identità e missione. gesuiti italiani e missioni popolari tra antica e nuova compagnia, in rivista...

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RSCr 11(2/2014) 285-302 EMANUELE COLOMBO IDENTITÀ E MISSIONE Gesuiti italiani e missioni popolari tra Antica e Nuova Compagnia 1. Introduzione Negli ultimi anni le missioni popolari di età moderna hanno attratto l’at- tenzione degli storici, che le hanno considerate un osservatorio privilegiato della «ricattolicizzazione» dell’Europa post-tridentina 1 . Tra i diversi ordini religiosi impegnati nelle missioni popolari, i gesuiti ricoprirono un ruolo centrale: nelle loro Costituzioni l’apostolato era considerato un tratto caratte- ristico della fisionomia dell’ordine. Molti aspetti delle missioni rurali gesui- tiche dei secoli XVI-XVIII sono stati esplorati recentemente: tra questi occorre ricordare i legami di continuità tra le missioni in Europa e quelle nel Nuovo Mondo 2 e le tensioni interne alla Compagnia di Gesù nel tornante del XVII secolo tra chi considerava inevitabile la sedentarizzazione dell’ordine, dovu- ta all’espansione numerica e allo sviluppo dell’insegnamento nei collegi, e chi invece difendeva come ideale imprescindibile l’itineranza missionaria 3 . Ancora, sono state messe in luce diverse tipologie di missioni interne e la differenza tra le missioni di prossimità, che avevano come epicentro le resi- denze e i collegi e impegnavano i gesuiti per brevi periodi, e le missioni rurali ad ampio raggio geografico. Nella stessa direzione è stata individuata la cre- scente differenziazione, alla fine del Seicento, tra i gesuiti che si dedicavano saltuariamente alle missioni, essendo impegnati stabilmente in altre attività, e i missionari specializzati, che si dedicavano esclusivamente a questo mini- stero. Molto è stato scritto anche sui diversi registri della predicazione e sul superamento della predicazione alta, le cui regole retoriche erano infrante dai missionari popolari 4 . 1 Cfr. Bernard Dompnier, Ricerche recenti sulle missioni popolari nel Seicento, in «So- cietà e Storia» 106 (2004), pp. 813-824. La bibliografia sulle missioni popolari è sterminata. Per uno sguardo d’insieme, cfr. il classico lavoro di Louis Châtellier, La religione dei poveri. Le missioni rurali in Europa dal XVI al XIX secolo e la costruzione del cattolicesimo moderno, Garzanti, Milano 1994; su Italia e Francia, cfr. Christian Sorrel - Frédéric Meyer (eds.), Les missions intérieurs en France et en Italie du XVI e siècle au XX e siècle. Actes du Colloque de Chambéry (18-20 mars 1999), Université de Savoie, Chambéry 2001; sulla Spagna, cfr. Franci- sco Luis Rico Callado, Misiones populares en España entre el Barroco y la Ilustración, Alfons el Magnànim, Valencia 2006. 2 Paolo Broggio, Evangelizzare il mondo. Le missioni della Compagnia di Gesù tra Euro- pa e America (secoli XVI-XVII), Carocci, Roma 2004. 3 La tensione tra itineranza e sedentarizzazione emerse soprattutto durante i generalati di Claudio Acquaviva (1581-1615) e di Vincenzo Carafa (1646-1649). Cfr. Bernard Dompnier, La Compagnie de Jésus et la mission de l’intérieur, in Luce Giard - Louis de Vaucelles Millon (eds.), Les Jésuites a l’âge baroque (1540-1640), Milon, Grenoble 1996, pp. 155-179. 4 Cfr. Bernadette Majorana, Missionarius/Concionator. Note sulla predicazione dei gesui- 03 Colombo.indd 285 22/01/15 10:30

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RSCr 11(2/2014) 285-302

EmanuElE Colombo

IDENTITÀ E MISSIONEGesuiti italiani e missioni popolari tra Antica e Nuova Compagnia

1. Introduzione

Negli ultimi anni le missioni popolari di età moderna hanno attratto l’at-tenzione degli storici, che le hanno considerate un osservatorio privilegiato della «ricattolicizzazione» dell’Europa post-tridentina1. Tra i diversi ordini religiosi impegnati nelle missioni popolari, i gesuiti ricoprirono un ruolo centrale: nelle loro Costituzioni l’apostolato era considerato un tratto caratte-ristico della fisionomia dell’ordine. Molti aspetti delle missioni rurali gesui-tiche dei secoli xvi-xviii sono stati esplorati recentemente: tra questi occorre ricordare i legami di continuità tra le missioni in Europa e quelle nel Nuovo Mondo2 e le tensioni interne alla Compagnia di Gesù nel tornante del xvii secolo tra chi considerava inevitabile la sedentarizzazione dell’ordine, dovu-ta all’espansione numerica e allo sviluppo dell’insegnamento nei collegi, e chi invece difendeva come ideale imprescindibile l’itineranza missionaria3. Ancora, sono state messe in luce diverse tipologie di missioni interne e la differenza tra le missioni di prossimità, che avevano come epicentro le resi-denze e i collegi e impegnavano i gesuiti per brevi periodi, e le missioni rurali ad ampio raggio geografico. Nella stessa direzione è stata individuata la cre-scente differenziazione, alla fine del Seicento, tra i gesuiti che si dedicavano saltuariamente alle missioni, essendo impegnati stabilmente in altre attività, e i missionari specializzati, che si dedicavano esclusivamente a questo mini-stero. Molto è stato scritto anche sui diversi registri della predicazione e sul superamento della predicazione alta, le cui regole retoriche erano infrante dai missionari popolari4.

1 Cfr. Bernard Dompnier, Ricerche recenti sulle missioni popolari nel Seicento, in «So-cietà e Storia» 106 (2004), pp. 813-824. La bibliografia sulle missioni popolari è sterminata. Per uno sguardo d’insieme, cfr. il classico lavoro di Louis Châtellier, La religione dei poveri. Le missioni rurali in Europa dal xvi al xix secolo e la costruzione del cattolicesimo moderno, Garzanti, Milano 1994; su Italia e Francia, cfr. Christian Sorrel - Frédéric Meyer (eds.), Les missions intérieurs en France et en Italie du xvie siècle au xxe siècle. Actes du Colloque de Chambéry (18-20 mars 1999), Université de Savoie, Chambéry 2001; sulla Spagna, cfr. Franci-sco Luis Rico Callado, Misiones populares en España entre el Barroco y la Ilustración, Alfons el Magnànim, Valencia 2006.

2 Paolo Broggio, Evangelizzare il mondo. Le missioni della Compagnia di Gesù tra Euro-pa e America (secoli xvi-xvii), Carocci, Roma 2004.

3 La tensione tra itineranza e sedentarizzazione emerse soprattutto durante i generalati di Claudio Acquaviva (1581-1615) e di Vincenzo Carafa (1646-1649). Cfr. Bernard Dompnier, La Compagnie de Jésus et la mission de l’intérieur, in Luce Giard - Louis de Vaucelles Millon (eds.), Les Jésuites a l’âge baroque (1540-1640), Milon, Grenoble 1996, pp. 155-179.

4 Cfr. Bernadette Majorana, Missionarius/Concionator. Note sulla predicazione dei gesui-

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Minore attenzione è stata invece dedicata alle missioni popolari della Compagnia di Gesù dopo la soppressione (1773) e la restaurazione (1814)5. Come i gesuiti adattarono il proprio metodo alle nuove circostanze che, all’i-nizio del xix secolo, erano profondamente diverse da quelle dell’Europa post-tridentina? Quale fu il valore delle missioni popolari per l’identità della Compagnia di Gesù dopo una frattura di quarant’anni? In queste pagine si cercherà di rispondere a tali quesiti ripercorrendo la storia delle missioni ge-suitiche in Italia all’inizio del xix secolo.

2. Gesuiti senza Compagnia: il caso Mozzi

Desideri, speranze e progetti per la restaurazione della Compagnia ani-marono gli ex-gesuiti subito dopo la soppressione. Tuttavia, più il tempo pas-sava più ci si rendeva conto che la restaurazione non sarebbe stata immediata e che era dunque necessario mantenere vivo il carisma ignaziano, quello che i gesuiti chiamavano «il nostro modo di procedere», pur nell’assenza di un riconoscimento ufficiale dell’ordine. Dall’Italia si guardava con speranza alla Russia Bianca, dove la Compagnia non era stata soppressa, mentre voci autorevoli auspicavano la restaurazione6.

Nel 1801 Pio vii, con il breve Catholicae fidei, confermò e approvò uf-ficialmente la Compagnia nell’impero russo. Da quel momento ebbe inizio la lenta riorganizzazione dei gesuiti in Italia dove nel 1804, con il breve Per alias, Pio vii ristabilì la Compagnia nel Regno delle due Sicilie la cui guida fu affidata a José Pignatelli (1737-1811)7. Il primo decennio del xix secolo fu caratterizzato dalla crescente stima verso la Compagnia in ambienti eccle-siastici, favorita anche dall’instancabile attività missionaria degli ex-gesuiti in diverse aree della penisola italiana.

ti nelle campagne (xvii-xviii secolo), in «Aevum. Rassegna di scienze storiche, linguistiche e filologiche» 3 (1999), pp. 807-829; Eadem, Predicare per obbedienza. Note sull’ultima attività di Paolo Segneri (1691-1694), in Fernanda Alfieri - Claudio Ferlan (eds.), Avventure dell’ob-bedienza nella Compagnia di Gesù. Teorie e prassi fra xvi e xix secolo, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 139-164.

5 Fa eccezione il prezioso lavoro di Armando Guidetti, Le missioni popolari. I grandi gesuiti italiani, Rusconi, Milano 1988. Attraverso una serie di ritratti di missionari popolari, l’autore studia lo sviluppo delle missioni nel lungo periodo, fino al xx secolo.

6 Marek Inglot, La Compagnia di Gesù nell’Impero Russo (1772-1820) e la sua parte nella restaurazione generale della Compagnia, Università Gregoriana, Roma 1997; Sabina Pavone, Una strana alleanza. La Compagnia di Gesù in Russia dal 1772 al 1820, Bibliopolis, Napoli 2010; Giacomo Martina, Storia della Compagnia di Gesù in Italia (1814-1983), Mor-celliana, Brescia 2003, pp. 19-46.

7 José Pignatelli (1737-1811), gesuita spagnolo, dopo l’espulsione dei gesuiti dalla Spagna (1767) partì per Civitavecchia e negli anni successivi fu in varie città italiane. Chiese senza successo di essere accolto in Russia Bianca. Fu maestro dei novizi e superiore del noviziato di Colorno (Novara) e nel 1803 fu nominato provinciale d’Italia da Gabriel Gruber, superiore della Compagnia in Russia. Fu a Napoli e dal 1806 a Roma, dove morì nel 1811. Fu beatificato nel 1933 e canonizzato nel 1954.

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Stretto collaboratore di Pignatelli e celebre missionario popolare fu l’ex-gesuita bergamasco Luigi Mozzi de’ Capitani (1746-1813)8. Al momento della soppressione della Compagnia, Mozzi insegnava presso il Collegio dei Nobili a Milano; negli anni successivi questi rientrò a Bergamo, dove si distinse come scrittore e teologo – fu autore di importanti opere contro il giansenismo – ma anche come missionario, promotore di confraternite e di istituzioni fedeli alla spiritualità gesuitica9. Mozzi incontrò Pignatelli a Co-lorno, dove quest’ultimo aveva assunto la guida di un noviziato dipendente dalla provincia russa10; insieme si dedicarono alle missioni nel parmense. Negli anni successivi Mozzi fu incaricato da Pignatelli di dedicarsi a tem-po pieno alle missioni popolari e di insegnare al nascente gruppo di gesuiti italiani il metodo missionario della Compagnia. Mozzi viaggiò senza sosta: prima nell’area di Piacenza, dell’Emilia e di Parma (1797-1799); poi in Ve-neto nelle diocesi di Treviso, Vicenza e Padova e nella Repubblica di Ragusa in Dalmazia (1800-1801); in seguito nelle Marche. Nel 1804 Mozzi fu chia-mato da Pio vii alla guida dell’Oratorio del Caravita, un importante centro di apostolato urbano fondato dai gesuiti nel xvii secolo11. Vi rimase però solo pochi mesi: dopo il riconoscimento ufficiale della Compagnia nel Regno delle due Sicilie raggiunse Pignatelli a Napoli e riprese l’attività missionaria nelle città vicine, con missioni a Pozzuoli, Ischia, Aversa, Capua, Nola, Gae-ta e Caserta. Nel 1806 fu obbligato dai francesi a lasciare Napoli per Roma, dove continuò le proprie «scorrerie apostoliche» fino al 181012.

Tra i numerosi documenti di quegli anni di attività frenetica vi sono due importanti scritti autografi di Luigi Mozzi: il Piano per le missioni (1806) e un documento successivo concepito come una sorta di appendice dal titolo Regole per le missioni13. La riflessione sul metodo missionario non era certa-mente nuova nella Compagnia: dal xvii secolo si erano moltiplicati i dibattiti

8 Giacinto Bassi, Vita del Padre Luigi Mozzi della Compagnia di Gesù, Miglio, Novara 1823; Giuseppe Baraldi, Notizia biografica sul Padre Luigi Mozzi, in Memorie di religione, di morale e di letteratura, Soliani, Modena 1825, vol. 7, pp. 111-154; Francesco Altini, Vita del P. Luigi Mozzi, S. Alessandro, Bergamo 1884; Carlos Sommervogel, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, Editions de la bibliothèque S.J., Collège philosophique et théologique, Louvain 1815, vii, pp. 1371-1379; Mario Zanfredini, Mozzi de’ Capitani Luigi, DHCJ, vol. 3, p. 2760; Paola Vismara, Mozzi de’ Capitani, Luigi, in DBI, vol. 77, 2012, pp. 372-374; Ema-nuele Colombo, Jesuit at Heart. Luigi Mozzi de’ Capitani (1746-1813) Between Suppression and Restoration, in Robert Maryks - Jonathan Wright (eds.), Jesuit Survival and Restoration: 200th Anniversary Perspective, Brill, Leiden 2014, pp. 214-230.

9 Sull’attività educativa, missionaria e teologica di Mozzi nei primi anni dopo la soppres-sione cfr. E. Colombo, Jesuit at Heart, con ampia bibliografia.

10 Mozzi emise i voti semplici nel 1801 e il quarto voto nel 1803 a Fano. Cfr. De P. Mozzi ad professionem admittendo (ARSI, Ital. 1002, i, doc. 13); ARSI, Russ. 1030, ff. 239-240.

11 L’Oratorio del Caravita, presso il Collegio Romano, fu fondato dal gesuita Pietro Gravi-ta (1588-1658) e fu per decenni un centro di apostolato urbano, sotto la guida dei gesuiti. Cfr. A. Guidetti, Le missioni, pp. 86-90.

12 A causa della salute instabile Mozzi non partì con Pignatelli, ma rimase per alcuni mesi a Napoli; a questi mesi risale la ricca corrispondenza con Pignatelli conservata presso l’ARSI.

13 Luigi Mozzi, Piano per le missioni, ARSI, Ital. 1004, x-3, ff. 1-10v; Id., Regole per le missioni, ARSI, Opp. NN. 157 (fogli non numerati).

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sul modo in cui si dovessero svolgere le missioni popolari. Spesso le de-scrizioni del metodo delle missioni erano inserite in racconti edificanti, che ne celebravano gli straordinari frutti; più raramente tali documenti avevano un carattere tecnico e normativo ed erano destinati alla circolazione interna, come nel caso dei due scritti di Mozzi14.

Il Piano per le missioni è diviso in tre parti: la prima è dedicata alla «machina e orditura della missione», la seconda al «numero e qualità delle funzioni nel corso della missione» e la terza alla «condotta da guardarsi dai missionari»15. La preoccupazione principale di Mozzi era di «uniformare il metodo» missionario della Compagnia: in un momento in cui i gesuiti si ricompattavano lentamente, occorreva stabilire le caratteristiche proprie del loro modo di procedere. Le missioni proposte da Mozzi duravano in media otto giorni e solitamente erano guidate da due gesuiti, mai più di tre, cui si aggiungeva un sacerdote secolare come aiutante. Nel Piano per le missioni Mozzi rilevava l’importanza della teatralità, dell’uso delle immagini e del coinvolgimento del popolo in processioni e funzioni penitenziali. Il punto di forza della missione non era solo nelle parole, ma nel potere evocativo di gesti, canti e immagini. Tutti i dettagli dovevano essere curatissimi, dal calendario della missione all’organizzazione degli spazi.

«Le missioni, per quanto la stagione lo permette, vogliono essere fatte in piazza, dove la voce corre assai meglio [...]. Sempre si facciano sopra un palco tanto in chiesa che in piazza, più o meno alto secondo l’estensione dell’udienza; per lo meno così alto che vi passi sotto un uomo di mezza statura [...]. Il sacerdote secolare compagno de’ missio-nari è bene che li preceda di un giorno perché tutte le cose siano disposte a dovere»16.

Grande importanza aveva l’oratorio della sera, una funzione per soli uo-mini in cui il peccato e la necessità del pentimento erano il tema dominante. Spesso l’oratorio era preceduto dagli svegliarini, «una delle più forti batterie al cuore del peccatore»: si trattava di brevi prediche (7-8 minuti) fatte la sera in punti strategici della città a commento di una sentenza cantata a ripetizione «in tono tetro», mentre il popolo recitava il Miserere. Vi erano anche altre funzioni, come quella dedicata alla Madonna.

14 Il linguaggio e molti aspetti del metodo proposto da Mozzi richiamano gli Avvertimenti a chi desidera impiegarsi nelle missioni di Antonio Baldinucci, redatti all’inizio del xviii seco-lo. Cfr. ARSI Opp. NN. 299, ff.1-66; Rom 184/ii, ff.476-497 (copia); Opp. NN. 97 (trascrizione calligrafica). Sugli Avvertimenti si veda l’ottimo saggio di Bernadette Majorana, La pauvreté visible. Réflexions sur le style missionnaire jésuite dans les Avvertimenti de Antonio Baldinucci (vers 1705), in Pierre-Antoine Fabre - Bernard Vincent (eds.), Missions religieuses modernes. «Notre lieu est le monde», École Française de Rome, Roma 2007, pp. 361-380. Si vedano anche le Istruzioni per le missioni di Giovanni Pietro Pinamonti (ARSI, Opp. NN. 225-226).

15 Il linguaggio usato da Mozzi rispecchia in molti passaggi quello usato nella Compagnia di Gesù nel xvii secolo. Sui termini «machina» e «funzioni», per esempio, cfr. le importanti osservazioni di Bernadette Majorana, Une pastorale spectaculaire. Missions et missionnaires jésuites en Italie (xvie-xviie siècle), in «Annales. Histoire, Sciences Sociales» lvii/2 (2002), pp. 297-320.

16 L. Mozzi, Piano per le missioni, f. 1v.

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«Li missionari portano seco una immagine della Beata Vergine che tengono sempre nascosta, e chiamasi la Madonna della missione. Questa si espone e produce alla venerazione del popolo verso la metà della missione, quando le massime più forti lo hanno portato a sentimenti di terrore, per animarlo alla speranza. [...] Fissato il gior-no, si colloca segretamente e fuori della Chiesa e piazza della Missione, in qualche Chiesa o casa vicina, la Madonna sopra un trono portatile il più ornato e maestoso che si possa. Si ordina per momento che sarà indicato, in qualche luogo nascosto, lo sparo di alcuni mortaretti. La vigilia del giorno consecrato alla Madonna, la predica della sera suol essere delle più terribili, a segno di portarsi il popolo quasi alla disperazio-ne. Ridotto a questo punto si anima a mettere la sua speranza in Maria Santissima e ad invocarla, e si eccita alla più tenera divozione verso la medesima. Allora si chiama l’immagine della Madonna, che sul momento allo sparo de mortaretti portata sul suo trono, accompagnata da molti lumi, seguita o preceduta da vari ecclesiastici in cotta, si presenta al popolo o dal fondo della piazza o all’ingresso della porta maggiore e a passo lento si introduce tra la folla e fra li pianti e le grida del popolo e si colloca sul palco, o in altro luogo vicino»17.

Le immagini avevano la forza di «muovere» i fedeli spesso ignoranti, in-capaci di concentrarsi durante prediche troppo lunghe e per i quali la comuni-cazione orale non era sempre immediata a causa delle differenze linguistiche nelle diverse regioni d’Italia. Durante la predica sull’inferno Mozzi usava lo «stendardino dell’anima dannata»; nella predica delle due bandiere – una ripre-sa del tema ignaziano degli Esercizi spirituali – si faceva uso di due stendardi:

«Quello del Demonio sia di tela nera sparsa di fiamme di fuoco, e in esso a grandi ca-ratteri sia scritto breve godere, eterno patire e sia appeso a un’asta nera. Lo stendardo di Gesù Cristo sia di drappo di seta bianco, contornato tutto di fettuccie colorate, e di fiori secchi. In esso sia scritto a gran caratteri d’oro breve patire, eterno godere. L’asta sia coperta di fettuccie a vari colori»18.

L’esposizione di un teschio accompagnava le prediche sulla morte, l’o-ratorio serale e gli svegliarini19, mentre altre funzioni coinvolgevano l’affet-tività e l’emotività del popolo. Era il caso della «funzione del perdono, [...] una delle più commoventi»:

«[La funzione] consiste nell’indurre i figli e le figlie a cercare sul momento i loro genitori, e domandar loro perdono in ginocchio, ciò che porta poi seco il domandarsi tutti perdono a vicenda, donne con donne, uomini con uomini, riconciliarsi coi ne-mici etc. Perché la cosa riesca, talvolta si dispongono segretamente a ciò fare otto o dieci giovani e altrettante zitelle, che al dato segno vanno in cerca dei loro genitori, e ciò basta per dar moto a tutti [...]. Ciò non riesce mai senza gran pianto»20.

Nelle lettere di Mozzi e di Tommaso Saverio Pizzi, uno dei suoi più fe-deli compagni21, la descrizione delle popolazioni delle campagne e delle città

17 Ibi, f. 6rv.18 L. Mozzi, Regole per le missioni.19 Ibidem.20 L. Mozzi, Piano per le missioni, f. 9r. 21 Tommaso Saverio Pizzi (1775-1852) fu compagno e allievo di Mozzi nelle missioni

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italiane ricalca un topos molto diffuso nell’Antica Compagnia: l’analogia profonda tra le missioni in Europa e quelle nelle terre lontane22. «Troviamo della grande ignoranza – scriveva Pizzi a Pignatelli – e alle volte invece di confessare bisogna catechizzare incominciando dai ministeri principali [...]. Oh Dio! Che paesi son questi!»23. Dopo una missione sulle galere ormeggiate a Civitavecchia, Pizzi scriveva al provinciale: «Oh che Ginevra è questa! Se pure in Ginevra può esservi tanta incredulità. [...] Sia benedetto il Signore che ha ispirato a Vostra Reverenza di mandarci a salute di questa cara gente. Se il diavolo ha cercato in tanti modi di frastornare questa missione, ne sape-va il perché»24. Nell’Antica Compagnia, il compito dei missionari nell’Euro-pa cristiana «non era minore di quello che altri svolgeva nelle remote Indie, perché anche in Europa c’erano delle Indie: e i loro uomini partivano per i luoghi vicini con l’entusiasmo e con la predisposizione al diverso di chi varcava l’Oceano»25. Nei primi anni dell’Ottocento, in un momento delicato e drammatico per i gesuiti, in cui le missioni estere erano chiuse e la Com-pagnia stava lentamente rinascendo, l’Italia era considerata uno spazio di dedizione e di sacrificio paragonabile alle Indie e le missioni rurali ricorda-vano ai gesuiti quale fosse il loro compito26. Nel 1806, in un biglietto in cui ringraziava Mozzi per la sua instancabile attività missionaria nelle città del Lazio, il cardinale Luigi Valenti Gonzaga ammetteva che nelle lettere del ge-suita gli era sembrato di trovare «le consolanti relazioni delle missioni della Cina e del Giappone»27. Mozzi, che come tanti gesuiti durante il noviziato aveva chiesto di partire per la Cina, aveva trovato le proprie Indie vicino a casa, divenendo così «l’Apostolo d’Italia»28.

intorno a Napoli e a Roma, e continuò l’attività missionaria dopo la morte di Mozzi. Cfr. F. Altini, Vita del P. Luigi Mozzi, pp. 275 ss.

22 Cfr. Adriano Prosperi, “Otras Indias”: missionari della controriforma tra contadini e selvaggi, in Id., America e apocalisse e altri saggi, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, Pisa-Roma 1999, pp. 65-87.

23 Tommaso Pizzi a Pignatelli, Conca, 7/3/1807 (ARSI, Ital. 1004 xi, 11).24 Tommaso Pizzi a Pignatelli, Civitavecchia, 13/5/1807 (ARSI, Ital. 1004, xi, 19). 25 Adriano Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einau-

di, Torino 1996, p. 598. 26 Nel Piano per le missioni Mozzi suggeriva la «funzione dell’acqua di San Saverio» che

consisteva nella benedizione dell’acqua con una reliquia del santo; l’acqua era poi distribuita al popolo. In questo modo Saverio, patrono delle missioni nelle Indie, diveniva un modello anche per le missioni interne. Cfr. L. Mozzi, Piano per le missioni, f. 9r. La stessa funzione era tipica delle missioni gesuitiche del Seicento: cfr. Fulvio Fontana, Pratica delle missioni del padre Paolo Segneri della Compagnia di Gesù, Poletti, Venezia 1714, pp. 17; 22.

27 Card. Luigi Valenti Gonzaga (1725-1808) a Luigi Mozzi, Roma, 7/2/1807 (ARSI, Ital. 1004, xi, 3).

28 Cfr. una biografia manoscritta ottocentesca: «Uscendo di novizio, ai tre voti semplici della Compagnia [Luigi Mozzi] ne aggiunse tre altri, testimoni del fervore di suo spirito; e sono: difendere l’Immacolata Concezione della Vergine; non cercare per alcuna via di andarse-ne dalla religione; pressare i superiori per le missioni delle Indie. Le quali chiese supplichevol-mente com’ebbe terminata la filosofia al Padre Ricci, generale, ma senza pro. L’Italia dovevan essere le sue Indie; dove gli si apparecchiava a raccolta d’anime abbondantissima, con quel tanto di sudore e di stenti che vi durò, da potersene nominar con ragione l’apostolo» (ARSI,

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Esattamente come quelle d’oltremare, le missioni popolari richiedevano che si seguisse alla lettera il metodo della Compagnia, un marchio che dif-ferenziava i gesuiti dagli altri ordini religiosi. Questo tema si ritrova anche nelle lettere di uomini di chiesa, vescovi e cardinali che chiedevano a Mozzi di visitare la propria diocesi o lo ringraziavano per una missione portata a termine. In esse ricorre l’elogio delle doti peculiari dei «figli di Ignazio» e del grande bisogno di gesuiti a sostegno della Chiesa, seriamente minacciata in quegli anni.

«Io desidero sinceramente – scriveva nel 1807 il vescovo di Orvieto a Mozzi – di poter fare qualcosa in favore della tanto benefica Compagnia di Gesù, e non mi lasce-rò giammai sfuggire occasione che mi si potrà presentare. [...] Intanto, essendo ben persuaso che la Chiesa per tanti titoli avrebbe bisogno dei figli di Sant’Ignazio, prego Dio che si compiaccia della sua misericordia di presto prosperarla»29.

Ma era soprattutto al suo interno, nella fedeltà al metodo missionario de-gli «antichi padri», che la Compagnia vedeva la possibilità di una continuità con la propria storia. Pignatelli lo confessava a Mozzi, dopo aver letto il suo Piano per le missioni:

«Del metodo sulle missioni che proponete ne discorreremo a bocca, poiché non è da lettera. Vi dico solamente che veruno mi va tanto a genio quanto quello che mi af-facciate, poiché più simile a quello de’ Apostoli e de’ Nostri Fondatori e primi Padri, che andavano alle tali escursioni bini e tante volte soli con un prete o frate ritrovato o mandatogli dal Signore; così andarono i Fabre, i Laínez, Bobadilla»30.

3. Modelli dal passato: povertà visibile e penitenza

Pignatelli si riferiva con orgoglio alla tradizione dei «primi padri» della Compagnia. Fin dall’inizio, infatti, i gesuiti che si dedicavano alle missioni rurali dovevano seguire alcune regole stabilite dalle Costituzioni e dalle suc-cessive Regole delle missioni, adattandole quando necessario alle diverse cir-costanze31. Una regola cui tutti dovevano sottomettersi era la fedeltà a quella che è stata efficacemente definita la «povertà visibile», ossia l’esemplarità della condotta dei missionari durante la missione, considerata indispensabile

Vitae 1095, ff. 270-271). Nella storia dell’Antica Compagnia molti celebri missionari popolari avevano chiesto senza successo di partire per le Indie.

29 Giovanni Battista Lambruschini (vescovo di Orvieto) a Luigi Mozzi, 19/4/1807 (ARSI, Ital. 1004, ix, 27). Negli stessi anni Valenti Gonzaga riconosceva a Mozzi «uno zelo partico-lare, e un fervore degno di un figlio di Sant’Ignazio». Cardinal Luigi Valenti Gonzaga a Luigi Mozzi, Roma, 17/12/1806 (ARSI, Ital. 1004, xi, 3). Fabre, Laínez e Babadilla erano tra i primi compagni di Ignazio.

30 Pignatelli a Mozzi, Roma, 29/10/1806 (ARSI, Archivio della Postulazione Generale, 829 E, Lettere al Beato, n. 34).

31 Regulae eorum, qui in missionibus versantur, in Institutum Societatis Iesu, vol. iii, Ex Typographia a SS. Conceptione, Roma 1893, pp. 19-22.

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per commuovere e convertire il popolo32. Già Silvestro Landini (1503-1554), uno dei primi gesuiti impegnati nelle missioni rurali, lo aveva rilevato nelle sue lettere33. Occorreva viaggiare rigorosamente a piedi, spesso scalzi, ac-contentarsi di un vitto modestissimo, senza concedersi nulla che non fosse strettamente necessario per la sopravvivenza; bisognava fare attenzione a non dipendere economicamente dal popolo, a «non cercare né ricevere nul-la»; ancora una volta, più delle parole, erano di grande efficacia gli aspetti visibili e sensibili. La condotta dei missionari era una assoluta priorità per i gesuiti, come mostrano anche gli scambi epistolari tra Mozzi e Pignatelli. Mozzi non smetteva di ripeterlo: «Sant’Ignazio niente più raccomandava di questo disinteresse; San Saverio raccomandava che nei luoghi dove si opera-va non si ricevesse cosa alcuna»34. Sul consumo del vino, osservava ancora Mozzi, «Pizzi ed io sinora non siamo stati in bisogno di [chiederlo] perché non ne bevevamo. Questa era forse la cosa che dava più di edificazione»35. E quanto al viaggiare, Mozzi non aveva dubbi:

«Credo opportuno che [i viaggi] si facciano mendicando, e a piedi. Meglio sarà se a piedi scalzi, o colle sole scarpe. Ho veduto che ciò sul popolo fa una grandissima impressione. San Francesco Saverio, molti altri de’ nostri uomini apostolici, molti degli stessi ultimi missionari italiani li facevano a questo modo. Quando io l’ho praticato, né io né li miei compagni ne abbiamo mai sentito danno. Altronde il patimento l’abbiam trovato assai minore di quello [che] credevamo, e non è che dei primi giorni»36.

Agli inizi dell’Ottocento, esattamente come nel xvi secolo, si pensava che lo stile di vita dei missionari e la loro povertà visibile potessero suscitare l’ammirazione per la Compagnia e contribuire ad allargarne le fila.

«La sera – raccontava Pizzi in una relazione – ci tenevamo compagnia assieme con diversi secolari nell’atto che facevamo la nostra piccola refezione, e mi pare che siasi sempre tenuta una ricreazione di somma gloria a Dio, perché molti si sono invogliati di praticare qualche mortificazione sull’esempio di noi, che non abbiamo giammai alterato il sistema di mangiar poco e bever sempre acqua [...]. Sia detto ciò a sola gloria di Dio e a giusta lode della nostra buona madre la Compagnia, che ne ha data l’educazione. Tutti erano invogliati di farsi gesuiti e di seguirci nelle missioni, per-sino i ragazzi»37.

32 B. Majorana, La pauvreté visible.33 Su Landini, cfr. Carlo Luongo, Silvestro Landini e le “nostre Indie”, Atheneum, Scan-

dicci 2008; Bernadette Majorana, «Siendo y mostrándose». Silvestro Landini missionario ge-suita: fondamenti spirituali di un modello di apostolato (1540-1554), in Guido Dall’Olio - Adelisa Malena - Pierroberto Scaramella (eds.), La fede degli italiani. Per Adriano Prosperi, Edizioni della Normale, Pisa 2011, vol. i, pp. 333-345.

34 Luigi Mozzi, Al padre provinciale. Sopra alcuni punti relativi alle missioni (ARSI, Ital. 1004, x, 4).

35 Ibidem. 36 Ibidem.37 Relazione sulla missione di Conca di Tommaso Pizzi, ARSI, Ital. 1004, xi, 13.

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Tale era il desiderio di essere fedeli alle proprie origini che anche quando Mozzi aveva chiesto a Pignatelli la possibilità di adattare alcune delle con-suetudini dei primi gesuiti alle circostanze dell’Italia del primo Ottocento, Pignatelli era stato inflessibile e Mozzi era dovuto tornare sui propri passi38. Alcuni anni più tardi Mozzi ricordava in questi termini la discussione con il provinciale:

«[Il padre Pignatelli] amava che nelle missioni si andasse mendicando il vitto di porta in porta, e si andasse a piedi. Per confortarmi su questo mi recava l’esempio de’ primi nostri Padri. Facendogli io qualche obbiezzione sulle circostanze de’ tempi, mi rispondeva in sostanza che tutti i tempi sono buoni quando si ama l’umiliazione, e la mortificazione»39.

Il metodo missionario proposto da Mozzi e sostenuto da Pignatelli non era debitore solo delle origini della Compagnia, ma anche delle continue innovazioni ispirate dall’esperienza sul campo che intorno alla metà del xvii secolo erano state codificate ed erano divenute normative.

Una figura di spicco del Seicento fu il gesuita Paolo Segneri seniore (1624-1694)40 che per oltre vent’anni si era dedicato alle missioni nelle aree rurali dell’Italia centro-settentrionale accompagnato da Gian Pietro Pina-monti (1632-1703). Segneri insisteva sulla spettacolarità delle missioni e sulle funzioni penitenziali, spesso considerate inappropriate da altri confra-telli e da membri di altri ordini religiosi. Grazie a una poderosa letteratura edificante, Segneri e Pinamonti incarnarono il modello dei «missionari per-fetti» e il loro approccio cominciò ad essere considerato il metodo gesuitico per eccellenza.

Durante il xviii secolo la popolarità del metodo di Segneri andò lenta-mente declinando. La fatica richiesta ai due missionari che dovevano andare soli in missione pareva eccessiva ed esigeva uomini dalle doti straordinarie; inoltre la brevità delle missioni sembrava insufficiente per popolazioni spes-so prive della più elementare istruzione religiosa; infine le penitenze pubbli-che parevano incompatibili con la mutata sensibilità dei fedeli, soprattutto nelle città. Lentamente, altri ordini religiosi, in particolare i lazzaristi, comin-

38 In una lunga lettera a Pignatelli, Mozzi sosteneva che mendicare il vitto secondo la con-suetudine dei primi gesuiti avrebbe potuto influenzare negativamente l’esito delle missioni poi-ché talvolta il popolo guardava con sospetto ai missionari che chiedevano un aiuto materiale; inoltre egli riteneva che viaggiare a piedi non fosse sempre possibile, poiché molti dei missio-nari erano anziani, e i giovani non erano abituati a tali fatiche. L. Mozzi, Al padre provinciale.

39 Mozzi ad Angelo Mai, 1812 (ARSI, Archivio della Postulazione Generale, 829 B, 22, Documenti e testimonianze circa la vita, f. 18).

40 Su Paolo Segneri seniore (per distinguerlo dal nipote, anch’egli missionario popolare della Compagnia di Gesù) si veda: Benedetto La Padula (ed.), Padre Paolo Segneri a 380 anni dalla nascita, Edizioni del Gonfalone, Nettuno 2004; Rocco Paternostro - Andrea Fedi (eds.), Paolo Segneri: un classico della tradizione Cristiana. Atti del Convegno Internazionale di Studi su Paolo Segneri, Forum Italicum, New York 1999; Ezio Bolis, L’uomo tra peccato, gra-zia e libertà nell’opera di Paolo Segneri sj (1624-1694). Emblema di un approccio «Pratico-morale» alla teologia, Glossa, Roma 1996.

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ciarono a prendere il sopravvento proponendo missioni più lunghe, orientate alla catechesi e più moderate nell’uso di stratagemmi teatrali41. Vi furono an-che tentativi di elaborare metodi alternativi: il frate minore Leonardo di Porto Maurizio (1676-1751), notissimo missionario popolare, pur avendo appreso il metodo delle missioni dai gesuiti, si fece promotore di una via mediana tra l’approccio «tutto fuoco» dei gesuiti e quello «tutto quiete» dei lazzaristi42.

Il metodo di Mozzi, descritto nel Piano e nelle Regole era fedele al model-lo segneriano, non solo nella teatralità e nell’uso delle immagini, ma soprat-tutto nella pratica delle penitenze pubbliche che con Segneri erano divenute il pilastro delle scorrerie apostoliche. Mozzi raccomandava le processioni di penitenza, che «non si omettevano mai dai due Segneri e dal padre Trento»43. Si trattava di penitenze pubbliche che, ammetteva Mozzi, «adesso poco si amano»: esse erano però di grande efficacia e non andavano omesse del tutto, si poteva – se necessario – proporne una versione moderata. La sera, durante l’oratorio riservato agli uomini, Mozzi, sull’esempio di Segneri, consigliava di non omettere mai la «disciplina». «Si estinguono i lumi affinché si spogli chi vuole. [...] La sera precedente il missionario avviserà il popolo [...] affin-ché ognuno possa venire fornito di corde, avvertendo insieme che niuno si batta con sassi né con troppo grosse catene, o altri stromenti, che pregiudicar possano la salute»44.

Ancora, vi era lo «strascico della lingua», cioè l’usanza di trascinare la lingua sul pavimento come gesto di penitenza, che a detta di Mozzi era ancora in uso nel Regno di Napoli ma che andava raccomandato solo a chi fosse già esperto di tale pratica. Ma ancor più delle penitenze imposte al popolo, la vera innovazione introdotta da Segneri e seguita fedelmente da Mozzi consisteva nelle penitenze pubbliche dei missionari, che si flagella-vano, camminavano scalzi e facevano altri gesti clamorosi come accadeva, tra l’altro, nella funzione del «cambiamento dell’abito» descritta da Mozzi nel dettaglio.

41 Stefania Nanni, Réformistes et rigoristes: les missions italiennes et la crise religieuse du xviiie siècle, in C. Sorrel - F. Meyer (eds.), Les missions intérieurs, pp. 263-270.

42 Leonardo di Porto Maurizio fu per alcuni anni al seguito di Paolo Segneri iuniore, ma poi elaborò un metodo missionario diverso. Anche i redentoristi seguirono una «terza via»: interessante, a questo proposito, un testo del redentorista Vincenzo Gagliardi completato nello stesso anno del Piano per le missioni di Mozzi (1806). Vincenzo Gagliardi, Direttorio aposto-lico ossia metodo di missione, ed. Giuseppe Orlandi, Collegio S. Alfonso, Roma 1982.

43 Paolo Segneri seniore (cfr. nota 40) e iuniore (cfr. nota 57), zio e nipote, erano celebri missionari popolari; Filippo Trento (1688-1761) fu un noto missionario popolare nella diocesi di Pistoia.

44 L. Mozzi, Regole. In un documento successivo, Mozzi aggiungeva: «Queste [discipline] vanno praticate, soprattutto in questi tempi, con molta cautela e prudenza. È certo che usate a tempo e luogo fanno effetto meraviglioso, e soprattutto la pubblica disciplina; ma bisogna ben pesare le circostanze del tempo, del luogo, e del popolo. Fatte a contrattempo possono recare anzi pregiudizio che vantaggio. Crederei dunque doversi praticare o no secondo si crederà opportuno». L. Mozzi, Al Padre Provinciale (fogli non numerati). Cfr. Bernadette Majorana, L’arte della disciplina corporale nella predicazione popolare dei gesuiti, in «Teatro e Storia» 20-21 (1998-1999), pp. 209-230.

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«[Il cambiamento dell’abito] si pratica quando il missionario voglia mettersi in abito di penitenza, e suol cadere alla predica della penitenza che si dà il dopo pranzo del primo o secondo giorno. Volendosi fare questa mutazione, il missionario deve far la predica sempre la sera in cotta e stola, sino al giorno in cui cambia l’abito. In tale giorno monta pure in cotta e stola sul palco, sul quale fa regolarmente riporre una corda da mettere al collo, una corona di spini da riporre sul capo, una catena da strin-gersi ai piedi ed una disciplina. Monta sul palco senza calze, ma colle scarpe. Intima la penitenza. Dopo averla con forza persuasa e arrossendo di ridicolo in tal abito, dice di volerla abbracciare il primo. Allora depone la berretta, la stola, la cotta, [...] poi cinge la catena ai piedi e gitta le scarpe, mette la corda al collo, la corona di spini sul capo [...] poi prende la disciplina e si batte. Da lì in poi questo missionario dovrebbe andar sempre a piedi scalzi, ma lo faccia almeno nella processione dell’oratorio, e da lì in poi predica come gli altri in mozzetta, e se vuole, con la corda al collo. Questa funzione fatta bene riesce molto commovente»45.

A più di un secolo di distanza, Mozzi proponeva la funzione secondo lo stile di Segneri; in essa il missionario si mostrava come peccatore e peni-tente, e si immedesimava con il popolo dei fedeli e con Gesù sofferente: «a partire dall’ultimo trentennio del Seicento, la figura del predicatore che si flagella di fronte al popolo campeggia nella predicazione rurale dei gesuiti, divenendo l’emblema dei valori penitenziali, riparatori, modellizzanti della missione, ma anche un’arte magistralmente posseduta, condotta a perfezione per servire alle strategie di conversione dei semplici»46. Mozzi e i missionari del suo seguito si sottoponevano a una disciplina rigidissima tanto che lo stesso Pignatelli, che pure ne condivideva la necessità, spesso li richiamava alla «santa, discreta moderazione» nelle flagellazioni, «per poter più lunga-mente laborare la vigna del Signore»47.

45 L. Mozzi, Piano per le missioni. Cfr. anche la relazione di Pizzi sulla missione ad Ardea: «La seconda sera fece il padre Mozzi il cangiamento dell’abito terminando col battersi colla corda; d’indi in poi andammo sempre a piè scalzi, e il padre Mozzi teneva di più nel tempo che predicava la corda al collo» (Relazione di Tommaso Pizzi sulla missione ad Ardea, ARSI, Ital. 1004, xi, 13).

46 Bernadette Majorana, Le missioni popolari dei gesuiti italiani. Il teatro della compas-sione, in C. Sorrel - F. Meyer (eds.), Les missions intérieures, pp. 87-102, qui p. 89. «L’assi-milazione con i fedeli è ottenuta, dunque, mediante il legame che i gesuiti intenzionalmente istituiscono tra missionario e popolo nella mortificazione. I missionari che si disciplinano, proclamandosi colpevoli, agiscono con grande efficacia rappresentativa: sotto gli occhi dei presenti mutano d’abito, d’insegne, di gesto, per mettere in evidenza – rispetto a quello di sacerdoti autorevoli, che predicano la penitenza e amministrano il perdono – il loro statuto di uomini peccatori, anzi di peccatori i più grandi e i più bisognosi. Privati così di ogni segno di autorità e di sacralità, sommuovono gli affetti dei fedeli e ne colpiscono la fantasia alludendo al modello di Gesù umiliato e paziente, nella cui morte e risurrezione si prospetta tuttavia il riscatto». Ibi, p. 92.

47 Pignatelli a Mozzi, Roma, 22/2/1807 (ARSI, Archivio della Postulazione Generale, 829 E, Lettere al Beato, n. 45).

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4. Beato missionario

All’inizio del xix secolo, la storia della prima Compagnia continuava a essere decisiva per promuovere le missioni popolari: il fervore missionario poteva essere recuperato e alimentato solo guardando al glorioso passato dei gesuiti. Negli anni tra la soppressione e la restaurazione, un modello di enor-me successo fu Francesco de Geronimo (1642-1716), missionario nelle terre di Lecce e di Otranto e per molti anni a Napoli, dove morì in odore di santità48.

De Geronimo fu beatificato l’11 maggio 1806 da Pio vii, caso unico di un gesuita elevato agli onori degli altari durante gli anni della soppressione. Mozzi e Pignatelli, quest’ultimo da sempre devoto al futuro santo, lavoraro-no alacremente per la beatificazione49. Decisivo fu il contributo dei cardinali Ferdinando Saluzzo di Corigliano (1740-1816) e Giulio Maria della Soma-glia (1740-1830), che in quegli anni sostenevano la Compagnia.

Al triduo solenne per la beatificazione, celebrato nella Chiesa del Gesù di Roma, Pignatelli era presente con un gruppo di confratelli esuli da Napoli. Invece di pubblicare una nuova biografia del beato, come era consuetudine, i gesuiti lanciarono attraverso la stampa un chiaro messaggio identitario: ri-pubblicarono una biografia di Francesco de Geronimo del 1760, mantenen-do il testo originale con l’approvazione dell’allora generale Lorenzo Ricci (1703-1775), morto in carcere dopo la soppressione. In apertura del volume, aggiunsero però una dedica «alla Santità di Nostro Signore Pio Papa Settimo felicemente regnante» firmata dagli «umili confratelli del Beato»50. Il pon-tefice, a detta dei gesuiti, aveva il merito di aver individuato nel beato «un modello da proporre agli Operai della Vigna del Signore, i quali vengono [...] alle più rimote parti della terra inviati a dilazion della Fede e a salvezza delle Anime». Con la beatificazione di Francesco de Geronimo la Compagnia di inizio Ottocento, in attesa della restaurazione, si poneva in perfetta continuità con l’Antica e rivendicava il primato del proprio metodo missionario.

5. Inviolabile la forma

Il metodo missionario proposto da Mozzi e Pignatelli con il riferimento costante all’«antica tradizione» della Compagnia di Gesù non rimase isolato,

48 Cfr. Mario Spedicato (ed.), Nelle Indie di quaggiù. San Francesco de Geronimo e i pro-cessi di evangelizzazione nel Mezzogiorno moderno. Atti del convegno di studio (Grottaglie, 6-7 maggio 2005), Panico, Galatina 2006.

49 Negli anni successivi Mozzi e Pignatelli lavorarono anche per la canonizzazione di Francesco de Geronimo, che avvenne nel 1839 durante il generalato di Jan Roothaan.

50 Longaro degli Oddi, Vita del B. Francesco di Girolamo sacerdote professo della Com-pagnia di Gesù, Pagliarini, Roma 1806. La dedica «Alla Santità di Nostro Signore Pio Papa Settimo felicemente regnante» è alle pagine v-ix. Per l’edizione del 1760: Longaro degli Oddi, Vita del venerabile Servo di Dio Francesco di Girolamo, Rossi, Roma 1760. Cfr. Filippo Iap-pelli, Francesco de Geronimo e Giuseppe Pignatelli. Due uomini fra «vecchia» e «nuova» Compagnia, in «Societas» xxxvi, 4-5(1987), pp. 107-119.

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e negli anni successivi alla restaurazione continuò a comparire nelle lettere e nei documenti dei gesuiti, tra cui il napoletano Paolo Antonio Capelloni (1776-1857), notissimo predicatore di missioni popolari51. «Il metodo da lui costantemente usato in dette Missioni era quello che tenevano gli antichi no-stri padri e che [questi] aveva appreso dal padre Luigi Mozzi, il cui nome fu molto celebre in questo ministero»52. Pur non essendo in tutto simili a quelle proposte da Mozzi, le missioni di Capelloni insistevano sulla teatralità e sulla pubblica disciplina.

«Nella predica sullo inferno dopo aver ripieni di salutare timore gli uditori, il padre Capelloni faceva venir fuori il quadro della Madonna portato da lui a bella posta nelle Missioni. Onde che all’ora assegnata quattro Missionarii si tenevano col qua-dro sulla soglia della chiesa, e il padre Paolo dopo aver dimostrato la necessità di ricorrere a Maria per iscampar l’inferno, si volgeva a chiamare la Beata Vergine. La quale compariva inaspettatamente portata dai Missionarii che, fattisi largo per mezzo alla folla, s’avanzavano per collocarla divotamente sul palco. Ma al princi-pio della predica contro la disonestà, il quadro di Maria santissima si copriva d’un velo o si toglieva del tutto, e si portava altrove il Santissimo; sulla fine quattro altri Missionarii salivano sul palco e insieme col padre Paolo si davano tre volte la disciplina»53.

Le missioni popolari rifiorirono in varie regioni d’Italia soprattutto du-rante il generalato di Jan Roothaan (1829-1853), considerato il vero «rifon-datore» della Compagnia. Roothaan era stato missionario popolare di gran-de successo in Vallese negli anni 1821-1822 e, su richiesta dei superiori, aveva lasciato una traccia scritta delle proprie meditazioni, che circolarono manoscritte e furono poi più volte stampate54. Divenuto superiore generale, Roothaan aveva promosso le missioni sia nelle Indie sia in Europa, e aveva chiesto che ciascuna provincia europea istituisse una «cavalleria volante» di gesuiti destinati alle missioni popolari55.

Come è facile immaginare, il tema dell’identità della Compagnia di Gesù fu centrale durante i primi anni del generalato di Roothaan. La tensione tra

51 Paolo Antonio Capelloni (1776-1857) entrò nella Compagnia nel 1814, dopo la restau-razione; era già sacerdote (ordinato nel 1801 o 1802) e si dedicò all’attività pastorale presso la Chiesa del Gesù di Roma fino al 1811. In questi anni entrò in contatto con Luigi Mozzi e il suo metodo missionario. Entrato nella Compagnia, si dedicò alle missioni popolari e alla diffusione della devozione al Sacro Cuore, all’Immacolata e a Francesco de Geronimo. Cfr. A. Guidetti, Le missioni, pp. 236-253 e ivi bibliografia.

52 Innocenzo Polcari, Della vita del P. Paolo Cappelloni, Civiltà Cattolica, Roma 1865, vol. 2, p. 167.

53 Michele Volpe, I gesuiti nel napoletano, 1814-1914, 3 voll., D’Auria, Napoli 1914-1915, vol. 1, pp. 165-171.

54 Jan Roothaan, Meditationes et instructiones compendiosae pro SS. missionibus, s.e., Laval 1859. Seguirono numerose edizioni.

55 Cfr. Pietro Pirri, P. Giovanni Roothaan xxi generale della Compagina di Gesù, Macioce & Pisani, Isola del Liri 1930, pp. 110-117; Robert North, The General Who Rebuilt the Jesuits, The Bruce Publishing Company, Milwaukee 1944, pp. 100-114; C.J. Ligthart, The Return of the Jesuits, Shand, London 1978, pp. 53-65; A. Guidetti, Le missioni, pp. 213 ss.

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adattamento alle nuove circostanze e fedeltà alla tradizione tornava costan-temente nelle parole e nelle decisioni del generale. Nel 1832 questi portò a termine una riforma della Ratio studiorum per adattare il curriculum dei collegi alle mutate condizioni della società europea; negli stessi anni, però, promosse anche una nuova edizione degli Esercizi spirituali fondata sui ma-noscritti spagnoli e più fedele al testo ignaziano. La stessa tensione tra adat-tamento e fedeltà al passato compare in molte lettere del generale. Nel 1830, per esempio, Roothaan scriveva ad Antonio Bresciani (1798-1862), un noto gesuita italiano destinato a far parte della prima comunità di scrittori della Civiltà Cattolica:

«Molti dicono che i Gesuiti di adesso non sono quelli di prima. E questo è verissimo, né può essere altrimenti. Una pianta di sedici anni, e questa poco coltivata e poco fa-vorita, non può essere quello che era l’albero che contava più di due secoli. Speriamo che quei di adesso saranno col tempo come quei di prima»56.

La medesima tensione attraversava anche il dibattito sulle missioni po-polari. Non bastava portare a termine missioni di successo; non bastava nep-pure essere pronti ad adattarsi alle circostanze e agli interlocutori. Occorreva essere fedeli al metodo missionario della Compagnia e, come soleva ripetere un secolo addietro Paolo Segneri iuniore (1673-1713), bisognava considerare «inviolabile la forma, come che in essa consista il forte di quest’impresa»57.

Nel 1832 Giovanni Battista Sacchetti, futuro missionario popolare ro-mano e direttore dell’Oratorio del Caravita, scrisse una lettera a Roothaan in cui denunciava presso il generale l’assenza di «uniformità» nel metodo missionario58.

«So quanto sia a cuore alla Paternità Vostra il ministero santissimo delle Missioni, e veggo con indicibile consolazione la cura che si dà di farlo rifiorire nella Compa-gnia nostra; e ciò meritamente, essendogli in gran parte debitrice la Compagnia della stima che gode ancora presso de’ popoli; ed anche per esser questo, a mio credere, l’unico rimedio, da cui al presente sperar si possa qualche giovamento. Ma novella com’è la Compagnia ha bisogno, come nel resto così anche in questo, d’indirizzo, e di norma, onde non abbia a deviare dal buon sentiero. Sinora le circostanze e l’altre cure non l’han permesso, quindi è avvenuto che ciascuno ha fatto a suo modo, e si son seguiti tanti metodi di missionare quanti erano i geni, i fervori, e talvolta i pregiudizii de’ Missionanti; ed ecco tolta l’uniformità tanto propria nostra, ed ecco il dire che noi non sappiamo più dar le missioni. [...] E sebbene anche in questo bisogni adattarsi ai

56 Roothaan a Bresciani, Roma, 19/6/1830, in Epistolae Ioannis Phil. Roothaan, Apud Postulatorem Generalem, Roma 1935-1940, vol. 2, pp. 15-16.

57 Francesco Maria Galluzzi, Vita del P. Paolo Segneri juniore, Komarek, Roma 1717, p. 255; B. Majorana, Une pastorale spectaculaire, p. 317. Paolo Segneri iuniore (1673-1713) fu nipote dell’omonimo gesuita; fu missionario popolare in Italia centro-settentrionale e seguì il metodo dello zio, con alcune modifiche.

58 Giovanni Battista Sacchetti (1796-1869) nacque a Roma da famiglia nobile ed entrò nella Compagnia nel 1816. Dal 1833 fu direttore dell’Oratorio del Caravita – un importante centro dell’apostolato gesuitico a Roma – dove si dedicò alla catechesi, alla confessione e alla predicazione. Su Sacchetti cfr. A. Guidetti, Le missioni popolari, pp. 257-258.

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tempi, credo però che quanto meno si scosterà dall’uso dei nostri buoni vecchi, tanto riuscirà più fruttuoso alle anime»59.

Sacchetti non negava l’importanza di «adattarsi ai tempi», ma riconosce-va tra le priorità la necessità di determinare un metodo che non si discostasse «dall’uso dei nostri buoni vecchi», e suggeriva, nel seguito della sua lettera, l’esempio di Paolo Segneri seniore e iuniore60.

Qualche anno più tardi (1838), il provinciale di Napoli Gennaro Maria de Cesare inviò alla provincia napoletana una lettera sulle missioni affinché «le così dette scorrerie apostoliche [...] sieno uniformi, e secondo il costume della nostra Compagnia»61. Anche in questo caso il provinciale ammetteva la possibilità di «adattare al luogo, alla condizione, alla circostanza degli uditori» il metodo missionario ma, allo stesso tempo, ribadiva la necessità di rimanere fedeli al metodo «de’ nostri famosi missionari». Chi fossero i mis-sionari da seguire era evidente: De Cesare proponeva infatti un modello di missione che richiamava quello di Segneri e dei suoi seguaci, con l’oratorio serale e la disciplina, gli svegliarini, la predica sulla morte con il teschio e le due bandiere nella funzione degli stendardi. La fedeltà al modello elaborato nel corso del Seicento rimaneva decisiva nel xix secolo62.

6. Tra «accommodatio» e «imitatio»: identità e missione

Nell’Italia di inizio Ottocento le missioni popolari furono decisive per la lenta rinascita della Compagnia di Gesù. L’impulso dato alle missioni da José Pignatelli, attraverso l’opera di Luigi Mozzi e di altri confratelli, contribuì a diffondere la convinzione che i «figli di Ignazio» erano indi-spensabili per la Chiesa. In quegli anni, le missioni popolari furono un mi-nistero fondamentale anche per gli stessi ex-gesuiti: l’insistenza sul metodo e sull’eccezionalità del loro «modo di procedere», mostrava ai gesuiti quali fossero il loro compito e il loro contributo alla Chiesa universale, dopo anni di silenzio e quando ormai altri ordini religiosi avevano preso il loro posto nelle missioni popolari.

La «forma inviolabile» delle missioni aveva quindi un valore identitario decisivo. I vivaci dibattiti sul metodo oscillavano tra la necessità di adattarsi alle circostanze, in un mondo così diverso da quello descritto dalla letteratura

59 Sacchetti a Roothaan, Ferrara, 2/12/1832. ARSI, AIT 1, fasc. 4. La lettera è pubblicata e commentata in Emanuele Colombo - Marina Massimi, In viaggio. Gesuiti italiani candidati alle missioni tra Antica e Nuova Compagnia, «Il Sole 24 Ore», Milano 2014, pp. 157-159.

60 Sacchetti raccomandava di leggere il libro di F. Fontana, Pratica delle missioni del pa-dre Paolo Segneri, che ebbe grandissima fortuna e contribuì a diffondere il metodo missionario di Paolo Segneri. Cfr. S. Nanni, Réformistes et rigoristes, pp. 265-266.

61 Lettera pubblicata in M. Volpe, I gesuiti nel napoletano, vol. 1, pp. 71-74.62 In un documento del 1910 il generale Franz Xaver Wernz richiamava i gesuiti a dedicar-

si alle missioni interne «con ordine prefissato [...] col metodo veramente legittimo e apostolico adottato dai migliori nostri Missionari, per esempio dal P. Segneri»: in «Acta Romana Societa-tis Iesu» 1 (1910), Roma 1911, p. 59.

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missionaria del Sei-Settecento, e il bisogno di imitare i modelli del passa-to, dimostrando come la Compagnia non si fosse mai estinta e vivesse in continuità con la propria storia; le gloriose missioni dell’Antica Compagnia diventavano in questo modo attuali anche per chi non ne aveva mai avuto esperienza diretta.

Nessuno negava l’utilità di adattarsi alle circostanze, seguendo il meto-do della accommodatio che anche nelle missioni popolari aveva da sempre caratterizzato lo stile della Compagnia63. Tuttavia, in un momento partico-larmente delicato, era soprattutto la fedeltà al passato a mostrare ai gesuiti la propria identità. Nel caso delle missioni popolari il modello da imitare poteva essere quello della «povertà visibile» della prima generazione, quello delle penitenze ostentate di Segneri e compagni, o quello di un missionario santo come Francesco de Geronimo. E anche se il mondo sembrava non compren-dere più il metodo «dei nostri buoni vecchi», occorreva seguirlo e diffonderlo con la maggiore fedeltà possibile.

All’inizio dell’Ottocento i gesuiti si interrogavano sul proprio destino: come sarebbe diventata e come avrebbe dovuto essere la «nuova» Compagnia di Gesù? Per comprendere il futuro essi cercavano di adattarsi alle circostanze presenti (accommodatio), ma soprattutto tenevano lo sguardo fisso sul passato (imitatio). Il passato della Compagnia doveva dare forma al suo futuro. Lo aveva detto con chiarezza Roothaan quando, nella già citata lettera, ammet-teva che i gesuiti non erano ancora come «quelli di prima», ma aggiungeva: «speriamo che quei di adesso saranno col tempo come quei di prima».

ABSTRACT

In the years of the supression of the Company of Jesus and in the first years following its restoration, popular missions in Italy had a crucial role in shaping and sustaining Jesuit identity. Showcasing the excep-tionality of the Jesuit missionary method was, during the years of the suppression of the order, a way in which Jesuits could both mantain an understanding of their order’s distinctinevess and also plead the case of the order’s restoration. In the first few decades following the Company’s restoration, debates on missionary methods stressed the importance of adaptation to contemporary circumstances, so different from those of the xviii century, but also emphaseized the need to remain true to the Com-pany’s own traditions. It thus was the case that even in this period the imitation of established practices remained crucial: the ancient traditions of the Company were there to guide its future.

63 Cfr. David Gentilcore, Accomodarsi alla capacità del popolo. Strategie, metodi e impat-to delle missioni nel regno di Napoli, 1600-1800, in «Mélanges de l’Ecole française de Rome. Italie et Méditerranée» 109, 2(1997), pp. 689-722.

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Colombo - Identità e missione 301

Negli anni della soppressione della Compagnia di Gesù e nei primi anni dopo la restaurazione, le missioni popolari in Italia ebbero un im-portante valore identitario. Durante la soppressione, mostrare l’ecce-zionalità del metodo missionario gesuitico era il modo con cui i gesuiti comprendevano se stessi e comunicavano all’esterno l’urgente necessità di restaurare la Compagnia. Nei primi decenni dopo la restaurazione, i dibattiti sul metodo missionario ponevano l’accento ora sull’importan-za di adattarsi alle circostanze presenti, così diverse da quelle del xviii secolo, ora sulla necessità di rimanere fedeli alla propria storia. Anche in questo periodo l’imitazione dei modelli del passato rimase decisiva: l’antica tradizione della Compagnia doveva dare forma al suo futuro.

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302 “Vecchio” e “Nuovo” nella compagnia di Gesù

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