genere e world history

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Storiografie sperimentali. Genere e world history Giulia Calvi «Storica», nn. 43-44-45 Una nuova egemonia interpretativa si sta profilando negli studi di genere. Diffusa e discussa essenzialmente sulle riviste anglo americane e nelle università statuniten- si, si colloca all’interno della world/global history di cui interroga, discute e ripensa problematiche, definizioni, categorie. Le proposte di integrazione della storia delle relazioni di genere nella world history, di cui darò conto nelle pagine che seguono, hanno di fatto rilanciato una di- scussione internazionale vivace, che costringe a ripensare le categorie fondanti di questo campo di ricerca, a lungo dominato dal linguaggio e dalle tradizioni di una storia «dell’Occidente». Non solo la ricerca sul genere, e per- ciò anche l’ambito ormai molto esteso dei men’s studies, ma anche quelli di storia della famiglia e delle donne, che risalgono molto più indietro nel tempo, ne sono profon- damente attraversati 1 . Questa fase è stata efficacemente definita «una seconda battaglia per l’integrazione» 2 dopo la prima, che mirava a ripensare, a partire dall’esperienza e dalla soggettività delle donne, le scansioni, le svolte e i temi della storia occidentale. Queste pagine si propongono di mettere a fuoco le ri- flessioni che accompagnano l’emergere della nuova ege- monia interpretativa che sposta in direzione di una storia globale una pratica storiografica che tende a prediligere ambiti di ricerca «particolari», circoscritti, soprattutto in Italia, alla comunità, alla regione, alla nazione, entro ar- chi temporali che interrogano lunghe durate e continuità. 1 N. Milanich, Whither Family History? A Road Map from Latin Amer- ica, in «The American Historical Review», 112, 2007, 2, pp. 7-29. 2 M.L. Roberts, The Transnationalization of Gender History, in «His- tory and Theory», 44, 2005, p. 461.

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Storiografie sperimentali.Genere e world history

Giulia Calvi

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3-44

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Una nuova egemonia interpretativa si sta profilando negli studi di genere. Diffusa e discussa essenzialmente sulle riviste anglo americane e nelle università statuniten-si, si colloca all’interno della world/global history di cui interroga, discute e ripensa problematiche, definizioni, categorie. Le proposte di integrazione della storia delle relazioni di genere nella world history, di cui darò conto nelle pagine che seguono, hanno di fatto rilanciato una di-scussione internazionale vivace, che costringe a ripensare le categorie fondanti di questo campo di ricerca, a lungo dominato dal linguaggio e dalle tradizioni di una storia «dell’Occidente». Non solo la ricerca sul genere, e per-ciò anche l’ambito ormai molto esteso dei men’s studies, ma anche quelli di storia della famiglia e delle donne, che risalgono molto più indietro nel tempo, ne sono profon-damente attraversati1. Questa fase è stata efficacemente definita «una seconda battaglia per l’integrazione»2 dopo la prima, che mirava a ripensare, a partire dall’esperienza e dalla soggettività delle donne, le scansioni, le svolte e i temi della storia occidentale.

Queste pagine si propongono di mettere a fuoco le ri-flessioni che accompagnano l’emergere della nuova ege-monia interpretativa che sposta in direzione di una storia globale una pratica storiografica che tende a prediligere ambiti di ricerca «particolari», circoscritti, soprattutto in Italia, alla comunità, alla regione, alla nazione, entro ar-chi temporali che interrogano lunghe durate e continuità.

1 N. Milanich, Whither Family History? A Road Map from Latin Amer-ica, in «The American Historical Review», 112, 2007, 2, pp. 7-29.

2 M.L. Roberts, The Transnationalization of Gender History, in «His-tory and Theory», 44, 2005, p. 461.

Filo rosso2

Tenterò di delinearne i processi di formazione, gli ambiti di produzione e circolazione, le tensioni interne e le diffi-coltà e, per quanto mi sarà possibile entro i limiti di queste pagine, di accennare alle sollecitazioni e alle potenzialità che queste prospettive analitiche mettono in campo.

1. Produzione di saperi

Lo sviluppo della ricerca sul genere e sull’uso analitico di questa categoria conosce, com’è noto, cronologie mol-to diversificate che collocano il decennio fra la fine degli anni settanta e ottanta negli Stati Uniti e in Europa nord occidentale come periodo fondativo. Negli Usa, a parti-re dagli anni novanta, si assiste a un progressivo amplia-mento della ricerca in direzione di aree geopolitiche non occidentali, e poi in prospettiva di una world history che continua a essere definita in modi non unanimi, a volte contraddittori fra loro e dove il termine stesso di world si confonde e viene sostituito con un più aggiornato e appe-tibile global. Questa diffusione non comprende soltanto la ricerca, ma anche e soprattutto la didattica nelle univer-sità nord- americane dove i corsi di world history hanno progressivamente rimpiazzato gli insegnamenti tradizio-nali di western civilization, ormai obsoleti per via dell’ap-proccio lineare, modernizzante ed eurocentrico. Nata nel 1982, la World History Association promuove lo studio della storia global e si affianca al gruppo di discussione H-World su internet e a due riviste, «Journal of Global History» e «Journal of World History».

Gli area studies avevano da tempo incoraggiato un’apertura in direzione di una prospettiva comparata e globale della storia degli Stati Uniti, dove le master narra-tives sulla schiavitù, i mercati, la formazione degli imperi venivano ripensate e messe in discussione dalle nuove sto-riografie critiche (il gruppo dei subaltern studies ad esem-pio). In larga parte è proprio la presenza di questi teorici della critica alla modernità e alla centralità dell’Occidente nelle università statunitensi a produrre un rovesciamento di ottica, dove la decostruzione delle categorie analitiche binarie (est/ovest; egemone/subalterno; storia/narrazio-ne) si accompagna a una proposta di «provincializzare» l’Europa, interrogandosi sui modi e le forme con cui la

Calvi, Titoletto???????????? 3

scrittura storica possa recuperare le voci «altre». È però anche la dimensione della ricerca prodotta negli Usa – ba-sti guardare al caso dell’America Latina – e il suo «incon-tro» con quella prodotta altrove ad arricchire e a proble-matizzare una storia delle relazioni di genere, preparando, per così dire, quella che si porrà in prospettiva globale.

Sfogliando le pagine della «Hispanic American His-torical Review», si rendono visibili le dinamiche cultura-li, le reti accademiche, la decisiva importanza di accedere all’inglese di una rivista internazionalmente prestigiosa da parte di una storiografia a lungo periferica, nella costru-zione di un campo di ricerca che si pone come comparato, transnazionale e sensibile ad una prospettiva globale. Il riferimento all’estensione di questi campi di ricerca in cui l’incontro fra culture linguistiche, accademiche e intellet-tuali produce ibridazioni interessanti, non può che restare sullo sfondo della mia riflessione in questa sede. Vorrei solo accennare alla rilevanza di questi cultural transfers nell’ambito della ricerca su famiglia, donne, genere dove all’esportazione, per così dire, di categorie e storiografie dall’Occidente, corrisponde un’appropriazione di ricer-ca primaria condotta in ambito locale e che entra nella storiografia e nel dibattito internazionale attraverso la mediazione accademica nord americana3. L’incontro fra la storiografia nord americana e la ricerca negli archivi messicani e brasiliani produce un’assimilazione asimme-trica in cui la categoria di genere, predominante nella pro-duzione Usa, riceve scarsa attenzione e a volte rifiuto da parte della ricerca latino americana, che l’identifica con il linguistic turn e il riduzionismo post modernista. Soprat-tutto in Brasile, prima della fruttuosa stagione di ricerca sulle famiglie degli schiavi, la lezione di Gilberto Freyre4 continua a segnare a lungo gli studi sulla household e sulla sua composizione razziale e dove le nozioni di parente-la, famiglia, donne, consentono uno scavo più attento alle concrete peculiarità dei contesti. Alle sollecitazioni sto-riografiche della ricerca statunitense sull’America Latina

3 S. Caulfield, The History of Gender in the Historiography of Latin America, in «Hispanic American Historical Review», 81, 2001, 3/4, pp. 449-90.

4 J.D. Needell, Identity, Race, Gender and Modernity in the Origins of Gilberto Freyre’s Oeuvre, in «The American Historical Review», 100, 1995, 1, pp. 51-77.

Filo rosso4

(Messico e Cile) attente all’analisi dei linguaggi e all’uso del genere come categoria relazionale, la produzione lati-no americana fa valere la propria tradizione marxista dove prevale un fuoco analitico sulla classe e sulle donne, sui regimi matrimoniali e familiari, sulle norme giuridiche e sociali5 e dove – dall’Argentina al Cile, dal Messico al Brasile e al Perù dalla prima colonizzazione fino al No-vecento – la categoria «mediterranea» di onore continua a riscuotere un consenso storiografico esteso6. Negli ultimi anni gli aspetti materiali e simbolici delle relazioni di ge-nere, intrecciati alle categorie di razza, classe, provenienza e generazione, fanno parte del bagaglio analitico con cui si studia l’onore. Infine, una ricca produzione sul matrimo-nio, la sessualità e la vita familiare intesa anche come luo-go di resistenza all’occidentalizzazione e alla cristianizza-zione imposte nel periodo coloniale, si muove in parallelo alla ormai imponente quantità di lavori sulla formazione degli imperi coloniali e sulla politica di controllo dell’inti-mità (intimacy) dall’India, al Sud Est asiatico, all’America Latina7.

Queste prime osservazioni sull’incontro e i trasferi-menti culturali fra storiografie introducono alle proble-matiche che percorrono le proposte di una gendered world history: innervarla cioè di storiografia critica, che contesti le master narratives dell’imperialismo e del capitalismo, attraverso un’ibridazione fra le nozioni foucoultiane di potere, habitus (Bourdieu), egemonia (Gramsci), genere e microstoria. Si muove in questa direzione la monografia di Linda Colley (significativamente sottotitolato A Woman in World History)8 in cui, tuttavia, la scelta di porre al cen-tro della narrazione la vicenda di una singola eccezionale viaggiatrice non convince pienamente. Muovendo da una contestualizzazione documentaria che si avvale di diari di viaggio, lettere e atti notarili che rivendicano il possesso di proprietà sparse per il mondo, Elisabeth Marsh agisce e rappresenta se stessa all’interno di una rete di dipendenze

5 H. Tinsman, A Paradigm of Our Own: Joan Scott in Latin American History, in «American Historical Review», 2008, NUMERO???, pp. 1357-74.

6 Caulfield, The History cit., pp. 466-8.7 Bodies in Contact. Rethinking Colonial Encounters in World History,

eds. T. Ballantyne and A. Burton, DukeU.P., Durham and London 2005.8 L. Colley, The Ordeal of Elisabeth Marsh, Harper Press, New York

2007.

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familiari tipiche dell’antico regime. Riconfigurare questo orizzonte di aspettative e possibilità in termini di world history, appare una trovata editoriale più che una propo-sta di inserimento di una storia di famiglia/di genere in prospettiva mondo, dove la coerenza spazio temporale derivata dalla scala biografica prescelta e dalla descrizione «densa», salvaguarda la dimensione analitica dalla generi-cità a volo di uccello di tanta storia globale.

2. Convergenze, uniformità, parallelismi

Writing world history can help us uncover a variety of hidden meta-narratives... the marginal has always worked to construct the grand narrative… especially before the mid XIX century it was common for people on the fringes to become his-torically central... people easily crossed often flexible bounda-ries9.

Così scrive Christopher Bayly in una recente opera di sintesi sulla nascita del mondo moderno fra la Rivo-luzione americana e la prima guerra mondiale. L’asse at-torno a cui ruota la narrazione è quello che caratterizza la world/global history, e cioè l’individuazione dei proces-si di convergenza, anche se, prima del Novecento, «the heterodox, the fluid, the eccentric were still everywhere in view». La sua storia del mondo moderno rifiuta per-ciò l’idea che esista una qualunque contraddizione fra lo studio del frammento sociale e dei subalterni e quello dei grandi processi che costruiscono la modernità, inter-pretata anche, nel testo, come bodily practices, pratiche corporee tendenti verso l’uniformità. Il lavoro di Bayly è una proposta, seppure solo accennata nei contenuti e nella concretezza dei risultati di ricerca, di integrazione fra la world history e le storie che la compongono a par-tire da aree di interazione sociale in cui il genere e il cor-po sono declinati non all’interno di una storia dei gruppi sociali e della famiglia, ma della rappresentazione del sé nella sfera pubblica. L’uniformità dell’abito e del com-portamento significa la necessità di rappresentarsi pubbli-camente in modi simili e non si esaurisce nell’adozione

9 C.A. Bayly, The Birth of the Modern World, 1780-1914, Blackwell, Oxford 2004, p. 9.

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dell’abito occidentale, ma comprende anche la crescita di uniformità analoghe all’interno di codici di abbigliamento non occidentali dove l’adozione e la diffusione di mode ibride (in Cina e Giappone) si accompagna al controllo sull’espressione dell’erotismo e della trasgressività. Anche Kenneth Pomeranz mette in luce la novità di una storia globale dell’abito e delle pratiche corporee, in particolare per gli uomini dell’élite borghese fra Sette e Ottocento10. Ne sottolinea, citando studi recenti, il carattere dinamico e reattivo rispetto all’arrivo in Occidente di fogge e tessu-ti asiatici che «orientalizzano» i modelli maschili indiani, turchi o persiani e costruiscono la mascolinità borghese nelle isole britanniche, opponendo alla morbidezza della seta la ruvidezza della lana, al languore e all’indolenza dei maschi orientali l’autocontrollo e l’indipendenza di quelli inglesi. L’uniformità dell’abito traccia confini razziali e si costruisce sull’appropriazione di pratiche igieniche e di pulizia personale importate dalle colonie11. In ampie aree del mondo si creano somiglianze su larga scala: così l’ado-zione del fez nell’impero ottomano segnala un processo di cambiamento nei comportamenti e nelle pratiche com-merciali che, portando all’abbandono del turbante, mani-festa tuttavia un’autonomia nell’adozione di una foggia non appiattita su quella europea. Nel mondo islamico l’adozione del burkah segnala una crescita di uniformi-tà per le donne musulmane: «The burkah was actually a modern dress that allowed women to come out of the se-clusion of their homes and participate to a limited degree in public and commercial affairs»12.

Questi dinamiche di convergenza che, nei tempi lun-ghi segnano la crescita di uniformità, accentuano il poli-centrismo dei processi stessi. Non è dunque solo l’impul-so modernizzante dell’Occidente ad elidere le differenze, ma sono i cambiamenti interni a un pluralità di altri centri a dinamizzare, secondo ritmi diversi, le trasformazioni del gusto, del consumo, delle apparenze, delle norme. Sia Bayly, che Pomeranz, come si è visto, propongono per-corsi integrativi fra i metodi e gli oggetti della storia socia-le e culturale e la world history, optando per meganarra-

10 K. Pomeranz, Social History and World History: from Daily Life to Patterns of Change, in «Journal of World History», 18, 2007, 1, pp. 69-???.

11 Ivi, pp. 76-7.12 Bayly, The Birth cit., p. 15.

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tive in cui sono centrali sia le relazioni fra i generi che gli apporti di una storia antropologica connessa alle pratiche corporee.

Il tema del corpo attraversa, com’è prevedibile, la ricer-ca della gender history in prospettiva globale e, in modo privilegiato, quella sulla costruzione degli imperi coloniali nel senso di encounters fra culture13. Qui si discute la cen-tralità del corpo come zona di contatto dove il sapere sulla differenza sessuale e sulle relazioni di genere si costruisce attraverso l’esercizio e la rappresentazione del potere co-loniale. In altre parole, il corpo è un «meta trope» che col-lega la storia di genere a quella del mondo14. Partendo da qui e aprendo una riflessione di lungo periodo, diventa as-sai stimolante ipotizzare nessi con la storia socio culturale e religiosa europea di età moderna. Alcuni studi sull’In-quisizione, le missioni e le pratiche di cristianizzazione in aree extra occidentali indagano il tema del disciplinamen-to che, dall’Europa cattolica e riformata, si estende fino a coinvolgere i processi di costruzione e definizione delle relazioni etniche, razziali e di genere che seguono la con-quista del nuovo mondo15. Il disciplinamento coinvolge colonizzatori e colonizzati e la questione che qui si pone è se e in che misura il soggetto non occidentale è banco di prova su cui misurare, per poi importare, le nuove tec-nologie di controllo e disciplinamento. Una riflessione sincronica pone in relazione le vicende delle popolazioni extraeuropee con i ceti rurali delle regioni interne all’Oc-cidente, cristianizzate dall’opera degli ordini religiosi di età post tridentina. Nelle zone di conquista il corpo nor-mato e disciplinato è tuttavia anche un corpo che resiste e si oppone: la violenza che la definizione di conquista in termini di incontro tende a sfumare, si rende leggibi-le – e lo vedremo in seguito – con evidente concretezza. Porre dunque il corpo al centro del progetto di controllo

13 Bodies in Contact cit.; P. Levine, Gender and Empire, Oxford U.P., Oxford 2004; A.L. Stoler, Carnal Knowledge and Imperial Power; Race and the Intimate in Colonial Rule, California U.P., Berkeley 2002.

14 M.L. Roberts, The Transnationalization of Gender History, in «His-tory and Theory», 44, 2005, p. 464.

15 A. Lavrin, Sexuality and Marriage in Colonial America, University of Nebraska Press, Lincoln and London 1989; La actividad del Santo Oficio de la Inquisiciòn en Nueva Espana, a cura di S. Alberro, Instituto Nacional de Antropologìa e Historia, Mexico City 1981; Familia y sexualidad en Nueva Espana, a cura di S. Alberro, Fondo de Cultura Economica, Mexico City 1982.

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significa tematizzarlo sia come oggetto di disciplinamen-to e potere, che come, e simultaneamente, soggetto di re-sistenza. Cos’è un unruly body? Si chiede Mary Louise Roberts, «What are the politics of the unruly body?». Da dove viene la sua unruliness? Dal desiderio sessuale, dalla sua condizione (malattia, gravidanza, lavoro) dal suo stato di schiavitù?

Una concezione non giuridica, ma socialmente diffusa del potere ha giocato un ruolo importante nell’integrare le donne nella storia «generale»16, consentendo di pensar-le come soggetti di pratiche non immediatamente defini-te dal loro essere escluse dalle istituzioni politiche e dalla formalità della sfera pubblica. La stessa visione normativa, policentrica e diffusa del potere diventa uno strumento adatto a sondare questi nuovi territori di ricerca inseriti nella prospettiva di una storia globale. Gli scritti – diari, resoconti di viaggio, corrispondenze, relazioni – sulle po-polazioni conquistate forniscono altrettante informazio-ni sui colonizzatori e gli agenti della colonizzazione. Lo sguardo di questi ultimi è inestricabilmente connesso alla produzione di sapere sugli «altri», soprattutto in tema di relazioni fra uomini e donne occidentali e non, sessualità, matrimonio e famiglia dove proiezioni, fantasie, desideri, si mescolano nel linguaggio e nelle immagini che traduco-no la diversità di rituali, costumi e pratiche in termini di eccesso, violenza, poligamia, infanticidio. Da questi stu-di razza e genere sono il prodotto di dinamiche storiche concrete, attivate e filtrate dall’agency (prevalentemente degli occidentali). Evitano il pericolo dell’essenzialismo che le analisi estese a comparazioni fra continenti tendono a riprodurre attraverso un ritorno degli universali.

3. Definizioni

C’è una qualche forma di consenso su cos’è oggi la world history?

Il «Journal of World History» la definisce nei termini di una «historical analysis from a global point of view» che richiede un approccio comparativo e transculturale

16 Innesti. Donne e genere nella storia sociale, a cura di G. Calvi, Viella, Roma 2004.

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alle forze che esercitano la loro influenza attraverso le culture e le civiltà: i movimenti di popolazioni su larga scala, le fluttuazioni economiche, le epidemie, i commerci internazionali, la diffusione di religioni, idee e ideologie. I global historians si distinguono per il loro interesse per i fenomeni contemporanei e rispondono a domande an-corate al presente, mentre i world historians si collocano all’interno di una maggiore profondità temporale e guar-dano al passato. Entrambi fanno riferimento alla world system theory, da Barrington Moore, a Wallerstein a Tilly, lavorano sull’ipotesi di un’interconnessione dei fenome-ni su larga scala e, dunque sulla ricerca e l’individuazione di convergenze e uniformità. A differenza della vecchia «storia universale», elaborano una struttura narrativa che non prevede la centralità di un core system – di solito coincidente con il punto di osservazione dell’autore – e di una zona ad esso esterna e periferica17. Eppure, al di là di queste premesse molto generali, l’interpretazione, l’uso, l’estensione, la capacità inclusiva o invece selettiva rispetto alle «vecchie» storiografie, le categorie analitiche e la dimensione narrativa subiscono oscillazioni e non sembrano riscuotere un consenso generalizzato. Si sono avanzate, in questi ultimi anni, proposte di integrazio-ne – la storia sociale e culturale, delle donne e di genere, dell’infanzia – che fanno toccare con mano la gamma delle world histories possibili, auspicate e in via di sperimenta-zione. Il carattere sperimentale è forse il tratto condivi-so e anche intrigante di questa storiografia che si dibatte fra incertezze, critiche, insoddisfazioni, e una certa ansia di «globalizzare» temi e oggetti con lunghe tradizioni di studio alle spalle18. È d’altra parte indubbio che, attraver-so questa tensione faticosa e difficile si sta operando un ampliamento discorsivo e una trasformazione di aspetti fondamentali della ricerca storica.

17 P. Manning, Navigating World History: Historians Create a Global Past, Palgrave Macmillan, New York 2003. Per una discussione sulla world history nel XVI secolo, si veda S. Subrahmanyam, On World Historians in the XVI century, in «Representations», 91, 2005, 2, pp. 26-57 in cui si avanza l’ipotesi che le world histories cinquecentesche fossero «imperial histories» e che «Many world historians are imperial historians», p. 51 e S. Gruzinski, Le quatre parties du monde. Histoire d’une mondialisation, Seuil, Paris 2006.

18 P.N. Stearns, Social History and World History: Prospects for Col-laboration, in «Journal of World History», 18, 2007, pp. 43-52 in cui il caso studio ripensato in prospettiva globale è l’infanzia.

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Alcune proposte di integrazione fra una world history troppo astratta e generalizzante, con i metodi e gli ogget-ti della storia sociale e culturale, tematizzano – come ho già osservato – il corpo e le pratiche di manipolazione e rappresentazione di cui è oggetto. Questo è uno dei nessi più produttivi e innovativi per una storia delle relazioni di genere in prospettiva globale. Pomeranz che, citando Bayly, ne è uno dei promotori, non intende per world his-tory la storia di tutto il mondo come unità analitica, ma il superamento sia della dimensione nazionale dei pro-blemi, che dell’approccio legato alla nozione di civiltà/civilizzazione, a vantaggio di una ricerca di connessioni (interconnectedness) e dunque di elementi condivisi all’in-terno delle unità spazio temporali di analisi. Lo scopo è quello di «achieve coherent narratives at the transregional level»19. Il «livello» della world history tuttavia, non so-stituisce, ma si aggiunge ai livelli preesistenti, senza che questi diventino obsoleti. Anzi, soprattutto per i periodi precedenti la piena modernità, la storia della vita quotidia-na e della cultura materiale insieme a quella delle istituzio-ni di piccola scala – la famiglia – si presta agevolmente a inserirsi in una storia globale che faccia proprie tematiche, priorità e metodologie della storia sociale. La prospettiva comparata della world history trasforma quella che po-trebbe sembrare essenzialmente una storia delle pratiche sociali legate a formazioni di classe e a norme sociali in ambiti nazionali (la borghesia tedesca, la corte di Francia) in una storia dove l’addomesticamento e l’integrazione delle merci e delle pratiche esotiche importate, insieme all’esportazione delle proprie (nazionali, regionali etc) viene ripensata come storia inestricabilmente connessa alla costruzione degli imperi coloniali e alla trasformazio-ne delle culture metropolitane occidentali, indotta da que-sto processo. È evidente che le nozioni stesse di Europa, occidente, individuo occidentale bianco etc. sono tutte in corso di ridefinizione alla luce di questa oscillazione pro-spettica che, reinscrivendole nell’altro, ripensa le proprie categorie interne e le riformula in termini di sincretismo, identità negoziata, metissage. L’aumentata conoscenza delle storie non europee ha arricchito la critica epistemo-logica europea nei confronti delle master narratives: così

19 Pomeranz, Social History and World History, p. 72.

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la microstoria, la storia totale, la lezione braudeliana, gli area e i gender studies sono, per così dire, appropriati e risignificati dalla produzione extra occidentale entro cir-cuiti accademici e culturali transnazionali.

Seppur in prospettiva diversa, e con le cautele che la periodizzazione impone alla lettura in termini globali di fenomeni circoscritti a fonti regionali e nazionali, anche Peter Stearns individua nella cultura materiale e nella fa-miglia un punto di convergenza fra world history e sto-ria sociale20. Le difficoltà si presentano con l’aumentare della scala dei fenomeni analizzati (rapporti Stato-società; formazioni di classe e rapporti fra le razze) e soprattutto dell’agency. Così una storia dei movimenti sociali resiste ad un inserimento nella prospettiva globale perché la que-stione della soggettività, dell’agency, richiede che si iden-tifichino gli attori collettivi e, data la sfiducia attuale nei confronti delle vecchie categorie che un tempo valicavano le frontiere dello Stato-nazione – borghesia, contadini etc. – questo tentativo sembra arduo e richiede la costruzione di terminologie nuove.

Such vocabularies will have to be the ones we impose from outside rather than the ways that people described themselves, since emic categories are rarely shared across very wide stretch-es of space and time21.

In sintonia con quanto praticato ormai da decenni, penso per tutti alla storia delle epidemie di W. McNeill, anche secondo Pomeranz, la world history richiede la co-struzione di un linguaggio condiviso e l’uso di categorie etic. Il dilemma è proprio qui: in che modo è possibile conciliare le storiografie critiche europee e non occiden-tali che hanno fatto della soggettività – e dunque della dimensione emic – un tratto irrinunciabile della propria epistemologia, con la proposta della world history? La de-costruzione delle master narratives si radica nella presa di parola – delle donne, dei subalterni, degli «altri» - o comunque nel progetto di ascoltarla e renderla udibile, facendosene eventualmente portavoci22. Questa posizione

20 P.N. Stearns, Social History and World History: Prospects for Col-laboration, in «Journal of World History», 18, 2007, pp. 43-52.

21 Ivi, p. 85.22 Sono note le perplessità espresse da G.C. Spivak, Can The Subaltern

Speak?, in C. Nelson, L. Grossberg, Marxism and the Interpretation of Cul-ture, University of Illinois Press, Urbana 1988, pp. 271-313.

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di ricerca e di ascolto ha consentito di relativizzare ge-rarchie e centralità, senza tuttavia mettere in questione, ma anzi prendendo esplicita posizione rispetto ad alcuni assunti fondamentali – come la cultura dei diritti di ma-trice illuminista discussa da D. Chakrabarty in un’anali-si dei concetti di persona e di compassione e della loro «traduzione» nel passaggio dall’Inghilterra vittoriana al Bengala23. La storia delle donne e di genere, le cui origini coincidono con la volontà di decostruire la master narra-tive della cultura patriarcale, si trova in questa empasse. Profondamente innovata dall’agency, che, anzi, proprio da qui si diffonde e si afferma nella storia culturale in sen-so lato, da un’integrazione con la world history rischia di vedere smantellate due categorie fondanti: la soggettività in termini di agency e la differenza, che tende a scompari-re dietro la ricerca di convergenze e uniformità24.

4. Critiche femministe alla world history

La letteratura su genere e world history è piuttosto esi-gua. In queste pagine la terrò distinta sia dalla produzio-ne ormai imponente su gender and empires che da quella, assai ricca, sulle missioni – ordini missionari femminili e politiche di disciplinamento e controllo delle pratiche sessuali e matrimoniali dei missionari nel mondo25. È im-portante tracciare queste distinzioni perché, soprattutto all’interno del primo filone, il contributo delle storiogra-fie europee, ed in primo luogo di quella inglese, è cen-trale. L’approfondimento della ricerca sulla vita privata, l’intimità, le norme sessuali, l’ideologia della domesticità, nella costruzione degli imperi coloniali e nella ridefinizio-ne di ruoli e identità maschili e femminili, è acquisizione

23 D. Chakrabarty, Domestic Cruelty and the Birth of the Subject, in Id., Provincializing Europe, Princeton U.P., Princeton and Oxford 2000, pp. 124-9; si veda anche il saggio Subaltern Histories and Post-Enlightment Rationalism, in Id., Habitations of Modernity, The University of Chicago Press, Chicago and London 2002, pp. 20-37.

24 Una discussione su questi temi, in occasione di un seminario su sto-ria delle donne e world history (Bologna 11 maggio 2007) è riportata da G. Lasagni, Spostare gli sguardi: la storia delle donne fra world history e storia transnazionale, in «Genesis», V, 2, 2006, pp. 253-6.

25 M. Taylor Huber, N.C. Lutkehaus, Gendered Missions. Women and Men in Missionary Discourse and Practice, Ann Arbor, The University of Michigan Press 1999.

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consolidata e fortemente caratterizzante la storiografia britannica, che, precocemente, ha segnalato la necessità di indagare sia le modificazioni dei modelli di mascoli-nità, che il riflesso a livello della «metropole» di pratiche culturali e di controllo affinate nei territori dell’impero26. È all’interno di questa storiografia che il nesso genere/mondo si è inizialmente declinato, con risultati di grande interesse e ampliamenti ad aree geo-politiche segnate dalla colonizzazione di altri stati europei (Francia, Germania, Paesi Bassi, e con un avvio di ricerca anche in Italia). Or-mai le direzioni di sviluppo si stanno ampliando a raggiera e il genere entra come categoria analitica negli studi sulla schiavitù, nei Carabi e negli Stati americani del Sud, e dun-que sulla divisione sessuale del lavoro e dei nazionalismi. Il corpo, fisico e simbolico, definito dall’appartenenza di genere, di etnia, di razza, e dalle norme che ne regolano la vita, la riproduzione e la morte, è il fuoco analitico di una storiografia che punta sull’incontro, sulle connessioni, sui sincretismi.

Isolata, scorporata direi, dalle sue applicazioni con-crete, la riflessione su genere e world history si àncora a pochi testi: una monografia di Peter Stearns, Gender in World History (2000) e qualche articolo. Ancora una vol-ta ci troviamo di fronte a una scrittura sperimentale, in cui l’interesse per una proposta di ricerca si diluisce nella pratica di una didattica universitaria essenzialmente nord americana. Le richieste pressanti di un mercato editoriale alla ricerca di libri di testo che soddisfino le aspettative degli studenti e di un pubblico di lettori che si pongono nella prospettiva conoscitiva dell’«impero americano», si avvertono in alcuni di questi interventi che mirano anche ad orientare e a discutere esperienze di insegnamento per classi numerose di undergraduates.

Merry Wiesner Hanks interviene nel dibattito sull’in-tegrazione fra genere e world history27, sostenendo che i due percorsi della convergenza e della differenziazione vanno invertiti, introducendo cioè divergenza nella world

26 Cultures of Empire, ed. C. Hall, Routledge, New York 2000; P. Lev-ine, Gender and Empire, Oxford U.P., Oxford 2004; J. Tosh, Manliness and masculinities in XIX century Britain: essays on gender, family and Empire, Harlow and New York, Pearson Longman 2005.

27 M. Wiesner-Hanks, World History and the History of Women, Gen-der and Sexuality, in «Journal of World History», 18, 2007, pp. 53-67.

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history e convergenza nella gender history, tradizional-mente attenta a tematizzare le differenze. Optare per un’ottica convergente significa rendere visibile a livello di processi globali il nesso perdurante fra famiglia e Stato e il confine mobile, a volte osmotico, fra pubblico e privato. La gender history in prospettiva globale comporta dun-que il superamento della vecchia convergenza donne-fa-miglia-privato, che i world historians danno per scontata giustificando così l’esclusione di questo ambito di ricerca a favore dei mercati, le élites e gli Stati. Al contrario, scrive Wiesner Hanks, la ricerca ha ormai dimostrato da anni la produttività scientifica dell’interconnessione fra forma-zioni degli Stati – relazioni di genere - pubblico/privato. Le due storiografie non si sono incontrate perché ambe-due prese dal proprio progetto revisionista rispetto alle master narratives patriarcale e nazionale. Questi percorsi differenziati di re-thinking hanno fatto sì che gli storici/le storiche delle donne, del genere e della sessualità non pensino in prospettiva globale, e non si pensino come world historians, mentre i giovani studiosi, attratti dalla globalizzazione, tralasciano di usare il genere come cate-goria analitica perché ne colgono solo i significati riferiti al privato, all’informale, alla piccola scala.

Wiesner Hanks offre una panoramica istituzionale in cui, contando ed elencando convegni, pubblicazioni di atti, panels e saggi, traccia il quadro di un interesse na-scente verso una convergenza che privilegia la storia del-le migrazioni e delle diaspore, degli imperialismi, degli encounters fra culture transnazionali. È una produzione interamente nord-americana, così come esclusivamente statunitensi sono le associazioni, i convegni, le riviste, le case editrici citate, che pubblicano in inglese le ricerche anche di studiose/i non occidentali. Un’attenzione privi-legiata è data alla storiografia indiana critica della teoria post coloniale e del gruppo dei subaltern studies, che ten-derebbero a essenzializzare una nozione vittimistica e sta-tica di femminile, priva dell’agency che ne fa una categoria storicamente dinamica28. [NB: ho spostato qui la spiega-zione del sati perchè viene citato qui per la prima vol-ta... va bene??] Il dibattito sul sati (il rito di origine indù che prevede la morte, sulla pira del defunto, della vedova

28 Ivi, p. 61.

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ancora in vita) nella storiografia indiana e la polemica che la storica femminista Lata Mani ha rivolto alle posizioni «tradizionaliste» di Ashis Nandy esemplificano, nell’ulti-mo paragrafo di questo saggio, la tensione fra una conce-zione del femminile dotata di agency e una che ne esalta la componente simbolica e sacrale, privandola tuttavia di questa capacità.

La proposta di integrazione lanciata da Wiesner Hanks sulle pagine del «Journal of World History» è in realtà occasione per una rassegna in cui le questioni – metodo-logie, cronologie, categorie – sono eluse. C’è una volontà presenzialista che coincide con il voler esserci di una sto-riografia che teme ancora di essere definita «expertise of the margins». Spostarsi al centro, nel cuore delle egemonie culturali, accademiche ed editoriali corrisponde perciò ad assicurarsi che «the stories of formalized power relation-ships and of intellectual change do not remain stories of ungendered men»29.

Ulrike Strasser e Heidi Tinsman30 intervengono nel dibattito a partire dalla loro esperienza di docenti di sto-ria europea della prima età moderna (Strasser) e di storia contemporanea dell’America Latina (Tinsman). In aper-tura, dichiarano la loro agenda intellettuale e politica «our commitment as feminists to making gender and sexual-ity central to how the rapidly growing field of world his-tory is being shaped» che le porta a ricordare l’impegno originario della ricerca femminista di decostruire le me-tanarrative dominanti. La world history si configura qui come una nuova meganarrative, la più ambiziosa di quel-le finora proposte. Se tuttavia una critica femminista alla world history in quanto progetto intellettuale e politico è per il momento prematura, scrivono, è d’obbligo interve-nire tempestivamente nella elaborazione di cosa significhi a livello didattico il «monstrous task of teaching the his-tory of the world»31. Le due autrici procedono per punti critici: la world history è spesso costruita in prospettiva lineare, come storia di una progressiva convergenza pro-dotta dall’azione europea attraverso la globalizzazione dei mercati e la modernizzazione esportata. L’attenzione do-

29 Ivi, p. 64.30 U. Strasser, H. Tinsman, Engendering World History, in «Radical

History Review», 91, Winter 2005, pp. 151-64.31 Ivi, p. 152.

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minante ai mercati ha prodotto un accantonamento della categoria del genere e una marginalizzazione della presen-za e dell’azione storica delle donne come agenti di muta-mento. La proposta è quella di togliere priorità ai mercati e di dare rilievo al nesso relazioni di genere- potere-poli-tica, dove lo studio degli uomini da un punto di vista dei men’s studies entra fortemente nel quadro. Le annotazioni di Wiesner Hanks sulla importanza delle interconnessioni fra genere-Stato-pubblico viene dunque ripresa e decli-nata attraverso temi di grande interesse (per ora limitati all’insegnamento): i sistemi di segregazione femminile e la formazione degli Stati in Europa, medio Oriente e Cina; la funzione degli imperialismi nei processi di costruzione delle identità sessuali e razziali di uomini e donne; il signi-ficato della schiavitù e della divisione sessuale del lavoro per le economie locali e l’emergere del capitalismo; l’im-portanza della sessualità e della religione nella conquista e nel governo coloniale dell’America centrale e dell’Europa. L’accento è posto sia sulle discontinuità e le divergenze nei processi di globalizzazione, che sul decentramento dell’Europa come chiavi analitiche d’avanguardia in un contesto in cui la world history rimane tuttora e preva-lentemente una storia di mercati, modernizzazione lineare del mondo e protagonismo europeo. In sintesi, la «nuova world history», che s’insegna all’University of Califor-nia, Irvine, assimila e fa proprie le storiografie critiche e i fenomeni non lineari e di resistenza che accompagnano e segnano la nuova egemonia storiografica. Non si trat-ta di scrivere una storia della modernizzazione applica-ta al mondo – «not a tale of protoglobalization», in cui l’Europa è il solo motore di cambiamento, ma una storia comparata e transnazionale che individui le connessioni fra genere, sessualità e le formazioni socio economiche e politiche.

Il carattere composito e sperimentale dei due artico-li appena discussi è comune anche al primo dei tre vo-lumi commissionato dal comitato delle donne storiche dell’American Historical Association ad alcune delle studiose più rappresentative del loro campo di ricerca, rispettivamente la storia della famiglia (Ann B.Waltner e Marjorie Bingham), delle religioni (Julia Clancy Smith), del lavoro (Alice Kessler-Harris), della razza e dell’etni-cità (Pamela Scully) del nazionalismo (Mrinalini Sinha)

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e del femminismo (Susan Kent) in prospettiva globale32 Il volume è infatti destinato anche ai docenti di world history e agli studenti dei loro corsi che comprendano il genere come categoria analitica e di produzione di livelli significativi di generalizzazione. Muovendo da una gene-alogia politica, che risale alla tradizione del femminismo e dell’abolizionismo americani dell’Ottocento, la dimen-sione globale è quella dei movimenti politici che si schie-rano contro la subalternità delle donne, la schiavitù e per i diritti civili e di cittadinanza. La storia delle donne afro americane, come schiave, riformatrici e lavoratrici libere fa parte di quest’eredità che si apre immediatamente a una prospettiva comparata e mondiale. L’ottica del volume privilegia dunque una storia del femminismo, che non vuole essere però storia dell’emancipazione occidentale esportata al resto del mondo, ma si pone nell’ottica di una storia delle donne costruita dagli apporti provenienti dalle voci e dalla pratica politica delle le donne che, dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina criticano i paradigmi occi-dentali:

family, work, politics and nation had different meanings and entailed different political strategies. Gender was multiply con-structed, non westerners maintained. Western ignorance and US dominance were called into question33.

La dissoluzione dell’Urss e la crisi del comunismo con la trasformazione della condizione delle donne nei paesi dell’Europa orientale introducono nella ricerca prodotta a Budapest e a Mosca i temi della cittadinanza e della demo-cratizzazione come processi globali che contestano l’ege-monia del femminismo statunitense e dei suoi paradigmi. Questa consapevolezza della dimensione globale dei fe-nomeni ha prodotto in anni recenti una crescita esponen-ziale della ricerca e delle conoscenze su donne/genere in prospettiva globale.

Fra le varie interpretazioni e pratiche di storia globale Bonnie Smith, curatrice del volume, sceglie un approccio olistico, inclusivo cioè della storia occidentale, che accen-tua gli elementi di connessione, costruito su temi (famiglia, lavoro, religione, nazionalismo, femminismo) indagati

32 Women’s history in global perspective, ed. B.G. Smith, University of Illinois Press, Urbana and Chicago 2004.

33 Ivi, p. 3.

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attraverso comparazione fra aree geopolitiche (Eurasia, Africa, America) e diacronie lunghissime. Così il capito-lo sulla famiglia, centrato sulla parentela come struttura portante dei sistemi economici e politici della prima età moderna, giunge al XX secolo attraverso una segmenta-zione di passaggi nodali all’interno di grandi scansioni che tralasciano una periodizzazione événementielle, riferita alla storia politica. Sono così tematizzati, in prospettiva comparata e in archi temporali dal XVI al XX secolo, le trasformazioni dei sistemi matrimoniali, l’impiego della manodopera femminile fuori o all’interno della house-hold, l’influsso degli imperi coloniali nella trasformazione delle relazioni di genere, i movimenti migratori e la diver-sa strutturazione delle famiglie e i movimenti di resisten-za culturale. Questa organizzazione porta al superamento della dimensione nazionale in cui molta storia delle donne è stata scritta e all’accentuazione delle componenti tran-snazionali, in vista di una storia «that crosses borders». Come i world historians generalmente sottolineano, la priorità attribuita a questa capacità di oltrepassare i confi-ni si attaglia più facilmente alla prima modernità. Si profila dunque una separazione fra la global history, che propone temi direttamente collegati a problemi globali contempo-ranei e una new world history, che non si pone cioè come storia del processo di civilizzazione – che connotava in senso conservatore ed eurocentrico la old world history – ma si struttura per temi che vengono affrontati in pro-spettiva comparata e la cui rilevanza è globale.

Il primo volume di questa Women’s history in global perspective, che offre contributi di rilievo, non risolve i problemi interni a questo approccio. Il primo e fonda-mentale è quello della mancanza di agency e di parola. I saggi si muovono a livello di grandi generalizzazioni e, pur operando mutamenti di prospettiva, come nel con-tributo di Alice Kessler Harris che mette la divisione ses-suale del lavoro al centro e l’industrializzazione ai mar-gini, rendono invisibili i contesti e la loro pregnanza, gli individui, la negoziazione sociale, il cambiamento. Forze inafferrabili agiscono il teatro del mondo e quell’odore di sangue umano, che faceva comparire sulla scena l’orco di Bloch è un ricordo del passato. Certo, al posto delle dif-ferenze, della frammentazione, del localismo si scorgono convergenze e uniformità fra le aree Eurasiatiche che al-

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lontanano le società africane, diverse per sistemi abitativi e di parentela, la struttura dei mercati e della manodopera. Ma il pericolo vero viene da una strisciante e non voluta riproposizione degli universali: la subalternità delle don-ne, la segregazione sessuale. Il saggio di Kessler Harris, che convince per il tentativo di muoversi al di fuori della linearità dell’industrializzazione, finisce poi per confer-mare alcune delle affermazioni della prima storiografia anglo americana sul lavoro femminile, centrata sulla pa-rabola di una ineluttabile perdita di potere e di status nel passaggio dall’economia domestica del consumo a quella per il mercato. Il permanere a livello di globale di discri-minazioni salariali, mancanza di formazione professiona-le, limitato accesso al lavoro e alle mansioni più qualifica-te, segregazione occupazionale per sesso riprodotta anche oggi nel mercato globale, evidenziano e confermano come i gendered meaning systems che sono alla base della di-visione sessuale del lavoro in tutte le società del mondo dipendano, in ultima istanza, dal significato attribuito al maschile e al femminile. Al primo è collegata, anche se non sempre, la forza fisica e mentale; al secondo un’ide-ologia della domesticità, rafforzata da molte religioni, ha attribuito una serie di perduranti limitazioni. Il rischio è che la prospettiva globale, tendendo ad annullare le diffe-renze, traduca questa polarità in essenzialismo biologico. Le osservazioni conclusive, seppur condivisibili, non al-lontanano il pericolo:

When we begin to recognize the power of gendered ideas and habits of mind to shape particular labor force patterns … we open the door to a fuller understanding of gender and when we start to explore the impact of gendered ideas and cultures on economic progress and social transformation, we expand our horizons to encompass new explanatory dimensions for his-torical change34.

Nel complesso prevalgono le analisi di grande scala, e un sistema esplicativo legato alle grandi trasformazioni e a fattori causali rispetto ai quali le donne sono passive, e spesso vittime in un mercato del lavoro strutturato, a livello globale, dalla segregazione occupazionale e dalla discriminazione salariale all’interno di continuità lunghis-

34 A. Kessler Harris, Gender and Work: Possibilities for a Global, His-torical Overview, in Smith, Women’s History, p. 188.

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sime. Il sesso, inteso come elemento di differenziazione biologica motiva lo strutturarsi di sistemi di genere in cui ricorrono, seppure in gradi diversi, analoghe permanenze: salariali, di segregazione, di precarietà. Le variabili riguar-dano l’età della manodopera, la condizione civile, i sistemi di parentela e la mobilità. Giovani donne nubili interne alla household a cui sono legate da parentela biologica costituiscono, per lunghi archi di tempo, la forza lavoro stanziale in Cina, mentre in Europa la mobilità e l’assenza di legami di sangue è tipica della forza lavoro femminile. Si tratta di grandi generalizzazioni che non tengono conto delle complesse variabili interne alle aree, ad esempio il Mediterraneo, dove da anni, come sappiamo, i demografi hanno messo in luce i molteplici e compositi sistemi di formazione familiare.

5. Il genere nella world history

In un agile volume di qualche anno fa, Gender in world history35, Peter Stearns affronta il tema ponendosi in una prospettiva più simile alla «storia universale», che a quella transnazionale, comparata e tematica in prospettiva glo-bale che sembra oggi prevalere e che raccoglie maggiori consensi. Diviso in tre parti, la prima presenta le civiltà classiche e post classiche di Grecia, Roma, Cina, Africa per passare poi, nella seconda, agli esiti dell’espansione europea (1500-1900) e, nella terza, al ventesimo secolo fo-calizzato sulle immigrazioni soprattutto negli Usa, sulle nuove influenze internazionali che producono il consu-mismo culturale dei nostri giorni, dal turismo al cinema, ai media etc. Ogni capitolo, privo di note, contiene una bibliografica sintetica che oscilla fra le cinque e le sette citazioni di monografie recenti in inglese, dalla metà degli anni ottanta in poi.

Al centro del volume Stearns pone i contatti, gli incon-tri fra culture diverse e la trasformazione che questi intro-ducono sia nella concezione del maschile e femminile, che nelle relazioni fra uomini e donne e nei ruoli – privati e pubblici – che vengono ad essi assegnati.

35 P.N. Stearns, Gender in World History, Routledge, London and New York 2000.

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Gender values are deeply personal, part of individual and social identity. People may be particularly reluctant to sur-render the standards defining femininity and masculinity, even when pressed by a society that seems exceptionally powerful and successful, or they may seek to compensate for any conces-sion that must be made…gender values are so important that they serve as something of a touchstone in figuring out what international contacts are all about (p. 3). INSERIRE NOTA..

Le dinamiche prese in esame riguardano anche i miti, i giudizi, le valutazioni ripetute e diffuse su comportamen-ti ritenuti insoliti, condannabili ed «altri»: dalle leggende sulle donne guerriere nella Grecia classica, alla liberta ses-suale delle abitanti delle isole del Pacifico nelle relazioni degli antropologi nel XX secolo, all’indipendenza delle donne americane viste attraverso i resococonti di viag-gio giapponesi nell’Ottocento. Missionari, viaggiatori, mercanti hanno largamente contribuito alla diffusione di stereotipi che spesso nascondono dinamiche complesse in cui agisce anche la resistenza delle culture altre al contatto con i processi di occidentalizzazione. Stearns s’interroga sui risultati di questi incontri – che comprendono anche il conflitto, la resistenza e la reazione- in termini di mag-giore o minore tolleranza per la diversità nelle relazioni fra i generi. Se cioè le relazioni fra uomini e donne pro-cedono verso una maggiore uniformità o se, al contrario, l’accelerazione dei processi di globalizzazione accentua le diversità nella concezione di maschile e femminile e nelle relazioni di genere intese come segno distintivo di un’identità che si vuole preservare dalle influenze ester-ne. È sulle pratiche e le norme che regolano le relazioni fra i generi che viene misurato il grado di arretratezza o sviluppo di una società. Sono questioni che richiedono ricerche impegnative e che tematizzano l’interazione fra culture come «dramma», come complesso di azioni e rea-zioni di cui è difficile prevedere l’esito data la complessità di questi problemi e la implicita vulnerabilità sociale e in-dividuale che mettono a nudo. In quest’ottica sia i con-cetti di maschile e femminile che le relazioni fra i generi si pongono dunque come prodotto di contatti e influenze globali e non possono più essere analizzati all’interno di una dimensione locale, regionale o nazionale, né a partire da un modello che si possa definire in modo univoco «oc-cidentale». Muovendo dalla storiografia post-coloniale e dalle sue categorie, una delle idee che sta al cuore del

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volume è infatti l’ibridazione, il meticciato culturale che influisce anche sull’occidente aprendolo ad una rilettura e rielaborazione dei propri assunti, in risposta ai processi e ai linguaggi attivati nelle aree coloniali, nelle regioni di espansione e influenza, come anche dai processi di migra-zione e decolonizzazione. Di nuovo in sintonia con la let-teratura post-coloniale, Stearns prende posizione contro il dualismo centro-periferia (Wallerstein) a favore della nozione di sfere di influenza in progressiva espansione, che tengono perciò conto della trasformazione anche del-la cultura della «metropole».

Il testo mira ad individuare alcune tipologie sulla base di un modello analitico che prevede quattro livelli di in-dagine: 1) le società «prima» dell’incontro con «l’altro»: varietà di modelli patriarcali/patrilineari; norme e codici che regolano le strutture familiari, i ruoli sessuali, la di-stribuzione della proprietà e la sua trasmissione; la condi-zione delle donne nella sfera pubblica e privata; le pratiche del corpo- mutilazione sessuale per i due generi- e le for-me della segregazione sessuale; 2) il mutamento (imposto, combattuto, negoziato) che risignifica i ruoli maschili e la definizione di maschilità in parallelo a quelli femminili e alla definizione di femminilità; 3) le forme dell’ibridismo o sincretismo; 4) le compensazioni. Questo procedimento mette in luce, in modo piuttosto schematico e a volo d’uc-cello, che in molte società non occidentali, prima del con-tatto con gli europei, le donne esercitavano attività lavo-rative in pubblico, occupavano posizioni di prestigio nella sfera religiosa e rituale, godevano di diritti di proprietà e vivevano all’interno di forme familiari in cui il matrimo-nio temporaneo (trial marriage), la coresidenza fra gruppi parentali non consanguinei, alcune forme di matrilocalità, comune a vaste regioni dell’America settentrionale, cen-tro- meridionale e all’Africa orientale consentivano alle donne una maggiore mobilità e flessibilità di ruoli, solida-rietà femminili e rapporti intergenerazionali che la cultura occidentale e cristiana di missionari e colonizzatori tente-rà di mutare profondamente. In questo quadro la famiglia nucleare, oltre ad essere costruita come tratto distintivo della modernità europea nord occidentale diventa stru-mento di colonizzazione nel senso che viene posta come valore attraverso cui regolare e disciplinare le forme fami-liari extra europee di Polinesia, Africa, America che de-

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viano da questo modello. L’incontro con le culture altre, ma nel volume di Stearns soprattutto con quella europea, disloca le forme di potere patriarcale pre-esistenti (e di cui si ha notizia attraverso le fonti prodotte dalla colonizza-zione stessa), indebolendo i ruoli maschili nella sfera pub-blica, in quella militare ed economica. Questa rischiosa «femminizzazione» dei capo famiglia «indigeni» trova, grazie alla presenza occidentale, forme di compensazione nella sfera privata, dove la household viene ridotta di nu-mero – sul modello nucleare – chiudendo le donne nella sfera familiare, incoraggiando la diffusione di un’ideolo-gia della domesticità, e attribuendo un valore centrale alla figura del marito e del padre all’interno di modelli ma-trimoniali monogamici. Nelle società indiane del Nord America e del Canada, ad esempio, la trasformazione si accompagna all’introduzione di norme patrilineari, che escludono le donne dal possesso della proprietà e della sua trasmissione a favore dei maschi del lignaggio. Anche nel-la sfera del sacro l’incontro con l’Occidente comporta una trasformazione delle pratiche, della rappresentazione e dei ruoli di genere. Le forme della violenza rituale – guerra, cannibalismo, sacrifici umani – combattute dai missionari vengono, per così dire, canalizzate verso i membri deboli della famiglia. Quindi il mutamento delle pratiche della violenza si traduce in forme più estese di controllo e di-sciplinamento della sessualità femminile e della perdita del potere sociale e rituale delle donne, nelle funzioni religio-se, nelle decisioni politiche e nella vita pubblica.

Lo scambio culturale ha agito in modi complessi, pro-ducendo risultati imprevisti e connessi al grado di pervasi-vità e violenza delle influenze esterne, come alle condizioni di partenza delle società prese in esame. Le forme familiari e le relazioni fra uomini e donne sono spesso impermeabi-li ad una decifrazione profonda, proprio perché soggette ad essere naturalizzate e reificate. La varietà dei risultati è visibile nelle cronologie: alcuni contatti – il Buddismo e la società cinese – sembrano aver influito rapidamente sulle donne, potenziandone il prestigio spirituale e sociale, ma senza mutare le relazioni di genere; altri, come la conqui-sta violenta da parte degli spagnoli del Nuovo Mondo, dopo una prima accelerazione istituzionale, richiedono tempi molto lunghi per rendersi visibili.

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La complessità dei mutamenti sta anche nel fatto che le élites tendenzialmente usano le relazioni di genere come elemento compensatorio di altri squilibri. Le dinamiche che si stabiliscono fra la pluralità delle forme patriarcali indigene ed esogene moltiplicano la varietà delle moder-nità accessibili, negoziabili e realizzabili. Stearns si schiera fra i sostenitori di un’uguaglianza relativa fra i sessi, rico-noscendo tuttavia il carattere controverso di questa affer-mazione. Dichiarando la propria «parzialità» in apertura, rende esplicito il significato di alcuni termini che denota-no il cambiamento in direzione di un «miglioramento» o di un «deterioramento». Il volume si chiude suggerendo che non è facile identificare quale gender system sostenga e migliori lo status sociale delle donne, dato che condi-zioni di apparente (per noi) disuguaglianza consentono forme di tutela dei gruppi subalterni.

È riuscito il saggio di Stearns a tenersi lontano dai pe-ricoli della world history rispetto al genere? Il problema degli universali è sempre presente, data la scala analitica adottata: prendiamo ad esempio le osservazioni conclu-sive sull’influsso della cultura cinese (Confucianesimo, Buddismo) in Giappone fra la metà del XIII e del XIV secolo:

Contact with Chinese standards helped spread more patri-archal systems over much of East Asia. Here, comparison with Islamic and Middle Eastern influence [...] is revealing. Specif-ics differed in important ways… but contact did help redefine women’s role and status, leading to greater inferiority and more limited functions for virtually a millennium in huge stretches of the Afro-Eurasian world. While the example of the patriarchal civilization was not inevitable, it was very strong. Borrowed gender systems fitted into larger efforts to build states and cultures, and male leaders in the imitative societies were quick to seize on the apparent advantages (pp. 55-6). !!!INSERIRE NOTA..

Il diffondersi o il permanere di una condizione di subalternità delle donne in praticamente tutte le società prese in considerazione è un dato di fatto; le diversità dei regimi locali convergono, seppur a velocità non sincro-ne, verso sistemi di ineguaglianza in cui la patrilinearità, la segregazione sessuale (che tuttavia non preclude l’eser-cizio di alcune forme di potere) l’esclusione delle donne dai diritti di proprietà e di cittadinanza, dalla sfera pub-blica e dalle funzioni rituali (in rari casi sacerdotali) si ac-

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compagna alla delimitazione di un ambito privato e alla diffusione della ideologia della domesticità e della purez-za, entro una divisione sessuale del lavoro che attribui-sce alle donne mansioni ripetitive e sottopagate, esterne a qualunque percorso di apprendimento professionale. Nel volume di Stearns prevalgono le donne, anche se il tenta-tivo è quello di riportare ogni capitolo ad una valutazio-ne dell’equilibrio incrinato e rinegoziato nelle relazioni fra uomini e donne sotto la sollecitazione delle influenze esterne. L’ottica analitica dell’incontro tende ad assimilare all’occidente, e dunque alla modernizzazione esportata e imposta, il marxismo, il femminismo e in genere i movi-menti di emancipazione, sulla scia di una storiografia che, da qualche anno, sta mettendo in luce le complicità fra femministe, nell’Inghilterra vittoriana e non solo, e colo-nialismi. Le società non occidentali reagiscono adottando una selected westernization, facendosi dunque protagoni-ste di processi interpretativi di adattamento consapevole e negoziato. I casi della Russia e del Giappone sono i più in-teressanti e meglio studiati e alimentano una tensione con i casi in cui l’occidentalizzazione si accompagna invece al colonialismo. La selected westernization, con i fenomeni di imitazione e resistenza (di nuovo Russia e Giappone) include il binomio tradizione/liberazione, ambedue viste come affermazione di identità. Così nella Russia dei pri-mi anni del Novecento la pervasività del lavoro femminile che consente l’importazione dei prodotti occidentali tiene lontana l’ideologia della domesticità, mentre i nuovi sti-li di consumo anche da parte delle donne, promuovono un’occidentalizzazione dai tratti ambivalenti, di eman-cipazione dai ruoli tradizionali, ma di assimilazione alle logiche del mercato.

Il volume di Stearns conferma alcune caratteristiche di fondo di questa nuova storiografia: la sua autoreferen-zialità, il suo sostanziale monolinguismo, l’assenza quasi totale di voci europee. Siamo in presenza di una connes-sione storiografica forte, fra gli Usa, l’Asia (India e Cina) e l’America Latina, attraverso la mediazione delle reti ac-cademiche ed editoriali nord americane. La circolarità, i trasferimenti, le reinterpretazioni, le ibridazioni sono la forma di una globalità post moderna del sapere e della produzione di conoscenza che marginalizza chi se ne la-scia espropriare o porre fuori. Fa problema anche la prio-

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rità attribuita alle fonti secondarie, alle opere di sintesi, alla storiografia recente, a scapito dello scavo archivistico e del lavoro sulle fonti primarie. Il problema dell’archivio è uno dei nodi che, nella world history, aprono questioni metodologiche ed epistemologiche di rilievo. Che cos’è un archivio prima dell’espansione coloniale e prima dell’oc-cidentalizzazione di gran parte del mondo? Quali sono le forme di conservazione, legittimazione e trasmissione della memoria al di fuori del modello e delle istituzioni occidentali che ne hanno reso pubblica la rilevanza?36 La casa, il privato, le forme del racconto, dell’oralità e del mito costruiscono memorie che si pongono in tensione con le forme del potere e dell’ufficialità cui la storia dell’Occi-dente delega la conservazione del proprio passato. E tut-tavia, anche in aree in cui la tradizione cattolica della Spa-gna consente di utilizzare fonti amministrative, notarili, inquisitoriali che offrono una ricostruzione orientata a modelli storiografici già parzialmente noti, l’interrogativo che percorre la world history - come accedere alla voce dei colonizzati uomini e donne37 – risuona con pari forza. Lo scavo archivistico su fonti locali e regionali ha promosso il superamento delle dicotomie rigide degli anni settanta: non più capitalismo/patriarcato, ma piuttosto capitalismo patriarcale e processi di creolizzazione. Ha introdotto il genere nello studio della schiavitù, arricchendo l’analisi dei sistemi schiavistici con la categoria di riproduzione e identità sessuale38. In questa direzione, il genere, che pone al centro dello scenario coloniale il soggetto in quanto corpo sessuato si rivela strumento utile alla ridefinizione di forza lavoro, mercato, produzione.

6. Un caso studio: il sati nell’India di ieri e di oggi

La dialettica fra colonizzati e colonizzatori è, come si è visto, al centro dell’attenzione di molta storiografia che, in

36 A. Burton, Archive Stories. Facts, Fictions, and the Writing of History, Duke U.P., Durham 2005.

37 Il riferimento d’obbligo è a Spivak CONTROLLARE il testo di riferimento....Can The Subaltern Speak?, in C. Nelson, L. Grossberg, Marxism and the Interpretation ???????????????

38 J.L. Morgan, Laboring women: reproduction and gender in the mak-ing of New World slavery, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2004.

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prospettiva della world history, si concentra sulla forma-zione degli imperi coloniali in una dimensione secolare e religiosa. L’incontro fra le culture che viene qui teorizzato mira a superare una concezione dualistica per introdurre categorie attente ai processi di ibridazione e sincretismo dove l’agency degli «altri» è la leva concettuale che produ-ce la tensione, la resistenza, l’integrazione, il rifiuto. Il ge-nere sta al cuore dell’agency che si pone come progetto di costruzione del sé del soggetto non occidentale. In questa prospettiva di ricerca e di ascolto delle «voci», il dolore e la sofferenza fisica diventano una componente importante della rappresentazione del colonizzato e della sua identità di genere. Essere percepiti e descritti come individui che soffrono rispetto a un soggetto occidentale che osserva e registra il dolore degli «altri», introduce una discrimi-nante di fondo su cui riflettere: da un lato, l’assenza di dolore – le donne di colore che partoriscono in schiavitù apparentemente senza soffrire – colloca immediatamente fuori della tradizione biblica occidentale («partorirai con dolore») e dunque dalla comunità dei cristiani, incorag-giando la mercificazione della forza lavoro. Dall’altro, la vittimizzazione prodotta da sistemi patriarcali indigeni e violenti, introduce il tema del «riscatto» occidentale delle donne oppresse e marginalizzate. Le donne delle società colonizzate – perché di loro per lo più si tratta – sono costruite da una strategia discorsiva che le colloca come oggetto delle forme di dominio peculiari alle società indi-gene e la colonizzazione occidentale; fra la struttura della famiglia allargata e della parentela che impone loro ruoli immutabili e marginalità sociale e una cultura dei diritti di matrice illuminista che fa parte del bagaglio concettuale degli agenti della colonizzazione occidentale39. Il terreno di questi studi è immediatamente politico, attraversato da conflitti, provocazioni, schieramenti pro o contro le cate-gorie al singolare di modernità, modernizzazione, cittadi-nanza, individuo. Nelle pagine che seguono darò breve-mente conto di questo campo in perenne tensione.

Un lungo, ampio e appassionato dibattito coinvolge da qualche anno storici indiani, americani e qualche europeo

39 D. Chakrabarty, Provincializing Europe. Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton U.P., Princeton and Oxford 2000, pp. 117-48 poi parzialmente ripreso in Id., Habitations of Modernity, The Univer-sity of Chicago Press, Chicago and London 2002, pp. 101-14.

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sul tema del sati; praticato in alcune regioni del Bengala e proibito dalle autorità britanniche nel 1829, il sati ha co-nosciuto una risorgenza in forme epidemiche negli anni settanta, fino all’ultimo episodio del 1987 quando la gio-vane vedova Roop Kanwar si è gettata nel fuoco che bru-ciava il cadavere del marito morto, a Deorala nel Rajastan. Il dibattito sulla stampa, i media e fra l’opinione pubblica in India si è poi riflesso in una serie di saggi che sosten-gono posizioni anche radicalmente opposte, da Lata Mani ad Ashis Nandy e a Dipesh Chakrabarty, da Joerg Fisch a Sarah Schneewind. L’interesse che questo dibattito ha in questa sede sta innanzitutto nel porre al centro dell’ana-lisi il soggetto femminile come luogo su cui si esprimono una serie di tensioni. Innanzitutto fra famiglia e diritti; fra appartenenza e individuazione; fra ambito privato e sfe-ra pubblica; fra storia e narrazione e dove «la sati» viene costruita come vittima e modello di virtù muliebre dal di-scorso coloniale e missionario e come soggetto sofferente che agisce coscientemente il proprio dolore da parte della storiografia femminista, indiana e non. L’addensarsi della riflessione attorno al corpo della vedova che si getta nel fuoco è spia di una più ampia interconnessione fra i pro-cessi sociali generali e la loro rappresentazione attraverso le dinamiche di genere. Mi riferisco qui all’ampia lettera-tura che connette il nation building con il moltiplicarsi di rappresentazioni del femminile in competizione recipro-ca, nei diversi modelli presi in esame e che vanno dalla Cina al Sud Africa all’America Latina (Cile, Argentina), all’Europa e all’Italia.

Solo indirettamente il dibattito sul sati come rito e sul-la sati come protagonista e vittima si volge alla sua circola-zione pre-ottocentesca; e solo di sfuggita si fa riferimento a Montaigne40 e alle relazioni dei missionari e dei viaggia-tori che fra Cinque e Settecento documentano numero-si la devastante crudeltà di un rito che, nella letteratura sull’India, diventa un vero e proprio topos.

Mosso dalla peculiare commistione di «fascinazio-ne, paura, dramma, coerenza morale e rabbia» con cui la classe media indiana reagisce al sati di Roop Kanwara a Deorala (Rajastan) nel 1987, e si schiera su fronti op-

40 M. De Montaigne, Saggi, libro secondo, XIX, Della Virtù, Mondado-ri, Milano 1986, pp. 401-9.

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posti – si tratta dell’omicidio di una giovane donna o in-vece della riattualizzazione di un antico e raro rito indù – Ashis Nandy interviene con un saggio in cui riprende una definizione paradigmatica del sati da uno scritto di Tagore. Contrappone al sati del tempo mitico, o sati come «evento», un sati del tempo storico, o sati come «sistema». Mentre la sua forma attuale, come sistema, è contamina-ta dal mercato e da pratiche di negoziazione dello status sociale del gruppo all’interno del quale avviene, il sati del tempo mitico:

era un raro, temibile eppure commovente rituale che simboleg-giava il riaffermarsi della purezza, della capacità di sacrificio, del potere e della dignità delle donne insieme alla superiorità del principio cosmico femminile NOTA??? sposto la 41???

considerato più potente di quello maschile che, senza la sua protezione, si sarebbe fatto mortale. La ripresa di que-sti temi – osserva Nandy – serve a rintuzzare

la superficialità pomposa dei progressisti e delle femministe che ritengono che bisognerebbe immolarsi solo per cause secolari come la rivoluzione e il nazionalismo e non per delle arcaiche questioni culturali o religiose41.

Le idee contenute nel mito del sati delle origini, ripre-se dalla cultura folklorica delle ballate, dell’epica e delle favole continuano ad essere vive per milioni di Indiani e, in contrasto con la nozione che morire bruciate significhi essere degradate, Nandy ribatte ricordando la valorizza-zione del femminile operata dal mito scevro dalla conta-minazione di interessi economici. Sono questi, sempre più presenti all’interno delle famiglie, che portano alla margi-nalizzazione delle donne private dell’aura di una presunta superiorità religiosa. Nella logica imperante del mercato, una vedova diventa soltanto un peso per la famiglia che, per evitare di mantenerla e per impadronirsi della sua pro-prietà, la spinge direttamente o indirettamente al suicidio nel fuoco.

La critica e poi la messa fuori legge del sati da par-te degli Inglesi nel 1829 è parte integrante della postura coloniale che tenta di screditare la cultura dei colonizza-ti e da qui nasce l’interpretazione del sati come forma di

41 A. Nandy, Sati as Profit versus Sati as a Spectacle: The Public Debate on Roop Kanwar’s Death, in The Burning of Wives in India, ed. J. Stratton Rawley, Oxford U.P., New York and Oxford 1994, pp. 136-7.

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resistenza all’egemonia coloniale britannica. L’attacco di Nandy è rivolto alla classe media indiana che rappresen-ta una nuova istanza di colonialismo interno, facendosi portavoce della intolleranza contro i valori tradizionali che stanno alla base della «venerazione» per il sati, testi-moniata dalle moltissime statue e dal culto tributato alle donne immolate nel fuoco e rinate a una vita di pubblica devozione. Il saggio di Nandy si chiude con una riflessio-ne su altre forme di morte in cui gli interessi di mercato sono evidenti e che, proprio per questo, producono meno angoscia: le dowry deaths e cioè l’omicidio delle spose che portano al marito una dote insufficiente e la morte in guerra dei soldati adolescenti, spinti a immolarsi.

Può darsi che la guerra sia più giustificabile perché non è una prova della superstizione delle culture dei vinti in Asia e in Africa, ma un rispettabile strumento di diplomazia e una pro-fessione su cui si è costruito il mondo moderno?42

Le reazioni all’intervento provocatorio di Nandy non si fanno attendere, soprattutto da parte delle femministe indiane, che gli contrappongono una nuova analisi della costruzione coloniale dello status e della condizione delle donne in India. Negando la rappresentazione convenzio-nale delle indiane come vittime esotiche di culture patriar-cali oppressive sia indù che musulmane, le studiose fem-ministe si sono poste il problema della soggettività e della voce delle sati, per rovesciare l’essenzialismo femminile elaborato da musulmani, indù e agenti del colonialismo britannico. Lata Mani, storica e femminista indiana che vive in California, analizza in una monografia le fonti co-loniali e missionarie sul sati, confrontandole con quelle indigene43 e mettendone in luce le interpretazioni diver-genti. Da un lato, infatti, una lunga tradizione occidentale, dal XVI secolo in poi, individua nel sati un rito di origine religiosa che testimonia una forma estrema di devozione coniugale, sancita dalla virtù eroica delle vedove suicide volontarie nel fuoco. Da Montaigne ai missionari catto-lici e protestanti, ai viaggiatori europei, ai colonizzatori britannici, la sati che sceglie con silenziosa compostezza di darsi la morte sulla pira dove arde il cadavere del ma-

42 Ivi, p. 146.43 L. Mani, Contentious Traditions. The Debate on Sati in Colonial In-

dia, University of California Press, Berkeley, Los Angeles, London 1998.

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rito, è rappresentata, seppur attraverso la compassione e l’orrore, come modello di eroica abnegazione. Partecipi di una concezione del matrimonio come unione libera e affettiva, di stampo occidentale, gli osservatori europei in-sistono perciò sulla necessità di distinguere fra il carattere volontario o coatto del sati, mentre le fonti indigene – e cioè gli annunci mortuari pubblicati sulla stampa indiana – non sottolineano il legame coniugale, ma la condizione di vulnerabilità sociale ed economica delle vedove. Il sati, sostiene Lata Mani, non è un rito senza tempo che si ri-pete in modo identico, ma un omicidio in cui una vedova spesso molto giovane e affidata per la sopravvivenza alla carità dei parenti del marito, viene indotta con violenze fisiche e psicologiche al suicidio. Non esiste cioè un sati volontario, ma solo la doppia violenza contro una don-na prima spinta alla morte e poi cancellata come soggetto consapevole del proprio dolore.

Ho tentato di ricostruire le donne come soggetto, di riporta-re al centro del mio discorso le tracce attive della loro sofferenza e della loro resistenza e la coercizione che le ha cancellate o mar-ginalizzate dalle fonti. Anche se queste descrizioni del sati non contengono rappresentazioni elaborate della soggettività fem-minile, troviamo evidenza sufficiente a mettere in discussione l’immagine di donne passive, accondiscendenti e silenziose44.

Spero che, conclude Lata Mani, «le testimonianze che ho analizzato serviranno a seppellire una volta per tutte la finzione narrativa violenta del sati come espressione do-verosa di una volontà religiosa»45.

Il volume di P. Banjaree46 opera un ampliamento di prospettiva, aprendo una comparazione fra il sati e la caccia alle streghe europea. Nei due diversi contesti l’im-magine del fuoco che divora il corpo della strega e della vedova è analizzato attraverso lo sguardo dell’osservatore occidentale che inscrive il primo rituale nel teatro della giustizia pubblica in Europa, il secondo nel contesto di una vittimizzazione estrema della donna dalla pelle scu-ra, che attende l’intervento dell’uomo bianco salvatore. Il décalage emotivo evocato dai due scenari – accompagnati da un apparato iconografico che combina stampe europee

44 Ivi, p. 190.45 Ivi, p. 196.46 P. Banjaree, Burning Women, Palgrave, London 2003, soprattutto le

pp. 74-107.

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e miniature indiane – insiste sulla pregnanza dell’imma-ginario occidentale che si costruisce nel tempo attraverso processi di naturalizzazione e omologazione dell’altro.

Con il volume dello storico svizzero J. Fisch47 il sati si amplia alla pratica dalle origini incerte del «following the dead», diffusa fra molti gruppi e società umane fin dall’an-tichità48 e che vede le donne e a volte gli schiavi o il seguito di un signore, seguirlo nella morte. Il rito è parallelo a più generali processi di subordinazione sociale e di genere e alla creazione di una sfera pubblica in cui si rende visibile l’asimmetria nelle relazioni di potere fra uomini e don-ne. La repressione di queste forme di autoimmolazione, sostiene Fisch, non è prodotta da una reazione interna, ma dall’intervento esterno delle potenze coloniali, tranne che in Cina dove il Confucianesimo pose fine al suicidio sia delle vedove che delle promesse spose. Solo un muta-mento nelle credenze sull’aldilà determina la scomparsa progressiva di queste pratiche, non una diminuzione delle disuguaglianze sociali49. La storica americana Sarah Sch-neewind reagisce a questa interpretazione positiva dell’in-tervento coloniale, sottolineando le motivazioni comples-se che il darsi la morte comportava in Cina:

Le ragioni che spingevano le vedove della Cina tardo im-periale a seguire il marito nella morte includevano, fra le altre cose, il dolore profondo per la perdita di un marito amato; le difficili condizioni della vedovanza, che prevedevano anche l’imposizione di un secondo matrimonio e, come per le vedove sati in India, l’onore futuro, la memoria pubblica e perfino la deificazione50.

La Cina non è mai stata interamente colonizzata dagli europei, conclude, eppure il suicidio delle vedove non si pratica più. È finito nel ventesimo secolo attraverso lotta ingaggiata dai rivoluzionari di Mao sia contro le credenza nell’aldilà, che contro le ingiustizie sociali e di genere. Il caso della Cina contraddice perciò le affermazioni di Fisch che il cambiamento deve essere introdotto dall’esterno,

47 J. Fisch, Burning Women, a global history of widow sacrifice from Ancient Time to the Present, Seagull Books, London, New York, Calcutta 2006.

48 Ivi, p. 468.49 Id., Sati and the Task of the Historian, in «Journal of World History»,

18, 2007, pp. 361-8.50 S. Schneewind, Reconsidering «Sati in Universal Context», ivi, p.

359.

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per iniziativa degli outsiders. Anche da quest’angolazione, riferita alle pratiche di autoimmolazione, emerge con lu-cidità l’interrogativo che accomuna la ricerca sulla world history e sulla formazione degli imperi: in che modo la categoria di genere ha influito sulla formazione degli im-peri coloniali? E viceversa: in che modo un intensificarsi dello sguardo sulla formazione degli imperi coloniali ha modificato la storia delle donne e di genere? La centralità del controllo sui corpi dei colonizzati e, in particolare, la costruzione dei soggetti femminili «altri» nel contesto di modelli patriarcali indigeni e della colonizzazione occi-dentale è al centro di questa storiografia. In altre parole, lo studio delle relazioni fra uomini e donne nelle colonie, e cioè fra uomini bianchi e indigene e fra queste e le donne bianche ha arricchito quella che viene definita una storia dell’intimità e del suo controllo, in cui l’analisi della le-gislazione coloniale costruisce e rende visibili i nessi fra violenza-razza-genere. L’interconnessione fra sessualità, intimità, genere, ridefinizione della sfera pubblica e pri-vata, e costruzione del potere coloniale sposta, per così dire, su un terreno transnazionale, categorie già in parte presenti nella ricerca su genere, relazioni familiari e for-mazione degli Stati in Europa occidentale. L’ottica impli-citamente eurocentrica di quella storiografia, spesso con-finata alla dimensione regionale e nazionale, ha escluso dal quadro delle ineguaglianze sociali, giuridiche e culturali la dimensione dell’etnia e della razza che prorompe nella world history e nella storiografia su genere e imperi. Qui l’enfasi posta sulla diversità delle culture coloniali e sugli slittamenti delle cronologie impone di ridefinire le cate-gorie fondanti di household, famiglia, relazioni familiari e di genere entro un regime di disuguaglianze e gerar-chie costruite a partire dal colore della pelle e dal sesso. La ricerca sulle forme della vita domestica e dell’intimità, sull’esperienza e il vissuto coloniali aprono domande sul modo in cui tutto ciò si è riverberato sulla madre-patria. In che modo gli «altri» hanno costruito a loro volta gli Europei? In che modo hanno contribuito a definire Occi-dente e bianco?51

Vorrei infine mettere in evidenza le tensioni interne a questo dibattito e alla storiografia post coloniale sul sati,

51 Cultures of Empire, ed. C. Hall, Routledge, New York 2000.

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dove la posizione di Nandy si contrappone a quella, fem-minista, di Lata Mani. Paradossalmente infatti, analoghe preoccupazioni politiche e prese di posizione storiogra-fiche definiscono un campo in cui le relazioni di genere e la costruzione stessa del femminile aprono una serie di forti contraddizioni. L’ambito degli studi post coloniali è dunque attraversato da una difficile incorporazione del genere, che spezza, nell’opera di Lata Mani, il consenso culturale che Nandy esprime verso una rappresentazione conservatrice del femminile naturalizzato in termini a-sto-rici e sacrali. Anche il saggio di Chakrabarty sulla molte-plice costruzione emotiva, letteraria e giuridica della sati52 ribadisce la non appartenenza del soggetto coloniale alla cultura dei diritti di matrice illuminista ed europea. Senza schierarsi dalla parte di un’immemore tradizione rituale e religiosa autoctona, Chakrabarty inscrive la sofferenza della sati entro un codice narrativo «eccessivo», estraneo al linguaggio della giustizia sociale, dell’uguaglianza, e dei diritti di cittadinanza che fanno parte della tradizione eu-ropea sia liberale che marxista. La sati è un soggetto che appartiene alla dimensione del racconto, della memoria e delle relazioni familiari, la cui violenta emotività non può risolversi, né trovare riscatto, entro una transizione lineare dalla pre-modernità alla modernità occidentale. In questo senso, il linguaggio che narra il soggetto coloniale come soggetto di dolore non può espungere forme di scrittura spurie, ma capaci di tradurre l’esperienza soggettiva, inco-erente e oscura della sofferenza.

Ugualmente intenti a decostruire le master narratives patriarcale e coloniale, genere e studi post coloniali non sembrano qui entrare in sinergia. Per Lata Mani le cul-ture patriarcali indigena e britannica e le forme della loro connivenza sono il bersaglio da colpire, mentre Nandy e Chakrabarty recuperano nelle dimensioni sfumate della narrativa, del mito, della memoria e del simbolico forme culturali del Bengala pre coloniale che resistono ad ogni ipotesi di riforma e trasformazione.

L’agenda che intende ripensare il genere nella prospet-tiva di una storia che si allarga in centri concentrici fino ad abbracciare la dimensione mondo è allo stesso tempo

52 Chakrabarty, Domestic Cruelty and the Birth of the Subject in Id., Provincializing Europe cit., pp. 117-48.

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ricca di sfide e di tensioni irrisolte. Ho insistito, nel cor-so di queste pagine, sulla necessità di continuare a pra-ticare una storiografia delle «voci» per mantenere vivo, nell’ambito del ripensamento in atto, il pensiero critico delle differenze. Di fatto sia la world che la global history sono sollecitate da più parti a integrare, insieme a una più accentuata dimensione sociale e culturale, i linguaggi e le micro strategie narrative degli studi sulle differenze ed in questo senso world/global si configurano come un grande e vorace contenitore che assimila, ricompone, ibrida.

L’egemonia nord americana, con cui ho iniziato que-ste riflessioni, oltre all’ampiezza di risorse accademiche, informatiche, editoriali e linguistiche, si costruisce anche nel suo proporre la world history come artefatto prodotto da un sincretismo teorico e metodologico che ne fanno un oggetto polivalente e meticcio. Per questa capacità e pro-gettualità inclusive, la world history si pone come nuova master narrative. Compito delle storiografie che la com-pongono (genere e studi post coloniali in questo si pos-sono muovere all’unisono) è far sì che si costruisca come una narrativa ecumenica e non imperialista.

Pensare in termini di interconnessioni orizzontali, invece che lungo assi temporali verticali, costituisce una delle piste possibili di rinnovamento. Le interconnessio-ni RIPETIZIONE... sono, come si è visto, al cuore della new world history, che non si pone come storia di un pro-cesso di civilizzazione agito a senso unico dall’Occidente, né come una global history, che propone temi direttamen-te collegati ai processi attuali di globalizzazione, ma come una storia sincrona di processi paralleli attivati in e da più centri propulsori. Convergenza, sincronia, policentrismo sono termini fondanti e riferiti a cronologie differenziate e non necessariamente coincidenti con la piena «moderni-tà». Alcuni temi che hanno attraversato in questi anni la storia delle donne e delle relazioni di genere si prestano, a mio avviso, a una riformulazione che tenga conto di quan-to appena detto: il nesso fra le forme della segregazione sessuale e del potere politico all’interno dei processi di co-struzione e accentramento degli Stati svela la sua inesplo-rata sincronia volgendo lo sguardo alle due sponde del Mediterraneo, al vicino ed estremo Oriente e ai domini iberici del Nuovo Mondo. Le funzioni istituzionali delle dinamiche familiari e di genere, che Stanley Chojnacki,

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in una ricerca su Venezia, ha felicemente intitolato en-gendering the State, mettevano bene in luce i raccordi fra mercato matrimoniale, segregazione sessuale e celibato – ecclesiastico e non- di uomini e donne con la formazione del ceto politico. Mettere in relazione quelle forme e quei processi con la struttura e la funzione della segregazione negli harem, le forme del celibato e della mutilazione ses-suale maschile studiate da Leslie Pierce nell’impero otto-mano e che alcune ricerche iniziano a sondare per la Cina, sono esempi di interconnessioni orizzontali che collegano la costruzione e l’accentramento del potere politico, le forme della segregazione di genere, le pratiche corporee ad essi correlate. Sono questioni inedite che mettono in luce la capacità innovativa di un’agenda attenta alla di-mensione orizzontale, sincronica e comparata. Lo spazio, delle migrazioni e delle diaspore, ma anche quello del cor-po, diventa la categoria centrale. Nella dislocazione, nella decentralizzazione e nella iscrizione sui corpi di pratiche e poteri, la storia delle relazioni di genere misura, verifica e trasforma i propri assunti. Per una prima individuazio-ne tematica si richiede uno sguardo capace di tralasciare l’immediata e quasi ovvia (per gli storici) attitudine a co-struire genealogie, a cercare pragmaticamente nelle origini il significato di fenomeni di cui si deve cogliere la durata e poi il cambiamento. La sfida di questa nuova world his-tory, sta, a mio avviso, nel suo carattere sperimentale, nella spinta a riformulare linguaggi e cronologie attraverso la comparazione, nell’ampliamento delle fonti che includo-no oltre a quelle visive, orali, materiali, anche la fiction. Proprio perché fa problema l’archivio, la sua definizio-ne, localizzazione e conservazione, i racconti e i romanzi – quelli di Amitav Ghosh, citati dagli storici indiani per la finezza della ricostruzione documentaria- ampliano la circolazione di scritture e forme narrative che alimentano e plasmano le domande e i temi della world history. La difficoltà sta nella competenze linguistiche irraggiungibili per il ricercatore singolo, nella necessità di costruire una ricerca di équipe, nell’uscire dall’isolamento. Il rischio è che si perda di vista il soggetto (sessuato), la sua agency e la capacità storicamente data di negoziare le regole, le condizioni, le aspettative, i limiti del proprio essere nel mondo e che l’adozione di un vocabolario etic, come au-

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spicano Stearns e Pomeranz, cancelli la pregnanza e la le-gittimità di quello emic.

Il problema, scrive Northrup53, è quello di riconoscere che la world history, intesa come storia di convergenze, perde qualcosa di importante trascurando il tema della diversità. Confinarla nell’ambito degli area studies, e del-la storia delle minoranza etniche e religiose significa non comprendere il legame profondo che esiste fra la mega-narrativa della world history e l’attenzione alla soggetti-vità critica degli studi sulle differenza: ambedue mirano alla destabilizzazione delle storie nazionali e delle mas-ter narratives che ripropongono gerarchie di rilevanza e potere centrate sull’occidente e sui suoi valori. Prodotti della fase attuale della globalizzazione, ambedue pongo-no l’accento sulla tensione fondamentale che attraversa la globalizzazione RIPETIZIONE.. stessa: quella cioè fra una spinta all’integrazione e all’omologazione mondiale e la resistenza critica delle minoranze che fanno della dif-ferenza il loro punto di forza. Uno degli esiti possibili è quello di una ricerca che ponga attenzione all’interazione fra convergenze e divergenze:

Dobbiamo guardarci da un eccesso di denigrazione delle forze di convergenza oggi, e da un eccesso di valorizzazione delle stesse nei secoli passati perché è l’interazione complessa di queste spinte che va considerata, se vogliamo dare senso al nesso fra passato e presente54.

53 D. Northrup, Globalization and the Great Convergence: Rethinking World History in the Long Term, in «Journal of World History», 16, 2005, p. 265.

54 Ivi, p. 266.

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