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Forme d’aggiustamento. Note semiotiche sulla pratica dell’aikido

Maria Cristina Addis Università di Siena

Uno dei fili rossi a mio avviso più affascinanti e proficui che attraversa la densissima produzione landowskiana è la straordinaria capacità di cogliere sub-specie semiotica i fenomeni di senso più sfrangiati e aleatori, interstiziali rispetto alle grandi scienze umane, come le attitudini, gli atteggiamenti, le inclinazioni personali. Lungi da considerare Dell’Imperfezione il luogo di una frattura epistemologica rispetto al “progetto a vocazione scientifica” di de-scrizione del senso inaugurato da Semantica strutturale, Landowski rintraccia nell’interesse per la componente affettiva e sensibile dell’esperienza quotidia- na, cui è dedicata l’ultima opera interamente redatta da Greimas, la natu-rale evoluzione di una disciplina che “s’était en effet constituée à partir d’une réflexion phénoménologique portant sur notre rapport au monde perçu, envisagé comme ‘lieu non linguistique’ de l’émergence de la signification” (Landowki, 2004, p. 3)1. Il “mondo percepito”, quel luogo “non linguistico di emergenza della significazione” diventa oggetto privilegiato della ricerca non perché portatore di un senso qualitativamente distinto da quello cri- stallizzato e stereotipato dai linguaggi, ma in quanto dominio dell’implicito, ambito le cui articolazioni si sottraggono alla mappatura pregressa dell’espe-rienza che ci offrono le lingue e le culture, e che chiama dunque il semiologo non ad abdicare al progetto di esplicitazione delle condizioni di emergenza e costruzione del senso, ma al contrario a mobilitare la teoria per allargare l’orizzonte dell’interpretabile, rispettandone però le specificità, cercando per quanto possibile di coglierne i tratti salienti. Passions sans nom si apre su tale

1. Posizioni simili sono avanzate da Tarcisio Lancioni e Francesco Marsciani a proposito dell’op-posizione, fittizia ad avviso dei due autori, fra testo e pratica: “C’è una certa elegante coerenza con la nostra storia nell’avvicinarci alle pratiche come fossero testi; Greimas amava dire che i ‘testi sono i nostri selvaggi’, e allora cosa c’è di più selvaggio delle pratiche quotidiane, dei comportamenti, dei gesti ordinari, delle reazioni, (…), tutta testualità in formazione, viva trasformazione di senso” (Lancioni e Marsciani, 2007, p. 67).

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preoccupazione, con una confessione di “frustrazione semiotica”: la sensazio- ne “d’être passé malgré soi plus ou moins à côté de son objet, de ne pas avoir su en dire ce qu’il aurait fallu pour en rendre compte tel qu’en lui-même, dans sa globalité” (Ibidem, pp. 1-2).

La stessa opposizione fra intelligibile e sensibile, in tale ottica, è pensata come un doppio problema di costruzione. Per l’analista, sfidato a rintraccia- re, in immanenza, le condizioni di significatività di fenomeni di senso né indicibili né inafferrabili ma le cui salienze sono per definizione sfumate e irriflesse, per i quali lo iato fra senso vissuto e meta-discorsi che lo prendono in carico è tale da rendere grossolano e inadeguato qualsivoglia tentativo di lessicalizzazione. E per il soggetto stesso dell’esperienza, obbligato a riconfi- gurare – a ri-aggiustare – il proprio orizzonte di aspettative per rendere sen-sate quelle esperienze di sé, del mondo e dell’altro che non trovano posto nel suo sistema di saperi e valori.2 L’interesse costante per il senso in vivo, in situazio- ne mostrato dal semiologo isola e prende di mira appunto quei fenomeni significanti “senza nome” che portano in primo piano il carattere negoziale e intersoggettivo della significazione, il lavoro della semiosi cui, in quanto soggetti, siamo “condannati”.

Da cui la convergenza, nelle ricerche landowskiane, fra interrogazione sulla dimensione sensibile e affettiva della significazione e la nozione di al-terità: non oggetto di indagine fra gli altri, ma fulcro teorico attorno al quale riportare l’indagine sull’estesia nel quadro di una concezione relazionale della significazione, nella misura in cui è l’esperienza della differenza – fra culture, fra soggetti, fra soggetto e oggetto – che palesa il lavoro di costruzione del senso, laddove siamo obbligati a ridefinire noi stessi e il nostro mondo di riferimento perché continui ad essere un mondo sensato. Non solo. È pro-prio a partire dalle diverse meta-valorizzazioni del “già noto” (rischio di in-significanza) e dell’“inedito” (rischio di insensatezza) che i soggetti investono nell’interazione con l’Altro che il semiologo rintraccia altrettanti “stili di vita”, concepiti in termini di distinti regimi di costruzione del senso.3 Ho avuto

2. È lo stesso Landowski a suggerirlo, nella riformulazione da lui proposta della celebre riflessione merleaupontiniana cara a Greimas: “(…) esseri semiotici per natura, saremmo per natura ‘con-dannati al senso’. Ma non sarà vero piuttosto che, lungi dall’imporci la sua presenza, il senso deve essere conquistato su uno sfondo più originario di non senso? (…) Paradosso puramente apparente, dovuto al semplice fatto che la formula tratta da Merleau-Ponty è ellittica. Per raccapezzarci, basta completarla: ciò a cui siamo condannati, è a costruire il senso” (Landowski, 2005, p. 11 tr. it.).3. Com’è noto, il modello inter-definisce i regimi della programmazione, l’incidente (o assenti-ment), la manipolazione e l’aggiustamento rispettivamente fondati sulle meta-valorizzazioni, nella

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la fortuna di assistere in vivo a un breve tratto di tale percorso intellettuale, nell’ambito dell’edizione del suo Séminaire de socio-sémiotique della primavera 2008: durante uno di quegli incontri, ebbi un intenso confronto con i parteci-panti sull’aikido, un’arte marziale giapponese che tematizza esplicitamente la relazione con l’Altro come luogo privilegiato di produzione di senso e valore. Vorrei in quest’occasione rendergli omaggio dedicando qualche osservazione a quest’affascinante pratica motoria.

L’aikido, un’arte della contingenza

L’aikido (o “Via dell’armonia”) è un’arte marziale di difesa: esso non pre-vede forme di attacco, ma tecniche che utilizzano esclusivamente la forza dell’avversario per neutralizzarne l’aggressività e la volontà di nuocere. Così lo definisce Kisshomaru Ueshiba, quartogenito dell’ideatore:

“Aikido significa andare incontro a una forza ostile avvolgendola in un abbraccio e annullandola col nostro amore”.4

A prima vista, il discorso dell’aikido sembrerebbe promuovere un’ideo-logia pacificante, particolarmente diffusa negli ambienti “new age”, caratte- rizzata da una visione universalizzante dell’umano che espunge l’eventualità stessa del conflitto (e quindi della differenza di obbiettivi e valori fra soggetti) dal proprio orizzonte.5 Ad un’osservazione più attenta, però, le cose appaiono molto più complesse.

In primo luogo, a livello assiologico, la dinamica di compensazione fra forze opposte prefigurata dall’opposizione fra le due figure passionali

relazione con l’Altro, della regolarità, il caso (alea), l’intenzionalità, la sensibilità. Cfr. in particolare Landowski, 2004; 2005.4. Le riflessioni di Morihei Ueshiba, fondatore dell’aikido, e del figlio Kisshomaru Ueshiba, princi-pale teorico della disciplina, sono tratte da un’intervista lasciata dai due artisti marziali a Tokio nel 1957. La traduzione italiana dell’intervista è consultabile online sul sito <http://takehaya.altervista.org/NewTake/pageaikidointervista.html>; la traduzione francese sul sito <http://aikido.passion.free.fr/?2005/02/20/87-entretien-avec-o-sensei-morihei-ueshiba-et-kisshomaru-ueshiba>; la tra-duzione inglese è ora edita in: Ueshiba, K., 1968, pp. 198-219.5. Ideologia facilmente riconducibile al regime di gestione dell’alterità che Landowski definisce di assimilazione, ovvero di normalizzazione dell’alterità: secondo quest’ottica, la differenza è un “ma-linteso”, un difetto da correggere o un ostacolo da superare al fine di raggiungere l’obbiettivo desi- derato, ovvero la riduzione dell’Altro allo Stesso. Cfr. a questo proposito Présences de l’autre, op. cit., pp. 17-23. Con questo non intendo negare che l’aikido partecipi di un’ideologia moralizzante, ma credo se ne possa fare agilmente economia per concentrarsi esclusivamente sul tipo di interazione che propone e sulla concezione dell’alterità che ne discende. Questo del resto è stato il chiarissimo consiglio di Eric landowski quando lo proposi quale tema del seminario: “c'est le côté “love” et la dimension un peu métaphysique (ou mystique?) dont il me semble qu'on peut faire l'économie”.

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dell’“ostilità” e dell’“amore” non comporta, a dispetto di quanto suggerisce la definizione di Ueshiba, alcuna connotazione etica. A questo proposito, la letteratura francese è molto più cauta di quella italiana nella traduzione del vocabolo composto ai-ki-do6: Olivier Gaurin, ad esempio, opta per la definizione “la voie de la concordance des energies” (strada della concordanza fra energie), in quanto appunto scevra da connotazioni etiche o mistiche pro-prie invece ai termini di pace e armonia:

En effet, le terme “concordance” est plus près du sens japonais original de l’aiki comme étant une action de rencontre (explicité dans la composition du kanji) que le terme “harmonisation”. L’“harmonie” peut être le résultat souhaité de la pratique de l'aïkido, mais on ne fait pas d'aïkido sans faire concorder les énergies (ce qu'on fait avant et après, harmonieux ou non, importe peu tant qu'à l'aïkido comme tel). (…) l'aïkido, par la concordance (“mettre les cœurs ensemble”), amène à un résultat où il sera possible de communiquer avec l'“adversaire”, chose impossible si on a dans l'idée de l'harmoniser (“amener à une entente, se mettre d'accord”, ce qui est peut-être impossible en partant) ou de le détruire. Un autre problème soulevé est qu’“harmonie” implique souvent une notion d'amitié ou de paix, ce qui est superflu (on ne peut pas être aimé par tout le monde même si soi-même on aime tout le monde). (Gaurin, 2001, p.55, corsivo nostro).

Non si tratta dunque di proiettare sull’altro le proprie categorie inter-pretative e assiologiche (il valore della non-violenza) come fossero universali (e dunque di normalizzarne l’alterità riconducendola a un unico orizzonte valo- riale, il proprio), né di aderire al programma narrativo dell’altro – il classico “porgere l’altra guancia” – e accettare dunque l’eventualità di subire un danno (e quindi neutralizzare comunque uno dei due poli della relazione, in questo caso se stessi), né infine di sottrarsi a quella che è comunque una proposta di relazione. L’obbiettivo dell’aikido è porsi in condizioni di “co-municare con l’altro” a prescindere dai valori e le intenzioni che lo animano: l’“abbraccio” non figurativizza un fine cui tendere o uno stato da conservare ma la strategia più efficace per conservare la propria integrità – e quindi dif-ferenza – senza allo stesso tempo danneggiare quella dell’Altro. Come scrive

6. Il termine aikido è composto da tre kanji: 合(ai), traducibile in italiano con armonia, o pace, 気 (ki), energia, e 道 (do), la strada, la via. Letteralmente significa quindi “la strada dell’armonia fra energie”, che è una determinazione molto specifica de “La via della pace”, sintagma con cui viene comunemente tradotto in italiano, formulazione più ambigua che comporta, nella nostra cultura, connotazioni moralizzanti di matrice cristiana in gran misura estranee al discorso di Ueshiba.

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Gaurin, “ce qu'on fait avant et après, harmonieux ou non, importe peu tant qu'à l'aïkido comme tel”: la comunicazione coincide con la durata del contat-to, si staglia come un evento autonomo, in discontinuità con tutto ciò che lo precede e gli segue. La condizione promossa dall’aikido riguarda in definitiva la sospensione dell’ a-priori all’azione, di ogni sapere e sentire che non derivi direttamente dall’interazione stessa, che si tratti di un’immagine dell’altro, di un programma pregresso d’azione, ai livelli più avanzati persino della memo-ria delle tecniche e dei movimenti.

La frase di Ueshiba risulta meno criptica se ne consideriamo la dimen- sione figurale: “incontro alla forza” (avanzamento frontale verso l’altro) e “ab-braccio” (contornare l’altro) convocano due configurazioni plastiche, la linea e il cerchio, che prefigurano la dinamica narrativa e l’assiologia soggiacente alla pratica. A livello motorio, rispetto alla direzione dell’attacco il praticante si sposta per cerchi e semicerchi, avanza e retrocede facendo perno su una delle anche per conquistare il punto rispetto al quale potrà inserire l’altro in un sistema di leve articolari; a livello assiologico, il fine della pratica si sostanzia nel convertire la contrarietà dei due ruoli in un continuum inde- finitamente reversibile. A fronte di un regime di programmazione, in cui si trova suo malgrado coinvolto (niente è più emblematico in questo senso dell’attacco fisico), l’aikidoka reagisce integrando a suo volta l’aggressore in un nuovo regime di senso, che partecipa dei tratti dell’aggiustamento nella misura in cui la reazione consiste esclusivamente nell’aderire senza riserve alle potenzialità della situazione, e così facendo (cosa più interessante) a far sì che l’altro faccia lo stesso, e ne venga suo malgrado trasformato non solo fisica-mente, ma anche a livello “esistenziale”.

Forza vs energia. Dal valore esclusivo al valore partecipabile

In Aikido noi utilizziamo unicamente la forza del nostro avversario, sicché più forza lui usa più è facile per noi. Se lui tira, tu spingi e se lui spinge tu tiri. Movendoti secondo questo principio gli fai perdere il suo equilibrio e quindi applichi la tua tecnica. In Aikido non esiste assolutamente primo attacco. Attac-care vuol dire essere già stati sconfitti nello spirito. In accordo col principio di non resistenza, non ci opponiamo all' attaccante. Quindi, si potrebbe dire che in Aikido non esiste avversario. Dai il benvenuto ad un avversario che ti viene incontro; saluta un avversario che si ritira. Mantieni l’equilibrio originale e così il tuo avversario non saprà dove colpire. In realtà, il tuo avversario non saprà dove colpire perché voi sarete un tutt’uno (Ueshiba, 1968).

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La “lotta”, per lo meno nella sua accezione comune, è evidentemente la figura per eccellenza di confronto polemico: essa prevede almeno due soggetti distinti i cui percorsi narrativi siano contrari (nel caso in cui entrambi aspiri-no allo stesso oggetto di valore) o contraddittori (nel caso in cui per uno dei due il valore in gioco consista nell’impedire la realizzazione del programma dell’altro). Altrettanto evidentemente, perché si possa parlare di “polemica”, la definizione modale del primo si definisce come contraddittoria rispetto a quella del secondo: il poter-fare dell’aggressore corrisponde al non-poter-fare dell’aggredito, e viceversa. In altri termini, noi siamo abituati a considerare la forza un valore esclusivo: dal punto di vista dell’attacco, è ciò che consente di operare una trasformazione (danneggiare l’altro) e congiungersi con un valore euforico, dal punto di vista della difesa, è ciò che permette di conservarlo. In entrambi i casi, i due partner concordano con il fatto che alla mia forza corrisponde una non forza dell’altro, che più intenso è il mio poter-fare meno lo sarà il suo.

È questa “abitudine narrativa”, integrata tanto al nostro immaginario che al nostro schema corporeo, che l’aikido mira a scardinare: sia che si adoperi per innescare una trasformazione, sia che tenti di conservare uno stato, il sog-getto si sta opponendo allo “stato delle cose”, ed è questa iniziativa unilaterale in quanto tale, che corrisponde a una visione ego-centrica del valore in gioco, a venire riconfigurata. L’interazione violenta viene infatti ridefinita attraverso una diversa distribuzione del valore modale: all’interno del nuovo racconto la forza che non è più un valore esclusivo ma partecipabile; una volta liberata, essa non appartiene a nessuno, è un valore “a disposizione” di chi è in grado di sposarne le determinazioni.

Prima di osservare come il nuovo regime di senso affetti i partecipanti alla pratica, vorremmo dedicare qualche riflessione alle forme che assume questo paradossale “apprendimento della sensibilità”.

Il percorso somatico della non-resistenza

Una delle principali indicazioni dell’insegnante/maestro di aikido è quella di non usare la forza durante l’applicazione delle tecniche, ma il ki, o energia vitale, localizzato in un punto senza estensione situato qualche centimetro sotto l’ombelico: perché la tecnica funzioni (cioè perché il principio di leva sia applicabile), il praticante è invitato a concentrare la propria attenzione nel centro del corpo, mantenendo le estremità – colonna vertebrale e arti – “rilassate” e “allineate”.

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Secondo la pratica dell’aikido, l’immaginario della forza come valore esclusivo è pervasivo dell’esperienza, si radica a livello irriflesso nell’assetto corporale: la contrazione fisica in conseguenza a una minaccia d’attacco è interpretabile in quest’ottica come un progetto motorio in nuce, di difesa ed eventualmente di contro-attacco.

Com’è noto, l’idea che la percezione sia orientata tensivamente in fun- zione di un progetto motorio o in generale narrativo soggiace alla nozione di schema corporeo avanzata da Merleau-Ponty: un’organizzazione dinamica che integra le parti del corpo “in ragione del loro valore per i progetti dell’orga- nismo”; in questo senso “il mio corpo mi appare come atteggiamento in vista di un certo compito attuale e possibile” (Merleau-Ponty, 1945, p. 279 tr. it., corsivo nostro). Benché non sia questa la sede per affrontare l’evidente pro- blema di efficacia somatica posto dall’apprendimento di una pratica motoria, non è superfluo sottolineare come sia proprio la concezione fenomenologica a negare un’ipostasi delle “ragioni del corpo” come una regione autonoma e indipendente del senso: le riflessioni di Merleau-Ponty pongono al contrario già al livello della percezione un’istanza di narratività tale per cui percepiamo il nostro corpo in funzione dei nostri fini, di un voler fare che per quanto non perfettamente articolato a livello di coscienza è già un incipiente pro-gramma narrativo. Fra sentire, sapere e volere si individua un regime reciproca traducibilità e integrazione continua al fine di rendere l’esperienza del mondo un’esperienza “sensata”.7

È tale circuito fra cognizione (orizzonte di aspettative), volizione (progetto d’azione) e percezione che la pratica dell’aikido ambisce a riconfigurare: la “forza”, in quanto figura di un poter-fare esclusivo in antagonismo con un poter-fare contrario, attiva un percorso somatico di “preparazione all’azione”; al contrario l’“energia”, cui è sottesa una concezione del poter-fare parteci-pabile, pone l’accento sullo stato presupposto all’attualizzazione di qualsiasi programma, lo stato virtuale, valorizzato come la condizione ottimale per congiungersi con un poter-fare che nel nuovo racconto non è messo in dis-

7. Tale è la lettura del paradigma fenomenologico avanzata da Francesco Marsciani, che a proposito delle condizioni di possibilità dell’efficacia somatica osserva: “Il corpo non è una macchina. (…) il corpo, al contrario, è il luogo della significazione, quella piega del mondo che riflette se stessa e che significa la propria organicità. Il corpo è allora parte integrante del pensiero riflesso, ne costituisce la condizione immanente e, quel che più conta, il corpo è questo luogo nella misura in cui vive, vale a dire nella misura in cui prende parte ai processi in cui è coinvolto, nella misura in cui è esso stesso processo fra i processi. (…) il corpo è prima di tutto un interprete, che traduce nei suoi ritmi e nelle sue modulazioni il senso che diamo agli eventi, le interpretazioni che diamo al mondo”. (Marsciani, 1999, p. 155).

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cussione, che si offrirà come esito dell’interazione stessa. Nel nuovo quadro, la resistenza all’avversario, realizzata o attualizzata, è un programma svalorizzato come disforico: a livello percettivo, essa si traduce in un irrigidimento degli arti e della colonna, prestando dunque il corpo alla deformazione, ossia al danno fisico; a livello strategico, si converte in un’anticipazione simulacrale della si- tuazione in corso, altrettanto pericolosa in quanto impegna l’attenzione in una preparazione immaginaria distraendola dal qui e ora dell’interazione.

La “non resistenza” corrisponde dunque a un movimento di virtualiz-zazione generale che affetta tanto la dimensione somatica che quella valoriale.

Come insegnano gli antropologi, l’uomo in piedi ha immediatamente a disposizione un’intersezione di assi già data: fronte/retro, alto/basso, destra/sinistra articolano lo spazio a partire dalla posizione del corpo. In particolare, in un regime di “anticipazione”, saranno il fronte e l’alto – la zona del busto e della testa – a venire valorizzati: il primo come sede degli organi vitali da proteggere, la seconda come luogo del controllo visivo dell’intorno. È questa chiusura delle reazioni possibili in un programma particolare a venire scardi-nata dal nuovo modello, che significativamente non contempla posizioni di “guardia” come le altre arti marziali.

L’immagine del ki offre infatti un pattern di coordinazione psico-motoria alternativo a quello “ortogonale”, un modello concentrico che ridefinisce il corpo come un sistema di leve con il perno al centro: più è piccolo il perno e più lunghi sono i bracci, maggiore è la forza e velocità delle estremità. Ne consegue la neutralizzazione di eventuali direzioni preferenziali: se la verti-cale marcata dalla parte alta del corpo anticipa comunque un programma possibile, il modello a sfera non prevede direzioni o posizioni preferenziali. Ugualmente, come la testa è il luogo del dominio cognitivo presupposto a un’interazione di tipo programmatico o strategico, il bacino diventa invece la sede della ricettività alla base dell’aggiustamento: se gli arti sono rilassati (in modo che una’altra forza, locale e di diversa direzione, non disturbi il prin-cipio della leva) e allineati alla struttura ossea (in modo che eventuali torsioni non producano attrito), a un micro-spostamento delle anche corrisponderà la massima capacità di reazione.

È questo nuovo assetto che permette di dare senso all’intimazione di “fare vuoto”: liberare il campo da qualunque progetto d’azione per prepararsi ade-guatamente alla giusta reazione. L’esempio ricorrente apportato dai maestri di aikido è quello di una porta che si apre all’improvviso nel momento il cui ci accingiamo a sfondarla: l’energia che impieghiamo in previsione di una resis-

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tenza che viene invece a mancare ci si ripercuote contro, facendoci sbilanciare ed eventualmente cadere. In altri termini, la visione del mondo che l’aikido ci invita ad integrare nell’assetto corporale è radicalmente negoziale: nessuno, a prescindere dalla propria competenza, è in grado di stabilire unilateralmente gli effetti delle proprie azioni, in quanto ogni azione, anche quelle sulle “cose”, come nel caso della porta, è ridefinita come inter-azione. Lo stesso attacco, in questo quadro, prevede nella sua sintassi la collaborazione dell’altro, non fosse che in termini di resistenza: se questa polarità viene a mancare, nemme-no l’avversario può realizzarsi in quanto tale. Il valore in gioco non dipende tanto, di conseguenza, da una visione moralista o misticheggiante del mondo, quanto partecipativa: l’esistenza stessa è relazione, partecipazione all’accadere delle cose, e in questo quadro il vero valore disforico, più che l’atteggiamento violento, è l’alienazione dell’iniziativa unilaterale.

A prescindere dai gusti e gli interessi personali per le discipline orientali, ciò che ci interessa ai fini dell’analisi è che il racconto proposto dall’aikido, a tutti i livelli, “fa senso”: benché criptico, le immagini che convoca configura-no un universo di senso coerente, ed è questa sensatezza ad essere suscettibile di innestare un circuito virtuoso fra cognizione ed esperienza, che consente al novizio di reiterare la pratica nella fiducia di arrivare a sperimentare nel proprio corpo un’effettiva trasformazione percettiva e sensibile.

Uke vs tori: la danza del tao

Gli aikidoka si allenano a coppia, ricoprendo alternativamente i ruoli di attac-cante (uke, “colui che accetta, che cade”) e di difensore (tori, “colui che affer-ra”). Di solito, durante un allenamento-tipo, dopo che l’insegnante mostra il movimento, uke attacca tori quattro volte (due volte da ogni lato, alternando destra e sinistra): successivamente i due partner si scambiano i ruoli per quat-tro nuovi attacchi, e così di seguito.

Le definizioni giapponesi per cui chi attacca “accetta” e chi viene attacca-to “afferra” preannunciano già il percorso speculare che vedrà i due soggetti scambiarsi di ruolo. Di fatto questa è la caratteristica principale dell’aikido, e la ragione del suo interesse. Se a livello di meccanica motoria esso non è par-ticolarmente dissimile ad esempio dallo judo8, da cui Ueshiba adotta esplicita-

8. Un’arte marziale che è lo stesso Landowski a ricondurre al regime d’aggiustamento. (Landowski, 2005, p. 58).

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mente molti dei principi, è nella concezione dell’altro che se ne discosta: l’in-contro infatti consiste non solo nell’adottare la “non resistenza” come strategia difensiva, ma nell’offrire al partner la possibilità di fare altrettanto.

A prescindere dalle tecniche e dagli stili, ogni singolo incontro si articola in quattro sequenze invarianti:

assorbimento: nel momento in cui parte l’attacco di uke, tori si sposta per modificare l’obbiettivo o la traiettoria dell’attacco;entrata: tori accede allo spazio proprio dell’avversario;disequilibrio: attraverso i suoi spostamenti e movimenti tori provoca e amplifica il disequilibrio di uke utilizzandone la forza e l’energia cinetica;immobilizzazione o proiezione: tori proietta o immobilizza uke. L’immo-bilizzazione corrisponde a una leva su una chiave (braccio, polso, gomi-to, ecc.) tale per cui muoversi sarebbe doloroso e controproducente; la proiezione si ottiene invece facendo da perno su un punto del corpo di uke per scaraventarlo al suolo.

Le quattro sequenze che scandiscono l’incontro corrispondono ad altret-tanti stadi di una progressiva e speculare trasformazione di uke in tori e tori in uke. L’assorbimento è la fase in cui tori sospende il programma di uke, sot-traendosi allo scontro; durante la fase di entrata, inizia il processo di scambio di ruoli che si consuma nello stadio del disequilibrio: tori prima assume la posizione di uke, e in seguito il controllo della forza che uke stesso ha “messo in circolo”. Durante la fase finale, infine, è uke che si trova controllato da tori: questa è la fase più interessante, in quanto ad uke viene offerta la possi-bilità di sperimentare lui stesso la “non resistenza”: se abbandona il proprio programma per aderire alla dinamica in corso (stare fermo o accompagnare il movimento), l’esito dell’incontro sarà euforico per entrambi.

In aikido uno degli esercizi propedeutici alla pratica è di fatto “imparare a cadere”: si insegnano capriole in avanti e all’indietro che poggiano sulle parti

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Fig. 1. Esempi di proiezione.

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morbide della schiena – le spalle e i fianchi – in modo da farsi “conduttore” dell’energia liberata da tori durante la proiezione proprio come tori si fa “con-duttore” della forza di uke in fase di disequilibrio. Il pattern somatico è altret-tanto speculare, così come l’operazione di virtualizzazione che gli è sottesa: uke assume una posizione circolare – facendo convergere testa e bacino – in modo da accompagnare la forza cinetica da cui è investito senza resistergli, finché non si sarà esaurita nel moto. Tra “agente” e “agito” si instaura dunque una danza circolare nella quale le posizioni, gli spostamenti e le direzioni assunte dipendono esclusivamente da quelli dell’altro.

Non è difficile rintracciare nei movimenti circolari dei due partner l’im-magine del tao (in giapponese dō), analogia rincarata dall’uniforme bianca indossata dagli aikidoka, sulla quale si applica l’hakama, sorta di gonna-pan-talone di colore nero (cfr. Fig. 1). Ma è soprattutto a livello dei valori in gioco che la pratica mette in scena l’eterna trasformazione fra i due principi opposti che, secondo la filosofia sino-giapponese, animano l’Universo:

Nell’aikido il cambiamento è l’essenza della tecnica. Non vi sono forme nell’ai-kido. (…) le tecniche della Via della Pace cambiano costantemente; ogni incon-tro è unico, e l’appropriata risposta dovrebbe emergere in modo spontaneo. Le tecniche di oggi saranno diverse domani. Non rimanete assorti nella forma e nell’apparenza, perché l’Arte della Pace non ha forma (Ueshiba, 1968).

Nella visione del mondo di cui l’aikido si fa portatore, l’universo è per sua natura dinamico. Ne consegue da un lato che i valori euforici non possono essere stabiliti a-priori e una volta per tutte, ma emergono di volta in volta come risultanti del corso dinamico dell’esistenza; dall’altro, che è superfluo, anti-economico, e quindi disforico, adoperarsi per “trasformare il mondo”: il mondo si trasforma da solo, è nella sua natura.

In quest’ottica, la criptica frase di K. Ueshiba da cui siamo partiti assume un senso ulteriore, forse mistico ma in un senso molto diverso da quello che la nostra cultura accorda al termine: nel quadro dell’aikido “amore” è andare nella direzione della situazione, “ostilità” al contrario è opporvisi. Come ab-biamo già osservato, ciò che viene svalorizzato, in definitiva, non è l’intento violento in quanto tale, ma l’iniziativa unilaterale che non rispetta “la natura delle cose”, una natura che si rinnova costantemente. La “competenza esisten-ziale” si riduce quindi non tanto a saper essere l’altro, quanto a saper divenire altro da sé: l’identità ne emerge come una grandezza insatura, pura potenziali- tà suscettibile di compimento solo nell’interazione col mondo.

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In questo senso l’aikido può essere letto come un esempio emblematico di aggiustamento come stile di vita: non semplice tattica di resistenza, ma valore ultimo della pratica. Come osserva Landowski a proposito di tale regime di senso:

L’(inter)action, au lieu de présupposer des valeurs déjà instituées, qui la moti-veraient, fait émerger le sens et la valeur par son développement même. Le sens et la valeur ne se constituant plus en un système (sémiologique ou axiologique) présupposé, censé faire agir, ils deviennent au contraire la résultante du procès, c’est-à-dire ce que l’interaction fait être. L’interaction ne se réduisant plus à l’exécution de programmes dont le sens aurait été fixé d’avance, elle amène à proprement parler à découvrir de la valeur et du sens – non pas comme s’il s’agissait de trésors jusqu’alors cachés “sous la surface des apparences” ou der-rière le “signifiants” du sémiologue mais comme l’actualisation conditionnelle de pures potentialités, autrement dit d’effets qui n’“existaient” auparavant qu’en puissance. De ce point de vue, l’interaction est véritablement créatrice de sens (Landowski, 2004, p. 31, corsivi nel testo).

La competenza estesica propria di colui che si aggiusta si contraddistingue dunque in primo luogo per ragioni di ordine aspettuale: il sapere sul mondo e sull’altro non si dà che al momento dell’interazione stessa, non è capitaliz-zabile. Il sentire, in quanto operazione di riconfigurazione costante rispetto a un mondo che, pensato come dinamico, non può che cambiare, corrispon-de dunque a una valorizzazione del presente. L’aikidoka non è un soggetto “smodalizzato”, ma qualcuno che valorizza il qui e ora rispetto a un allora e un altrove, ed è tale tratto che ne fa un’aggiustatore: a differenza del soggetto estetico “catastrofico” tramandatoci dalle prime analisi di Dell’Imperfezione 9,

9. “L’interpretazione attualmente più diffusa si fonda sui cinque racconti di ‘avvenimenti esteti-ci’ analizzati nella prima parte del libro. In quei racconti l’esperienza estetica assume la forma di un’improvvisa irruzione del senso e del valore su uno sfondo di quotidianità contrassegnato dalla monotonia e vissuto secondo la modalità dell’indifferenza, se non della noia (…). Da questa lettura pertanto nasce quell’algoritmo elementare, catastrofico quanto alla forma, romantico per ciò che concerne lo spirito, con cui spesso – troppo spesso – si riassume la visione estetica di Greimas: anzitutto, come in ogni racconto, una mancanza, nel caso specifico prodotta dalla piattezza delle cose ordinarie, sorta di tedio dell’animo battezzato ‘attesa dell’inatteso’; poi un miracolo, che so-praggiunge a colmare quest’attesa: effimero istante d’estasi che caratterizza il momento estetico pro- priamente detto, e completa rottura tanto con ciò che lo precede che con ciò destinato a seguirlo; e infine, dopo l’avvento di questa felice rottura, la ricaduta in un mondo desemantizzato. Si tratta dunque di un percorso in tre tappe, la cui successione sotto forma di andata e ritorno corrisponde

Forme d’aggiustamento. Note semiotiche sulla pratica dell’aikido

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si tratta di qualcuno che non attende la rivelazione di un altro mondo, ma che rintraccia il luogo dell’inedito, del rinnovo del senso, nella dimensione contingente di questo.

È all’elogio della contingenza che attraversa trasversalmente l’opera lan- dowskiana, e alla concezione del senso radicalmente costruttivista che gli sot-tende, che abbiamo voluto rendere omaggio riflettendo su una pratica che situa l’estesia nel potenziale del presente, e nella quale di conseguenza

per quanto le due parti in causa restino nominalmente le stesse, in realtà esse si tramutano fronteggiandosi, diventano diverse istante dopo istante – sono cioè ogni volta, almeno sino a un certo punto, qualcosa di nuovo. Proprio per ques-to, secondo una simile prospettiva l’oggetto non è esauribile, proprio come il soggetto non è saturabile (Landowski, 1998).

Riferimenti Bibliografici

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. (2004). Passions sans nom. Paris, puf. . (2005). Les interactions risquées. Limoges, Pulim. (Tr. it. Rischiare

nelle interazioni, Milano, FrancoAngeli, 2010).Lancioni, T., Marsciani, F. (2007). La pratica come testo: per un’etnosemiotica

del mondo quotidiano. In: N. Dusi, G. Lo Feudo, G. Marrone, Narrazione ed esperienza: intorno a una semiotica della vita quotidiana, Roma, Meltemi.

Marsciani, F. (1999). Esercizi di semiotica generativa. Bologna, Esculapio.Merleau-Ponty, M. (1945). Phénoménologie de la perception. Paris, Gallimard.

(Tr. it. Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano, 2003).Ueshiba, K. (1968). Aikido. Tokio, Hozansha Publishing Co.

alla traduzione sintagmatica di un’articolazione paradigmatica soggiacente di carattere rigidamente binario: da un lato l’esperienza estetica, dall’altro la noia del quotidiano” (Landowski, 1998).

Maria Cristina Addis