la poesia epica di onofrio d’andrea tra tasso e marino, in «critica letteraria», xli, 2013, 4,...

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CRITICA LETTERARIA 161 LOFFREDO EDITORE - NAPOLI PIETRO GIULIO RIGA Dell’Aci all’Italia liberata. La poesia epica di Onofrio D’Andrea tra Tasso e Marino

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CRITICA LETTERARIA

161

LOFFREDO EDITORE - NAPOLI

Pietro GiuLio riGa

Dell’aci all’italia liberata. La poesia epica di Onofrio D’Andrea tra Tasso e Marino

PIeTRO GIuLIO RIGA

Dall’Aci all’Italia liberata. La poesia epica di Onofrio D’Andrea tra Tasso e Marino

The assay aims to investigate Onofrio d’Andrea’s epic poetry, a pro-lific Neapolitan writer active in the first half of the seventeenth cen-tury, member of Oziosi’s Academy and fellow of the powerful Nea-politan gentleman Giovan Battista Manso. With Aci (1628), a short mytological poem divided into eight lyrics, d’Andrea received en-thusiastically, in terms of narrative and stylistic solutions, the inno-vations of Marino’s Adone; almost twenty years later, instead, it came out the Italia liberata (1647), a heroic poem influenced by Tas-so’s epic model significantly, got back by d’Andrea with substantial fidelity, although subject to changes and significant rewrites.

1. come per molti letterati del Seicento napoletano intorno ai quali la storia ha addensatato una spessa cortina di fumo, così anche il pro-filo di Onofrio d’Andrea appare tracciato da contorni irregolari e mal-fermi, condizionato com’è da una limitante carenza di testimonianze e tracce documentarie. Piuttosto scarse e generiche si rivelano le noti-zie forniteci dalle fonti erudite locali (Tutini, Toppi, d’Afflitto, Minieri Riccio), circoscritte ad una manciata di dati biografici che fanno luce su luogo e anno di nascita (Napoli 1608) e sull’identità dei genitori, il padre Giovan Antonio d’Andrea, esponente di un lignaggio marsi-gliese attivo a Napoli sin dal XIII secolo, e la madre emilia Farao1. Il repertorio di Minieri Riccio si rivela invece più utile sul versante dell’attività letteraria dal momento che menziona, fra gli scritti attri-buiti all’autore, una serie di opere prive d’indicazione tipografica che

1 A questo proposito risulta interessante il Discorso della famiglia D’Andrea di Pietro d’Occillo, volumetto encomiastico, finora ignorato, che illustra la genealo-gia del casato; P. d’Occillo, Discorso della famiglia d’Andrea, In Napoli, Appresso Ottavio Beltrano, 1627. Riassume a grandi linee l’attività del napoletano M. T. Bia-getti, D’Andrea, Onofrio, in Dizionario biografico degli italiani, XXXII (1986), pp. 545-546.

Meridionalia

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potremmo considerare alla stregua di inediti o di abbozzi progettuali2. Nella generale omologia delle fonti, testimonianze più significative provengono da un paio di documenti epistolari. Il 14 dicembre 1660 Giuseppe Battista inviava in una lettera ad Angelico Aprosio – avido di «notizie» intorno ad alcuni letterati meridionali – un breve resocon-to sull’«amico» partenopeo:

Le notizie del già Marchese di Villa sono nel foglio qui chiuso registra-te. ci son quelle di Girolamo Fontanella ancora. Quelle d’Onofrio di Andrea verranno appresso, perché per ora non posso ricordarmi quel-le minute circostanze che Vostra Paternità molto Reverenda disidera, quantunque quegli mio amico si fosse stato. Posso dirLe solamente alla grossolana che egli fu de’ nostri Oziosi, gentiluomo napolitano, applicato sempre alle lettere, di costumi assai modesti, ma nel vestire alquanto sucido, perché non sapeva mutarsi mai vestito, o sottano o soprano, se non gli cadeva a pezzi di sopra. Fu innamorato lungo tem-po d’una Signora napolitana, ma disperando il godimento de’ suoi fi-ni, prese fuor di Napoli un volontario esilio, menando la vita in un castello su la riviera d’Amalfi, dove morissi. Lasciò fuori delle stampe un libretto di Rime, alcuni pochi ragionamenti accademici, l’Italia libe-rata da Carlo Magno, poema eroico3.

A parte le note sui discutibili costumi del napoletano, Battista ci racconta di un «volontario esilio» provocato da una vicenda amorosa. In assenza di ulteriori documenti che circoscrivano con esattezza il pe-rimetro e la cronologia dei fatti e al di là della veridicità della causa d’esilio riferita da Battista, conta il fatto che nella questione veniva coinvolto in prima persona il potente aristocratico Giovan Battista Manso, marchese di Villa e principe dell’Accademia degli Oziosi, come attesta lo stesso d’Andrea in una lettera del 24 gennaio 1640 nella qua-le si rivolgeva direttamente al gentiluomo napoletano reclamando un’intercessione4. Richiesta che doveva scaturire in grazia di una soda-

2 Questa la lista: «L’Amante, trattato di filosofia morale e speculativa […] Poesie e prose sacre […] L’Amor costante, favola boschereccia […] Epistole in verso sciolto […] Il Parnaso in ottava rima distinto in quattro libri […]; Carlo Magno, poema heroico […] della filosofia naturale» (c. Minieri Riccio, Notizie biografiche e bibliografiche degli scrittori napoletani fioriti nel secolo XVII, Milano, Hoepli, 1875, p. 32). Il profilo di d’Andrea elaborato Minieri Riccio si mostra utile anche perché dà conto della presenza di Onofrio entro le raccolte di autori coevi, tra i quali si segnalano i nomi di Manso, Bruni, Battista e campanile.

3 la lettera è pubblicata da G. Rizzo, Lettere di Giuseppe Battista al padre Angelico Aprosio, «Studi secenteschi», XXXVIII (1997), pp. 267-318, alla p. 308.

4 La missiva, conservata nell’Archivio del Monte Manso di Scala di Napoli, è

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lità tra i due pregressa, tempratasi negli anni della comune militanza accademica, come lasciano intuire le parole del più noto nipote di Ono-frio, Francesco d’Andrea, che in un brano degli Avvertimenti ai nipoti accostava il Manso allo zio entro un quadro di vita ordinaria5. ulteriori ricerche condotte nelle biblioteche e negli archivi napoletani non hanno prodotto finora alcun risultato; non sono emerse testimonianze circa attività e abitudini del napoletano, sebbene da quel che emerge dal co-spicuo gruppo di opere giunte a stampa egli sembra inserirsi a pieno negli ambienti culturali e letterari della città partenopea soprattutto at-traverso l’impegno nel consesso degli Oziosi, istituzione culturale ege-mone a Napoli negli anni centrali della prima metà del Seicento6. Prati-cando diversi generi letterari, dall’epica alla pastorale, dalla lirica all’oratoria, la sua produzione, fra le più consistenti divulgate sulla sce-na letteraria napoletana di quegli anni, risulta paradigmatica per via di certe caratteristiche che potremmo rintracciare in buona parte degli esi-ti della letteratura meridionale di questo periodo, ancorata alla tradi-zione del classicismo rinascimentale più aulico e severo (Bembo, della casa, Tasso), pur tuttavia non del tutto insensibile verso gli apporti fondamentali della poetica mariniana7. In questa luce andrà dunque giustificata una ricognizione sulla produzione letteraria di questo poe-ta scarsamente noto, generalmente ignorato dalla critica se non fosse per le parole spese da Quondam sul suo conto in un paragrafo dell’or-

stata pubblicata da G. de Miranda, Una quiete operosa. Forma e pratiche dell’Accade-mia napoletana degli Oziosi 1611-1645, Napoli, Fridericiana editrice universitaria, 2000, p 267 n. 615.

5 F. d’Andrea, Avvertimenti ai nipoti, a cura di I. Ascione, Napoli, Jovene, 1990, p. 163: «e presimo casa nella calata di S. Giovanni a carbonara, nella casa ancor oggi detta della joiama per un arbore di giugiola assai antico che stava nel principio di un cortile assai lungo, con altri alberi et un pergolato che rendeva assai vaga l’entrata; talmente che il marchese di Villa, principe allora degl’Oziosi, essen-do venuto a visitarci per ragion di nostro zio, ch’era della sua Accademia, lo rasso-migliò alla casa d’evandro presso Virgilio […]» (il brano si riferisce al 1636). d’An-drea elogia il Manso in due stanze (vi 71-72) del suo Aci poema, In Napoli, Appres-so Ottavio Beltrano, 1628 (d’ora in poi solo Aci).

6 Per il sodalizio fondato nel 1611 per volontà del viceré Pedro Fernandez de castro si veda il volume già citato di de Miranda, Una quiete operosa, cit.

7 Riporto qui di seguito le edizioni, spesso alquanto rare, delle opere di Ono-frio d’Andrea: Rime, Napoli, Beltrano, 1626; Aci poema, Napoli, Beltrano, 1628; El-pino favola boschereccia, Napoli, Nucci, 1629; Poesie, Napoli, Roncagliolo, 1634; La vana gelosia commedia, Napoli, Roncagliolo, 1635; Prose, Napoli, Beltrano, 1636; Ita-lia liberata poema eroico, Napoli, Mollo, 1646; Italia liberata poema eroico, Napoli, Bel-trano, 1647.

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mai lontano studio sulla letteratura di orbita napoletana fra cinque e Seicento8; e più da vicino, la nostra attenzione si concentrerà sulle pro-ve epiche che, sebbene non ebbero il merito di alcuna ristampa, risulta-no significative in ragione di un accostamento al genere epico-narrativo che usufruisce di entrambi i modelli di Tasso e Marino, punti di riferi-mento per due differenti forme di scrittura, la lirico-idillica del poema mitologico e quella “grave” del poema eroico tradizionale.

2. da ascrivere a una parentesi giovanile appare la prima composi-zione epica di d’Andrea, un breve poema in ottave e in otto canti pub-blicato a Napoli nel 1628 per i tipi di Ottavio Beltrano che ripercorre le vicende dell’intreccio amoroso fra il pastore Aci, la ninfa Galatea e il ciclope Polifemo. Acerbo e marginale rispetto alla più ambiziosa Italia liberata che uscirà quasi un ventennio più tardi, l’Aci è una di quelle rare espressioni napoletane di assorbimento e usufrutto del modello dell’Adone, opera che a Napoli venne accolta con sostanziale freddez-za (non si contano stampe napoletane fino al 1627, anno di messa all’Indice del poema) e che non produsse, pure per ragioni di pruden-za agevolmente intuibili, tante dimostrazioni epigoniche quante ci si aspetterebbe dal capolavoro dello scrittore partenopeo più celebrato e imitato del periodo9.

Su tale indifferenza doveva certamente influire l’idea di letteratura promossa in seno agli Oziosi, il cui programma culturale e letterario, scrupolosamente interessato ai risvolti morali e politici della vita intel-lettuale, non poteva mostrarsi ricettivo nei confronti delle novità eti-che ed estetiche del poema mariniano; i richiami alla moralità e al de-coro dell’arte poetica che accompagnano la produzione di tanti acca-

8 cfr. A. Quondam, La parola nel labirinto. Società e scrittura del Manierismo a Napoli, Roma-Bari, Laterza, 1975, pp. 288-292.

9 Nell’arco primosecentesco napoletano l’Adone fu coerentemente preso a mo-dello soltanto da Andrea Santamaria nella sua Venere sbandita (Napoli, 1632), poe-ma che meriterebbe uno studio specifico. Anche Belloni inserisce l’Aci nel novero dei poemi ispirati all’Adone: «ed accanto all’Adone altri poemi si ebbero di uguale carattere, come l’Endimione di Giovanni Argoli, l’Amore Innamorato et impazzato di Lucrezia Marinella, l’Aci di Onofrio d’Andrea, l’Ateone di G. B. Negro, Le Trasfor-mazioni, poema non mai pubblicato di Scipione errico, ed un altro, pure ad imita-zione delle Metamorfosi ovidiane, che il Marino s’era accinto a comporre ma che a noi non è pervenuto» (A. Belloni, Gli epigoni della Gerusalemme liberata. Con un’ap-pendice bibliografica, Padova, Angelo draghi, 1893, p. 26). Sulla censura ecclesiastica che colpì il poema mariniano si veda c. carminati, Giovan Battista Marino tra In-quisizione e censura, Roma-Padova, Antenore, 2008, pp. 202 sgg.

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demici Oziosi – Manso per primo, il quale aveva proposto attraverso la Vita di Torquato Tasso (1621) un modello etico e letterario per molti aspetti antitetico a quello mariniano – sono presenti persino nel corre-do paratestuale dell’Aci. Nella lettera di dedica al cardinal Francesco Boncompagni d’Andrea, riprendendo il dettame oraziano dell’utile dulci, si stringe intorno ai cardini della riflessione teorica tassiana dei Discorsi del poema eroico, subordinando la componente del «diletto» a quella del «giovamento», inteso quale fine primario della poesia, con l’obiettivo di indirizzare il lettore all’apprendimento di verità morali:

dee la poesia in un tempo stesso come allettar gli animi con la novità dell’invenzione, con la varietà della disposizione, col decoro de’ costu-mi, con l’armonia dello stile, con la proprietà delle parole e con la scel-tezza della sentenza; così insiememente giovare con l’allegoria della invenzione, con l’ordine della disposizione, con l’esempio de’ costumi, con la commozione de gli affetti, con la veracità delle parole e con l’am-maestramento della sentenza. e se nelle parti sue dilettevoli sopravan-za tutti i piaceri del senso, allo ’ncontro nella parte giovevole ne reca maggiore utilità di tutte le discipline morali, con ciò sia cosa che co’ lumi dello stile, con la numerosità de’ versi, con la vivacità de gli esem-pi illustra maggiormente l’intelletto, s’imprime più tenacemente nella memoria e accende più ardentemente la volontà di quel che potrebbe con l’insegnare far la filosofia10.

caricata di requisiti etici, la poesia viene ritenuta capace di amma-estrare gli animi con maggiore efficacia rispetto alla filosofia per mez-zo del potere attrattivo dello «stile», dei «versi» e degli «esempi», gra-zie a cui i concetti accedono più facilmente nell’«intelletto» imprimen-dosi «tenacemente nella memoria» e stimolando la «volontà». Il dilet-to diventa ancella dell’utile, in un’ottica che premia le qualità formali della scrittura in relazione alla densità speculativa e didattica dei mes-saggi che essa offre al lettore:

chi dubiterà dunque che la presente favola d’Aci sia quasi una lagri-mosa tragedia nella quale si scorge il lugubre fine di coloro che toglien-do il freno di mano alla ragione seguono la scorta de’ loro fallaci appe-

10 Nella trascrizione di tutti i testi si è optato per un moderato ammoderna-mento: distinzione tra u e v; uniformazione grafica di -ij in -ii; trasformazione del nesso ti e tti + vocale in z; eliminazione dell’h etimologica o paraetimologica; scio-glimento delle abbreviazioni senza indicazioni; la nota tironiana sciolta in e davan-ti a consonante, et davanti a vocale; conservazione delle grafie etimologiche; con-servazione di geminazioni o scempiature diverse dall’uso moderno; maiuscole e segni paragrafematici sono stati resi conformi all’uso moderno.

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titi? Nel cui tessimento l’utile col diletto vedesi similmente intrecciato, anzi il diletto dall’utile essere in tutti i luoghi superato; perciò che non è di poco giovamento altrui il vedere ch’i piaceri sensuali terminano in lagrime, il legger molti versi ne’ quali sono i vani allettamenti del mon-do destati.

Il rispetto delle norme cinquecentesche e tassiane in materia di mo-ralità e decoro caratterizzano anche i paratesti delle edizione delle al-tre opere di d’Andrea cui converrà dare un veloce ragguaglio; in essi il napoletano si mette a protezione dei valori classicistici della pratica letteraria, mostrandosi deferente a un modello di scrittura tradiziona-le, rispettoso, pur con qualche compromesso, dell’esempio degli Anti-chi, orientandosi a un utilizzo equilibrato e ‘conveniente’ degli artifici retorici e alla ricerca di soggetti poetici elevati. dopo l’uscita delle Ri-me del 1626 dedicate al cardinale Francesco Barberini, ripiene di elogi verso la politica culturale inaugurata da papa urbano VIII11, ad emer-gere con un paratesto denso di significati teorici è un volume di Poesie stampato nel 1634 (Napoli, Roncagliolo) che presenta una nota dell’au-tore rivolta ai lettori elaborata in forma di parallelo tra ‘classicisti’ e ‘modernisti’. Nello scritto Onofrio enuclea le caratteristiche e i difetti principali che ciascuna fazione rimprovera all’altra:

Non picciola contesa s’ode tutto dì tra professori della poesia, imperò che sono alcuni amici dello scrivere de gli antichi toscani, altri del com-por de’ Moderni. I primi amano i poeti de’ passati secoli e chi loro si somiglia, per la purità della locuzione, per lo candor dello stile, per la gravità delle sentenze, per la proprietà delle parole, biasimando allo ’ncontro le metafore ardite, l’iperboli mostruose, le parole non osserva-te, la disposizione confusa e finalmente lo stile senza stile, ch’usano (dicono essi) coloro che si compiacciono del trovato moderno. I quali, per contrario, stimano il poetar del presente secolo maraviglioso, per la vivacità de’ pensieri e per le cose medesime da quei biasimate, dicendo che gli Antichi son secchi, senza vaghezza, privi di spiriti e freddi par-ticolarmente nelle conclusioni de’ sonetti. Aggiungono che ne’ loro po-emi si trovano molti versi languidi e cadenti, ma la nuova poesia tutta grande e numerosa comparisce; ma dicono i loro avversari che le nuo-ve poesie non grandi e numerose sono ma gonfie e per conseguente diffettuose. Perciò che il dir grande non riceve parole plebee ma scelte,

11 cfr. O. d’Andrea, Rime […] All’illustris. e Reverendiss. Sig. Cardinal Barberino, In Napoli, Appresso Ottavio Beltrano, 1626; a p. 97 compare un emblematico so-netto con didascalia che recita: La Sirena Partenope a i poeti napolitani nella Creatione d’Urbano VIII, nel quale la sirena invita la schiera dei poeti napoletani a procedere compattamente verso la Roma nel nuovo pontefice.

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e pure in molti componimenti moderni eziandio s’ammettono quelle che dalle bocche del volgo alla giornata s’ascoltano, le quali rendono lo stile plebeo, che però può avere suono magnifico o, per dir più accon-ciamente, tumido e romoreggiante. dicono i Moderni ch’i loro compo-nimenti son più seguiti, là dove la maniera de gli Antichi è quasi ab-bandonata; ma rispondono gli altri che le cose buone son meno per la corruzion del secolo abbracciate. […] Finalmente si vantano i Moderni che la toscana poesia era acerba e ch’al presente è ridotta a perfezione; ma replicano gli Antichi che la poesia è oggi guasta, non già matura.

In queste righe d’Andrea mostra di aver focalizzato con acume le principali ragioni di scontro vagliate nella querelle, alla quale non ac-cenna in termini militanti ma che utilizza come pezza d’appoggio per avanzare una personale proposta di poetica che, pur sposando una visione della letteratura di stampo classicista, intende distanziarsi tan-to dal concettismo dell’’avanguardia’ moderna quanto dai modi cru-scanti dei sostenitori della ‘purezza’ toscana: «[…] per seguir la mia inclinazione e per fuggir le dette opposizioni, mi son compiaciuto più che dello stil de gli Antichi o de’ Moderni, dell’andar de’ Latini». Seb-bene, in sede operativa, tali proponimenti non risultino coerentemen-te attuati per via di una prassi compositiva influenzata ancora a fondo dalle strutture e dai materiali offerti dalla tradizione petrarchista, nel-la riflessione di d’Andrea si riesce a intravedere un disegno teorico condotto con lucidità e fermezza, sintomo di un’idea di classicismo in nuce più meditata e avanzata rispetto alla linea dominante del dellaca-sismo napoletano degli anni dieci e Venti12. La volontà da parte di d’Andrea di definire su basi teoriche (sul piano argomentativo e ‘filo-sofico’ come su quello stilistico) il proprio esercizio poetico è chiara-mente visibile nei margini autoesegetici che incorniciano ogni singolo componimento della raccolta, secondo modalità di composizione che sono influenzate, per stessa ammissione del napoletano, da alcuni fra i maggiori modelli cinquecenteschi di autocommento alle rime, Tasso in testa: «sono state necessarie l’espositioni, nelle quali si leggono i luo-ghi imitati, e per esse si risponde a varie opposizioni ch’altrimenti far mi si potrebbono, essendovi molte cose non usate nella nostra lingua […]. Oltre a ciò v’è l’esempio del Tasso, il quale espose alcune sue Ri-me, di Gabriel Fiamma e forse d’alcun altro se con tutto ciò alcuni non rimarran sodisfatti»13.

12 In proposito si veda A. Quondam, La parola nel labirinto, cit., pp. 271 sgg.13 L’eclettismo di d’Andrea conduce ad un palese calco mariniano nel sonetto

Itene, o fogli, a quei begli occhi avante che chiude la sezione amorosa delle Poesie,

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Altrettanto significativo risulta un volume di Prose edito nel 1636 (Napoli, Beltrano), alle cui soglie compaiono un’epistola di dedica dell’autore all’arcivescovo di Napoli e una premessa A’ lettori firmata da Giovan Battista della Bella. Fra le righe della dedicatoria è interca-lato un elogio degli scritti in prosa del Tasso che, alla luce di un’inda-gine approfondita sulla produzione in prosa del d’Andrea, potrebbe aprire un capitolo della fortuna napoletana dei Dialoghi tassiani, cele-brati come esempio magistrale di filosofia dialogata dal Manso nella biografia del Tasso nonché da lui assunti a modello essenziale per i dialoghi amorosi dell’Erocallia (Venezia, 1628)14:

Mi confermò in cotesto pensiero il comandamento di Vostra eminenza stessa, la qual, commendando meco le Prose del Tasso per la molta dottrina in esse contenute, fè grazia dirmi che le sarebbe stato in grado ch’io parimente avessi impiegata la penna in prose somiglianti15.

Per voce di della Bella d’Andrea si collocava in una prospettiva ostile ai moderni prosatori laconici, posizione questa che, come ha re-centemente dimostrato clizia carminati, equivaleva a un’opposizione alle poetiche concettistiche e agli eccessi retorici del marinismo16:

modellato su quello conclusivo delle Rime amorose del Marino; la fonte è segnalata nell’autocommento: «conchiude col presente sonetto le rime amorose, non senza alcuna imitazione del Marini, il qual parimente dà fine alle rime amorose col so-netto che comincia Itene avante a quei begli occhi rei».

14 Indicando la genesi della dialogistica tassiana nella ripresa di moduli platonici, maieutica socratica innanzi tutto, Manso scrive: «di questa sorte furono la maggior parte delle prose scritte da Torquato, nelle quali tutte si vede tanta scelta nelle voci, tanta copia nelle parole, tanta ricchezza negli ornamenti, tanta proprietà nel significa-to, tanta vivacità negli spiriti, tanto splendore ne’ lumi, tanta dolcezza nel suono, tanta gravità nella sentenza, tant’ordine nella disposizione, che come non resta niente più che potervisi da chi legge desiderare, così non può giammai né lodarrle, né ma-ravigliarsene a pieno chi ben le intende» (G. B. Manso, Vita di Torquato Tasso, a cura di B. Basile, Roma, Salerno editrice, 1995, p. 234). Per la presenza di Tasso nell’Ero-callia rinvio ai saggi di G. Baldassarri, Interpretazioni del Tasso. Tre momenti della dia-logistica di primo Seicento, «Studi tassiani», (XXXVII) 1989, pp. 65-86, alle pp. 67-72, e L. Geri, La figura di Tasso nel genere dialogico da Guarini a Leopardi, in Auctor/Actor. Lo scrittore personaggio nella letteratura italiana, a cura di G. corabi e B. Gizzi, «Semestra-le Studi (e testi) italiani», (XVII) 2006, pp. 165-185, alle pp. 165-171.

15 O. d’Andrea, Prose, In Napoli, Nella Stampa di Ottavio Beltrano, 1636, c. a2v. Le tematiche delle prose del napoletano riflettono una probabile influenza del Manso e della sua dialogistica neoplatonica; ricorrono infatti due dissertazioni de-dicate rispettivamente all’amore e alla bellezza (ivi, pp. 1-11 e 25-34).

16 cfr. c. carminati, Alcune considerazioni sulla scrittura laconica nel Seicento, in «Aprosiana» (X) 2002, pp. 91-112.

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egli ha voluto comporle [le prose] in modo che vi risplenda la purità della toscana favella, et ha cercato d’imitare gli scrittori del buon Seco-lo. So ch’alcuni si compiacciono dello scriver de’ Moderni tutto pieno di sentenze. A costoro potrebbe rispondere chi fosse amico di contese che cotesto modo di scrivere non fu usato da principi, né della greca, né della latina, né della toscana eloquenza. ché l’usar tante sentenze senza tessitura, e non so come l’una aviticchiata coll’altra, suol generar tosto sazietà ne’ lettori. ché lo scrivere in cotal maniera non ammette varietà di locuzione, e perciò le varie forme di parlare insegnate da ermogene e da altri valent’uomini sono inutili a nostri tempi. che più? che ’l plauso talora procede più dall’ignoranza del lettore che dall’ec-cellenza dello scrittore, e che ’l giudizio del nostro secolo non è per avventura il più diritto.

con riferimento alle teorie retoriche di ermogene, cardine insieme a demetrio Falereo della riflessione cinquecentesca sugli stili17, i modi sentenziosi, «senza tessitura», che gremiscono le pagine dei moderni scrittori “senechisti” sono respinti in favore dell’alternativa cruscante degli «scrittori del buon Secolo»: deliberazione coscientemente attar-data rispetto alle suggestioni ‘moderne’ di questi anni, condannata irrimediabilmente, osserva della Bella, ad incorrere nella disapprova-zione generale del pubblico.

3. Incentrato su una trama mitologica di segno amoroso caratteriz-zata da un finale tragico, l’Aci subisce in maniera scoperta l’influenza narrativa dell’Adone, dal quale d’Andrea mutua l’episodio che, incre-mentato di azioni e particolari narrativi, costituisce il tema portante del poema (Adone xix 124-232). Anche sul piano strutturale l’Aci risente dell’impianto del capolavoro mariniano, e sin dalle fasi iniziali del pri-mo canto che accolgono, sul modello di Adone i 11 sgg., la subdola fi-gura di cupido, intento con le sue macchinazioni a danneggiare il pro-tagonista. L’ottava proemiale, benché gravata da una ripresa banaliz-zante e scolastica del modello ariostesco, si dimostra significativa per la scelta di contenuto che vuole suggerire, ricalcata sulla protasi di tipo classico ma con limitazione recisa della narratio epica alla sola compo-nente amorosa («Gli amori io canto d’un garzon sicano / ch’ebbe per

17 Sulle teorie retoriche ermogeniane cfr. M. Patillon, La théorie di discours chez Hermogène le rhéteur: essai sur la structure de la rhétorique ancienne, Paris, Les Belles Lettres, 1988. Sull’influenza di ermogene negli orizzonti teorici rinascimentali si veda almeno A. M. Patterson, Hermogenes and the Renaissance. Seven Ideas of Style, Princeton, Princeton university Press, 1970; in prospettiva tassiana cfr. e. Raimon-di, Poesia della retorica, in Id., Poesia come retorica, Firenze, Olschki, 1980, pp. 25-70.

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Galatea ferito il seno; / dirò di lui ch’ei (non ardendo invano) / fu nel regno d’Amor felice appieno; / e poi come il furor d’un mostro insano […]»), che lascia intuire i primi versi delle due ottave d’esordio del Furioso («Gli amori io canto […] dirò di lui») nonché la voce furor, asse-gnata qui come nel poema ariostesco a una figura antagonista (Polife-mo in sostituzione dell’Agramante di Furioso i 5-8). che la scelta epica di d’Andrea, sebbene tronca delle “armi” e impressa su materiale mi-tologico, voglia essere letta in chiave “eroica”, seppure di un eroismo tutto amoroso, emerge bene in evidenza nelle azioni di Aci che nel canto v (27-35) impongono, entro la cornice idillico-pastorale della nar-ratio, un tema epico per eccellenza, quello del viaggio marino, termini del quale sono la Sicilia e il monte circeo, dove il pastore sicano inter-rogherà circe circa il proprio futuro e le sorti dell’amore con Galatea. Sedotto dalla maga omerica, Aci riuscirà grazie all’aiuto di un’ancella di circe – personaggio che sembra ricordarsi della Fotide delle Meta-morfosi apuleiane – a tenere a mente il proprio dovere e intraprendere il viaggio di ritorno che lo condurrà nuovamente, prima che giunga impietosa l’ira di Polifemo, nelle braccia dell’amata ninfa. Non pago di tale forzatura, d’Andrea tenta goffamente in alcuni luoghi del poema una specie di cooptazione del genere del poema mitologico di stampo mariniano entro territori disciplinati e “onesti”, con l’intento di rappre-sentare, con la medesima orchestrazione “dilettevole” della poesia amorosa, i rischi prodotti dall’adescamento dei sensi e dai falsi idoli terreni18. Ma dagli obiettivi agli esiti concreti il divario è profondo e la moralizzazione del quadro mitico-amoroso si trattiene ad un livello superficiale, su cui sembrano pesare, più che germinali tensioni ad un organico programma poetico, obbligate ragioni di prudenza, che spin-gono l’autore, assorbendo un’opzione strutturale di marca mariniana, a preporre ad ogni singolo canto una breve prosa allegorica.

La fisionomia del mito è ripercorsa secondo uno schema narrativo che non prevede – come invece accade sistematicamente nell’Adone – racconti secondi, eccezion fatta per un paio di casi dislocati nei primi due canti. Nel primo compare una digressione analettica concernente gli inganni di Vulcano tesi ad indurre Venere a ricambiarne l’amore (i 44-49), che delucida la causa dell’errore di cupido che, intenzionato a

18 cfr. Aci i 3: «e tu, Signor, che di valor sei speglio, / accogli queste a te sacra-te carte, / ché se non t’ergo alti colossi al meglio / ch’io so, l’ingegno ti consacro e l’arte. / Tu, che di senno e di virtù sei veglio, / leggerai ne’ miei versi a parte a parte / qual abbia duro fin chi segue il senso / di basso amor, d’impura fiamma accenso».

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vendicarsi di Aci impedendogli di essere corrisposto in amore da Ga-latea, ferisce per errore la ninfa con uno strale d’oro manipolato da Vulcano. Speculare alla coppia di Aci e Galatea è quella di Venere e Adone, mito riscritto nel secondo canto (26-57), fissato quasi esclusi-vamente sulle sequenze della “dipartita” e della “morte”, con annessa una dettagliata descrizione del dolore della dea china sul cadavere del giovinetto ricavata dalla sezione luttuosa del xviii canto dell’Adone (132-192). Varrà dunque citare una porzione dell’inserto che rappre-senta uno dei debiti più espliciti dell’Aci nei confronti del poema ma-riniano (ii 47-57):

Tosto a colei là ’ve sua stanza ha il risovien la nova, e l’afflitta e sconsolatad’Adone amante si percote il viso,offende e squarcia la sua chioma aurata,corre là dove il bell’Adone uccisolasciata avea la terra insanguinata,vien meno e cade sovra il corpo esanguee mesce intanto lagrime col sangue.

Appoggia sovra l’erbe il braccio mancoe con la destra appanna i mesti lumi,ché non ha cor di rimirar quel fiancolacero sì fra quei selvaggi dumi.Bacia il bel viso poi pallido e biancoe versa da le luci amari fiumi,indi lo sguardo inaveduta girae ’l trafitto amor suo già spento mira

e dice: «Ahi mesta, ahi dolorosa piaga,e con qual arte tu m’impiaghi il core!che dico, vaneggiante? Ahi, che presagaben fui, misera me, del mio dolore.Mira costei, che le tue piaghe lavacol largo pianto, o mio piagato amore;oimè, son fuor di me! già la ragionee l’anima ho perduta, Adone, Adone.

Adone, o mio conforto, anzi o mia pena,mira l’afflitta che ti more a canto!Se tu versasti il sangue, amara vena,versa ciprigna d’angoscioso pianto;s’hai tu lacero il fianco, il dolor menachi t’ama a lacerarsi il crine e ’l manto,e se tu giaci al fine esangue e morto,ella non spera in vita alcun conforto.

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Ma già che morto sei, dolce mio bene,morta sono ancor io, morta al diletto,viva a’ tormenti sì, viva a le pene,oh di questi occhi sanguinoso oggetto!Oh dio, che bado più? chi mi ritieneche con un dardo non percota il petto?deh, come io sono immortalmente viva,per esser sempre mai di vita priva?

eterna vivrò si, ma sempre in pena,quest’occhi urne saran di pianto amare;del mio giardin, de la contrada amenatante delizie non mi sian più care.Non vo’ mirar, sì di dolor son piena,i bei cristalli del tranquillo mare,non chieggio nel mio mal pace o ristoro.Sommergerò nel mar la conca d’oro.

[…]

Anzi, cedere io voglio al dio facondola monarchia de la mia bella sfera;godane parte anch’egli il nume biondo,io non vo’ gir di tanta luce altera.Ma nel centro vivrò di questo mondo,vedova sconsolata in veste nera,e co’ miei pianti vo’ formare un fontech’umore accresca al torbido Acheronte».

Bagnato intanto da quel caldo umoreche versava la dea sul corpo estinto,fu trasformato il bell’Adone in fioredi sanguigno color sparso e dipinto,che spirava d’intorno un dolce odoreinfra ’l candido giglio e ’l bel giacinto.Misero, ch’alla dea creder non volse,e ’l freno a suoi desiri in tutto sciolse!

Il segmento narrativo di maggiore interesse, sia per la qualità de-gli esiti poetici che per l’interazione e le dinamiche provocate so-prattutto dall’ipotesto mariniano, è la sequenza che narra il viaggio di Aci verso il regno di circe. Su consiglio di ermo, un vecchio sag-gio amante in passato della maga, Aci intende raggiungere il monte circeo per farsi predire il futuro; durante il viaggio ripara a Posillipo dove incontra il pastore ergasto, il quale gli narra le disavventure amorose in cui è incorso, schiudendo una lunga sequenza idillica

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d’intenso sapore mariniano per il gusto della descrizione minuta in-fuso nelle ottave (Aci v 43-75). Al suo arrivo Aci trova una «gentil donzella» (vi 11 2) che lo accompagna presso la maga, passaggio che riprende la struttura narrativa del xii dell’Adone nel quale il pastore veniva scortato verso la dimora della fata Falsirena da una «ninfa gentil» (Adone xii 130). Prototipo mariniano a parte, il tema del cava-liere rinchiuso da una maga in un lussureggiante quanto illusorio giardino di delizie, dimentico degli iniziali obblighi morali e milita-ri (amorosi nel caso di Aci), doveva giungere a Onofrio attraverso alcuni fra i maggiori precedenti epico-cavallereschi, da Boiardo a Tasso, dai quali è ricavato l’espediente del libro donato che, nella variante di d’Andrea, «descrive l’età futura»19. dalla riscrittura non pedissequa di un manciata di ottave mariniane (xii 160-166), d’An-drea ricava spunti precisi per la descrizione, costellata di dettagli preziosi, di un giardino e del «fonte» che vi sorge nel mezzo (Aci vi 49-51):

Vedi in mezo il giardin superbo un fonteche prende l’acqua dal vicino colle,Satiro v’è, che la cornuta fronteportento de le selve al cielo estolle.Le dita al suon de la Siringa ha pronte,e versa da le corna argento molle;due ninfe a i lati son, che da le poppeVersano l’onde in preziose coppe.

Quivi son quattro vie che ver le murasi stendon del giardin sì spaziose,che di viti arricchite e di verzuraOpposte fanno al sol machine ombrose.Intorno al fonte con egual misurasi congiungono in croce, ove riposesomma cura in piantar l’alto architettoquattro colonne d’alabastro eletto.

Verghe d’argento d’assai fin lavoroquivi distese, e v’appoggiò le vitich’han fronde di smeraldo et uve d’oro,e fanno a i rai del sol schermi graditi.Intorno al bel giardin per più decoro,e fra loro egualmente disuniti,

19 cfr. Aci vii 17 e 30-52. Per l’idea del libro donato che palesa incanti e misteri si veda Tasso, Lib., xiv 76 e xvi 8.

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vedi più chiari fonti, e ’n ciascun d’essivari si scorgon simulacri espressi20.

La lettura dell’Adone che l’Aci presume si realizza mediante una ripresa esplicita, sul piano dell’inventio, della fabula del poema mari-niano, ristretta, come detto, ad azione episodica nel secondo canto do-ve Aci narra allusivamente alla ninfa la tragica parabola dei due amanti. Sempre a livello di filiazioni narrative – con relative omologie nella costruzione degli episodi – varrà evidenziare la traslazione di inserti descrittivi stimolati dall’Adone; si considerino le digressioni sul palazzo di Nettuno (iv 23 sgg.) prima e di circe poi (vi 36-40), varia-mente ispirate, sia per la descrizione delle parti architettoniche e degli affreschi murali che per l’attitudine al rimando tecnico ed erudito, a quelle sul palazzo di cupido di Adone ii 14-32; o la raffigurazione del protagonista (Aci i 39-41), che recupera ed amplia due notazioni di Adone xix (128 5-8 e 132 5-6) ma che deve diffusamente alle variazioni mariniane sul canone della bellezza maschile fissato nella rassegna del canto xvi (78-163):

È la fronte di lui trono d’amoreove senza altri fiori ha loco il giglio,ove si scopre un semplice candore,e candida la fronte e bruno il ciglio.Ne le sue guance poi misto è ’l colore,in modo assai gentil, bianco e vermiglio.Ma che dirò de gli occhi, occhi beati,poli d’amore et orienti amati?

Fiamme non posso dirvi, occhi, ch’aveteoltra l’elementar forme del cielo;stelle non vi dirò, che risplendeteinsiem con l’alba e col signor di delo;soli vi chiamerò, soli non siete.Voi non offusca nubiloso velose non spuntan là su lumi più belli;occhi, nomi non ho col qual v’appelli.

che dirà de le perle e de’ rubiniche chiude e scopre una vermiglia bocca,ond’escon fuori zefiri divini,ov’Amor siede e donde dardi scocca?

20 da vagliare anche un recupero di dettagli dalla descrizione della fontana d’Apollo in Adone ix 95 sgg.

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e che degli altri membri alabastrinise ne’ miei labri nettare non fiocca?dirò sì bene: “appo le membra intattepar men bianca la neve e fosco il latte”.

Il diagramma delle presenze mariniane entro il poema del napole-tano esibisce anche un massiccio riuso di elementi stilistici provenien-ti ancora dall’Adone, diventati in breve volgere di anni patrimonio condiviso dalla koiné primosecentesca, reimpiegabili in generi e regi-stri di scrittura tradizionalmente distanti. Percepibile a livello d’infles-sione ritmica, con tutto il suo portato di armonie e disarmonie21, il magistero linguistico e stilistico del Marino diviene per d’Andrea un referente automatico; il prelievo di materiali mariniani consiste nella ripresa formulare di alcuni stilemi o di sequenze sottoposte a logica musicale o decorativa22, fino a giungere non di rado a riscritture più complesse che attestano un pieno possesso del repertorio, investendo le espansioni iconiche e liriche dell’esile trama. In questa seconda pro-spettiva risente di una suggestione mariniana il tema della metamor-fosi fra gli elementi del cielo, della terra e del mare23 rilanciato ben due volte nel poema, in un caso tramite un illusionistico scambio fra pesci e uccelli (ii 24 5-8: «In cantando, in guizzando han sempre gare / pesci et augei fra l’acque e tra le fronde, / e pesci ognor fra’ liquidi cristalli, / mentre cantan gli augei, menano i balli»), nell’altro con una trasfigu-razione dello scenario marittimo-boschereccio di Posillipo, dove per-sino le divinità invertono le loro sfere d’azione (v 39):

I cervi e’ lepri da le selve fuoriti par veder che guizzino nel mare,e ch’i delfini con l’erbette e’ fioricangino i fondi algosi e l’onde chiare.Nettun fra gli arboscei par che dimori,il boschereccio Pan fra l’acque appare.con tanta grazia son fra lor viciniquivi gli erbosi regni e’ cristallini.

21 categorie mutuate ovviamente da G. Pozzi, Guida alla lettura in G. B. Mari-no, L’Adone, a cura di Id., Milano, Adelphi, 20102, vol. II pp. 75-87.

22 A titolo di esempio si veda il verso «di fresca rosa e di vivace croco» (Aci iv 35 6) modellato su Adone i 20 5: «di fresco giglio e di vivace croco»; o la serie «cetre et arpe e lire» (Aci vi 22 7) che riprende quella di Adone xvi 26 2: «son cetre ed arpe e cennamelle e lire».

23 Questo tipo di metamorfismo è largamente presente nella poesia del Marino e rintracciabile almeno in due luoghi dell’Adone (i 120 e ix 19).

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Nell’ottica di un confronto, sia pure sommario, fra l’Aci e il ‘poema grande’ del Marino risulterà utile vagliare almeno un altro inserto che fissa zone di contatto fra i due testi. durante uno dei suoi lamenti amorosi, Aci auspica di trasformarsi in un fiore per poter essere calca-to dal piede di Galatea e poterlo pertanto baciare; l’immaginetta è co-struita tramando i versi di venature liriche mariniane, introdotte ri-percorrendo e filtrando un’ottava relativa alla trasformazione del cuo-re di Adone in anemone:

O potess’io cangiar con voi ventura,augei, che vagheggiate un sì bel viso,perchè ristorerei l’ardente curamirando gli occhi suoi, la bocca e ’l riso.O potess’io cangiar forma e natura,e farmi un bel giacinto, un bel narciso;ché, mentr’ei preme l’erbe e’ fior vivaci,darei mille al suo piè taciti baci24.

La marca mariniana (e marinista) del dettato, seppure rimossa in alcune zone per lasciare spazio ad impacciati tentativi d’innalzamento “eroico” (percebile soprattutto nelle sequenze encomiastiche), influi-sce in maniera decisiva sulla media stilitica del poema, tesa verso un piacere secentesco della frammentazione lirica anche quando giunge al prelievo di alcune tessere della Liberata tassiana utili alla resa di una figurazione naturale25. Questo il lussureggiante scenario di Posillipo siglato da un adýnaton (Aci v 38):

cantar augelli fra le verdi frondeode e vede guizzar pesci argentati,gode in un tempo stesso e l’ombre e l’onde,mira ondeggiar il mar, fiorire i prati;sì che può dirsi omai ben si confondeil falso umor co’ bei giardini ornati.

24 Aci, iv 13. cfr. Adone xix 416: «Farò dunque al mio ben l’istesso onore / che fece Apollo al suo fanciullo ucciso, / che non fu certo il mio gentile ardore / di Giacinto men bel né di Narciso. / e poich’ei fu d’ogni bellezza il fiore / e di fiori ebbe adorno il seno e ’l viso / e mi fu tolto insu l’età fiorita, / vo’ che, cangiato in fior, ritorni in vita»

25 Tasso, Lib., xvi 12: «Vezzosi augelli infra le verdi fronde / temprano a prova lascivette note; / mormora l’aura, e fa le foglie e l’onde / garrir che variamente ella percote. / Quando taccion gli augelli alto risponde, / quando cantan gli augei più lieve scote; sia caso od arte, or accompagna, ed ora / alterna i versi lor la mu-sica òra».

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Già l’augello in mar compone il nido,e viene il pesce ad abitar sul lido.

Il termine di questa sommaria campionatura dei rapporti istituiti da d’Andrea con l’ipotesto mariniano ci guida all’epilogo, su cui inci-de ancora il carico di lettura dell’Adone. La rappresentazione di un «dolente coro» di ninfe che lamenta la morte di Aci e quella di Galatea che piange sul cadavere dell’amato pastore (viii 29 sgg.) risente di immagini e spunti retorici dal xviii del poema del Marino, dipenden-za che si fa allusione esplicita quando le ninfe si rivolgono a Venere rievocandone il dolore per la perdita dell’amato giovinetto:

e tu, sublime dea, che sei cagioned’ogni diletto ch’in amar si sente,da la celeste tua rara magioneascolta il nostro gemito dolente,e volgi il guardo e vedrai morto Adone,per cui nutristi in sen fiamma cocente,quel che fra le tue braccia e posa e pacetrovò sì dolcemente estinto or giace.

4. La fabula dell’Italia liberata, «poema eroico» in venti canti edito parzialmente (i primi dodici canti) nel 1646 (Napoli, Mollo) e integral-mente un anno più tardi (Napoli, Beltrano), accoglie tutti gli elementi tipici della narrazione epico-cavalleresca fondata su una vicenda sto-rica (indicativa la marca trissiniana del titolo), entro una ‘testura’ com-plessivamente garante di quell’unità di «specie» il cui movente veniva ad essere la guerra intrapresa da carlo Magno contro le truppe longo-barde guidate da desiderio, conclusasi in pochi mesi con la capitola-zione di Pavia e di Verona, soggetto che Tasso in una nota lettera a Ferrante Tassoni aveva considerato fra i più «atti a ricever la forma eroica»26. La materia storica resa oggetto di racconto da d’Andrea po-teva dunque ben assimilare il potenziale politico-religioso della cro-ciata celebrata da Tasso, attraverso un’immediata complanarità tra le

26 T. Tasso, Le Lettere […] disposte per ordine di tempo ed illustrate da c. Guasti, Firenze, Le Monnier, 1852-1855, vol. v, p. 214 num. 1551: «Io ho scritto questa mat-tina a Vostra Signoria ch’io desidero di far due poemi a mio gusto; e se ben per elezione non cambierei il soggetto c’una volta presi, nondimeno, per sodisfar il signor principe, gli do l’elezione di tutti questi soggetti, i quali mi paiono sovra gli altri atti a ricever la forma eroica: […] espedizion di carlo Magno contra’ Sassoni. espedizion di carlo contra’ Longobardi. In questi troverei l’origine di tutte le fami-glie grandi di Germania, di Francia e d’Italia; e ’l ritorno d’un principe».

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figure di carlo Magno e Goffredo, esecutori di un mandato divino intorno a cui si dispongono vicende e allegorie del poema. Quanto alla scelta della materia, il tema della campagna militare carolingia in Italia poteva contare almeno un paio di recenti allestimennti epici: l’Amor di Marfisa di danese cataneo, poema incompiuto pubblicato in tredici canti nel 1562 che, assimilando il severo indirizzo trissiniano, sfoggia un piacere della complicazione romanzesca e avventurosa de-rivato quasi interamente dal Furioso; e lo Stato della Chiesa liberato da’ Longobardi di Girolamo Gabrielli, poema edito a Vicenza nel 1620 che non rinuncia, rispetto al modello tassesco, a disseminare, paralleli alla trama principale, personaggi ed episodi di netto stampo ariostesco27.

In testa all’edizione dell’Italia liberata compariva una Dispositione et allegoria del poema entro cui d’Andrea includeva una breve riflessione sul genere epico, misurando gli esiti del proprio poema con il metro di un’ortodossia garantita dall’autorità tassiana. dopo aver assegnato, capovolgendo un enunciato aristotelico ampiamente discusso anche da Tasso, un primato al poema eroico rispetto alla tragedia28, l’autore recuperava le nozioni di «favola» e «allegoria» operando una suddivi-sione della seconda in «prologo»29, «episodio» ed «esodo», ossia in quelle parti quantitative della composizione tragica fissate da Aristo-

27 centrati sulla stessa materia storica giungeranno di lì a pochi anni altre pro-ve letterarie come La caduta de’ Longobardi di Sigismondo Boldoni (Milano, 1656) e il Carlo Magno di Girolamo Garopoli (Roma, 1660), velleitario poema epico con-traddistinto da un sistema allegorico attentamente delineato (si veda l’Allegoria del poema alle pp. 11-33 dell’edizione appena citata). Per un quadro sul poema eroico secentesco si vedano i saggi raccolti nel volume Dopo Tasso. Percorsi del poema eroico. Atti del convegno di Studi di urbino, 15 e 16 giugno 2004, a cura di G. Arbizzoni, M. Faini e T. Mattioli, Roma-Padova, Antenore, 2005.

28 «È il poema eroico imitazione d’azione perfetta de’ migliori e la tragedia d’azione in parte manchevole […]. Allo ’ncontro l’azione che l’epico imita è azione perfettissima e quasi più ch’umana onde la maraviglia deriva, ch’è propria del poema eroico […]. di qui appare il poema eroico esser molto più della tragedia perfetto, ancora che Aristotile mosso da più lievi ragioni giudicasse a favor della tragedia» (O. d’Andrea, Italia liberata. Poema heroico […] ove si narra la distruttione del Regno de’ Longobardi. Diviso in Venti Canti, In Napoli, Per Ottavio Beltrano, 1647, c. A2v; d’ora in avanti solo Italia liberata).

29 deputando il prologo alla «narrazione delle cose passate», d’Andrea rifiuta consapevolmente l’opzione narrativa omerica, accolta da Tasso nella prima Geru-salemme, che faceva iniziare il racconto da un assedio; sulla scia del Tasso che dedi-ca il secondo canto della Conquistata alla narrazione delle imprese epiche prece-denti all’arrivo dei crociati in Palestina (su questo punto cfr. c. Gigante, «Vincer pariemi più sé stessa antica». La Gerusalemme conquistata nel mondo poetico di Torquato Tasso, Napoli, Bibliopolis, 1996, pp. 53-54), d’Andrea introduce il racconto degli

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tele (Poet. 1452b 15-25) e riadattate da Tasso al genere epico30. Sottopo-sta a interpretazione allegorica, conformemente a un’idea di poesia filosofica propria soprattutto del Tasso dei secondi Discorsi, la struttu-ra dell’Italia liberata era rigidamente sottomessa alla più vulgata nor-mativa del genere “eroico”, nel segno di un’integrazione fra «tela del-la favola» ed «episodi», con la consueta disponibilità a una varietà ammissibile entro gli schemi di unità di azione e di luogo, assicurati dalla parabola dell’assedio e della liberazione della città Pavia da par-te dell’esercito carolingio31. L’ultimo nodo toccato nel discorso prefa-torio concerne invece un aspetto più specifico, l’esordio dei canti, strutturati da d’Andrea con il testo del Furioso alla mano: «[…] i prin-cipi de’ canti è vero che i poeti eroici non l’han fatti in questa forma, ma perché non sono contro alle regole, e piacquero nel poema dell’Ariosto». differenziandosi consapevolmente in questo dagli esor-di tassiani e dagli usi dell’epica regolare, d’Andrea dichiara di inse-guire il gusto del pubblico («piacquero») riportando in auge lo schema ariostesco che prevedeva nell’ottava incipitaria di ogni canto un inter-vento diretto dell’autore caratterizzato da riflessioni di natura morale suggerite dalle vicende narrate oppure da invocazioni di carattere sia profano che sacro32.

come rilevò Belloni nelle poche righe riservate al poema di d’An-

antefatti di guerra nel canto iii, il cui argomento recita esplicitamente: «delle cose passate hassi il racconto».

30 Nel segno di un’omologia fra epica e tragedia (Aristotele, Poet. 1449b 16-20), Tasso adatta la tripartizione aristotelica della tragedia all’epopea (cfr. T. Tasso, Lettere poetiche, a cura di c. Molinari, Parma, Guanda-Fondazione Pietro Bembo, 1995, p. 383 num. xxxix). In virtù di un confronto con le norme aristoteliche del tragico, Tasso opererà nel primo libro dei Discorsi del poema eroico una suddivisione del poema eroico in quattro parti: cfr. Id., Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, a cura di L. Poma, Bari, Laterza, 1964, p. 74.

31 Nella Dispositione d’Andrea scriveva: «Il presente poema credo che sia ap-punto conforme alle regole che spiegate abbiamo formato, essendovi la narrazione delle cose passate, o prologo che vogliamo dire, in più canti; gli episodi in mezzo, tutti attorno a Pavia, i quali finiscono ove cominciano, e nel fine è il piegamento».

32 Per i modelli e la struttura dei proemi ai canti tipici dell’Ariosto rinvio a P. Rajna, Le fonti dell’Orlando furioso. Ricerche e studi, In Firenze, Sansoni, 1876, pp. 86-90. Per trarre qualche esempio dall’Italia liberata si legga l’incipit dei canti vii e xiv che offrono riflessioni e giudizi sul sentimento amoroso: «Amore crudele è molto e cieco dio, / che ciechi al par di lui rende i mortali […]»; «come librato è fra due poli il mondo, / posto è così fra duo contrarii il core […]»; oppure si consi-deri l’invocazione alla virtù nell’esordio del canto viii: «Virtù, che ’l secol nostro or nulla apprezza, / di tutte l’altre cose in su la cima / sedea […]».

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drea33, l’inventio dell’Italia liberata risente sistematicamente della lezio-ne della Liberata, pur lasciando intravedere lungo il discorso narrativo un uso massiccio di elementi stereotipi attinenti al ‘vocabolario’ caval-leresco (la magia e gli incanti, il duello tra cavalieri amanti, la dialetti-ca tra potenze celesti e infernali, la rassegna degli eserciti, lo sfogo elegiaco di un amante abbandonato, l’evasione verso serene ambien-tazioni pastorali, ecc.) che tendono ad ampliare le zone deputate alle digressioni con l’effetto di corrodere, per eccesso di diletto, l’unità (strutturale, narrativa, ideologica) del modello; a sfuggire, infatti, alla deriva romanzesca sono soltanto tre canti dedicati quasi interamente alla guerra, il xv che narra l’invasione di Pavia, il xviii e il xx dedicati alla battaglia tra Franchi e Longobardi. Per quanto riguarda la dinami-ca dei personaggi, l’unità del poema viene garantita, in una prospetti-va ancora tutta tassiana, caricando su una compagine di eroi – con un ruolo determinate assegnato a una coppia di paladini – le sorti del-l’evento epico:

Intorno alla formazione degli eroi, due sono i più principali in questo poema, carlo Magno et everardo de’ Medici, ma carlo è il capo di questo corpo et everardo il braccio, in quella guisa appunto che dice il Tasso di Goffredo e di Rinaldo […]. e perché due par che sieno le spe-cie de gli eroi ne’ poemi introdotte, altri perfetti sin dal principio et altri perfetti poiché sono d’alcun vizio purgati, perciò si descrive carlo conforme alla prima idea et everardo conforme alla seconda, che si purga prima dall’amore e poi dall’ira34.

un ruolo decisivo allo scioglimento della trama viene attribuito ai due campioni, dall’indole discorde, carlo ed everardo, entrambi rica-mati sul modello binario di provenienza omerico-tassiana (Goffredo e Rinaldo, Agamennone e Achille); se il primo è rappresentante di disci-plina e volontà divina, il secondo è destinato a subire il fascino degli amori e degli incanti di Armenia – personaggio modellato puntual-mente sull’Armida tassiana, inviata nel campo cristiano dalle forze infernali per seminare discordia e sottrarre i cavalieri alla battaglia35 – e scontare un’innata propensione alla collera, pur rinsavendo in tempo grazie all’intervento risolutore e al concorso di forze del mago

33 cfr. A. Belloni, Gli epigoni della Gerusalemme liberata, cit., pp. 456-457.34 Italia liberata, c. A4r-v.35 Ivi, v 39 4-8: «Tra Franchi ch’or ne van di palme adorni, / ci avvalerem d’una

leggiadra e bella / maga, perché sian vinti in pochi giorni; / seminarem discordie aspre e moleste, / a le lor navi moverem tempeste».

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Soliero e della coppia di cavalieri composta da uberto e celio che, calati all’interno di intrecci e peripezie ricavate dal trittico dei canti xiv-xvi della Liberata, riportano everardo a quei doveri militari decisi-vi per sconfiggere le schiere nemiche e attuare il disegno politico di carlo (canti ix e x).

All’interno di una rete di patenti omologie con la Liberata, lo scon-tro tra le truppe franche e quelle longobarde risente sin dal dal primo canto della dinamica conflittuale tra cielo e inferno36 che tassianamen-te consente a d’Andrea di conciliare verisimile e meraviglioso, realtà e invenzione, combinando il racconto di un’impresa epica storicamen-te accertata con lo sconfinamento romanzesco nel campo della mitolo-gia biblico-cristiana (dio, angeli, demoni, maghi, ecc.)37. La causa prin-cipale delle disavventure in cui incorrono i cavalieri franchi deriva dagli esiti del concilio infernale del canto v, punto di svolta narrativo del poema – divenuto non di rado luogo topico dei poemi epici secen-teschi – la cui matrice tassiana agisce sulla configurazione retorico-stilistica della scena come sulla valenza strutturante che l’episodio assume nell’economia complessiva della “favola”. conforme al regi-stro stilistico del “meraviglioso” diabolico di marca tassesca, la de-scriptio dell’adunata presieduta da Plutone mostra risonanze testuali tassiane rielaborate in maniera niente affatto passiva, che palesa uno stimolo a riscrivere il modello soprattutto per quanto concerne la fer-matura dei dettagli esteriori del mostro infernale, precisati e accresciu-ti rispetto al canovaccio di Lib. iv 5-8:

Già pien di rabbia il Re di dite iratoche l’orrendo concilio a lui d’avantes’aduni impone, e già d’orribil fiatoripien s’ode la giù rame sonante.Non forma il Nil cadente, il Mar turbato,strepito così fiero, o ’l ciel tonante;né cerbero, ch’assorda i ciechi abissi,sì spaventevol la gran tromba udissi.

Gira con occhi accesi e gonfie gotelo spirito rio quell’orride caverne,ove con rauca tromba e fiere notei mostri chiama e le potenze inferne.

36 L’argomento del canto i recita nitidamente: «Si move il ciel, l’Inferno, l’Italia è in arme».

37 Su questo punto si veda il classico studio di G. Baldassarri, «Inferno» e «cielo». Tipologia e funzione del «meraviglioso» nella «Liberata», Roma, Bulzoni, 1977.

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come spada o saetta il suon percotesì aspro i cittadin de l’ombre eterne.“Lasciate, ei grida, o neri spirti amicinel ghiaccio e nel’ardor l’alme infelici”38

Mira i centauri orribili non meno,e le Gorgoni con un occhio solo,Scilla che latra e versa atro velenoe le voraci Arpie spiegare il volo.di fiamme armata la chimera, e pienoPolifemo apparir d’ira e di duolo,e ciascun Idra ch’ha sette occhi e sette,girar le luci di rio tosco infette.

Torna alfin dove in maiestade orrendaPluto s’asside infra l’orribil corte,ne la cui formidabile e tremendafaccia sempre immortal vive la morte.Par che col fiero capo al cielo ascenda,alto è così con chiome d’angui attorte,a basso e picciol colle è somiglianteappo le corna e l’ampia fronte Atlante.

Sembra il ciglio orgoglioso immensa travedi ruginoso ferro e d’ardor pieno.Vedi ne gli occhi che più ch’altro pavequalunque spirto rio foco e veleno.La terra ampia vorago unqua non haveala sua bocca che somiglia a pieno,da cui densi vapor spiran fumanti,fetori abominevoli spiranti.

Ha smisurato orecchio e man di drago,ch’è d’atro sangue orribilmente immondabipartita ampia coda; in sozzo lagouna parte ne cela e sferza l’onda,l’altra serpeggia, et or il petto è vagocingerne, et ora il braccio ei ne circonda.Ha pur ferino il piè, dinanzi a cuitreman gli abitator de i regni bui39.

complanari allo stile mediano tipico di certi passaggi della Liberata si mostrano le pause liriche del poema, che sovente riprendono la cor-

38 Italia liberata v 4-5.39 Ivi, v 12-15

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nice naturale dei monologhi elegiaci tasseschi; si consideri, a titolo di esempio, il pianto di Romilda – personaggio ispirato dall’Andromaca omerica – dopo la partenza dell’amato Rinaldo verso l’Aquitania, in-trodotto da una descrizione notturna dominata dall’antecedente tas-siano di erminia (vi 103):

era la notte e senza nube alcuna,scopria piropi il ciel, zaffiri il mare;gli argenti suoi purissimi la luna,le perle sue dori lucenti e chiare.L’ombra fatta sol tacita e non brunaparea, ch’al giorno emulatrici garemovesse, e già Titon credea che foradal suo fianco fuggisse omai l’Aurora40.

entro un sistema di amplificatio della materia lirico-descrittiva della Liberata si dovranno valutare le ottave dedicate all’insorgere del senti-mento amoroso di Armenia nei confronti di everardo, che se sul piano dell’inventio derivano da una puntuale trasposizione dell’omologo tas-siano di Armida e Rinaldo (Lib., xiv 66-68), sul fronte dell’ornatus ac-centuano il tasso e l’intensità metaforica dell’intertesto tassiano:

e già s’induce a lui sonno soave,la maga il guarda e più di lui s’accende,sospira a quei respiri, e l’elmo gravegli toglie, e ’l brando dal bel fianco prende.e che si desti ancor tema non have,ch’insensibile omai l’incanto il rende;già lo spoglia de l’armi, e delicataveste gli pon d’argento e d’or fregiata.

Le gemme poi più rilucenti e belleuscite da le vene ascose, avarede la Terra v’affibia, e vive stellesembrano, e quasi con le stelle han gare.et egli sembra un Sol, forme novellequi vede, e un più bel ciel la Terra appare.Si dona il tutto al suo bel Sol sovrano,stretti lacci d’amor fan larga mano.

e con dentato avorio il biondo crinegli terge, avorio è pur la man gentile;indi lo sparge d’odorate brine,

40 Ivi, vi 5.

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e di perle gli fa vago un monilede le più rilucenti oltra marinenon mai raccolte di valor simile.e sempre in lui gli occhi bramosi intentifermando, tai formò taciti accenti.

Qual sento al core imperioso affetto,che mi cangiò da l’esser mio primiero?Onde del proprio cor, del proprio pettopasco il vorace augel del mio pensiero,l’aspro pensier mi toglie ogni diletto.Ma che penso non so, né so che spero;qual dunque è la cagion del mio cordoglio?dirla già non saprei, so che mi doglio41.

Pur tenendo fermi le basi narrative dell’episodio tassiano (il sonno del cavaliere, la contemplazione da parte della maga della sua bellez-za, l’allestimento della prigionia amorosa), la riformulazione compor-ta una dilatazione analitica e artificiosa dei particolari del racconto (come le gemme che adornano la veste di everardo che occupano mezza ottava) e una particolare applicazione sugli elementi decorativi che affiora attraverso tessere “preziose” (il «dentato avorio» con cui Armenia terge i capelli del cavaliere e le «odorate brine» che gli sparge sul corpo). Sintomatico di questa inclinazione a ricamare di articiose metafore uno spunto tassiano emerge limpidamente in una stanza de-dicata alla rosa che nel primo verso riprende quasi alla lettera l’attacco della descrizione della rosa posta nel cuore del giardino di Armida (Lib., xvi 14 1: «“deh mira” egli cantò “spuntar la rosa […]») mentre nella struttura sintattica e nella scelta degli elementi lessicali mostra una lampante assimilazione del celebre elogio mariniano (Adone iii 156-161):

O meraviglia? ecco spuntar la rosasu la riva natia, pompa di Flora,vivo monile de la sponda erbosa,figlia de l’aura, de le piagge aurora;purpurea gemma de la siepe ombrosa,ostro che ’l verde prato orna e colora,corallo de’ giardin, rubin de l’erbe,spiega sopra ogni fior foglie superbe42.

41 Ivi, ix 30-33.42 Ivi, i 38. Si noti anche al v. 3 il sintagma «sponda erbosa» di marca squisita-

mente mariniana (cfr. Adone vii 142 6; x 94 6).

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concludo con un altro riscontro che attesta un’attenzione da par-te di d’Andrea verso il Tasso che oltrepassa i confini della Liberata; mi riferisco al canto xix occupato in larga parte (33-71) da un sogno propiziato da un angelo che conduce carlo dal Tartaro sino all’empi-reo, passando per il Paradiso terrestre di cui è illustrata l’origine dei quattro fiumi che lo attraversano. Seppure è un angelo a mostrarsi all’eroe, di contro agli archetipi classici della visio oltremondana che assegnano il ruolo di mediatore a un defunto, il sogno elaborato da d’Andrea di scende per ampiezza e struttura argomentativa dal pre-cedente tassiano del xx libro della Conquistata nel quale Goffredo è visitato in sogno dal padre eustazio e con lui intraprende un viaggio che lo vedrà protagonista di una visione paradisiaca. Se nella costru-zione narrativa del poema il sogno di carlo ha funzione pari a quello di Goffredo43, il viaggio nel regno infernale trova riscontro in altro luogo del poema riformato del Tasso (xii 10 sgg.), nel quale sono nar-rate le vicende di Ruperto e Araldo che sognano di fare il loro ingres-so negli inferi scortati dal mago Filagliteo. d’Andrea colloca dunque entro un unico segmento narrativo la rappresentazione effettiva dell’inferno e del cielo che Tasso aveva distribuito in due sezioni di-stinte, attraverso una rapida ascesa che raggiunge il suo acme nella contemplazione divina e nel trionfo dell’eternità (61-62). All’interno di questo inserto conta porre in luce un’ottava (49) che ospita una digressione sulle comete, materia ostica e specialistica che d’Andrea può aver assimilato attraverso la lettura di un brano del Mondo creato (iv 523-612) che della teoria delle comete fornisce una potente sintesi poetica44; pur nella diversità di struttura e di ampiezza dei brani, la relazione con i versi del Tasso appare possibile45, entro una descrizio-ne che non può che risultare scolastica ed essenziale, raffinata da cel-lule metaforiche ad alto quoziente d’artificio («[…] mento di rai, cri-nita stella»):

43 Anche qui, infatti, rappresenta uno snodo narrativo decisivo, al termine del quale l’esito della guerra, anticipato da una dichiarazione profetica, convergerà verso il trionfo dell’esercito carolingio (xix 71 7-8: «Si desta e insieme sente un suon che dice: / “guerreggia or su, che vincerai felice”»).

44 In proposito si veda e. Russo, Su alcune letture astronomiche del Tasso, in Testi-moni del vero. Su alcuni libri in biblioteche d’autore, a cura di Id., Roma, Bulzoni, 2000, pp. 251-272, alle pp. 267 sgg.

45 echi testuali e movenze sintattiche fra l’attacco dell’ottava dandreiana citata e i riferimenti alla cometa di Tasso, Mondo creato iv 523 («Bench’altri di nomar stelle presuma») e 552-553: («e stelle pur altri le appella e noma, / altri stelle ca-denti […]»).

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Questa face, ch’appella altri cometa,spesso ha mento di rai, crinita stella.Sembra ottavo là su novo pianeta,mostro di luce, imago in ciel novella,ne gli effetti maligna, in vista lieta,quasi guerriera appar feroce e bella;d’occhi infiniti è portentoso oggetto,a i tiranni et a i regi infausto aspetto.

Se con l’Aci d’Andrea aveva mostrato una giovanile adesione al modello lirico-idillico del Marino, con l’Italia liberata egli corona la propria carriera letteraria, cimentandosi nel campo più ambizioso e impervio dell’epos, entro un orizzonte di scrittura guidato fermamente dal fascino verso il poema eroico di tipo tassiano, genere in cui si ad-dentra per raggiungere, come molti scrittori a lui coevi, una fama me-no circostanziata ed effimera.

Pietro Giulio Riga(università di Roma “Sapienza”)

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ANNO XLI FASC. IV N. 161/2013

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Questo fascicolo è stato stampato nel mese di ottobre 2013

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In questo numero:

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