filosofia (stralci e schemi vari)

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UNO SCHEMA INTRODUTTIVO AL NICHILISMO (dal Libro "Il Nichilismo" di Franco Volpi) 1

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UNO SCHEMA INTRODUTTIVO AL NICHILISMO

(dal Libro "Il Nichilismo" di Franco Volpi)

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Il termine Nichilismo fa la sua comparsa a cavallo fra il Settecento

e l'Ottocento nelle controversie che caratterizzano l'Idealismo,

ma ha assunto virulenza e vastità solo nel '900.

Nietzsche nel 1887 definisce così il Nichilismo:

"Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al "perché?"; che

cosa significa Nichilismo? che i valori supremi si svalutano".

Il Nichilismo (tra gli altri significati) è quindi la situazione di

disorientamento che subentra una volta che sono venuti meno i

valori tradizionali che rappresentavano la risposta al "perché?" e

che "illuminavano" l'agire umano.

Gorgia è "il primo Nichilista della storia":

"Nulla è, se anche fosse non sarebbe conoscibile, e anche fosse

conoscibile, non sarebbe comunicabile."

Il concetto di Nulla, come "sostanzialità" viene anche analizzato

(con scandalo all'epoca) da Fredegiso (o Fridugiso) di Tours, da

Scoto Eriugena, da Charles de Bovelles (1509), Francisco

Sanches, oltre che dai mistici: Meister Eckhart, Angelus Silesius,

Giovanni della Croce.

Celebri sono la domanda fondamentale (tanto ripresa nel '900)

di Leibniz "perché c'è qualcosa, piuttosto che il Nulla?" e il

pensiero di Leopardi

"Il principio delle cose, e di Dio stesso, è il Nulla"

Si può tendere un parallelo tra Nichilismo e il Mefistofele di

Goethe: perché lo spirito che sempre nega "

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"...perché tutto ciò che nasce/è tale che perisce/per ciò meglio

sarebbe che nulla nascesse".

è opinione comune che i due padri del Nichilismo (uno in

Letteratura, l'altro in Filosofia) siano Dostoevskij e Nietzsche. In

realtà, il primo a parlare di Nichilismo col termine "Nichilismo" fu

Turgenev in "Padri e Figli"(1862). La trama è semplice: sullo

sfondo della Russia del 1859, il conflitto della generazione dei

padri (portatori di vecchi valori, di tradizione...) con quella dei

figli (il giovane protagonista del libro è Bazarov) che dichiarano

di voler negare l'ordine tradizionale. Essere Nichilista, significa

per Bazarov distruggere il vecchio e impegnarsi nel compito

sociale di ricostruzione (nel romanzo, Bazarov è medico, e morirà

appunto di infezione contratta da un malato). Per Turgenev il

Nichilista è colui che sa di dover negare, sa che per avanzare

deve calpestare credenze e valori tradizionali, e procede

imperterrito senza preoccuparsi delle ceneri e delle distruzioni

che lascia alle sue spalle.

Appena creato, il termine ebbe un ampio successo, tanto che

venne adoperato per la prima volta in senso scandalistico

durante un incendio all'Apraksinskij Dvor (degli edifici del

mercato di Pietroburgo): la gente gridava "Guardate quel che

fanno i vostri Nichilisti! Bruciano Pietroburgo!".

Da notare come il romanzo di Turgenev esca due anni prima

dell'abolizione della servitù della gleba e dei contadini e nel

nascente clima positivista e materilista. Qui riporto un breve

accenno:

"Padri e figli" di Ivan Turgenev:

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Domanda: "Voi negate tutto o più esattamente, demolite tutto... ma bisogna anche costruire"Risposta: "Questo non è più affar nostro... da prima bisogna far piazza pulita"

In realtà, prima di Turgenev, nel 1829 Nadezdin aveva utilizzato il

termine "Nichilisti" per definire coloro i quali nulla sanno e nulla

capiscono (nell'articolo "L'adunata dei Nichilisti") così come

Katkov lo aveva utilizzato per criticare i collaboratori della rivista

"Il Contemporaneo", "come gente che non crede a nulla".

Al di fuori della Russia, in Germania il primo a usarlo, in una

novella ("Die Nihilisten") fu Karl Ferdinanz Gutzkow; in realtà,

persino Sant'Agostino aveva apostrofato come "Nihilisti" i non

credenti, mentre Gualtiero da San Vittore lo utilizza per

etichettare l'eresia che definiva l'umanità come accidente a

Cristo, sostenuto da Pietro Lombardo.

Durante il periodo della Rivoluzione Francese, il termine

"Nichilista" viene impiegato per definire coloro che non erano né

a favore né contrari alla Rivoluzione. Nel 1793 Jean Baptiste du

Val -de-Grace (in arte Anacharsis Cloots) affermava: "La

Repubblica dei diritti dell'uomo non è né teista, né atea, è

Nichilista".

Con Pascal (e prima di lui) il concetto di Nulla viene applicato alla

Cosmologia. Pascal ebbe a dire:

"Inabissato nell'infinita immensità degli spazi che ignoro e che

m'ignorano, io mi spavento."

Infatti, di fronte all'eterno silenzio delle stelle e degli spazi

infiniti, di fronte alla spaesata infinità che ci circonda nel Cosmo,

rimaniamo soli, soli con noi stessi, nullità al cospetto

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dell'Universo sterminato.

Volpi scrive: "Ma lo scenario è presto tracciato. Presto anche Dio

si eclisserà. Dapprima solo per ipotesi: tutto va immaginato come

se Dio non esistesse (etiamsi Deus non daretur). Poi per davvero:

tutto va ripensato, in primo luogo il senso della nostra esistenza,

prendendo atto del fatto che "Dio è morto". Allora, quando la

trascendenza perde la sua forza vincolante e ammutolisce,

l'uomo abbandonato a se stesso reclama la sua libertà. Anzi, non

gli resta che prendersela: l'uomo è la libertà stessa perché ormai

non è altro che quello che progetta di essere, e tutto gli è

permesso. Che questa libertà finisca poi per essere una libertà

disperata, la quale infonde più angoscia che non pienezza

d'essere, è un fatto con il quale l'Esistenzialismo ha cercato di

convivere".

IL NICHILISMO NEL ROMANTICISMO E NELL'IDEALISMO

Riporto una bellissima analisi sul Nichilismo, scritta da Franco Volpi, nel libro "Il Nichilismo".

"Schlegel usa il termine Nichilimo in un altro senso ancora, per caratterizzare la visione orientale del mondo. Egli dice che il Nichilismo è la forma mistico-orientale del Panteismo (semplificando, il Panteismo è una concezione che vede tutto il creato, anche la realtà materiale, permeata del Divino. Nota di Lunaria), equazione, questa, che si ritrova più tardi anche nell'"Essenza del cristianesimo" di Feuerbach."

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Mentre in Schlegel il significato del termine oscilla e cambia nelle diverse fasi del sul pensiero, Jean Paul ne fa invece un uso ben preciso e definito. Creatore, non a caso, del personaggio di Roquairol ("Titan", 1800), una delle significative figure di Nichilista della letteratura tedesca, Jean Paul critica nella "Clavis Fichtiana seu Leibgeberiana" (1800), dedicata a Jacobi, e poi in un intero capitolo della "Propedeutica all'estetica"(1804) coloro che egli chiama i "Nichilisti poetici", cioè i Romantici.

Essi vedono solo l'arte e non la natura: ebbri del loro io, profondamente "egoisti", non fanno che celebrare il libero gioco della fantasia, vale a dire l'attività spontanea dell'io creatore, dimenticando il non-io, la natura, l'intero universo, Dio compreso, che essi finiscono per ridurre a nulla. Ma quando, quasi come un sole che tramonta, anche Dio scompare e svanisce per un'epoca, allora tutto il mondo entra nell'oscurità.

L'ateismo spezza l'intero universo in una miriade di io isolati, senza unità e connessione, in cui ciascuno sta solo in mezzo a quel Nulla al cui cospetto perfino Cristo, alla fine dei tempi, dispera dell'esistenza del Dio-Padre. è la sconcertante visione apocalittica che Jean Paul immagina ben due volte. Una prima nel "Lamento di Shakespeare morto, tra i morti che lo ascoltano in chiesa, sulla non esistenza di Dio". Cimentandosi in una descrizione letteraria della sua esperienza del Nulla, Jean Paul immagina una voce che dall'altare proclama:

"Non v'è Dio né tempo. L'eternità non fa che rimuginare se stessa e rodere il caos. L'arcobaleno iridato degli esseri s'inarca senza sole sopra l'abisso e si dissolve goccia a goccia - noi assistiamo alla muta sepoltura della Natura suicida e veniamo sepolti con lei. Chi mai solleva lo sguardo verso un occhio divino della Natura? Lei vi fissa con una smisurata orbita vuota e nera."

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Una seconda volta nel celebre "Discorso del Cristo morto, dall'alto dell'universo, sulla non esistenza di Dio" (1796), inserito nel romanzo "Siebenkas", e fatto conoscere da Madame de Stael che lo tradusse in francese in "De l'Allemagne". Qui Jean Paul perfeziona e radicalizza la sua scandalosa visione del Nulla assoluto:

"Nulla immobile e muto! Fredda, eterna necessità! Folle caso! Conoscete voi ciò che dominate? Quando abbatterete l'edificio e me? - Caso, sai tu quello che fai quando avanzi con i tuoi uragani nel nevischio delle stelle, spegnendo un sole dopo l'altro col tuo soffio, e quando la rugiada luminosa delle costellazioni cessa di scintillare al tuo passaggio? - Come ciascuno è solo nell'immensa tomba dell'universo! Accanto a me ci sono solo io - O padre! O padre! dov'è il tuo seno infinito perché mi possa riposare su di esso?"

Nel Nulla finisce per inabissarsi anche il punto fermo sul quale gli Idealisti basavano la loro Annihilatio Mundi, cioè l'Io.

"Se ciascun io è padre e creatore di se stesso - si interroga Jean Paul - perché mai non può essere anche il proprio angelo sterminatore?"

Non è un caso che in un altro testo, da molti considerato per la sua radicale e caustica ironia il culmine del Nichilismo romantico, "I Notturni di Bonaventura"(1804), l'anonimo autore riprenda, nell'episodio dell'Ebreo errante, lo stesso motivo nichilistico di Jean Paul senza più stemperarlo nella cornici del sogno, come fa quest'ultimo. Tutto lo scritto è un cimentarsi con il Nulla, e la professione di Nichilismo fatta nell'ottavo notturno non potrebbe essere più tetra:

"Il teschio non diserta mai la maschera che occhieggia, la vita non è che l'abito a sonagli che il Nulla indossa per tintinnare

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prima di stracciarselo via di dosso. Che cos'è il Tutto? Nient'altro che il Nulla: esso si strozza da sé, e giù s'ingoia voracemente: ecco a che si riduce la perfida ciarlataneria secondo la quale esisterebbe qualcosa! Se infatti una sola volta lo strozzamento sostasse, il Nulla balzerebbe evidente agli occhi degli uomini da farli inorridire; i folli chiamano eternità questo fermarsi! - Ma no, è proprio il Nulla invece, la morte assoluta - poichè la vita consiste solamente in un ininterrotto morire.E nella chiusa dello scritto viene lanciata ancora una volta la sfida autodistruttiva all'indirizzo del Nulla:Io voglio guardare furente nel Nulla e affratellarmi con lui, in modo da non avvertire più residui umani quando infine mi ghermirà! Con te, vecchio alchimista, vorrei mettermi in cammino; solo, non devi mendicare per ottenere il cielo - non mendicare - espugnalo piuttosto, se ne hai la forza... smettila di mendicare; ti disgiungo a forza le mani! Ahimè! Che è questo -anche tu non sei che una maschera e mi inganni? Non ti vedo più, Padre - dove sei? Al tocco delle mie dita tutto si riduce in cenere e sul suolo non resta altro che una manciata di polvere, mentre un paio di vermi satolli strisciano via di soppiatto... Spargo questa manciata di polvere paterna nell'aria, e che cosa rimane - Nulla! Di fronte, sulla tomba, il visionario ancora indugia e abbraccia il Nulla! E l'eco nell'ossario chiama per l'ultima volta - Nulla!"

Questi elementi possono bastare a dare un'idea dell'immaginoso contesto in cui i Romantici trattano il problema del "Nichilismo". Ma ancora più significativo da un punto di vista filosofico è il fatto che il termine viene impiegato in senso tecnico niente meno che dai giovani Schelling e Hegel. Mentre Schelling prende atto della polemica tra Jacobi e Fichte e respinge l'accusa secondo cui egli stesso sarebbe un Nichilista, Hegel rivendica la necessità del Nichilismo trascendentale come procedimento metodico della Filosofia.

Questa prima tematizzazione del Nulla è lo sfondo sul quale

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Hegel svilupperà successivamente la diagnosi nichilistica della transizione al mondo moderno in termini di "Morte di Dio", "Ateismo", "Fatalismo", "Pessimismo","Egoismo", "Atomismo", e dichiarerà la necessità che la dialettica attraversi la negatività e il Nichilismo, cioè "il sentimento che Dio è morto", pur riconoscendolo come semplice momento nella vita dello Spirito, che va superato.

Che anche un pensatore importante come Hegel impieghi in senso filosofico il termine "Nichilismo", anche se solo nella fase giovanile del suo pensiero, è un episodio molto significativo per la ricostruzione della storia del concetto e del problema.

Per quanto riguarda la presenza ulteriore del concetto in seno all'Idealismo, a testimoniare la non occasionalità del suo impiego va detto che lo si ritrova anche in altri esponenti minori del movimento, come Karl Rosenkranz, Christian Weisse e Immanuel H. Fichte, di volta in volta con accentuazioni diverse.Ma più ci si allontana dall'originaria controversia circa la genesi dell'Idealismo, più il significato del termine si sposta dall'ambito strettamente filosofico-speculativo a quello sociale-politico, cioè alle conseguenza ingenerate dall'assunzione, da parte di un soggetto privilegiato, di un atteggiamento di radicale annichilimento di tutto ciò che ne delimita l'agire. Fa la sua comparsa la figura del "Nichilista" quale libero pensatore che demolisce ogni presupposto, ogni pregiudizio, ogni condizione già data, quindi anche ogni valore tradizionale, e che prefigura così i tratti del Nichilista anarchico-libertario che vivrà la sua stagione più intensa negli ultimi decenni dell'Ottocento." Parere di Lunaria: impossibile, a questo punto, non citare Max Stirner!

Max Stirner, "L'Unico e La Sua Proprietà" (1844)

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Io sono Il Proprietario della Mia Potenza; e tale divento appunto nel momento stesso in cui acquisto la coscienza di sentirmi Unico. Nell'Unico il Possessore ritorna nel Nulla creatore dal quale è uscito. Qualsiasi essere superiore a Me, sia esso Dio o Uomo, deve inchinarsi davanti al sentimento della Mia Unicità, e impallidire al sole di questa Mia Coscienza. Se Io ripongo La Mia Causa in Me Stesso, L'Unico, essa riposa sul suo Creatore effimero e perituro che da se stesso si consuma; sicché, potrò veramente dire: IO HO FONDATO LA MIA CAUSA SU NULLA.

Riporto anche qualche nota su Stirner, tratta sempre dal libro di Volpi.

"La sua opera capitale,"L'Unico e La Sua Proprietà" (1844), è l'espressione più rabbiosa e corrosiva del radicalismo di sinistra nato come reazione allo Hegelismo. Sostenendo le ragioni di una rivolta anarchico-libertaria spinta all'estremo, Stirner si scaglia contro ogni tentativo di assegnare alla vita dell'individuo un senso che la trascende e che pretende di rappresentarne le esigenze, i bisogni, i diritti e perfino l'immagine. E chiama l'indefinibile entità che io stesso sono "L'Unico", così come in quei medesimi anni Kierkegaard - anch'egli contro Hegel - lo chiama il "Singolo".

Principe degli iconoclasti moderni, Stirner intende smontare ogni sistema filosofico, ogni astrazione, ogni idea, - Dio, ma anche lo Spirito di Hegel o l'Uomo di Feuerbach (*) - che arroghi a sé l'impossibile compito di esprimere "l'indicibilità" dell'Unico:

"Dio e l'umanità hanno fondato la loro causa su nulla, su null'altro che se stessi. Allo stesso modo io fondo allora la mia causa su me stesso, io che, al pari di Dio, sono il nulla di ogni altro, che sono il mio tutto, io che sono l'unico. Io non sono nulla nel senso della vuotezza, bensì il nulla creatore, il nulla dal quale io stesso, in quanto creatore, creo tutto."

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Il tenore blasfemo del rifiuto stirneriano di ogni fondamento risulta chiaro se si considera che l'espressione "Io ho fondato la mia causa su nulla" fu introdotto da Goethe nella poesia "Vanitas! Vanitatum Vanitas!", rovesciando il titolo di un canto ecclesiastico di Johannes Pappus (1549-1610) che recita: "Io ho affidato la mia causa a Dio".

(*) Ludwig Feuerbach, da " L'essenza del cristianesimo" capitolo 27 " la contraddizione di fede e amore"

Il concetto di virtù si confonde qui col il concetto di sacrificio offerto a dio in contraccambio. Dio si è sacrificato per l'uomo, perciò ora l'uomo deve a sua volta sacrificarsi a dio.Quanto maggiore è il sacrificio, tanto migliore è l'azione. Quanto più una cosa è contraria all'uomo, alla natura, quanto maggiore è il rinnegamento di sé, tanto più alta è perciò anche la virtù. Questo concetto di virtù puramente negativo è stato sviluppato e attuato particolarmente nel cattolicesimo. Il suo più alto concetto morale è il concetto di sacrificio: da ciò l'importanza che assume nel cattolicesimo la verginità (*), ossia la rinuncia all'amore sessuale. La castità, o meglio la verginità, è la virtù caratteristica della fede cattolica, appunto perché non ha alcun fondamento nella natura; è la virtù più stravagante, più trascendente, più fantastica, la virtù della fede soprannaturale: è la virtù più alta per la fede, ma in sé non è una virtù. La fede dunque considera virtù ciò che in sé, per il suo contenuto, non lo è affatto; non ha quindi alcun intendimento della virtù; necessariamente deve degradare la virtù vera, poichè al suo posto innalza una virtù puramente apparente, poichè l'unico concetto che la guida è quello della rinuncia, è la tendenza a opporsi alla natura umana, a contraddirla e a negarla. Maria, Gesù: Maria è una finta-donna e una finta-madre(non ha sessualità; non ha un apparato vaginale biologicamente normale; l'eterna verginità e "l'essere senza peccato", nella

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fantasia cattolica, la priva del piacere sessuale connesso al "peccato" onde cui "non avendo peccato" non poteva "aver goduto"; il rapporto col figlio Cristo è tutto svolto nel non-amore filiale: Cristo la rinnega duramente, preferendole la folla)Cristo, maschio privo di una sessualità (non fa sesso; non eiacula; non ha moglie).Entrambi sono la negazione del piacere sessuale sia femminile sia maschile.Questo si estende anche "ai membri della chiesa": preti e suore, che non esercitano una sessualità, non si sposano: il clero maschile è formato dai successori degli apostoli e durante la messa, il prete diventa "un altro Cristo" (ne fa le veci) . Le suore sono "le spose mistiche di Cristo" la cui fecondità è da intendersi in senso non sessuale (la suore è "madre" dei bambini negli asili, ma non li procrea personalmente) . Origene entrò nella storia proprio castrandosi. Aveva preso alla lettera il detto di Cristo "Ci sono eunuchi per il Regno dei Cieli"Maria inoltre è il simbolo proprio della frigidità e per paradosso, una frigidità che è procreativa: "Essere come Maria" vuol dire "negare la propria sessualità, il proprio piacere sessuale" ma restare incinte.Tanto Cristo quanto Maria sono archetipi di negazione totale sia del corpo che dei suoi bisogni, sessuali in primis. Non solo Maria non rappresenta la donna vera ma neppure Cristo rappresenta l'uomo vero, nei suoi bisogni o desideri sessuali. Cristo, Maria: archetipi di sessualità negate, represse.

(*) Scriveva Nietzsche, nell'"Anticristo":

"Quarta Proposizione: La predicazione della castità è istigazione pubblica alla contronatura. Ogni disprezzo della vita sessuale, ogni contaminazione della medesima mediante la nozione di "impurità" è vero e proprio peccato contro il sacro spirito della vita."

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L'Esistenzialismo nasce nei primi anni '40-50, prendendo il posto (almeno in Italia) del Neo Idealismo (che si rifaceva a Hegel, punto massimo della Filosofia, appunto, dell' Idealismo tedesco, nei primi dell'800 e che parlava di Spirito e di Io) di Croce e Gentile.

Il "fratello maggiore" dell'Esistenzialismo è la complessa (anche per il linguaggio) Fenomenologia di Husserl; da questa, Heidegger (uno dei padri dell'Esistenzialismo) sviluppa le sue riflessioni.

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L'Esistenzialismo è stato un movimento trasversale, suddivisibile in tematiche:

- Libertà dell'essere umano, scelta delle possibilità e delle occasioni.- Esistenza di Dio e suo intervento nella vita umana. Definizione di Dio e del suo essere.- Esserci ("Dasein") ovvero esistere, a che modo, quando, come.- Soggettività/solitudine/abbandono- Dolore, male, soprattutto del singolo. Solipsismo, incomunicabilità.

Abbiamo quindi una serie di gruppi di Esistenzialisti, che possiamo suddividere a seconda dell'area tematica affrontata.

- Pensatori Atei o che dubitano di Dio (Sartre, Heidegger, Camus).

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Camus

A questi aggiungiamo anche l'Esistenzilismo di stampo femminista di Simone de Beauvoir.

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Questi pensatori si concentrano molto sulla libertà e sulla scelta, anche sull'impegno politico (tipo Sartre). Da questo, dagli anni '50 in poi si sviluppa anche l'Esistenzialismo di Senghor (uno dei primi intellettuali neri, amico di Sartre), per i diritti civili dei neri.

- Pensatori Cristiani (ma NON dogmatici, quindi non legati per forza ai dogmi della chiesa cattolica) convinti che Dio intervenga

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nelle vicende umane, ma che "abbia un'ombra", per esempio, o sia anche autore (sebbene non materiale) del Male; o ancora la riflessione (che verrà fatta dopo gli anni '50) del silenzio di Dio sull'olocausto. I Pensatori Esistenzialisti Cristiani più famosi sono Marcel, Pareyson, Abbagnano, Quinzio, Lavelle, Le Senne. Quinzio, Maggiolini e Küng hanno anche fatto alcune esegesi dal punto di vista Esistenzialista; Esiste anche la variante protestante e russa (Berdjaev, Sestov), e il nome del teologo pre-esistenzialista più famoso è Barth.

Le Senne

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Abbagnano

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Quinzio

Maggiolini

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- Pensatori Ebraici (Wiesel, Levinas, Rosenzweig, Buber): coniugano ebraismo/cabbala (e misticismo) con le riflessioni sull'esserci.

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Levinas

Rosenzweig

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Buber

- Pensatori Gnostici o dai toni decadenti, ribelli, solipsisti, anche scandalosi: Cioran, Caraco, Cenacchi.

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Caraco

A questi aggiungo anche Simone Weil, che per quanto cristiana, non può essere propriamente messa nel cattolicesimo, perché più mistica ed eclettica.

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Il primo Esistenzialista va però ricercato nell'800, e fu Kierkegaard, pensatore di stampo cristiano, ma molto cupo e attratto dall'angoscia.

Anche Schopenhauer fu ripreso dagli Esistenzialisti così come Max Stirner (ripreso da Nietzsche).

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A questi aggiungo anche Herzen, che portò il Nichilismo a uno stadio più "spirituale", così come Jean Paul (1700) famoso per i discorsi del "Cristo morto e orfano". In Italia il Filosofo più schopenhaueriano di tutti fu Rensi.

Herzen

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Jean Paul

Dopo l'Esistenzialismo nascono dei movimenti che mischiano la filosofia alla sociologia, psicologia, ecc., quindi non hanno più niente a che vedere con la Filosofia "pura".

SCHEMA SULLA FILOSOFIA DEL RINASCIMENTO

Un brevissimo schemino, giusto per avere qualche idea

Marsilio Ficino (1433-1499): Traduce Platone e Plotino. Il suo concetto più noto è quello del Lumen; bisogna tenere presente che era imbevuto di dottrine esoteriche, come molti altri Filosofi di quel periodo.

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Pico della Mirandola (1433-1494): L'Homo Faber, l'uomo creatore, è posto al centro del mondo. L'uomo non è compiuto, ma la sua esistenza è in divenire.

Bernardino Telesio (1508-1588): Ricerca le cause naturali partendo dai fenomeni naturali che si oppongono: caldo-secco che si oppongono al freddo-umido; ma questo concetto dell'opposizione degli opposti lo si trova anche in Jakob Bohme (1575-1624) ("Ovunque uno è contro l'altro non perché suo nemico, ma proprio per potersi esso stesso muovere e rivelare"; il mondo è costituito da opposizione e del resto alla luce occorre il buio, per manifestarsi come suo contrario, e viceversa; nessuna cosa si manifesta senza il suo opposto, in un'armonica lotta perenne). Hegel riprenderà il concetto nella sua Dialettica.

Francesco Patrizzi (1529-1597): Principio dell'Henkaipan: non esiste niente altro che l'Uno e il Tutto, L'UnoTutto (Unominia). Si collega quindi a Plotino e al suo concetto di Uno ("semplificando" possiamo definirlo "Dio" al modo che lo intendiamo noi, anche se bisogna fare lo sforzo di "scristianizzarci" dai preconcetti che abbiamo appreso nostro malgrado, in campo spirituale, e che passano, per forza di cose, in secoli di cristianità) e a molta Mistica, che riduce Dio a Nulla.

Pietro Pomponazzi (1462-1525): Nega l'immortalità dell'anima.

Giordano Bruno (1548-1600): 1) Ipotizza l'esistenza di altri pianeti, oltre a quelli conosciuti alla sua epoca.2) Teorizza il Minimum, (seme della vita, che reca un'impronta individuale) tre piani di esistenza (Metafisico, come Monade -Matematico - Fisico, come Atomo) e il Maximum, ovvero l'Infinito.Mi sembra che si possa accostarlo al concetto di Niccolò Cusano, sulla Coincidentia Oppositorum (che credo anche si possa vedere

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in Hegel, tra l'altro) ovvero la Coincidenza del Massimo e del Minimo, del Creare e del Creato, del Tutto e Nulla.

Tommaso Campanella (1568-1639): semplificando al massimo la sua Filosofia:

Teorizza coppie di opposti (similmente a Telesio e Bohme)tra cui: Contingentia/Necessitas, Casus (singolarità)/ Fatum (destino "già programmato"), Fortuna (simile a una sorta di "capriccio") / Harmonia (Ordine).

- Dubito, Cogito Ergo Sum: dubito di tutto, ma non posso dubitare del fatto di dubitare: il mio stesso dubbio, diventa quindi certezza del fatto che sto dubitando, quindi pensando.

- Ciò che trovo in me è nella sua essenza finito e limitato.

- Impotenza, odio, stoltezza sono il Non Ens, il Non Essere, il Nihil, il Nulla, il nostro limite interno. La vittoria sul Niente, sul Non Essere (Non Ens) promuovendo l'Ens (l'Essere), diventa affermazione dell'Essenza Solare, ovvero un'Annientamento del Niente, che equivale a renderlo un qualcosa.

Teofrasto Paracelso (1493-1541):

- L'uomo è il mondo in piccolo

- Il cosmo è l'uomo in grande

- Ciò che è in basso è anche in alto e ciò che è in alto, è anche in basso.

Interpretando questo pensiero, si può affermare che l'uomo nella sua complessità è immagine di ciò che accade nel mondo, e anche nel cosmo, solo che la nostra natura limitata ci impedisce

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di comprendere la chiave di lettura sia del mondo che del cosmo. Ciò che fa parte delle cose materiali/basse si trova anche nelle cose spirituali/alte e viceversa. Credo si possa anche intenderlo in senso panteistico, Dio è ovunque, nel basso come nell'alto e viceversa.

Ora un concetto alchemico:

Mercurius + Sulphur + Sale -------> Mercurio e Zolfo hanno un'azione fluidificante e di trasformazione. Il Sale invece è ciò che conserva. Si trova anche nel Nuovo Testamento, come espressione, il "Sale della terra" in riferimento agli apostoli.

A questi tre elementi si aggiunge Archeo, lo Spirito del Macrocosmo, affine a Mercurius; Archeo è regista della vita organica e Quinta Essentia di tutte le cose.

Vorrei trascrivere alcune mie riflessioni e frasi che a mio parere rappresentano l'Esistenzialismo.

Possiamo già trovare in Max Stirner e Arthur Schopenhauer i precursori dell'Esistenzialismo.

Il primo già nel 1844 in "L'Unico e la sua proprietà " sosteneva:

"Nessun concetto può esprimermi, nessuna cosa di ciò che si esibisce quale mia essenza può definirmi;Io sono il proprietario della Mia potenza e tale divento appunto

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nel momento stesso in cui acquisto la coscienzadi sentirmi unico.Se io ripongo la mia causa in me stesso, l'unico,essa riposa sul suo creatore effimero e perituro che da stesso si consuma".

Eccolo il suo "Io ho fondato la mia causa su nulla" cioè su nessun altro concetto pre-esistente a me (Dio, patria, famiglia ecc.).

Schopenhauer invece preannuncia:"Siamo simili a degli agnelli che giocano sul prato mentreil macellaio già sceglie con l'occhio ora l'uno ora l'altro""è il dolore il senso della vita e la gioia è solo la momentanea liberazione da un dolore"

Sarà poi Kierkegaard a introdurre una "cura" (sicuramente non utile a tutti) al disagio esistenziale, cioè la fede in Dio, in un rapporto "faccia a faccia".Ma Kierkegaard non nega che "l'esistere sia una colpa": i tormenti, i limiti, le croci...("la spina nel piede" che permette di saltare più in alto) o anche solo "voler essere se stessi nel proprio tormento per poter protestare contro tutta l'esistenza". ["La malattia mortale", 1849]

Un cristianesimo tutt'altro che semplicistico e buonista, quindi, con la fede in Dio vista come "salto nell'assurdo".

Da questi tre grandi precursori vediamo la nascita dell'Esistenzialismo nel '900.

Chi partirà dal cristianesimo (Marcel-Lavelle-Le Senne) conciliando fede in Dio, amore, sofferenza ed esistenza (Marcel sosteneva che la vita è mistero) o Pareyson - che si rifaceva a Kierkegaard eBerdjaev - che molto "ereticamente" sosteneva la presenza del

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male in Dio, malgrado solo l'uomo ne diventi l'esecutore materiale.

Ma l'Esistenzialismo viene anche assimilato all'ateismo e alla "possibilità del possibile"; il primo caso è rappresentato da Heidegger ("l'esserci è gettato nel mondo") e Sartre ("l'uomo è l'essere che progetta di essere un Dio, ma è un Dio mancato") mentre il secondo tipo di Esistenzialismo è quello italianodi Paci e Abbagnano, che propongono la possibilità del "poter essere" per il futuro, lasciando quindi uno spiraglio di speranza per l'azione e il divenire.

Sicuramente l'Esistenzialismo interpreta la realtà umana alla luce del dolore e della morte: l'uomo è fragile, abbandonato costantemente in pericolo.

Interessante citare il Problematicismo di Ugo Spirito che vede la vita come "ricerca, condannata a cercare la verità senza trovarla" e quel "Perché il fine lontano non sarà mai raggiunto mentre i tormenti, le sofferenze, i crimini del presente sono anche troppo reali" di Aleksandr Herzen (1850) vera gemma di Nichilismo rassegnato a contemplare le proprie rovine di ciò che è stato.

Curiosamente anche due frasi dell'Idealismo dimostrano come neppure chi ha sempre usato lo strumento della ragione per indagare la realtà sia stato immune dall'angoscia:

"La coscienza di vivere è soltanto dolore perché in questa vita essaè consapevole di avere per essenza il suo contrario e di identificarsicon la propria nullità" di Hegel e quest'altra frase del neo idealista Croce: "Ora la vita intera è preparazione alla morte, e non c'è da fare altro sino alla fine che continuarlo, attendendo

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con zelo e devozione a tutti i doveri che ci spettano. La morte sopravverrà a metterci in riposo."

"Non esiste alcuna eternità tutto diviene, nasce e muore, esceprovvisoriamente dal nulla. Quando si muore oltre la tomba non si trova altro che il nulla definitivo, definitivamente non si trova nulla [...] "L'essere già stato del dolore non può avere riscatto." (Severino)

"Il poter morire che ognuno di noi riferisce non solo a sé ma anche agli altri è il fondamento talora nascosto di attività , pensieri, affetti,cure."(Abbagnano)

Ma l'Esistenzialismo ha solamente gettato l'uomo nell'abisso?Niente affatto.Lo ha gettato, ma anche mostrato una via d'uscita.

"La vita è sempre un adesso, e consiste in ciò che ora si è" [...] "Conoscere la vita è rendersi conto, scoprire ciò che già possedevamo ma in modo coperto." (Josè Ortega y Gasset)

"Nella profondità dell'inverno ho finalmente imparato che c'era dentro di me un'invincibile estate." (Camus)

"Il destino è l'accettazione di questa identità : io lo amo come amo me stesso perché solo in esso io sono conscio del mio esistere." (Jaspers)

"Chi vuol avere un attimo solo sua la sua vita, essere un attimo solopersuaso di ciò che fa, deve impossessarsi del presente, vedere ogni presente come l'ultimo, come se fosse certa dopo la sua morte: e nell'oscurità crearsi da sé la vita... chi guarda l'oscuritàconosce la luce."(Carlo Michelstaedter)

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"Il realmente possibile è ciò che che noi possiamo continuare a scegliere senza che l'averlo scelto una volta renda non possibile la scelta ulteriore... scegliere una possibilità tra le tante e possibili...la decisione dell'uomo è perciò stesso azione nel mondo... Il Nulladetermina la natura dell'esistenza... ogni nostra possibilitàpuò ad ogni istante cadere nel Nulla... L'uomo può anche riconoscere e accettare la nullità fondamentale dell'esistenza per riconoscere che tale nullità e la morte costituiscono la vera natura di lui in quanto uomo. La morte gli appare come la sola possibilitàche gli consenta di realizzarsi come uomo cioè come esistenza." (Nicola Abbagnano)

In conclusione, malgrado la vita sia a priori dolore e morte, con il suo carico di angoscia e solitudine, l'Esistenzialismo ci insegna che per "vivere bene" si può costruire da sé il proprio sensoalla vita, attimo per attimo, senza confidare nel futuro, perché il futuro non è certo; vivere ogni attimo quindi è l'unico modo per non aver rimpianti e "tutelarsi" dal senso di precarietà a cui siamosoggiogati.

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Ormai da un paio di anni, sono convinta che queste due dottrine filosofiche mostrino una via - forse la più difficile, in apparenza -per poter comprendere se non "sconfiggere" il dolore che tutti sperimentiamo su livelli diversi.All'ipotetico dialogo tra un metafisico e un nichilista, alla domanda "Perché l'Essere e non il Nulla?", un Nichilista affermerebbe "Dì piuttosto: perché il Nulla - ovvero morte,

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malattie - e non l'Essere?- vita felice, amore"

Penso si debba partire da qui per poter comprendere di cosa il Nichilismo si fa profeta.

Se l'Essere - noi stessi - ci annichiliamo nel Nulla - ed è inevitabile -possiamo però agire, e qui entra in scena l'Esistenzialismo, il quale non nega né il dolore, né tantomeno ammette - ad esclusione di un Esistenzialismo di tipo cristiano - che la vita dell'uomo sia un divenire soltanto dopo la morte, quindi in un ipotetico paradiso o al di là.

Sartre ci ricorda che siamo "Condannati ad essere liberi", a scegliere qualcosa e anche se non scegliamo nulla, scegliamo comunque.Siamo abbandonati qui sulla terra, senza un dio qui e ora - è indifferente per il qui e l'ora che esista un dio; certo, può esistere, ma se esiste è indifferente alle vicende umane e immobile nella sua impassibilità nell'alto dei cieli - siamo quindi soli, senza guida e con il libero arbitrio di fronte al male, al dolore, alla precarietà. In una prospettiva femminile, poi, concettualmente, non esiste alcuna "Gesù Crista" vera Dea e vera Donna che abbia magnificato il corpo femminile. "Perché Dio non si degnò di farsi anche femmina?", è questa la domanda che non ha risposta dal diretto interessato.

Sta a noi, quindi, creare il nostro senso della vita, e del dolore, che è realisticamente connesso ad essa ed inscindibile da essa.

Ad un Io Stirneriano - fiero, egocentrico, potente - si affiancaun'esigenza altrettanto fiera, egocentrica e potente di diventare ipropri Dei (anche se Sartre afferma che l'uomo è sì un Dio, ma un Dio mancato e Cioran commentava "Dio ha sfruttato tutti i nostri

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complessi di inferiorità, a cominciare da quello che ci impedisce di crederci Dèi.") quindi gli unici detentori della nostra vita.

"Se ciascun io è il padre e creatore di se stesso, perché mai non puòessere anche il proprio angelo sterminatore?", ci chiede Jean Paul.La vita è un "Esserci", un Esisterci.

Questa è la prima presa di coscienza - dataci da Heidegger - della nostra condizione di vita (che altri ci hanno imposto... Nascere non dipende da noi: abbiamo sulle nostre spalle il peso del fardello di una scelta che non è dipesa da noi)

La seconda presa di coscienza di noi stessi è:

"Proprietario del mio potere sono io stesso, e lo sono nel momentostesso in cui so di essere Unico perché ho fondato la mia causa su Nulla , cioè su nient'altro di pre-esistente prima o al di fuori di me.

Questa è la Gnosi dell'Io, dataci da Max Stirner.

Dire che il Nichilismo non ha portato nuovi principi è falso. Egli ha spezzato le catene che tenevano la mente umana subordinata a concetti irreali, indifferenti per il qui e l'ora dell'esistenza, come Dio, patria, famiglia, morale.Tutto - l'essenza delle cose - è nient'altro che nulla e non esiste un domani certo, ma solo un oggi.

QUI E ORA.

Questa è la nostra certezza, certezza angosciante, certo, ma reale.

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L'uomo è un nulla conscio di sé (Bahnsen, Cioran) ed una passione inutile (Sartre).

Il Nichilismo fa di noi eroi: risorgere dalle proprie ceneri dopo aver distrutto tutto ciò che ci limitava. Solo con il dispiegamento, l'attraversamento totale del Nulla, il salto nel Nulla jungeriano, noirisorgiamo nuovi, se non guariti, più coraggiosi perché essere coscienti della potenza del dolore e del Nulla ci aiuta ad "assuefarci" ad essi e a non temerli.

"Non c'è nulla che giustifichi il fatto di vivere. Dopo essersi spinti al limite di se stessi si possono ancora invocare argomenti, cause, effetti, considerazioni morali ecc? Certamente no. Per vivere non restano allora che ragioni destituite di fondamento. Al culmine della disperazione, solo la passione dell'assurdo può rischiarare di una luce demoniaca il caos." (Cioran)

"Anche se fosse un inganno, l'esperienza del vuoto meriterebbe sempre di essere fatta. Ciò che essa propone, ciò che tenta, è di ridurre a niente la vita e la morte al solo scopo di rendercele tollerabili. " (Cioran)

Con le frequentazioni quotidiane nel Nulla, non si paventa più la morte (si vive facendo attenzione a secondo dopo secondo). Queste meditazioni ci rendono il Nulla quasi sopportabile (a questo avviso gli aforismi di Cioran sono quanto di più salutare ci sia).

Essere un nulla vuol dire non essere l'Essere, che è caratterizzato da dolore e paura.

Se tutto è transitorio, per cosa combattere?

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che cosa edificare?

Nulla.

Forse è meglio prendere coscienza di questo e partire da qui, piuttosto che cibarsi di concetti sterili e menzogneri come la fede o l'empatia.Occorre riconoscere la transitorietà delle cose e partendo da qui cercare di costruire qualcosa, anche se, in tutta onestà, non serve a niente.Ma io non critico chi, preda del vortice della disperazione, non fa nulla e lascia che gli eventi vadano come vadano, senza preoccuparsi delle conseguenze.Siamo Esseri-per-la-morte (concetto Heideggeriano) e la morte è il nostro limite, la nostra finitudine.

"Già mentre viviamo, moriamo". "Morir viviendo" diceva Quevedo. E Graciàn, nel suo El Criticòn: "Il viver non è altro che un andar morendo ogni giorno". E Montaigne: "Siete nella morte mentre siete in vita [...] durante la vita siete morente". (Vladimir Jankélévitch)

Viviamo quindi ogni secondo, al meglio che possiamo.Dopotutto se tutto è transitorio, anche il nostro dolore lo sarà.Una volta che si è saltato nel Nulla non si torna più indietro. Tutto è sbiadito, opaco, irrilevante.

"Il futuro dirà che gli unici chiaroveggenti erano gli Anarchici e i Nichilisti" (Caraco)

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Uno schemino per capire cos'è il Pessimismo in Filosofia!

1) Nella vita umana, i dolori superano i piaceri e la felicità è irraggiungibile (Egesia)

2) Nella vita umana i mali superano i beni, sicchè essa è un complesso di vicende malvagie. Il Pessimismo fu difeso dal padre apologista Arnobio (IV secolo). La stessa esistenza dell'uomo appare ad Arnobio inutile all'economia del mondo.

(Nota di Lunaria: in un certo senso, questo stesso concetto, l'inutilità dell'esserci e dell'agire umano "nell'economia del mondo/universo" lo si trova in de Sade. In alcune dissertazioni filosofiche - specialmente nell'opera completa di "Justine" -laddove l'innocente e pia Justine - che subirà una serie infinita di sciagure - cerca di "convertire" i libertini, che si macchiano di una serie di delitti agghiaccianti, facendo loro presente il valore e la dignità della persona ad immagine e somiglianza di Dio, i libertini replicano che nell'economia della Natura-Matrigna tutto si equivale, e così che esista il male o la violenza è utile in ugual modo, ai suoi piani, e che l'universo stesso tende a bilanciarsi proprio sulla continua alternanza tra bene e male, morte e nascita ecc. Non tutti penserebbero che il vero de Sade, che spesso viene tacciato di "satanismo", in realtà sosteneva l'irrilevanza di questo o quello, in una sorta di realtà parallela - ma si tenga presente che in tutta l'Opera di de Sade a prevalere è la megalomania ed un titanismo sfrenato, basato su cifre numeriche esagerate, che si palesano come ovvia utopia al di là delle capacità fisiche umane: si veda a tal riguardo le migliaia di frustate o di coiti ripetuti a ciascuna riga-; più che scrittore erotico o pornografico - data la violenza di certi passaggi - de Sade è principalmente Filosofo Ateo e (ferocemente) Meccanicista - è pur vero che non mancano passaggi blasfemi

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oltre che anticristiani in "Justine", ma a scopo ludico, giacchè la bestemmia contro Dio viene vista come "eccitante" e non tanto come glorificazione di uno "Spirito del Male" - oltre che ad essere un Filosofo Pessimista).

3) Ogni vita è in generale male o dolore. Questa è la tesi del Pessimismo Metafisico sostenuta dal Buddhismo e da Schopenhauer.

4) Il mondo nella sua totalità è la manifestazione di una forza irrazionale. Secondo Schopenhauer di una "Volontà di vita" che dilania e tormenta se stessa. Secondo Hartmann, un principio inconscio che diventando progressivamente consapevole, distrugge le illusioni.

Se ci pensiamo, è vero. Tanto più soffriamo per qualcosa, e tanto più acquistiamo una sensibilità dolorosa, un riuscire a vedere costantemente il male e la precarietà ovunque, una sorta di sesto senso o di preveggenza.

"L'automatismo della malattia è tale che essa non può concepire niente al di fuori di se stessa. A lungo andare, essa non dà più nulla a colui che soffre se non la conferma quotidiana della sua impossibilità di non soffrire." (Cioran)

"Finchè si sta bene non si esiste, più esattamente: non si sa di esistere." (Cioran)

Tutto questo atteggiamento è solo negativo, oppure è possibile trovare uno spiraglio di positività ed utilità anche nel Pessimismo?

A parere di chi scrive, sì. Cioran ebbe a dire in più occasioni:

* Soffrire: il solo modo d'acquisire la sensazione di esistere.

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("La tentazione di esistere")

* Soffrire è produrre Conoscenza. ("Il Funesto Demiurgo")

* Creare significa trasmettere le proprie sofferenze.("Storia e Utopia")

Riporto qualche frase anche di Schopenhauer (1788-1861).

Quest'orrore per la Volontà di vivere e dunque per il divenire, non è però disperazione pura, perchè il ritirarsi dal tutto, "in modo che davanti a noi resta invero che il Nulla" è un'ascesi che non conduce al Nulla Assoluto (in termini kantiani, al Nihil Negativum; Schopenhauer era un fedele seguace entusiasta di Kant) ossia a ciò che è Nulla relativamente a qualcosa.

"Se un Dio ha fatto questo mondo, non vorrei essere Dio; l'estrema miseria del mondo mi lacererebbe il cuore."

A Schopenhauer dobbiamo anche una delle più belle consolazioni filosofiche alla paura della morte; equiparando il nulla della morte con il nulla che c'era prima della nostra nascita -quando appunto non eravamo niente, o al massimo, dei feti appena formati - ecco che il non essere della morte viene a essere meno spaventoso:

"Il non essere dopo la nostra vita non si differenzia in nulla da quello prima di essa, perciò affliggersi per il tempo in cui non ci saremo più è tanto giusto quanto affliggersi per il tempo in cui non c'eravamo ancora. La vita umana è un oscillare perpetuo fra il dolore e la noia."

Nessuno di noi infatti teme o si spaventa per il nulla che eravamo prima di esistere, e neppure per il nostro esistere inconsapevole

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e non manifesto alla nostra mente (quando eravamo feti). Ecco perché Schopenhauer nel tentativo di dipingere la morte in modo meno spaventoso e angosciante, la equipara al nulla della nascita, riuscendo a mio parere, a ridurre la portata angosciante che la morte ci provoca.

Possiamo così concludere che è soprattutto dalla disperazione che nascono le Opere d'Arte. I travagli personali, i drammi solipsistici, l'angoscia, la disperazione, se incanalati in una forma d'Arte, in qualche modo vengono esorcizzati, purificati e permettono l'elevazione dello Spirito. Tutti i più grandi geni dell'umanità hanno gustato dolore e pianto, e non mi risulta che nessun cognitivista abbia mai dipinto come un Bacon, un Munch o un Van Gogh, o scritto come un Cioran, un Kierkegaard o un Leopardi, per citare famosi ed illustri esempi di persone tormentate nel profondo, che non hanno affatto rinnegato la loro sofferenza, ma anzi, sono vissuti solo per "celebrarla".

Trascrivo un'analisi trovata in un libro "Mistici e Maestri Zen" di Thomas Merton e che riprende il concetto interessante dell'Esistenzialismo religioso.

"Nell'Esistenzialismo religioso la nullità vuota e senza Dio della libertà e della persona, il sartriano Nèant, diviene l'abisso luminoso del dono divino. è vero che l'Io è nulla, ma nulla nel senso dei mistici apofatici come San Giovanni della Croce, in cui il nada o nullità dell'Io, privo di false immagini, progetti e desideri diventa il todo, il tutto, nel quale la libertà dell'amore personale

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si rivela nel suo fondo e nella sua fonte trascendentale che noi siamo abituati a chiamare l'amore di Dio e che nessun nome umano può mai definire o spiegare".

Questa invece è una retrospettiva schematica, molto efficace, dei principali Pensatori Orientali: Suzuki e Nishida.

"Considerando il vasto campo dell'Esistenzialismo, abbiamo da una parte, Camus e Sartre, che si qualificano entrambi atei;dall'altra Jaspers, il cui pensiero è fondalmentalmente teistico e anche cristiano. Abbiamo l'Esistenzialismo giudaico di Buber, quello ortodosso e gnostico di Berdjaev, quello buddista di Suzuki e Nishida, quello protestante di Bultmann, Tillich e quello cattolico di Gabriel Marcel e Louis Lavelle. Ricordiamo anche Maritain e Gilson, che pur rimanendo fedeli a San Tommaso e criticando l'Esistenzialismo dal punto di vista tomistico, hanno contribuito non poco a una prospettiva cristiana largamente esistenzialista."

Riporto anche un passo tratto da Padre P. Evdokimov, teologo russo con influenze esistenzialiste.

"Dobbiamo prestare molta attenzione alle domande esistenzialiste che hanno una considerevole forza filosofica.Esse sconvolgono l'ottimismo ingenuamente allegro di una filosofia religiosa nella quale il male funge da bene e quindi cessa di esistere come male: un fatto che rende incomprensibile la morte di Dio sulla croce.Proprio Sartre dice che "Dio" attenua il carattere radicale del male, dell'infelicità, della colpa"

E questo è un confronto tra Zen e Esistenzialismo:

"Nello Zen, la vera autorità è quell'Io che è esso stesso autorità e non fa assegnamento su qualche cosa... la vera autorità è dove

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non c'è distinzione tra ciò che fa e ciò che non fa assegnamento su di essa".

Riporto anche un brano di Giovanna Pandozy, tratto da "Geodi di silenzio" (1993)

"Belle, a questo proposito, sono le analisi degli Esistenzialisti.Per Heidegger, la condizione umana si può riassumere così:

Essere nel mondoEssere con gli altriEssere per la morte.

Cerchi successivi che materializzano, plasmano, restringono, i confini dell'Io. Direbbe Sartre: Negli occhi dell'altro Io sono soltanto uno degli oggetti del mondo. L'altro è uno specchio in cui vediamo il nostro volto. è anche la tela, lo schermo su cui proiettiamo le nostre paure (è la presenza familiare che rende meno assurde le nostre sembianze). L'Altro è colui che sancisce, attribuisce un valore alle nostre azioni, rilevanti nel suo universo con un complesso gioco di interferenze "

"Cosmo, perchè vuoi essere capito? Perché ti presenti come un problema?"

Magnifico paradosso, ma noi siamo l'Altro e per esso noi vogliamo Giudicare e con il Giudizio appropriarci dell'oggetto del nostro sguardo. E siccome il cosmo è ben altra cosa che un essere umano - che pensiamo di conoscere per similitudine con noi stessi senza renderci a volte conto che le differenze sono anche superiori alle analogie - nell'osservare il cosmo e tentare di "assimilarlo" nel nostro Sguardo falliamo per evidente inferiorità. La nostra pulsione alla conquista ne esce frustrata, perciò il cosmo si presenta come un problema per l'essere umano.

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Cerchi successivi che materializzano, plasmano, restringono, i confini dell'Io. E' vero, circoscrivere l'Io è un processo continuo e lungo l'intera vita: all'inizio non si conoscono i confini (fase infantile), poi si tende a espanderli (fase adolescenziale/giovanile), poi a rafforzarli (fase della maturità) e infine a eroderli e perderli nella vaghezza del ricordo (fase senile).

L'altro è colui che sancisce, attribuisce un valore alle nostre azioni, rilevanti nel suo universo con un complesso gioco di interferenze.Essere soli significa non conoscere il proprio valore che ci viene attribuito attraverso l'interazione con gli altri.

E un commento in riferimento a "Geodi di silenzio":

Non è vero, come lei scrive, che: "Essere nel mondo, essere con gli altri, essere per la morte restringono i confini dell'Io."Se mai li ampliano, perché l'Io non sarebbe proprio nulla al di là della 'presa sul mondo': l'Io non è nient'altro che il coagulo delle relazioni che intrattiene col mondo. Heidegger però considera un Io fondamentalmente "irriflesso", cioè non tiene in debita considerazione quegli stati dell'Io per cui l'Io stesso, il suo essere-al-mondo, si fa oggetto del suo stesso contemplare e che conducono l'individuo a nuove possibilità esistenziali, dalla disillusione alla atarassia, stati che Schopenhauer e Cioran, al contrario di Heidegger, considerano, dimostrando la loro incontrastata superiorità filosofica.

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Dal libro "I nuovi demoni" di Simona Forti.

Per ridefinire il senso che può assumere oggi l'interrogativo sul male politico, ho scelto allora di percorrere la via, per così dire laterale, dell'approccio genealogico. Mi sono interrogata sul rapporto tra male e potere, concentrandomi sulle ripercussioni politiche dei diversi presupposti filosofici. Ho tentato di ricostruire le condizioni che lo hanno reso pensabile a partire dalla tarda modernità, per capire in che modo i concetti che lo hanno definito possano essere mantenuti, riformulati o abbandonati. Il punto di partenza di un tale tragitto non può che essere lariflessione kantiana. Nell'opera "La religione nei limiti della semplice ragione", in cui il filosofo tedesco ritorna sul problema del "male radicale", si compie infatti una svolta decisiva nei confronti della precedente tradizione filosofica. La definitiva distinzione tra male fisico, male metafisico e male morale che Kant assume consente di sostituire alla domanda, squisitamente teologica e metafisica, "da dove viene il male?" l'interrogativo etico, antropologico e storico "perché commettiamo il male?". Il male morale, per il filosofo tedesco, non è più dunque una sostanza, e non è nemmeno un non-essere.È un agire: un agire che ha a che fare con la libertà. Tuttavia, per quanto Kant renda pensabile il complicato intreccio fra male e libertà, si arresta, per sua stessa ammissione, di fronte all'"imperscrutabilità" della radice di tale legame. È impensabile per lui la possibilità di azioni malvagie che violino intenzionalmente la Legge morale; è inammissibile l'esistenza di esseri umani che perseguano il male per amore del male. (Nota di Lunaria: invece in campo letterario abbiamo due esempi di personaggi/alter ego che teorizzano il fare il Male per il piacere del Male: de Sade, che nel suo macrocosmo filosofico/pornografico giunge a giustificare il Male come necessario - tanto quanto la Virtù e il Bene - all'economia

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dell'universo e di Madre Natura, estremizzando la sua concezione meccanicista della realtà; il secondo nome è quelle del Conte di Lautreamont e del suo Maldoror, un libro nel quale trapela una vena grottesca e allucinante, a tratti rivoltante. Un'altra cosa interessante, in de Sade, è il suo aver dato vita a eroine femminili per niente passive o sottomesse, ma anzi, tanto più "scellerate" o dominanti degli uomini; la società teorizzata da de Sade è - giustamente - irrealizzabile, ma tra le tante nefandezze con le quali condì i suoi libri - tra parentesi, ci tengo a ribadire che il suo stile espressivo e letterale è sempre ad alti livelli, pur scendendo nel turpiloquio - dobbiamo almeno riconoscergli che in pieno '700 già dava voce al piacere femminile scollegato dalla procreazione, alla contraccezione e al suo disprezzo per la verginità della donna, un valore per lui del tutto esecrabile: e pensare che nel 2013 ci sono ancora uomini disposti a sgozzare donne "non vergini"! Allora, siamo proprio certi che una società al cui culmine si siano posti valori come castità, pudore e verginità sia meno violenta rispetto ad una società sadiana dove ciascuno dà sfogo al suo capriccio sessuale?)Spingersi oltre il "non detto" kantiano, sondare gli "abissidiabolici" della libertà, sembra essere stato l'obiettivo di quella filosofia successiva che ha continuato a cercare la "radice" del male. Da Schelling a Heidegger, da Nietzsche a Lévinas, da Freud a Lacan - per nominare solo i protagonisti principali, sulle cui opere mi soffermo - è possibile tracciare un percorso che radicalizza la scoperta kantiana fino a rovesciarla, sino a individuare nella trasgressione della Legge, sia essa la legge divina o l'imperativo della ragione, l'obiettivo principale dell'azione del male.Nichilismo, pulsione di morte, volontà di nulla, per quanto declinati secondo una variegata molteplicità di modi, sono le categorie che hanno caratterizzato l'orizzonte di comprensione dei "nuovi demoni" nella riflessione filosofica tra Ottocento e Novecento. Pensato come patologia della volontà o spinta pulsionale, delirio della ragione o passione per l'assoluto, il male

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ha sempre comunque avuto a che fare con le forze della trasgressione e del disordine, in una parola con la potenza della morte. Tale costellazione trova una sintesi espressiva esemplare in quello che ho deciso di chiamare il "paradigma Dostoevskij". Non perché nelle pagine del grande scrittore russo, e in particolare ne "I demoni" e ne "I fratelli Karamazov", si trovi il corrispettivo letterario di una specifica idea post-kantiana di male, ma in quanto i protagonisti dostoevskiani sembrano dare corpo a un insieme di intuizioni, idee e concetti, la cui relazione, pur mobile, è orientata secondo un nesso ben preciso. In maniera non sempre diretta ed esplicita, lo schema che si compone a partire da Stavrogin e i suoi amici - pars pro toto - si è imposto per lungo tempo come condizione di pensabilità del male. Un paradigma, quello che cerco di ricostruire, a cui partecipano, sebbene con apporti diversi, Nietzsche e Freud, non meno che Heidegger e Lévinas: coloro che più di altri, appunto, hanno impresso una svolta all'interno della possibile storia dell'idea contemporanea di male. Anche se forse sarebbe più esatto specificare: un paradigma a cui ha contribuito un modo "semplice" di leggere quegli autori. Perché, come cerco di far emergere nei capitoli a loro dedicati, sono convinta che da alcuni loro scritti si apra contestualmente una prospettiva diversa, che si presta a confluire in un'altra e differente genealogia.Resta indubbio a mio parere che la forza espressiva con la quale il genio russo dà vita ai suoi demoni nichilisti e distruttori non solo nomina definitivamente il "segreto" del male radicale, che Kant non aveva svelato, ma ne chiarisce le condizioni di possibilità, mettendolo in relazione con la questione del potere. Forse ne "I demoni" per la prima volta si profila la distinzione tra malvagità e male, tra un modo d'essere del soggetto e l'esito, per così dire sistemico, dell'interazione tra soggetti. Se la malvagità riguarda la struttura della coscienza del singolo, il male è una modalità d'espressione del potere. O, meglio, è il prodursi

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nella storia di una situazione maligna - diciamo così - che è l'effetto di un'interazione collettiva tra gli sconfinamenti delle libertà. Ognuno dei personaggi abusa del proprio arbitrio in maniera diversa, ma è comunque indubbio che per Dostoevskij i diversi demoni, che appunto corrispondono ai vari modi con cui il male si rende visibile, condividono un unico e assoluto desiderio: prendere il posto di Dio e della sua infinita libertà. (Nota di Lunaria: Pareyson definisce Dio un abisso di libertà: "Come si può non vedere in Dio un abisso, anzi l'abisso, poiché egli non avendo fondamento, origina se stesso, anzi, è la stessa originazione che fa di sé? Tutto in Dio è abissale. Abissale è la sua libertà, la libertà ch'egli è; Abissale la sua volontà, il suo desiderio di esistere; Abissale la sua positività come liberamente scelta; Abissale la sua generosità, quello slancio di prodiga liberalità ch'è la creazione; Abissale il suo amore, che va incontro alla sofferenza e alla morte non solo per restaurare la creazione ma anche per redimere l'uomo che pure ha fatto fallire la sua opera.")

Anche se, come creature finite, non potendo creare, possono solo distruggere. È così che il male entra nel mondo, per Dostoevskij e per tutti coloro che ne seguiranno le tracce. Vi entra, in realtà, come diabolica malattia del potere, di un potere che, proprio perché oltrepassa ogni limite, non può che essere pura energia di sopraffazione e di dominio, inesauribile fonte di sofferenza e di morte.Nichilismo, male e potere: una triangolazione concettuale entro la quale, in una sorta di secolarizzazione dei presupposti teologici, buona parte della filosofia del XX secolo ha creduto di poter circoscrivere le tragedie della propria storia. Volontà, onnipotenza e nulla: seppure non più secondo la religiosità dostoevskiana, la correlazione fra i tre termini viene assunta e riproposta dalla filosofia successiva che continua così a pensare il male come conseguenza della perversione della volontà in onnipotenza, come esito di un soggetto sovrano, collettivo o

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singolo non importa, che ergendosi a tutto produce il nulla. E ciò corrisponde a una visione "semplice" e unidirezionale del potere, che non va oltre il modello sudditi-sovrano, la cui cifra demoniaca, come anche in questo caso ha mostrato magistralmente lo scrittore russo, è raffigurata nel rapporto fra vittima e carnefice. Da una parte starebbe, cioè, un soggetto onnipotente, portatore di morte e, dall'altra, un soggetto ridotto a mero oggetto, perché reso totalmente passivo dalla violenza dell'altro. (Nota di Lunaria: a questo discorso suddito/sovrano, aggiungo anche che il concetto di Dio Padre è [stato] funzionale a mantenere il dominio dell'uomo sulla donna, e dell'uomo bianco eterosessuale sui neri e sugli omosessuali: teologizzando e dogmatizzando un Dio Padre in Cielo, ecco che, come faceva notare Mary Daly, "L'immagine biblica e popolare di Dio come di un grande patriarca in cielo che dispensa ricompense e punizioni secondo la sua volontà misteriosa, e, apparentemente arbitraria, ha dominato l'immaginario collettivo per migliaia di anni. Il simbolo del Dio Padre, moltiplicatosi nell'immaginazione e ritenuto credibile dal patriarcato, ha, di conseguenza, reso un servigio a questo tipo di società, facendo apparire giusti ed adeguati i suoi meccanismi per l'oppressione delle donne. Se Dio nel "suo" Cielo è un padre che governa la "sua" gente allora nella "natura" delle cose è conforme al piano divino e all'ordine dell'universo che la società sia dominata dal maschio. In questo ambito si verifica una mistificazione dei ruoli: il marito che domina la moglie rappresenta lo "stesso" Dio [...] Se Dio è maschio, allora il maschio è Dio. Il divino patriarca castra le donne finquando riesce a continuare a vivere nell'immaginazione umana." ) La stessa polarizzazione si estende alla dimensione collettiva e ne consente la pensabilità in una struttura dualistica analoga, la quale vedrà, da una parte, un capo, cinico e sfruttatore delle debolezze altrui e, dall'altra, la massa debole e senza possibilità alcuna di resistenza. Tale schema ha ampliato la propria capacità

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ermeneutica sino a comprendere, all'interno dell'ipotesi nichilistica che lo sorregge, le esperienze centrali del XX secolo: la guerra totale, la tecnica planetaria e devastatrice, i genocidi ripetuti e, soprattutto, Auschwitz (Nota di Lunaria: di fatto, Auschwitz ha portato la Teologia, sia cristiana che ebraica a interrogarsi sul Silenzio di Dio. Ironicamente il Poeta Yehuda Amichai scriveva:

Dopo Auschwitz non c'è teologia:dai camini del Vaticano si leva fumo bianco,segno che i cardinali hanno eletto il papa.Dalle fornaci di Auschwitz si leva fumo nero,segno che gli dèi non hanno ancora deciso di eleggereil popolo eletto.Dopo Auschwitz non c'è teologia:le cifre sugli avambracci dei prigionieri dello sterminiosono i numeri telefonici di Dioda cui non c'è rispostae ora, a uno a uno, non sono più collegati.

Dopo Auschwitz c'è una nuova teologia:gli ebrei morti nella Shoahsomigliano adesso al loro Dioche non ha immagine corporea né corpo.Essi non hanno immagine corporea né corpo.)

Sono queste le nuove modalità fenomeniche con cui il male si dà a vedere nella storia, per spiegare le quali niente sembra più adeguato che il richiamarsi a un "puro scatenamento della volontà di morte".

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"Non ci accontentiamo mai del presente. Anticipiamo il futuro perché tarda a venire, come per affrettarne il corso, o richiamiamo il passato per fermarlo, come se fosse troppo veloce, così, imprudentemente, ci perdiamo in tempi che non ci appartengono, e non pensiamo al solo che è nostro, e siamo tanto vani da occuparci di quelli che non sono nulla, fuggendo senza riflettere il solo che esiste. Ciò dipende dal fatto che di solito il presente ci ferisce. Lo nascondiamo alla nostra vista perché ci affligge, e quando è piacevole temiamo di vederlo scappare. Tentiamo di sostenerlo con il futuro, e ci impegnamo a disporre di cose che non sono in nostro potere, per un tempo a cui non siamo affatto certi di arrivare."

"Ciascuno esamini i propri pensieri. Troverà che sono tutti concentrati nel passato o nell'avvenire. Non pensiamo quasi per niente al presente, e se ci pensiamo è solo in funzione di predisporre il futuro. Il presente non costituisce mai il nostro fine. Passato e presente sono mezzi, solo l'avvenire è il nostro fine. Così non viviamo mai, ma speriamo di vivere, e preparandoci sempre a essere felici è inevitabile che non lo

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siamo mai."

Quando considero la breve durata della mia vita,assorbita dall'eternità che la precede e da quella che la segue ("memoria hospitis unius diei praetereuntis"), il piccolo spazio che occupo e che vedo, inabissato nell'infinità immensità di spazi che ignoro e che mi ignorano, mi spavento e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, perché non c'è motivo che sia qui piuttosto che là, ora piuttosto che un tempo. Chi mi ci ha messo?Per ordine e volontà di chi questo luogo e questo tempo sono stati destinati a me?

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"Tre saggi sull'immagine" di Jean Luc Nancy

"Ora, come si è visto, la violenza si compie sempre in un'immagine. Se ciò che conta nell'esercizio di una forza è la produzione degli effetti attesi (trasmissione di un meccanismo o esecuzione di un comando), ciò che conta per il violento è che l'effetto sia inseparabile dalla manifestazione dellaviolenza. Il violento vuole vedere il suo marchio su ciò che ha violentato e la violenza consiste proprio nell'imprimere un tale marchio. E proprio godendo di questo marchio che si realizza quell'"eccesso" con cui si definisce la violenza:l'eccesso di forza nella violenza non ha niente di quantitativo,

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non deriva da un calcolo sbagliato e, in ultima analisi, non è un "eccesso di forza". Esso consiste piuttosto nell'imprimere, attraverso la forza, l'immagine della violenza nel suo effetto e come suo effetto. La violenza divina diventa visibile in un fulmine o in una piaga d'Egitto, la violenza del carnefice è l'esibizione - almeno ai suoi occhi - delle piaghe della vittima, la violenza della legge deve marcarsi in un castigo esemplare."

"Se per Kant "l'immagine pura di tutti gli oggetti è il tempo", è perché il tempo è il movimento stesso della sintesi,della produzione dell'unità: il tempo è l'unità stessa che si anticipa e si succede proiettandosi senza fine avanti a sé, cogliendo in ogni momento - in questo momento inafferrabile - il presente in cui si presenta la totalità dello spazio, la curva dell'estensione in una visione unica, in una prospettiva di cui il tempo costituisce il punto cieco così come il punto di fuga oscuro."

"L'essere si strappa all'essere, e l'immagine è ciò che si strappa. Porta in sé il segno di questo strappo: il suo fondo mostruosamente aperto sul suo fondo, cioè sul rovescio senza fondo della sua presentazione (il retro cieco del quadro)."

"Se non c'è immagine senza che si laceri un'intimità chiusa o un'immanenza non dischiusa, se non c'è immagine senza che ci si immerga in una profondità cieca, senza mondo e senza soggetto, bisogna ammettere allora che al bordo dell'immagine, di ogni immagine, si aggira non soltanto la violenza, ma anche la violenza estrema della crudeltà."

"La crudeltà trae il suo nome dal sangue versato (cruor e non sanguis, che è il sangue che circola nel corpo). Il violento crudele vuol vedere il sangue versato: vuol vedere fuori il principio vitale del dentro, con l'intensità del suo getto e del suo colore. Il crudele vuole appropriarsi la morte: non immergere gli

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occhi nel vuoto del fondo, ma saturare l'occhio del colore rosso e del grumo in cui la vita soffre e agonizza. Ogni immagine, forse, è al bordo della crudeltà. Nella pinacoteca occidentale abbondano le immagini del sangue sparso - soprattutto abbondano le immagini del dio che versa il suo sangue per redimere gli uomini, e quelle dei suoi martiri - oggi ci sono artisti di body-art pronti a spargere il loro sangue e a mutilarsi crudelmente."

"Nell'ordinamento di un mondo del sacrificio, il sangue sparso abbevera la gola degli dei o irriga il loro dominio: la sua coagulazione sigilla un passaggio oltre la morte.Ma quando questo mondo è smembrato, quando il sacrificio diventa impossibile, la crudeltà non è più che l'estremità della violenza che si richiude sopra sulla propria coagulazione e che non sigilla alcun passaggio oltre la morte, ma soltanto la stupidità violenta che crede di aver prodotto la morte immediatamente davanti a sé, in una pozza di materia."

"E proprio il sapere che non c'è niente da rivelare, neanche un abisso, e che il senza fondo non è il baratro di una conflagrazione, ma l'imminenza infinitamente sospesa su di sé."

1376, Cattedrale di Canterbury. Il Principe Nero fa inscrivere, come epitaffio sulla tomba:

"Quel che voi siete, io fui; quel che io sono, voi sarete".

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EMIL CIORAN : UN'INTERPRETAZIONE FEMMINILE AL SUO PENSIERO.

Desidero presentare un mio studio sul mio filosofo preferito, Emil Cioran, colui che più di tutti mi ha svelato la via per combattere il dolore, un vero Angelo Oscuro, Sanguinante e Sanguinario, che con le sue idee sul Nichilismo, l'Esistenzialismo, Dio, Dolore, mi ha permesso di prendere coscienza di me e del mondo.

Più mi inoltro sul sentiero della Filosofia - sentiero tutt'altro che facile - più noto con rammarico che sui siti "ufficiali" non vengono apprezzate visioni o interpretazioni personali di alcuni Filosofi.

Probabilmente sono nel torto; ma perché se la musica o l'arte o la poesia sono opinabili e soggette a interpretazioni differenti, perché la Filosofia non deve andare oltre a "sterili" o noiose analisi scolastiche, cristallizzate in pagine scritte che restano, appunto, pagine scritte, e non insegnamento di vita, "medicina esistenziale" ?è evidente che in molti Autori, per il pensiero netto e schietto, è quasi impossibile dare interpretazioni personali, ma perché per esempio non vengono gradite analisi differenti di alcuni Filosofi "emotivi" che provocano reazioni differenti a seconda del vissuto di ciascuno di noi?

Per cui, questa è la mia personale analisi a Cioran.

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Essenzialmente possiamo dividere il suo pensiero in due periodi:

- il periodo cupo e rabbioso dell'adolescenza

- il periodo contemplativo, "buddhista", dell'età matura.

Gli scritti giovanili sono quelli che più hanno scavato nella mia anima dandomi coscienza del dolore e del corpo femminile visto come prigione e fardello.

Cito l'aforisma (uno dei miei preferiti) :

"Avremmo dovuto essere dispensati dal trascinare un corpo. Bastava il fardello dell'io" , che è illuminante al riguardo, specie se lo si riferisce a un corpo che non ci permette di essere soddisfatte di noi, di vederci donne complete, meritevoli di stima, di ammirazione.A un corpo negato, ustionato, abbassato da un difetto, può corrispondere un ideale estetico femminile di autostima?

Forse a parole, spesso vuote parole, ma raramente nella realtà, nella nostra società dell'apparire, quando si attende il giudizio spietato dello specchio, e poi, dello "Sguardo dell'Altro" sartreiano:

"L'altro è, in Sartre, vissuto come antagonista ("L'inferno sono gli altri" scrive Sartre), in quanto relativizzando il mio punto di vista limita la mia libertà: il suo "Sguardo" mi oggettiva, mi reifica, murandomi nelle sue stesse idee, nei suoi pensieri, nei quali io vengo solidificato, detenuto, dalle quali non posso evadere, sulle quali non ho potere. Tuttavia lo sguardo dell'Altro, oltre che perturbante, è la garanzia della mia esistenza, la testimonianza che non sono una nullità. Scrive Sartre ne "Il

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Rinvio": "Che angoscia scoprire quello Sguardo come un centro universale dal quale non posso evadere; ma che riposo, anche! So infatti di essere. Trasformo quel penso dunque sono e dico mi si vede dunque sono, Colui che mi vede mi fa essere: sono come Egli mi vede."

Laddove per Sartre, l'Io sono, l'Io divento, Io esisto al modo di essere guardato dall'Altro (o dalla società), su come l'Altro mi vede, per Senghor, l'intellettuale africano che si occupò della condizione sociale e culturale del suo popolo oppresso da secoli di dominazione coloniale e culturale bianca, quel "Cogito Ergo Sum", questa presa di consapevolezza del proprio Ego, passa proprio per il rifiuto di "assimilarsi", diventare come l'Altro (uomo bianco, società borghese, società religiosa ecc.) ci vuole, essere guardati e quindi etichettati da lui. Il rifiuto dello Sguardo dell'Altro passa per l'affermazione vera e totale del nostro essere, del nostro Io: "Non sei tu, Altro, Società, che mi etichetti, che mi guardi, che mi osservi e mi giudichi, limitandomi, murandomi, facendomi indossare maschere, sottomettendomi, per darmi la sensazione di essere, di esistere, solo perché Tu puoi guardarmi, ma sono Io che rifiuto il tuo sguardo, sono Io che rifiuto di assimilarmi, di perdermi in te."

Altra frase che esemplifica il tormento masochistico della non-accettazione e del sacrificarci per le esigenze dell'Altro, tipico di noi donne, è : "Quando si è votati al tormentarsi, i propri tormenti per quanto grandi siano, non bastano, ci gettiamo anche su quelli degli altri, ce li appropriamo".

La donna, "angelo del focolare", in costante attesa di soddisfare al meglio le esigenze maschili, per essere degnate di amore, stima, compiacenza, che da se stesse è difficile assegnarsi senza l'approvazione e il giudizio altrui.

L'eco di Sartre, quel "Lo Sguardo dell'Altro", quel "L'Inferno

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sono gli Altri", che diventa il flagello costante di un animo femminile tutto teso al compiacimento dell'Altro, per essere accettate.

E poi ancora, il senso del Nulla, del non aver creato niente, che emerge in: "Tutti i declini sono qui con me per sostenermi."

"è consolante potersi dire: la mia vita corrisponde esattamente al genere di arenamento che mi auguravo."

"Più nulla da cercare se non la ricerca del nulla."

Di Cioran adoro questa presa di coscienza del dolore\malattia visti come inevitabili, anzi creatori di un nuovo Io:

"Soffrire: il solo modo di acquisire la sensazione di esistere."

"Lo stato di salute è uno stato di non sensazione, anzi di non realtà: non appena si cessa di soffrire, si cessa di esistere."

"Le mie infermità mi hanno rovinato l'esistenza ma solo grazie ad esse esisto-immagino di esistere."

Al pari di questo brano tratto da: "La Malattia Mortale" di Søren Kierkegaard

"La disperazione è chiamata la Malattia mortale: quella contraddizione tormentosa, quella malattia dell'io di morire eternamente, di morire eppure di non morire, di morire la morte...La disperazione è un'autodistruzione, ma un autodistruzione impotente, che non è capace di fare ciò che essa stessa vuole.[...] Ma quanta più consapevolezza è in un tale individuo sofferente, tanto più la disperazione si eleva a potenza per diventare il demoniaco... Un io che disperatamente vuol essere se stesso, si addolora di quest'io, di quell'altro difetto penoso

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che ormai non si può più togliere o separare dal suo io concreto.Proprio su questo tormento gli concentra tutta la sua passione, che finalmente diventa una frenesia demoniaca. Ora se Dio nel cielo e tutti gli angeli gli offrissero di trarlo dalla sua pena, no, ora egli non vuole più, ora è troppo tardi. Una volta avrebbe dato volentieri tutto per essere liberato da quel tormento, ma lo facevano aspettare e ora il tempo è passato. Ora vuole infuriare contro tutto, vuol essere colui che è maltrattato da tutto il mondo, dal'esistenza.Ora l'essenziale per lui è badare di avere sempre a portata di mano il suo tormento, l'essenziale è che nessuno glielo tolga...Ah, che follia demoniaca, egli smania soprattutto per il pensiero che all'eternità potrebbe venire in mente di liberarlo dalla sua miseria...Questo è lo stato dell'anima in disperazione. Per quanto questo sfugga al disperato, per quanto gli riesca (il che vale soprattutto per quella specie di disperazione che ignora di essere disperazione) di perdere completamente il suo io e in maniera che questo non si faccia più sentire per niente, l'eternità rivelerà pure che il suo stato era disperazione e lo inchioderà al suo io in modo che diventi pure il suo tormento non potersi liberare da se stesso. E allora si manifesta che era un illusione esserci riuscito. Disperarsi per se stesso, voler disperatamente liberarsi da se stesso, è la formula per ogni disperazione... Nonostante tutti gli sforzi della disperazione, quella potenza è più forte di lui e lo costringe ad essere quell'io che egli non vuol essere... Essere un io come vuole lui, sarebbe (pur essendo, in altro senso, ugualmente disperato) tutta la sua gioia; ma venir costretto ad essere un io come non lo vuol essere, è il suo tormento, il tormento di non potersi liberare da se stesso.

O il senso di pace dato solo con la morte del corpo:

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"Vi sono notti in cui l'avvenire si abolisce e di tutti i suoi momentisussiste soltanto quello che sceglieremo per non più essere."

L'odio di sé corporale, il corpo come fardello:

"Non si distrugge, ci si distrugge. Mi sono odiato in tutti gli oggetti dei miei odi, ho immaginato miracoli di annientamento".

"Promossi al rango di incurabili, siamo materia dolente, carne urlante, ossa rose da grida e i nostri stessi silenzi non sono che lamenti strozzati."

"Essere liberi significa esercitarsi a non essere niente"

Liberarci dal fardello dell'estetica, di questi Inferni Estetici Solipsistici in cui giriamo intrappolate, continuamente...

E il tempo non è che presente ghiacciato:

"L'inferno è quel presente che non si muove, quella tensione nella monotonia, quell'eternità rovesciata."Si esiste sempre e ogni giorno è uguale al precedente, ogni giorno èuguale allo stesso tormento che ci è attaccato alle ossa, che non concepisce niente al di fuori di se stesso in uno scatenarsi di rabbia auto-cannibalesca, che da se stessa si alimenta, si espande, si infetta.

Ma anche coraggiosi e fieri inni come:

"Quando si impara ad attingere nel vuoto a piene mani non si paventa più il domani."

Questo cinismo di Cioran che rende un nulla la morte, il dolore, al

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solo scopo di rendercele tollerabili...

Non si vede più niente al di fuori di noi stessi, dei nostri limiti, errori, tormenti e questo è tutto ciò che esiste in noi e che lasceremo di noi. Meglio dell'oblio assoluto, forse, il trionfo della polvere, questa perversione morbosa nel tramandare solo la parte difettosa e claudicante di noi.

***

Vorrei trascrivere ancora qualche aforisma di Cioran tratto da"Sommario di decomposizione"

* Non vi è nobiltà se non nella negazione dell'esistenza, in un sorriso che sovrasta paesaggi annientati.

* Colui che non si è abbandonato alle voluttà dell'angoscia e non ha assaporato nella mente i pericoli della propria estinzione né provato annientamenti dolci e crudeli, non guarirà mai dall'ossessione della morte: ne sarà tormentato, poichè vi avrà fatto resistenza, mentre colui che, avvezzo a una disciplina dell'orrore, e meditando sulla propria putrefazione, si è deliberatamente ridotto in cenere, guarderà verso il passato della morte, e lui stesso sarà solo un risuscitato che non può più vivere.Il suo "metodo" lo avrà guarito sia dalla vita sia dalla morte.

* Distaccati da ogni oggetto, senza poter assimilare nulla dall'esterno, ci distruggiamo al rallentatore, poichè il futuro ha cessato di offrirci una ragione d'essere.

* La vita si crea nel delirio e si disfa nella noia.

* Come fare a dimenticare noi stessi proprio nel mondo?

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tale impossibilità è la definizione di quel male. Chi ne è colpito non guarirà mai, nemmeno se l'Universo cambiasse completamente.Solo il suo cuore dovrebbe cambiare, ma esso è immutabile. Sicchè per lui esistere ha un unico senso: immergersi nella sofferenza.

* Ho constatato che non serve a niente maneggiare le armi del Nulla se non si possono rivolgere verso se stessi.

* Odiare tutto e se stessi in uno scatenarsi di rabbia cannibalesca.

* Polvere invaghita di fantasmi - questo è l'uomo -

* Qualsiasi cosa, e lamenti, e atti, concorre a ferirti.... quando nulla può impedirti di sanguinare, le idee stesse si tingono di rosso o sconfinano come tumori le une sulle altre.Nelle farmacie non vi è alcun rimedio contro l'esistenza.

* Poter disporre totalmente di se stessi e rifiuarsi di farlo: c'è forse dono più misterioso?

E riporto anche questa frase tratta da "Cioran : Un angelo sterminatore" di Fernando Savater

" Anche se fosse un inganno, l'esperienza del Vuoto meriterebbe sempre di essere fatta. Ciò che essa propone, ciò che tenta, è di ridurre a niente la vita e la morte al solo scopo di rendercele tollerabili."

Infine, trascrivo due aforismi, fortemente "cioraniani", di Giovanni Cenacchi, un Autore morto di cancro, che ci ha lasciato un diario, cronaca della sua agonia, che non può lasciare

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indifferenti. Trattando con coraggio e con disperazione l'ansietà, l'angoscia, la condanna a morte, rappresenta un testimonianza che assume un valore esistenziale ed universale:

"La prima cosa a cui penso, appena sveglio, è il mio male.In ogni istante del giorno, in ogni vampa di coscienza, non c'è altro che il mio male... Ad ogni risveglio, nessun orizzonte che non sia il fine e la fine del male. Vivo nella mia mortee null'altro mi è permesso" (Dopo la diagnosi, estate 2003)

"Mi conforto dicendomi che anche se non mi fossi ammalato non sarei stato capace di vivere" (21 febbraio 2006)

E una conclusione personale:

Senso di derivatrasfigurata a resistenzain atrofiaframmenti d'esistenzache sfociano nel Nullanel"tutto è irrilevante"e disfacimento di brina e polvere.

***

EMIL CIORAN: LE RIVELAZIONI DEL DOLORE

Negli stati depressivi l'uomo si sente essenzialmente come

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separato dal mondo, come se formasse insieme a quell'astro una dualità irriducibile. Non è forse qui la fonte di quel senso di solitudine, quella sensazione di gettatezza e di abbandono alla morte? Ma prima di tutto perché esiste il dolore? Sarebbe assurdo rispondere che gli uomini soffrono per comprendere il mondo, come se la sofferenza giustificasse la sua comparsa, la sua esistenza, in forza del suo potere di disvelamento del mondo. Se il cammino che conduce alla conoscenza è così doloroso, chiunque rinuncerebbe ad esso. Il dolore del mondo esiste a causa del carattere irrazionale, bestiale e demoniaco della vita, questa specie di vortice che divora se stesso nella propria tensione. La sofferenza è una negazione della vita racchiusa nella sua struttura immanente. Nel carattere demoniaco della vita è implicata una tendenza verso la negatività, la distruzione, che ostacola ed esaurisce lo slancio dell'imperialismo vitale. Contrariamente ad altre forme inconsce di autodistruzione della vita, quello che avviene attraverso il dolore è il notevole sviluppo della coscienza, il cui intensificarsi è inseparabile dal fenomeno della sofferenza. Poiché il principio demoniaco le è immanente, la vita annulla radicalmente qualsiasi speranza di purificazione possibile, qualsiasi spiritualizzazione in grado di convertire i suoi orientamenti in direzione di un piano ideale. Se la vita è un'immensa tragedia, lo si deve solo a questa immanenza demoniaca. Coloro che la negano e vivono come inebriati dall'aroma delle visioni paradisiache mostrano di essere organicamente incapaci di avvicinarsi consciamente alle radici della vita o al contrario sembrano essersene distolti per privarsi della prospettiva abissale del dramma. Nel dolore l'uomo passa attraverso i sensi.

(Brano tratto da "Lettere al Culmine della Disperazione") "Al Culmine della Disperazione", pagina 36

Colui che non ha mai avuto il sentimento di questa terribile

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agonia in cui la morte cresce in te per invaderti come un afflusso

di sangue, come una forza interiore invincibile che ti soffoca e ti

si avvinghia come un serpente provocando orribili allucinazioni,

costui ignora il carattere demoniaco della vita e le effervescenze

interiori artefici di grandi trasfigurazioni. Solo una cupa ebbrezza

può far comprendere perchè si desidera che un simile mondo

finisca al più presto. Non l'ebbrezza luminosa dell'estasi, in cui,

conquistati da visioni paradisiache, ci si eleva verso una sfera di

purezza, dove l'elemento vitale si sublima nell'immaterialità: una

tortura folle, pericolosa e distruttiva caratterizza questa

ebbrezza cupa, in cui la morte appare in tutta la tremenda

seduzione degli occhi di serpente che popolano incubi. Queste

sensazioni e queste visioni legano a tal punto all'essenza della

realtà, che le illusioni della vita e della morte lasciano cadere la

maschera. Un'agonia esaltata mescolerà, in una vertigine

spaventosa, la vita alla morte, mentre un satanismo bestiale

presterà lacrime al piacere. La vita come agonia prolungata e

cammino verso la morte non è che una formulazione diversa

della dialettica demoniaca che le fa partorire forme al solo fine di

distruggerle con un accanimento cieco. La molteplicità delle

forme vitali non converge in un'intenzionalità trascendente, ma

genera una folle dinamica in cui si riconosce soltanto il

demonismo del divenire e della distruzione. L'irrazionalità della

vita si manifesta in questo traboccare di forme e di contenuti, in

questo desiderio frenetico di rinnovare aspetti logori senza che

ciò significhi un mutamento apprezzabile. Una relativa felicità

potrebbe toccare a chi si abbandonasse a questo divenire e

cercasse, al di là di ogni problematica torturante, di assaporare

tutte le potenzialità dell'attimo senza quel perpetuo confronto

che rivela un'insormontabile relatività. L'esperienza

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dell'ingenuità è la sola salvezza. Ma per coloro che sentono e

concepiscono la vita come una prolungata agonia, il problema

della salvezza resta un semplice problema. Su questa via non ci

sarà salvezza. La rivelazione dell'immanenza della morte

sopravviene in genere con la malattia e gli stati depressivi.

Certamente, vi sono anche altre vie, ma del tutto accidentali e

individuali, con un potere di rivelazione assai minore. Se le

malattie hanno una missione filosofica, non può essere che

quella di mostrare quanto sia illusorio il sentimento dell'eternità

dell'esistenza, e quanto fragile il sogno di un compimento della

vita. Le sofferenze ci legano a realtà metafisiche che un uomo

normale e in perfetta salute non capirà mai.

Stralci di Cioran, inerenti il tempo, e il suo trascorrere, tratti da "Sommario di Decomposizione"

In se stessa ogni idea è neutra, o dovrebbe esserlo; ma l'uomo la anima, vi proietta i propri ardori e le proprie follie; impura, trasformata in convinzione, essa si inserisce nel tempo, assume forma di evento: il passaggio dalla logica all'epilessia è compiuto... Nascono così le ideologie, le dottrine e le farse cruente. Idolatri per istinto, noi convertiamo in Incondizionato gli oggetti dei nostri sogni e dei nostri interessi. La storia non è che

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una sfilata di falsi Assoluti, una successione d templi innalzati a dei pretesti, un avvilimento dello spirito dinanzi all'Improbabile. Anche quando si allontana dalla religione, l'uomo vi rimane assoggettato; si affanna a creare simulacri di dèi, e si precipita poi ad adottarli: il suo bisogno di finzione, di mitologia, trionfa sull'evidenza e sul ridicolo.

L'abbondanza delle soluzioni agli aspetti dell'esistenza è pari solo alla loro futilità. La Storia: fabbrica di ideali, mitologia lunatica, frenesia delle orde e dei solitari, rifiuto di considerare la realtà quale è, sete mortale di finzioni...L'origine dei nostri atti sta nella propensione inconscia a ritenerci il centro, la ragione e l'esito del tempo. I nostri riflessi e il nostro orgoglio trasformano in pianeta la briciola di carne e di coscienza che noi siamo. Se avessimo il giusto senso della nostra posizione nel mondo, se confrontare fosse inseparabile dal vivere, la rivelazione della nostra infima presenza ci schiaccerebbe. Ma vivere significa ingannarsi sulle proprie dimensioni...Giacchè se tutti i nostri atti - dal respiro sino alla fondazione degli imperi o dei sistemi metafisici - derivano dalle illusioni che ci facciamo sulla nostra importanza, a maggior ragione l'istinto profetico. Chi mai, avendo l'esatta visione della propria nullità, tenterebbe di agire sulla realtà e di erigersi a salvatore?

L'amore - un incontro di due salive... Tutti i sentimenti attingono il loro assoluto dalla miseria delle ghiandole. Non vi è nobiltà se non nella negazione dell'esistenza, in un sorriso che sovrasta paesaggi annientati".(Un tempo avevo un "io"; ormai sono soltanto un oggetto...Mi imbottisco di tutte le droghe della solitudine; quelle del mondo erano troppo leggere per farmelo dimenticare. Dopo aver ucciso in me il profeta, come potrei avere ancora un posto tra gli uomini?)

...Ed ecco perché, ritrovandoci dopo ogni notte di fronte a un

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nuovo giorno, l'irrealizzabile necessità di riempirlo ci colma di spavento; e, spaesati nella luce, come se il mondo si fosse appena messo in moto, avesse appena inventato il suo Astro, noi fuggiamo le lacrime - poichè ne basterebbe una sola per estrometterci dal tempo.

Gli istanti si susseguono gli uni agli altri: nulla conferisce loro l'illusione di un contenuto o la parvenza di un significato; si svolgono; il loro corso non è il nostro; prigionieri di una percezione inebetita, li guardiamo passare; il vuoto del cuore dinanzi al vuoto del tempo: due specchi, uno di fronte all'altro, che riflettono la loro assenza, una stessa immagine di nullità... Come sotto l'effetto di un'idiozia sognante, ogni cosa si livella: niente più cime, niente più abissi...Dove scoprire la poesia delle menzogne, il pungolo di un enigma?Chi non conosce la noia si trova ancora nell'infanzia del mondo, quando le epoche erano di là da venire; rimane chiuso a questo tempo stanco che si sopravvive, che ride delle sue dimensioni, e soccombe sulla soglia del suo stesso...avvenire, trascinando con sé la materia, elevata improvvisamente a un lirismo di negazione. La noia è l'eco in noi del tempo che si lacera... la rivelazione del vuoto, l'esaurirsi di quel delirio che sostiene - o inventa - la vita...Creatore di valori, l'uomo è l'essere delirante per eccellenza, vittima della convinzione che qualche cosa esista, mentre gli basta trattenere il respiro e tutto si ferma, sospendere le sue emozioni e niente freme più, sopprimere i suoi capricci e tutto diventa scialbo. La realtà è una creazione dei nostri eccessi, delle nostre dismisure e delle nostre sregolatezze.Un freno alle nostre palpitazioni: il corso del mondo rallenta; senza i nostri ardori, lo spazio è di ghiaccio. Il tempo stesso non scorre se non perché i nostri desideri creano questo universo decorativo che un minimo di lucidità metterebbe a nudo. Un briciolo di chiaroveggenza ci riconduce alla nostra condizione primordiale: la nudità; un pizzico; di ironia ci spoglia di quel paludamento di speranze che ci

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permette di ingannarci e di immaginare l'illusione: ogni via opposta conduce fuori dalla vita. La noia non è che l'inizio di questo itinerario...Essa ci fa sentire il tempo troppo lungo, inadatto a svelarci una fine. Distaccati da ogni oggetto, senza poter assimilare nulla dall'esterno, ci distruggiamo al rallentatore, poichè il futuro ha cessato di offrirci una ragion d'essere.La noia ci rivela un'eternità che non è il superamento del tempo bensì la sua rovina; è l'infinito delle anime marcite per mancanza di superstizioni: un assoluto piatto in cui nulla impedisce più alle cose di girare in tondo alla ricerca della propria caduta.La vita si crea nel delirio e si disfa nella noia.(Chi soffre di uno specifico male non ha il diritto di lamentarsene: ha un'occupazione. I grandi sofferenti non si annoiano mai: la malattia li riempie, così come il rimorso nutre i grandi colpevoli. Ogni sofferenza intensa suscita un simulacro di pienezza e propone alla coscienza una realtà terribile, che essa non riesce a eludere; mentre la sofferenza senza materia, in quel lutto temporale che è la noia, non oppone alla coscienza niente che la obblighi a un passo fruttuoso. Come guarire da un male non localizzato e sommamente impreciso, che colpisce il corpo senza lasciarvi traccia, che si insinua nell'anima senza imprimervi un segno? Assomiglia a una malattia cui si sia sopravvissuti ma che abbia assorbito le nostre possibilità, le nostre riserve di attenzione e ci abbia lasciati incapaci di colmare il vuoto conseguente alla scomparsa delle nostre angosce e allo svanire dei nostri tormenti. L'inferno è un rifugio in confronto a questo spaesamento nel tempo, a questo languore vuoto e prostrato in cui nulla ci trattiene se non lo spettacolo dell'universo che si deteriora sotto i nostri occhi. Quale terapia usare contro una malattia di cui non ci ricordiamo più, e i cui postumi si ripercuotono sui nostri giorni? Come inventare una medicina per l'esistenza, come concludere questa guarigione senza fine? E come rimettersi dalla propria nascita? La noia, questa convalescenza incurabile...)

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Se i pomeriggi domenicali si protraessero per mesi, dove andrebbe a finire l'umanità, emancipata dal sudore, libera dal peso della prima maledizione? L'esperimento varrebbe la pena d'esser fatto. Con ogni probabilità il crimine diverebbe l'unico svago, la dissolutezza parrebbe candore, l'urlo melodia e il sogghigno tenerezza. La sensazione dell'immensità del tempo farebbe di ogni secondo un supplizio intollerabile, una cornice da esecuzione capitale. Nei cuori pervasi di poesia si insedierebbero un cannibalismo annoiato e una tristezza da iena; i macellai e i carnefici morirebbero di languore, le chiese e i bordelli risuonerebbero di sospiri. L'universo trasformato in pomeriggio domenicale: è la definizione della noia - e la fine dell'universo...

(L'unica funzione dell'amore è quella di aiutarci a sopportare i pomeriggi domenicali, crudeli e incommensurabili, che ci feriscono per il resto della settimana - e per l'eternità.Senza l'impulso dello spasmo ancestrale, ci occorerebbero mille occhi per lacrime nascoste, oppure unghie da rosicchiare, unghie chilometriche...Come amazzare altrimenti un tempo che non scorre più? In queste domeniche interminabili il male d'essere si manifesta pienamente. A volte riusciamo a dimenticare noi stessi in qualche cosa; ma come fare a dimenticare noi stessi proprio nel mondo? Tale impossibilità è la definizione di quel male. Chi ne è colpito non guarirà mai, nemmeno se l'universo cambiasse completamente. Solo il suo cuore dovrebbe cambiare, ma esso è immutabile; sicchè, per lui, esistere ha un unico senso: immergersi nella sofferenza - fino a che l'esercizio di una quotidiana nirvanizzazione non lo innalzi alla percezione dell'irrealtà...)

Ognuno subisce di persona quella unità di disastro che è il fenomeno uomo. E l'unico senso del tempo è di molteplicare queste unità, di accrescere indefinitamente queste sofferenze verticali che si reggono su un briciola di materia, sull'orgoglio di

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un nome e su una solitudine senza appello.

Qualsiasi cosa, elementi e atti, concorre a ferirti, corazzarti di sdegni, isolarti in una fortezza di disgusto, sognare indifferenze sovrumane? Gli echi del tempo ti perseguiterebbero nelle tue estreme assenze... Quando nulla può impedirti di sanguinare, le idee stesse si tingono di rosso o sconfinano come tumori le une sulle altre. Nella farmacie non vi è alcun rimedio contro l'esistenza - solo palliativi per i fanfaroni. Ma dov'è l'antidoto alla disperazione chiara, infinitamente articolata, fiera e sicura? Tutti gli esseri sono infelici; ma quanti lo sanno? La coscienza dell'infelicità è una malattia troppo grave per figurare in un'aritmetica delle agonie o nei registri dell'Incurabile.Essa sminuisce il prestigio dell'inferno e trasforma i mattatoi dei tempi in idilli. Quale peccato hai commesso per nascere, quale colpa per esistere? Il tuo dolore, al pari del tuo destino, è senza motivo. Soffrire davvero significa accettare l'invasione dei mali senza la scusa della causalità, come un favore della natura demente, come un miracolo negativo...Nella frase del Tempo gli uomini si inseriscono come le virgole, mentre tu, per arrestarlo, ti sei immobilizzato in punto.

La vita non acquista contenuto se non nella violazione del tempo.

Come potrebbe trovar pace? Da un lato, la volontà di essere immersi nella comunione del cuore e del suolo; dall'altro, quella di assorbire continuamente lo spazio in un desiderio inappagato. E poiché lo spazio non ha limiti, e con esso aumenta la propensione per i vagabondaggi, lo scopo arretra via via che si avanza. Da qui il gusto esotico, la passione per i viaggi, il piacere del paesaggio in quanto tale, la mancanza di forma interiore, la profondità tortuosa, seducente e ripugnante nello stesso tempo.

Non si insisterà mai abbastanza sulle conseguenze storiche di

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certe approssimazioni interiori. Una di queste è appunto la nostalgia: essa ci impedisce di riposare nell'esistenza o nell'assoluto, ci obbliga a fluttuare nell'indistinto, a perdere le nostre basi, a vivere alla scoperto nel tempo.

Non è facile formulare un giudizio sulla ribellione del meno filosofo degli angeli, senza mischiarvi simpatia, stupore e riprovazione. L'ingiustizia governa l'universo. Tutto ciò che vi si costituisce, tutto ciò che vi si disfa porta l'impronta di una fragilità immonda, come se la materia fosse frutto di uno scandalo in seno al nulla. Ciascun essere si nutre dell'agonia di un altro essere; gli istanti si precipitano come vampiri sull'anemia del tempo - il mondo è un ricettacolo di singhiozzi...

Per quali misteri certe mattine ci svegliamo con la smania di demolire ogni cosa, viva o inerte che sia? Quando il diavolo annega nelle nostre vene, quando le nostre idee sono convulse e i nostri desideri fendono la luce, gli elementi si incendiano e bruciano, mentre la loro cenere ci scorre fra le dita. Quali incubi abbiamo alimentato durante la notte, per alzarci nemici del sole? Dobbiamo liquidarci da soli per farla finita con tutto? Quale complicità, quali legami protraggono la nostra intimità con il tempo? La vita sarebbe intollerabile senza le forze che la negano.

Tutto ciò che attiene all'eternità cade inevitabilmente nel luogo comune. Il mondo finisce con l'accettare qualsiasi rivelazione e si rassegna a qualsiasi brivido, purchè se ne sia trovata la formula. L'idea della futilità universale - più dannosa di tutti i flagelli - si è degradata al rango di evidenza: tutti la ammettono e nessuno vi si conforma. Lo spavento di una verità definitiva è stato domato; una volta divenuto ritornello, gli uomini non ci pensano più, perchè hanno imparato a memoria una cosa che, anche solo intravista, dovrebbe trascinarli o verso l'abisso o verso la salvezza. La visione della nullità del Tempo ha fatto nascere i santi e i poeti, e la disperazione di qualche isolato, invaghito di

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anatemi...

Ieri, oggi, domani, sono categorie a uso dei servi. Per l'ozioso insediati sontuosamente nella Sconsolatezza e afflitto da ogni istante che scorre, passato, presente, futuro non sono altro che parvenze variabili di uno stesso male, identico nella sostanza, inesorabile nel suo insinuarsi e monotono nel suo persistere. E questo male è coestensivo all'essere, è l'essere stesso. Fui, sono, sarò sono una questione di grammatica e non di esistenza. Il destino - in quanto carnevale temporale - si presta alla coniugazione ma, una volta che sia stato privato delle sue maschere, si rivela immobile e nudo quanto un epitaffio. Com'è possibile attribuire più importanza al tempo presente che a quello passato o futuro? L'equivoco in cui vivono i servi - e qualsiasi uomo aderisca al tempo è un servo - rappresenta un vero stato di grazia, un oscuramento incantato; e questo equivoco - come un velo soprannaturale - occulta la perdizione alla quale è esposto ogni atto generato dal desiderio. Ma per l'ozioso disingannato, il semplice fatto di vivere, il vivere esente da ogni fare, è una fatica così estenuante che sopportare l'esistenza qual è gli sembra un mestiere ingrato, una carriere sfibrante - e ogni gesto supplementare impraticabile e irrilevante.

"Ho sognato primavere lontane, un sole che non illuminasse altro che la schiuma dei flutti e l'oblio della mia nascita, un sole nemico della terra e di quel mare di trovare ovunque soltanto il desiderio di essere altrove. La sorte terrena, chi mai ce l'ha inflitta, incantenandoci a questa materia tetra, lacrima pietrificata contro la quale i nostri pianti - nati dal tempo - si infrangono, mentre essa, immemoriale, è caduta dal primo fremito di Dio?

Restiamo per ore ad attendere altre ore, ad attendere istanti che non fuggano più il tempo, istanti fedeli che ci ristabiliscano nella mediocrità della salute... e nell'oblio dei suoi scogli.

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Prima della vecchiaia, verrà un tempo in cui, ritrattando i nostri ardori e curvi sotto le palinodie della carne, cammineremo per metà carogne e per metà spettri... Avremo represso - nel timore di complicità con l'illusione - ogni palpito in noi. Per non essere riusciti a disincarnare la nostra vita in un sonetto, ci trascineremo dietro la nostra putredine in brandelli e, per essere andati più lontano della musica o della morte, avanzeremo incespicando, ciechi, verso una funebre immortalità...

Inchiodati a noi stessi, non abbiamo più la facoltà di deviare dal cammino iscritto nell'innatismo della nostra disperazione. Farci esentare dalla vita perchè essa non è il nostro elemento? Nessuno rilascia certificati di inesistenza. Dobbiamo perseverare nel respiro, sentire l'aria bruciarci le labbra, accumulare rimpianti dentro una realtà che non abbiamo desiderato, e rinunciare a dare una spiegazione al Male che alimenta la nostra rovina. Quando ogni momento del tempo si avventa su di noi come un pugnale, e la nostra carne, sollecita dai desideri, rifiuta di pietrificarsi - come sopportare che un solo istante si aggiunga alla nostra sorte?

Ho visto ciascun uomo procedere nel tempo per isolarsi in un rimuginio angoscioso e ricadere in se stesso, con la smorfia inattesa delle proprie speranze quale unico segno di rinnovamento.

Irresponsabile per tristezza, la tua vita ha deriso i suoi istanti; ma la vita è pietà della durata, sentimento di un'eternità danzante, tempo che supera se stesso e rivaleggia con il sole...

è passato il tempo in cui l'uomo pensava a se stesso in termini di aurora; giacendo su una materia divenuta anemica, ora è disposto a compiere il suo vero dovere, quello di studiare la propria perdita e di correrle incontro; eccolo sulle soglie di una

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nuova èra: quella della Pietà di sé. E questa Pietà è la sua seconda caduta, più netta e più umiliante della prima: è una caduta senza riscatto. Invano egli scruta gli orizzonti: migliaia e migliaia di salvatori vi si profilano, salvatori da farsa, anche loro sconsolati. Egli se ne allontana per prepararsi, nella sua anima sfatta, alla dolcezza di marcire...Giunto nel più profondo del suo autunno, egli oscilla tra l'Apparenza e il Nulla, tra la forma ingannevole dell'essere e la sua assenza: vibrazione tra due irrealtà...

Il tempo corrompe tutto ciò che si manifesta e agisce: un'idea o un avvenimento, attuandosi, prendono forma e si degradano. Così, quando la moltitudine degli umani si mise in moto, ne derivò la Storia e, con essa, l'unico desiderio puro che abbia ispirato: che si concluda in un modo o nell'altro.

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Qualche Aforisma di Emil Cioran, tratto da "Lacrime e Santi"

* Dio ha sfruttato tutti i nostri complessi di inferiorità, a cominciare da quello che ci impedisce di crederci Dèi.

* Dio ha creato il mondo per paura della solitudine. è questa l'unica spiegazione possibile della Creazione. La sola ragione di essere di noi creature è di distrarre il Creatore...

* Poichè non esiste soluzione ad alcun problema, né via d'uscita ad alcuna situazione, non ci rimane che girare a vuoto. Nutriti di sofferenza, i pensieri prendono la forma di aporie, questo chiaroscuro della mente, la somma degli insolubili proietta una tremula ombra sulle cose. La serietà incurabile del Crepuscolo...

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* Tutti i declini sono qui con me, per sostenermi...

* Non si vede più niente all'infuori del Niente e questo Niente è Tutto.

* Tutti i Nichilisti hanno avuto a che fre con Dio. Prova supplementare della sua vicinanza al Niente. Dopo aver calpestato tutto, altro non vi resta da distruggere se non ques'ultima riserva del Nulla.

* Credo di non aver mai perso un'occasione di essere triste. (La mia vocazione d'uomo)

* I nostri occhi sanno tutto, imbevuti del Nulla ci assicurano che niente ci può più accadere.

* Questo bisogno di profanare le tombe, di animare i cimiteri, in un'Apocalisse primaverile!

* La non aderenza alla vita genera una voglia di fissità. Si comincia a vedere il mondo in forme rigide, linee definite, contorni morti; quando non provate più quella gioia che nutre il divenire, tutto sfocia in simmetrie; quello che tra i vari tipi di follia, è stato chiamato "Geomatrismo", non sarebbe dunque altro che un eccesso di questa predisposizone all'immobilità che accompagna tutte le depressioni. Il gusto delle forme tradisce una tendenza segreta alla morte. Più siete depressi, più le cose si fissano, nell'attesa di farsi ghiaccio.

Qualche Aforisma tratto da "La Tentazione di Esistere":

* "Contro che cosa reagire?" Il Nulla era la mia Ostia: tutto in me

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e fuori di me si transustanziava in spettro.

* Soffrire: il solo modo d'acquisire la sensazione di esistere.

* Più nulla da rovesciare se non se stesso, ultimo idolo da abbattere... le proprie rovine lo attirano.

* Non si distrugge. Ci si distrugge. Mi sono odiato in tutti gli oggetti dei miei odii, ho immaginato miracoli di annientamento...

* Più nulla da cercare se non la ricerca del Nulla.

* Che tutto si fermi dal momento che non riesco a concepire né a fare un passo di più verso un orizzonte qualsiasi.

Qualche Aforisma tratto da "Squartamento".

* Beati tutti coloro che nati prima della scienza, avevano il privilegio di morire alla loro prima malattia.

* Anche quando non accade niente, tutto sembra di troppo.Che dire allora in presenza di un avvenimento?

* è consolante potersi dire: "La mia vita corrisponde esattamente al genere di arenamento che mi auguravo".

* L'uomo è un Nulla conscio di sé.

* Quando si è votati al tormentarsi, i propri tormenti, per quanto grandi siano, non bastano, ci gettiamo anche su quelli degli altri, ce li appropriamo.

* Lo stato di salute è uno stato di non sensazione, anzi, di non

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realtà.Non appena si cessa di soffrire, si cessa di esistere.

* L'essere certi che non c'è salvezza è una forma di salvezza. A partire da lì si può organizzare la propria vita come pure costruire una Filosofia della Storia.L'Insolubile come soluzione,come sola via d'uscita.

* Sopprimevo dal mio vocabolario una parola dopo l'altra. Finito il massacro, una sola superstite: Solitudine.

Stralci da"Al Culmine della Disperazione" (Emil lo ha scritto quando

aveva appena 22 anni)

Non c'è nessuno che, uscendo da un dolore o da una malattia, non avverta nel fondo dell'anima un rimpianto, per pallido e vago che sia. Coloro che soffrono intensamente e a lungo, sebbene desiderino ristabilirsi, non riescono a non pensare alla loro eventuale guarigione come a una fatale perdita. Quando il dolore è parte integrante del proprio essere, il suo superamento corrisponde inesorabilmente a una perdita, e non può non provocare rimpianto. Ciò che ho di meglio in me lo devo alla sofferenza; ma le devo anche ciò che perduto. Così non si può amarla nè maledirla.

Se tuttavia si continua a vivere, è solo grazie alla scrittura, che ci sgrava, oggettivandola, di questa tensione infinita. La creazione è una temporanea salvezza dagli artigli della morte. Mi sento sul punto di esplodere di tutto ciò che mi offrono la vita e la prospettiva della morte. Mi sento morire di solitudine, d'amore, di disperazione, di odio e di tutto quanto il mondo può darmi. Come se ogni cosa che vivo mi dilatasse al pari di un pallone pronto a scoppiare. In queste condizioni esasperate si compie

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una conversazione al niente. Ci si espande interiormente fino alla follia, di là da tutte le frontiere, ai margini della luce, là dove questa è strappata alla notte, e da tale eccesso di pienezza, come in un turbine selvaggio, si è scaraventati dritti nel niente.La vita crea la pienezza e il vuoto, l'esuberanza e la depressione; che cosa siamo davanti alla vertigine interiore che ci consuma fino all'assurdo? Sento la vita scricchiolare in me per eccesso di intensità, ma anche di squilibrio. è come un'esplosione incontrollabile, che può far saltare irrimediabilmente in aria anche te. All'estremo della vita senti che essa ti sfugge, che la soggettività è un'illusione, e che in te si agitano forze di cui non sei responsabile, sottoposte a un dinamismo estraneo a ogni ritmo definito. Ai confini della vita c'è qualcosa che non sia occasione di morte? Si muore di tutto ciò che è come di tutto ciò che non è. Ogni esperienza diventa quindi un salto nel nulla. Quando hai vissuto fino al parossismo, fino alla suprema tensione tutte le cose che ti ha offerto la vita, sei pervenuto a quello stato in cui non c'è più niente che si possa ancora vivere. Anche senza aver dato fondo a tutte le esperienze: basta aver esaurito le principali. E quando ci si sente morire di solitudine, di disperazione o d'amore, le altre emozioni non fanno che prolungare questo amaro corteggio. La sensazione di non poter più vivere dopo tali vertigini deriva anche da una consunzione puramente interiore. Le fiamme della vita bruciano in un crogiolo da cui il calore non può uscire.

***

Tutti i mistici non ebbero forse, dopo le grandi estasi, il sentimento di non poter più vivere?

***

Non c'è nulla che giustifichi il fatto di vivere. Dopo essersi spinti al limite di se stessi si possono ancora invocare argomenti, cause,

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effetti, considerazioni morali ecc.? Certamente no. Per vivere non restano allora che ragioni destituite di fondamento. Al culmine della disperazione, solo la passione dell'assurdo può rischiarare di una luce demoniaca il caos.

pagina 55

Ora, ognuno porta con sé non solo la propria vita, ma anche la propria morte. La vita non è che una prolungata agonia. La tristezza mi sembra rispecchi qualcosa di questa agonia. Il contrarsi del volto che essa provoca non è un riflesso? Il viso di chi è colpito da un'intensa tristezza mostra dei segni che sembrano scavare nell'essenza stessa dell'essere. In tali segni, negazioni evidenti della bellezza, si legge tanta solitudine e tanto abbandono che ci si chiede se la fisionomia della tristezza non sia una forma sotto la quale la morte si oggettiva. La profondità e la gravità che il volto esprime sono dovute al fatto che queste rughe incidono tanto a fondo da simboleggiare il turbamento e il dramma infinito dell'uomo. Nella tristezza il volto emana una tale inferiorità che il visibile apre una porta sull'anima (Fenomeno che si manifesta anche nelle grandi gioie). La tristezza rende accessibil il mistero. Il mistero della tristezza è tuttavia così inesauribile e ricco, che essa non finisce mai di essere enigmatica. Se si stabilisse una gerarchia dei misteri, la tristezza entrerebbe nella categoria dei misteri inesauribili, senza fine.

pagina 61, 62, 63

In questo momento, non credo assolutamente a nulla e non ho alcuna speranza. Tutte le manifestazioni e tutte le realtà che conferiscono fascino alla vita mi sembrano prive di senso. Non ho nè il sentimento del passato nè quello del futuro, e quanto al presente, mi sembra un veleno. Non so se sono disperato,

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perchè la mancanza di ogni speranza può essere anche altro che la disperazione. Nessun aggettivo potrebbe urtarmi, perchè non ho più niente da perdere. Ho perduto tutto!

***

Attesto qui, per tutti coloro che verranno dopo di me,che non ho niente in cui credere su questa terra, e che l'unica salvezza risiede nell'oblio. Vorrei scordare tutto, dimenticare completamente me stesso, non sapere più niente di me nè del mondo. Le vere confessioni non si scrivono che con le lacrime. Ma le mie basterebbero ad annegare il mondo, come il mio fuoco interiore a incendiarlo. Non ho bisogno di alcun appoggio, di alcun incoraggiamento, nè di alcuna compassione, perché, per quanto io sia il più decaduto degli uomini, mi sento forte, duro e feroce! Sono infatti il solo a vivere senza speranza. Questo è il vertice dell'eroismo, il suo parossismo e il suo paradosso. La follia suprema! Dovrei incanalare tutta la passione caotica e confusa che è in me per dimenticare tutto, per non essere più niente, per sfuggire allo spirito e alla coscienza. Se ho una speranza, è quella dell'oblio assoluto. Ma non si tratta piuttosto di una disperazione? Questa speranza non è la negazione di tutte le speranze a venire? Non voglio sapere niente, neppure il fatto di non sapere niente. Perchè tanti problemi, discussioni e dispiaceri? Perchè una tale coscienza della morte? Fino a quando tutta questa filosofia e tutto questo pensiero?

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Sento che dovrebbe spalancarsi sotto di me un vuoto grande e oscuro che m'inghiottisse per sempre in una notte eterna. E mi stupisco che non accada davvero. In questi momenti, infatti, niente mi sembrerebbe più naturale che sprofondare negli abissi delle tenebre, dove non giungerebbe il più pallido riflesso

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dell'insulso chiarore del mondo. Non intendo cercare una spiegazione organica a questa mia passione per l'oscurità, giacchè non so trovarne una neppure per l'ebbrezza della luce. Mi domando tuttavia con perplessità quale senso possa esserci in quest'alternanza tra l'esperienza della luce e quella delle tenebre. L'intera concezione della polarità mi sembra insufficiente, perchè nell'inclinazione verso le regioni della notte vi è un'inquietudine ben più profonda, che non può sorgere da uno schema dell'essere, da una geometria dell'esistenza. Il sentimento di essere inghiottito dalla notte, una notte che si spalanca sotto i tuoi piedi, è possibile solo dal momento in cui senti qualcosa gravarti il cervello, un peso in tutto l'organismo che preme con la forza di un'immensità notturna. Come mi inghiotteranno le tenebre sconfinate di questo mondo!

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Come l'estasi purifica dall'individuale e dal contingente, per non lasciare che luce e tenebre quali elementi essenziali, così, nelle notti bianche, di tutta la molteplicità e la varietà del mondo non resta che un motivo ossessivo o un elemento intimo, quando non è la presenza viva di qualcuno. Quale strano sortilegio in queste melodie che durante le notti insonni sorgono da noi stessi, per dispiegarsi simili a un flusso ed estinguersi in un riflusso che non è simbolo di abbandono, ma ricorda piuttosto la leggerezza di un passo indietro di non so quale danza! Il ritmo e l'evoluzione sinuosa di una melodia interiore s'impadroniscono di te, in un incantesimo che non potrebbe essere estatico, perchè in questo frangersi melodico vi è troppo rimpianto. Rimpianto di che cosa? Difficile dare una risposta, giacchè le insonnie sono troppo complicate perchè ci si possa rendere conto di ciò che si è perduto. Forse perchè la perdita è infinita... durante l'insonnia prendono corpo le nostre ossessioni. Solo allora, infatti, si è prigionieri di un pensiero o di un sentimentoche s'impongono

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con prepotenza. Tutto si compie melodicamente, con una modulazione misteriosa. L'essere amato si purifica nell'immaterialità, come si dileguasse in una melodia. Non si è più certi se si tratti di sogno o realtà. Il carattere impalpabile accordato alla realtà da questa conversione melodica provoca nell'anima un'inquietudine e un turbamento che, non abbastanza intensi per sfociare in un'ansietà universale, mantengono un'impronta di carattere musicale. Persino la morte, senza cessare di essere orrenda, appare in questa universalità notturna la cui diafaba trasparenza, per quanto illusoria, non è meno musicale. Ma la tristezza di questa notte universale ricorda in tutto e per tutto la tristezza della musica orientale, in cui il mistero della morte prevale su quello dell'amore.

Pagina 101

Mi sento un uomo senza senso, e non mi dispiace di non averne. Perché mai dovrebbe rincrescermi, quando il mio caos non mi consente che il caos? In me non c'è la minima velleità di forma, di cristallizzazione o di ideale. Perchè non volo, perchè non mi spuntano le ali? Non nasconde questo mio desiderio una fuga dall'esistenza? Non m'involerei con tutta l'esistenza, con tutto ciò che è essere? Avverto in me una tale fluidità che mi stupisco di non sciogliermi, di non scorrere. Vorrei trasformarmi in un fiume impetuoso che portasse il mio nome e scorresse come una minaccia apocalittica. Riuscirei allora a spegnere il fuoco che mi divora? O le mie fiamme mi prosciugherebbero? In me non vi sono che vapori e scintille, inondazioni di fuoco e incendi d'acqua.

Ho dentro di me una confusione e un caos tali da non sapere come l'animo umano possa sopportarli. Troverete in me tutto ciò che vorrete, assolutamente tutto. Sono un essere degli albori del mondo, in cui il caos primigenio è alle prese col suo folle turbinio.

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Sono la contraddizione assoluta, il parossismo delle antinomine e il limite delle tensioni; in me tutto è possibile, perchè sono l'uomo che riderà nel momento supremo, davanti al nulla, nell'agonia della fine, nell'istante dell'ultima tristezza.

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La Bellezza del Fuoco.

Il fascino delle fiamme sta nel loro potere di conquistare attraverso uno strano gioco al di là dell'armonia, delle proporzioni e della misura. Il loro impalpabile slancio non simboleggia la grazia e la tragedia, l'ingenuità e la disperazione, il piacere e la tristezza? Non ci sono, nella loro divorante trasparenza, nella loro bruciante immaterialità, la leggerezza e il volo delle grandi purificazioni e dei grandi incendi interiori? Vorrei essere sollevato dalla loro trascendenza, sospinto dal loro impulso delicato e insinuante, vorrei galleggiare su un mare di fuoco, consumarmi in una morte eterea, in una morte irreale. La loro strana bellezza dà l'illusione di una morte pura e sublime, simile a un azzurro aurorale. Non è significativo che attribuiamo una tale morte solo alle creature alate e leggiadre? La immaginiamo come un incendio di ali, come una morte immateriale. Solo le farfalle muoiono così? E coloro che muoiono delle loro stesse fiamme!?

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Quanto terrore e quanta gioia provo al pensiero di essere bruscamente afferrato nel vorticoso caos degli inizi, nella sua confusione e nella sua paradossale simmetria - la sola simmetria caotica, priva di un'eccellenza forma e di un senso geometrico. Ma in ogni vertigine c'è una potenzialità di forma, come nel caos

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ne esiste una di cosmo. Vorrei vivere agli albori del mondo, nel turbinio demoniaco del caos originario. Che niente di ciò che è in me è velleità di forma si realizzi. Che tutto vibri di una primigenia agitazione universale, come un risveglio dal nulla. Non posso vivere che al cominciamento o alla fine del mondo.

Pagina 117

Provo una strana inquietudine, che s'insinua in tutto il mio corpo, cresce come un rimpianto, per mutarsi poi in tristezza. è il timore del futuro della mia esistenza problematica, o la paura indotta dalla mia stessa inquietudine? Giacchè sono afferrato dall'angoscia per la fatalità del mio essere. Potrò continuare a vivere con questi problemi, con questi stati d'animo? Ciò che provo è la vita o un sogno assurdo, un'esaltazione irreale ammantata di impercettibili melodie trascendenti? Non si tesse in me la fantasia grottesca e bestiale di un demone? La mia inquietudine non ricorda un fiore nato nel giardino di una creatura apocalittica? La demonicità del mondo pare essersi concentrata tutta nella mia inquietudine - miscuglio di rimpianti, visioni crepuscolari, tristezze e irrealtà. Ed essa non mi farà spargere una fragranza di fiori sull'universo, ma il fumo e la polvere di un crollo totale. Giacchè tutta la mia esistenza non è che un interminabile crollo.

Pagina 122

Sarà il mio vuoto interiore a inghiottirmi, il mio stesso vuoto. Sentirsi crollare dentro di sé, nel proprio nulla, sentire quanto è rischioso pensare a se stessi, sentirsi cadere nel proprio caos interno! La sensazione di precipitare davvero nel vuoto è assai meno complessa di questa sensazione folle. Rendersi conto delle proprie infinite profondità, da cui risuonano richiami dal

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demoniaco sortilegio, significa pervenire a una forma insolita di espansione centripeta, in cui il centro dell'essere si sposta, in un gioco indefinito, verso un nulla soggettivo. L'angoscia del crollo fisico non ha il fascino morboso dell'angoscia del crollo interiore. Perchè a quest'ultima si aggiunge la soddisfazione di morire in se stessi, di trovare la morte nel proprio nulla.

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La disciplina dell'infelicità diminuisce le inquietudine, le sorprese dolorose, attenua il tormento e controlla la sofferenza. Un mascheramento aristocratico del logorio interiore, una discrezione dell'agonia sono i requisiti di questa disciplina dell'infelicità, la quale apparentemente scalfisce appena la coscienza nei momenti supremi, affinchè la tragedia sia più dolorosa nel profondo.

Alcuni Aforismi tratti da "Il Funesto Demiurgo".

* Per smettersi di tormentarsi, bisogna lasciarsi andare a un disintesse profondo, smettere di preoccuparsi del quaggiù o del lassù, cadere nel menefreghismo dei morti. Come guardare un vivo senza immaginarlo cadavere, come guardare un cadavere senza mettersi al suo posto? Essere supera l'intendimento.Essere fa paura.

* Come rinunciare a ciò che non ritroveremo mai, a quel niente inaudito e pietoso che porta il nostro nome?

* Soffrire è produrre Conoscenza.

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* A furia d'insistere sulle mie miserie passate e future, ho trascurato quelle del presente. Ciò mi ha consentito di sopportarle più agevolmente che se avessi consacrato le mie riserve d'attenzione.

* Vi sono notti in cui l'avvenire si abolisce, e di tutti i suoi momenti sussiste soltanto quello che sceglieremo per più non essere.

Altri Aforismi tratti da "La Caduta nel Tempo".

* L'automatismo della malattia è tale che essa non può concepire niente al di fuori di se stessa. A lungo andare, essa non dà più nulla a colui che soffre se non la conferma quotidiana della sua impossibilità di non soffrire.

* Finchè si sta bene non si esiste, più esattamente: non si sa di esistere.

* Non possiamo immaginarci senza di esso né separarlo da noi stessi, dal nostro essere, di cui è la sostanza, anzi la causa.

* L'inferno è quel presente che non si muove, quella tensione nella monotonia, quell'eternità rovesciata che non si apre su niente, nemmeno sulla morte, mentre il tempo che scorreva, che si svolgeva, offriva almeno la consolazione di un'attesa, sia pure funebre.

* Colui che non ne distoglie mai la mente dà prova di egoismo e di vanità; vive in funzione dell'immagine che gli altri si fanno di lui, non può accettare l'idea che un giorno non sarà più niente; poichè l'oblio è il suo incubo di ogni istante.

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* La vera vita comincia e finisce con l'agonia.

* Presto egli non sarà più niente. Non era niente neanche prima della malattia. Egli è soltanto nell'intervallo che intercorre tra il vuoto.

* Quell'essere che lui stesso ha demolito ora smania e si agita nella vana speranza di ricostituirlo, come quella di Macbeth, la sua coscienza è devastata, anche lui ha ucciso il sonno, il sonno ove riposavano le certezze... Dopo aver dubitato dei propri dubbi, finisce col dubitare di sé, con lo sminuirsi e con l'odiarsi, col non credere più alla propria missione di distruttore. Una volta reciso l'ultimo legame, quello che lo teneva attaccato a se stesso, e senza il quale perfino l'autodistruzione è impossibile, egli cercerà rifugio nel vuoto primordiale...Non c'è più alcun argomento che lo attragga o che egli voglia innalzare alla dignità di problema, di flagello...è ridotto a non potersi più rivolgere ad altri che al Non-Creatore, a cui assomiglia, con cui si identifica, e di cui il Tutto, indistinguibile dal Niente, è lo spazio dove, sterile e prostrato, egli trova compimento e riposo.

* Non siamo realmente noi se non quando mettendoci di fronte a noi stessi, non coincidiamo con niente, nemmeno con la nostra singolarità.

* Non coltiviamo il brivido in sé, vagheggiamo ciò che è nocivo.

* Liberarsi dell'ossessione di sé. Nessun imperativo è più urgente.

* Promossi al rango di incurabili, siamo materia dolente, carne urlante, ossa rose da grida, e i nostri stessi silenzi non sono che lamenti strozzati.

90

* Distruggere significa esercitarsi a non essere niente.

* Il tale è dominato dalla cupidigia, dalla gelosia, dalla vanità? Lungi dal biasimarlo si deve invece lodarlo. Che cosa sarebbe senza di esse? Quasi nulla, vale a dire puro spirito, più precisamente angelo (sterile e inefficace quanto la luce in cui vegeta).

Da "Storia e Utopia" (1960)

* Esistere significa accondiscendere alla sensazione, dunque all'affermazione di sé.

* Creare significa trasmettere le proprie sofferenze.

Pecore brucanti i pascoli degli atenei

91

Per il neofita o l'autodidatta, che, timoroso e umile, si addentra

nella giungla dei forum filosofici ufficiali, vedere che verrà

considerato - ci si perdoni il termine gergale - "come una merda",

può essere un motivo per desistere dall' "aprire bocca", oltre che

l'autoconsiderarsi "sono un idiota, sto scrivendo delle

sciocchezze".

Ci si connette a forum filosofici, ed ecco che si scorrono topic

cervellotici, volutamente scritti con arzigogoli e cubi di Rubik

grammaticali, quando uno stesso concetto, eccetto qualche

eccezione o Pensatore, lo si potrebbe scrivere altrettanto bene

con formule espressive più chiare, "democratiche", ovvero, che

risultino compensibili a tutti.

Invece, si rischia di annegare in un maelstrom di topic legati a

disquisizioni sterili di linguaggio, dove a prevalere è l'esercizio

fine a se stesso, in prevalenza neo-positivista, di estrazione

cognitivista/psichiatrica o "neo-scolastica" (uso questa etichetta

volutamente virgolettata perchè l'egemonia, specialmente

cattolica, controlla ancora le sedi di pensiero, anche se

"standosene bene dietro le quinte"; molti dei topic sono ancora

influenzati pesantemente dall'onnipresente ed ingombrante

eredità cristiana di pensiero, tanto che risulta molto, molto

difficile, portare la discussione su derive pur sempre cristiane, ma

non clericali, per esempio la Teologia di Liberazione, o quella

Femminista). Già il prevalere di queste "mode di pensiero attuali"

non è di per sé terreno fertile per impostare discussioni più

legate a vie di pensiero che si pongono in antitesi con queste

dottrine, si veda per esempio l'Esistenzialismo (escludendo

Heidegger e l'immancabile Nietzsche, che godono di ampio

92

"chiacchiericcio" sui forum).

Se poi, spinti dal "voler dire la propria", si osa esternare un

commento, magari specificando la propria origine "self-made",

ecco che o si verrà ignorati del tutto o si verrà degnati di un

disprezzo e una strafottenza neanche tanto velate.

Essendomi capitato questo "mobbing", che al momento non

riuscivo a comprendere, ho poi riflettuto, leggendo

attentamente i profili o le note di presentazione degli utenti:

praticamente quasi nessuno di loro è di formazione autodidatta,

ma anzi, si gloriano pesantemente dei loro meriti accademici.

Non perdono occasione di cinciaschiare mettendo in prima linea

non tanto "l'uso pratico della Filosofia" (= leggo X, poi lo medito,

ci rifletto, e lo riadatto alla mia vita) quanto il ripetere a

pappagallo il libro tal-dei-tali, il pensatore di estrazione

solitamente "psicologica" (e sotto questa etichetta intendo dalla

psicanalisi in poi, fino a tutte le derive moderne, del resto è un

dato di fatto che l'Esistenzialismo venga bistrattato

pesantemente; tutto il sentire umano, l'Erlebnis, il nostro

vissuto, viene analizzato con rigide dissezioni utilizzando come

bisturi le "autorevoli" definizioni psichiatriche/scientifiche, quasi

che l'anima stessa - non per forza vista secondo le derive

cristiane - non sia che un grumo imperfetto di dosi ormonali o di

sostanze psicotrope da somministrare come se stessimo

cucinando una torta:

"Aggiungiamo 50 milligrammi di questo, 80 milligrammi di

quest'altro e blablabla".

Si è persa la poesia, la vicinanza all'interiorità dolorosa,

"spirituale", dell'essere umano, asfissiata sotto coltri di

93

linguaggio burocratico: la perfezione dell'immobilità del

cadaverismo di stampo "psicologico", reo di creare infinite

etichette, tanti ghetti per chi si vede visto addittare come

"schizofrenico","depresso", "paranoico", "fobico" e via dicendo.

L'egemonia in ambito filosofico della dicotomia "neo-

scolastica"/"psicologia", "fa il bello e il cattivo tempo", sia in

ambito linguistico (si veda tutto l'uso del linguaggio specialistico

e di nomenclatura tipico di queste dottrine) sia in ambito teorico.

Il loro intento, a mio parere, non è "per amore di tradizione",

bensì ha lo scopo di preservare il Sapere come affare di un'elite

esclusiva, un circolo ultra elitario dal quale l'adolescente iscritta

all'istituto tecnico, (sussiste ancora vergognosamente la

distinzione di scuole di serie A - i licei - e scuole di serie Z - tutte le

altre - secondo l'idea del filosofo "fascista" Gentile...) l'operaio, la

casalinga, sono esclusi, in virtù del loro essere "senza l'attestato

dell'ateneo X".

Ecco perché, di fronte a questi sputasentenze, che vorrebbero

relegare la Filosofia come dominio di "pochi eletti privilegiati

ricconi", foraggiati dagli atenei e dalle accademie, è invece

importante non darsi per vinti, non lasciarsi sopraffarre davanti

al loro tentativo, volutamente marcato, di escluderti, di

stigmatizzarti.

Del resto, la Cultura ora è più facilmente a portata di tutti: basta

recarsi in una biblioteca o in alternativa navigare un po' su

internet. Non mancano le occasioni di "Mi voglio fare un'idea".

Ora scriverò un concetto forte, assumendomene le

responsabilità. Un concetto che ho sempre posto come base del

mio percorso d'apprendimento, e che ha portato alla creazione

94

di tutti i miei scritti: se la Filosofia non è lente d'ingradimento per

se stessi, se non è analisi catartica del proprio essere, allora è

INUTILE: è sterile blabla, è vacuo balbettamento pappagallesco,

è saccente sfoggio di "Ho i soldi per pagarmi gli studi all'ateneo".

L'esercizio del Libero Pensiero non è affare di pochi. Appartiene

a tutti. Non lasciarsi contagiare dalla boria saccente dei "club

elitari" (neanche ci volesse un pass per accedervi!) e sfoderare il

coraggio di SAPERE RIELABORARE I FILOSOFI LETTI, LE FRASI, I

CONCETTI, USANDOLI COME LENTI DI SE STESSI, oltre che

l'impegno costante nell'apprendere, nel migliorare, è FARE

FILOSOFIA.

Che piaccia o no a quelle pecore brucanti i pascoli degli atenei!

PERCHé L'ESISTENZIALISMO HA RAGIONE, E LA PSICOLOGIA HA

TORTO.

Viviamo in un'era che ha sancito la supremazia della psicologia e

dell'ancor più fetida psichiatria.

"Va quasi di moda" andare dallo psicologo, sborsare una cifra

che si potrebbe impiegare per "tirare a fine mese", con la

convinzione (errata, e dopo spiegheremo il perché) che lo

psicologo "sia la soluzione al problema" in virtù di non-si-sa-bene-

quale-merito.

L'analisi introspettiva, la riflessione, la meditazione, "lo scrivere

come si sta su un diario", ormai vengono visti come anacronistici.

95

Eppure, sono aumentate le possibilità di poter accedere ad

informazioni sul web o persino a libri interi (pensiamo agli E-

book) grazie a Internet, uno strumento che solo fino a trent'anni

fa era utopia, e che oggi, rende il Sapere a portata di click.

Con un click, si può passare dalla Filosofia Greca a quella del '900

in pochissimi secondi!

Purtroppo, a partire dagli anni '30, via via, fino agli anni '70, la

Filosofia pura è stata infettata da discipline come la psicologia, la

psicanalisi, la sociologia, il linguaggio, la matematica ecc. che

hanno poi portato ad una serie di sottogeneri che niente o quasi

hanno a che vedere con la Filosofia pura: cognitivismo,

strutturalismo, neopositivismo (nato nei primi del '900, ad opera,

neanche a dirlo, di matematici e fisici!), filosofia analitica,

connessionismo e così via, che vedono la predominanza degli

influssi psicologici/psichiatrici/scientifici. Non a caso, sono

correnti di pensiero che rigettano in toto l'Esistenzialismo, che è

stato (insieme al Marxismo) l'ultimo genere di Filosofia pura.

A sua volta l'Esistenzialismo nasceva come reazione al

positivismo e - in un certo senso - anche all'Idealismo.

Del positivismo diremo solo che coltivava l'idea che il progresso

tecnico/scientifico potesse migliorare la condizione umana; tutto

andava quindi inquadrato in una direzione tassativamente logica

e razionale. L'obiettivo del positivismo era riassorbire le

Geisteswissenschaften (Scienze Umane) nelle

Naturwissenschaften (Scienze della Natura), ritenendo che le

prime dovessero adottare gli stessi metodi critici-analitici delle

seconde (pensiamo al rigore della Fisica, per esempio, o alle leggi

della Chimica) per addivenire alla formulazione di leggi universali,

96

vale a dire, applicabili a tutti. Non è un caso che il positivismo si

scagliasse contro le manifestazioni dello spirito, inquadrate come

nevrosi o pazzie: pensiamo all'angoscia o alla tristezza, che

hanno portato ai grandi capolavori dell'Arte, della Poesia, della

Letteratura; pensiamo al Romanticismo Nero, al concetto di

Weltschemerz, Spleen, Malinconia, malvisti dai positivisti. Il

positivismo nasceva come antagonista dell'Idealismo (riporto

l'espressione di Sofia Vanni Rovighi, "Storia della Filosofia

Contemporanea", pagina 129) "Primato dell'idea nell'Idealismo,

primato dell'osservazione nel positivismo; affermazione che

l'uomo è spirito, partecipazione allo Spirito Assoluto

nell'Idealismo, riduzione dell'uomo alla natura, considerazione

dell'uomo come un prodotto della natura nel positivismo;

riduzione della divinità a illusione puerile nel positivismo".

"positivismo" in cui "positivo" viene visto come "relativo,

organico, preciso, certo, utile, reale". Non analizzeremo il

significato di ciascuno di questi aggettivi (per chi fosse

interessato, può trovare l'analisi completa alla pagina 130 del

libro di Sofia Vanni Rovighi). Ci soffermeremo solo sul significato

di "positivo". Come osservava Gouhier, "positivo" si oppone a

"chimerico", ed esclude il "misterioso", esclude cioè ogni

spiegazione che ricorra ai principi non controllabili

nell'esperienza. Questa ricerca dell'utile si opponeva

all'ascetismo, alla morale cristiana, agli ideali contemplativi, al

genio poetico nato anche dallo spleen - e quindi, dall'irrazionalità

pura o dal delirio -.

Del resto, Auguste Comte (1798-1857), uno dei padri del

positivismo, era un matematico, strenuamente convinto che

l'organizzazione sociale dovesse essere fondata su un rigoroso

97

sistema scientifico. Saltando gli altri esponenti del positivismo,

citerò soprattutto Roberto Ardigò (1828-1920), il più noto

rappresentante del positivismo in Italia. Per Ardigò, tutta la

realtà è natura, e l'unica conoscenza valida è quella scientifica.

Dell'anima, Ardigò sosteneva: "è la memoria confusa dei fatti

psicologici sperimentati; una specie di compenetrazione

mentale, in uno schema solo, delle qualità e dei generi loro."

Da questi brevi esempi si comprende come il positivismo

rigettasse le iperboli dell'Io e dello Spirito tipiche dell'Idealismo e

del suo linguaggio criptico e spesso "misterico" (pensiamo a

Schelling, ancor prima che Hegel, e alle sue frasi sull'Io, posto e

ponente da Se Stesso...).

L'obiezione dell'Esistenzialismo al positivismo è questa: le

Scienze Umane proprio perché studiano l'uomo, o meglio,

l'uomo in situazione, l'individuo, che è quanto di più unico,

irripetibile, (si veda il concetto di Ego, Io, Unicità in Max Stirner, il

Pensatore più "Egotico" che la storia della Filosofia ricordi con il

suo "Io ho fondato la Mia Causa su Me Stesso"!) non potranno

mai arrivare a formulare leggi universali, né ad applicarle per

poter spiegare i comportamenti umani. Quindi, ponendosi in

antitesi con il positivismo, l'Esistenzialismo afferma che le

Scienze Umane, le Geisteswissenschaften, non potranno mai

essere scienze empiriche, ma dovranno per forza essere

idiografiche, avendo per soggetto il singolo, il soggettivo, il

relativo, il vissuto individuale di ciascuno di noi (Erlebnis).

Riflettiamo: la nostra vita, le mie esperienze, le tue, le vostre,

non sono forse incomunicabili nella sensazione provata in se

stessi? E quando cerchiamo di scriverle, di comunicarle, non ci

scontriamo con l'incredulità degli altri o la loro incapacità di

98

capirle, recepirle, approvarle? Come può X vivere le mie

emozioni, i miei tormenti, se sono miei? Avendo due mani io

posso forse comprendere chi ne possiede una? Lo zoppo per

nascita può avere la sensazione della corsa veloce? Il povero del

Terzo Mondo può avere la sensazione di cosa si prova quando si

gusta del caviale seduti in un ristorante di lusso? Un uomo può

comprendere il ciclo mestruale o il parto? A tutto questo (che

abbiamo semplificato con esempi volutamente facili) la risposta

non può che essere: "No, nessuno di questi personaggi può

sapere esattamente come sia la sensazione citata, a loro ignota,

perché non presente nel substrato della propria esperienza".

Affermava Locke: "Ogni uomo essendo in sé consapevole di

pensare, e ciò che si trova nel suo spirito quand'egli pensa

essendo idee [...] La prima cosa che si offre all'esame è come

l'uomo venga ad avere tutte queste idee [...] supponiamo che al

principio lo spirito sia quel che si chiama un foglio bianco, privo di

ogni carattere, senza alcuna idea. In che modo giungerà esso a

ricevere delle idee? Rispondo con una sola parola:

dall'esperienza. è questo il fondamento di tutte le nostre

conoscenza: da qui traggono la loro prima origine. Le

osservazioni che facciamo sia intorno agli oggetti esteriori e

sensibili, sia intorno alle operazioni interiori dell'anima nostra [...]

sono queste le due sorgenti da cui discendono tutte le idee che

abbiamo ". E allora perché si ritiene a priori che la figura dello

"psicologo" o peggio ancora, dello "psichiatria"!, possa

comprendere e addirittura risolvere, in virtù di cosa poi!, dolori

esistenziali che appartengono a qualcun altro? Si dimenticano gli

abomini (per fortuna limitati) che dobbiamo alla psicanalisi, rea

di aver "fallizzato" tutta la realtà?! Tutto non sarebbe che

espressione del Pene. Lo Spleen, la Malinconia, il Genio

99

Espressivo Sregolato di un Munch, di un Cioran, di un Poe ,

venivano sostituiti con deliri di subconscio di madri castranti e

tensione libidinosa al pene. Alla donna, uomini

psicologi/psichiatri degli esordi, non additavano nevrosi, isteria,

invidia del pene (!) o le "illuminanti" disquisizioni al riguardo sull'

orgasmo vaginale (concesso) VS orgasmo clitorideo

(contronatura)? La psicologia ottocentesca e di inizio '900 non

ha niente da invidiare al più becero cristianesimo (del resto esiste

anche una psicologia di stampo maschilista-cristiano, su cui

stendo un velo pietoso... e che risulta pure più insopportabile,

con la sua aura di buonismo, rispetto a pensatori cristiani per

definizione insopportabili, vedasi un de Maistre...).

Si dirà: la figura dello "psicologo" comprende per empatia. Ma

quale empatia di fronte a tragedie personali che toccano in sorte

solo a noi, nel profondo di noi stessi, e che, al massimo, gli altri

vivono per riflesso, molto alla lontana, dalle nostre parole scritte

o parlate?

Può un uomo comprendere il dolore di una donna sfigurata, e

l'odio di se stessa, in quanto corpo femminile rifiutato dagli

uomini, gruppo del quale lui stesso fa parte?

Ecco perché la psicologia si basa su un falso presupposto: che

tutto sia comprensibile alla luce di un manuale di Freud o Lacan.

Che tutto sia "raddrizzabile" alla luce di "consigli" che questi

numi, e i loro seguaci, dall'alto della loro arroganza, hanno

"elargito" a noi poveri mentecatti bacati, incapaci di

comprendere da noi stessi noi stessi.

Per spiegare le scelte o "il destino" di un individuo non posso

servirmi di una teoria psicologica "bella che confezionata a

100

pagina 500 di un libro di Freud", questo perché ogni individuo è

un essere a sé, mentre la psicologia ha la pretesa boriosa e

arrogante di credere che tutti funzionino allo stesso modo: le

persone vengono quindi ridotti ad etichette, frasi fatte,

nomenclature sterili (fobico, paranoico, ecc. ecc.), citate a pagina

tal-dei-tali, alla riga tal-dei-tali, del volume tal-dei-tali dello

psicologo tal-dei-tali, che disquisisce su ciò che non conosce se

non per "sentito dire". (allo stesso modo nel quale una ragazza

italiana vestita con abiti sexy sa per "sentito dire" che in

Afghanistan una donna giri col burqa...).

Nell'Esistenzialismo è l'essere umano a farsi protagonista, di se

stesso, della vita, della verità, che non è qualcosa di precostituito

(la pretesa delle religioni, per esempio, con i loro dogmi

inviolabili in fatto di Dio o di morale) bensì è qualcosa che

l'individuo contribuisce a porre in essere, a "fare", creandolo

attivamente.

Si noti a tal riguardo, i racconti di stampo esistenzialista, che

danno ampio margine a monologhi, soliloqui, e alle percezioni

dei protagonisti.

Si parla molto di Kierkegaard e del suo concetto di Angoscia, di

Stirner e del suo concetto di Unicità e di Schopenhauer con il suo

Pessimismo; ma l'Esistenzialismo ha un debito anche verso

Berkeley, forse considerato un po' sottotono, e che pure pose i

"germi" anche per l'Idealismo; riporto quindi brevemente la

dottrina berkeleyana, chiamata anche immaterialismo, basata

sulle percezioni. L'essere delle cose consiste nel loro essere

percepite dagli "spiriti" - noi stessi -. Tutta la realtà materiale non

ha come fondamento e substrato la sostanza materiale, come

comunemente si crede, ma il soggetto che la percepisce, noi

101

stessi, che percepiamo, "ci facciamo idea" delle cose che ci

circondano da un punto di vista ideale e soggettivo. Per Berkeley

persino la materia, in fondo, non è che un'idea, l'idea stessa che

noi ci facciamo di X o Y. La sua dottrina è riassunta in "Esse est

percipi vel percipere = Essere è essere percepito o percepire".

Semplificando, possiamo dire che una mela su un tavolo esista

solo perché qualcuno, entrando nella stanza, la nota. Se io

nascondessi quella mela dietro un armadio, e successivamente

entrasse qualcuno, egli non avrebbe affatto la percezione che

quella mela - che pure c'è nella stanza - sia presente nella stanza,

quindi, quella mela non esisterebbe affatto nella percezione

dell'osservatore, di conseguenza, non esisterebbe nella realtà (la

realtà della vita di quell'osservatore). Tutto esiste solo perché noi

lo percepiamo con i sensi, e questo vale anche per tempo o

spazio: la genialità di Kant, che ha dimostrato come tempo e

spazio, categorie trascendentali, non siano altro che artifici della

nostra mente che si illude di vivere in una realtà temporalizzata e

spazializzata: sono le 5 del pomeriggio, casa mia dista 7 metri da

casa tua, e così via; ma tempo e spazio non sono affatto concetti

esistenti in natura, bensì delle "lenti" che indossiamo davanti agli

occhi, artifici che noi abbiamo ideato e introduciamo nella nostra

vita per darle un senso. Non è possibile riportare per intero il

pensiero di Cioran al riguardo, ma si pensi alla sua concezione del

tempo: la catastrofe della caduta nel tempo, l'atrofia del

presente, le veglie eterne nella notte a causa dell'insonnia... Dio

non è forse un eterno presente? L'invecchiamento e l'angoscia

inerente al trascorrere degli anni non sono forse solo prerogativa

dell'essere umano?

L'unica soluzione al dolore, essendo personale, consiste nella

rielaborazione introspettiva; a tal fine è utile leggere, "facendo

102

proprie" le frasi che più ci colpiscono, rielaborandole, se

necessario, stravolgendole, usandole come delle lenti per

chiarire ciò che è dentro di noi, in una totale anarchia

compositiva che tiene conto solo del proprio sentire e del

proprio "sesto senso". Anche dipingere, comporre poesie o

musica può essere un modo per "cauterizzare" ciò che ci

tormenta, espellendolo metaforicamente da noi stessi, in una

serie di pennellate, versi, note.

"Se vogliamo conoscere il senso dell'esistenza, dobbiamo aprire un libro: là in fondo, nell'angolo più oscuro del capitolo, c'è una frase scritta apposta per noi" (Pietro Citati)

"I libri migliori sono quelli che ci consentono di leggere ciò che sta scritto in noi stessi" (Giovanni Soriano)

"Non dobbiamo leggere per dimenticare noi stessi e la nostra vita quotidiana, ma al contrario, per impossessarci nuovamente, con mano ferma, con maggiore consapevolezza, della nostra vita" (Herman Hesse)

"Non si legge un autore, ci si legge attraverso di lui" (Jean Marie Dechanet)

"Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso." (Marcel Proust)

"Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma" (Cesare Pavese)

Per usare un motto alchemistico, "Obscurum per obscuris,

103

Ignotum per ignotius", "Andare verso l'oscuro e verso l'ignoto

attraverso ciò che è ancor più oscuro e ignoto".

Ecco perché suggerisco di leggere un libro di Cioran,

risparmiando i soldi dati a quei mangiapane a sbafo di

cognitivisti, lacaniani, comportamentisti et similia

psicanaliticheggiante. Non solo sono inutili, al fine della

comprensione di te stesso in te stesso, non essendo te, ma sono

anche un branco di arroganti presuntuosi convinti di capire il tuo

dolore molto meglio di te. Cosa che, come spero di avere

dimostrato, è impossibile.

Socrate gridava entusiasta il suo "Uomo, conosci te stesso!"

Conosci Te Stesso da Te Stesso!

"L'INCOMUNICABILITà ALLA BASE DEL DOLORE ESISTENZIALE"

Scritti dedicati ai Pensatori Esistenzialisti, da cui ho attinto idee,

riflessioni, rielaborazioni e conforto.

"E Tu, Cielo.... oh! d'un pianto

Di stelle lo inondi

104

quest'atomo opaco del male!"

(Giovanni Pascoli "X Agosto")

"Scrivere significa fare nel fallimento l'esperienza dell'essere"

(Joseph Conrad)

E se l'atomo opaco del male non fosse il mondo\l'universo ma

l'essere umano?

Se appunto ciascuno di noi, per il solo fatto di essere un umano,

fosse un atomo opaco e sbiadito, una particella misera ed

accasciata?

Da sempre cerchiamo risposte esistenziali o una comunione col

divino (preghiera o creazione artistica) che ci faccia ascendere

dalla condizione animalesca ed istintuale da cui proveniamo.

Fin da piccoli veniamo convinti a pensare che le cose abbiano un

senso, un perché; scansiamo temi scomodi come la morte, il

dolore, la sofferenza e la malattia, eppure ne siamo circondati,

"soffocati", ci culliamo nell'idea che saremo risparmiati da "tutto

ciò che è negativo", che niente di doloroso ci sfiorerà mai, e

qualora capitasse, ci illudiamo che tutto passi in breve tempo,

che il tutto si risolva, che a tutto ci sia una soluzione.

"Il sonno della ragione partorisce mostri".

No, è il sonno dell'autoconsapevolezza che partorisce mostri, è

quando ci ostiniamo a crederci figli di dio, creature privilegiate

nell'intera creazione, destinati a un'eternità di amore-felicità che

ci fa illudere perniciosamente, e tanto più ci si autoconvincerà di

105

"io merito amore e rispetto", tanto più si cadrà nell'abisso al

primo malessere esistenziale.

La verità è che siamo particelle di polvere, un nulla prima della

nascita, un qualcosa ("una passione inutile") durante il breve

divenire della vita corporea, e un nulla di putrefazione e

decomposizione dopo la morte fisica.

Non siamo meritevoli a priori di nessun diritto alla felicità, al

benessere, all'amore, viviamo disperdendoci in attimi fugaci di

gioia, subito pagata nel sangue, tutto ciò che ci circonda è

catastrofe e sfacelo, rovina e nulla.

A che scopo costruire se qualsiasi gesto si rivela irrilevante?

Mancando il concetto di "persistenza di eternità" alla vita fisica

ne consegue che fare o non fare è la stessa identica cosa. Tutto è

un agire affannosamente inutile, tutto è rivolta contro un Nulla

che cancellerà anche quel poco di buono che avremmo eretto.

In definitiva, non esiste nessun divenire, perché manca l'eternità

per rapportare il concetto di durata, e degli esseri si può

solamente affermare che provvisoriamente escono dal nulla,

diventando un qualcosa, e rientrano nel nulla dell'oblio.

Tutto è mestizia universale, e quando essa ci contamina, ne

diventiamo infetti e corrotti.

Tanto il corpo quanto l'anima ne recano le stigmate purulente,

quanto più si è accasciati nell'abisso, tanto più si cercherà di

trascinare gli altri con noi, nella disfatta.

La sussistenza del dolore egocentrico è tale che non concepisce

niente al di fuori di se stesso, per cui non solo dal dolore altrui

non ne verremo coinvolti (se non per gioirne o appropriarcene),

106

ma anche, tenderemo a sviluppare una strana superbia, un Ego

intriso di sofferenza che vorrebbe, se solo esistesse, porsi di

traverso persino a dio, in un atto di sfida, di perenne

manifestazione di sé.

Un dolore ripetuto ogni secondo, un dolore trascinato, genera

assuefazione.

L'assuefazione genera l'atarassia.

L'atarassia conduce alla pace; essendone assuefatta, quasi non lo

sento più questo dolore acuto e persistente.

Più il dolore persiste, e più ci rende assuefatti e addomesticati ad

esso.

L'intensità, variando poco, nel corso del tempo, rende l'effetto

del dolore "uno stato abituale", tanto che questo dolore diventa

persistente e complessivo.

Un'altra conseguenza è che si tende ad avvicinarsi alle altre

forme di dolore con autoreferenzialità, rifacendosi sempre e solo

al proprio dolore individualistico.

Si fagocita il dolore altrui per meglio assaporare il proprio,

modulando a proprio "gusto e consumo" le mestizie altrui.

Questa è un'ulteriore prova al fatto che l'automatismo del dolore

egocentrico è tale che non percepisce niente al di fuori del suo

continuo rivelarsi; tanti inferni solipsistici in cui non si può non

annegare, in cui si annega soli, incomunicati.

Questo genera angoscia?

Sì, ma solo se si cerca di andare contro questo stato, solo se si

cerca di non farsi travolgere.

107

Accettando questa presa di posizione "si soffre e non è possibile

non soffrire altrimenti", considerando, per conforto, che un

dolore vale l'altro e che se ora non soffrissi per questo motivo

preciso, ne soffrirei comunque per un altro motivo, paritario e di

stessa intensità o no, ci si chiude in una solitudine annientante

che libera da qualsiasi paura esterna. Paventando solo il mio

male, arrivo a porlo come unico mio Ego e, assimilandolo, erigo

sulle rovine dell'ego precedente - un ego che era felice, sereno,

tranquillo, forse - un nuovo Io alla luce di una nuova

consapevolezza esistenziale forgiata dalla certezza che:

1) Non è possibile non soffrire.

2) Hai sofferto, dunque hai capito. Hai visto la realtà, il mondo,

dio, con altri occhi, attraverso le lenti che il tuo proprio dolore ti

ha posto sugli occhi, in modo brutale e irruento (nessuna

precognizione al riguardo, niente ci anticipa il dolore: ne veniamo

stuprati senza che egli si presenti neppure per nome)

L'Io si decompone in dolori e sofferenze incomunicabili.

Infinite cicatrici esistenziali che ad occhi estranei saranno

invisibili o appena notate, e che al contrario persistono dentro di

noi, incapaci di negarle, incapaci di sopprimerle (facendo parte di

noi, nel profondo, come possono essere annullate? Sono il

proprio Io, lo si può annullare? Per quanto sfiancante e

disgustoso... queste negatività persistono, persistono,

persistono...)

Siamo Dismorfofobia dolente, contratta, sfociante nel Nulla

dell'inazione.

Si agisce, si crea un qualcosa, il tempo passa, tutto viene corroso.

108

Non si agisce, il tempo passa comunque, e in egual modo non

otteniamo nulla.

Manca il fine ultimo, il senso ultimo all'agire.

Perché fare qualcosa se tutto diventa polvere?

Quali conseguenze attendere nel crescendo sfaticante di rivolte

inutili, sfiancanti?

Rimane il baratro delle scelte da compiere

"Scelgo questo", "Scelgo quello"

ma qualsiasi cosa io scelga è la stessa cosa, lo stesso evento che

non porterà a niente. Tutto si equivale, in fondo.

La fissità costante del dolore è tale che non solo dopo anni

genera assuefazione, ma che tale dolore sarà anche caricato di

un particolare significato, valenza e superbia che avrà senso solo

per chi ne è succube, in un' ascesi verso il peggio che

raggiungerà vertici sommi di abissale disperazione.

Qualsiasi parola, immagine, persino suoni, non riuscirà mai ad

esprimere l'essenza e la valenza del proprio dolore.

Manca a priori la condivisione dell'esperienza dolorosa vissuta

nel profondo, da un Ego all'altro.

è evidente che nessuna speculazione basata sull'ipocrisia

dell'empatia può portare alla comprensione del mio dolore alla

coscienza altrui. Al massimo, posso solo autoanalizzarlo nella

solitudine di me stessa con me stessa, rielaborando concetti

altrui, adattandoli al mio caso.

Questa "rilettura di ciò che sta in me attraverso parole altrui, che

109

fungono da lente " è differente dall'andare a chiedere pareri

altrui sotto le spregevoli chimere dell'empatia e della

"comprensione altruistica", in quanto sono io, e solo io, colei che

seleziona e sceglie via via, rielaborando al mio caso, ciò che mi

rappresenta, e non devo giustificazioni a nessuno del perchè e

del percome io scelga ed eriga a mio vessillo una frase, una

parola, un concetto; nessuno può farlo al posto mio, perché

nessuno visse-vive-vivrà con ciò che vivo io (così come io non

vivo quello che capita ad altri come lo vivono in loro stessi). Solo

io ne sono la sorgente, l'abisso, la consapevolezza egotica.

Gli eventi dolorosi si riconducono quindi ad eventi incomunicabili,

casuali, non correlati, compresi e supportati da nessuna

comprensione ed empatia esterna.

"L'INANITà"

Attesa.Precarietà.

Disgregazione.Dissoluzione.

Sono gli aspetti lancinanti della condizione umana.

"Un cader fragile di foglie" senza nessuno scopo che non sia l'assistere alla propria disfatta;

110

nessun altro scopo che non sia il dover morire (si veda a tal punto il ruolo della morte nella prospettiva cristiana: sacrificio-

dono di sé-redenzione/espiazione "nel sangue dell'agnello innocente")

perché vivere, o più precisamente, sopravvivere, è solo l'incessante dover morire.

Se c'è una verità nella Bibbia, è proprio quel "polvere sei e polvere ritornerai" come esprime del resto anche lo stesso nome "Adam", "terriccio", "argilla"; polvere pensante, cosciente, ecco

cos'è l'essere umano.Polvere pensante, esposta continuamente a scelte da compiere (e ricordiamo il geniale paradosso sartreiano "se anche si sceglie di non scegliere, si è scelto comunque; non si può non scegliere")

ma in qualche modo, è proprio l'azione, il dover agire, a procurare l'angoscia maggiore, e del resto, è proprio agendo che

si prospetta la scelta di agire per il bene o per il male.

Se poi sono credente, e convinta della presenza ultraterrena di un dio onnipotente e giudice, ecco che mi si prospettano due

modi d'essere agli antipodi:beatitudine o dannazione eterna.

Ma la quintessenza della questione consiste nel capire che queste due situazioni non si esauriscono nella condizione di

"luogo", bensì di proprio essere, di ipseità: Io rendo me stessa il mio cielo o il mio inferno, per citare il passo cruciale dell'ultimo

atto del dramma "I Masnadieri" di Schiller.

è questa la seconda certezza esistenziale;

La prima è: "Un giorno, morirò. Cesserò di esistere, tutta la complessità del mio essere, l'unicità della mia persona, cesserà di esistere; tutto ciò per cui mi sarò esaltata, tutto ciò per cui avrò

sofferto, diventerà polvere."

111

Di fronte ad una prospettiva religiosa, di premio o castigo ultraterreno, non si può che augurarsi che per davvero non esista

nessuna persistenza dell'anima: come conciliare un eterno inferno solipsistico con la supposta benevolenza di dio?

Pensiamo anche al noto paradosso teologico: "I beati, come potranno godere appieno della felicità paradisiaca, di fronte allo

spettacolo della sofferenza eterna dei dannati, fosse anche per la dannazione di una sola anima?".

O ammettiamo piuttosto che "tutti saremo salvati" (e anche in questo caso, ne consegue un'inutilità dell'agire, e del merito personale) o più cinicamente, affermare, come Severino, che "l'essere stato patito del dolore" non può venire riscattato in

nessun modo (dovremmo anche chiederci, a tal proposito, se è intenzione del creatore renderci immemori e quindi, una volta dimenticate le miserie subite e patite nella nostra vita terrena,

accettare con gioia esaltata la nostra condizione di beati...)

Ma questi non sono gli unici paradossi teologici; pensiamo anche a quelli "spinosi", come la predestinazione, la dispensazione

gratuita della grazia "ma non per tutti", la questione della presenza del male in dio, o comunque, col suo consenso

apparente, se non compiacimento (da vedere, al riguardo, il sanguinoso dio di vendetta, furore e guerra, che domina tutte le

vicende dell'Antico Testamento).

Una prospettiva atea ci libera dell'impaccio e dell'imbarazzo di simili questioni, ma non è in grado, al riguardo, di proporre e di

dare un senso alla vita, più precisamente, al perché "devo trascinarmi giorno dopo giorno, con un'unica meta certa: la

tomba" quando in egual modo, agendo o no, facendo del bene o no, ne consegue che non ottengo comunque nulla (si obietterà

che "agire bene" è il presupposto essenziale per una convivenza tra individui, la creazione di una società, ma partendo dal

112

presupposto che a priori non ci sia di nessuna utilità la vita "in comune", cade anche questa obiezione.)

"Una soluzione" potrebbe essere quella di vivere la bellezza dell'attimo, ma viverla appieno; sarà paradossale, ma quei pochi

attimi di gioia vengono apprezzati veramente solo da chi costantemente si ripete "memento mori".

D'altraparte, non siamo che burattini, marionette alla mercé di forze più grandi di noi (dio, fato, destino, natura matrigna... in qualsiasi modo lo si chiami, il concetto resta immutato) sulle quali non possiamo agire, se non con una percentuale molto

bassa - o pressoché, inesistente - di "libero arbitrio".

è questo che bisogna comprendere:

la vita stessa è a priori inanità, e in qualsiasi modo noi scegliamo di viverla, ci attende lo stesso destino universale: la democrazia

della dissoluzione, l'uguaglianza della decomposizione.

Ora siamo un qualcosa, siamo donne, siamo uomini, siamo ricchi, siamo poveri e via dicendo, presto non saremo più nulla.

Affliggersi per questo o quest'altro dolore, il credere che a tutto ci sia rimedio, l'illusione di meritarsi a priori il diritto a un

benessere psico-fisico, è quanto di più controproducente si possa fare; è una battaglia sterile, pura utopia, miraggio nel

deserto, destinato allo scacco.

Nessun libero arbitrio che non sia la sterile ripetizione di errori passati, nessun agire che non sia l'incapacità di sottrarsi al

proprio disagio, alle proprie tare esistenziali. La sterile, grottesca ripetizione sfiancante dello stigma della rovina che fiancheggia

l'intera condizione umana.

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Meglio accettare eroicamente che questo o quello, questo o quest'altro, è del tutto irrilevante, e l'unica cosa per cui vale la

pena supplicare, se si è credenti, è "dio, donami la pace per non sussistere più, né all'inferno, né in paradiso".

Tenebra malarica è ciò che contamina il corpo, mestizia ciò che infetta l'anima.

Ciascuno di noi, nel profondo di se stesso, sarà capace di dare il nome effettivo al proprio dolore esistenziale, sia esso ascrivibile

alla sfera corporale, o a quella "spirituale", o ad entrambe, nessuna migliore medicina esistenziale che non sia quella del

cinismo, rivolgendoci direttamente alla causa dei propri mali, per ridimensionarla alla luce di questo mantra esistenziale:

"Non tu in quanto tu, mio disagio esistenziale, mi rovini l'esistenza, ma l'atto stesso di esistere, la condizione di vita in sé:

penso dunque sono - esisto dunque soffro".

Spero di aver dimostrato come sia possibile placare, se non del tutto, almeno temporaneamente, quel mostro che assume una valenza polisemantica a seconda del vissuto di ciascuno di noi, e

che rientra sotto il nome di Disperazione.

Letture consigliate:

Per un approfondimento strettamente legato alla disperazione, al dolore, alla vacuità dell'esistenza:

- Cioran: "Al Culmine della Disperazione"- Cioran: "Sommario di Decomposizione"

- Kierkegaard: "La Malattia Mortale"- Jankélévitch: "La Morte"

Per un approfondimento legato alla condizione etica, morale del male, anche in dio, nonché della necessità del male:

114

- Kierkegaard: "La malattia mortale" (la seconda parte)- Pareyson: "Ontologia della libertà"

"UNA VIA ATEA ALLA REDENZIONE: LA COLPA E IL RIMORSO"

Dopo Incomunicabilità e Inanità, la condizione umana è

subordinata anche alla Colpa e al Rimorso, mannaia che colpisce

corpo, spirito, Io.

Vi è una sorta di dissacrante uguaglianza nella ripartizione della

Colpa:

Siamo tutti colpevoli di qualcosa nei confronti di qualcuno.

- Colpevoli di arricchirci a scapito di qualcun altro (pensiamo a

una rapina che finisce in omicidio)

- Colpevoli di violentare fisicamente/verbalmente qualcun altro

(da intendersi anche in senso figurato, pensiamo per esempio a

situazioni di mobbing in ufficio, o al bullismo nelle scuole)

- Colpevoli di salvaguardare il nostro benessere a scapito di

qualcun altro (per esempio, il benessere di pochi privilegiati in

115

Europa a scapito della stragrande maggioranza di poveri del

"Terzomondo")

- Colpevoli di non saperci sottrarre (pensiamo a situazioni di

dipendenza e di abuso di sostanze quali droga o alcool)

COLPEVOLI DI ESISTERE in definitiva.

La Colpa si abbatte, e successivamente, si avverte il Rimorso, e

per alcuni, la gogna dell'Espiazione.

Ora, la Teologia Cristiana ha da sempre posto il concetto di Colpa

-conseguenza del Peccato Originale a cui l'essere umano ha dato

pieno e libero consenso spontaneo "nell'accettare la mela" -

Colpa vista come la caduta da uno stato di grazia e benessere

-"amicizia col Creatore"- reso efficacemente dal Giardino

dell'Eden (da intendersi quindi, come Paradiso, Inferno,

Purgatorio, come stato d'essere e non luogo fisico e

concreto....).

Con l'infrazione del divieto di "non mangiare" (accedere quindi

alla Sapienza, alla Libertà di "faccio quello che mi pare, scelgo da

me ciò che è bene da ciò che è male"), proposto dal Creatore-

Legislatore, la necessità di "un pagamento" attuato attraverso la

sofferenza e la morte che vengono a colpire l'intero creato come

giusti castighi di un Dio sdegnato e collerico, ma, essendo altresì

buono e amorevole, disposto ad accettare l'espiazione di un

Messia, Redentore (poco importa a fine di questo studio stabilire

se Cristo sia Dio stesso oppure "un suo subordinato" concetto

presente in molte "eresie" ) che morendo - il sangue dell'Agnello,

la purezza - espii e tolga i peccati del mondo agli occhi del Dio

Padre-Tremendo ma Amorevole.

La morte dell'Uno Innocente evita l'ecatombe generale (si veda a

116

tal proposito molte correnti cristiane fondamentaliste basate su

"Gesù è morto per te! Ha patito al posto tuo!").

Colpa - Espiazione (che si attua per tutti, in misura diversa fino

all'arrivo del) -Redentore - Riscatto (siamo resi puri di nuovo,

meritevoli di Paradiso)

Questo, nell'ottica cristiana.

Ma in un'ottica di non adesione al credo cristiano semplificato in

"non credo in Dio", "Dio ama tutti, eccetto me", "non è Dio che

non mi perdona, sono io a non volermi perdonare" ne consegue

che, mancando la fiducia, la piena adesione intellettuale-

spirituale a un Redentore, viene a mancare la Redenzione e Il

Riscatto (semplificando: "Ora sto vivendo male, soffro, ma Dio

avrà pietà di me e da morto, vivrò in Paradiso" contrapposto a

"Ora sto vivendo male, soffro, ma non esiste alcun dio, e se

esiste mi condannerà all'Inferno perché non credo in lui/vivo

senza seguire le sue direttive. Non c'è comunque speranza per

me")

Da qui, la vita vista come colpa, in un oscillare perpetuo tra

rimorso ed espiazione, che non acquista mai un senso definitivo,

totalizzante, a meno che non ci si definisca da se stessi,

mancando un dio a cui dare questa incombenza, Carnefici e

Redentori.

Credo che il bisogno di perdono sua un bisogno umano, avvertito

da chiunque.

A mio parere, chi, per scelta personale, non abbia la forza, la

convinzione necessaria a credere in un dio (quale che sia),

potrebbe trovare conforto sublimando il bisogno di perdono

117

nell'opera artistica:

Musica - Arte - Letteratura diventano le chiavi per rappresentare

il proprio dolore, il proprio malessere, e cauterizzarlo.

Sulla tela, sul foglio di carta, nella successione delle note, la

colpa, "il peccato" viene confinato e in qualche modo,

ridimensionato.

La nostra "espiazione" passa quindi attraverso Lo Sguardo dello

Spettatore:

Una Moltitudine di Sguardi che, limitandoci nella fissità di un

ruolo, ci "solleva" dal cappio teso e penzolante, dalla mannaia

pronta a colpire, dalla pioggia di lapilli di Sodoma e Gomorra.

La nostra opera artistica, simulacro della nostra colpa, diventa

quindi la catarsi, il mezzo attraverso cui il Giudizio Altrui ci limita,

ci analizza, ci plasma attraverso infiniti pareri e critiche.

Pensiamo come una canzone possa dare sensazioni di tristezza,

malinconia, o al contrario, di pace.

E successivamente, l'Artista dichiara: "L'ho composta in un

periodo cupo della mia vita"

oppure "L'ho composta quando ero al culmine della gioia",

mentre a noi ascoltatori, quindi Giudizio-Sull'-Artista,

trasmetteva tutt'altro.

Un Significato "originale, unico, ben preciso" dato dall'Artista alla

sua creazione, Giudizio dai molteplici risvolti quello dato dal

Pubblico.

"Si è" al modo di essere visti in cui Gli Altri ci vedono.

118

L 'IRRILEVANZA

"Non siamo altro che una probabilità dell'esistenza; la nostra

vita... un'equivoco di possibilità concesse " (A'isha Arna'ut,

Poetessa Siriana)

Dopo L'Incomunicabilità, L'Inanità, La Colpa, un altro elemento

che caratterizza l'esistenza umana è l'Irrilevanza; Irrilevanza di

tutte le prese di posizione, ideali, fedi di fronte a quello che resta

l'evento fondamentale del vivere umano: La Morte.

In genere, con fare consolatorio, si tende a vedere la Morte

come:

• Fine dell'esistenza umana, quindi, la cessione del dolore, più

che della felicità, sempre breve e passeggera; questa presa

di posizione, più pietistica, può essere la visione atea della

morte, vista non solo come "traguardo" inevitabile (ma

l'essere umano, potrebbe sopportare davvero l'eternità, in

fondo?) ma anche, come "medicina al dolore del corpo e

della mente", da qui anche la battaglia ideologica e civile

per testamento biologico o eutanasia/suicidio assistito (che

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chi scrive, approva, e si augura di vederlo riconosciuto,

prima o poi come diritto civile)

• Evento cruciale per la salvezza dell'anima, se si è credenti e

praticanti.

Nel primo caso, ciascuno, nel suo intimo, potrebbe scegliere,

autonomamente, se aspettare la fine naturale o scegliere da sé

quando "è il momento di andare", magari al culmine di una vita

piena e realizzata, volendo evitare la decadenza e l'angoscia della

vecchiaia, o gli strascichi di una malattia debilitante; il caso

Welby, o di Eluana Englaro sono emblematici, al riguardo, perché

non solo esiste il diritto a tutelare la vita, se desiderato, ma

anche il diritto di disporre di se stessi a seconda della propria

volontà o sensibilità (cosa c'è di più nostro che non sia il nostro

corpo? Non spetta a ciascuno di noi decidere con ciò che è la

nostra unica proprietà?)

Nel secondo caso, che tocca la sensibilità soprattutto di quanti

hanno fede nel trascendente, e ancor di più, di coloro che si

arrogano il diritto di pontificare su ciò che è Bene e Male, Giusto

o Ingiusto, tra chi andrà in Paradiso e chi no, "divertendosi" a

dividere in categorie dualiste l'umanità intera, si può solo

affermare, sensatamente, che sarebbe più di buon gusto

mantenere prudenza e scetticismo, visto che nessuno di noi ha

mai visto coi propri occhi l'aldilà.

Di fronte a questa constatazione logica, non ci si può erigere a

Giudici di ciò che è o non è la verità, dal momento che, non solo

non è certa una vita dopo la morte, ma neppure è certa

l'esistenza di un Creatore-Legislatore di ciò che è Bene o Male.

Per questo, di fronte all' "Io so di non sapere cosa c'è dopo la

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morte", e di fronte alla constatazione che la vita, l'esistenza

umana, non è nient'altro che un groviglio di possibilità più o

meno "infinite" o eclettiche, più o meno concesse e libere, che

portano TUTTE, in qualsiasi modo le si viva, in ugual modo, alla

stessa meta (La Tomba), a prescindere dalla via che si scelga o si

debba percorrere, non si capisce perché un'idea dovrebbe valere

più di un'altra, nel caso specifico, perché un Redentore dovrebbe

"essere più vero" di un Altro: mancando la sicurezza a priori di

ciò che si sta affermando, magari con tanta verve patristica,

condita da una buona dose di arroganza da "Io sono la Via, la

Verità e la Vita".

Una verità vale l'altra, un'idea piuttosto che un'altra si equivale.

Tutto concorre allo stesso identico, democratico, universalmente

diffuso, destino di putrefazione.

Gesù Cristo vale tanto quanto un Filo d'Erba, se l'animista trova il

suo conforto esistenziale nell'adorazione del Filo d'Erba.

Chi può affermare che la propria visione esistenziale sia quella

valida, per tutti?

Tanto più sensato sarebbe affermare che ciascuno viva con la sua

propria verità, adatta a lui, che potrebbe essere quella del

Cristianesimo, piuttosto che la Via dell'Ateismo, o persino, del

Nichilismo più Dissacrante.

Affermare l'Inanità e l'Irrilevanza di qualsiasi punto di vista,

accettare questo o quel valore a seconda "di come ci gira", se

non serve a "trovare un senso esistenziale" che scongiuri

l'angoscia che è il fondamento del nostro essere, se non altro,

non ci fa sfigurare in saccenza ed arroganza davvero lontane

dall'"empatia" umana che certi convertiti professano di avere.

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"Dio ha creato la Verità con molte porte, per accogliere ogni credente che bussi" diceva Kahlil Gibran.

Lo Streben, il Titanismo e il Sublime

Pittore dei Titani

Tre concetti legati alla Letteratura e alla Filosofia: lo Streben, il Titanismo e il Sublime!

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Per prima cosa, questi concetti nascono ufficialmente tra la fine del '700 e i primi dell'800, anche se in realtà, ne troviamo traccia anche nei secoli precedenti, anche se non ufficializzati; basti per tutti una certa poesia rinascimentale e poi barocca, soprattutto italiana, che spesso si era soffermata a descrivere paesaggi "orridi" e tenebrosi, e le mestizie dello spirito.

Iniziamo dallo Streben!

La sensibilità dell'uomo romantico, ovvero "seguace" del Romanticismo, in un certo senso nemico del razionale Illuminismo, è definita Streben, in italiano traducibile come "tensione, anelito, struggimento", con il quale si esprime una concezione della vita come sforzo incessante, tentativo e sforzo continuo. Nello Streben puro e più estremo, compare un'insofferenza, persino odio e disgusto per le realtà quotidiana, che viene vista come sterile ripetizione.

Il Romanticismo si propose quindi il superamento di ogni limite, l'anelito all'Infinito, l'Immenso, l'eterno.

Punto di partenza per questo Desiderio dell'Assoluto è da ricercarsi appunto nell'Idealismo (Fichte-Schelling-Hegel):

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Hegel

Fichte

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Schelling

il loro linguaggio a tratti visionario, sull'Io, sullo Spirito, sull'Assoluto.Certo, il Desiderio di Evasione, l'Anelito all'Infinito, renderà sempre insoddisfatti: la vita umana è soprattutto finitudine, ripetizione, noia, dolore. Eppure tutta l'Arte Romantica, i Dipinti, i Romanzi, rappresentano un tentativo di avvicinamento al Trascendente, all'andare oltre i limiti: basta guardare uno dei dipinti Caspar David Friedrich ("Il Riesengebirge", "Paesaggio invernale con chiesa", "L'abbazia nel querceto","Viandante sul mare di nebbia","Il Watzman"...) per essere subito rapiti da un sentimento di meraviglia e rapimento quasi estatico.

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John Martin

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Riporto questo stralcio, preso da "Friedrich - Un viandante su un mare di luce -" (Itaca) "Il rapporto col paesaggio in lui si colora di un elemento insolito: la partecipazione commossa del soggetto, il senso dell'infinito e del mistero, che conduce con sé simboli, evocazioni, allegorie.

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Sovente è la natura stessa a fare da protagonista, sia per l'assenza dell'uomo, sia perché anche quando è presente esso si fonde con la natura in un tutt'uno che celebra l'Assoluto" (si

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guardi il "Viandante sul mare di nebbia" o la figura femminile, probabilmente la moglie del pittore, che "abbraccia" il sole in "Donna al tramonto del sole"; del resto, la posizione di spalle dei protagonisti serve a coinvolgere l'osservatore, che "entra nel dipinto" guardando lui stesso in direzione del protagonista; nei dipinti di Friedrich i contorni sono luminosi e spesso sfumati: si è davanti all'Infinito, senza barriere e limiti. Infine, un'osservazione personale: nel dipinto "Il Riesengbirge", sullo sfondo infinito, avvolto da luce e nebbie, si scorgono appena due persone, sulla cima del monte, intente a giungere alla sommità, dove troneggia un grande crocifisso di legno; è fortemente simbolico che dei due viandanti, la prima a toccare il Cristo sia la donna, mentre l'altra mano, la tende al marito, che deve ancora arrivare alla cima.

La pittura di Friedrich è puramente spirituale, idilliaca, e trasmette un forte senso di luce, purezza, anelito al Divino, ma non visto in senso dogmatico, ma quasi come un'intima

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comunione con la Natura del paesaggio circostante; un riferimento al Deus Sive Natura, Dio ovvero la Natura di Spinoza?)

Altra curiosità: nell'800 si diffonde anche "la moda" dell'Alpinismo, sport conosciuto prima del 1800. La montagna, e non solo nei dipinti di Friedrich, viene vista ora come una sfida alle possibilità dell'individuo, che si "sfianca" tutto teso alla salita, fino al vertice; una metafora anche del sentimento religioso, l'anelito verso Dio.

In Italia, invece, un esempio di Pittura Romantica, sebbene meno "sublime", e più ancorata al contesto storico/sociale, è quella di Francesco Hayez.

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Affine allo Streben, è il Titanismo. Il Titanismo è la propensione ad accettare sfide impossibili, ad essere ribelle, a gareggiare

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contro tutto e tutti, persino contro Dio; il Titanismo si è "colorato spesso di toni satanici", perché il Lucifero Ribelle all'autorità del Dio Padre viene spesso interpretato o come Icona di Liberazione, oppure come l'Animo dell'Uomo Romantico, in perenne contrapposizione contro la società e i suoi dogmi (metaforicamente, il Dio Padre che governa con pugno di ferro il paradiso).

Milton, l'Autore del "Paradiso Perduto"

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Luciferiani (1888)

Non a caso, la Letteratura Romantica ha celebrato Lucifero (spesso innamorato): Byron, Lermontov, Eminescu sono i tre Autori principali.

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Byron

Lermontov

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Eminescu

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Il Demone innamorato del poema di Lermontov

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Un'altra variante dello Streben è il Sehnsucht, che è una parola che i fans dei Lacrimosa conoscono molto bene, avendo, questa band in particolare, dedicato proprio un cd al Sehnsucht (insieme ai Rammstein del 1997 :D ).

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In italiano, Sehnsucht si può tradurre come "desiderare il desiderio", ed è un sentimento molto intimista, di malinconia, in quanto nasce dalla consapevolezza che l'Infinito, la voglia di Libertà Assoluta, è irraggiungibile. Spesso i Pittori Romantici si sono dilettati in autoritratti, in pose malinconiche o con occhi sognanti e tristi. Il Sehnsucht è quindi un'aspirazione per ciò che è impossibile, chimerico.

Il Sublime, invece, è un concetto di Estetica, elaborato da Burke nel 1756 ("Ricerca filosofica sull'origine delle idee del bello e del sublime"). "Sublime" è molto più che "bello". Sublime è un sentimento quasi mistico, un moto dell'anima improvviso, una tensione quasi insopportabile verso l'Infinito, a dismisura; alcuni elementi tipici del Sublime (che è appunto rappresentato anche nei quadri di Friedrich), noto come Sublime Dinamico, sono gli abissi, gli spazi immensi, silenziosi, l'oscurità, le tempeste furiose, il mare sconvolto dalla procella, i cieli infiammati dai tuoni, le montagne

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gigantesche... Dio, nell'Unione Mistica delle sante e dei santi, è Sublime.

Citando Kant, a suo parere, esiste persino un Sublime Matematico, uno sgomento per l'immensamente grande: i numeri infiniti, il cosmo, il pensiero delll'eternità...

Esiste poi un Sublime per l'Immensamente Brutto o tutto ciò che è in Rovina, o persino in Decomposizione: vestigia di templi in rovina,(si veda per esempio il dipinto di Fussli "L'artista disperato di fronte alla grandezza delle rovine antiche")

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la polvere, cimiteri e sepolcri (a livello di parafilie, questo è denominato "Tafofilia")

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Gli scrittori del Romanticismo Nero, soprattutto, celebrano il Brutto e l'Orrido. Per esempio in "Fosca" di Tarchetti, la protagonista assoluta, è l'orrenda ed incadaverita Fosca, che

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riesce a sedurre il protagonista, che in certo senso, ne è così avvinghiato, dal preferirla alla bionda e fintamente angelica fidanzata!

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Tipico del Sublime è quello che viene chiamato "Orrore Dilettevole" ovvero la Sublimità provoca anche un Terrore folle, di fronte a ciò che è Divino, Immenso, Trascendentale, che va oltre ogni cosa, in cui ci si vuole annientare.Desiderare il Sublime, scorgerLo per un attimo e poi essere sconvolti dall'orrore, un Terrore d'Angoscia, perché in realtà si vorrebbe essere più terreni, più razionali, e la contemplazione del Sublime può portare alla disgregazione dell'Io, al suo annichilimento, alla Kenosis ("svuotamento"), un concetto teologico preso dalla Teologia della Morte di Dio, ma che a mio parere si può riferire anche in un contesto erotico o di estrema passione ed innamoramento; in effetti le donne tendono ad annullarsi per le esigenze dell'altro, e la maggior parte delle mistiche abusa proprio di un linguaggio erotico...

Infine, un approfondimento, che ho trovato in "Il Romanticismo" della DeAgostini.

"Nato in Germania nella terra dell cupa mitologia nordica della Canzone dei Nibelunghi, il cui nome significa "Figli del paese delle nebbie", quasi in antitesi alla serena mitologia mediterranea" (in effetti, per l'ideale di bellezza/estetica neoclassica, tutto doveva

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essere statico e perfetto nelle proporzioni, in quiete e distacco dalle passioni... nota di Lunaria) "il nuovo spirito romantico si propaga in Inghilterra, dove si nutre della poesia sepolcrale di Young, Gray, Blair, i "Canti di Ossian" di MacPherson, del romanzo storico di Walter Scott."

"Per la sua immediatezza la Pittura fu proclamata da teorici del Romanticismo, insieme alla Musica, Regina delle Arti: e se la musica vedrà fiorire geni come Beethoven, Weber, Verdi, Donizetti, Bellini...la Pittura Romantica vedrà sorgere giganti come Delacroix, Géricault, Turner, Friedrich..."

Questa invece, è una tipica composizione romantica:

"Wanderer" (Il Viandante) 1816

Testo Poetico: Georg Philip SchmidtMusica: Franz Schubert

Vengo dalla montagna,la vallata è piena di nebbia, il mare mugghia,cammino in silenzio, il cuore è gonfio di tristezzasospirando, non smetto di domandare: dove?

Il sole mi appare così freddo,il fiore appassito, la vita così carica d'anni,e ciò che mormorano non è che un'eco vana,ovunque sono straniero.

Dove sei patria mia amata?Inseguita, sentita e mai trovata?Patria, Patria ove la speranza risplende,Patria, ove fioriscono le rose.

Dove i miei amici camminano,

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dove i miei morti resuscitano,Patria che la mia stessa lingua parla,O Patria, dove sei?

Cammino, in silenzio, il cuore è gonfio di tristezza,non smetto di domandare, sospirando: dove?Una voce di morte in un sussurro mi risponde:"Dove non sei, lì è la felicità".

***

Come dicevo in altri scritti, il Romanticismo, l'Anelito all'Infinito, è stato ucciso prima dall'asettico positivismo, i cui esponenti, probabilmente, alla contemplazione di un paesaggio montano preferivano la dissezione delle rane nei laboratori, e poi dalla mostruosa proliferazione della psichiatria:

Sublime diventa sinonimo di "malattia mentale, schizofrenia, ecc." da curare, da sopprimere.

L'Incubo, che animava i Goya, i Füssli, i Tarchetti, i Poe, diventa sinonimo di "allucinazione, paranoia, ecc."

L'Anelito all'Infinito, Struggimento, Introversione, diventano sinonimi di "depressione", secondo gli "autorevoli pareri" di "illustri dottori" (trovassero piuttosto la cura per l'Aids o per il cancro...), che nulla fanno in campo artistico, e il cui unico segno scritturiale, una vera forma d'arte, non c'è che dire!, è la firma scarabocchiata sul foglietto per la somministrazione di questo o quel farmaco sedativo.

Forse, ritornare ad una concezione Romantica dell'Esistenza Umana sarebbe più produttivo, oltre che più celebrativo, del Genio Umano.

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Sarà un caso, o forse solo il mio parere personale, ma da quando la psichiatria ha preso pieno potere in campo culturale, il nostro secolo non ha più avuto né un Cioran, né un Friedrich, né un Poe o un Novalis, giusto per citare qualche nome, tra la moltitudine di Artisti. Siamo culturalmente atrofizzati, artisticamente sterili, in catalessi, un letargo di vuoto e noia, e tutto questo, secondo me, lo si deve proprio al ridurre l'Anima Umana, e l'Arte a "depressione da curare con la xanax, perché se leggi Cioran o Novalis sei un depresso, se ti piace Poe o Franz Kline sei un deviato."

A me fa più orrore vedere che si tende ad un'omologazione di massa, un essere tutti uguali facebookianamente, ad accettare e dare per geniale, questa o quella castronata cognitivista, psicologica, psichiatrica. Ecco perché il nostro 2000 è culturalmente morto e decomposto. Non ci sono più i Cioran, i Novalis, gli Schelling, gli Alfieri, i Lermontov, i Byron, gli Shelley, in compenso abbiamo questo o quello "psicologo/psichiatra" propenso al berciamento facile.

Un po' di Esistenzialismo Cristiano, l'unico cristianesimo che sia leggibile senza farsi venire una crisi di nervi.

"Nell'Esistenzialismo religioso la problematicità esistenziale si propone, invece, come possibilità di riscatto positivo della

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coscienza dalla sua tendenziale decadenza in un ordine di determinazioni oggettive e mondane: riscatto che non è garantito se non a patto di una scelta o di un appello di fede, giustificato dalla sofferta consapevolezza critica delle alternative immanenti dell'esistenza. E appunto l'analisi di tali alternative è forse l'aspetto più interessante di siffatte prospettive religiose-esistenziali.Così, per esempio, in Gabriel Marcel la precisa intuizione della distinzione tra Problema e Mistero ("Un Problema è qualcosa che si incontra e chiude la strada. Esso è tutto dinnanzi a me. Il Mistero è, al contrario, qualcosa in cui io mi trovo implicato, e la cui essenza consiste pertanto nel non essere tutt'intero dinanzi a me") si prolunga e si esaspera nell'antinomia dell'avere e dell'essere, rispettivamente intesi come rapporto possessivo ed esteriorizzante con l'oggetto e come recupero o interiorizzazione del "mio" nell' "io". Analogamente in Le Senne il passaggio della "spontaneità" alla "riflessione" si concreta come antitesi - o come "solidarietà" dialettica - tra la determinazione oggettivante (introdotta dall'ostacolo) e il valore personalizzante: e pone perciò il problema della libertà come processo di liberazione dall'esteriorità mondana della determinazione ("La Libertà non è uno stato, è un'operazione") e come rivelazione del valore." (Vittorio Sainati)

Ludwig Wittgenstein

Se per eternità si intende non infinita durata nel tempo, ma intemporalità, vive eterno colui che vive nel presente.

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L'immortalità temporale dell'anima dell'uomo, dunque l'eterno suo sopravvivere dopo la morte, non solo non è per nulla garantita, ma, a supporla, non si consegue affatto ciò che, supponendola, si è sempre perseguito. Forse è sciolto un enigma perciò che io sopravviva in eterno? Non è forse questa vita eterna così enigmatica come la presente? La risoluzione dell'enigma della vita nello spazio e nel tempo è fuori dello spazio e del tempo. Non sono problemi di scienza naturale quelli che qui son da risolvere. Come il mondo è, è affatto indifferente per ciò che è più alto. Dio non rivela sé nel mondo.

Certo non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta. La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparir di esso.

Da "Storia del Nulla" di Sergio Givone

"Tu sia lodato Nessuno. Per amor tuo fioriamo. Al tuo cospetto un nulla eravamo, siamo, resteremo, fiorendo. Rosa del Nulla e di Nessuno." (Paul Celan)

Givone ha suddiviso questa sua personale storia del Nulla in sezioni: si va dalle origini classiche-greche a quelle mistiche-religiose (Apocalisse, Meister Eckhart, Bohme) a quelle di Montaigne e Pascal (unico difetto: mancano le traduzioni in italiano dei pensieri in francese!) e al concetto del Nulla in età romantica (Solger, Chateaubriand, Constant, Sènancour,

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Leopardi) per finire con Sartre ("Sono io che sono senza scuse, solo, assolutamente ingiustificabile, decido del senso del mondo e della mia esistenza") Jacobi ("L'uomo deve scegliere e la scelta è questa: o il Nulla, o Dio; scegliendo il Nulla egli si fa dio"), Leibniz ("Perché l'Essere e non il Niente?") e Schelling.

"Perché non il Nulla? Perché questa scomposta e grottesca e dolorosissima agitazione di tutto e di tutti che comunque non porta se non al Nulla? Perché non anticipare la fine, trovando nella dissoluzione del senso dell'Essere L'unico senso possibile?"

Nikos Kazantzakis

"Veniamo da un abisso oscuro; ritorniamo in un abisso oscuro. Lo spazio luminoso che intercorre tra di loro lo chiamiamo vita. Appena nati inizia il nostro ritorno; contemporaneamente l’inizio e il ritorno; ogni attimo moriamo. Per questo molti hanno protestato: lo Scopo della vita è la morte."

"Morte di Danton" di Georg Buchner

"Nel Nulla.Sprofondati in qualcosa di più tranquillo del Nulla, e se la massima pace è Dio, non è il Nulla Dio?

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Ma io sono un ateo.Maledetto l'assioma che dice: "Nessuna cosa può trasformarsi in Nulla" ed io sono un qualche cosa, questa è la disgrazia!La creazione ha occupato tanto posto, non c'è nulla di vuoto, dappertutto è un brulicare.Il Nulla si è ucciso, la creazione è la sua ferita, noi siamo le gocce del suo sangue, il mondo è la tomba dove esso marcisce."

(frasi veramente dense di Nichilismo... quasi blasfemo... una "benedizione dell'orrore dell'esistenza"...)

“Essere, o non essere...questo è il dilemma: se sia più nobil animosopportar le fiondate e le frecciated'una sorte oltraggiosa,o armarsi contro un mare di sciagure,e contrastandole finir con esse.Morire... addormentarsi: nulla più.E con un sonno dirsi di por finealle doglie del cuore e ai mille maliche da natura eredita la carne.Questa è la conclusioneche dovremmo augurarci a mani giunte.Morir... dormire, e poi sognare, forse...”

(Amleto)

"Padri e figli" di Ivan Turgenev

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Domanda:

"Voi negate tutto o più esattamente, demolite tutto... ma bisogna anche costruire."

Risposta:

"Questo non è più affar nostro... da prima bisogna far piazza pulita."

Stephan Georg: una poesia dedicata a Nietzsche: la trovo veramente bellissima, molto tragica ed eroica...

"Ma tu stai raggiante al di sopra del tempo, come altri duci dalla corona insanguinata, tu redentore! E insieme il più infelice... Non creasti delle divinità solo per abbatterle?Mai pacificato da una tappa, hai ucciso in te stesso ciò che ti è più prossimo per poi tremare ancora una volta agognandolo. E gridare nel dolore della solitudine. Venne troppo tardi chi ti disse implorandoti: là non c'è più un cammino che ti conduca oltre rupi coperte di ghiaccio e nidi di uccelli raccapriccianti. Ora è necessario rinchiudersi nella cerchia che schiude l'amore e quando poi la voce severa e addolorata risuonò come un canto di lode nella notte livida, e come un limpido flutto, così sfogò la propria pena: avrebbe dovuto cantare e non parlare questa nuova anima!"

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"Carissimo, il nulla è qualcosa, lo dice Dio"

è questa la sostanza della lettera inviata dal diacono Fredegiso a Carlo Magno, forse nell'anno 800. Fredegiso sembra che provenisse da York, come il suo maestro Alcuino che aveva diretto la scuola palatina voluta da Carlo Magno.La lettera è molto breve: sei pagine circa, e si rivolge a Carlo Magno.Era opinione prevalente che il nulla e le tenebre, di cui parlano i testi sacri, fossero "nulla" cioè assenza assoluta di essere. La tesi di Fredegiso è del tutto opposta, e la sostiene con argomenti ricavati dalla dimostrazione razionale e poi dall'autorità biblica, cioè divina.Gli argomenti ricavati dalla ragione si svolgono secondo le procedure sillogistiche apprese dalla logica aristotelica: "Procediamo quindi con la ragione. Ogni nome finito significa qualcosa. Per esempio, "uomo", "pietra", "legno". Non appena queste parole vengono pronunciate noi comprendiamo le cose che esse significano. Quindi se "nulla" è un nome, come

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sostengono i grammatici, esso è un nome finito. Ma ogni nome finito significa qualcosa. Ora è impossibile che questo qualcosa finito non sia alcunché. è impossibile che nulla, che è finito, non sia alcunchè. E in questo modo può essere dimostrato che esso esiste.Se poi si passa all'autorità divina, espressa nei testi biblici, si può anzi si deve pervenire alle stesse conclusioni. Nei testi biblici si afferma infatti "che la potenza divina ha prodotto terra, acqua, aria e fuoco, insieme con la luce, gli angeli e l'anima umana, dal "nulla".Per questo essa dichiara che le cose prime e massime fra le creature sono prodotte dal nulla. Pertanto, nulla è un qualcosa grande e distinto.Un discorso analogo viene fatto per le "tenebre", che molti affermano non esistenti. "E le tenebre stavano sopra l'abisso", e se non esistevano, come facevano a "stare"?

La ragione generale per la quale bisogna riconoscere "realtà" sia al "nulla" sia alle "tenebre" viene individuata da Fredegiso nel fatto seguente: "Il creatore ha impresso nomi sulle cose che egli ha fatto, così che ogni cosa sarebbe stata conosciuta quando fosse chiamata col suo nome. Né egli formò alcuna cosa senza il nome di essa né stabilì alcun nome a meno che non esistesse ciò che aveva stabilito. Se le cose stessero così, sembrerebbe interamente superfluo (il nome per la cosa). Ed è empio dire che Dio ha fatto questo."

Carlo Magno si fece leggere la lettera e poi la fece circolare per sentire qualche parere in merito. Un certo Agobardo respinse le tesi di Fredegiso sostenendo che la grammatica non deve dettare legge alla religione e che pertanto bisogna saper leggere il vero significato delle parole bibliche che all'attento cristiano appaiono chiare: il nulla è nulla, e non qualche cosa di esistente, e Dio ha creato il mondo proprio dal nulla e non da qualche cosa.

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Sotto sotto, come si può ben vedere, dietro la lettura "grammaticale" di Fredegiso serpeggiava l'eresia che afferma l'eternità del mondo, o almeno della "materia" da cui il nome sarebbe stato fatto da Dio: l'eresia, cioè, proveniente dal lontano mondo del Demiurgo di Platone.

Fra gli Stoici Romani il più noto è Seneca (d'origine spagnola), maestro di Nerone, e da lui costretto poi a uccidersi. è fra gli scrittori più reputati per la bontà letteraria dei suoi scritti; si distingue filosoficamente per una nota sua propria di schietta umanità.

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Vedi quel precipizio? Di là si scende alla libertà. Vedi quel mare, quel fiume, quel pozzo?C'è la libertà in fondo.Vedi quell'albero? Di lì pende la libertà.Ti mostro uscite troppo penose, che esigono gran coraggio e forza? Chiedi quale sia la via migliore alla libertà?Qualsiasi vena del tuo corpo.

Nella morte non cadiamo all'improvviso, ma procediamo passo passo: ogni giorno moriamo. La nostra ultima ora in cui cessiamo di essere, non fa da sola la morte, ma la compie: arriviamo allora ad essa, ma da tempo ci eravamo posti in cammino.

Cinque brani, che metto a confronto, su Satana, visto come metafora dell'Esserci umano, tra tentativo di rivolta ad un

destino di malattia e morte, il non senso delle disgrazie che subiamo, il silenzio di Dio di fronte al grido di dolore e di aiuto

dell'essere umano, che di fronte a questo Dio Muto, che appare

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come disinteressato, o persino compiaciuto nel vedere l'uomo-burattino alla deriva, si identifica col Primo Ribelle, quasi

augurandosi un destino di dannazione piuttosto che riconoscere amorevole un Dio Assente al nostro grido... e viene in mente la

famosa frase Miltoniana,

"Meglio regnare all'Inferno che servire in Paradiso"

***

Fritz Zorn (da "Il Cavaliere, la Morte, il Diavolo")

"In questo senso posso persino identificarmi con Satana perché come ho scritto nella prima parte della mia storia, io la mia malattia, il mio cancro (2 anni fa la mia malattia si chiamava

ancora cancro) l'ho voluto: ho voluto essere percepito nelle buie caverne degli Inferi "per essere altrove" piuttosto che nel mondo della depressione in cui avevo vissuto i primi trent'anni della mia

vita. In questo senso vedo nell'elemento Satana anche l'elemento liberatorio."

Andrea Emo (da "Supremazia e Maledizione")

"Il Sé è Lucifero (o meglio il Dio) decaduto. Il Sé è l'Io, la Soggettività dell'Io, decaduta a oggetto, a oggetto di

conoscenza e perciò precipitato e confinato nel vuoto abisso del Nulla. Eppure questo Lucifero divenuto Genio Infernale si

trasfigura e riappare nei nostri cieli, nei nostri paradisi.Il Sé Lucifero è quella parte dell'Io che ha il supremo coraggo di

non essere. La Stella della Sera, la più lucida, Stella del Cielo Vespertino, scende rapidamente nel Nulla e riappare poi dopo un'intera notte come la più Lucente Stella del Mattino. L'Io e il

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Sé, Dio e Diavolo, sono una sola vicenda."

Giovanni Cenacchi (da "Cammino tra le ombre", 2008)

L'Autore, nato nel 1963, è morto nel 2006, dopo essersi malato di tumore; per tutto il periodo della malattia, ha scritto un diario, che è stato pubblicato nel 2008. Lo consiglio vivamente; quello che colpisce di Cenacchi è che anche lui era autodidatta, e il suo diario resta un prezioso, luminoso e raro esempio di "Filosofia

dell'Anima, scritta con inchiostro di sangue", al di là delle paludi sterili dell'accademismo che riducono il pensiero a sterile e

boriosa ostentazione di paroloni, per tirarsela e sembrare colti e dotti...quella è la morte del Sapere, ed è una mafia culturale, che tenta di relegare le riflessioni esistenziali ad un elite saccente. Di Cenacchi, riporto queste frasi, atti d'accusa fortissimi contro Dio, pronunciate da un uomo al culmine della sua disperazione e del suo senso di abbandono, di fronte a un dolore del quale non si

vede né l'utilità, né il senso:

"Dio crudele e distratto, quando avverrà per te la resa dei conti? Quando dovrai rispondere del tuo creato? Chi ti infliggerà la

condanna che meriti? (23 settembre)"

"Che orrore sarà il paradiso dell'artefice di questo mondo? Di fronte al tuo creato, o signore, il dilemma non consiste nel

crederti, ma nel fidarsi di te. Io non mi fido di dio.(25 ottobre 2004)

"Preghiera di un non credente: il mio dolore è il mio rosario. (24 maggio 2005)"

"Vivo nella mia morte e null'altro mi è permesso / ogni cosa che vedo, è cosa che perdo."

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Questo invece è un commento di Luigi Pareyson ad Alfred de Vigny, che si ricollega alle accuse contro Dio di Giovanni

Cenacchi:

"Protesta Alfred de Vigny, e non soltanto quando aggiunge "le silence" al Poema "Le Mont des Oliviers", suggerendo di opporre

al silenzio di Dio, il freddo e sdegnoso silenzio dell'Uomo, ma anche quando immagina un giovane infelice che commette il

suicidio con lo scopo preciso di presentarsi a Dio, per chiedergli ragione d'averlo creato sofferente."

Non è la stessa domanda inespressa, quel "Perché Dio hai permesso Auschwitz? Perché permetti tutto questo dolore a

quelli che tu chiami tuoi figli?" che permea anche la riflessione di Elie Wiesel?

Infine, qualche verso di "Ora Satanica" di Gabriele d'Annunzio, che mostrano un Satana Dionisiaco, Gloriosamente Ribelle e

Invitto, Spirito e Motore stesso della Volontà di Vita, Sentinella del Sapere, come viene inteso nel pensiero luciferino; del resto per un Luciferiano il dio di morte, tenebra e dolore, dittatura e

tirannia, oscuratore della conoscenza, signore dei cadaveri e dei cimiteri, è proprio il Dio dei cristiani!

Voglio l'ebrezze che prostrano l'anima e i sensi,gl'inni ribelli che fan tremare i preti:

voglio ridde infernali con strepiti e grida insensate,seni d'etére su cui passar le notti:

voglio orgie lunghe con canti d'amore bizzarri:tra baci e bicchieri voglio insanire.

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Vola, Satana, vola su la grand'ala di foco:stammi a fianco e ispirami: son tutto tuo!

...

Ma io con la spada ne'l pugno e di fronte a' nemicicon lo schermo su' labbri morrò da forte.

...

E l'estrema parola sarà una sfida superba,una minaccia atroce sarà il mio moto estremo.

ERNST JüNGER

"Trattato del Ribelle"

La paura è uno dei sintomi del nostro tempo. Tanto più essa suscita costernazione in quanto è succeduta a

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un’epoca di grande libertà individuale, in cui la stessa miseria, per esempio quella descritta da Dickens, era ormai quasi dimenticata. In che modo è avvenuto questo passaggio? Se volessimo scegliere una data fatidica, nessuna sarebbe più appropriata del giorno in cui affondò il Titanic. Qui luce e ombra entrano bruscamente in collisione: l’hybris del progresso si scontra con il panico, il massimo comfort con la distruzione, l’automatismo con la catastrofe che prende l’aspetto di un incidente stradale. È un fatto che i rapporti tra i progressi dell’automatismo e quelli della paura sono molto stretti: pur di ottenere agevolazioni tecniche, l’uomo è infatti disposto a limitare il proprio potere di decisione. Conquisterà così ogni sorta di vantaggi che sarà costretto a pagare con una perdita di libertà sempre maggiore. Il singolo non occupa più nella società il posto che l’albero occupa nel bosco: egli ricorda invece il passeggero di una veloce imbarcazione che potrebbe chiamarsi Titanic o anche Leviatano. Fintanto che il tempo si mantiene sereno e il panorama è piacevole, il passeggero quasi non si accorge di trovarsi in una situazione di minore libertà: manifesta anzi una sorta di ottimismo, un senso di potenza dovuto alla velocità. Ma non appena si profilano all’orizzonte iceberg e isole dalle bocche di fuoco, le cose cambiano radicalmente. Da quel momento non soltanto la tecnica abbandona il campo del comfort a favore di altri settori, ma la stessa mancanza di libertà si fa evidente: sia che trionfino le forze elementari, sia che taluni individui, i quali hanno conservato la loro forza, esercitino un’autorità assoluta.

I particolari sono noti e molti li hanno più volte descritti; fanno parte integrante della nostra esperienza più intima. Qui si potrebbe obiettare che in passato sono esistite epoche di terrore, di panico apocalittico, non orchestrate o accompagnate da questo carattere di automatismo.È questa una questione sulla quale non intendiamo soffermarci

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giacché l’automatismo diventa terrificante soltanto se si rivela una delle forme della fatalità, nell’insuperabile raffigurazione che ne ha dato a suo tempo Hieronymus Bosch. Che il terrore dei moderni abbia semplicemente lo stile che l’angoscia cosmica adotta oggi, in uno dei suoi perenni ritorni? Non vogliamo soffermarci su questa questione, ma piuttosto rispondere alla domanda speculare che è quella che davvero ci sta a cuore: l’automatismo perdura, o, come è prevedibile, mentre esso si avvicina sempre più alla perfezione? Non sarebbe insomma possibile rimanere sulla nave e conservare la nostra autonomia di decisione – ossia non soltanto preservare, ma addirittura rafforzare le radici che ancora affondano nel suolo originario? È questo il problema fondamentale della nostra esistenza.

È anche il problema che si nasconde dietro a ogni angoscia del nostro tempo. L’uomo si chiede in che modo gli sia possibile sottrarsi all’annientamento. In questi anni, in qualsiasi parte d’Europa ci si trovi a conversare, vuoi con amici vuoi con gente che non si conosce, il discorso si volge ben presto a temi generali e lascia trasparire un profondo avvilimento. Appare subito evidente che quasi tutti, uomini e donne, sono in preda a un panico che dalle nostre parti non si era più visto dagli inizi del Medioevo. In una sorta di cieco invasamento, li vediamo tuffarsi nel loro terrore, di cui esibiscono i sintomi senza pudore alcuno. Assistiamo a una gara di spiriti che discutono animatamente se sia più opportuno fuggire, nascondersi o ricorrere al suicidio, e che, pur godendo ancora della completa libertà, già congetturano con quali mezzi e astuzie sarà possibile accaparrarsi il favore della plebaglia non appena questa si sarà impadronita del potere.

Con raccapriccio ci accorgiamo che a nessuna bassezza costoro non darebbero il loro assenso se gli venisse richiesta. Eppure non mancano tra loro uomini sani e vigorosi, con una bella

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corporatura di atleti. Viene da chiedersi a che giovi tanto sport. Ebbene, questi uomini, oltre che pavidi, sono anche temibili. L’umore balza in essi dalla paura all’odio dichiarato non appena si accorgono che le stesse persone che poco prima incutevano timore mostrano ora qualche segno di debolezza. Siffatte congreghe non s’incontrano soltanto in Europa. Dove l'automatismo guadagna terreno e si avvicina alla perfezione, il panico si fa ancora più tangibile: in America, ad esempio, esso trova il terreno che gli è più propizio, e si diffonde lungo reti più veloci del fulmine. Già è un indice di angoscia il bisogno di sentire le notizie più volte al giorno; la fantasia si dilata e, girando sempre più vorticosamente su se stessa, finisce per paralizzarsi.

"Che il Nichilismo rappresenti una necessaria stazione di transito lo si è ripetuto più volte dacchè l'ebbe detto Nietzsche.La parola stessa acquista il suo senso solo alla luce del diritto paterno, e come un satellite illuminato, perde il suo bagliore non appena il sole tramonta.Il Nichilista cade insieme a quel che abbatte, qualora il Nichilismo abbia rappresentato per lui non una fase di transizione bensì la ragion d'essere.Viene così alla luce come non sia possibile volere il Nulla.Per volere il Nulla bisogna anzitutto non volere. Ma ciò non vale nel caso del nostro Nichilismo.Esso non vuole il Nulla, ciò che non vuole è una determinata cosa: il potere paterno.Al sovvertimento, se ha ottenuto successo, fa seguito un breve ma importante periodo di tempo in cui tutto è possibile.Il fondo originario si presenta sotto forma di caos.A questo incontro è preparato sì l'Anarchico, in quanto figlio e adoratore della terra, ma non il Nichilista, i cui sforzi sono legati alle istituzioni che egli, al pari di Sansone, può distruggere, ma solo per finire seppellito sotto le loro rovine."

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(Tratto da "Al muro del tempo")

***

Colgo in questo concetto la natura diversa dell'Anarchia quale caos come transizione verso un nuovo ordine (che nelle parole di Jünger ha un'origine di matrice psicoanalitica, di contrapposizione e ribellione al potere paterno) e del Nichilismo "puro e duro", che è la Fine di Tutto, l'omicidio che si compie solo con il suicidio finale, come ben espresso dalla leggenda di Sansone.

J.G.FICHTE

Nella "Dottrina della Scienza" Fichte si era posto il problema di ricondurre la conoscenza ad un principio incondizionato, cioè Assoluto (ab-solutum, alla lettera, "ciò che non è legato a nulla", "ciò che non dipende da nulla"). Questo principio, afferma Fichte, non può essere rintracciato nella rappresentazione (cioè la conoscenza empirica, sensoriale… ossia ciò che si vede, si sente, si tocca, si ricorda, si immagina, si pensa…), perché la rappresentazione è un prodotto della coscienza e non il principio della conoscenza. Quindi Fichte ravvisa l'Assoluto conoscitivo nell'atto stesso della coscienza, nella attività del conoscere, a cui dà il nome di "appercezione trascendentale", il quale ha la forma di una autoinduzione della coscienza: "l'Io pone sé stesso", a dire che la consapevolezza è in primis affermazione e volontà di conoscere. E' il primo atto del sapere, l'atto fondativo di qualsiasi

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conoscenza. Puoi paragonarlo al bisogno di conoscere, alla sete di sapere, alla curiosità. In questo non vi è nulla di teorico: è un atto pragmatico, un atto di volontà, una spinta motivazionale. A questo punto l'Io nella sua spinta conoscitiva non può fare a meno di "porre" l'oggetto della sua conoscenza, e questo perché la conoscenza, ogni conoscenza, prevede sempre un soggetto e un oggetto, un conoscente e un conosciuto; quindi "l'Io pone il non-Io", cioè la coscienza pone in essere l'oggetto della sua stessa conoscenza, ciò che essa stessa conosce. Il problema, afferma Fichte, è che la gente si inganna, cade nel "realismo" del senso comune, quando crede che il non-Io, l'oggetto delle nostre conoscenze, sia una realtà autonoma, separata e indipendente rispetto all'Io che conosce. Esisterebbe infatti per Fichte una particolare facoltà, l' "immaginazione produttiva", la quale sarebbe responsabile di quella particolare illusione: è una facoltà automatica, che opera inconsapevolmente in noi, e che ci farebbe apparire come realtà in sé (realtà autonome e indipendenti dal nostro stesso conoscere) gli oggetti della nostra conoscenza. In realtà, afferma Fichte, tutto ciò che noi possiamo conoscere non può essere autonomo e indipendente dal nostro conoscere: è la nostra conoscenza che, conoscendo, pone in essere le cose, dà loro una realtà, un essere, una sostanza. Con questo concetto Fichte pone le fondamenta dell'Idealismo. Hegel non sarebbe possibile senza Fichte. Ma inizia anche la nuova stagione del Solipsismo individualistico, più o meno anarcoide o nichilistico: tutto dipende dal mio Io, dalla mia coscienza. La mia coscienza è il centro assoluto della realtà e dell'universo. La realtà non è null'altro che una produzione autonoma del mio Io, un parto dell'immaginazione, un'allucinazione. Se viene meno la mia coscienza anche l'universo si annichila. Quindi nemmeno Max Stirner sarebbe possibile senza Fichte.

SCHELLING

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Riguardo F.W.J.Schelling il discorso è un po' più articolato rispetto Fichte. Schelling ritiene che attraverso la conoscenza teoretica, che riposa fichteianamente sulla distinzione di soggetto (conoscente) e oggetto (conosciuto), non si possa giungere all'Assoluto, il quale è invece identità di soggetto e oggetto, indistinzione di conoscente e conosciuto. Quindi per cogliere l'Assoluto ci si deve collocare al di là del processo conoscitivo, in senso teoretico, ed attingere, anziché ad un apparato concettuale, alla cosiddetta "intuizione intellettuale" (facoltà della mente già tematizzata da Aristotele e, in epoca moderna, da Spinoza), in quanto solo nell'intuizione, e non nella definizione concettuale, vi è piena coincidenza di conoscente e conosciuto. Per capirci, l'intuizione la puoi paragonare all' immedesimazione (quando ad es. guardi un film e la storia narrata è così coinvolgente e verosimile che ti immedesimi nel personaggio, che empatizzi coi suoi stati d'animo, etc.). Il compimento di questa indistinzione, di questa immedesimazione è propriamente l'Assoluto. Ora, secondo Schelling, l'Assoluto presenta due versanti, due aspetti, due lati. Se lo si considera dalla prospettiva del conoscente, del soggetto, allora l'Assoluto è Spirito. Se invece lo si considera dalla prospettiva del conosciuto, dell'oggetto, è Natura, la quale altro non è che Spirito oggettivato, Spirito inconscio. Così Schelling scriverà: mentre nello Spirito il soggetto sopravanza l'oggetto, nella Natura è l'oggetto che sopravanza il soggetto. Per Schelling più che la conoscenza concettuale e teoretica è l'arte l'organo dell'Assoluto, il viatico dell'Assoluto, la porta che ci fa accedere all'Assoluto. Nella produzione artistica, infatti, non c'è più scarto tra idealità (idea soggettiva) e realtà (oggettività); nell'opera d'arte il soggettivo (i sentimenti, gli stati d'animo) trova una forma concreta, reale (scritti, dipinti, sculture, suoni…), e viceversa il concreto degli oggetti allude a significati spirituali.

Ripensando a quanto ho scritto su Schelling sono anche convinto

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che il suo pensiero sia in qualche modo stato fondamentale anche per l'Irrazionalismo del '900, soprattutto di Nietzsche, ma che abbia influenzato molto anche il Dannunzianesimo, il Decandentismo e il Futurismo. D'altra parte è forse la prima filosofia dell'Occidente, a parte la parentesi della Tragedia greca dell'epoca classica (soprattutto Sofocle), in cui l'irrazionale (l'istinto, l'emozione, il sentimento) viene riconciliato col razionale nel concetto di Assoluto. A dire che l'Assoluto non può escludere da sé l'irrazionale e farsi portavoce solo del razionale, chè altrimenti, se lasciasse fuori di sé qualcosa, sarebbe incompleto e dunque non sarebbe più Assoluto. Se tu ci pensi l'arte cerca proprio di fare questo: ricomprendere l'irrazionale, reintegrare anche la part maudite (G.Bataille), tutte quelle pulsioni, inclinazioni emozioni che ordinariamente non accettiamo e non tolleriamo, ma anche il dolore, la sofferenza, la paura, l'angoscia… soprattutto se si pensa all'arte contemporanea, del tutto affrancata dall'esigenza di rappresentare il "bello" e cassa di risonanza del disagio esistenziale, dell'alienazione e della spersonalizzazione della civiltà industriale-capitalistica.

PICCOLO DIZIONARIO FILOSOFICO

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A

ABDERITISMO (Kant): La storia non è né pregresso né regresso, ma sempre nello stesso stato.

AGNOSIA: Chi proclama di non conoscere nulla.

AMOR FATI (Nietzsche): è l'accettazione integrale ed entusiastica della vita in tutti i suoi aspetti anche i più sconcertanti e crudeli. "Non voler nulla di diverso da quello che è, non per tutta l'eternità, non solo sopportare ciò che è necessario, ma amarlo."

APOCATASTASI: Teoria dei Padri Orientali. Prevede la restituzione finale del mondo e di tutti gli esseri alla condizione perfetta e felice che avevano all'origine.

ARCHEUS (Teofrasto Paracelso) è la forza che muove gli elementi cioè lo spirito animatore della Natura.

ASEITà: Qualità o carattere dell'essere che ha in se stesso la causa e il principio del proprio essere, cioè Dio.

AUTODATITà: (Husserl) L'essenza è diventata così trasparente nella rappresentazione che non c'è più nessuno schermo tra se e se stessa.

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C

CHILIASMO: Credenza di un rinnovamento del genere umano e nell'instaurazione di uno stato definitivo di perfezione.

CIRENAISMO: (Filosofia dei Cirenaici, scuola socratica fondata da Aristippo di Cirene, IV secolo A.C ) Consigliavano di pensare all'oggi, nell'oggi, all'attimo in cui ciascuno opera e pensa, data l'incertezza del futuro.

COINCIDENTIA OPPOSITORUM: (Niccolo Cusano) Esprime la trascendenza e l'infinità di Dio, Coincidenza del Massimo e del Minimo, del Creare e del Creato, del Tutto e Nulla (Dio come un Puro Nulla è un concetto caro ai mistici, e parecchio antipatico alla chiesa, che ha sempre caricato il concetto di Dio come se fosse un qualcuno: padre, giudice, creatore e cose simili. Invece mistici come Meister Eckhart hanno passato l'intera esistenza a sostenere che "Dio" è Nulla, non è niente di tutto quello che gli hanno cucito addosso, in modo funzionale, ovviamente, ai loro intenti. Del resto, per un mistico, la vera bestemmia è abbassare "Dio" cucendogli addosso attributi umani e nati dalla mente umana! Nota di Lunaria)

CRITICA (Kant): è il processo attraverso il quale la ragione intraprende la conoscenza di sé.

D

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DEIEZIONE (Heidegger): Lo stato di caduta dell'esistenza umana a livello della banalità quotidiana.

DEIFICAZIONE: Identificazione dell'uomo con Dio, come termine e compimento dell'ascesi mistica.

SPIRITO DIONISIACO: (Nietzsche) Contrapposto allo Spirito Apollineo, lo Spirito Dionisiaco è il simbolo dell'accettazione entusiastica della vita in tutti i suoi aspetti e della volontà di affermarla.

DIO: Inteso come 1) Principio che ha reso possibile il mondo. 2) Garante di tutto ciò che è eccellente.

Gioberti dà questa descrizione di Dio:

"L'Ente (Dio) crea l'Esistente (le cose create)"

Teologia Negativa: Dio è al di là di qualsiasi classificazione, (il discorso che ho fatto prima, sul fatto che Dio è Nulla, non è possibile attribuirgli nessuna caratteristica umana, al modo che la conosciamo). Possiamo solo dire ciò che egli non è. (esempio: non è un albero al modo della nostra idea umana di albero, e via così)

Scoto Eriugena, pur non essendo un mistico, aveva identificato Dio col Nulla perché Dio è Super Essentia (al di sopra della sostanza); come dicevo, le nostre forme d'essere conosciute, le nostre idee umane, per forza limitate alla materia, al finito, sono

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inadeguate e imperfette per definire "L'Ente Divino".

ECLETTISMO: Consiste nello scegliere delle dottrine di differenti Filosofi, le tesi che più si apprezzano, senza curarsi della coerenza di questi tesi tra loro.

EPOCHè: Sospensione del giudizio. Non accettare né rifiutare, né affermare né negare. Si collega al PIRRONISMO, dove la tesi fondamentale è quella di sospendere il giudizio, l'assenso, poichè le cose sono inafferrabili, l'unico atteggiamento è quello di non giudicarle né vere né false, né belle né brutte. Possiamo chiamare questo "tutto è irrilevante, in fondo", ATARASSIA. L'assenza di turbamento, non sentire granchè, è definibile appunto Atarassia, e probabilmente è il miglior modo di esistere, come insegnano molti aforismi di Cioran, se rapportiamo tutto ciò che ci accade, nel bene e nel male, come irrilevante, dal momento che moriremo comunque. In fondo, se tutto si equivale, è del tutto irrilevante vivere da ricchi o da poveri, essere belli o brutti, in rapporto al fatto che tra un po' la morte farà piazza pulita di questo o quello, sia del più grande trionfo che del più disperato dolore. Può sembrare paradossale, ma un atteggiamento del genere permette di sopravvivere a lungo, mentre sono proprio gli ottimisti i primi a non resistere a tracolli esistenziali. Cioran scrive:

"Anche se fosse un inganno, l'esperienza del Vuoto meriterebbe sempre di essere fatta. Ciò che essa propone, ciò che tenta, è di ridurre a niente la vita e la morte al solo scopo di rendercele tollerabili."Probabilmente è questo il modo migliore di (soprav)vivere, ridurre la morte, la vita, l'amore, l'odio ecc. al niente, al "tutto si equivale" per poterli ridurre nelle loro sterminate estensioni emotive e sopportarle.

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Di fronte ad una perdita, la cosa più saggia da dirsi non è "voglio riaverla!", "come sono infelice senza!" ma "anche se l'avessi, avrei dovuto comunque lasciarla il giorno della mia morte".

ERLEBNIS: Esperienza vissuta.

I

IPOSTASI (Plotino): Tre Sostanze principali del mondo intellegibile (cioè conoscibile; il suo contrario è "Inintelligibile", cioè non si afferra il perchè, il come, la causa di qualcosa):

1) L'Uno2) L'Intelligenza3) L'Anima

N

NOLONTà: Non Volere. è uno dei concetti orientali legati alla liberazione dalla schiavitù dei desideri e dei bisogni umani. Infatti nella Filosofia Orientale, a differenza della nostra, "bulimica", che ha sempre ridotto il Nulla al male, al diavolo, cercando in modo ossessivo sempre e solo l'essere e il tutto (si pensi anche al nostro modo di intendere l'economia o il potere economico: tanto più si ha, meglio si è, in un accumulamento di cose spesso inutili, un "horror vacui", per cui i concetti di "aver nulla", "spazio vuoto" si riducono a manifestazioni di angoscia o terrore, se non di puro male) il Nulla, in senso orientale, è proprio il vero riposo

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dell'essere.

P

PRETERIZIONE: (Calvinismo) I dannati, coloro che sono già dannati fin dall'inizio del mondo, sono tali perché -semplicemente per capriccio divino - Dio li ha trascurati nella sua scelta, e il fatto che abbiano magari condotto una vita virtuosa, non cambia nulla, era già stabilito da Dio, ancor prima che creasse la prima goccia d'acqua, che X, Y, Z sarebbero stati dannati.

Concetto illuminante e in fondo, pietistico:"Brucerai all'inferno? Consolati dicendo che eri destinato all'inferno ancor prima che il mondo esistesse nella mente di Dio; non è neanche colpa tua, e anche se avessi condotto una vita virtuosa, saresti comunque dannato."

Cioran scriveva: "Quando si è votati al tormentarsi, i propri tormenti, per quanto grandi siano, non bastano, ci gettiamo anche su quelli degli altri, ce li appropriamo."

PROBLEMATICISMO (Ugo Spirito): "La vita come ricerca", una vita condannata a cercare la verità senza trovarla e perciò ad oscillare fra dogmatismo e scetticismo.

S

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SOLIPSISMO: esisto solo Io e tutti gli altri enti sono soltanto mie idee. Da intendersi anche in senso più subliminale, per esempio quando da se stessi si crea un sistema filosofico, sul modello di quello di Max Stirner o Pensatori simili.

SOPRALAPSARISMO: Dio ha predeterminato ancor prima che creasse il mondo la Caduta ("Lapsus") di Adamo, per mettere in opera i suoi strumenti di salvezza. (Il che ci porta a chiederci che senso abbia tutto questo teatrino che va avanti da millenni... se Dio ancor prima di creare il primo sasso già sapeva dell'intero disastro della creazione...)

T

TEODICEA (Leibniz) Dio

1) O non vuol togliere i mali e non può -----> ne deriva che è impotente2) O può togliere i mali e non vuole ------> allora è invidioso e maligno3) O non vuole toglierli né può -------> è impotente e non è un Dio4) O vuole togliere i mali e può ------> allora da cosa deriva l'esistenza dei mali e perché non li toglie?

TETICO: (Fichte) Concetto molto interessante dell'Idealismo e in fondo anche "mistico". Il Supremo Giudizio Tetico è "Io Sono"senza aggungere cosa o chi, perché aggiungere qualcosa, specificare cosa si è, sarebbe un limitarsi, un abbassarsi. Non a caso, nell'Antico Testamento, Dio si manifesta come "'Ehjeh 'Ascher 'Ehjeh", "Io sono chi voglio", "Io sono chi voglio essere",

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e più suggestivamente, "Io sono Libero al punto d'esser libero anche dal Mio Essere, dalla Mia Essenza, dalla Mia Esistenza: Il Mio Atto di Libertà è l'atto con cui Io Voglio Essere Quello che Sono". Questo concetto è stato trattato molto bene da Luigi Pareyson in "Ontologia della Libertà".Più Fichtianamente, "Dell'Io nulla si afferma, ma il posto del predicato è lasciato vuoto per la possibile determinazione dell'Io all'Infinito".

TRASCENDENTE: 1) Ciò che è al di là del limite, di ciò che si assume come misura. 2) Un vero e proprio oltrepassamento, dalla realtà materica, limitata, difettosa a ciò che è immateriale, illimitato, perfetto.

Come ho scritto alla parola "Dio", Scoto Eriugena parlava di Super Essente, per indicare la trascendenza assoluta di Dio che è al di sopra di tutte le determinazioni (non ha senso definirlo "padre", "creatore" e così via, perché questi sono concetti umani, limitati alla nostra esistenza così come la conosciamo ora): è principalmente questo il limite e lo sbaglio delle religioni monoteiste: che tendono a dare a Dio caratteristiche umane.

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