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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO SCUOLA DEGLI STUDI SUPERIORI DI TORINO (SSST) “FERDINANDO ROSSI” TESI FINALE SSST IL FASCINO STRATEGICO DEL MESSAGGIO DELL’ISIS E LA RADICALIZZAZIONE DEI FOREIGN FIGHTERS EUROPEI Relatore: prof. Luigi Bonanate Candidato: Michele Bortolini, Matr. n° 740353 Anno Accademico 2014-2015 II sessione

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO

SCUOLA DEGLI STUDI SUPERIORI DI TORINO (SSST) “FERDINANDO ROSSI”

TESI FINALE SSST

IL FASCINO STRATEGICO DEL MESSAGGIO DELL’ISIS E LA RADICALIZZAZIONE DEI FOREIGN FIGHTERS EUROPEI

Relatore: prof. Luigi Bonanate Candidato: Michele Bortolini, Matr. n° 740353

Anno Accademico 2014-2015 II sessione

ELABORATO FINALE SSST MICHELE BORTOLINI

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INDICE INTRODUZIONE p. 3 ALCUNE DEFINIZIONI p. 4 I FOREIGN FIGHTERS p. 6 RADICALIZZAZIONE IN CARCERE p. 7 RADICALIZZAZIONE NELLE MOSCHEE p. 9 CELLULE MINIATURIZZATE E LONE ACTORS p. 10 RADICALIZZAZIONE SU INTERNET p. 11 IL MESSAGGIO JIHADISTA p. 14 ESTETICA JIHADISTA p. 17

ESTETICA DELLE IMMAGINI p. 17

ESTETICA DEL SUONO p. 19 POTENZA DELL’APPELLO p. 19 I SACRIFICI UMANI DEL CALIFFATO p. 20 ESTETICA DEL KAMIKAZE p. 21

L’ISIS COME CULTO p. 22 DE-RADICALIZZAZIONE p. 25 CONCLUSIONI p. 27 BIBLIOGRAFIA p. 28

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INTRODUZIONE In questo elaborato intendo indagare le dinamiche che inducono i cosiddetti foreign fighters, individui cresciuti in un sistema socio-culturale “occidentale”, ad abbracciare la causa “jihadista” e a combattere nelle file del cosiddetto “Stato Islamico” 1. Dopo una breve definizione di alcuni concetti fondamentali, tenterò di trattare l’identità di questi combattenti e le motivazioni della loro scelta radicale. Successivamente cercherò di analizzare i canali comunicativi dell’ISIS e i fattori che rendono il suo messaggio così affascinante. Infine affronterò le strategie di de-radicalizzazione, ovvero gli strumenti finora adottati per “riportare a casa” (in senso materiale e figurato) questi foreign fighters. L’approfondimento di questa tematica richiede un approccio interdisciplinare, che fa riferimento ai seguenti ambiti di studio: psicologia, sociologia, antropologia, semiotica, politica internazionale.

1 Il primo autore che analizza l’impiego di foreign fighters per il contesto siriano, paventando il pericolo rappresentato da di una degenerazione jihadista della ribellione al regime di Assad è Richard Barrett, Foreign Fighters in Syria, TSG, 2014. Per un’analisi di carattere generale sui foreign fighters musulmani, cfr. Thomas Hegghammer, The Rise of Muslim Foreign Fighters. Islam and the Globalization of Jihad, <International Security> 35 (3), Winter 2010/11, pp. 53–94.

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ALCUNE DEFINIZIONI Spesso l’informazione divulgativa fornita dai nostri mass media non ci permette di comprendere pienamente i termini della questione. Parole come Califfato , Stato Islamico, jihad, ISIS e foreign fighters vengono usate il più delle volte in modo improprio. Tali imprecisioni nell’uso dei termini creano confusione nelle masse e favoriscono indirettamente la strategia propagandistica di questi terroristi. Prima di affrontare l’essenza di questa relazione, occorre dunque passare in rassegna alcune definizioni fondamentali. Si definisce Stato Islamico quella forma di governo teocratica che contempla come unica “costituzione” il Corano e applica la sharīʿa, ovvero la Legge di Dio. Fonti del diritto di questo stato sono:

- il Corano; - la Sunna, “tradizione”, ovvero la raccolta dei detti, delle azioni e dei silenzi del Profeta

Muhammad; - il ra'y, il ragionamento personale, il buon senso individuale, ovvero l’elaborazione personale

del giudice (qādī), che è inappellabile e privo di motivazioni, ma non può naturalmente prescindere dal Corano;

- il qiyas, il ragionamento deduttivo e analogico che il giureconsulto musulmano (faqīh) è chiamato a esercitare, qualora il contenuto della disposizione sciaraitica non fornisca una risposta chiara a un determinato dilemma giurisprudenziale e non sia intervenuto neppure il “consenso dei dotti” (ijmā‘ ) per risolvere la questione2.

La filosofia politica di questa forma statuale considera il potere come appartenente esclusivamente a Dio e gestito da un’autorità umana, eletta dal popolo, che stipula un contratto con la società e agisce esclusivamente al servizio del popolo. Il monopolio della forza rappresenta il principale strumento dell’esercizio del potere. Questo stato non ha confini territoriali ben precisi, ma concepisce il mondo come suddiviso in tre parti:

- dār al-islam (“casa dell’islam”), lo spazio territoriale e politico, soggetto alla legge islamica e abitato dalla umma (“comunità”) dei credenti, ed entro il quale è vietato condurre guerre;

- dār al-ḥarb (“sede della guerra”), corrispondente al complesso dei territori soggetti a dominio non islamico e non abitati da musulmani. Il dovere del capo dello stato islamico, qualora abbia la forza necessaria, è di muover guerra ai territori del dār al-ḥarb e conquistarli, ad eccezione di quelli con cui già esista un trattato di tregua (la pace perpetua con essi è inammissibile);

- dār al-sulh (“terra di armistizio”), ovvero un territorio di conciliazione, in cui autorità non musulmane accettano la predicazione dell'islam3. Si tratta di una pace temporanea.

Si definisce Califfo colui che, discendente dalla stessa tribù alla quale apparteneva Muhammad, viene designato, col consenso dell’intera comunità islamica (umma), a detenere l’autorità e a guidare lo Stato Islamico. Infine il termine jihad, ben lungi dall’essere riducibile al mero significato di “guerra santa”, significa letteralmente “sforzo” e si declina in ben 4 accezioni:

- jihad con l’anima (jihad al-nafs), ovvero la lotta contro il proprio ego, le tentazioni, le idee malvagie, i desideri di potere, la lussuria, la rabbia, e l’immaginazione insaziabile, la sottomissione delle passioni ai dettami della ragione e della fede in obbedienza ai comandi di Dio, e, infine, l’eliminazione di tutte le idee ed influenze sataniche dall’anima. Questa è considerata come la più grande forma di lotta (al-jihad al-akbar) in quanto è molto più difficile di quella sostenuta sul campo di battaglia. Infatti nella lotta contro l’ego si deve

2 Ovviamente neppure questo strumento può prescindere dalla fonte coranica. 3 Durante la Prima Guerra Mondiale, Lawrence D’Arabia convinse le autorità arabe a designare con questo termine i territori europei (e, in particolare, il Regno Unito).

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costantemente combattere i nemici che sono ospitati dentro sé stessi. Gli insegnamenti etici islamici indicano che colui che esce vincitore da questa lotta può elevarsi al di sopra ed oltre il livello degli angeli, mentre colui che fallisce discenderà ad un livello più basso di quello degli animali, e può essere perfino incluso tra le legioni del diavolo;

- jihad con la lingua (jihad bil lisan), mirato a rammentare ai musulmani i principi della fede e a convertire gli altri all’islam;

- jihad con la mano (jihad bil yad), per applicare la legge e condividere la propria ricchezza con i bisognosi;

- jihad con la spada (jihad bis saif), la battaglia, esclusivamente difensiva, per proteggere la comunità dei credenti dalle minacce del nemico. Anche in questo caso, prima di intervenire con le armi, sarebbe opportuno tentare di negoziare con l’avversario. La letteratura chiama quest’ultimo tipo di sforzo “piccolo jihad”. Se ‘Abdallah ‘Azzam, fondatore di Al Qaeda (=la base), aveva organizzato un jihad armato in Afganisthan allo scopo di difendere la comunità dei credenti dal nemico russo, col crollo dell’URSS riteneva che l’azione armata non fosse più necessaria. Invece i suoi compagni e successori, Osama bin Laden e al-Zawahiri, predicarono un “jihad a oltranza” equivalente a un’offensiva contro il nemico lontano (USA, Israele e i Cristiani4) e contro i capi di Stato laici dei paesi musulmani, ritenuti colpevoli di sostituirsi a Dio nella detenzione del potere (poiché sostituivano la costituzione alla legge coranica) e trattati perciò alla stregua dei miscredenti.

L’ISIS e il suo “Califfo” Abu Bakr al-Baghdadi compiono un rivolgimento ulteriore delle norme. Fondano lo Stato Islamico guidato da un Califfo autoproclamato e sostenuto solo da un’esigua minoranza dei credenti: due azioni che possono essere ritenute decisamente illegali dal punto di vista del diritto islamico. Intendono il jihad esclusivamente come “guerra santa”, non solo contro gli infedeli, ma anche contro tutti i musulmani sunniti (finanche salafiti5) che non accettano di riconoscere la nuova autorità dell’autoproclamato “Califfo”. I principi basilari, gli obiettivi e i metodi di tale azione sono stati dichiarati illegittimi e, quindi, condannati nella lettera firmata da 126 Imam, che contesta puntualmente l’operato dell’ISIS. Prima di trattare l’identità dei foreign fighters, desidero brevemente elencare i vari nomi che sono stati utilizzati per questa organizzazione terroristica:

- ISIS (Islamic State of Iraq and Syria); - ISIL (Islamic State of Iraq and Levant); - IS (Islamic State); - DAESH (trascrizione dell’espressione assurda e impronunciabile Dawlat al-Islāmiyya fī al-

Irāq wa s-Shām, trad.: “Stato Islamico dell’Iraq e della grande Siria”, laddove Sham s’intende per Siria), termine che rimanda all’età oscura pre-islamica o “all’era dell’ignoranza”. Infatti, a seconda di come viene declinato, ha assunto una connotazione negativa e barbara nell’immaginario popolare. In tal modo, può risultare un insulto, che cambia variando il gioco tra vocali e consonanti, trasformandosi in espressioni varie come “coloro che calpestano, schiacciano” o “seminatori di discordia” oppure “bigotti che impongono la loro visione agli altri”. Per tale ragione tale acronimo non è gradito al Califfato, che minaccia il taglio della gola nei confronti di chi usa questa espressione. Per contro, Obama, gli hackers di Anonymous e i delegati Nato invitano la stampa e la classe politica italiana a servirsi dell’acronimo DAESH.

4 L’offensiva poteva considerarsi una difesa della umma dalla corruzione dei costumi causata dall’introduzione delle abitudini occidentali. 5 I salafiti si considerano gli esponenti dell’islam più ortodosso e radicale, sostenitori del ritorno alle fonti autentiche del Corano e della Sunna e di una rigorosa applicazione della sharīʿa.

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I FOREIGN FIGHTERS Secondo recenti analisi6 migliaia di persone, di origine, cittadinanza e formazione culturale europea, si sarebbero recate a combattere in Siria e in Iraq, in qualità di foreign fighters, tra le file dell’ISIS. Si tratterebbe di musulmani di seconda (o terza) generazione, figli di immigrati provenienti dai paesi arabi, oppure autoctoni convertiti all’islam e radicalizzati7. Pur provenendo da differenti retroterra culturali e condizioni economico-sociali, questi individui sono tutti accomunati dal fatto di essere molto giovani (hanno un’età media tra i 15 e i 35 anni) e molto insoddisfatti della propria condizione di vita. Costoro sono disposti a tutto pur di abbandonare quella stessa Europa che per molti dei loro genitori, così come per centinaia di migliaia di migranti in fuga, continua a rappresentare la speranza di una vita migliore. Non è possibile tracciare un unico profilo capace di dar conto delle differenze di ceto, cultura, origini ed estrazione sociale di questi giovani. Quello che però traspare dalle loro storie è un senso di smarrimento profondo e un’ostilità fortissima nei confronti di un mondo che non riconoscono come il loro e nel quale non riescono a trovare posto. Questa insoddisfazione non è tanto causata da fattori economici, quanto piuttosto da esigenze identitarie, che non possono trovare appagamento nella banalità quotidiana del mondo occidentale post-ideologico, caratterizzato da una crisi di valori e orientato ad una sempre più alienante mercificazione della persona. Sono individui che, pur motivati da storie personali alquanto differenti, si sentono tutti in qualche modo esclusi ed emarginati. A queste persone l’islam radicale propugnato dall’ISIS offre una causa per cui lottare e un’occasione per diventare protagonisti della propria vita e della storia. A costoro viene proposto di abbandonare il loro mondo, ormai corrotto e privo di valori, per raggiungere una nuova terra, lo Stato Islamico, fatta di valori semplici e chiari, in cui tutti i membri si sentono riconosciuti come fratelli di una stessa comunità, combattenti per il medesimo ideale e desiderosi di sacrificare la propria vita per conseguire l’obiettivo. Questo viaggio (hijra) verso la Siria, attraverso la Turchia, viene vissuto come una vera e propria catarsi, l’inizio di un percorso di rinascita, che permette al “vero” credente di riscattarsi, emanciparsi dalla corruzione e dall’ignoranza, compiere il proprio destino come combattente (mujahid) e trovare così il proprio posto nel mondo. I foreign fighters rappresentano la spina dorsale dell’ISIS: partigiani motivati, esponenti di un nuovo movimento rivoluzionario, ritenuti particolarmente idonei a ripopolare i territori dello Stato Islamico, rimpiazzando quei musulmani che, scontenti e riluttanti nei confronti dell’autorità del Califfato, vengono progressivamente eliminati. Questi foreign fighters sono i meno pagati in assoluto tra tutti i mujāhidīn dei gruppi jihadisti, a dimostrazione della loro profonda convinzione ideologica. Spesso non conoscono l’arabo e acquisiscono una conoscenza superficiale dell’islam tramite internet e i discorsi di alcuni predicatori radicali, tanto carismatici quanto abili nel distorcere la realtà. Non sembrano interessati ad approfondire la complessità della religione islamica (e non sono neppure in grado di farlo), ma piuttosto ricercano una causa per cui combattere, con valori semplici, regole chiare, una netta dicotomia tra bene e male e la speranza di realizzarsi in questa nuova utopia, l’ultima rimasta nell’era post-ideologica della globalizzazione. La radicalizzazione di questi giovani si è manifestata attraverso un processo che avviene per lo più dal basso verso l’alto: individui desiderosi di abbracciare la causa jihadista si rapportano con veterani mujāhidīn che, più che costituire dei “reclutatori”, assumono piuttosto il ruolo di “facilitatori”, in quanto forniscono a individui già sufficientemente convinti gli strumenti necessari all’ingresso nel gruppo8.

6 Cfr. Richard Barrett, Foreign Fighters in Syria, TSG, 2014; Lorenzo Vidino, European foreign fighters in Syria: dynamics and responses, <European View>13, 2014, pp. 217–224. 7 Contro questa idea, il professore Oliver Roy sostiene che, a differenza dei jihadisti in Siria e in Iraq, “i terroristi che operano in Europa sono tutti figli di immigrati. Non ci sono convertiti”. Spesso sono giovani che non hanno mai praticato prima la religione, che fumavano droghe, che bevevano e uscivano con le ragazze. “Un problema, se vogliamo, che riguarda tutta la giovinezza: la rottura con la famiglia e la ricerca del proprio io” [I kamikaze sono un clan. Colloquio con Oliver Roy di Federica Bianchi, L’espresso, n° 13, 31 marzo 2016]. 8 Per un maggiore chiarimento di questi concetti, rimando a Lorenzo Vidino, Il jihadismo autoctono in Italia: nascita, sviluppo e dinamiche di radicalizzazione, ISPI, 2014.

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RADICALIZZAZIONE IN CARCERE Prima di trattare nello specifico la natura del messaggio jihadista, ritengo opportuno analizzare i canali di radicalizzazione e reclutamento. Come molti studi di settore possono confermare, il carcere è sempre stato un luogo di reclutamento da parte di membri di movimenti politici e organizzazioni, di qualunque matrice ideologica, che vi sono reclusi per attività legate alla loro militanza. L’islam radicale e le sue organizzazioni terroristiche (tra cui l’ISIS), i cui membri sono in parte detenuti a partire dagli anni Novanta, non fanno eccezione9. In questo contesto, i destinatari del messaggio jihadista sono i musulmani de-islamizzati di seconda generazione che vivono nelle periferie e soffrono forti discriminazioni e, in misura minore, i convertiti. Entrambe queste categorie sono costituite da giovani di periferia, divenuti delinquenti per esclusione e frustrazione sociale, che si trovano a coabitare con islamisti radicali ideologicamente convinti, dotati di carisma e sapere politico-religioso, in grado di influenzarli. Le potenziali reclute sono, spesso, individui fragili, segnati da vite difficili, che hanno sviluppato un forte senso di vittimismo e che si trovano in carcere a causa di comportamenti devianti conseguenti alla mancata integrazione. Costoro vivono nel carcere una replica, esasperata, della loro particolare condizione sociale. La detenzione, l’impatto con un ambiente duro, istituzionalmente caratterizzato da disciplina e regole non negoziabili – condizione che, per altro, vale per tutti i detenuti di ogni orientamento culturale e religioso – alimenta la percezione, individuale e collettiva, che la perdita della libertà, più che essere legata al reato commesso, costituisca l’inevitabile sbocco dell’emarginazione sociale subita in precedenza. La pena loro inflitta – spesso più elevata rispetto a quelle destinate a detenuti occidentali autoctoni, per effetto della recidiva, delle normative sulla pericolosità sociale, della prevedibilità della reiterazione del reato, della qualità della difesa (spesso d’ufficio) – viene interpretata come una forma di ingiusta discriminazione, dovuta ai loro marcatori etnici e religiosi. Tutto questo non fa che aumentare il rancore nei confronti della società e delle istituzioni del paese in cui vivono. Tale rabbia, finché resta circoscritta alla volontà del singolo individuo, non produce effetti rilevanti, se non l’aggravarsi della propria condizione in conseguenza di condotte indisciplinate. Le cose, però, possono cambiare quando l’identità del prigioniero, annientata dal venir meno dei legami sociali del passato e dall’alienante condizione carceraria, viene ristrutturata in un processo di condizionamento psicologico che può condurre alla radicalizzazione. Questi individui hanno bisogno di identità, di appartenenza, di tutela dalla violenza psicologica o fisica e vedono nell’interpretazione radicale dell’islam, incarnata dai detenuti jihadisti, un solido punto di riferimento, la sola risorsa di senso capace di attenuare o superare la sensazione di sconfitta, di depressione, di disorientamento, di ricostituire una nuova identità e di dare significato alla propria condizione in un difficile passaggio della loro esistenza. La grande maggioranza dei detenuti musulmani non era praticante prima della detenzione. Il ritorno alla religione rappresenterebbe dunque la reazione all’impatto con la prigione e un’occasione di riscatto dal senso di colpa per il proprio fallimento esistenziale, in nome di una credenza superiore. Spesso il regime carcerario non consente di praticare adeguatamente la ritualità islamica e ciò costituirebbe un elemento di frustrazione legata alla percezione di una religione mantenuta volutamente in uno stato di inferiorità, che spingerebbe molti musulmani a considerarsi vittime e ad assumere posizioni più radicali. Questi detenuti si rivelano sensibili alla rappresentazione dell’islam come “religione degli oppressi” più che alla stretta osservanza delle sue prescrizioni rituali o normative. La religione come ideologia consentirebbe di sacralizzare l’odio che parte dei detenuti musulmani nutre nei confronti delle società nelle quali hanno vissuto. L’islam radicale diventerebbe così lo strumento di rivalsa per questi individui, che hanno conosciuto l’esclusione, il razzismo e

9 In questa parte elaboro l’analisi di Renzo Guolo, L’ultima utopia. Gli jihadisti europei, Milano, Guerini e Associati, 2015, capitolo quinto, “Dietro le sbarre”, pp. 55-69.

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che hanno interiorizzato questa umiliazione. Quando contenuti di questo tipo incontrano leader carismatici e radicalizzatori, il terreno per il reclutamento diventa fertile. Per contro, i reclutatori gestiscono con animo sereno la loro detenzione, poiché la loro ideologia e la loro particolare concezione della credenza religiosa rappresentano una bussola che li orienta anche in condizioni difficili. Pur dovendo scontare pene lunghe, non rinunciano tuttavia alla missione di cui si sentono investiti: battersi per il campo del jihad. I reclutatori jihadisti non creano particolari problemi disciplinari: rispettano le regole degli istituti e evitano di contrapporsi palesemente alle autorità carcerarie, in quanto sono più interessati a esercitare la loro influenza, soprattutto sui detenuti prossimi alla scarcerazione. Una volta che questi ultimi si saranno radicalizzati, potranno decidere, fuori dal carcere, se imboccare o meno la via del jihad. I detenuti de-islamizzati più sensibili al processo di radicalizzazione nutrono grande rispetto e ammirazione per i condannati per terrorismo, che hanno il coraggio di testimoniare apertamente la loro ideologia islamista. Questi militanti, se non possono fare altrimenti, si limitano a dare esempi che possono tornare a mente anche in seguito, in libertà o meno, a quanti imboccheranno in futuro la via del jihad. Non sono possibili contatti diretti tra radicalizzatori e potenziali seguaci a causa dei controlli preventivi da parte degli organismi penitenziari e dei servizi di informazione: tale tipo di frequentazione sarebbe interpretata come una sorta di autodenuncia. Perciò i sentimenti di ammirazione sono talvolta espressi mediante un sistema di segni, una sorta di linguaggio segreto del carcere, sufficiente a comunicare rispetto e considerazione per vite che non si piegano. Talvolta i radicalizzatori riescono a esercitare influenza sui detenuti proponendosi, in assenza di «esperti ufficiali»10, come imam autoproclamati: ruolo che consentirebbe loro di offrire un’interpretazione salafita radicale dell’islam a una popolazione carceraria che conosce assai poco la tradizione religiosa. In questo ambito vi sono anche individui che, nell’associarsi a un leader carismatico, cercano l’acquisizione di forme di prestigio e considerazione, o, più semplicemente, una protezione che consenta di sfuggire alla pressione dei detenuti comuni, che cercano di sfruttare la loro fragilità psicologica.

10 Che, tra le altre cose, insegnano ad adeguare l’osservanza delle norme giuridiche islamiche al contesto sociale in cui si vive. Spesso gli imam qualificati non ci sono o arrivano troppo tardi e i detenuti preferiscono seguire le direttive del loro leader, esponente dell’islam più radicale e con una conoscenza minima del rito, che si è già autoproclamato imam.

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RADICALIZZAZIONE NELLE MOSCHEE In Europa, come nel mondo islamico, vi sono diversi tipi di moschee, che, a seconda dell’orientamento di pensiero dei dirigenti, possono contrastare, ignorare, tollerare o favorire i membri delle associazioni radicali jihadiste e terroristiche. Difficilmente nelle moschee radicali si inneggia apertamente al jihadismo. Troppo alto sarebbe infatti il rischio di incorrere nei controlli di forze di sicurezza decise a reprimere le associazioni con finalità di terrorismo – che comprendono anche le organizzazioni jihadiste – e a perseguire il reato di terrorismo internazionale, che riguarderebbe anche chi va a combattere fuori dal territorio nazionale. Qualora le moschee risultino essere sedi di arruolamento, verrebbero immediatamente chiuse. Per queste ragioni alcuni predicatori jihadisti tendono a dissimulare la propria posizione. Tuttavia in alcune moschee è possibile incontrare militanti radicali che esercitano, informalmente, un ruolo di cerniera nella zona grigia tra i neofiti radicalizzati e i combattenti in Siria o Iraq. Quando questi “facilitatori” individuano, o sono contattati da, aspiranti jihadisti, l’attività di indottrinamento e selezione si svolge fuori dai luoghi di culto. Emerge, dunque, che il reclutamento avviene, ormai, più ai margini delle moschee che al loro interno. Se prima i radicalizzati ostentavano, anche per mezzo dell’abbigliamento caratteristico, il proprio fondamentalismo, ora, per evitare la sorveglianza, sembra prevalere la strategia del mimetismo, per cui, in nome del fine superiore della causa jihadista, i “veri credenti” sono invitati a dissimulare la propria ideologia in modo da poter colpire meglio a sorpresa. L’ostentazione formale dei segni esteriori del proprio credo viene lasciata ai fondamentalisti tradizionalisti non jihadisti11.

11 Per approfondire questa parte e il capitolo successivo rimando a Renzo Guolo, L’ultima utopia. Gli jihadisti europei, Milano, Guerini e Associati, 2015, cap. quarto “Luoghi della radicalizzazione e forme del mimetismo”, pp. 47-54.

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CELLULE MINIATURIZZATE E LONE ACTORS Un’altra strategia, messa in atto per eludere i controlli delle autorità, prevede la miniaturizzazione delle cellule jihadiste che decidono di agire in Europa, o di costruire nuclei che promuovono l’adesione alla causa del jihad. La creazione di piccoli gruppi, formati da individui strettamente legati per parentela o amicizia, permetterebbe così di evitare tutti quei rischi a cui i grandi raggruppamenti sono sottoposti, che consistono nelle infiltrazioni e nelle registrazioni audio-visive dei movimenti da parte dei servizi di sicurezza. Più piccola è la cellula, maggiore è la coesione (di soggetti legati da una lunga e verificabile comunanza di esperienze, da consolidate relazioni parentali o amicali), minore è il rischio di infiltrazioni, ricatti o tradimenti. Secondo il professore Oliver Roy: “La violenza è pensata nell’ambito di un clan. Mai da soli. Si tratta di un gruppo molto legato composto da fratelli, cugini, amici cari, complici di vita e di morte. Una nuova famiglia di approdo che accoglie chi non si è mai sentito accolto. Terrorismo famigliare. E, come spesso avviene, anche i traditori sono membri della «famiglia»”12. Simili nuclei, oltretutto, essendo composti da membri che semplicemente condividono la medesima ideologia, non avrebbero alcuna necessità di una struttura gerarchica per operare. Una volta entrati in azione possono richiamarsi a Al Qaeda o all’ISIS, ma sono autonomi nella selezione dei bersagli e nelle modalità d’azione. Si tratterebbe dunque di un “jihad senza leader”, caratteristica peculiare delle più diffuse forme di organizzazione jihadista recentemente affermatesi. A livello estremo di miniaturizzazione, vi sono, poi, militanti che si radicalizzano e agiscono individualmente. Costoro, denominati lone actors o “lupi solitari”, sono ancora più difficili da identificare, poiché possono muoversi al di fuori delle reti sotto sorveglianza delle autorità e entrare in azione all’improvviso. Tali fattori aumentano nell’opinione pubblica la percezione di pericolosità rappresentata da questi combattenti solitari, alimentando una crescente paura e diffidenza verso “l’altro”.

12 Oliver Roy/Federica Bianchi, I kamikaze sono un clan. Colloquio con Oliver Roy di Federica Bianchi, <L’espresso> 13, 31 marzo 2016, pp. 18-19.

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RADICALIZZAZIONE SU INTERNET La rete internet costituisce la principale piattaforma della radicalizzazione islamista13. Si rivela infatti il canale più efficace tra gli altri, in quanto permette di bypassare le difficoltà, legate alla distanza fisica tra individui o alla crescente sorveglianza di luoghi di aggregazione (moschee o prigioni), che ostacolano l’interazione faccia a faccia tra militanti dei gruppi jihadisti e potenziali adepti. L’accesso allo spazio virtuale permette di riscoprire ciò che nello spazio reale, quello delle società europee, viene negato o ignorato. Il web rende, infatti, possibile la costituzione di una umma de-territorializzata, cioè svincolata dallo stato-nazione e dal territorio locale, percepiti come limitanti. La rete favorisce, per sua natura, quei percorsi di religiosità personali, maturati in solitudine, che possono sfociare in derive estremistiche, tra cui l’islam radicale. È in rete che si ricostituisce la relazione tra individuo concreto – e isolato – e comunità virtuale: un processo di comunitarizzazione che risponde al bisogno di soggetti, che vivono in contesti caratterizzati da legami sociali deboli, di sentirsi parte di una comunità che offre un forte senso di appartenenza. Internet favorisce l’auto-radicalizzazione: si diventa simpatizzanti, o aspiranti militanti, del jihad leggendo i testi dei teorici e intellettuali dell’islam radicale o sfogliando on line le riviste riconducibili a Al Qaeda e all’ISIS (come Inspire o Dabiq) o, semplicemente, guardando i video prodotti da quelle stesse organizzazioni. Molti di questi contenuti sono pubblicati in lingue occidentali (inglese, francese, tedesco) e i video in cui si usa l’arabo sono spesso sottotitolati in inglese, a dimostrazione dell’attenzione rivolta a quanti non sono arabofoni o vivono in Occidente. L’abbattimento della barriera linguistica dell’arabo consente a tutti, immigrati di seconda o terza generazione o convertiti, di accedere a contenuti che un tempo avrebbero presupposto specifiche conoscenze linguistiche e particolari contatti, oppure viaggi per procurarseli. Si tratta di un processo di auto-radicalizzazione, che spesso si svolge attraverso una ricerca solitaria, da autodidatta, attingendo ai vari siti web in modo disorganico. Il passaggio successivo è l’ingresso nei social network ispirati, o frequentati, da militanti dell’islam radicale, nei quali avviene lo scambio di opinioni e contenuti con altri aspiranti jihadisti e con veri e propri reclutatori. Il jihad mediatico attira un pubblico sempre più largo e sempre più giovane. Tra gli occidentali pare riscuotere un particolare successo in quanto adotta un linguaggio che fa leva su codici culturali e simbolici ben conosciuti. Le organizzazioni jihadiste dispongono di un proprio apparato mediatico: un cyber-jihad che permette di far conoscere la propria visione del mondo, di intimorire e minacciare il Nemico e di reclutare seguaci. L’ISIS è l’organizzazione che ha raggiunto il livello più sofisticato nella produzione mediatica, non solo nella qualità tecnica14, ma anche nella differenziazione dell’offerta rivolta al suo pubblico eterogeneo. L’ISIS è entrata nell’universo del social web, aprendo pagine Facebook nelle quali le reclute straniere, compresi i giovani europei, agiscono come armi digitali del gruppo, usando in modo massiccio Twitter con hashtag propagandistici mirati e diffondendo i podcast con i discorsi di Al-Baghdadi e dei leader religiosi dell’organizzazione: un archivio mediatico che garantisce una diffusione capillare, al quale si può accedere da computer, tablet e smartphone. Facebook e Twitter sono strumenti ideali per favorire l’auto-radicalizzazione e il successivo reclutamento: basta mettere “mi piace” a un post sulla causa musulmana per entrare nel radar dei reclutatori dell’ISIS. Il cyber-jihad ha, ovviamente, generato delle contromosse da parte di chi combatte i gruppi jihadisti. I governi dei paesi occidentali hanno cercato di imporre una politica di controllo sul web, non solo mediante appositi programmi di sorveglianza, ma intervenendo sulle piattaforme che

13 In questo capitolo ho rielaborato l’analisi di Renzo Guolo, L’ultima utopia. Gli jihadisti europei, Milano, Guerini e Associati, 2015 (capitolo sesto “La Rete Islamista”), confrontandola con quelle offerte dagli autori della miscellanea curata da Monica Maggioni e Paolo Magri, Twitter e jihad: la comunicazione dell’Isis, Novi Ligure, Edizioni Epoké, 2015, e aggiornandola alla luce del recente convegno, organizzato dall’Università di Torino, “Dal Califfato al Califfato. Il Medio Oriente dal trattato Sykes-Picot al jihadismo stragista”. 14 I video dell’ISIS sono girati con doppia inquadratura e riproducono più situazioni e ambientazioni.

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consentono il video-sharing, come You Tube, per ottenere la rimozione dei materiali caricati o la chiusura degli account dell’ISIS su Twitter, divenuti, più che forme di giornalismo partecipativo militante, strumenti di propaganda15. Per tutta risposta, il jihad mediatico ha imboccato anche altre strade: l’utilizzo di canali, forum e server più restii ai controlli o più affini alla causa, compresi i social network open source, fondati su una piattaforma aperta e decentralizzata, priva di un server centrale. In tali ambiti diventa più difficile identificare questi nuovi account come riconducibili all’ISIS e quindi rimuoverne i contenuti o imporre censure. Si tratta di un processo di “migrazione” fatto di continue chiusure, abbandoni e riaperture, che può rallentare, ma non interrompere, i flussi in rete del cyber-jihad. Per ridurre la sorveglianza elettronica dei servizi d’informazione dei paesi ostili, nell’estate del 2015 l’ISIS ha ordinato ai provider la chiusura dei punti di accesso internet e il taglio delle connessioni wi-fi in alcune località dei territori da esso controllati. L’uso della rete è consentito solo negli internet-cafè direttamente monitorati dal gruppo jihadista in modo da sorvegliare i contenuti delle comunicazioni. Il provvedimento riguarda anche i mujāhidīn, compresi i foreign fighters occidentali che comunicano spesso con famigliari e amici. È evidente la necessità dell’ISIS di evitare che il flusso comunicativo dei suoi militanti consenta di far trapelare informazioni sulla situazione dei territori controllati dallo Stato Islamico o renda possibile il monitoraggio delle comunicazioni e la localizzazione di chi, come gli stessi combattenti, usa in misura massiccia gli smartphone. Emerge un processo di centralizzazione e controllo sempre più evidente, motivato da ragioni di sicurezza e controllo politico, anche se, comunque, le comunicazioni riservate dei gruppi jihadisti, in particolare a livello dirigente, passano per il deepweb o darknet (il cosiddetto internet invisibile, che funziona con collegamenti da pc a pc, mediante protocolli, come Tor, che consentono la comunicazione anonima) o mediante lo Snowden Phone e la piattaforma “Muslimbook” (il Facebook dello Stato Islamico). Queste modalità, però, proprio perché ridotte nell’utenza, non consentono di ottenere visibilità su larga scala e, dunque, di perseguire efficacemente il reclutamento ad ampio raggio. La novità introdotta dall’ISIS è data dai molteplici format che compongono il suo palinsesto e dall’accuratezza delle sue produzioni. Si va dai lungometraggi16 ai video che documentano efferate decapitazioni rituali, dalle testimonianze degli aspiranti “martiri del jihad” alle scene di combattimento o di “operazioni di martirio” in presa diretta, dai frammenti di vita quotidiana nei territori occupati alle interviste con i militanti, dalla produzione di veri e propri notiziari ai videogame “educativi”, pensati per un pubblico di giovanissimi, che “preparano al jihad”, simulando scontri tra i mujāhidīn e i loro nemici. I registi dell’ISIS amano l’uso degli effetti speciali e delle colonne sonore basate sui nasheed17, con l’intento di fare breccia in un pubblico giovane ed esigente. La buona qualità della produzione è consentita dalle più recenti tecnologie, ma anche dall’arruolamento, su base ideologica o professionale, di esperti del settore. L’apparato mediatico dell’ISIS seleziona i suoi prodotti in relazione ai diversi tipi di pubblico che vuole raggiungere.

15 Queste contromosse governative sono ritenute da Salazar inutili. I governi sarebbero caduti nella trappola del Califfato che usa questa propaganda online come specchio per le allodole. “Per quanto riguarda i social network, sappiamo ormai che gli account Twitter dei soldati jihadisti di estrazione occidentali non sono importanti fonti di reclutamento. Sono frasi apologetiche, brevi ovviamente, e molto di rado i soldati del Califfo le usano per parlare delle vittime giustiziate. Piuttosto vi celebrano eroi e miliziani esemplari, la glorificazione del martire e la fraternità nel combattimento. Questi brevi scambi non sono atti di propaganda, non corrispondono ad alcun progetto di comunicazione strategica. D’altra parte è ormai assodato che il reclutamento al di fuori dei social network (out of network) premia, e che chiudere account o porre une sorveglianza ha come effetto quello di spingere gli interessati underground, di forzarli ad agire nell’ombra, a mimetizzarsi nell’ambiente circostante, ad allontanarsi dai social network. I video e i periodici su cui la contropropaganda si è buttata per mostrare che “si fa qualcosa” di moderno e di e-meccanico sono dunque parte delle astuzie dei diversivi per mascherare le operazioni sul territorio e nell’ombra” [Philippe-Joseph Salazar, Parole armate. Quello che l'ISIS ci dice. E che noi non capiamo, Milano, Bompiani, 2016, p. 74]. 16 Come il famoso Flames of War: https://www.youtube.com/watch?v=Sai2gqP2tJU. 17 Si tratta di canti a cappella basati su testi tradizionali o eventi attuali, solitamente divisi in inni di battaglia, di martirio, funebri, di lode.

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I serial sono un genere forte nell’ISIS18, finalizzati a una rappresentazione che mitizza le figure degli jihadisti, potenziando la capacità di reclutamento di quanti sono attratti dal jihad. Le riviste elettroniche si rivolgono, prevalentemente, a un pubblico istruito, che cerca un inquadramento teorico e un’analisi politica e religiosa delle scelte operate dalle principali organizzazioni radicali. In particolare, la rivista Dabiq, oltre a dare conto del progressivo radicamento dello Stato Islamico, e a pubblicare reportage di guerra, articoli su temi geopolitici e religiosi, è attenta alla campagna di reclutamento degli occidentali, che conduce mediante l’appello al dovere della hijra (o egira) e rammentando l’ineluttabilità dell’espansione mondiale del Califfato, anche in Europa. Il continuo uso di vecchi e nuovi media, la capacità di rivolgersi a target differenziati, di adattare diverse tecnologie, programmi e saperi alle diverse esigenze del cyber-jihad, rappresentano le caratteristiche fondamentali della strategia comunicativa dell’ISIS, particolarmente adatta a un pubblico non solo abituato alle modalità e ai contenuti diffusi via internet, ma anche fortemente esposto a identificare il virtuale come reale. Si evince, dunque, da questa analisi, che il processo di reclutamento da parte di gruppi jihadisti in Europa, in particolare dell’ISIS, avviene dal basso verso l’alto (da individui che chiedono di entrare nei gruppi organizzati) anziché dall’alto verso il basso (da gruppi organizzati che svolgono una mirata e pianificata attività di arruolamento). Segno che l’offerta di reclutamento è elevata e ha prodotto un fenomeno, che gli esperti chiamano “terrorismo a accesso libero”, in cui sono gli aspiranti jihadisti, e non viceversa, a contattare, mediante la rete, i reclutatori. I gruppi jihadisti hanno semmai il problema di selezionare i molti aspiranti mujāhidīn, per evitare infiltrazioni o accogliere individui che possono rivelarsi instabili e inaffidabili, con tutte le conseguenze che ne deriverebbero per la continuità dell’organizzazione.

18 Emblematico quello di Jihadi John, veicolo di un messaggio molto chiaro: nell’egualitaria comunità del fronte tutti sono indispensabili e valorizzati nei loro ruoli. Anche chi fa il carceriere o comanda i plotoni d’esecuzione con la lama. Infatti tutti i mujāhidīn condividono la medesima ideologia e gli stessi obiettivi.

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IL MESSAGGIO JIHADISTA Stiamo qui affrontando la parte essenziale di questo lavoro: capire i fattori che rendono il messaggio dell’ISIS così appetibile ai tanti giovani occidentali che decidono spontaneamente di abbracciare la causa dell’islam radicale e di entrare nelle file armate del Califfato19. Sull’individuazione dei fattori scatenanti la radicalizzazione vi sono pareri discordanti. A giudizio delle madri dei terroristi20, la causa della radicalizzazione non andrebbe cercata tanto nella religione, quanto piuttosto nell’emarginazione economica21 e, soprattutto, sociale che ha minato profondamente l’esistenza dei loro figli, spingendoli a cercare una propria identità tra i ranghi dell’ISIS. Secondo molti analisti, tra cui il prof. Oliver Roy22, invece, è “inutile cercare le ragioni di questa violenza nelle condizioni sociali o economiche23 degli attentatori, ce ne sono alcuni che arrivano anche dalla piccola borghesia. Il problema è invece la distanza tra come loro si vedono e si considerano e come li rappresenta la società in cui vivono”. L’enorme divario tra questi due immaginari genera immensa frustrazione. “Si sentono traditi dal Paese che li ha accolti e per cui finiscono per non sentire più alcun legame”. La frustrazione induce a elaborare progetti di vendetta, anche estremi: meglio la morte del carcere, purché anche “gli altri” paghino. Le persone che entrano in questi gruppi cercano di trovare una strada, di rispondere a una qualche vocazione per dare un senso alle proprie vite. Questo è il loro comune denominatore: un bisogno morale e appassionato di raddrizzare ciò che viene percepito come un torto, rimediare a un’ingiustizia e riconquistare l’onore. Le organizzazioni terroristiche come l’ISIS offrono a queste persone l’opportunità di sentirsi potenti. Fanno sì che individui disillusi, disaffezionati e frustrati abbiano la sensazione di fare qualcosa di veramente significativo delle loro vite nella veste di militanti radicali. A questo risentimento e a questo bisogno di riscatto si affiancano lo spirito comunitario (e cameratistico) e il senso romantico di avventura e azione estrema da videogame. L’enfasi sui benefici economici e sociali dello Stato Islamico sarebbe invece funzionale ad attirare le donne e le famiglie dei combattenti jihadisti. A tale scopo, in effetti, l’ISIS ha pubblicato delle brochure in cui esalta il proprio welfare (es. istituzione di banche etiche, strutture sanitarie gratuite e scuole coraniche) e si presenta come garante di valori sociali assenti altrove (es. rispetto per gli anziani). Tale propaganda si rivela molto utile per accreditare l’entità del Califfato come Stato a tutti gli effetti. La strategia comunicativa dell’ISIS si nutre di precise tecniche di marketing politico, elaborate da persone che hanno competenza in materia, acquisita nelle università dei paesi islamici o in quelle occidentali, nelle quali si studiano comunicazioni di massa, marketing o management. Al centro del massaggio dell’ISIS vi è uno specifico brand: quello dello Stato Islamico, capace di evocare sentimenti e pulsioni che fanno leva sul mito politico di fondazione dell’islam, sul senso di colpa dei musulmani per non aver realizzato la predestinata espansione universale della comunità dei credenti (umma) e sulla possibilità di riscatto offerta ai musulmani dalle “avanguardie della fede”. Il messaggio jihadista è immediato e riesce a sfruttare una parte del sostrato culturale islamico e delle scritture a proprio vantaggio, raggiungendo quella componente – minoritaria ma pur sempre rilevante – della umma più sensibile al suo richiamo. Avvalorando le proprie argomentazioni sulla base di fonti giuridico-religiose dotate di una legittimità difficilmente contestabile, oltre che di

19 Questa analisi del messaggio jihadista è in parte tratta dal primo capitolo del libro di Andrea Plebani, Jihadismo globale. Strategie del terrore tra Oriente e Occidente, Milano-Firenze, Giunti, 2016 e dalla parte finale del libro di Renzo Guolo, L’ultima utopia. Gli jihadisti europei, Milano, Guerini e Associati, 2015. 20 Cfr. Davide Lerner, Noi, le madri dei terroristi, L’espresso, n° 13, 31 marzo 2016, pp. 13-17. 21 Se si parla dell’ISIS, la ragione economica deve essere tuttavia ridimensionata. Come già affermato in precedenza, la paga offerta dal Califfato è decisamente bassa, soprattutto se paragonata a quella delle altre organizzazioni terroristiche. Questo aspetto, anzi, va ad avvalorare la bontà del messaggio e l’autenticità delle convinzioni fanatiche dei militanti. 22 I kamikaze sono un clan. Colloquio con Oliver Roy di Federica Bianchi, L’espresso, n° 13, 31 marzo 2016. 23 Nonostante vi siano parecchie evidenze empiriche a tal proposito.

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importanti autori del passato, queste organizzazioni sono riuscite a contestare l’autorità delle tradizionali istituzioni religiose, presentandosi come i veri latori di un messaggio profetico scevro da contaminazioni e deviazioni stratificatesi nel tempo. Tra gli elementi alla base del successo dei movimenti jihadisti vi sarebbe, quindi, un messaggio capace di attirare militanti provenienti da aree, ceti sociali e background profondamente differenti. Da un’attenta analisi degli scritti e delle storie di questi militanti, appare evidente come le loro azioni non possano essere spiegate da forme di devianza, manipolazione o estremo disagio sociale, ma dall’adesione a un sistema di valori estraneo al modello culturale occidentale, ma non per questo meno razionale. Un altro fattore determinante nel favorire la causa jihadista sarebbe la capacità di esporre una base dottrinale articolata ma non così inaccessibile da scoraggiare i suoi potenziali destinatari. Al contrario, sfruttando tutta una serie di riferimenti all’umiliazione, alla rabbia e al senso di impotenza che permeano ampi segmenti del mondo musulmano, essa è riuscita ad arrivare “alla pancia” dei suoi interlocutori, attivando meccanismi capaci di favorire l’identificarsi del singolo nelle sofferenze della umma e nelle promesse di riscatto insite nella logica jihadista. Il jihad con la spada (jihad bis saif) finisce dunque per rappresentare non solo il mezzo per raddrizzare le storture di un mondo corrotto, ma anche l’opportunità per sfuggire a vessazioni e umiliazioni senza fine. Entrare nei ranghi dei mujāhidīn diventa non solo un atto meritorio dal punto di vista religioso, ma anche l’occasione per dare un senso a vite sospese in un limbo privo di speranze. Dinamiche, queste, che i diversi movimenti jihadisti hanno saputo sfruttare sapientemente, invitando i potenziali volontari a spogliarsi del passato per seguire le orme dei primi compagni del Profeta: come i muhajirun abbandonarono la Mecca per Medina nell’anno primo dell’era islamica, così i mujāhidīn sono chiamati a compiere una nuova hijra (o egira), separandosi dalla società empia che li circonda24. In breve, il messaggio jihadista, portato al più alto livello di efficacia dall’ISIS, combina sapientemente pillole di dottrina islamica – somministrate in modalità semplificata e immediatamente comprensibile – con i seguenti appelli: ritornare a essere “autentici”, abbandonando la terra corrotta dalla cultura occidentale per emigrare verso la terra pura dell’autentica comunità dei credenti25, e combattere per dar forma al progetto che, passando per la costituzione dello Stato Islamico, conduce alla rinascita del Califfato. Se l’ISIS cerca di attirare reclute tra i locali attraverso prospettive di occupazione, welfare e miglioramento della situazione economica, i fattori di attrazione per i giovani europei sono ben diversi. Lo Stato Islamico offre un’utopia, la realizzazione di un sogno26, un’identità trans-nazionale, un senso di comunità. Questo sembra controbilanciare la decadenza dell’ideale socialista nel mondo occidentale e spiega così il fenomeno dei convertiti. D’altra parte il fallimento delle politiche di integrazione dei migranti contribuisce a spiegare il rifiuto, per i musulmani di seconda generazione, della società in cui vivono, e il bisogno di riscattarsi nella lotta eroica, con cui finalmente possono sentirsi valorizzati (in contrasto con la frustrante vita quotidiana nelle periferie), soddisfare il bisogno di appartenere a un gruppo e contribuire a un processo rivoluzionario che vede nello Stato Islamico la “terra promessa”. Non solo l’ISIS offre un messaggio, ma anche un posto fisico dove questa utopia può essere realizzata. I combattenti si rappresentano come “illuminati”, pronti all’azione e a sciogliere ogni possibile dubbio che un potenziale foreign fighter potrebbe avere: paure, lavoro, denaro, anche i bambini, sono considerate tutte trappole della vita quotidiana,

24 Caso emblematico, quello delle donne, invitate ad abbandonare i mariti per emigrare nella terra dello Stato Islamico e risposarsi con i soldati del Califfato. 25 Tale appello sembra simile a quello che facevano i movimenti sionisti all’alba della costituzione dello stato di Israele. 26 Secondo Gigi Riva: “In Belgio, come a Parigi, i terroristi agiscono nel nome di una patria non vagheggiata ma reale. Per conto di un leader, Abu Bakr al-Baghdadi, che ha regalato loro un sogno, una scala di valori: l’edificazione del Califfato universale dove essere protagonisti, la vita regolata dalle leggi della Sharia. Le biografie degli assassini non restituiscono l’immagine di fedeli devoti dell’Islam. Piuttosto di ragazzi come i nostri, laici e secolarizzati. Donne, alcol, fumo e persino droga, prima dell’incontro fatale coi reclutatori e la promessa di un’esistenza migliore nella terra a cavallo tra Iraq e Siria. Da qui il cambiamento radicale, l’adesione furiosa, propria dell’età, al nuovo e opposto modello. Senza nemmeno aver letto il Corano o rispettato i precetti” [Gigi Riva, Va tolto loro il sogno dello Stato, L’espresso, n° 13, 31 marzo 2016, p. 19].

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ingredienti della prevedibile esistenza mondana che l’individuo vive, ma che può trascendere partecipando alla battaglia.

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ESTETICA JIHADISTA Se ci interroghiamo sulla finalità della propaganda online del Califfato, dei magnifici video e delle sue riviste patinate, potremmo mettere in dubbio l’efficacia del loro impatto sull’Occidente. Da una parte vengono oscurati o ridimensionati dalla nostra censura mediatica. Dall’altra diventano ben presto oggetto di repulsione, indifferenza o parodia a causa dei nostri meccanismi psicologici di assuefazione al cruento e, al limite, vengono relegati a oggetto di analisi da parte degli studiosi. Sarebbe ingenuo ritenere che video del genere siano sufficienti a suscitare una commozione tale da indurre l’individuo a convertirsi all’istante e a offrirsi al martirio. Se poi si leggono le biografie dei giovani che hanno deciso di unirsi al jihadismo o al Califfato, ci si accorge che le loro scelte fanno seguito a ricerche individuali talvolta molto approfondite. Sono giovani che si informano, leggono, imparano, si creano un’opinione sulla situazione mondiale e non sono, quindi, succubi del materiale cosiddetto “di propaganda”. Molti di loro hanno seguito corsi o prediche di religiosi fondamentalisti che li hanno messi sulla via dell’azione. Per venire incontro ai gusti di questi individui, il messaggio jihadista viene potenziato da una serie di fattori estetici, appositamente studiati e costruiti per fare breccia nel loro inconscio e spingerli ad abbracciare con entusiasmo e fanatismo la causa dell’ISIS27. I fattori fondamentali dell’estetica jihadista sono i seguenti: le immagini, i suoni28, la potenza dell’appello, la liturgia delle esecuzioni29 e, infine, l’alto valore simbolico dell’attentato suicida. La lingua utilizzata dalla propaganda jihadista spesso si rivela incomprensibile ai potenziali foreign fighters occidentali, che “sentono” e “vedono” l’arabo, senza capirlo, ma sono per questo attratti da sensazioni di natura “estetica”. Esistono due fattori essenziali nell’estetica jihadista, a favore di chi non capisce l’arabo: la colonna visiva e la colonna sonora. La percezione visiva delle immagini e quella uditiva dei suoni si rafforzano a vicenda ed entrambe, combinandosi, producono suggestione, coinvolgimento e, infine, sottomissione. L’estetica possiede questa forza, allucinatoria, di far passare un messaggio, o di condizionare a riceverlo pur non capendolo. Lo si percepisce anche senza concepirlo. La combinazione di suoni e immagini si rivela una strategia molto efficace per attirare chi non capisce la lingua della conversione (l’arabo). La loro forza persuasiva di estraneità e di rottura è seducente: apre le porte a un altro universo, che sembra fuori dalla ripetizione, dalla banalità, dal quotidiano. Restituisce al mondo il suo incanto. Gli conferisce senso e permette di passare dall’attrazione estetica all’adesione etica al jihad. Il fatto che non si capisca né l’estetica delle calligrafie né il significato dei testi e dei discorsi, lungi dal suscitare un rifiuto, suscita un coinvolgimento – ed è il primo effetto d’obbedienza. ESTETICA DELLE IMMAGINI Le immagini propagandistiche del Califfato si segnalano per una forza persuasiva del tutto nuova che attira l’attenzione, seduce e stupisce per il suo carattere esotico così distante dal linguaggio visivo inflazionato che circola abitualmente su internet. La tecnica di persuasione mediatica del Califfato sfrutta il filone dell’orientalismo, quella tradizione culturale e stereotipata che ha affascinato l’Occidente soprattutto durante i periodi del romanticismo e del simbolismo30. In tale concezione l’Oriente veniva rappresentato come un ricettacolo di ricordi

27 L’analisi dell’estetica jihadista attinge molti elementi dal libro di Philippe-Joseph Salazar, Parole armate. Quello che l'ISIS ci dice. E che noi non capiamo, Milano, Bompiani, 2016 e dall’opera di Andrea Plebani, Jihadismo globale. Strategie del terrore tra Oriente e Occidente, Milano-Firenze, Giunti, 2016. 28 I canti, le musiche e le poesie. 29 Che, come vedremo, costituiscono dei veri e propri riti sacrificali. 30 Per approfondire il concetto di orientalismo rimando al libro di Edward W. Said (2013 [1978]), Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano.

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e suggestioni, fatto di compresenze nascoste, collocato in una dimensione immaginativa ed irrealizzabile, visto come luogo dell’immaginazione, del piacere e della sensualità, una terra rarefatta e completamente scissa dalla realtà dei luoghi descritti, il luogo per antonomasia “dell’ Altro”. Se però questa idea colonialista rappresentava l’Oriente come un mondo silenzioso e senza possibilità di riscatto, il Califfato riadatta tale immagine mitica alle proprie esigenze ideologiche, trasforma questo mondo nel luogo di rifugio dei veri credenti, nella terra del riscatto da cui partirà la rivoluzione dello Stato Islamico, che rappresenta l’incarnazione dei sogni e delle fantasie che vengono offerte in queste immagini. Appropriandosi di un’idea originariamente occidentale, il Califfato ne sfrutta lo stupefacente carattere esotico e seducente per attirare i suoi foreign fighters. Ma accanto a rappresentazioni di questo tipo, l’ISIS offre materiale visivo più vicino alla comunicazione convenzionale occidentale: si segnalano, in particolare, le immagini della rivista Dabiq che da questo punto di vista vuole copiare lo stile delle nostre riviste patinate, in particolare quelle militari anglo-americane31. Nei video troviamo moltissime affinità con i trailer dei film32 e con i videogiochi come Call of Duty e Grand Theft Auto (GTA), a cui l’ISIS fa esplicito riferimento33. Si tratta di prodotti preparati accuratamente, che colgono sia la nobiltà sia l’urgenza di prendere parte alla battaglia, corredati di immagini adrenaliniche e video al rallentatore (Slow Motion) di avventure in battaglia. In un mondo in cui la forma è spesso più importante della sostanza, i movimenti del jihad globale hanno trovato le condizioni ideali per attuare una strategia che considera parimente fondamentali la battaglia sul campo e quella propagandistica-psicologica volta a fare breccia nei cuori e nelle menti tanto dei loro sostenitori quanto del nemico. In questo contesto, le immagini vengono caricate di un valore simbolico immediatamente comprensibile al grande pubblico, una strategia studiata nei minimi dettagli e volta a trarre il massimo effetto mediatico e propagandistico dall’azione terroristica. Una componente collaterale delle immagini è senz’altro il cosiddetto “fascino della divisa”. Il soldato jihadista appare sui nostri schermi feroce e insanguinato, in tenuta da combattimento e in virile atteggiamento di sfida. L’uniforme dei soldati di Dio è color nero34 e

31 Sull’atteggiamento “memetico” (per il termine cfr. Richard Dawkins, Il gene egoista, Milano, Mondadori, 2009 [originale: The Selfish Gene, Oxford University Press, 1976] e Malcolm Gladwell, The Tipping Point. How Little Things Can Make a Big Difference, Little, Brown and Company, Boston-New York-London, 2000) della rivista di Dabiq, cfr. Michelangelo Conoscenti (forthcoming), ISIS’ Dabiq Communicative Strategies, NATO and Europe. Who is Learning from Whom? 32 Emblematico il caso del video “Flames of War” che ha la stessa potenza iconica dei trailer americani, in particolare quelli dei film Marvels. 33 Mi riferisco qui a “Grand Theft Auto: Salil al-Sawarim”. L’ISIS sfrutta il successo del videogioco americano e lo personalizza per i propri fini, utilizzando il medesimo brand e aggiungendo il sottotitolo: “Salil al-Sawarim” (“Lo sferragliare delle spade”), con l’obiettivo di agganciare giovani da avviare alla carriera, non già di grande ladro d’auto, ma del jihadista. Si tratta di un perfetto esempio di gamification e di convergenza: infatti “Salil al-Sawarim” (abbreviato in SaS) era già il titolo di un video di al-Furqan, una delle case produttrici più significative di IS. Nelle prime ventiquattro ore di pubblicazione su YouTube è stato visto da circa 57.000 persone, con una permanenza media per visitatore di 17 minuti sul video, che è complessivamente lungo circa un’ora. Come al solito il video è stato reso disponibile in numerosi formati, anche in alta definizione, per circa un giga di download: un enorme successo. Nel video si vedono mujāhidīn combattere e convogli ISIS sfilare acclamati a Homs, Raqqa, e Fallujah dove un drone (probabilmente un Parrot AR Drone controllato da un iPad) offre al pubblico del video una visione dall’alto a 360° della marcia dell’ISIS, dalla Siria all’Iraq. Un video ottimo di grande impatto, che coinvolge e “promuove il tifo”, come un qualunque video di guerra e avventura prodotto negli Stati Uniti o in Europa: solo che i temi, i personaggi e gli obiettivi sono diversi e il mito a cui si ispira è, evidentemente, il jihad. Il videogioco utilizza il successo da botteghino del filmato per agganciare, con un prodotto specifico, un target differente, più giovane e ludico, affrontandolo sul suo terreno preferito e quotidiano, quello del gioco, allo scopo di orientarlo ideologicamente e di legittimare, attraverso il divertimento, il terrorismo e gli ideali del jihad. Ancora una volta una dimostrazione della capacità mediatica dell’ISIS che sa sfruttare il concetto di gamification in tutta la sua portata comunicativa e formativa. [cfr. il concetto di gamification in Monica Maggioni/ Paolo Magri (a cura di), Twitter e jihad: la comunicazione dell’Isis, Novi Ligure, Edizioni Epoké, 2015]. 34 Nero perché aderisce al corpo, mostra la mancanza di protezione e denuncia simbolicamente la natura vulnerabile e al contempo terribile del soldato del Califfo.

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sabbia35, senza spalline, senza distintivo, senza grado, senza un segno di gerarchia o di valore, ridotta alla massima astrazione, per mettere in mostra il corpo guerriero. I miliziani si mostrano a volto coperto (visibili solo gli occhi36) o scoperto e, in quest’ultimo caso, si mette a nudo tutta la storia del soldato, la sua identità, la sua conversione e la sua scelta radicale, nell’attesa di essere annoverato tra gli eroi dello Stato Islamico. Il Califfato costringe l’Occidente al faccia a faccia. Ostenta il volto dei suoi soldati e svela anche l’identità dei soldati suoi nemici, segnalando ad esempio nomi, indirizzi e fotografie di militari americani che i buoni credenti sono chiamati a uccidere. Il Califfato personalizza la guerra: all’anonimato delle incursioni aeree risponde con un attacco personale. Restituisce alla guerra la sua virilità, la sua virtù eroica e la sua vicinanza concreta. ESTETICA DEL SUONO I canti fungono da colonna sonora quando introducono i discorsi o accompagnano testi e immagini. Pur senza capirne le parole, è impossibile non tendere l’orecchio, prestarlo e ben presto offrirlo: la cantillazione37 in arabo è estetica, perché, se isoliamo questi canti dal loro contesto, la loro bellezza è paragonabile a quella dei canti monastici o, per rimanere nel registro islamico, di quelli del famoso cantante pakisatano Nusrat Fateh Ali Khan. Il Califfato utilizza principalmente il nasheed, il canto corale, dall’innegabile lirismo: voci maschili modulate che intonano, per esempio, l’inno di marcia della legione del Califfo. Nell’universo caotico rap-rock di internet, i cori e i canti del Califfato, al tempo stesso religiosi e guerrieri, escono dal gregge e chiamano in causa, volendo stigmatizzare la mancanza di valori che caratterizza il materialismo di ogni giorno. Persino la dizione di certi annunci audio è solenne, nobile nella costruzione delle frasi e dissonante rispetto a tutto ciò che sentiamo su internet, in particolare al tono troppo confidenziale di certi “cittadini-reporter”: gli annunciatori jihadisti si ispirano allo stile elevato, musicale ed esigente della recitazione coranica. Il potere di questi canti è quello di rimanere saldamente impressi nella memoria, anche dopo un solo ascolto, come un mantra. Ma anche qui si possono riscontrare molte affinità con autori occidentali molto moderni, le cui composizioni sono pervase da elementi di romanticismo, simbolismo e di orientalismo: Enya, Hevia, Howard Shore, Evanescence, persino i Linkin Park. È come se il Califfato riproponesse contenuti e stili alternativi, veicolati all’interno di codici occidentali ben conosciuti dai giovani militanti e in questo sta il segreto del fascino della “propaganda sonora” dell’ISIS. Quegli stessi canti esercitano un doppio effetto: con il loro suono attraggono i foreign fighters europei e con i loro testi, che attingono agli schemi e ai contenuti classici tipici della poesia araba e costituiscono una vera e propria letteratura di poesia militante, attirano i combattenti del medio oriente e diventano strumento di comunicazione interna tra militanti arabofoni38. POTENZA DELL’APPELLO Una tecnica retorica, ormai dimenticata dall’occidente – convinto di poter affrontare tutte le sfide comunicative mediante lo strumento del dialogo – e invece recuperata con successo dal Califfato, è quella dell’appello: un messaggio che non accetta compromessi e intima a ciascuno di scegliere, assumersi la responsabilità e partire per raggiungere la fonte dell’appello. Questa tecnica retorica fa

35 A dimostrazione dell’appartenenza al deserto e dell’identificazione con esso. 36 Ciò serve a sottolineare lo sguardo perforante e costituisce un atto di sfida e di seduzione. 37 Il canto liturgico di recitazione con modulazione melodica dei testi sacri in prosa della religione cristiana, ebraica, musulmana o buddista. 38 Per approfondire questo tema, cfr. Robyn Creswell/Bernard Haykel, Battle Lines. Want to Understand the Jihadist? Read their Poetry, The New Yorker, June 8, 2015, http://www.newyorker.com.

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leva sul senso morale dell’individuo e conduce a un superamento di sé oltre i confini del proprio Io e del proprio ambito territoriale. Il dialogo, invece, dal punto di vista retorico, non ha una valenza etica, ma imprenditoriale: non pone di fronte a responsabilità morali, ma contrattuali (le quali possono essere distribuite tra gli interlocutori); indica un luogo comune (il tavolo dei negoziati o la riunione delle risorse umane) ma non il tragitto, la via, il cammino. È evidente che l’appello del Califfato, nella sua incredibile novità, spezza la monotonia della nostra cultura del dialogo in cui tutto è permesso. L’appello del Califfato offre qualcosa di nuovo e provoca una risposta di massa. Le biografie dei giovani jihadisti che hanno risposto all’appello del Califfo confermano una sola cosa: l’appello del Califfato costituisce, nella tiepida atmosfera del dialogo, un vero e proprio temporale che scuote le coscienze e annuncia un destino superiore. L’appello del Califfato ha favorito il rientro, nell’universo dell’arte del discorso, di tre forme retoriche che un tempo godevano di immenso prestigio ed ebbero importanti conseguenze etiche nella cultura occidentale: l’appello o la proclamazione al popolo, il grande sermone sul destino superiore dell’uomo, l’arringa militare nel momento del sacrificio supremo. I SACRIFICI UMANI DEL CALIFFATO Il rituale terrorista della sgozzatura ha un valore di liturgia sacrale, in cui un soldato mette in scena un atto religioso. Il terrorista che sacrifica non è un esecutore militare, ma rappresenta un officiante che indossa la doppia veste del potere religioso e del potere militare, il cui incontro legittima il compimento di questo sacrificio. Come ogni liturgia, questo rituale religioso-militare si svolge secondo una cadenza ciclica ben precisa: il Califfato annuncia che ci sarà un sacrificio, segue l’attesa angosciosa, compare il filmato del sacrificio, infine seguono i commenti da parte del Califfato nei suoi periodici online e video-messaggi. Il rituale si inscrive, oltre che in questo quadro temporale, in un’ambientazione altamente simbolica: un terreno rosso o giallo, o la sabbia (che sia nel deserto o in riva al mare o anche in un luogo chiuso), un cielo o un mare di un azzurro acceso, e le statue umane, quella arancione – in ginocchio – della vittima, quella nera – in piedi – del carnefice o i due fregi ieratici dei sacrificatori dietro i sacrificati. I discorsi dei video delle esecuzioni sono a loro volta codificati in modo sequenziale: la vittima pronuncia un discorso di confessione o di espiazione, il boia un discorso d’accusa moralizzante, in cui si serve dell’esempio del sacrificato per trarne un monito generale. I due discorsi, l’uno di espiazione, l’altro di esortazione, seguono un altro codice immutabile del sacrificio: la vittima espia, a parole, ciò che ha commesso in azioni, e ciò che dice ha un valore esemplare. In video più recenti l’esecuzione è preceduta da una lunga intervista, fuori dalla scena del sacrificio, durante la quale la vittima sviluppa un’autocritica39. L’arringa del sacrificatore è un’esortazione morale: da una parte, è necessario dire ai nemici perché il sacrificio ha luogo, cosicché appaia come un atto di giustizia; dall’altra, l’esortazione si rivolge a coloro che tentano di trovare la retta via, quella del Califfato. Di fatto, il sacrificato fornisce l’occasione per lanciare un messaggio che riguarda tutti. La vittima non è sgozzata “per dare l’esempio”, perché il rituale non è un atto di rappresaglia. Il sacrificio, qui, è la rappresentazione di una liturgia politico-religiosa. La combinazione del discorso di espiazione e di quello di esortazione produce il messaggio e gli conferisce, in un mondo mediatico arabo-musulmano che non è quello dei media occidentali, una forza ineguagliata. Il Califfato ha reso sistematico, e dunque strategico, il processo del sacrificio serializzandolo: ogni esecuzione possiede un valore esemplare per una determinata categoria (es. giornalisti, assistenti umanitari, cristiani, apostati, traditori, spie); è ripresa a fini apologetici nelle riviste del Califfato (in quanto porta con sé un insegnamento su un aspetto della lotta); conferisce valore al soldato partigiano che compie il sacrificio. Questi diventa un archetipo assoluto, un esempio da seguire, a fronte del nemico ucciso che incarna il nulla assoluto. 39 Fa eccezione il caso di un gruppo di copti sacrificati, che invocarono il nome di Gesù, accettando un martirio cristiano.

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ESTETICA DEL KAMIKAZE L’attentato suicida è arma e simbolo al tempo stesso, capace non solo di ridurre il gap operativo che separa formazioni jihadiste e forze armate regolari, ma anche di veicolare un messaggio immediato e fortissimo tanto all’entourage jihadista quanto ai suoi nemici. Se da un punto di vista prettamente militare i vantaggi sono evidenti (il suicide bomber costa “poco”, è molto difficile da individuare e contrastare, e può provocare danni elevatissimi), il valore simbolico di questo “strumento” è ancora più rilevante: la morte dell’attentatore, oltre ad avere un effetto diretto sulla famiglia e sulla comunità di riferimento, grazie a un vero e proprio culto del martirio fatto di riti e dinamiche ormai standardizzate (video-testamento del mujahid, rivendicazione dell’azione da parte del gruppo di appartenenza, diffusione di immagini e poster con il culto del defunto ecc.), colpisce direttamente il nemico, acuendone la percezione di insicurezza. È difatti praticamente impossibile fermare un attentatore che non può essere identificato e che è disposto a sacrificare la sua stessa vita e quella di vittime innocenti pur di raggiungere il proprio obiettivo. È così che il terrore del terrore generato dagli attacchi jihadisti mira a raggiungere il suo principale bersaglio: spaventare a tal punto il nemico da paralizzarlo nell’inazione o da obbligarlo a una reazione spropositata. Quest’ultima risposta non sarebbe percepita dai terroristi come un rischio, ma come un’ulteriore opportunità per ribadire che l’islam è sotto attacco e per impantanare il nemico in uno scontro lungo e sanguinoso, che risponde perfettamente alle logiche della strategia jihadista asimmetrica e imprevedibile. L’attentato suicida, in molti casi, si è tuttavia dimostrato una vera e propria arma a doppio taglio. Il ricorso a questo strumento nei teatri più caldi del conflitto ingaggiato dai gruppi jihadisti – e quindi in aree poste per la stragrande maggioranza all’interno del dār al-islam – ha provocato una serie di “danni collaterali” (vittime innocenti, spesso di fede islamica) divenuti sempre più inaccettabili col passare del tempo. Il sostegno, da parte delle popolazioni musulmane per questo tipo di operazioni, cala drammaticamente man mano che gli attentati si svolgono nelle loro vicinanze e a loro danno. E ciò è comprensibile: un conto è accettare il ricorso ad attentati suicidi quando questi avvengono su territorio nemico o, comunque, in aree lontane; un conto è invece tollerare tali azioni, quando le vittime appartengono ad ambienti vicini o, addirittura, sono parte della stessa cerchia famigliare.

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L’ISIS COME CULTO Lo Stato Islamico, a livello di comunicazione, propaganda, dottrina e reclutamento, dà prova di possedere gli stessi elementi caratteristici di un vero e proprio culto40: agendo su individui socialmente emarginati ed emotivamente fragili, offre loro una nuova identità, un senso di appartenenza a una comunità e un sistema di valori semplice e duraturo, a fronte della crisi dei valori che investe la nostra “società liquida”. Questo può spiegare tanto il fenomeno dei convertiti quanto la radicalizzazione dei musulmani moderati o secolarizzati. L’ISIS si propone di rappresentare l’unica versione vera dell’islam e, come culto, usa la religione non per migliorare il benessere dei suoi membri, ma per stabilire un’organizzazione esclusiva e autoritaria, che persegue solo i propri interessi mantenendo un controllo totale sui suoi aderenti. Nell’ambito di un culto tutto è dogmatico e non c’è spazio per il dibattito. Allo stesso modo, lo Stato Islamico lascia poco spazio allo scambio di idee riguardanti l’interpretazione della propria fede. Tale dibattito dottrinale è riservato ai livelli più alti e, anche in tal caso, gli esperti teologi e il Consiglio della Sura non hanno alcuna voce in capitolo. Questo punto è in contrasto con l’islam ufficiale, secondo cui l’interpretazione è per principio accessibile a tutti gli studiosi, seppur con diverso grado di autorevolezza. Il gruppo dirigente responsabile del culto non è tenuto a rispondere ad alcuna autorità, ma si sente legittimato nel suo agire giustificando ogni possibile atto davanti ai propri seguaci. Lo Stato Islamico è molto più radicale della religione ufficiale nella lotta all’apostasia. Come molti culti e molte sette, cerca di rendere l’abbandono fisicamente impossibile, perseguitando e condannando a morte coloro che tentano di uscire dall’organizzazione41. Dissenso, conversione ad un altro credo e aperta ribellione sono giudicate della stessa gravità e solitamente punite con la morte. Generalmente i culti usano il proprio denaro per premiare l’obbedienza e arricchire il gruppo dirigente, non permettono variazione nelle norme cultuali, stabiliscono un controllo totalitario sulla fede e cercano di ritirarsi dalla società per mantenere la coesione interna. Il reclutamento, i lavaggi del cervello, il modo in cui lo Stato Islamico incorpora i suoi membri, specialmente quelli provenienti dalle società occidentali, si svolgono in maniera tutto sommato identica a quella di molte altre sette cultuali. I culti reclutano in modo solitamente aggressivo, non si preoccupano di diffondere il messaggio spirituale, ma di controllare il gruppo: senza seguaci, infatti, non avrebbero ragion d’essere. Nelle prime fasi del culto, il reclutamento costituisce una priorità strategica. Man mano che il numero dei membri incomincia a crescere in maniera esponenziale, il gruppo diventa sempre più attraente, richiamando un maggior numero di seguaci. Gli individui preferiscono che la loro scelta sia approvata e condivisa da un largo numero di persone, piuttosto che da un gruppo ristretto, e l’ISIS non fa eccezione: la sua crescita tramite reclutamento, soprattutto di foreign fighters, è stata esponenziale a partire dalle presa di Mosul e dalla proclamazione del Califfato nell’estate del 2014. Questi successi hanno conferito legittimità e si sono rivelati vitali nell’attrarre più reclute. Questa logica si applica particolarmente ai foreign fighters42. Le vittorie significative sono dunque importanti sia dal punto di vista tattico-strategico sia del punto di vista simbolico, per continuare a mantenere il mito che attrae seguaci. L’ISIS, come molti culti, si rivela particolarmente abile ad individuare i possibili destinatari del proprio messaggio. Vale la pena di notare che queste persone non hanno particolari problemi mentali. Studi statistici e sociologici43 hanno dimostrato che almeno due terzi dei membri di un culto sono mentalmente sani, mentre il rimanente terzo attraversa di solito una fase di depressione. L’ISIS non recluta dei malati mentali, ma il messaggio dello Stato Islamico intercetta persone che soffrono uno stato di disagio dovuto alla mancanza di qualcosa che dia senso alle loro vite quotidiane. Questo senso di alienazione può verificarsi a seguito di un

40 Cfr. Florence Gaub, The Cult of ISIS, <Survival> 58 (1), 2016, pp. 113-130. 41 Ad ogni modo, il tasso di defezione è basso, dal momento che il culto punta tutto sulla forte coesione del gruppo. 42 Le reclute locali, invece, sono per lo più motivate a entrare nell’organizzazione da fattori politici ed economici. 43 Ricordati in Gaub, op. cit., pp. 127-130.

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divorzio o di un trasferimento, di una perdita o di un cambiamento di lavoro o di amicizie, e può attraversare gruppi di età, genere, istruzione e nazionalità differenti. Questo spiega la diversità biografica dei foreign fighters dell’ISIS e, in generale, dei membri di sette e culti. Questo contesto di fragilità rappresenta il terreno fertile per l’affermazione di un culto, che offre senso, coesione e appartenenza collettiva, semplificando e strutturando la vita confusa dei membri attraverso l’applicazione di precetti, norme, dogmi che distinguono il bene dal male e offrono semplici spiegazioni morali su come funziona il mondo. Quando le persone entrano in un culto, provano un aumento di benessere psicologico: più erano stressate prima, più stanno bene dopo. I membri di un culto si aiutano a vicenda e si tengono reciprocamente legati al gruppo. L’ISIS sa offrire, in alternativa al vuoto esistenziale individuale, un alto livello di coesione sociale, esercitando un fascino più psicologico che non politico o teologico. Infatti l’ISIS cerca individui che tendenzialmente conoscono poco l’islam (come i figli di musulmani non praticanti, o i convertiti), perché sono più facili da indottrinare. L’ISIS offre un mito di cambiamento e di speranza, di senso della vita e di identità collettiva. Questo si riflette nella sua propaganda, attraverso i social-media, dominata dai concetti di utopia e di appartenenza. I suoi video di reclutamento, per esempio, mostrano uomini giovani, sani e belli (chiamati “fratelli della luce”), non solo mentre combattono insieme, ma anche mentre condividono pasti e momenti di ilarità. Il destinatario è gradualmente indotto a desiderare di condurre una vita alternativa e “migliore” sotto il controllo dello Stato Islamico. Quando il reclutamento avviene attraverso gli amici, il metodo è lo stesso, ma il potere persuasivo è maggiore. Dal momento che il reclutamento – e, più in generale, la radicalizzazione – è decisamente individuale e psicologico, non è facilmente identificabile dai servizi di sicurezza e dalla polizia. Infatti, gli unici in grado di percepire le dinamiche di cambiamento degli adepti sono di solito i famigliari o gli amici, che, per altro, non sono in grado di gestire tali situazioni. Il passo successivo consiste nello stabilire un controllo psicologico del soggetto, che non implica un’alterazione della sua personalità, ma lo uniforma ideologicamente agli altri membri, per garantire la sopravvivenza complessiva del gruppo. Il primo livello di tale procedimento consiste nello stabilire una linea di confine, che protegge il culto contro pericoli esterni, separando il nuovo adepto, considerato spesso vulnerabile, dalla sua famiglia e dai suoi amici, sia fisicamente che psicologicamente. Nel caso dello Stato Islamico, questo significa persuadere il nuovo seguace a trasferirsi nei territori del gruppo in Siria e Iraq. L’ISIS cerca di facilitare questo viaggio, finanziandolo o dando suggerimenti su come procurarsi il denaro necessario e spiegando come viaggiare eludendo il controllo delle autorità. Una volta giunte nel territorio dello Stato Islamico, le nuove reclute vengono scoraggiate dal rimanere in contatto con i propri famigliari, e le loro comunicazioni sono costantemente monitorate44. Questo viaggio in un territorio sconosciuto e in una zona di guerra favorisce la dipendenza psicologica dell’adepto nei confronti dello staff dell’ISIS. In una fase successiva, i seguaci sono educati a una nuova visione del mondo e indottrinati con insegnamenti ripetitivi: in questo modo cominciano a prendere moralmente le distanze dal loro precedente contesto sociale. L’esperienza del culto viene associata a emozioni positive, come l’amicizia e il senso di appartenenza. Gli adepti maschi dell’ISIS (che costituiscono il 90% dell’organizzazione) vengono mandati, dopo un’iniziale selezione, a un campo di addestramento, dove acquisiscono non solo le competente militari basilari, ma anche l’istruzione ideologica. Anche se l’addestramento in sé può essere duro, il fine ultimo non è tanto la competenza militare, quanto invece la creazione di coesione tra le reclute e la dipendenza dell’istruttore che, mentre infligge dolore, ha anche il potere di rimuoverlo. Lo Stato Islamico, come gli altri culti, si pone come obiettivo il controllo dell’individuo, posizionandosi come unico importante riferimento sociale per il benessere dell’adepto, in posizione gerarchica superiore rispetto alla famiglia. L’ISIS invita a ripudiare la famiglia: le donne, in particolare, sono incoraggiate ad abbandonare i propri mariti,

44 A questo proposito, cfr. Ben Taub, Journey to Jihad. Why are Teen-agers joining ISIS?, The New Yorker, June 1, 2015, http://www.newyorker.com.

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mentre i figli sono incoraggiati a denunciare il comportamento non islamico dei loro genitori. L’individuo subordina la sua identità alla collettività del gruppo45. L’ISIS è un “culto della fine del mondo”, che suscita un senso di urgenza e una settaria mentalità del “con noi o contro di noi”. I membri dell’ISIS si sentono dalla parte giusta della storia, un popolo eletto. Solo il culto sa dell’imminente fine del mondo, e solo i suoi membri saranno pronti ad affrontare tale momento. In questo senso, il gruppo e i suoi leader assumono poteri quasi divini. Da qui si giustifica l’auto-proclamazione di al-Baghdadi a Califfo, con tanto di prove genealogiche: la profezia relativa alla fine del mondo, infatti, stabilisce che un discendente del Profeta regnerà un po’ di tempo prima della Battaglia Finale. Per accelerare l’indottrinamento, i culti si avvalgono di alcune tecniche. Nel caso dell’ISIS, la dipendenza emotiva viene indotta mediante punizioni fisiche e regolamentazione della vita sessuale. A questo si aggiungono regole casuali che l’individuo deve rispettare a tutti i costi. Nello Stato Islamico, l’osservanza delle regole sull’aspetto esteriore (le donne devono vestirsi di nero e coprire tutto il corpo eccetto gli occhi, mentre gli uomini devono mantenere la barba ad una certa lunghezza), dei tempi di preghiera e delle norme sociali (sono banditi: alcool, sigarette, droghe, musica “scandalosa”, strumenti musicali e fotografie) viene rafforzata da punizioni fisiche come frustate e bastonate. I culti controllano l’adesione alle loro regole46 e devono essere in grado di reprimere le devianze, se vogliono mantenere il controllo totale. L’ISIS utilizza la pratica islamica del takfir47 per espellere formalmente o giustiziare un membro del gruppo. Vi sono metodi con cui i culti possono indurre i membri a commettere atti che costoro avrebbero precedentemente disapprovato. Durante l’indottrinamento si verifica una ridefinizione cognitiva dell’etica dell’uccidere mirata al distacco morale. La violenza viene commessa più facilmente in nome della moralità e dell’ideologia. Viene incoraggiata attraverso la disumanizzazione delle vittime (chiamate: “infedeli”, “porci”, “cani”), con un linguaggio eufemistico che relativizza il crimine. Oppure la responsabilità dell’atto viene scaricata sui capi del culto e sulla divinità. Si svuota la ragione individuale, poiché il pensiero critico e l’ambizione di gloria personale potrebbero minare l’autorità collettiva. Di conseguenza, solo alcuni combattenti dell’ISIS raggiungono una fama personale, e chi lo fa è spesso destinato a essere punito dall’organizzazione. Le bombe sono le armi preferite, perché spersonalizzano la violenza, ma nei casi di azioni implicanti l’uso di violenza diretta, i culti (ISIS compreso) fanno ricorso alle droghe (di solito anfetamine come il Captagon) per vincere la resistenza individuale. L’uso del suicidio è caratteristico di vari culti, ma l’ISIS lo adotta per fini militari, pur servendosi dello stesso metodo induttivo: controllo mentale ottenuto con l’allontanamento dell’individuo vulnerabile dal proprio contesto sociale (che potrebbe rendere l’operazione più difficile da realizzare). Il sacrificio di sé viene caricato di significato dal culto (a maggior ragione se si tratta di un’organizzazione terroristica). Per gli individui che sentivano una mancanza di significato e di scopo nella vita prima di entrare nel movimento, il valore della causa e il senso di appartenenza al gruppo diventano più importanti della sopravvivenza fisica. La natura totalitaria della setta implica, per i credenti più ferventi, che una vita al di fuori del culto sia inconcepibile. I membri dell’ISIS sono indottrinati al punto da considerare la loro vita precedente come priva di significato. Se facessero ritorno a casa, si sentirebbero ulteriormente alienati e rifiutati a causa degli atti violenti commessi.

45 Un caso clamoroso è quello di una madre siriana giustiziata dal figlio, su ordine dell’ISIS, dopo aver tentato di convincerlo ad abbandonare lo Stato Islamico. 46 Un esempio di questo tipo di sorveglianza è dato dalla brigata femminile Khanasaa, deputata a sorvegliare il comportamento delle donne all’interno dello Stato Islamico. 47 A livello teologico, il takfir è la scomunica di un musulmano da parte di un altro. Di fatto, nel mondo islamico, tale pratica è usata solo in casi eccezionali. Oltretutto, se l’accusa è infondata, l’accusatore commette un grave peccato. Ad ogni modo, la giurisprudenza islamica è divisa su questo punto.

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DE-RADICALIZZAZIONE Paesi asiatici (in primis Arabia Saudita), Paesi europei e Commissione Europea hanno messo a punto dei veri e propri programmi di “de-radicalizzazione”. I terroristi, originari di quei paesi, una volta catturati, entrano in apposite strutture, che offrono loro supporto psicologico, economico e sociale, e permettono il ricongiungimento famigliare e il recupero della loro cittadinanza. Spesso sono proprio gli ex-terroristi, già “guariti”, che aiutano questi individui a comprendere le contraddizioni dell’ideologia radicale e il contrasto tra gli obiettivi propagandati e le azioni effettivamente condotte, sottoponendoli ad una sorta di contro-lavaggio del cervello. Non tutti gli studiosi e gli analisti concordano sull’efficacia di queste operazioni48, ma è indubbio che in un modo o nell’altro alcuni buoni risultati sono stati ottenuti49. Analizzare la propaganda dell’ISIS, paragonando lo Stato Islamico a un culto, permette di mettere a fuoco alcune misure psicologiche importanti per ridurre il fenomeno della radicalizzazione. Dapprima occorrerebbe impedire ai potenziali terroristi di raggiungere il gruppo nei territori occupati dall’ISIS: siccome la radicalizzazione e l’indottrinamento sono processi esponenziali, sono facili da bloccare allo stadio embrionale. I divieti di viaggio possono essere utili, ma hanno un impatto limitato, perché circa metà dei membri europei dell’ISIS sono incensurati prima di partire e quindi ignoti alle forze di polizia. Impedire a ogni individuo della fascia di età 15-35 anni (età media dei foreign fighters dell’ISIS di viaggiare non sarebbe fattibile. Né lo è tracciare un profilo tipo di criminale, dato il così differente background dei vari membri dell’ISIS. Un’altra opzione potrebbe essere il coinvolgimento delle famiglie e degli amici per individuare la radicalizzazione, ma ciò richiederebbe una loro particolare sensibilizzazione, visto che l’ISIS insegna ai propri adepti come evitare comportamenti sospetti. Un’altra misura potrebbe essere quella di favorire il dissenso tra i ranghi dell’ISIS. Siccome la ragion d’essere dello Stato Islamico è il controllo dei propri membri, qualunque cosa mini la coesione interna indebolirebbe l’organizzazione. Anche se tale compito risulta difficile per attori esterni, va constatato che l’ISIS corre già questo rischio: più un’organizzazione cresce, più difficile diventa mantenerne il controllo. Inoltre l’ISIS tratta i propri combattenti in modo diverso, offrendo ai volontari stranieri un migliore trattamento, il che è sufficiente a favorire il dissenso tra i locali. Anche l’esposizione mediatica e la popolarità di alcuni singoli combattenti (come nel caso di Jihadi John) può provocare gelosie. Il disincanto è un fenomeno molto comune in tutte le organizzazioni terroristiche e estremistiche e costituisce la ragione più comune per la quale le persone scelgono volontariamente di uscire dal gruppo. I seguaci si disilludono se sentono che l’azione del gruppo sta degenerando, in quanto non sembra seguire una strategia che vada oltre l’uccisione indiscriminata. Il disincanto può emergere da molti fattori (es. disaccordi con un capo o insoddisfazione per le contingenze quotidiane) ed è solo questione di tempo prima che questi fermenti di malcontento si insinuino nell’ISIS. Sarebbe bene prestare attenzione a questo fenomeno, perché potrebbe scoraggiare il coinvolgimento di altre potenziali reclute. Inoltre si può facilitare la fuga dallo Stato Islamico, incoraggiando la diserzione di coloro che vogliono evitare rischi per la propria vita. Tale opzione è particolarmente applicabile a

48 La posizione più scettica è senza dubbio quella di Salazar, secondo cui “Contro l’idealismo volontarista dei nostri giovani jihadisti proponiamo il dialogo e la psicologia, ma non abbiamo valori d’appello e sostitutivi: i tecnici della contropropaganda e gli artigiani della deradicalizzazione sono convinti, commettendo così un penoso ma comprensibile errore, di offrire valori sostitutivi. Ma non si può rispondere all’appello del Califfato con un appello analogo e di uguale potenza, a meno che i valori in questione non appartengono al passato o al futuro” [Philippe-Joseph Salazar, Parole armate. Quello che l'ISIS ci dice. E che noi non capiamo, Milano, Bompiani, 2016, p. 87]. 49 Per approfondire il tema della de-radicalizzazione, cfr. Luke Bertram, How Could a Terrorist be De-Radicalised?, <Journal for Deradicalisation> 5, Winter 2015/2016, pp. 120-149; John Horgan, What makes a terrorist stop being a terrorist?, <Journal for Deradicalisation> 1, Winter 2014/1015, pp. 1-4; Schmid, A. P., Radicalisation, De-Radicalisation, Counter-Radicalisation: A Conceptual Discussion and Literature Review. International Centre for Counter-Terrorism, March 2013. Retrieved from http://www.icct.nl/download/file/ICCT-Schmid-Radicalisation-De-Radicalisation-Counter-Radicalisation-March-2013.pdf; AA. VV., Deradicalizing Islamist Extremists, RAND, 2010.

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coloro che sono tornati in Europa senza uscire dall’organizzazione (es. per una missione) e potrebbe includere misure come amnistie in cambio di cooperazione con i servizi segreti, programmi di protezione dei testimoni e supporto psicologico. Infine, culti come l’ISIS possono essere indeboliti riducendo il supporto al loro leader. Per un seguace, rompere i legami, quasi famigliari, con il leader di un culto è forse il passo più difficile da compiere, anche se questi ha subito abusi e maltrattamenti. Nel caso dell’ISIS, ciò sarebbe possibile soltanto se si riuscisse a dimostrare con prove inconfutabili ai membri dell’organizzazione che la condotta di al-Baghdadi non è conforme alla fede islamica. Ci sono essenzialmente tre modi per uscire da un culto: estrazione forzata a opera di un intervento esterno, espulsione o fuga volontaria. L’estrazione ha una limitata efficacia perché va contro la volontà dell’individuo ed è difficilmente applicabile nello Stato Islamico, dato che chiunque entri nel territorio può essere catturato, ucciso o cacciato via50. Dimostra inoltre una limitata efficacia, se la de-radicalizzazione viene somministrata a un membro che si sente più rapito che liberato. Nel caso dell’ISIS, l’espulsione o i tentativi di fuga finiscono spesso per essere entrambi puniti con la morte; tentativi di corruzione per garantirsi la fuga sono puniti con la condanna a morte per gli uomini e con frustate per le donne. Ci sono resoconti regolari su esecuzioni ISIS di foreign figthers che hanno tentato la fuga51. Anche quando alcuni membri dell’ISIS si pentono di essere entrati nell’organizzazione, vengono comunque minacciati di rappresaglie che possono essere condotte anche al di fuori del territorio dello Stato Islamico. Qualora la fuga avesse esito positivo, la de-radicalizzazione resterebbe comunque un’impresa difficile. Più lunga è stata la permanenza di un membro nell’organizzazione, più difficilmente l’individuo può rispondere a tecniche di ri-condizionamento: di solito un anno di appartenenza a un culto è la soglia oltre la quale la conversione diventa meno possibile. Ma anche quando la de-radicalizzazione avviene con successo, si tratta di un processo lungo, arduo ed essenzialmente mentale e richiede un consistente supporto psicologico per la piena reintegrazione dell’individuo nella società.

50 Tale è il caso di parecchie famiglie di foreign fighters europei che hanno cercato di convincere i loro parenti a tornare a casa con loro. 51 La fuga non è contemplata dai combattenti locali (siriani o iracheni), che non possono emigrare, non saprebbero dove andare e sono entrati nell’ISIS in circostanze alquanto differenti.

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CONCLUSIONI Questa analisi si propone, mediante la raccolta e l’elaborazione di informazioni e studi approfonditi, di ricercare una maggiore consapevolezza delle dinamiche di questa problematica complessa, che richiede una soluzione articolata su molteplici livelli. L’azione militare è indispensabile, così come il lavoro oscuro e difficile delle nostre forze di sicurezza52, in quanto la radicalizzazione non può essere fermata se non si annienta quell’entità territoriale che costituisce al momento la concreta rappresentazione della “terra promessa” del Califfato53. Ma tali misure non sono sufficienti per risolvere il problema. Infatti il solo ricorso alla forza non può costituire la risposta alla domanda di senso che è all’origine di questi percorsi di radicalizzazione. Per affrontare questa minaccia, la lotta contro le coorti jihadiste dovrebbe essere accompagnata da un’opera di contro-radicalizzazione, che si opponga al mito di violenza offerto dallo Stato Islamico e che si svolga sia all’interno che all’esterno della comunità islamica, e da un dialogo costante con il mondo musulmano. Sarebbe auspicabile uno sforzo capace di individuare e promuovere quei valori che, pur nel dovuto rispetto delle differenze, accomunano le nostre società e le nostre fedi. Tale risultato si può ottenere solo riscoprendo la curiosità di capire “l’Altro”, nella consapevolezza che la ricerca della “verità” passa per forza di cose attraverso un processo dialettico. In concomitanza a ciò l’Occidente dovrebbe riappropriarsi dei propri mezzi retorici per costruire un’adeguata contro-propaganda, che faccia appello ai propri valori fondanti e, in alleanza con il mondo musulmano moderato e maggioritario, metta in atto tutti i mezzi necessari per delegittimare e neutralizzare l’operato dell’ISIS. L’intera comunità mondiale (una vera e propria umma universale) è minacciata da una potente organizzazione criminale che strumentalizza in chiave fanatica la religione per finalità di potere personale. Siamo perciò tutti chiamati a intraprendere un grande “sforzo” collettivo che riscopra il significato autentico del jihad, per debellare questo pericolo e creare, se non una “terra di pace perpetua”, per lo meno uno “spazio di tregua” (dār al-sulh) ragionevole e quanto più possibile duraturo. Senza tale “sforzo”, potremmo forse sconfiggere questa organizzazione terroristica, ma i semi del “jihadismo” continuerebbero a riprodursi e a rigenerare nuove dolorose tragedie.

52 A cui vanno aggiunte le contromisure alla propaganda su internet. Su questo fronte si sono mossi da una parte i servizi di Intelligence, dall’altra gli attivisti di Anonimous. Da una parte si cerca di chiudere profili social e blog, dall’altra si cerca di raccogliere informazioni sugli utenti e sono stati effettuati i primi (sebbene rudimentali) tentativi di contro-propaganda web. 53 Come giustamente afferma Gigi Riva: “Finché esisterà uno Stato terrorista di riferimento, seppur sedicente, seppur autoproclamato, avremo i kamikaze per le strade d’Europa” [Gigi Riva, Va tolto loro il sogno dello Stato, L’espresso, n° 13, 31 marzo 2016, p. 19].

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