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43 ricerca di un nuovo spazio Il conformista si pone, nella filmografia di Bertolucci, come il frutto della svolta poetica di un cineasta alla ricerca di una nuova maturità e di una nuova coscienza della forma, soprattutto dopo l’insuccesso di un film “libero” come Partner (1968). Un primo risultato era stato raggiunto con il lungometraggio precedente, Strategia del ragno (1970), prodotto dalla Rai e trasmesso, ac- canto a una distribuzione in sala, in un duplice passaggio tele- visivo. Per un cineasta-intellettuale come Bertolucci – che dai suoi esordi aveva dichiarato di sentirsi autore francese più che italiano, dunque figlio della Nouvelle Vague e alla ricerca di uno stile colto, raffinato e riflessivo – quell’allargamento vertiginoso dell’audience fu l’occasione per una presa di coscienza del pro- prio percorso artistico: Nel momento in cui ho visto Strategia del ragno sul televisore, ho pensato al mio barbiere, al garagista, al portinaio, a tutti coloro ai quali non avevo mai pensato, girando il film, e ho avuto paura della loro reazione. Per un cineasta come me, abituato a fare film per un ristretto pubblico di intel- lettuali, sono problemi nuovi. Unito alla consapevolezza di un linguaggio ancor non perfettamente limpido, il sapere che il mio film era seguito da milioni di persone, m’ha dato un senso di responsabilità che non avevo mai avuto. Senza ripudiare niente, capivo che il cinema da me fatto fino a quel momento era gratificante e protettivo, un cinema di difesa, non generoso 1 . Il conformista Enrico Carocci

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a��a ricerca di un nuovo spazio

Il conformista si pone, nella filmografia di Bertolucci, come il frutto della svolta poetica di un cineasta alla ricerca di una nuova maturità e di una nuova coscienza della forma, soprattutto dopo l’insuccesso di un film “libero” come Partner (1968). Un primo risultato era stato raggiunto con il lungometraggio precedente, Strategia del ragno (1970), prodotto dalla Rai e trasmesso, ac-canto a una distribuzione in sala, in un duplice passaggio tele-visivo. Per un cineasta-intellettuale come Bertolucci – che dai suoi esordi aveva dichiarato di sentirsi autore francese più che italiano, dunque figlio della Nouvelle Vague e alla ricerca di uno stile colto, raffinato e riflessivo – quell’allargamento vertiginoso dell’audience fu l’occasione per una presa di coscienza del pro-prio percorso artistico:

Nel momento in cui ho visto Strategia del ragno sul televisore, ho pensato al mio barbiere, al garagista, al portinaio, a tutti coloro ai quali non avevo mai pensato, girando il film, e ho avuto paura della loro reazione. Per un cineasta come me, abituato a fare film per un ristretto pubblico di intel-lettuali, sono problemi nuovi. Unito alla consapevolezza di un linguaggio ancor non perfettamente limpido, il sapere che il mio film era seguito da milioni di persone, m’ha dato un senso di responsabilità che non avevo mai avuto. Senza ripudiare niente, capivo che il cinema da me fatto fino a quel momento era gratificante e protettivo, un cinema di difesa, non generoso1.

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C��� realizzare, dunque, un cinema che fosse colto, consapevole di sé, problematico nella forma e non dogmatico, ma allo stesso tempo popolare, appassionante anche per un pubblico ampio e diversificato, capace di parlare a una platea il più vasta possibile? Come coniugare, d’altra parte, la capacità spettacolare dell’ama-to cinema americano classico e la qualità autoriale dell’altrettanto amato cinema moderno? Tutto il cinema di Bertolucci, da questo momento, sarà attraversato da questa tensione feconda che tra l’al-tro, più o meno negli stessi anni, animava le pratiche di autori hol-lywoodiani quali Scorsese, Cimino o Coppola (per i quali Il con-formista era già un classico: Coppola lo proiettava alla sua troupe durante la realizzazione di The Godfather, Il padrino, 1972).Quello che a ogni modo emerge è, nell’economia della produzio-ne bertolucciana, una esplicita dichiarazione di intenti o meglio ancora, come ha scritto Francesco Casetti, «l’inizio di un preciso programma di lavoro»2. Il che significa innanzitutto lavorare sulla messa in scena attraverso preziosismi stilistici, procedimenti fuori moda in stile anni trenta e metafore ossessive quali lo specchio o il palcoscenico; ma significa anche inserirsi nel filone del cinema civile, un genere che Bertolucci accoglie e fa proprio, anche grazie a una certa complicazione della materia che gli derivava dal ro-manzo di Moravia da cui il film è tratto. In particolare, prosegue Casetti, ci sono due citazioni illustri dal-la storia del cinema che forse precisano il senso del programma espresso nel film. La prima rimanda a La vie est à nous (Jean Re-noir, 1936), l’altra a Le petit soldat (Jean-Luc Godard, 1962): da un lato l’omaggio a un modello di cinema politico ma allo stesso tempo narrativo e popolare; dall’altro l’oltraggio al cineasta che pochi anni prima lo aveva ispirato, e che adesso viene assimilato al “padre” professor Quadri (il cui indirizzo e numero di telefono, come è noto, corrispondono nel film a quelli dell’appartamento parigino di Godard in quegli anni).

Sì a Renoir e no a Godard, dunque. O meglio sì al cinema politico anche quando questo passi per le strutture solite e no al cinema politico quando questo voglia dire marginalità (Renoir e Godard possono essere facilmen-te assunti come i rappresentanti più illustri di queste due posizioni)3.

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L���������� � � �������� ���� ������ ������� ��� ���� �� ���-duzione e dei circuiti distributivi dal momento che, a un livello profondo, le pratiche dei due cineasti sono apparentate per molti aspetti, oltre che per evidenti omaggi tributati da Godard al padre della Nouvelle Vague4.Per il momento è sufficiente ricordare che tra i cineasti più amati da Bertolucci in gioventù ci sono Mizoguchi, Welles e Ophüls, e che il riferimento a Renoir va inserito all’interno di questa serie (che non è esattamente quella che, per altri versi, lega Renoir – e Bertolucci – alla linea “realista” di Rossellini o Godard). D’altra parte, se è vero che «non si può mica vivere senza Rossellini», come recita il personaggio interpretato da Gianni Amico in Prima della rivoluzio-ne, il modello italiano cui Bertolucci sembra maggiormente vicino è, nei fatti, quello incarnato dal cinema di Luchino Visconti.L’opposizione Renoir-Godard ha allora a che vedere con un di-battito già allora molto acceso tra i critici – italiani e non – sulle modalità del film “d’autore” e del cinema “politico”, nonché su quella che allora era detta la «responsabilità della forma». Si chie-deva ad esempio Eduardo Di Gregorio su «Cinema & Film», dopo aver evidenziato la «forma spettacolare», la «minuzia eccezionale» e la «pertinenza nell[’]uso e lo sfruttamento delle trovate quasi insultante», quale fosse il tema del film:

Questo tema – scriveva – è: non «come essere un conformista?» [...] ma piuttosto: «perché essere un conformista?». Dieci anni fa si credeva, un po’ in tutto il mondo, che l’irruzione di nuovi metodi di produzione e di distribuzione potesse creare un nuovo spazio cinematografico, spazio intermedio tra il circuito alternativo, che l’Underground americano ave-va cominciato già a sfruttare, e la normale distribuzione dei pornografi americani e nazionali. Credo che l’operazione, vista a posteriori, possa apparire come un fallimento. [...] Alla peggio, è uno spazio ignorato. È uno spazio narcisistico chiuso in se stesso, non accetta nessuna critica in quanto non se ne pone nemmeno5.

Tutti i grandi cineasti, concludeva, non erano altro che registi in qualche modo “conformisti”, in grado di accettare la regola del gio-co dell’industria per creare al suo interno uno spazio nuovo. Con il suo film Bertolucci, pertanto, si inseriva nel filone degli Hitchcock,

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��� ������� ��� L �� �� ������ �� � ������� �� ��� � �� � ��� proprio esagerando il carattere spettacolare del suo stile – che, per altri versi, accompagnava un prodotto già di per sé solido a livello produttivo (vista la fortuna del romanzo di Moravia, degli attori protagonisti e del filone civile in cui Il conformista si inseriva).L’operazione era naturalmente difficile e rischiosa, come sottolineò Giuseppe Turroni su «Filmcritica»:

Marcello Clerici de Il conformista di Bertolucci è l’Italia dell’ambiguità falsamente politica, falsamente religiosa, falsamente popolare, falsamente borghese persino: [...] resta la struttura geometrica, esatta, hitchcockiana, vale a dire politica, di un discorso chiaramente rivolto dall’autore a se stesso: la rivoluzione si può fare anche così, ma il pericolo è che il cine-ma dell’ambiguità sia tanto perfetto da diventare spettacolo per l’ambiguità stessa, il pericolo è che il serpente sia tanto bello da arrotolarsi su se stesso per sempre, e da divorarsi, anche6.

E d’altra parte la rivista «Ubu» pubblicò una “preghiera del con-formista” a sottolineare l’ambiguità della scelta di Bertolucci, che pareva un tradimento dell’impegno per la ricerca di un consenso ampio:

O Padre Pubblico, che stai nelle sale, fa’ che la mia opera abbia succes-so, così potrò girare con un collettivo democratico un film politico per il circuito alternativo. (Ogni riferimento alle dichiarazioni di Bertolucci in occasione della prima di Il conformista è da considerarsi volontaria)7.

Il film, a ogni modo, fu sostanzialmente amato dalla critica, che probabilmente riusciva a vedervi qualcosa di più: non un sempli-ce tradimento alla ricerca del consenso del mercato, ma l’onesta incursione di un cineasta-auteur che si mette in gioco all’interno dell’unico territorio che gli consentiva di superare i rischi narcisi-stici insiti nel proprio fare cinema. Bertolucci, questo era il punto, non si limitava a imitare il cinema di alto budget: egli si dimostrava consapevole del proprio passo, e il film nascondeva in filigrana la storia di questo cineasta “diverso” che tentava di adeguarsi – con i propri vezzi e i propri tic – alle richieste del mercato. Senza que-sta esibita capacità di riflettere sul proprio progetto Il conformista

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� ��ss� stato facilmente confuso con uno dei molti adattamenti spettacolari di romanzi famosi; ma quello di Bertolucci era un’al-tra cosa, era accettato da critici e intellettuali in quanto esempio cosciente di una sorta di “conformismo d’autore”.La marca autoriale è data in maniera evidente dallo stile del film: anche la stampa evidenziò l’importanza di questa sperimentazione linguistica, che era uno dei punti di interesse del film, accanto a quello dell’analisi della borghesia all’epoca del fascismo. Il confor-mista fu, anche qui, sostanzialmente ben accolto: con questo film, dissero i più, Bertolucci è entrato in una fase matura del proprio percorso, ed è riuscito a realizzare un film intelligente a partire da un romanzo unanimamente considerato tra i meno interessanti della produzione di Alberto Moravia. L’impegno politico del film fu sottolineato da alcuni e marginalizzato da altri ma questo, tut-to sommato, non pesò sui giudizi complessivi perché per tutti il cineasta, parlando delle proprie ossessioni di borghese figlio della cultura che trent’anni prima si era rifugiata nel Regime, riusciva a trascendere il discorso storico per farne il simbolo di qualcosa di più ampio («Il conformismo come malattia contemporanea»8). Lo stile del film, in ogni caso, sembrava redimere le contraddizioni ideologiche e i limiti nella ricostruzione storica, anche se in una maniera mai precisata dai commentatori. Qualche esempio:

Pur con le evidenti debolezze e ambiguità di ordine ideologico [...] si tratta di un’interpretazione accettabile proprio per la qualità dei risultati estetici. È tempo di dire che Il conformista è un film di altissima suggestione e di stu-penda raffinatezza formale, culturalmente denso e stimolante come pochi9;

oppure:

Sul piano del contenuto, merito di Bertolucci [...] è di aver evitato una tipologizzazione troppo ovvia della mentalità fascista e di averne inve-ce cercato le radici nel terreno dell’inconscio e in quello della psicologia collettiva [...]. Ma il proprio dell’opera è senz’altro nella qualità del suo approccio stilistico con la materia. La “bellezza” delle scelte figurative e sintattiche non è mai fine a se stessa, ma costituisce in primo luogo e con risultati davvero pungenti il filtro e il reagente grazie ai quali si fa luce la sostanza del discorso10.

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� ���� �� � ���� ���� ����� ����� ����� ���������� � � � maniera oscura, poco lucida: le immagini di Bertolucci sembrano stridere con il lucido coté intellettuale che pure Il conformista pre-senta. Qualcuno allora ne cercò la necessità nella motivazione nar-rativa e psicologica; qualcun altro rimproverò una certa tendenza “bipolare” nell’affrontare la materia, per cui Bertolucci appariva «combattuto fra un atteggiamento emozionale e istintivo di fare cinema (per cui certe cose sono dentro al film perché sono “belle”, senza una utilità precisa) e un impegno politico e didascalico di puro impianto logico»11.Alla constatazione della ricchezza di uno stile “bello” e inconte-nibile, insomma, non fa seguito una adeguata spiegazione delle modalità con cui il film dava spettacolo di sé. Eppure la “bellezza” del film fu riconosciuta da tutti. È su questo punto che vorremmo soffermarci, per evidenziare come la messa in scena, lungi dall’ac-compagnare ed evidenziare i tratti spettacolari del film, a volte li contraddice introducendo, per così dire, uno spettacolo di tipo di-verso, e divenendo così lo strumento attraverso cui Bertolucci può mimetizzarsi nel cinema industriale senza mai venire a coincidere esattamente con esso12.

la sequenza dell’omicidio dei coniugi quadri

Prendiamo allora in esame una sequenza dall’alto potenziale spettacolare, quella dell’omicidio del professor Luca Quadri e di sua moglie Anna. Si apre con un dialogo ordinario tra Marcello Clerici e l’agente Manganiello in automobile, intenti a raggiun-gere le due vittime del loro complotto: il primo racconta un suo sogno, il secondo sbadiglia, canta una vecchia canzone d’infan-zia, ripropone vecchie mitologie fasciste. Nel frattempo la loro automobile procede, tra nebbie e strade innevate, verso il luogo dell’agguato. Il commento musicale crea una tensione che cresce quanto più ci si avvicina al punto stabilito. Intanto, nell’automo-bile dei Quadri, Anna è preoccupata dalla vettura che li segue con insistenza a pochi metri di distanza, ma Luca minimizza. Sul-la loro strada appare a un certo punto un’altra vettura, ferma,

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�� �� �������� �c��� ����� �� ��� ��� �� � ����� �� �����Luca vuole scendere in strada e soccorrerlo, anche perché l’auto-mobile blocca la via; Anna tenta preoccupata di dissuaderlo, ma invano. Nel frattempo Marcello e Manganiello, fermi nella loro macchina, osservano la scena a distanza; al commento musicale si è sostituito intanto un forte rumore di vento, che aumenta la sensazione di solitudine che il luogo suggerisce. Luca raggiunge l’automobile ferma. Dalle montagne appaiono improvvisamente uomini in corsa, e il conducente svenuto riprende i sensi. Im-provvisamente Luca si ritrova circondato e subito colpito da ri-petute pugnalate, sotto gli occhi terrificati di Anna. Più lontano Marcello osserva, senza alcuna espressione sul volto. Luca ormai stramazza al suolo, morto; i sicari si dirigono verso Anna che, con un balzo, scende dalla sua vettura per raggiungere quella di Marcello, verso il quale lancia delle grida impotenti e disumane, senza peraltro ottenere dal lui reazioni visibili se non un freddo distacco. Udiamo d’improvviso colpi di pistola: Anna fugge tra gli alberi spogli, mentre i sicari la inseguono sparandole addosso fino a che anche lei, dopo una fuga disperata, è colpita a morte. Il commento musicale conferisce una tonalità elegiaca alla sua agonia. Compiuto questo secondo omicidio gli assassini tornano verso gli alberi da cui erano apparsi.

La tensione

La struttura della sequenza manifesta, per alcuni aspetti, un im-pianto hitchcockiano. La suspence è costruita fin dai primi minuti, con i due assassini che parlano di argomenti banali mentre si reca-no sul luogo dove sarà consumato il delitto: lo spettatore lo sa, e la sua attesa dell’evento si carica di ulteriore tensione – tanto più che, ricordiamo, tutto il film è costruito attorno a questo viaggio verso la Savoia, che stabilisce il piano del “presente” sul quale si innesta-no i molti flashback relativi alla vita di Marcello. Il presentimento di Anna, in questo senso, duplica nel film l’apprensione dello spet-tatore partecipe che, non potendosi identificare con Marcello se non in forma contraddittoria (cfr. oltre), tende ad avvicinarsi alla posizione di lei.

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� � ���� � ����� �� ���������� ��� �� �� ��� ����� ���� ��Anna il punto di vista dello spettatore, rendendo intenso tutto l’episodio, fin dall’apparizione della vettura dei Quadri. Ci sono alcune scelte precise che consentono questo allineamento:a) Marcello e Manganiello, dall’inizio della sequenza, non si guar-dano in faccia: guardano dritti davanti a sé, quasi verso la mdp, in una maniera che non invita lo spettatore a “entrare” nella loro dinamica (fig. 1). D’altra parte, non si crea tra di loro un vero e proprio dialogo: l’uno non ascolta l’altro, i due non si danno mai risposte limitandosi a cedere all’altro il turno di battuta. Non si crea insomma quella dimensione intersoggettiva necessaria, in un film, per la piena identificazione di un personaggio come capace di agire e reagire nel mondo diegetico;b) i due sono inquadrati sempre dall’esterno dell’automobile, at-traverso il parabrezza che non è affatto uno schermo trasparente, e che anzi aumenta la distanza dello spettatore dai due personaggi: la presenza del tergicristallo, che continua ad attraversare ritmica-mente la porzione di campo inquadrato, ribadisce la natura opaca del vetro attraverso cui assistiamo alla scena. In questo modo il Primo Piano di Marcello non facilita l’empatia dello spettatore, come per altri versi potrebbe avvenire (fig. 2);c) la vettura di Marcello e Manganiello, a un certo punto, è in-quadrata dall’interno di quella dei Quadri, attraverso il loro vetro posteriore, in un’inquadratura che ha il sapore del punto di vista soggettivo (fig. 3). Lo spettatore dunque, nel momento in cui en-trano in scena i Quadri, è portato immediatamente a sentirsi con loro, come se si trovasse all’interno della loro vettura. È una con-tiguità spaziale che si trasforma immediatamente in una vicinanza empatica;d) poco dopo è possibile pensare di attribuire la soggettiva di cui sopra ad Anna, che vediamo in volto, voltata appunto verso il vetro posteriore, mentre Luca guida guardando davanti a sé. E comun-que, che si tratti o meno di una sua soggettiva in senso letterale, è Anna a fornire allo spettatore il punto di vista, in quanto è lei l’unico personaggio, all’interno della narrazione, che sembra poter percepire gli eventi (e offrirli allo spettatore) in maniera appassio-nata. I due coniugi sono d’altra parte inquadrati dal sedile poste-

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����� della loro vettura, e la ripresa della loro nuca tende a resti-tuire allo spettatore il senso della loro vulnerabilità, del pericolo. Infine, contrariamente alla coppia Marcello-Manganiello, i due si guardano spesso e si trasmettono sensazioni affettive, il che fa di loro dei personaggi “umani” a tutto tondo, gli unici all’interno di questa sequenza.La focalizzazione affettiva sul personaggio di Anna consente, d’al-tra parte, un’enfasi e un prolungamento della suspence: nel seguito dell’episodio la messa in scena mantiene l’empatia con lei. Questo avviene almeno in due modi: 1) col proseguire della serie delle soggettive di Anna, che è l’unico personaggio cui questa figura è riservata. Anche gli altri personaggi guardano molto, Luca compreso; ma la mdp non si appropria mai del loro punto di vista, non lo condivide. Con Anna invece questo avviene, i suoi Primi piani fanno di lei la testimone dell’omicidio: al suo sguardo quell’evento si dà a vedere, e il suo volto reagisce af-fettivamente con una smorfia all’evento stesso (reaction shot, fig. 4);2) con un’empatia di tipo particolare tra la mdp e il suo personag-gio. Pensiamo ad esempio alla seconda inquadratura che ci mo-stra l’arrivo dei sicari sbucati dal bosco. La mdp carrella lungo le file degli alberi per poi abbassarsi leggermente seguendo le linee dell’automobile dei Quadri, ferma, per fermarsi infine a inquadra-re il volto di Anna attraverso il vetro dello sportello rimasto aperto (fig. 5). Anna è in stato di tensione, si guarda attorno, non guarda verso i sicari – dunque non è qui il soggetto della visione – e tut-tavia li sente, ne percepisce la presenza tanto che, subito dopo, decide di proteggersi chiudendo lo sportello. Il movimento della mdp è qui empatico col personaggio di Anna, crea il senso del suo presentimento, della sua preoccupazione, insomma di una perce-zione oscura che non è dell’ordine del sapere (avremmo avuto una soggettiva di Anna): è un sentire con cui la mdp è solidale, e che contribuisce a mantenere viva la tensione dell’episodio.

La complessità dello stile

Gli elementi esaminati fin qui ci mostrano come le scelte stilisti-che di Bertolucci accompagnino ed evidenzino i tratti spettacola-

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�� ������������� ������ �� � ����� ������������ � � ��� �����spettatore. Eppure questa direzione non è perseguita in maniera decisa e omogenea da tutti gli elementi della messa in scena: ce ne sono altri che contraddicono quella tensione, che restituiscono allo spettatore il senso di una consapevolezza tutta intellettuale e distan-te, e che trascendono l’evento mostrato. Un paio di esempi:1) come è stato notato da molti, in questo crudo episodio di omi-cidio la figurazione del sangue gioca un ruolo particolare, che con-trasta con gli altri elementi della messa in scena. Da un lato, infat-ti, Luca Quadri riceve molte pugnalate da varie parti, ma sul suo corpo quasi non vediamo sangue se non poche macchie sbiadite e appena visibili. Anna, d’altra parte, viene colpita da pochi colpi di pistola alle spalle, ma un’inquadratura ci mostra inspiegabilmente il suo volto completamente insanguinato (fig. 6), in una maniera che contrasta tra l’altro con l’inquadratura successiva, dove quel sangue è sparito. In entrambi i casi il sangue non è più un dato della rappresentazione, ma si dà evidentemente come segno. Nel caso di Luca, il senso convulso dell’omicidio è dato dagli ampi gesti dei sicari e dagli spasimi della vittima: il sangue che cola è dunque appena accennato, perché l’omicidio è significato da altri fattori. Così facendo la crudezza della scena non è ostentata, e l’as-senza del sangue consente all’omicidio di mantenere tutta la sua drammaticità senza cadere nel sensazionalismo. Il senso dell’artifi-cio, d’altra parte, emerge dall’eccesso di sangue che cosparge uni-formemente il volto di Anna: è un utilizzo godardiano del colore, il volto di Anna non è insanguinato ma, semplicemente, è rosso. Come non richiamare la nota dichiarazione del regista di Pierrot le fou, «non è sangue, è colorante rosso»13? Si tratta a ogni modo di un procedimento brechtiano che consente allo spettatore di pren-dere coscienza, almeno per qualche istante, della natura semiotica e immaginaria dell’episodio dell’omicidio. In questo modo, però, è l’intero episodio a colorarsi di una tinta diversa:

Ho pensato – ha detto Bertolucci – che questa esagerazione del sangue su Anna era una sorta di compromesso con il mio vecchio significato, co-sicché il pubblico potesse pensare: “Non è vero, non è vero, non è vero... L’omicidio del padre è una fantasia... È un’immaginazione”14. 2) il modello dell’omicidio del professore è quello dell’assassinio

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�� ������ C�� ��� � ����c� � � �� ���������� ���� ��� � ���quando i suoi carnefici sono in possesso di pistole? Bertolucci so-stiene di aver deciso in maniera istintiva questa soluzione; eppure essa ha almeno una conseguenza rilevante: quella di trasfigurare il bosco spoglio e innevato in un teatro in cui si rappresenta il delitto di Cesare. Ha ragione T. J. Kline quando richiama le «va-rie versioni cinematografiche dell’omicidio di Giulio Cesare nel foro, che costituisce un’ulteriore allusione, implicita e potente, all’architettura romana che alloggia il comando fascista»15: la ver-ticalità del set, il movimento ascensionale creato dai tronchi lisci degli alberi che circondano i personaggi, richiama la verticalità cara all’architettura fascista e riproposta in tanti film mitologici realizzati durante il ventennio. In questo modo Bertolucci ha sa-puto astrarre il dato (un albero), estraendone un elemento puro, geometrico (una linea verticale) riferendolo, per associazione, a un altro oggetto (una colonna).A partire da qui, tra l’altro, si può tessere una rete di riferimenti interni che, vista retrospettivamente, attraversa invisibile vari luo-ghi del film e produce senso in maniera sottile. “Alberi” è il nome dell’autista della madre di Marcello, dapprima stranamente evoca-to a voce alta da Marcello stesso al suo arrivo nella villa materna, e solo in seguito spiegato a Manganiello: “Alberi” è, appunto, la traduzione italiana del nome dell’autista giapponese Ki, che è an-che colui che ha sedotto la madre (cioè sostituisce il padre, assente perché rinchiuso in un manicomio). La figura di questo autista è, d’altra parte, assimilabile nel film a quella di Pasqualino Semirama detto Lino, l’autista omosessuale che Marcello crede di aver ucci-so. Così, come nota ancora Kline,

Marcello lascia inequivocabilmente intendere a Manganiello di volersi sbarazzare di Alberi [...]: un atto che simbolicamente condensa la ven-detta nei confronti di Lino (vestito identicamente all’autista giapponese), origine del suo senso di colpa, e nei confronti di Manganiello stesso, in qualità di doppio di Lino.

D’altra parte la sequenza dell’omicidio dei Quadri era aperta col racconto che Marcello fa a Manganiello di un suo sogno appena fatto. Il sogno, a questo livello della produzione di senso, assume

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Ho appena fatto uno strano sogno. Ero cieco e voi mi portavate in Sviz-zera in una clinica per farmi operare... Ed era il professor Quadri che mi operava. L’intervento riusciva. Riacquistavo la vista e ripartivo con la mo-glie del professore». In questo sogno, Marcello mette in opera un proces-so di condensazione: di sé e di Italo, l’amico cieco [...]; di sé e del padre [...]; di sé e di Hitler [...]; di sé e di Quadri, visto che assume nel sogno il posto di Quadri. Si tratta di uno scenario edipico completo: l’allusione all’ansia di castrazione del bambino (la cecità), la minaccia manifesta di quell’ansia (l’operazione di Quadri), e l’unione felice con la madre (la mo-glie di Quadri). È interessante notare che Manganiello [...] nel sogno figu-ra come autista, e quindi come doppio di Lino [...]. La cecità di Marcello potrebbe anche significare il rifiuto, e delle fantasie sessuali maschili, e dei sogni di una vendetta assassina. La Svizzera, cioè le montagne Savoiarde, condensa la destinazione del viaggio presente (dove Marcello ucciderà ve-ramente Quadri) con uno stato di neutralità, cioè il perfetto conformismo che ha nascosto agli occhi di tutti la perversità di Marcello16.

L’assassinio del “padre colpevole” Luca Quadri, dunque, si svolge tra gli “Alberi” da cui sbucano i sicari fascisti, Marcello osserva im-mobilizzato e impotente (come la borghesia italiana davanti al fasci-smo) e non agisce, esattamente come, nell’episodio della visita alla madre, aveva lasciato che fosse Manganiello a “eliminare” Ki. L’ele-mento scenografico della sequenza dell’omicidio, insomma, può tra-scendere il dato figurativo immediato per risuonare di echi che ri-mandano indietro nel film e che sono legati ai temi fondamentali del senso di colpa e del fascismo. Fino a che, nell’epilogo, Marcello può finalmente connettere la seduzione e l’omicidio, liberandosi della propria colpa e attribuendola a Lino: un’unica colpa consumata e condensata nelle due date, 25 marzo 1917 e 15 ottobre 1938. «Se Lino non è morto, [Marcello] allora non è mai stato un assassino, e pertanto non può essere imputato della morte di Quadri»17.

La figura di Marcello

La messa in scena, che traduce in dati figurativi i tratti del perso-naggio di Marcello, tende a contraddire anche sotto questo aspetto l’elemento spettacolare, rendendo problematica la partecipazione

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����� spettatore alle vicende del protagonista del film. Vediamo come egli è presentato nella sequenza di cui ci stiamo occupando: vediamo cioè in che modo la presenza di Marcello è in grado di ca-talizzare una più ampia contraddizione della tensione. Anche qui, ci sono almeno due modalità fondamentali:1) Marcello è immobile, non agisce; si è scritto molto sul suo carat-tere di spettatore degli eventi: in questo senso Il conformista entra di diritto nel novero dei film moderni secondo Deleuze, quelli in cui il personaggio diventa «una specie di spettatore» e si fa veggen-te18. Ora però, la sua funzione nella sequenza dell’omicidio è diver-sa da quella ricoperta da Anna. Se attraverso Anna, come abbiamo visto, la messa in scena contribuisce a mantenere viva la tensione attraverso lo sguardo di una testimone appassionata, lo sguardo di Marcello è freddo, distante: non sembra portatore di passioni davanti al luogo del delitto. L’assenza di relazione con gli eventi è data innanzitutto dall’assenza di soggettive di Marcello: egli guar-da continuamente, dal chiuso della sua automobile parcheggiata a distanza, ma l’omicidio non ci viene mai restituito dal suo punto di vista. Significativa è poi l’inquadratura che ci mostra la frenata improvvisa della vettura guidata da Manganiello, dopo l’arresto di quella dei Quadri; essa costituisce una sorta di interruzione dell’a-zione: la mdp, con un flessuoso movimento, si sposta verso uno dei finestrini attraverso il quale – accanto ai riflessi dell’esterno, che evidenziano l’opacità dello schermo – vediamo Manganiello che si volta verso Marcello, immobile sul sedile posteriore: i due riman-gono fermi così, per alcuni secondi, e la loro immobilità è come l’irruzione di un tableau vivant che sospende la diegesi per qualche istante (fig. 7). Poi la mdp riprende il suo movimento, sale oltre il tetto della vettura per mostrare, in lontananza, l’automobile dei Quadri ferma. Da questo momento il tempo dell’azione riprende a scorrere normalmente: questa inquadratura, dunque, non ha fatto altro che marcare la distanza dei due fascisti rispetto all’azione. È da questa posizione che Marcello osserverà l’omicidio del profes-sore: dal luogo di uno spettatore segregato. Dall’omicidio di Anna, poi, Marcello si escluderà volontariamen-te: la donna gli si avvicina, facendogli perdere la sua “distanza di sicurezza”: lui, semplicemente, chiude il vetro del finestrino e resta

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������ impalpabile e restio a qualunque contaminazione con lo spazio diegetico. Una semisoggettiva di Anna, che colpisce il ve-tro urlando, ci mostra Marcello vagamente fuori fuoco, dietro lo schermo (fig. 8): in quel momento lui sembra davvero un’immagi-ne, non ha la consistenza tridimensionale del personaggio “attan-te”, sebbene anche lui in quel momento, a suo modo, agisca (spara due colpi a vuoto). Da questo momento Marcello non appare più, significativamente, nella sequenza. 2) Marcello è, inoltre, il personaggio la cui immagine sembra con-tinuamente minare la solidità e credibilità della rappresentazione: egli funziona come una contraddizione della visione, oltre che dell’azione, dal momento che la sua figura sembra sempre sul pun-to di sparire dall’orizzonte del visibile. Fin dall’inizio della sequen-za, come accennato sopra, il suo volto va spesso fuori fuoco, sfuma i suoi contorni, si disindividua, per così dire. E d’altronde, durante l’omicidio del professore, la regia ci mostra a volte Marcello (con o senza Manganiello) da dietro il vetro bagnato e appannato: il suo volto è appena visibile come una massa rosata, e le sue espressioni impossibili da individuare. Anche in questo caso, questa irruzione di un’immagine ai limiti del figurativo interrompe la tensione della scena, anziché alimentarla: di modo che Marcello – anche quando è ben visibile – ci appare comunque distante dagli eventi, quasi come un regista che osserva il proprio set da una cabina distante (la sensazione è voluta: spesso le sue inquadrature sono riprese dall’interno dell’automobile in modo tale da lasciare fuori quadro i finestrini). Come un regista o come uno spettatore, Marcello è un voyeur: osserva tutto da un punto di vista nascosto, come nella sce-na primitiva; e, come nella scena primitiva, il soggetto possiede un tratto fondamentale nella relazione con ciò che vede: ne è escluso («l’immagine – come ha scritto Roland Barthes – è ciò da cui io sono escluso»19).Ora, la continua tensione a sparire, a dileguarsi, appartiene a Mar-cello per tutto il film: e lo stile di Bertolucci fa di questo tratto una propria cifra, facendo sì che la figurazione del mondo di Marcello sia caratterizzata da un continuo movimento di apparizione/spa-rizione di figure. Il mondo di Marcello sembra fatto di immagi-ni, proprio in quanto Marcello stesso ne è escluso: e lo sguardo

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�� Bertolucci, lungi dal descrivercelo dall’esterno, partecipa della propensione del personaggio a escludere il proprio punto di vista dagli eventi. Il mondo rappresentato ne Il conformista è, insomma, il mondo messo in scena dal lavoro interiore di Marcello. Bisogne-rà citare un’ultima volta le parole di Kline:

Ubicando il principale punto narrativo in Marcello e nella propria onni-sciente mdp, il regista diffonde una moltitudine di identità, tipicamente onirica (e cinematica). In questa luce, gli elementi oggettivi del romanzo [...] possono essere inquadrati come le associazioni mentali, o come il travaglio onirico, della consapevolezza del protagonista; e in tal modo predispongono lo spettatore a identificarsi non solo con quella consape-volezza, ma con il vero e proprio ordito del film. Così facendo, Bertolucci educa implicitamente lo spettatore e lo avverte direttamente dei pericoli (potenzialmente fascisti) del guardare20.

Cosa accade dunque allo spettatore che si identifica con Marcello? Da quanto detto deriva che, non trattandosi di un personaggio to-talmente interno al mondo rappresentato, ma funzionando d’altra parte come il principale soggetto della rappresentazione nel film, Marcello produce nello spettatore una sorta di identificazione con la propria esteriorità rispetto al film che sta vedendo – il che, è evi-dente, costituisce una contraddizione in termini che cortocircuita i meccanismi classici dell’identificazione e dell’empatia, che pure il film offre in vari momenti (compresa, come abbiamo visto, la sequenza dell’omicidio). Ecco allora che, nell’adesione totale alla materia del racconto messo in scena, la regia di Bertolucci riesce a contraddire dall’interno gli elementi spettacolari che pure Il confor-mista presenta (o prospetta). È nello stile insomma che Bertolucci trova innanzitutto un nuovo spazio, nella messa in scena di una vicenda che si dà allo stesso tempo come spettacolare e riflessiva.

un cineasta barocco

Veniamo allora a una questione centrale, quella del “barocchismo” di Bertolucci. Senza insistere troppo sulla problematizzazione che pure una nozione come quella di barocco richiederebbe, inten-

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������ il termine in senso meta-storico e soprattutto aggettivale, riferito a una sensibilità che trascende l’epoca del Barocco storico. Alcuni tratti di quella sensibilità, a nostro avviso, possono essere proiettati sul cinema di Bertolucci. Prendiamo ad esempio quella particolare capacità di esprimere emozioni che Erwin Panofsky, in un saggio del 1934, riconosce nell’arte barocca:

Il fatto che l’arte barocca sia stata criticata con tanto vigore per quasi due secoli è dovuto in buona parte all’impressione che il sentimento espresso dalle figure mancasse di naturalezza e sincerità. [...] Ma sarebbe ingiusto mettere in dubbio l’autenticità dei sentimenti espressi. Il sentire dell’uo-mo barocco (almeno nelle opere dei grandi maestri) è del tutto sincero, solo che non occupa per intero l’anima. Il soggetto non solo sente, ma è anche consapevole di quello che sente. Se il cuore palpita di emozione, la coscienza resta distaccata e “sa”21.

Si tratta di una modalità particolare e tuttavia decisiva nella defini-zione di “barocco”, che presenta da un lato una vena sentimentale, basata sulla ricerca di reazioni emotive tramite la comunicazione anche imponente di affetti; ma anche, dall’altro lato, una vena cere-brale fatta di giochi intellettuali e intrisa di concettismo, artificio e acutezza22. Questa particolare ambivalenza della sensibilità baroc-ca consente di conciliare due elementi difficili da armonizzare, e anzi solitamente considerati come antitetici, soprattutto al cinema: lo spettacolo e la riflessività. Quello barocco è uno spettacolo sui generis, non pienamente rappresentativo, basato sull’accumulazio-ne di figure e sulla moltiplicazione dei punti di vista, in una per-formance d’artista che allo stesso tempo coinvolge e distanzia, im-pressiona e distrae. Questa modalità barocca consente a Bertolucci di perseguire una forma non classica di spettacolo cinematografi-co. Si tratta, per inciso, di quella modalità che la stampa dell’epoca evidentemente riconosceva, come abbiamo visto sopra, pur dimo-strando di non saperne definire i contorni: Bertolucci offriva agli occhi l’evidente ma allo stesso tempo sfuggente e vaga “bellezza” delle inquadrature; ma a questa bellezza “senza concetto” accom-pagnava la consapevolezza esplicita della propria operazione, oltre che la coscienza di sé in senso psicanalitico e sociologico.Il coté barocco del cinema di Bertolucci è evidenziato in particola-

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�� da Jean-Claude Mirabella e Pierre Pitiot nel loro libro-intervi-sta. Lì Bertolucci stesso ammette la propria aspirazione ossessiva all’ascesi stilistica, continuamente contraddetta però da un fatale sentimento barocco del mondo:

Non poter essere come Bresson, o come Ozu, non riuscire a raggiungere quella assoluta essenzialità. Considero il loro cinema come qualcosa che mi è precluso, e mi attira enormemente proprio per la sua inaccessibilità... Lei sa che il sentimento di colpa è il grande motore della creazione... tut-tavia io mi sento simile a Ophüls, Renoir, Mizoguchi che sono piuttosto dei cineasti barocchi. È la vita che è barocca?23

Sotto la rubrica del barocco si potrebbero inserire, scrivono i due critici, molti aspetti ricorrenti del cinema di Bertolucci e carichi di implicazioni culturali contemporanee (filosofiche, letterarie, psicanalitiche): il sentimento del tempo che scorre e l’attrazione per le rovine, la ricerca continua del movimento, il gusto per l’or-namento, la figura del doppio, la perdita del centro (nella sosti-tuzione barocca della figura del cerchio con quella dell’ellisse), la consapevolezza dei limiti della rappresentazione24. Ma l’aspetto barocco che ci interessa evidenziare qui è proprio quel particola-re senso del mondo e della sua rappresentazione che si traduce, in Bertolucci, nella pratica di un cinema allo stesso tempo popo-lare e d’élite. Lo stile del film tende spesso a creare un pathos, a volte narrativo, altre volte visivo; ma questo pathos è sempre interrotto, negato, tramite eventi diegetici improvvisi o bruschi tagli di montaggio. È una declinazione del gusto barocco: ogni inquadratura è “bella”, elaborata nelle linee, nelle luci e nei colori; non ci sono inquadratu-re di raccordo, ogni nuova angolazione è per la regia l’occasione di esprimere un punto di vista diverso, ma sempre esplicito ed esibito, sul mondo visibile. Tutto questo è dato soprattutto dalla drammatur-gia della luce e del colore messa in opera da Vittorio Storaro:

La sua immagine non documenta semplicemente il reale [...] ma già lo interpreta emotivamente. [...] E tutto quello che esiste prima della luce è una virtualità opaca che solo la strutturazione della luce porta alla soglia dell’immagine, fa essere nella sua pienezza25.

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Q���� forza immaginaria è restituita anche dal lavoro del montag-gio, che connette le inquadrature tra di loro, ma non secondo una concatenazione rappresentativa e “senso-motoria”: ogni inquadra-tura, non procedendo logicamente dalla precedente, bensì sosti-tuendola con un punto di vista radicalmente differente, è un’ap-parizione per lo spettatore. Il lavoro con Franco “Kim” Arcalli è in questo senso una scoperta per Bertolucci, che impara con lui la possibilità di estrarre significati virtuali dall’inquadratura attra-verso un lavoro che nega le intenzioni delle riprese ma, allo stesso tempo, le arricchisce di senso:

Kim mi ha dimostrato in concreto, lavorando sul corpo del film, che il montaggio non è solo un lavoro analitico ma anche di scoperta dei segreti contenuti nel ventre del film che non verrebbero mai alla luce se ci si vietasse una manipolazione del materiale. Kim, interrompendo un’inqua-dratura che io avevo girato come piano autonomo, e attaccandovi brutal-mente un’altra inquadratura che non era stata prevista per quel luogo e per quel momento, illuminava di colpo dei significati che erano contenuti nel film, ma nascosti fino a essere illeggibili26. Il soggetto della rappresentazione, d’altra parte, è dislocato, multiplo, guarda il mondo non da dietro un vetro trasparente ma come dall’interno di un prisma; e il mondo rappresentato è, pertanto, un mondo frammentario, caleidoscopico, un mondo in cui il frammento non necessariamente si riconnette a un tut-to organico: è, per l’appunto, un mondo immaginario, labirin-tico, lacunoso e allucinatorio, un mondo barocco. È un mondo smarrito e leggero, come lo spirito di Marcello, ben descritto dai versi di Adriano che egli stesso recita nel film: animula vagula, blandula... È un mondo che tanto più si alleggerisce, tanto più si dà come simulacro, quanto più eccessivo e sfarzoso si fa il lavoro della fotografia, delle scenografie e dei costumi: gli spazi messi in scena sono barocchi anch’essi, a prescindere dalla di-versa qualità architettonica degli elementi che li compongono; spesso sono spazi pieni, che Marcello attraversa e osserva senza poter agire, al limite ripetendo un certo attivismo di regime nei suoi improvvisi e mediocri gesti fascisti, che mascherano la sua inattività di fondo.

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L� emozioni del film sono dunque presentate, potremmo dire, in maniera nevrotica: sono continuamente date e interrotte, piene e allo stesso tempo consapevoli; è come se Bertolucci tendesse a raggiungere un equilibrio instabile, passando direttamente dall’e-spressione di un’emozione molto primaria (quella data, ad esem-pio, dall’intensità di un colore o di un movimento di macchina) al vaglio intellettuale più raffinato (come quando un’immagine è raddoppiata da cornici o da specchi). Ma appunto, i due aspet-ti si danno simultaneamente; la messa in scena sembra oscillare continuamente tra una vicinanza immediata e intensa e l’inquie-tante presenza di uno schermo opaco che distanzia, come fosse la versione pura della consapevolezza: in breve, e per concludere, tra le due posizioni assunte da Anna e da Marcello nell’episodio dell’omicidio.

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Note al testo

7 D. Bordwell, Narration in the Fiction Film, Madi-son, The University of Wisconsin Press, 1985, p. 207.

8 Su queste questioni in relazione al cinema di Bergman degli anni cinquanta e sessanta si veda B. Steene, Bergman’s Portrait of Women: Sexism or Subjective Metaphor in P. Erens (a cura di), Sexual Stratagems, New York, Horizon Press, 1979.

9 Williams, Stendhal and Bertolucci, cit., p. 215.10 C. Metz, Il cinema moderno e la narratività

(1966), tr. it., in Id., Semiologia del cinema, Milano, Garzanti, 1972, pp. 245-295.

11 Recentemente Giorgio De Vincenti – il cui lavoro più che ventennale sulla modernità cinematografica ha proposto parametri critici concettuali e non sto-riografici per la messa a punto della problematica – ha riaffermato che non solo il nuovo cinema degli anni sessanta «fa, implicitamente o esplicitamen-te, del découpage classico hollywoodiano la norma estetica da violare», ma che tale operazione va sot-tratta alle facili periodizzazioni poiché è continuata e continua in svariati autori, compresi alcuni “indi-pendenti” americani. Cfr. G. De Vincenti, Modernità in Enciclopedia del Cinema, vol. 4, Roma, Istituto del-la Enciclopedia Italiana, 2004, pp. 112-117, 114.

12 Metz, Il cinema moderno e la narratività, cit., p. 259.

13 G. De Vincenti, Il concetto di modernità nel cine-ma, Parma, Pratiche, 1993, p. 19.

14 F. Casetti, Bernardo Bertolucci, Il Castoro Cine-ma, Firenze, La Nuova Italia, 1975, pp. 41-45.

15 Una componente aleatoria nell’uso del linguag-gio si riscontra in Godard e nella Nouvelle Vague in generale. L’ampliamento di codici e modalità di ripresa oltre la cosiddetta “grammatica classica” ha dato come esito la possibilità di scegliere tra diversi «equivalenti funzionali», ovvero stilemi diversi per esprimere funzioni narrative simili: basta pensare ai molti modi in cui si gira il campo-controcampo evitando la forma classica consolidata. Sulla nozi-one di «equivalente funzionale» si veda D. Bordwell, The Classical Hollywood Style, 1917-1960, in D. Bor-dwell, K. Thompson, J. Staiger, The Classical Holly-wood Cinema, New York, Columbia, 1985.

16 R. Williams, Marxism and Literature, Oxford, Oxford University Press, 1977, in particolare pp. 121-127.

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1 Bernardo Bertolucci (1973), citato in M. Moran-dini, Il conformista, in R. Campari e M. Schiaretti (a cura di), In viaggio con Bernardo. Il cinema di Bernar-do Bertolucci, Venezia, Marsilio, 1994, p. 66.

2 F. Casetti, Bernardo Bertolucci, Firenze, La Nuova Italia, 1975, p. 72.

3 Ibid., p. 77. Sul rapporto tra Bertolucci e Go-dard si può vedere R.P. Kolker, Bernardo Bertoluc-ci, London, BFI, 1985, pp. 11-35.

4 Si veda a proposito G. De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, Pratiche, Parma 1993, in part. le pp. 91-137. Sul progetto collettivo di La vie est à nous cfr. Id., Jean Renoir. La vita, i film, Venezia, Marsilio, 1996, pp. 135-140.

5 E. De Gregorio, Il conformista, in «Cinema & Film», 11-12, 1970, p. 324.

6 G. Turroni, Cultura nel cinema o cinema della cultura, in «Filmcritica», 214, 1971, p. 153 (cor-sivo nostro).

7 «Ubu», 3, 1971, p. 22 (redazionale).8 U. Casiraghi, Il conformista, in «L’Unità», 30

gennaio 1971.9 G. Cattivelli, Il conformista, in «Libertà», 13

marzo 1971.10 G. Raboni, Ritratto di borghesia malata nel cli-

ma violento del fascismo, in «Avvenire», 30 gennaio 1971.

11 G. Bendazzi, Anni dopo ritrova vivo l’uomo che aveva ucciso, in «Avanti!», 30 gennaio 1971.

12 Tra le analisi del film in lingua italiana la più articolata è certamente quella di F. Prono Bernar-do Bertolucci. Il conformista, Torino, Lindau, 1998, cui rimandiamo per approfondire le tematiche non affrontate qui.

13 Jean-Luc Godard in «Cahiers du cinéma», 171, 1965; trad. it. in Id., Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, Minimum fax, Roma 2007, p. 67.

14 Bernardo Bertolucci (1974), citato in T. Jeffer-son Kline, Bertolucci’s Dream Loom. A Psychoana-lytic Study of Cinema, Amherst, University of Mas-sachusetts Press, 1987; trad. it. I film di Bernardo Bertolucci, Roma, Gremese, 1994, p. 88.

15 Ibid., p. 88.16 Ibid., pp. 90 e 87.17 Ibid., p. 91. Un’altra interpretazione di stam-

po psicanalitico è quella di E.M. Campari, L’anti-conformista. Bernardo Bertolucci e il suo cinema, Fiesole, Cadmo, 1998, pp. 47-56.

18 G. Deleuze, L’image-temps, Paris, Minuit, 1985; trad. it. L’immagine-tempo, Milano, Ubulibri, 1989, p. 13.

19 R. Barthes, Fragments d’un discours amoureux, Paris, Seuil, 1977; trad. it. Frammenti di un discorso amoroso, Torino, Einaudi, 1979, p. 105.

20 Jefferson Kline, Bertolucci’s Dream Loom, cit., p. 92.

21 E. Panofsky, What Is Baroque?, in Id., Three Essays on Style, Cambridge, Massachusetts, The MIT Press, 1995; trad. it. Che cos’è il barocco?, in Id., Tre saggi sullo stile, Milano, Electa, 1996, p. 77.

22 Tra i molti lavori si possono vedere: sul primo aspetto, G.C. Argan, L’arte barocca, Genève-Roma, Skira-Newton Compton, 1989; sul secondo aspet-to, J.R. Snyder, L’estetica del barocco, Bologna, Il Mulino, 2005.

23 In J.-C. Mirabella, P. Pitiot, Intervista a Bernardo Bertolucci, Roma, Gremese, 1999, p. 67. La rispo-sta di Pitiot a questa domanda retorica è, d’altra

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Note al testo

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24 Ibid., pp. 21-38.25 P. Bertetto, Filosofia della visione, in Id. (a cura

di), Vittorio Storaro. Un percorso di luce, Allemandi, Torino 1989, p. 7.

26 Bernardo Bertolucci in E. Ungari, Scene madri di Bernardo Bertolucci, Milano, Ubulibri, 1982, pp. 72-73.

Gabriele Anaclerio, Ultimo tango a Parigi

2 Il maturo americano Paul (Marlon Brando) e la giovane francese Jeanne (Maria Schneider) si incontrano casualmente in un appartamento sfitto in rue Jules Verne, a Parigi. L’uomo ha ap-pena perso sua moglie, suicidatasi nell’albergo che gestivano insieme. La ragazza è figlia di un colonnello francese morto durante la guer-ra d’Algeria. È fidanzata con Tom (Jean-Pierre Léaud), cinéphile di professione regista, che ha deciso di filmare per la televisione la loro rela-zione e il passato familiare di lei. Paul e Jeanne si incontrano ripetutamente nell’appartamento, dove consumano rapporti sessuali di diverso tipo. L’unica regola è quella di non svelarsi i nomi e di non raccontarsi le rispettive vite. Pa-rallelamente evolve la vicenda del lutto: Paul rifiuta la cerimonia cristiana desiderata dalla suocera (Gitt Magrini), alla quale non sa spie-gare i motivi del gesto della figlia. Mistero che rimarrà tale anche in seguito all’incontro con Marcel (Massimo Girotti), amante della moglie e sorta di doppio di Paul. Intanto prosegue la relazione erotica con Jeanne: le impone un rap-porto anale dopo averle spalmato del burro, si fa sodomizzare da lei. Finalmente Paul decide di “incontrare” il corpo della moglie nella bara, verso il quale dirige un monologo accorato, pri-ma aggressivo poi disperato. È il suo addio. La relazione con Jeanne si fa sempre più animale-sca, e la ragazza gli rivela di essere fidanzata. Anzi ha già progettato il suo matrimonio con Tom. I due amanti si rincontrano per strada, nel luogo dove si erano visti per la prima volta. L’uo-mo vorrebbe ricominciare la loro storia, anzi le chiede praticamente di sposarlo. I due si recano in un locale di tango, dove sembrano progettare un futuro comune. Ubriachi, si lanciano in una danza oscena che provoca scandalo. Jeanne fugge via da Paul, che la insegue per le strade di Parigi, fino al suo appartamento, dove lei gli spara sui genitali, rivelandogli il proprio nome. Dopo aver appiccicato il chewing-gum che stava masticando sulla ringhiera del terrazzo, Paul si accascia a terra, i tetti di Parigi sullo sfondo. Jeanne prepara balbettando la propria difesa.

2 Si veda soprattutto l’articolo di Pascal Bo-nitzer L’expérience en intérieur. Le dernier tango à

Paris, La grande bouffe, La maman et la putain, in «Cahiers du cinéma», n. 247, luglio-agosto 1973.

3 Ricordiamo sinteticamente le vicende extrate-stuali del film. Il 30 settembre 1972 la Commis-sione di censura nega il nulla osta al film: per ot-tenerlo Bertolucci, su suggerimento del produttore Alberto Grimaldi, taglia 8 secondi della scena del primo amplesso, accorcia la durata della scena del burro ed elimina una battuta di Paul a Jean-ne durante la sodomizzazione. L’anteprima mon-diale ha luogo a New York il 14 ottobre 1972 ed è una grande successo. In Italia il film esce il 15 dicembre, per essere sequestrato su ordine del PM Niccolò Amato una settimana dopo, con l’accusa di «esasperato pansessualismo fine a se stesso». Intanto prende avvio un procedimento giudiziario che sfocia in una sentenza di assoluzione in pri-mo grado il 2 febbraio 1973, ma in una condan-na nel primo processo di Appello (annullato per un vizio di forma) nel giugno dello stesso anno. Il 29 settembre 1974, la Corte d’Appello di Bo-logna rinnova la condanna del film, che non può circolare in Italia. Il 29 gennaio 1976 la Corte di Cassazione conferma la condanna della Corte di Appello: vengono così distrutti i negativi del film. Solo tre copie vengono conservate dalla Biblioteca Nazionale come corpo del reato. Bertolucci viene condannato a due mesi con la condizionale e per-de per 5 anni i diritti civili. Il 25 settembre 1982, la cooperativa «Missione impossibile» proietta, nel corso della rassegna «Ladri di cinema», una co-pia segreta del film: Bertolucci e gli organizzatori vengono denunciati per spettacolo osceno. È l’oc-casione per ridiscutere la sentenza. Nel febbraio 1987, il giudice istruttore Paolo Colella archivia il procedimento penale (il film non offenderebbe più il comune sentimento del pudore, anzi «Amore e morte, sesso e distruzione, piacere e crisi sono i temi che fanno di Ultimo tango a Parigi un film con piena dignità di opera d’arte, soprattutto per il modo in cui questi motivi profondi vengono affron-tati» [cit. in S. Socci, Bernardo Bertolucci, Milano, Il Castoro Cinema, 2008, pp. 54-55]) e il film può essere nuovamente distribuito, con il divieto ai mi-nori di 18 anni. Per approfondire queste vicende rimandiamo, in particolare, a Tatti Sanguineti, Gli otto secondi più famosi della storia della censura, nel DVD Ultimo tango a Parigi della serie «Capolavori, il cinema italiano a 5 stelle», il dossier Ultimo tango a Parigi, in «Segnocinema», n. 113, gennaio-febbraio 2002, O. Magrini, Una scomoda ossessione. Ultimo tango a Parigi, memorie da un film proibito, Arezzo, Zona, 2006, G. Pozzetto, Ultimo tango. Il mistero svelato, Milano, cucinema.com, 2004.

4 G. Bataille, L’érotisme, Paris, Éditions de Mi-nuit, 1957; trad. it., L’erotismo, Milano, Es, 2009.

5 Cfr. M. Garofalo (a cura di), Una sinfonia di so-listi. Intervista a Vittorio Storaro, in «Segnocinema», n. 113, gennaio-febbraio 2002, p. 23.

6 B. Bertolucci, Ultimo tango a Parigi, Torino, Ei-naudi, 1973, p. 9.