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Sergio Lubello (ed.) Volgarizzare, tradurre, interpretare nei secc. XIII-XVI Atti del Convegno internazionale di studio, Studio, Archivio e Lessico dei volgarizzamenti italiani (Salerno, 24-25 novembre 2010)

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Sergio Lubello (ed.)

Volgarizzare, tradurre, interpretare nei secc. XIII-XVI

Atti del Convegno internazionale di studio, Studio, Archivio e Lessico dei volgarizzamenti italiani

(Salerno, 24-25 novembre 2010)

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Nom de pays: le nom... Parole, paesi e popoli nel Corpus DiVo*

Il DiVo (Dizionario dei Volgarizzamenti) è un progetto di Elisa Guada-gnini e Giulio Vaccaro nato nel 2008 presso l’Istituto Opera del Vocabolario Italiano: da allora, è stato sviluppato in una serie di saggi e ha portato alla pub-blicazione on line di un corpus testuale (‹ http://divoweb.ovi.cnr.it ›)1. Esso si propone di indagare il ‘lessico di traduzione’ in italiano antico, e al contempo di rendere liberamente accessibili gli strumenti che permettano tale analisi e genericamente lo studio dei volgarizzamenti medievali. Il DiVo si articola dun-que in tre punti distinti: il primo è la compilazione di una bibliografia filologica secondo il modello TLIon già seguito per le schede del SALVIt; il secondo è la costituzione di un corpus testuale lemmatizzato (relativamente alle parole piene) che supporti ricerche a partire sia dal volgare che dal latino, posto che ogni traduzione italiana sarà associata paragrafo per paragrafo all’originale latino, vale a dire il testo critico dell’opera volgarizzata; il terzo ed ultimo punto è lo studio del lessico di traduzione diretta, vale a dire quel lessico che mostra di derivare dal latino sincronicamente (e non diacronicamente), secondo le modalità del prestito linguistico2.

* Questo lavoro fa riferimento costantemente ai corpora resi disponibili alla libera consultazione dall’Istituto Opera del Vocabolario Italiano (CNR), ed in particolare al Corpus TLIO e al Corpus DiVo: tutti i dati sono controllabili interrogando que-ste banche-dati. Per rendere più agile la trattazione, si è scelto inoltre di analizzare soltanto lemmi già presenti nel TLIO: si rimanda dunque tacitamente alla corrispon-dente voce on line per ogni etnico citato in questo lavoro. Nel quadro di una comune elaborazione, si deve a Giulio Vaccaro il primo paragrafo e a Elisa Guadagnini il secondo. Ringraziamo Claudio Ciociola, grazie al cui interessamento questo lavoro trova posto in una sede tanto prestigiosa. Il progetto DiVo è risultato vincitore del bando FIRB Futuro in ricerca 2010.

1 Cfr. Guadagnini / Vaccaro (2011; in stampa a; in stampa b); la bibliografia è in Artale / Guadagnini / Vaccaro (2010).

2 Cfr. in particolare Guadagnini / Vaccaro, in stampa (a). Basterà qui ricordare bre-vemente che la griglia di analisi proposta prevede l’incrocio dei dati circa la tipolo-gia lessicale (lessico tecnico-specialistico; lessico materiale o ‘storico’, definito infra; lessico ‘generico’, non marcato in latino, di cui si inferisce che la riproposizione in volgare costituisca un recupero per contatto e non una prosecuzione spontanea) con quelli afferenti alla tipologia di traduzione (prestito, calco semantico, riformulazione pienamente volgare). La prima direttrice focalizza quindi il lessico in riferimento al testo di partenza, ordinando i materiali da un massimo di specificità dei referenti e

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Il Corpus DiVo intende comprendere tutti i volgarizzamenti di testi latini composti in epoca antica e tardoantica – si sono adottati i medesimi limiti cronologici fissati per ENAV, interrompendo dunque il rilevamento a Boezio – tradotti in una qualunque varietà dell’italiano antico, eventualmente attra-verso un tramite francese o appartenente ad una diversa varietà italoromanza3. Almeno per il momento, sono state censite soltanto le opere volgari che pro-pongono una resa volgare puntuale del testo latino, escludendo le compilazioni e le enciclopedie anche ove utilizzino, rifunzionalizzandoli, frammenti ricono-scibili di testi classici. Date queste premesse, sono stati individuati 120 testi, di cui 102 di area toscana, per un numero complessivo di occorrenze stimato ad oltre 6 250 000.

1. I popoli smarriti: una ricognizione sui lessici

Un campo privilegiato per saggiare le possibilità offerte dal DiVo è quello degli etnici. Essi afferiscono alla tipologia lessicale definibile di tipo ‘storico e materiale’: si tratta di termini non marcati in latino e la cui prosecuzione vol-gare è condizionata dalla scomparsa o dalla sostanziale modifica del referente. È evidente che il sistema terminologico latino descrive una realtà diversa da quella medievale sia per la scomparsa o il modificarsi di singole popolazioni – e per l’affermazione di nuovi gruppi etnici –, sia per la trasformazione dei confini territoriali, la ridistribuzione dei sistemi statali, l’emersione di nuove culture nazionali (che in taluni casi costituiscono l’origine di quelle attuali). I nomi latini dei popoli rappresentano dunque una porzione di lessico che ha spesso caratteristiche archeologiche già in epoca medievale: la conoscenza dei gruppi etnici noti in epoca classica è di natura erudita e si basa in misura sostan-ziale sulla lettura degli autori di storia romana. Accanto al recupero ‘sem-plice’, mediante prestito, di nomi di popoli antichi, si danno due casi ulteriori: lestensione di nomi antichi a nuovi referenti (generalmente nomi vecchi per i nuovi popoli che abitano il medesimo territorio), o il ricorso a nomi nuovi per tradurre popoli antichi, nel tentativo di un’attualizzazione fondata sulla deno-minazione corrente del territorio, anacronisticamente estesa al popolo antico.

Lo studio degli etnici si rivela significativo per altri due aspetti. Il primo è che questa categoria lessicale è stata tendenzialmente negletta dalla lessi-cografia italiana, che tende a dare notizia soltanto dei nomi di popolazioni contemporanee o solo delle accezioni che fanno riferimento a etnici attuali – alterando, in questo caso, i dati sulle prime attestazioni. Dal punto di vista

dei lemmi al loro grado zero; la seconda direttrice lungo cui impostare l’analisi mette a fuoco invece la lingua di arrivo, ordinando le possibili rese dal mero trascinamento linguistico ad uno sforzo di riformulazione pienamente volgare.

3 Come è il caso rispettivamente, per esempio, delle Pistole di Seneca (traduzione delle Epistulae ad Lucilium) e dell’Istoria di Eneas tradotta in volgare messinese da Angilu di Capua: cfr. Eusebi (1970), Folena (1956).

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filologico, inoltre, questo tipo di lessico tende ad essere problematico in sede di trasmissione manoscritta: che l’autore del volgarizzamento abbia o non abbia contezza dell’etnico – che lo riproduca, cioè, in base ad un avvenuto riconosci-mento culturale o per un mero trascinamento dall’antigrafo latino –, accade spesso che i copisti introducano al suo posto innovazioni o errori. Gli etnici subiscono trattamenti altalenanti anche in sede editoriale: soprattutto nell’Ot-tocento, quando è in auge una prassi editoriale che prevede spesso il confronto con il testo latino e la conseguente modifica del volgarizzamento, accade con frequenza che essi subiscano pesanti interventi correttivi tesi a restituire il nome ‘giusto’, dal punto di vista del testo latino d’origine o della lingua (vol-gare) d’arrivo. Un’analisi del ‘lessico di traduzione’, e soprattutto di quelle sue sottocategorie che tendono ad essere state modificate in sede di copia prima, e di edizione poi, non può prescindere da uno studio attento del dato mano-scritto (recuperato dagli apparati o autotticamente).

I nomi di popolo hanno avuto, sul versante lessicografico, una sostanziale ‘sfortuna’: come ricorda Wolfgang Schweickard nell’introduzione al DI

i dizionari sia sincronici che diacronici tralasciano di norma la registrazione di tali derivati [scil. i lessemi italiani derivati da toponimi e antroponimi]. Ciò comporta che molti derivati pertinenti – anche nel caso in cui si tratti di formazioni non solo occasionali – o non sono affatto registrate nei dizionari o, nel caso in cui la voce com-paia, questa è insufficientemente documentata dal punto di vista storico. (DI [I.iii])

L’assenza degli etnici deriva in primis dall’impostazione data dai compila-tori della prima Crusca:

I nomi propri delle Provincie, Città, Fiumi, ec. come ancora de’ loro derivativi, parendo da principio, che non insegnassero più lingua, che tanto, si sono, per brevità, tralasciati. (Crusca 1, c.[4r])

Tale impostazione passa senza sostanziali cambiamenti al TB, in cui sono

come per saggio, notati taluni di que’ derivati di nomi proprii storici e geografici, ed anco taluni de’ nomi proprii stessi, mitologici o storici che nella lingua sono diven-tati comuni. (Prefazione, p. xxiv)

Il GDLI, pur ponendosi sulla stessa strada della lessicografia precedente, non affronta esplicitamente il problema. A livello generale, sembra che ven-gano registrati solamente gli etnici che abbiano una continuazione in epoca moderna con un significato attualizzato rispetto a quello antico: per esempio è sì registrato allobrogo, ma intendendolo non come “appartenente all’an-tica popolazione gallica di origine celtica”, bensì come «antico abitante della Savoia; piemontese», con attestazioni in Alfieri, Carducci e Cantoni. Anche nel caso di apulo, benché nella definizione si dica «dell’antica Apulia, pugliese», l’unica attestazione riportata è l’esempio dannunziano «Io sciolsi la vela [...] dall’àpula riva», dove il termine equivale al moderno senso di “pugliese” – ha cioè un valore geografico e non storico.

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Si pone esplicitamente il problema degli etnici il VLI:

Nella registrazione degli etnonimi, pur non potendosi fissare una norma rigida e assoluta, si è adottato un criterio di scelta che lasciasse minimo spazio alla soggetti-vità, accogliendo in genere: quelli che si riferiscono alle nazioni e ai più importanti gruppi etnici sia dell’Europa sia dei paesi e territorî extraeuropei, e alle capitali dei singoli stati; a luoghi e popoli dell’antichità famosi per vicende storiche e leggendarie; alle regioni (storiche o geografiche o amministrative) e alle province italiane, ma anche a comuni e centri minori in quanto noti per particolari motivi (storici, artistici, economici, ecc.) o perché l’etnonimo presenti interesse per la sua formazione morfo-logica o etimologica (eporediese, eugubino, tudertino). (p. xxi)

Per quanto riguarda il LEI, sono stati registrati gli etimi costituiti da un nome di persona, da un etnico o da un antroponimo fino al fascicolo 66 del settimo volume: in seguito, tutti i materiali deonomastici del LEI sono stati dirottati al DI; parallelamente, il DI omette di trattare i lemmi «già registrati in maniera esauriente nel LEI»4. Entrambi gli strumenti dichiarano di aver operato una registrazione selettiva dei lemmi e di aver spogliato un insieme di fonti letterarie e documenti storiografici, a completamento dei dati offerti dagli strumenti lessicografici precedenti. La consultazione del Corpus TLIO, per evidenti ragioni cronologiche, è intervenuta a lavoro avviato per entrambe le opere.

Il GRADIT include estensivamente gli etnici nel lemmario. Tuttavia, come è stato già notato altrove, analizzando testi di àmbito geografico ci si imbatte in una grandissima quantità di termini non registrati e di retrodatazioni: ciò deriva dalla dichiarata dipendenza del GRADIT da fonti lessicografiche e enciclopediche5. Una quota significativa delle datazioni dei termini di àmbito geografico indicate sono infatti quelle degli strumenti: il TB, il Lessona / Valle (1875), la PEH, il Panzini (1905; 1942), il DEncI e, per gli etnonimi, soprattutto il repertorio Biasutti / Bartoli (1941; 1953-1957). Tutto ciò porta, da un lato, a una rappresentazione più accurata del moderno rispetto all’antico; dall’altro a un tendenziale ritardo nella documentazione, intrinseco nel fatto stesso di citare come primo testimone un altro dizionario6.

4 Cfr. rispettivamente Aprile (2004, 42-43), DI (I.iv).5 Cfr. per gli etnici moderni Biasci (2009) e Vaccaro, in stampa (b). Sulle datazioni del

GRADIT si veda Matt (2002).6 Cfr. Cortelazzo (2007). La necessità di superare i limiti tradizionali dell’àmbito

letterario è uno dei maggiori portati del lavoro compiuto durante la compilazione del DELI. Come notato da Cortelazzo (2000, 182) molto rimane ancora da fare per tutto il lessico tecnico e specialistico, per cui servirebbero la «promozione di spogli sistematici di testi relativi a singoli settori della scienza, della tecnica e del costume moderno e la pubblicazione dei relativi glossari storici». Sulla linea indicata da Cor-telazzo si pone, per esempio, Balducci (2002). Negli ultimi anni, si sono rivelati stru-menti imprescindibili una serie di simil-corpora testuali, come per esempio il cata-logo del Servizio Bibliotecario Nazionale (cfr. Matt 2004), i motori di ricerca (cfr. Ambrogio 2006 e Matt 2010) e il sistema Google libri (per un inquadramento teorico del problema, cfr. Gomez Gane 2008).

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Un confronto, limitato alla lettera A, tra gli etnici del GRADIT e quelli presenti nel Corpus DiVo (e, dunque, inseriti nel TLIO) è illuminante: il GRADIT presenta grosso modo la metà (32) dei 66 etnonimi attestati nei vol-garizzamenti medievali. Fra questi, sono appena cinque i termini datati al Due o Trecento:

adriano, datato con l’attestazione dantesca (ante 1321), ma già presente nelle Storie de Troia et de Roma (1252-1258)

allòbrogi, datato «XIV in.», probabilmente per l’attestazione nel volgarizzamento di Livio, ma già nel volgarizzamento giamboniano di Orosio (ante 1292)

aretino, datato «av. 1294» con Guittone, ma già in quel medesimo volgarizzamento di Orosio (ante 1292)

argivo, datato «av. 1336» con Boccaccio, ma ancora nel volgarizzamento di Orosio (ante 1292)

assiro, datato «av. 1337» con Guido da Pisa, ma già in Giordano da Pisa.

Le stesse datazioni (con l’eccezione di ‘allobrogi’) si ritrovano anche nel GDLI, che dà un’attestazione trecentesca anche per alpino: essa è tratta dal Libro della cura delle febbri, che è – però – un falso di Francesco Redi, intro-dotto a partire dalla quarta impressione del Vocabolario della Crusca7.

In ben 15 casi, poi, le attestazioni fornite dal GRADIT sono addirit-tura otto-novecentesche e rientrano in quei casi che più che ‘retrodatazioni’ andrebbero definiti di ‘nuova datazione’, seguendo l’esempio di Dardi (1980) invalso anche, dal 2008, nell’uso dello Zingarelli. Oltre al già citato caso di apuli, abbiamo:

agatirsi “popolo tracio abitante tra la riva sinistra del Danubio e il fiume Maros”, datato 1987 ma già presente in Ciampolo di Meo Ugurgieri (ante 1340)

aricino “di Ariccia”, datato – nella forma con -cc- – 1981 ma già nella traduzione delle Metamorfosi del Simintendi (ante 1333)

anagnino “di Anagni”, datato 1981 ma già nel volgarizzamento della prima deca di Tito Livio (prima metà del XIV sec.)

arpinese “di Arpino”, datato 1981 ma già nella prima redazione del volgarizzamento di Valerio Massimo (ante 1338)

acarnani “dell’Acarnania”, datato 1955 ma già nel volgarizzamento della terza deca di Tito Livio (XIV sec.)

alani “popolazione di stirpe iranica”, datato 1941 ma già nel volgarizzamento giambo-niano di Orosio (ante 1292)

atrebati “antica popolazione gallica”, datato 1913 ma già in quello stesso volgarizzamento di Orosio (ante 1292)

atellano “di Atella”, datato 1873 ma già nel volgarizzamento ‘B’ del secondo libro di Vale-rio Massimo (ante 1326)

agrigentino “di Agrigento”, datato 1829 ma già nel più volte citato volgarizzamento di Orosio (ante 1292)

7 Cfr. Volpi (1917, 73-76); Mosti (2008).

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arverno “dell’Alvernia”, datato 1829 ma già nei Conti di antichi cavalieri (ultimo quarto del XIII sec.)

atamani “antica popolazione dell’Epiro”, datato 1829 ma già nel volgarizzamento della terza deca di Tito Livio (XIV sec.)

ateniese “di Atene”, datato 1829 ma già nelle Storie de Troia e de Roma (1252-1258)

aulerci “antica popolazione gallica”, datato 1829 ma già nel volgarizzamento di Orosio (ante 1292)

atride “greco”, datato al 1820 ma già nella Cronaca volgare isidoriana (fine del XIV sec.).

Il DI non presenta un lemmario significativamente più ampio di quello del GRADIT, ma propone una più ampia rassegna cronologica delle attestazioni:

– con riferimento ad assiro, per esempio, viene individuata la prima attesta-zione in Giordano da Pisa;

– per ateniese è proposta una datazione al 1347, per la presenza nell’opera di Bartolomeo da San Concordio (anche se il termine si incontra già, a dire il vero, nelle Storie de Troia et de Roma, databili al 1252-1258);

– quanto ad ausonio, l’aggettivo viene datato al 1483 (mentre è già nel vol-garizzamento dell’Eneide del senese Ciampolo di Meo Ugurgieri, databile ante 1340) e il sostantivo al 1362 (nel Libro di varie storie del Pucci, ma è già nel volgarizzamento della prima deca di Tito Livio, della prima metà del Trecento).

2. I popoli ritrovati: gli etnici nel corpus DiVo

I nomi dei popoli rappresentano una delle porzioni di lessico in cui mag-giormente si polarizzano le categorie interpretative proposte per lo studio del lessico dei volgarizzamenti: da un lato la continuità con il significante latino, dall’altro la riformulazione volgare.

Nella prima tipologia, però, si affiancano termini di tradizione culturale ininterrotta e termini dovuti a un recupero erudito.

Fra i primi, troviamo sostantivi o aggettivi che derivano da toponimi ancora esistenti: per questi nomi manca un discrimine cronologico preciso fra l’antico e il contemporaneo. È il caso, per esempio, del sostantivo aretini, attestato nel volgarizzamento giamboniano di Orosio in corrispondenza del latino Arretini:

Appo gli Aretini, ispezzandosi pani in conviti, corse il sangue del mezzo de’ pani... (Tassi 1849, 317)

Ci sono anche casi in cui la continuità fra il toponimo e quindi l’etnico antichi e quelli contemporanei derivano da una scorretta identificazione: un esempio è costituito da Alba (Longa), identificata nel Medioevo con il borgo laziale di Albano. Gli Albani (“abitanti di Alba Longa”) sono normalmente tradotti con il prestito albani: come si legge nella voce TLIO, è questa la scelta

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attestata nei volgarizzamenti dell’Eneide (rispettivamente di Andrea Lancia, Angilu di Capua e Ciampolo di Meo Ugurgieri), della prima e terza deca di Livio e di Valerio Massimo (volgarizzamento ‘B’ e Accurso di Cremona). Nel Valerio Massimo tradotto da Accurso, tuttavia, si registra anche la presenza di una resa ‘albanese’, deonomastico dal toponimo Albano:

Metiu Fusteciu duca di li Albanisi scupersi la sua fidi dubitusa sempri et suspec-ta... (Ugolini [1967, II.124])

Si noti che questa medesima resa è attestata anche nelle Storie de Troia et de Roma secondo il codice amburghese e nell’Ottimo commento alla Comme-dia – testi che derivano entrambi da un contatto diretto con il latino.

Un altro esempio di come un etnico moderno possa sovrapporsi ad uno antico per un’errata identificazione si trova ancora nel volgarizzamento di Accurso da Cremona, dove il latino «Vibius Accaus Paelignae cohortis prae-fectus...» (Val. Max., III, 2, 20) è tradotto con «Jubiu Atteu, prefectu di la com-pagna di li Fulignati...» (Ugolini [1967, I.109]): il latino paelignus “dei Peligni, popolazione del Sannio” è stato sovrapposto al toponimo coevo Foligno.

Sono assimilabili al gruppo degli etnici di tradizione ininterrotta quelli derivati da toponimi ben noti dell’area mediterranea, come egiziano o greco, oppure abbondantemente attestati nella storia sacra, per esempio assiro o babilonese: come mostrano le attestazioni nelle corrispondenti voci del TLIO, si tratta di termini non circoscritti a testi di traduzione ma ampiamente docu-mentati anche altrove.

Come si è detto, la riproposizione del termine latino può avvenire non per una prosecuzione ininterrotta del lemma, come era il caso – declinato in vario modo – degli esempi precedenti, ma per un recupero dell’etnico antico (ormai non più in uso) adattato alla fonetica e alla morfologia volgari: l’effetto di que-sta operazione, scevra da tentativi di attualizzazione, è la creazione di nuovi termini volgari. Nei diversi volgarizzatori, questa scelta traduttiva può moti-varsi o per una volontà di fedeltà al testo latino – ed in questo caso può dirsi a pieno titolo una scelta di natura ‘erudita’ – o può invece dipendere da un feno-meno spontaneo di trascinamento dal latino al volgare, che ha luogo quando un traduttore tende a riprodurre passivamente il testo, senza porsi troppi pro-blemi circa l’effettivo significato o l’effettiva rispondenza alla lingua d’uso del dettato volgare risultante.

Si vedano, a titolo di esempio, i nomi delle popolazioni italiche elencati in questo passo della prima deca di Tito Livio:

Senza ciò, tutti li Latini, li Sabini, li Volsci, gli Equi, tutta Campania, una parte d’Umbria e d’Etruria, li Picenti, li Marsi, li Peligni, li Vestini e gli Apuli, e tutta la contrada del mare di sotto da Turi infino a Napoli ed a Cuma, infino ad Anzio e Ostia li Sanniti, avrebbe egli trovati o possenti amici de’ Romani, o nemici sconfitti e senza podere. (Dalmazzo [1845-1846, II.320])

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Si confronti il latino (Liv, IX, 19):

Latium deinde omne cum Sabinis et Volscis et Aequis et omni Campania et parte Umbriae Etruriaeque et Picentibus et Marsis Paelignisque ac Vestinis atque Apulis, adiuncta omni ora Graecorum inferi maris a Thuriis Neapolim et Cumas et inde Antio atque Ostiis tenus Samnites aut socios validos Romanis aut fractos bello inve-nisset hostes.

Per i nomi delle popolazioni orientali o settentrionali è generale la ten-denza al mero trascinamento linguistico8. Si veda ad esempio questo passo della traduzione giamboniana di Orosio:

Poscia i Drangi e gli Evergeti, e quelli di Parima, e i Parapameni, e gli Adaspi, e tutti gli altri popoli, che nella radice di monte Caucaso si stavano, si sottopuose, e fece ivi una cittade sopra il fiume Tanai chiamata Alessandria. (Tassi 1849, 170)

che traduce Orosio, Hist., III, 18, 7:

Inde Drangas Evergetas Parimas Parapamenos Adaspios ceterosque populos qui in radice Caucasi morabantur subegit...

In molti casi, riconducibili ancora al recupero mediante prestito, è presente un tratto di relativo ‘aggiornamento’, o adattamento alla contemporaneità linguistica, del lemma: la suffissazione. Accanto alla riproduzione dell’etnico latino si trovano in questo caso forme che associano alla base (mutuata dal toponimo) un diverso suffisso, più usuale in volgare:

– Consideriamo dapprima la coppia arpinate / arpinese “di Arpino”: entrambi i lemmi ricorrono soltanto in volgarizzamenti; il tipo arpinate (dal latino arpinate(m)) è il più diffuso, ma nella prima redazione della traduzione di Valerio Massimo ricorre invece arpinese.

– Analogamente, per i lemmi camerte e camertino “di Camerino”, anch’essi attestati esclusivamente in volgarizzamenti, è il prestito dal latino camerte(m) la resa comune, mentre il Valerio Massimo sceglie camertino.

– Nel caso della coppia celtibero / celtiberese (“abitante della Spagna centro-settentrionale”), che corrisponde al latino celtiberu(m), la resa ‘volgariz-zante’ con suffisso -ese è attestata nel già citato volgarizzamento di Valerio Massimo, mentre è il prestito celtibero ad essere adottato dagli altri testi di traduzione. Questa volta, il prestito ricorre anche in un testo ‘originale’, una lirica di argomento storico attribuita dubitosamente a Boccaccio. Da notare inoltre una terza possibilità traduttiva, il tipo celtiberino – attestato in una traduzione-rifacimento del Liber di Jacopo da Cessole.

8 Del resto, in quest’àmbito, le conoscenze e le descrizioni tradizionali continuano a riprodursi quasi per inerzia, anche sul versante mediolatino, passando da un compen-dio all’altro: lo Speculum maius di Vincenzo di Beauvais, per esempio, alla metà del Duecento continua ad assemblare informazioni che vengono dalle auctoritates latine (essenzialmente Paolo Orosio e Isidoro di Siviglia). Cfr. fra gli altri Tardiola (1990).

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– Il Valerio Massimo fiorentino applica il suffisso -ese anche in epidamnesi (“abitanti di Epidamno”), mentre il latino epidamniu(m) è conservato dal tipo epidanio attestato nella traduzione del medesimo testo di Accurso di Cremona.

– È interessante notare come Accurso ricorra invece alla suffissazione nel caso di epidaurese, là dove tutti i volgarizzamenti preferiscono il prestito epidaurio (sul latino epidauriu(m)). Anche per questo lemma si registra l’attestazione in un’opera ‘originale’, il Teseida di Boccaccio: una glossa dello stesso Boccaccio, tuttavia, rivela che la scelta del lemma deriva dal bisticcio fra Epidauro, l’odierna Ragusa, e Epidamno, l’odierna Durazzo, e che è a quest’ultima che vorrebbe riferirsi l’autore.

Anche a questo ‘grado massimo’ di conservazione, dunque, sono possibili la banalizzazione e il fraintendimento. Essi saranno talvolta imputabili al vol-garizzatore in persona; sono senz’altro attivi in sede di trasmissione mano-scritta: si veda il caso del latino Centobrigenses “abitante della città spagnola di Centobrica”, attestato nei manoscritti della prima redazione del volgarizza-mento di Valerio Massimo come centobresi e – in un testimone – celtiberiesi, ma ricostruito dall’editore moderno come Centobricesi (De Visiani [1867-1868, II.333]).

Un caso ancora più estremo di incomprensione dell’etnico, reso in sede manoscritta mediante la riproposizione di una mera sequenza di lettere, è quello dei bunoi attestati nell’Ottimo commento a fronte di un (ricostruibile) latino Eburoni “popolazione caucasica”: «assaliti li Aulerci e li Bunoi, e quelli di Liosia». L’editore moderno è intervenuto anche in questo caso a correggere il termine, restituendo ‘Eburoni’ (Torri [1829, 149]). Il lemma ricorre anche nella traduzione giamboniana di Orosio, che come sempre riproduce mediante un prestito il lemma latino:

e’ Condrusi, e gli Eburoni, e’ Ceresi, e’ Cemani, che per uno nome tutti s’appella-no Germani... (Tassi [1849, 366])

si confronti Orosio, Hist., VI, 7, 15:

Condurses Eborones Caerosi Caemani, qui uno nomine Germani vocantur...

È piuttosto raro il ricorso alla glossa, che costituisce una sorta di posizione intermedia fra la conservazione ‘archeologica’ e il tentativo di una divulga-zione volgare. Porteremo due soli esempi, il primo è tratto dal prologo di un volgarizzamento dell’Ars amandi e il secondo dalla traduzione della terza deca di Livio:

li Danai, cioè li Greci (Lippi Bigazzi [1987, 107])

gl’Ingauni (è questa una gente di Liguri) (Pizzorno [1845, 373])

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La seconda tipologia traduttiva è, come si diceva, la riformulazione vol-gare: essa consiste nel tentativo di ‘aggiornare’ il dettato fornendo per gli etnici proposti degli equivalenti contemporanei.

Si osservi questo passo del Valerio Massimo fiorentino:

La filosofia che seguitavano li Franceschi era avara e usuraia, ma l’amore e l’u-sanza che mantenevano li Fiaminghi e li Spagnuoli era forte e allegra... (Lippi Bigazzi [1996, 46])

che traduce Val. Max., II, 6, 11:

Avara et feneratoria Gallorum philosophia, alacris et fortis Cimbrorum et Cel-tiberorum...

Come si vede, tutti gli etnici latini sono stati ‘tradotti’ con nomi di popo-lazioni contemporanee, considerate ‘equivalenti’ a quelle antiche in base alla competenza del traduttore circa i relativi territori di pertinenza.

Ci soffermeremo in particolare sulla resa ‘fiammingo’ di cimber. Se appli-chiamo a questo lemma latino la griglia analitica messa a punto per il progetto DiVo, possiamo rappresentare i dati in questo modo:

prestito riformulazione volgare

cimbru(m) cimbro fiammingo

La popolazione germanica dei Cimbri, originaria dell’attuale Jutland e migrata verso la Gallia alla fine del II secolo a.C., è nota nel Medioevo gra-zie all’opera di diversi storici romani (Sallustio, Valerio Massimo, Paolo Oro-sio): essa conserva generalmente, in italiano antico, il nome latino mediante il prestito cimbro. Come si vede dalla voce TLIO, questo termine è attestato in molti volgarizzamenti di classici: l’Orosio di Bono Giamboni, un passo dei Fatti di Cesare che traduce Sallustio, la traduzione siciliana di Valerio Mas-simo di Accurso di Cremona. Il lemma ricorre inoltre nei Miracole de Roma e nel Dittamondo di Fazio degli Uberti, che usa una fonte classica. Come segna-lato da Giulio Vaccaro nel TLIO s.v. cimbro (punto 0.6 dell’intestazione), al novero delle occorrenze presenti nel Corpus DiVo va aggiunta una seconda attestazione giamboniana, presente però nel volgarizzamento di Vegezio: l’e-dizione a stampa legge cambri, che tuttavia deve essere un semplice refuso tipografico, posto che i manoscritti portano la lezione cimbri.

Come si è visto nel passo del volgarizzamento di Valerio Massimo citato supra, nel Corpus DiVo troviamo una traduzione alternativa del latino cim-ber, attuata con un tentativo di riformulazione pienamente ‘volgare’ mediante l’etnico fiammingo. Da notare che, ampliando l’indagine al Corpus TLIO, il lemma fiammingo ricorre una seconda volta con riferimento all’antichità clas-sica, nella fattispecie in una sintetica biografia di Cesare che compare in una

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nota più ampia posta a commento di un passo della traduzione dei Remedia amoris ovidiani:

A Cesare pervenne d’andare in Francia, e per cupidigia di signoreg[g]iare e su-perbia prima contra Franceschi e Tedeschi e Fiamenghi e Inghilesi e Spagnuoli e contra tutti quelli del ponente battaglie fece e vinse... (Lippi Bigazzi [1987, 844])

A proposito di questo passo l’editrice nota:

Si rievoca in questa importante chiosa la storia dei due triumvirati adducendo l’auctoritas di Tito Livio (in realtà per questa parte restano solo le succinte Perio-chae) insieme ad altre fonti accennate genericamente. (Lippi Bigazzi [1987, 844 n. 17])

Sebbene la fonte non sia identificata, possiamo presumere che la sequenza di tedeschi e fiamminghi dipenda dalla volontà di un volgarizzatore di far rife-rimento all’area ampiamente mitteleuropea secondo gli etnici contemporanei – come nel caso del Valerio Massimo. La scelta lessicale di fiammingo, che si fonda su un’ipotetica coincidenza fra il Nord Europa abitato dai contempora-nei Fiamminghi e l’antico Nord Europa, terra d’origine dei Cimbri, costitui-sce dunque un esempio interessante del procedimento traduttivo secondo cui, identificata la regione geografica, si procede alla denominazione della popola-zione secondo l’uso attuale.

Un secondo esempio di ‘attualizzazione’, che si inserisce però in una situa-zione più intricata, è la resa ‘lombardo’ di ligur. Questa la situazione nel Cor-pus DiVo:

prestito riformulazione volgare

ligure(m) ligure lombardo

Il lemma ligure compare in tre volgarizzamenti, rispettivamente di Livio e Paolo Orosio, nella forma plurale Liguri, come traduzione del latino Ligures “antica popolazione (nemica dei Romani) residente in Italia settentrionale”. Ampliando l’analisi agli altri testi medievali, osserviamo che – come nel caso di cimbro – il lemma è presente inoltre nel Dittamondo, ancora per indicare l’antica popolazione italica; Fazio degli Uberti utilizza però il termine una seconda volta, in funzione di aggettivo, per denominare il tratto di mare che lambisce la regione chiamata ancora oggi Liguria – attesta dunque il lemma anche con un valore puramente geografico. Come era il caso degli etnici del primo gruppo che abbiamo esaminato, anche per ligure(m) è affermabile una continuità fra latino e volgare: la conservazione del toponimo, sia pure in una zona assai più ristretta rispetto all’area di pertinenza antica, ha garantito al deonimico una prosecuzione nella lingua volgare, con accezione geogra-fica. La scomparsa della popolazione comporta la cessazione del significato

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propriamente etnico, che è attestato soltanto ove si recuperino direttamente fonti classiche, ove cioè si ripropongano insieme il significante e il referente (con una chiara percezione della sua inesistenza attuale).

È da notare tuttavia, anche per ligur, la presenza di una traduzione alterna-tiva mediante il lemma lombardo, adottata da tre diversi traduttori di Valerio Massimo:

li cavalieri lasciarono uccidere Publio Quinto Petilio consolo, il quale fortissima-mente combatteva contra Lombardi... (Lippi Bigazzi [1996, 109])

li cavaleri sufferseru que Quintu Petiliu consulu, combatendu fortissimamenti contra li Lumbardi, fussi aucisu. (Ugolini [1967, I.82])

li suoi cavalieri lasciarono uccidere P. Quinto Petilio consolo combattendo fortis-simamente contra li Lombardi! (De Visiani [1867-1868, I.161])

che traducono Val. Max., II, 7, 15:

Q. Petilium consulem fortissime adversus Ligures pugnantem...

La soluzione lombardo compare inoltre in un volgarizzamento di Lucano:

e tu Lombardo aguale tonduto, che di qui adrieto avançavi tutta la Gallia Comata co’ capelli sparti per li belli colli... (Allegri [2008, 12])

che traduce Phars., I, 442:

et nunc tonse Ligur, quondam per colla decore / crinibus effusis toti praelate Co-matae...

e in una traduzione dell’Eneide:

non estremo di Lombardi [...] O vano Lombardo... (Gotti [1858, 385])

che traduce Aen., XI, 701 e 715:

haud Ligurum extremus [...] Vane Ligus...

Se si consulta il TLIO, s.v. lombardo1 troviamo, accanto alle occorrenze succitate, altri due esempi, rispettivamente nelle Storie de Troia et de Roma secondo il codice amburghese e nei Fatti di Enea di Guido da Pisa – per entrambi i passi il confronto con il testo latino permette di affermare che il lemma traduce ligur. L’accezione “appartente all’antico popolo mediterraneo dei Liguri” si applica infine ad un passo delle Chiose dette del falso Boccaccio, in cui si legge:

Hanibale [...] venne i·Lombardia e anzi si partisse, chome savio di ghuerra, gli fecie venire secho a un volere e sì perché i lombardi avevano in odio i romani. (Ver-non [1846, 223])

Come puntualizza, correttamente, Pär Larson, il redattore della voce TLIO,

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l’uso di lombardo in quest’accezione – att[estata] solo in volgarizzamenti e in altri testi d’influenza lat[ina] – è dovuto all’equazione Liguria (lat[ino]) = Lombardia (volg[are]).

La fortuna di tale equazione è evidente: la traduzione ‘attualizzata’, lom-bardo, è più diffusa del mantenimento del lemma ligure, che sembra appan-naggio di traduttori fiorentini particolarmente fedeli all’antigrafo – si ricorderà in particolare la tendenza conservativa di Bono Giamboni, più volte esempli-ficata in queste pagine.

Ci sembra confermare la connotazione erudita dell’accezione etnica di ‘ligure’ il fatto che Boccaccio utilizzi per due volte, nell’Ameto, il lemma ligure per “residente o originario della (attuale) Lombardia”:

E il tempestoso Danubio [[...]] e Isera erano lietamente gustati da’ popoli, oggi di quelle nemici, altressì come Eridano a’ Liguri. (Quaglio [1964, 751])

E già tutta Lazia mi chiamava per eccellenzia la formosa ligura... (Quaglio [1964, 761])

In virtù dell’equivalenza fra Lombardia e Liguria, Boccaccio – con un’evi-dente intenzione di innalzare lo stile – rinuncia al lemma ‘corrente’, lombardo, privilegiando il cultismo ligure.

La larga diffusione della resa ‘lombarda’ si spiega alla luce della fortuna del lemma, per la cui valutazione si rimanda senz’altro alla voce TLIO: in questa sede basterà ricordare il successo dell’esito sincopato di langobardus, che a partire dalla Francia e dall’Italia settentrionale si estende – tramite significa-tivi allargamenti metonimici – fino a coprire il senso generico di “italiano” e molte accezioni figurate9.

Si noterà infine che in antico non è ancora netta la separazione fra lom-bardo, lemma dell’uso che come abbiamo detto tende ad assumere un senso principalmente geografico, con riferimento specificamente all’Italia setten-trionale, e longobardo “appartenente all’antico popolo germanico che dominò l’Italia nel VI e VII secolo”.

Quest’ultimo è ben rappresentato nei testi, sempre in qualità di etnico dotato di uno specifico valore storico (che sia riferito alla popolazione o a singoli personaggi): il suo carattere prettamente erudito è dimostrato dal

9 Cfr. fra gli altri Sabatini (1963-1964), DI s.v. Lombardia (756-757) e, per l’analisi degli esiti galloromanzi, Zweifel (1921). Per il senso “residente o originario dell’Italia settentrionale” si ricordi fra tutte l’attestazione dantesca, riferita anacronisticamente a Virgilio, «li parenti miei furon lombardi» (Inf. I.68); per l’uso, di origine gallica, di lombardo in accezione “italiano” si ricordi ancora una volta l’attestazione dantesca (Purg. XVI.126): «Guido da Castel, che mei si noma, / francescamente, il semplice Lombardo», così annotato dal commentatore Jacopo della Lana: «meser Guido da Castello de Reço [...] è per prerogativa de lui, parlando francescamente, che diseno ad omne citramontano ‘lombardo’» (Biagi / Passerini / Rostagno 1931, 322).

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frequente ricorso a glosse, che identificano la popolazione con i più noti Lom-bardi, o con gli Ungari o gli Schiavi10. Si vedano fra gli altri questo passo del Centiloquio in cui Pucci, ricostruendo la trafila storico-etimologica, annota:

Gli Ungheri fur chiamati Lungobardi, / e conquistaro Italia, ed abitarla; / onde noi fummo chiamati Lombardi. / Ver’è, che ’l nome tra’ Toscani intarla, / ed è rimaso tutto in Lombardia, / siccome chiaro si vede, e si parla. (Ildefonso 1772-1775, I.17)

o queste attestazioni – rispettivamente in Nicolò de’ Rossi, Giovanni Vil-lani e Simone da Lentini – che offrono un quadro della distribuzione diato-pica del lemma e ne dichiarano tutti il legame con il toponimo Lombardia o l’equivalenza semantica con l’etnico contemporaneo lombardo, confermando decisamente la natura archeologica di longobardo, che è per lo più giustificato ricercandone l’origine nel sintagma lunga barba11:

I umili Schiavi entronno en Lombardia / cum lunge barbe, Longobardi detti... (Elsheikh 1973, 234)

e così fallì la signoria de’ re de’ Lombardi, detti prima Lungobardi, ch’era durata CCV anni in Italia, per la forza de’ Franceschi e del buono Carlo Magno, che mai poi nonn ebbe re in Lombardia. Bene rimasero le schiatte de’ signori, e de’ baroni, e bor-gesi stratti di Longobardi ed i·Lombardia e in Puglia; e ancora oggi ne sono in nostro volgare certi antichi gentili uomini che noi chiamiano cattani lombardi, derivato da’ detti Longobardi che n’erano stati signori d’Italia. (Porta [1990-1991, I.127])

Nota hic ki li Lombardi, li quali foru ditti Longubardi per la longa barba chi ha-vianu, foru Puglisi... (Rossi-Taibbi [1954, 16])

D’altro canto, è attestato in italiano antico l’uso del solo lombardo in acce-zione “longobardo”: ci limiteremo qui a rimandare alla corrispondente voce del TLIO. Quello che ci interessava, in effetti, era semplicemente mostrare come a fronte di etnici ormai estinti, passibili di recupero erudito dalle fonti storiche, come longobardo o ligure, si offrisse ad alcuni autori la possibilità di una riformulazione volgare mediante il lemma dell’uso lombardo: questo lemma, ormai ben presente nella lingua, sembrava consentire un’attualizza-zione del deonimico in virtù della (effettiva o presunta) coincidenza territo-riale fra l’antico e il moderno referente.

L’analisi della resa lessicale degli etnici nei testi di traduzione dal latino e il suo confronto con i dati estrapolabili dai corpora del TLIO e dalla lessicogra-

10 Glossano con ‘ungaro’, denunciando la natura ‘archeologica’ di longobardo, Gio-vanni Villani (Porta [1990-1991, I.108]: «Longobardi, ciò sono Ungari»), Marchionne e Antonio Pucci (nel Centiloquio, che ha come fonte il Villani). Quanto all’identifica-zione con gli Schiavi, vd. infra.

11 Oltre ai citati Nicolò de’ Rossi e Simone da Lentini, giustificano l’appellativo lon-gobardo rimandandolo a ‘lunga barba’ Giovanni Villani, in un diverso passo della Cronica, Boccaccio nelle Esposizioni, Francesco da Buti nel commento al Paradiso dantesco, il volgarizzamento della Legenda aurea. Per un sintetico commento di que-sta ipotesi etimologica cfr. Zweifel (1921); DELI s.v. longobardo.

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fia storica, di cui abbiamo esemplificato alcune applicazioni, consentono una valutazione della conoscenza che il Medioevo italiano aveva della geografia del mondo antico: le linee di continuità e di rottura geopolitica sono general-mente rappresentate nella lingua, e i tentativi di traduzione mediante ‘aggior-namento’, tentata equivalenza con l’oggi, dei nomi di popoli lasciano trasparire a loro volta l’articolazione etno- e geografica del mondo medievale. D’altro canto, questo lessico sembra rappresentare un significativo terreno di prova per valutare l’approccio alla traduzione dei diversi volgarizzatori: per portare un solo esempio, sarà emersa con evidenza la tendenza erudita, ‘conservativa’, di Bono Giamboni – che rende per altro la sua opera un capiente serbatoio di prime attestazioni di prestiti dal latino.

Istituto Opera del Vocabolario Italiano Elisa GUADAGNINI(CNR) Giulio VACCARO