Kant, egli ha bisogno di una teoria del fenomeno per edificare una filosofia della natura, e di una teoria dell’oscurità delle rappresentazioni per giustificare i propri assunti fisici sulla relatività del moto o la simultaneità temporale. Ma Reichenbach, che proprio nei primi anni venti stava abbandonando definitivamente il kantismo, era divenuto oramai completamente sordo a queste istanze.

D’altra parte la prospettiva fisicalista reichenbachiana ha almeno il vantaggio di tenere uniti, per dir così, fenomeni e noumeni. In questa maniera egli rifiuta coerentemente tanto l’interpretazione convenzionalista quanto l’interpretazione pseudo-kantiana di Mahnke. Il quale, provenendo da studi fenomenologici, aveva forse maggiori opportunità di ricostruire l’autentico pensiero leibniziano (almeno così mi pare), ma fu indotto da suggestioni neo-kantiane, o semplicemente da un certo Zeitgeist della filosofia accademica tedesca, a presentare la fenomenologia di Leibniz come semplice fenomenismo, e ad insistere quindi sul divorzio fra cose in sé e fenomeni, e sul progresso infinito della conoscenza.78 In questa maniera egli tradiva quella direzione di pensiero ben presente, e vorrei dire dominante, negli ultimi scritti di Leibniz, in base alla quale il concetto di espressività diventava il centro dell’intera filosofia, e non residuava più nulla, nel regno delle monadi, che non fosse rappresentato nei fenomeni. Sicché il fenomenismo leibniziano si avvicinava alla

77 La curiosa espressione è del leibniziano Bilfinger. 78 Questo punto risulta chiarissimo anche dalla successiva (1933) disputa sull’epistemologia matematica che, tutta interna alla scuola husserliana, divise Mahnke e Oskar Becker, e che è raccontata in Mancosu 2005. Becker, in nome del metodo fenomenologico, escludeva la possibilità dell’accesso a certe oggettività ideali transfinite non costruttive. E la escludeva non soltanto per il matematico incarnato (per il Dasein, insomma), ma anche per il matematico ideale come puro Ego. Il quale puro Ego, che potremmo riguardare come un’intelligenza angelica delle tradizione metafisica classica, diceva Becker, è comunque ben distinto dall’intelletto divino infinito in atto. Mahnke ammette quest’ultimo punto, e anzi ribadisce che anche Leibniz era di quest’avviso, e che le intelligenze angeliche e l’anima del mondo sono certamente distinte da Dio, per potenza intellettuale, anche nel sistema leibniziano. Sennonché, aggiunge Mahnke, è ben possibile che una intelligenza pura, che prescinde dunque dal tempo e dalla mortalità, possa infinitamente approssimare l’intelletto divino. Ma ciò, che va benissimo per l’Io trascendentale kantiano, mi pare che sia sbagliatissimo per Leibniz, il quale insistette sempre moltissimo sul fatto che fra la comprensione divina e quella umana non c’è continuità di sorta, ma un irriducibile salto. Al punto che Leibniz distingueva nettamente un infinito ipercategorematico, che sarebbe il vero assoluto divino, dall’infinito categorematico, che sarebbe l’infinito attuale del progresso compiuto e dunque l’ideale regolativo raggiunto (e cioè Dio in certe prospettazioni kantiane o neo-kantiane, e nell’idea di Mahnke), il quale infinito categorematico è per Leibniz addirittura contraddittorio (Leibniz a Des Bosses, 1° settembre 1706, GP II, pp. 314-15; Nouveaux Essais, II, XVII, § 1; A VI, 6, n. 2, p. 157; GP V, p. 144). Mi pare dunque che nel 1933 Mahnke su questo punto fosse assai più neo-kantiano che autenticamente leibniziano o fenomenologo.

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fenomenologia almeno in questo senso: che nel fenomeno, e non oltre esso, si trova tutto ciò che si può e si deve conoscere. E così la filosofia leibniziana finiva per somigliare di più, sotto certi aspetti, all’empirismo di Reichenbach che al kantismo delle cose in sé. Mi pare che questo aspetto della filosofia di Leibniz fosse stato colto assai bene dal giovane Mahnke ancora tutto impregnato di fenomenologia, ma che andasse poi smarrito nel corso degli anni. Ho cercato di mostrare alcune tappe di questo lento abbandono della fenomenologia pura verso altre posizioni filosofiche, così come esso appare attraverso talune dichiarazioni di Mahnke nella corrispondenza con Reichenbach, e poi, soprattutto, nella successiva crisi con Fink e Becker. Negli anni trenta Mahnke era ormai, agli occhi della fenomenologia ortodossa, un metafisico che costruiva mondi di noumeni, regni di monadi, al di là dei fenomeni.

A me pare dunque che siano queste fughe di Reichenbach dal neo-kantismo e di Mahnke dalla fenomenologia, che si consumano proprio attorno al 1924, a rappresentare la chiave la di lettura più adatta per giudicare della loro interpretazione di Leibniz, e a spiegare le posizioni talvolta assai strane che i due duellanti si trovarono a difendere, spesso anche contrarie al loro credo o alla loro inclinazione, ma sempre originalissime e assai profonde. In questa ricerca faticosa della propria via sullo sfondo dello studio della filosofia di Leibniz mi pare che si trovi anche l’autentico nucleo di interesse della corrispondenza fra Reichenbach e Mahnke.

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Appendice La corrispondenza fra Mahnke e Reichenbach

HR-16-37-08

Greifswald, 25. 12. 24. Sehr geehrter Herr Doktor, Ihr Aufsatz über die Bewegungslehre bei Newton, Leibniz und Huyghens [besser

Huygens] im neusten Heft der Kantstudien, das ich soeben erhalte, interessiert mich so ausserordentlich, dass ich Ihnen darauf gleich heute – am Weinachtstage! – schreiben muss. Denn er hilft mir bei einem Ziele, das ich seit Jahren verfolge, den lange verkannten Leibniz in seiner wissensch. Bedeutung zu rehabilitieren und seine aktuelle Gegenwartsbedeutung auf fast allen Gebieten seiner universalen Lebensarbeit nachzuweisen. Dass Leibniz der Relativitätstheorie sehr nahe steht, ist mir auch bereits aufgefallen. Ich verweise auf meine „Neue Monadologie“, Ergänzungsheft Nr. 39 des Kantstudien, S. 90, und vor allem „Leibniz und Goethe“ S. 98 ff. (Ich sende Ihnen mit gleicher Post ein Exemplar dieser vor 5 Monaten erschienenen, vor 13 Monaten verfassten Schrift.) Sie beherrschen allerdings die moderne Relativitätstheorie unvergleichlich besser als ich, dafür glaube ich aber wesentliche Ergänzungen zu Ihrer Leibnizdarstellung geben zu können. Lesen Sie bitte einmal die in Anm. 66 zitierten Stellen nach (ausserdem mir seit der Durchlegung noch aufgefallen sind: Couturat, Opuscules et fragments inédits de Leibniz, Paris 1903, S. 485 f., 590-593 sowie die Ihnen bekannten Briefe an Clarke); Sie werden dort, wie ich glaube, finden, was Sie S. 428, 429, 434 bei Leibniz mit Unrecht vermissen. Doch ich will vorläufig nichts weiter über meine Auffassung dieser Stellen verraten, um Sie ganz „vorurteilslos“ an das Studium herangehen zu lassen. Später wäre mir eine Diskussion mit Ihnen sehr erwünscht, da ich in meinem in Vorbereitung befindlichen Leibnizbuche (in der Kafkaschen Sammlung) auch auf diesen Punkt näher eingehen möchte, als ich in „Leibniz und Goethe“ beiläufig konnte.

Mit dem Ausdruck vorzüglicher Hochachtung Ihr ganz ergebener Dietr. Mahnke.

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HR-16-37-09

25. Jan. 1925. Herrn Oberstudienrat Dr. Mahnke, Greifswald Moltkestr. 7.

Sehr geehrter Herr Doktor, ich danke Ihnen sehr für Ihr freundliches Schreiben zu meinem Leibniz-Aufsatz und

auch für die liebenswürdige Uebersendung Ihrer Schrift über Leibniz und Goethe. Leider konnte ich Ihnen nicht eher antworten, da ich erst jetzt von einer mehrwöchentlichen Vortragsreise zurückgekehrt bin. Ich bin mit Ihnen ganz einig darin, daß Leibniz heute lange nicht genug gewürdigt wird, und daß es eine Forderung der historischen Gerechtigkeit ist, auf seine weitschauenden Arbeiten hinzuweisen. Ich bin Ihnen für den Hinweis auf einzelne Stellen bei Leibniz jederzeit sehr dankbar, da es wohl möglich ist, daß mir einiges entgangen ist. Bisher konnte ich leider nur diejenigen Stellen nachschlagen aus Ihren Zitaten, die sich in der Cassirerschen Ausgabe finden. Diese Stellen enthalten allerdings nichts Neues gegenüber den schon von mir zitierten Stellen, denn immer wieder findet sich darin der Gedanke, daß es im metaphysischen Sinne doch eine absolute Bewegung gibt; und über die bloße Versicherung, daß alle Annahmen über die Verteilung der Bewegung gleichberechtigt wären, kommt Leibniz anscheinend nicht hinaus. Es war mir in meiner Arbeit darum zu tun, nachzuweisen, daß trotzdem die Leibnizsche Auffassung schon einen wesentlichen Fortschritt bedeutet; anderseits glaube ich, daß man hier doch nicht zu weit gehen darf und dem alten Philosophen schon Ansichten unterlegen darf, die erst bei dem heutigen Stand der Wissenschaft möglich sind. Das würde seine Lehre geradezu entwurzeln.

Ich werde sehr gern, sowie ich die Zeit finde, die andern von Ihnen zitierten Stellen nachsehen. – Heute schicke ich Ihnen gleichzeitig eine kleine Arbeit von mir über die relativistische Zeitlehre, die Sie vielleicht interessieren wird.

Ich bin mit ergebenem Gruß Ihr Hans Reichenbach

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HR-16-37-10

Greifswald, 21.2.25. Sehr geehrter Herr Doktor! Nachdem endlich das Manuskript meines im Druck befindlichen Leibnizbuches

abgeschlossen und dem „hungrigen“ Setzer übersandt ist, beeile ich mich, Ihnen für Ihren freundlichen Brief vom 25.1 und die liebenswürdige Übersendung Ihres Scientia Aufsatzes über der relativistische Zeitlehre bestens zu danken. Ich habe den Aufsatz mit grossem Interesse gelesen. Er räumt mit grosser Klarheit und Überzeugungskraft allerlei Gegenargumente hinweg. Sie haben auch ganz recht – und darum interessiert mich als Leibnizforscher Ihre Arbeit noch besonders, wenn Sie Ihre Axiomatik der relativistischen Raum-Zeit-Lehre als eine (unbewusste) Weiterführung Leibnizscher Gedanken ansehen (Kantstudien, Bd. 29, S. 421). Auch das ist mir natürlich völlig klar, dass es eben eine sehr wesentliche Weiterführung ist. Sie bezeichnen den Unterschied sehr deutlich, wenn Sie sagen, Leibniz habe noch nicht bemerkt, dass die Gleichzeitigkeit keineswegs schon eindeutig definiert sei, wenn man verlange, dass die Ursache der Wirkung nie und nirgends zeitlich nachfolge (dass also, wie ich sagen möchte, eine ursächliches Folgen „aus“ auch immer ein zeitliches Folgen „auf“ sei). Leibniz ist in der Tat der Meinung, dass erstens in der Erlebniswelt jeder einzelnen Monade die Zeitordnung durch die Begründung jedes Zustandes durch einen andern (den „vorher gehenden“) bestimmt festgelegt ist und zweitens die Zustände jeder Monade denen jeder andern durch eine funktionale Entsprechung ein-eindeutig zugeordnet sind, so dass also mit der Zeitordnung in jeder Monade die jeder andern mitgegeben ist. (Diese funktionale Zuordnung, meist prästabilierte Harmonie genannt, ist die „Verknüpfung aller Dinge“ in der von Ihnen S. 421 f. zitierten Stelle.) Von einer Relativierung der Gleichzeitigkeit kann also bei Leibniz durchaus nicht die Rede sein. In dieser Hinsicht liegt es mir völlig fern, Leibniz „schon Ansichten unterzulegen, die erst bei dem heutigen Stand der Wissenschaft möglich sind“, wie Sie mir schreiben. Leibniz hat gewiss nicht die Einsteinsche Relativitätstheorie vorweg genommen, die auf den neuen empirischen Erkenntnissen beruht. Ja, er begründet seine Relativitätstheorie überhaupt nicht, wenigstens nicht zunächst, auf physikalische Erfahrung, sondern auf metaphysische Spekulation und zeigt erst nachträglich ihre Übereinstimmung mit der Empirie.

Soweit stimme ich mit Ihnen überein. Im Unterschiede von Ihnen aber glaube ich nun zeigen zu können, dass Leibniz wenigstens die Relativität der räumlich-zeitlichen Bewegung ganz konsequent und in jeder Hinsicht behauptet und begründet hat. Die Stellen, die Sie dagegen anführen, handeln gar nicht von der physikalischen, räumlich-zeitlichen Bewegung, sondern von dem, was nach Leibnizens Metaphysik dieser phänomenalen

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Bewegung in Wahrheit zu Grunde liegt: von der psychischen1 „Kraft“, die gleichzeitig Energie und Entelechie ist, der Fähigkeit zu geistiger „Bewegung“, zu Vorstellungsänderung und Willensstrebung. Solche „Bewegungskraft“ aber kommt allerdings „absolut“ jeder Monade zu, nur in verschieden hohem Grade. Wenn aber diese absolute innere Wirklichkeit äusserlich, körperlich „erscheint“, als räumliche Bewegung, so wird sie dadurch radikal relativiert. Man kann jeden Körper als ruhend oder beliebig bewegt ansehen u.zw. nicht nur in Translationsbewegung, sondern auch in Rotationsbewegung befindlich – alle „Hypothesen“ sind „äquivalent“, keine kann durch die Erscheinungen widerlegt werden, und es gibt keine andre Entscheidung zwischen ihnen als auf Grund der „Einfachheit“. Die Tatsache dieser Relativität benutzt Leibniz gerade, um zu zeigen, dass die wahre Wirklichkeit etwas ganz anderes als räumliche Ausdehnung und Bewegung ist, nämlich innere (letztlich seelenartige) Tätigkeit. (Gerh. Leibnizens math. Schr. VI 251).

Sie vermissen (S. 428 f., 434) im Briefwechsel mit Clarke u. Huygens eine nähere Ausführung seiner Relativitätstheorie der Rotationsbewegung und meinen, wir würden wohl nie erfahren, wie Leibniz sie sich gedacht hatte und was er Clarke erwidert haben würde. Nun, das letztere hat Cassirer in seiner (u. Buchenaus) Ausgabe der Hauptschriften I S. 220 f. schon ganz richtig unter Hinweis auf Gerh. VI 197 festgestellt2. Und das erstere finden Sie ausführlich in Leibnizens grosser Dynamica Gerh. VI 484 ff., 500 ff. und vor allem 507-11, auch in der kürzeren Bearbeitung, Specimen dynamicum Gerh. VI 247-253. (Diesen II. Teil haben Buchenau-Cassirer leider I 272 nicht mit angeschlossen; den I. Teil hat Leibniz 1695 in den Acta Eruditorum veröffentlicht, so zu sagen als „Fühler“, ob seine grosse Dynamik auf Verständnis würde rechnen können – er fand kein Verständnis, und so hat er die fast druckfertige Dynamik und auch den II. Teil des Spec. dyn. ungedruckt gelassen; auf diese Weise ist es so lange unbekannt geblieben u. z.T. jetzt noch unbekannt, wie weit er die spätere Wissenschaft schon vorausgenommen; vgl. mein „Leibn. u. Goethe“ S. 34 ff., Anm. 56, 58, 62, 63, 66.)

Ich glaube, wenn Sie diese Stellen nachlesen, werden Sie Leibniz dasselbe (nicht mehr, aber auch nicht weniger allerdings in anderer Weise!) zubilligen, wie Sie S. 435, 2. Absatz und S. 437 unten Huygens nachrühmen.

Mit dem Ausdruck vorzüglicher Hochachtung Ihr ganz ergebener Dietrich Mahnke

Verzeihen Sie, bitte, die nachträglichen Streichungen und Zusätze, die ich im Interesse der Deutlichkeit glaubte machen zu müssen!

1 oder wenigstens seelenähnlichen, wenn auch unterbewussten „Repräsentationskraft“ – repraesentare = mathematisch darstellen, nicht notwendig = vorstellen 2 Leibniz gibt von seinem Standpunkt der Nahewirkung durch Druck und Stoss eine ganz analoge Lösung wie Mach vom Standpunkt der Newtonschen Fernwirkungstheorie der Gravitation!

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