diritti umani e violenza alle donne
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UNIVERSITÀ’ DEGLI STUDI DI TRIESTEDIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE E SOCIALI
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE INSCIENZE INTERNAZIONALI E DIPLOMATICHE
classe LM-52
TESI DI LAUREAIN
DIRITTI DELL’UOMO
DIRITTI UMANI E VIOLENZA ALLE DONNE
LaureandaVeronica Ragni! ! ! ! ! ! Relatrice! ! ! ! ! ! Chiarissima prof.ssa Teresa Tonchia! ! ! ! ! !! ! ! ! ! ! Correlatore! ! ! ! ! ! Chiarissimo prof. Daniele Ungaro
ANNO ACCADEMICO 2013/2014
INDICE
Introduzione ……………………………………………………………… p. 1
CAPITOLO PRIMODiritti umani e diritti delle donne ……………………………………… p. 4
1.1 - Un’introduzione ai diritti umani …………………………………. p. 4
1.2 - La disparità tra uomini e donne ………………………………….. p. 14
1.3 - La lotta per i diritti delle donne: un percorso storico …………… p. 21
CAPITOLO SECONDOLa violenza sulle donne …………………………………………………. p. 42
2.1 - L’importanza del linguaggio ………………………………………. p. 43
2.2 - Il concetto di Violenza ……………………………………………… p. 44
2.3 - Le forme della violenza ……………………………………………. p. 51
2.4 - L’estensione della violenza: una valutazione statistica ………… p. 74
CAPITOLO TERZOGli strumenti di tutela dei diritti delle donne ………………………… p. 843.1 - Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione
contro le donne, osservazioni e critiche alla situazione italiana …. p. 873.2 - La Piattaforma di Pechino e la verifica dei progressi italiani
………………………………………………………………………… p. 1033.3 - Conferenza di Istanbul: la condanna definitiva della violenza
domestica? …………………………………………………………… p. 112
CAPITOLO QUARTODalla parte delle donne: organizzazioni e iniziative …………………. p. 1174.1 - Le iniziative di sensibilizzazione internazionali e italiane a
confronto ……………………………………………………………. p. 118
4.2 - L’Italia e il supporto alle vittime: i centri antiviolenza …………. p. 128
4.3 - I frutti della violenza: femminicidi ed orfani ……………………. p. 133
Conclusioni ……………………………………………………………….. p. 139
Bibliografia e fonti ……………………………………………………….. p. 143
«Se ad un Dio si deve questo mondo, non vorrei essere quel Dio:l'infelicità che vi regna mi strazierebbe il cuore»
A. Shopenhauer
«Happiness is the birthright of every human»Yogi Bhajan
Introduzione
Nel mondo una donna su tre è vittima di violenza. Basta fermarsi un
momento a riflettere su questo dato per capire quanto vasto e dilagante sia
il problema della violenza sulle donne. Una donna su tre può essere
un’amica, la propria madre, una sorella, una moglie. Una donna su tre
vuol dire che tutto intorno a noi, quando usciamo per andare
all’università, per andare al lavoro o a fare la spesa, seduta accanto a noi al
cinema o sull’autobus, in piedi nella sala d’attesa del medico, ovunque c’è
una donna che ha subito o subisce qualche forma di violenza. Quando si
prende coscienza di questo, quando si arriva a comprendere veramente
cosa voglia dire essere circondati da tanta violenza, da tanta sofferenza,
non si può più tornare indietro. È come varcare una soglia invisibile. Ci si
guarda attorno e non si vede più la ragazza “oca”, quella che “ci sta”, la
stronza, la collega alla quale si rifilano i lavori più ingrati; si vedono
donne. Donne allegre e piene di vita, donne che godono della propria
libertà e che non temono critiche perché nessuno ha veramente il potere di
giudicarle, donne riservate che nessuno può costringere a provare
interesse per ciò che non piace loro, donne che meritano lo stesso rispetto
che merita qualsiasi essere umano.
Allo stesso tempo risultano ormai evidenti, per chi ha varcato la
soglia, tutte le abitudini, gli stereotipi, i modelli di comportamento che
cercano disperatamente di mantenere o riportare queste donne così vive e
libere ad essere delle statue di cera, da modellare secondo le più antiche
tradizioni o i gusti più moderni. Dalle donne si pretende allora che si
adeguino ai canoni estetici del momento, che siano belle e disponibili, ma
anche intelligenti e studiose, perché il titolo di studio è un pregio in più di
cui potersi vantare quando si esibisce la propria compagna in pubblico,
ma che non deve influenzare la sua “scelta” di non lavorare dopo il
1
matrimonio. Luoghi comuni? Pregiudizi femminili nei confronti degli
uomini? Purtroppo da un recente sondaggio è emerso come siano ancora
molti in Italia gli uomini che ritengono ammissibile la denigrazione di una
donna tramite insulti a sfondo sessuale o fare avance fisiche esplicite1, così
come è un dato inconfutabile quello riguardante le violenze. Tuttavia è
bene precisare fin da subito che per ogni uomo che non si fa scrupoli a
usare violenza nei confronti di una donna, a considerarla un oggetto di
sua proprietà da gestire a piacimento, ce ne sono due che conoscono il
rispetto e l’amore autentico che l’altra metà del cielo merita.
Tali sono dunque le considerazioni iniziali che hanno mosso questo
studio, nel quale si è cercato di mantenere un punto di vista quanto più
possibile neutro per quanto riguarda, ad esempio, le osservazioni sulle
forme della violenza, senza pretendere che questa sia considerata come
un’esclusiva femminile, ma evidenziando quando necessario come le
donne ne siano le principali vittime. Anche per evitare di incorrere nei
cosiddetti “luoghi comuni”, si è considerato opportuno iniziare da un
approccio storico, con un excursus che ha teso ad analizzare quali siano le
origini della disparità tra uomini e donne, allo scopo di spiegare alcuni
degli stereotipi che ancora persistono nella tradizione e nella cultura della
maggior parte dei Paesi. Anche per quanto riguarda il concetto stesso di
violenza, si è optato per un’analisi dapprima generale, per comprendere
cosa si intenda veramente con questo termine e quindi per
contestualizzare meglio la successiva analisi delle forme che la violenza
assume, soprattutto quando è agita nei confronti di donne e bambine.
Si è poi ritenuto interessante prendere in considerazione quali siano
le tutele internazionali e nazionali a salvaguardia delle donne; le
2
1 La denigrazione è ritenuta ammissibile dal 24% degli uomini; le avance esplicite dal 19% dati tratti da Well_B_Lab*, Rosa shocking: violenza, stereotipi… e altre questioni del genere, WeWorld Intervita, 2014
Convenzioni internazionali affermano che i diritti delle donne e delle
bambine sono parte integrante ed inalienabile dei diritti umani universali
e che tutti gli Stati dovrebbero tutelarli dalle violenze e dalle
discriminazioni. Ciononostante la violenza contro le donne assume
molteplici forme che si manifestano quotidianamente in ogni società e
sono il sintomo di pratiche culturali fondate sulla logica della superiorità e
del dominio maschile sul femminile. Entrando poi nel merito della
prevenzione della violenza e dell’assistenza alle vittime, si nota come,
malgrado gli sforzi delle organizzazioni e della società civile, le donne ed i
bambini siano estremamente esposti alle violenze domestiche ed al
contempo scarsamente tutelati.
Si tratta in definitiva di uno studio su di un tema ampiamente
dibattuto a livello internazionale, statale e persino nell’ambito privato; non
mancano infatti fonti scritte, analisi e ricerche sull’argomento. Ciò che si è
cercato di fare in questa sede è dunque creare un percorso che colleghi
idealmente le origini della discriminazione e della violenza contro le
donne con le sue conseguenze storiche, le risposte che a queste sono state
date nell’ambito del diritto internazionale e nazionale ed infine le
conseguenze della violenza, tenendo in considerazioni alcune delle azioni
intraprese per contrastarla e sensibilizzare la società al suo riguardo. Tutto
ciò al fine di ottenere una visione d’insieme ampia e comprensiva dei
molteplici aspetti che caratterizzano il tema della violenza di genere.
3
1. Diritti umani e diritti delle donne
Il tema della tutela dei diritti delle donne necessita di una premessa
in relazione al più ampio tema dei diritti umani. Una polemica molto
comune al giorno d’oggi riguarda l’effettiva necessità del riconoscimento
di diritti specifici femminili. Solitamente si obietta che, esistendo un diritto
internazionale a salvaguardia dell’essere umano, i diritti delle donne vi
siano già inclusi e non si comprende quindi l’esigenza di ulteriori tutele. In
questo primo capitolo andremo quindi ad analizzare brevemente la storia
dei diritti umani ed i principi e le convinzioni che hanno portato allo
sviluppo di accordi internazionali e di politiche a specifica difesa delle
donne.
1.1 Un’introduzione ai diritti umani
I diritti umani sono i beni universali della persona, sono ciò che serve
al suo pieno sviluppo. Generalmente intesi come inalienabili in quanto
intrinsecamente propri alla persona per il semplice fatto di appartenere al
genere umano, esistono esclusivamente in sua funzione. I diritti umani
sono quindi inerenti a tutti gli esseri umani indipendentemente dalla loro
nazione, lingua, religione, origine etnica o qualsiasi altra variabile, in
quanto interconnessi alla dignità della persona stessa, intesa come capacità
di comprendersi e quindi di possedersi. Ogni essere umano è dunque
padrone di sé e per questo ha connaturato il diritto all’inviolabilità, alla
crescita ed al pieno sviluppo. Il riconoscimento della dignità intrinseca e
4
dei diritti di tutti gli esseri umani è il fondamento della libertà, della
giustizia e della pace nel mondo1.
Il concetto di dignità della persona è l’essenza stessa della dottrina
dei diritti umani. La dignità è, come sostiene Kant, il valore intrinseco
della persona, qualcosa alla quale non si può attribuire un prezzo e che di
conseguenza non può essere scambiata o sostituita. L’uomo in quanto
persona umana ha un valore assoluto e per questo motivo «egli non può
essere considerato come un mezzo per i fini altrui, o anche per i propri
fini, ma come un fine in se stesso, e cioè egli possiede una dignità (un
valore interiore assoluto) […]»2.
Il rispetto della persona equivale dunque al riconoscimento della
dignità in quanto valore assoluto, senza prezzo ed insostituibile. La
dignità è radicata nell’essenza della persona e per questo non può
scindersi da essa, nemmeno se è la persona stessa a volervi rinunciare. Il
medesimo rispetto che dobbiamo agli altri lo dobbiamo quindi, a maggior
ragione, anche a noi stessi e per questo motivo abbiamo l’obbligo di
ribellarci a chiunque voglia negarci la nostra qualità umana ed asservirci.
Tale rispetto, prosegue Kant, va tributato anche al malvagio poiché il fatto
che egli stesso si sia reso indegno di questo riconoscimento, avendo per
primo calpestato la sua dignità, non comporta una perdita del rispetto che
gli è dovuto in quanto essere umano. «Perciò umilierebbe se stesso chi lo
punisse in modo disumano. Ecco il fondamento etico del moderno divieto
di trattamenti e pene disumani e degradanti.»3 Se la logica delle leggi
5
1 «il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo» Preambolo della Dichiarazione universale dei diritti umani. ONU, 1948. Consultata sul sito dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani all’indirizzo: http://www.ohchr.org/EN/UDHR/Documents/UDHR_Translations/itn.pdf2 I. Kant, Metafisica dei costumi, 1797 in A. Cassese, I diritti umani oggi, Laterza, Bari, 2009,
p. 553 A. Cassese, I diritti umani oggi, cit., p. 57
tende infatti a giudicare contrapponendo rigidamente il bene e il male, il
principio della dignità è superiore al merito delle azioni e rende universali
i diritti che ad esso fanno riferimento.
Ciò nondimeno, nello stato di diritto attuale, i diritti umani
dipendono dalla singola comunità e dalla legislazione del singolo Stato.
Pertanto la loro universalità per essere concretizzata necessita in primo
luogo di attecchire nella coscienza degli individui e delle pubbliche
opinioni, che vanno innanzitutto educate ad essi. Perché se da una parte
possiamo considerarci una società evoluta e “civile”, molti preconcetti e
credenze negative stentano a dissiparsi, rimanendo ancorati alla mentalità
collettiva e permettendo il perpetrarsi, più o meno inconsapevole, di
violazioni dei diritti. Lampante è il caso della Dichiarazione universale dei
diritti umani del 1948, la cui sottoscrizione permette comunque ai singoli
Stati di apportare delle limitazioni ai diritti fondamentali adducendo, ad
esempio, esigenze di ordine pubblico o sicurezza nazionale. Ogni Stato ha
quindi la possibilità di limitare, e quindi di negare parzialmente, diritti e
libertà che in linea teorica dovrebbero essere inalienabili.
La violazione dei diritti fondamentali tocca tutti gli esseri umani,
anche quelli non direttamente coinvolti, perché insiti nella natura di
ognuno di noi; ciascun diritto può venir contrastato in qualsivoglia
momento e luogo e per questo necessita di una costante spinta alla propria
affermazione.
Consideriamo, ad esempio, un diritto universalmente riconosciuto
quale quello allo studio. Si è scelto questo esempio perché è trasversale, sia
maschile che femminile, e perché il principio di istruzione ha radici
millenarie; «Maestri, in Grecia, ne erano sempre esistiti. I primi dei quali si
fa menzione sono quelli citati da Omero […] è presumibile che esistessero
scuole per l’insegnamento della scrittura fin da quando i Fenici avevano
6
reintrodotto in Grecia l’alfabeto (nono secolo)»4. Il concetto di studio è
diffuso in tutto il mondo ed anche nelle società più restrittive nei confronti
delle donne, i bambini hanno accesso ad una qualche forma di istruzione.
Tornando all’esempio pratico, nel rapporto Education under attack 2014
della Global Coalition To Protect Education from Attack5 vengono analizzate le
minacce e gli attacchi portati contro studenti, insegnanti ed altre figure che
lavorano nel contesto dell’istruzione, nonché contro scuole, università e
varie istituzioni educative. Questi attacchi possono essere perpetrati per
motivi politici, ideologici, etnici o religiosi, ma il risultato comune è quello
di privare le persone del loro diritto fondamentale ed inalienabile, sancito
dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, allo studio. In più di 30
Paesi ci sono individui che convivono quotidianamente con la paura
poiché studiano e insegnano in condizioni di pericolo ed incertezza.
Esaminiamo brevemente il caso della Nigeria, uno dei pochi ad aver
avuto un riscontro mediatico nel nostro paese. Secondo i dati raccolti dalla
GCPEA, dal 2012 sono 70 gli insegnanti e più di 100 gli studenti uccisi o
feriti; solo da gennaio a settembre del 2013 sono stati segnalati circa 30
omicidi di insegnanti, alcuni perpetrati durante le lezioni. Nello stesso
7
4 A. Storoni Piazza, Padri e figli nella Grecia antica, Armando Editore, Roma, 1991, pp. 59-615 GCPEA, coalizione interagenzia formata nel 2010 da organizzazioni operanti nel settore della salvaguardia dei diritti umani e dell’educazione in contesti di emergenza e conflitti. L’iniziativa è nata dalla preoccupazione per i continui attacchi alle istituzioni educative, agli studenti ed agli operatori in numerosi paesi del mondo. La coalizione include organizzazioni come: l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO), il Fondo delle Nazioni Unite per l'infanzia (UNICEF), Save the Children, Human Rights Watch, il Council for Assisting Refugee Academics (CARA), Protect Education in Insecurity and Conflict (PEIC) ed il Scholars at Risk Network.
periodo il leader del gruppo islamista Boko Haram6 ha dichiarato
l’intenzione di uccidere tutti gli insegnanti che adottino un’educazione
occidentale e di radere al suolo le scuole non islamiche. Questo disprezzo,
ereditato dal periodo del colonialismo Britannico durante il quale si
riteneva che le scuole missionarie avessero come unico scopo la
conversione di giovani musulmani al cristianesimo, ha portato il gruppo
islamista a distruggere o bruciare circa 50 scuole solo nella prima metà del
2013, mentre più di 60 sono state costrette a chiudere. Circa 15.000 bambini
sono stati ritirati dalle scuole per timore che potesse accadere loro
qualcosa ed attualmente sono sempre più rari gli istituti che riescono a
rimanere attivi. Questi attacchi contro bambini, insegnanti e scuole
dimostrano un assoluto spregio per il diritto all’istruzione e per il diritto
alla vita stessa.
Se consideriamo poi il rapimento, sempre ad opera del gruppo Boko
Haram, di 276 studentesse nigeriane nell’aprile di quest’anno (più di 500
dal 2009) possiamo renderci conto di quanto sia problematica in certi
contesti la realtà delle ragazze che osano studiare. Mentre alcune di loro
sembrano essere state sequestrate senza una logica precisa, la maggior
parte è stata presa di mira perché studentesse, cristiane, o entrambe le
cose. In un recentissimo rapporto pubblicato da Human Rights Watch7
8
6 Comunemente tradotto dalla lingua Hausa del nord della Nigeria con “l’educazione occidentale è peccato” o “l’educazione occidentale è proibita”, è stato anche tradotto come “l’educazione non-musulmana è proibita” e "l’occidentalizzazione è un sacrilegio".Boko Haram è stata fondata come una setta fondamentalista islamica sunnita e si è sviluppata come gruppo salafita-jihadista nel 2009. Il suo scopo è la creazione di uno stato islamico in Nigeria, in contrasto con la progressiva occidentalizzazione della società che ha riguardato soprattutto il sud del paese a maggioranza cristiana. Si stima che nel corso del 2013 la Nigeria abbia avuto il maggior numero al mondo di omicidi causati dal terrorismo. In una dichiarazione del febbraio di quest’anno il governatore del Borno, uno dei 36 Stati della Nigeria, in riferimento ai terroristi ha dichiarato: «sono meglio armati e più motivati delle nostre truppe. Dato l’attuale stato di cose, è assolutamente impossibile per noi configgere Boko Haram.»7 “Those terrible weeks in their camp: Boko Haram violence against women and girls in northeast Nigeria”http://features.hrw.org/features/HRW_2014_report/Those_Terrible_Weeks_in_Their_Camp/index.html
vittime e testimoni descrivono matrimoni e conversioni religiose forzate,
dietro minaccia di esecuzione, e riportano le rivendicazioni della volontà
da parte del gruppo estremista di punire gli studenti che frequentano
scuole occidentali e di convertire le donne e le ragazze cristiane all’Islam.
La specialista dell’UNICEF Lisa Bender in questo contesto ha dichiarato
«Nei miei viaggi ho riscontrato che molte famiglie vogliono mandare le
loro figlie a scuola, ma nel farlo vogliono sentirsi sicure».
Il caso nigeriano appena portato è l’esempio lampante di come il
maggior riconoscimento dei diritti avvenuto nell’ultimo mezzo secolo
molto spesso non sia ancora stato seguito da una loro effettiva possibilità
di esercizio. La Nigeria è uno dei Paesi membri dell’UNESCO dal 1960 e
pertanto dovrebbe perseguire la completa libertà di istruzione, nonché il
rispetto per i diritti umani. Tuttavia, per motivi che possono o meno
esulare dalle capacità del governo di tutelare tali diritti, questi ultimi sono
messi a rischio e questo è un problema globale; in qualsiasi momento ed in
qualsiasi luogo i diritti possono essere negati, ma questo non implica che
smettano di sussistere.
È altresì vero che i diritti riconosciuti nelle Carte e nelle Dichiarazioni
attuali sono di matrice principalmente occidentale e ciò ha comportato
delle difficoltà nel loro riconoscimento in contesti culturali differenti, come
ad esempio nei paesi asiatici, islamici o africani. L’esempio, riportato dal
giurista Antonio Cassese, più palese ed attualmente dibattuto è quello
delle mutilazioni genitali femminili che portano a scontrarsi i fautori
dell’universalità dei diritti umani con i sostenitori del loro relativismo. Se
da una parte tale pratica è considerata una violazione dell’integrità fisica e
morale della persona, dall’altra è difesa come atto doveroso e simbolo di
appartenenza sociale. Questa contesa ci porta a considerare il soggetto
stesso delle Convenzioni internazionali, che «si riferiscono ad un essere
9
umano ipotetico e astratto»8 mentre pretendono di applicarsi all’essere
umano reale, inserito in un ambiente sociale e culturale concreto. Prima di
ottenere una protezione universale dei diritti umani è dunque necessario
che questi vengano interiorizzati in ogni società e riconosciuti da tutti gli
Stati, che si faranno quindi garanti della loro tutela. Questo perché, se è
vero che i diritti umani esistono a prescindere dalle norme, queste ultime
sono tuttavia indispensabili per permetterne la tutela e l’applicazione. Per
questo «la giustizia, mentre con una mano tiene la bilancia con la quale
pesa il diritto, porta con l’altra la spada, necessaria ad affermarlo. La
spada senza bilancia è violenza, forza nuda e cruda; ma questa senza
quella sarebbe l’impotenza del diritto»9.
Nasce così la consapevolezza della necessità di inscrivere i diritti
umani in un ordinamento giuridico positivo che ne tuteli il riconoscimento
e la fruizione ed è da questa considerazione che prendono forma le Carte
dei diritti. La prima affermazione formale dei diritti umani è stata
concretizzata nelle dichiarazioni di indipendenza dei singoli Stati Uniti
d’America come nella Dichiarazione d’indipendenza statunitense del 1776 e
nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, promulgata nel 1789
come frutto della Rivoluzione francese e dei suoi più alti ideali. Entrambe
sono documenti fondamentali nella storia del riconoscimento dei diritti
umani ed hanno avuto un forte impatto sullo sviluppo della libertà e della
democrazia a livello globale. Agli uomini viene riconosciuto dunque il
diritto, sacro ed inalienabile alla libertà, alla proprietà, alla sicurezza ed
alla resistenza all’oppressione.
10
8 A. Cassese, I diritti umani oggi, cit., p. 709 R. Jhering, La lotta per il diritto, in D. Coccopalmerio, Sidera Cordis, Cedam, Padova, 2004,
p. 98
Con queste Dichiarazioni si riconosce all’uomo la titolarità di
determinati diritti ancor prima del suo ingresso nella società civile, poiché
gli sono propri dal momento della sua stessa creazione. Un notevole limite
di queste Dichiarazioni è tuttavia costituito proprio dal soggetto al quale
fanno riferimento; non solo i diritti vengono in esse riconosciuti ai singoli
individui e non ai gruppi, ma tali individui sono esclusivamente di sesso
maschile, spesso limitato da ulteriori caratteristiche che a seconda
dell’epoca gli vengono attribuite10. «L’uomo appare come il tipo umano
assoluto, la donna come un essere occasionale, relativo. In altri termini,
l’umanità ha i connotati dell’essere maschile; la donna non viene definita
in quanto tale, ma in relazione a quel modello.»11 L’uomo è dunque il
soggetto centrale di tutto il pensiero filosofico-giuridico e della concezione
stessa di essere umano, in quello che è stato definito anche
antropocentrismo maschile. La donna in questo contesto non è altro che il
risultato di una serie di somme e sottrazioni di qualità rispetto al modello
maschile.
Come abbiamo detto in precedenza, la teoria giuridica tende
idealmente a far riferimento ad un soggetto di diritto astratto; il diritto
tuttavia appartiene all’essere umano reale e concreto. Unendo questo
assunto con il concetto appena illustrato di antropocentrismo maschile
possiamo comprendere come tutte le dichiarazioni e le leggi che fanno
riferimento ai diritti dell’uomo sono da intendersi letteralmente come diritti
dell’essere umano di sesso maschile e non quindi come diritti universali
11
10 La dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti del 1776 considera tutti gli uomini creati uguali e liberi, ma la schiavitù non è stata abolita sino al 1865. Tale dichiarazione infatti, oltre ad avere come riferimento un soggetto maschile, limita ulteriormente i detentori di diritto escludendo, ad esempio, tutte le persone di origine africana, che continuarono ad essere discriminate e private di determinati diritti ben oltre la data di abolizione della schiavitù.11 M. Manfredi - A. Mangano, Alle origini del diritto femminile: cultura giuridica e ideologie, Edizioni Dedalo, Bari, 1983, p. 30
della persona. Questa osservazione è indispensabile per comprendere
l’evoluzione del riconoscimento dei diritti dell’uomo, dei diritti umani e
della rivendicazione dei diritti delle donne.
Alle prime dichiarazioni dei diritti americana e francese si ispirarono,
nel corso del secolo successivo, le costituzioni di vari paesi europei e non
ultima, nel secondo dopo guerra, l’Organizzazione delle Nazioni Unite,
quando si fece portavoce dell’affermazione globale dei diritti umani con
l’adozione della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948. La
dichiarazione, nata dalla traumatica esperienza della II Guerra Mondiale,
rappresenta il primo universale riconoscimento di diritti intrinsecamente
propri dell’essere umano. Da tale Dichiarazione sono poi originati
numerosi trattati internazionali e regionali, volti ad approfondire il tema
dei diritti umani nelle sue varie declinazioni e ad ampliare il
riconoscimento e la tutela degli stessi.
In ambito regionale un ulteriore slancio nella tutela dei diritti umani
è sancito dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
libertà fondamentali, sottoscritta dal Consiglio d’Europa nel 1950, che ha
istituito la Corte Europea dei diritti dell’uomo al fine di vigilare sull’effettivo
rispetto della Convenzione e tutelare in questo modo i diritti dei cittadini
degli Stati firmatari.
Rilevanti sono anche gli Accordi di Helsinki del 1975, sottoscritti da
tutti i paesi europei, dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, che al punto
7 del decalogo in essi inserito impegnano al rispetto dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali «inclusa la libertà di pensiero, coscienza,
religione o credo».
Nel tempo la questione ha acquisito sempre maggior risalto nel
panorama internazionale e la nozione stessa di Diritti umani è andata
12
ampliandosi e specializzandosi. Nel 1993, ad esempio, è stata sottoscritta
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la Dichiarazione di Vienna, la
quale afferma che «La comunità internazionale ha il dovere di trattare i diritti
umani in modo globale e in maniera corretta ed equa, ponendoli tutti su un piano
di parità e valorizzandoli allo stesso modo». Vengono quindi elencate una serie
di categorie di diritti umani, quali: i diritti delle persone appartenenti a
minoranze, i diritti dei bambini, i diritti delle donne e delle bambine e i
diritti delle persone disabili, solo per citarne alcuni.
Ecco dunque il soggetto di diritto che perde la sua astrattezza e
diventa esplicitamente concreto. A questo fanno riferimento sia i women’s
studies che i men’s studies quando pongono la questione del riconoscimento
dei soggetti in quanto sessuati, «incarnati in corpi di uomini e donne»12.
L’obiettivo è quello di superare la visione dei diritti in chiave maschile,
rinunciando anche all’astrazione del soggetto che, basandosi sulla cecità
alle differenze, finiva col «rispecchiare la cultura egemone incentrata sul
soggetto-uomo»13.
Nella Dichiarazione di Vienna viene quindi ribadito che il rispetto
dei diritti umani, della democrazia e il diritto allo sviluppo sono
strettamente interconnessi e per questo la loro promozione dovrebbe
essere universale. La Convenzione invita di conseguenza tutti gli Stati
membri ad adempiere agli obblighi di promozione del rispetto e
dell’osservanza dei diritti umani e delle libertà fondamentali, in quanto la
responsabilità ultima per la loro tutela e realizzazione è posta
immancabilmente nelle mani degli Stati stessi e dei rispettivi governi, che
sono pertanto sollecitati a creare e sostenere istituzioni nazionali ed organi
13
12 A. Amato - F. D’Agostino, Cento e una voce di filosofia del diritto, Giappichelli Editore, Torino, 2013, p. 2913 Ivi, p. 31
della società che svolgano un ruolo nella protezione e salvaguardia degli
stessi.
Quelli citati sono solo alcuni esempi dei numerosi accordi e
convenzioni susseguitisi dalla prima Dichiarazione del 1789 ad oggi. Per
questo nel paragrafo successivo andremo ad indagare le motivazioni
storiche e gli ideali che hanno portato alla creazione di convenzioni e
trattati a tutela dei diritti delle donne, nonché l’effettiva necessità di un
diritto esclusivamente femminile.
1.2 La disparità tra uomini e donne
«Affermare che le donne non sono eguali agli uomini significa prima
di tutto riconoscere che esse sono meno libere»14
Se è vero che tutti gli esseri umani nascono uguali è altresì vero che,
come direbbe Orwell, alcuni sono più uguali degli altri. Sin dai tempi più
remoti la società si è andata plasmando in un modello patriarcale tendente
a relegare la donna su di un piano inferiore rispetto a quello maschile. Un
esempio ne è il mito ebraico di Lilith, la prima donna. Nel mito si narra
infatti che Dio avrebbe plasmato uomo e donna nello stesso modo,
partendo dalla stessa materia prima. Lilith contestava la pretesa di Adamo
di esserle superiore, argomentando che essendo stati creati
simultaneamente dalla stessa polvere erano in tutto e per tutto eguali. Egli
continuava ad insistere nella pretesa di esserle padrone, ma Lilith non
trovava alcuna giustificazione alla sua supremazia; così, quando Adamo
tentò di dominarla e di forzarla ad obbedire pretendendo che giacesse
14
14 P. Degani, Condizione femminile e Nazioni Unite, Cleup, Padova, 2010, p. 9
sotto di lui, lei scelse di lasciare l’Eden e di condurre una vita solitaria
sulle sponde del Mar Rosso, dove finalmente trovò pace15.
Il mito testé citato è esemplificativo di una tendenza comune alla
maggior parte delle culture a considerare la donna come un soggetto
implicitamente inferiore alla sua controparte maschile e quindi
naturalmente assoggettabile. Questa concezione è riconducibile ai
profondi mutamenti della società umana avvenuti nel neolitico. Come
spiegano Carlo Tullio Altan e Marcello Massenzio: «con l’avvento, in
determinati luoghi, della rivoluzione agricola e l’inizio del progressivo
processo di trasformazione degli equilibri sociali […] anche gli apparati
normativi su cui si fondava l’ordine sociale vennero messi in crisi, creando
diffuse forme di anomia e di insicurezza individuale e collettiva.
[…] L’invenzione della tecnica di coltivazione della terra è legata, come è
noto, all’azione delle donne, ed è quindi al nome della donna che fanno
riferimento i miti che le attribuiscono la colpa dei gravi turbamenti
dell’ordine tradizionale, che venne sconvolto dalle conseguenze della loro
scoperta.»16 La donna viene ritenuta responsabile della crisi, intesa come
un cambiamento da un mondo conosciuto ad uno sconosciuto, della
società e diviene dunque un simbolo di pericolo e contaminazione. Come
per ogni minaccia, si sviluppa quindi nei suoi confronti una volontà di
controllo che si concretizza in una segregazione sociale che rilega la donna
in uno stato di inferiorità nei confronti del genere maschile. Si spiega così
l’atavico desiderio di sottomissione ed il rifiuto per qualsiasi modello
femminile che rivendichi il rispetto alla sua dignità.
15
15 E. Dame - L. Rivlin - H. Wenkart, Which Lilith? Feminist writers re-create the world's first woman, Jason Aronson, Northvale, 2004, p. 516 C. T. Altan - M. Massenzio, Religioni, simboli, società: sul fondamento dell'esperienza religiosa, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 214
La femminilità, così svalutata, perde la sua importanza in favore di
un sistema prevalentemente maschile ed unilaterale. Il passo successivo è
breve, la donna da soggetto inferiore o “sesso debole” diviene oggetto,
una proprietà di cui disporre a piacimento. L’immaginario collettivo si
sbarazza dunque di Lilith, donna indipendente ed inadatta all’obbedienza
richiesta, in favore di Eva, incarnazione dell’ideale della donna sottomessa
creata per essere d’aiuto all’uomo17. La sottomissione, è bene ricordare, è
legata al concetto sociologico di potere, che implica l’imposizione di un
dominio di un essere umano sull’altro. Implicita nell’esercizio di questo
dominio è la possibilità di definire l’altro: con le parole dell’uomo «la
donna viene descritta come naturalmente debole, naturalmente emotiva,
naturalmente gregaria e incapace di leadership, naturalmente legata alla
casa, alla prole, gli anziani, a dispensare il cibo e la cura.»18
E così Eva, malgrado le caratteristiche di dipendenza e sottomissione
che le vengono attribuite dalla narrazione maschile, è destinata a divenire
anche simbolo di peccato e tentazione, catalizzando buona parte dell’odio
degli uomini nei confronti delle donne19. Proseguendo nell’analisi
dell’esempio religioso e del suo parallelo nell’immaginario collettivo,
troviamo nella prima lettera di San Paolo a Timoteo un nodo centrale degli
stereotipi riguardanti la donna e la sua colpevolezza nelle violenze subite:
«Perché Adamo fu formato il primo, e poi Eva; e Adamo non fu sedotto;
ma la donna, essendo stata sedotta, cadde in trasgressione». Ecco dunque
16
17 «Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile. […] ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse all'uomo. Allora l'uomo disse: “Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall'uomo è stata tolta”.» Genesi, II, 18-23 (la citazione è conforme al testo della Conferenza Episcopale Italiana del 1974).18 E. Tedeschi - I. Caloisi, Cultura di genere, scenari e percorsi, Narcissus.me, 2013, eBook19 T. Ravazzolo - S. Valanzano (a cura di), Donne che sbattono contro le porte. Riflessioni su violenze e stalking, FrancoAngeli, Milano, 2010, p. 55
che anche Eva, seppur sottomessa, diventa tentatrice, in un perfetto
modello di quello che per secoli e tutt’ora è il pregiudizio della donna che
“se la cerca”, magari indossando un capo d’abbigliamento considerato
provocante, entrando in ascensore con uno sconosciuto20, o rivendicando
la libertà di scegliere con chi condividere la propria vita, anche se non è il
compagno con il quale ne ha passata una parte.
L’immagine della donna assume caratteristiche sempre più negative,
influenzata da una società che la percepisce come una minaccia al dominio
maschile. Ecco dunque dalle figure di Lilith ed Eva evolversene una
nuova, quella della Strega. Demonizzata dalla Chiesa e perseguitata
dall’Inquisizione, la Strega è il nuovo simbolo della negatività associata
alla femminilità ed attraverso la sua stigmatizzazione altro non si ottiene
che un rafforzamento del controllo sulle donne, degradandone l’immagine
sociale. La stregoneria è storia di uomini, i primi ad essere accusati sono
gli eretici, «ma anche e soprattutto storia di donne (circa 60 mila nel solo
XV secolo)»21. La caccia alle streghe è dunque una caccia alle donne che,
acquisendo e diffondendo conoscenze ai più sconosciute, come potevano
essere le proprietà e l’uso delle erbe, si avvicinano pericolosamente ad
elevarsi allo stesso livello degli uomini. Tra le donne maggiormente
perseguitate vi sono poi quelle che esercitano competenze precluse agli
uomini, come le levatrici. Le streghe guariscono e trasformano, sono di
supporto alla creazione ed in contatto con la natura e finiscono per
17
20 “Evita di entrare nell’ascensore quando c’è uno sconosciuto, soprattutto nei condomini. In ogni modo, cerca di stare vicino al pulsante d’emergenza”. Indicazione tratta dalle linee guida contro lo stupro pubblicato dal Ministero dell’Interno spagnolo nel luglio 2014.http://www.interior.gob.es/es/web/servicios-al-ciudadano/seguridad/consejos-para-su-seguridad/prevencion-de-la-violacionQueste regole sono state aspramente contestate, soprattutto perché la responsabilità di prevenire le aggressioni viene fatta ricadere esclusivamente sulle vittime, mentre gli aggressori non vengono considerati né tantomeno criticati.21 A. Amato - F. D’Agostino, Cento e una voce di filosofia del diritto, cit., p. 354
incarnare l’alterità rispetto alla cultura dominante e allo status quo.
«Gerson sottolineava nel suo De examinatione doctrinarum […] che le donne
erano più inclini ad essere sedotte, che erano anzi per natura delle
seduttrici e che comunque al loro intelletto era preclusa la comprensione
della divina sapienza.»22. Questa è la massima contrapposizione: sacro
maschile contro diabolico femminile; connessione intellettuale con il
divino maschile contro legame fisico e ctonio femminile. La ragione,
esclusiva maschile, non può essere riconosciuta anche alla sfera femminile.
La conoscenza intellettuale23 nella donna viene associata quindi a qualcosa
di negativo, ad un male morale. Nel momento in cui la donna si apre al
sapere e allunga le dita verso la mela proibita incorre nella punizione
divina, che comporta un cambiamento non solo per lei ma per tutta
l’umanità. La caccia alle streghe altro non è che il frutto della volontà di
rimarcare una «plurimillenaria ideologia discriminatoria»24, ribadendo
l’idea dell’inferiorità femminile e demonizzando la donna, simbolo della
tentazione e del peccato.
Lilith, Eva, Strega, questi i miti di cui abbiamo parlato e che una cosa
hanno in comune anche con tutte le altre icone femminili della storia,
dall’antica Grecia ad oggi: il mito infatti «ci rivela come le donne, sia
mortali che divine, siano state immaginate, sognate, rifiutate, temute,
esaltate, a partire, però, sempre da una prospettiva maschile.»25
18
22 Ivi, p. 35523 Esempio di ciò è anche il mito omerico delle sirene: esse «sanno ogni cosa» (Odissea, XII, 191) ma inducono l’uomo alla perdizione e alla morte24 E. Cantarella, L'ambiguo malanno: condizione e immagine della donna nell'antichità greca e romana, Feltrinelli Editore, 2010, eBook25 F. Ricci, I corpi infranti, tracce e intersezioni simboliche tra etica e politica, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2013, p.114
Un’ulteriore esemplificazione della disparità e degli stereotipi che
ancora influenzano le relazioni tra i sessi può essere data con una nota
linguistica. In un articolo pubblicato sul sito dell’enciclopedia Treccani, la
linguista Rita Fresu osserva come l’utilizzo della lingua sia differente tra
uomini e donne, e riconduce tale differenza alla «tendenza a restituire una
rappresentazione negativa del linguaggio femminile.» La lingua delle
donne, aggiunge, «si presenterebbe caratterizzata da una serie di fenomeni
che riflettono la millenaria condizione subalterna femminile»26 e che la
portano ad una maggiore accuratezza formale nello sforzo di sfuggire a
giudizi negativi. Consideriamo, ad esempio, due persone di livello
culturale medio-alto che parlino sporadicamente in dialetto; se da una
parte l’uomo può passare inosservato o addirittura essere elogiato per
l’attaccamento alle sue radici, molto spesso la donna che fa altrettanto
viene tacciata di volgarità ed additata come rozza ed ignorante. In
aggiunta, la lingua stessa nel tempo ha assunto connotazioni spregiative a
riguardo di numerosi termini femminili. Gli esempi più semplici ci
derivano dalle numerose declinazioni del termine “prostituta”, che
diventa “cortigiana, cagna, vacca, scrofa” mentre il corrispettivo maschile
di suddette parole mantiene il suo significato invariato, per cui il
cortigiano altro non è che un gentiluomo che frequenta una corte e cane,
toro e maiale rimangono semplici animali.
Volendo portare un ultimo esempio dei pregiudizi che influenzano
ancor oggi la nostra società, possiamo citare un’indagine promossa
19
26 F. Rita, Maschile e femminile nella lingua italiana, Treccani.ithttp://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/femminile/Fresu.html
dall’OCSE27 con lo scopo di valutare le competenze degli studenti. I dati
ricavati mostrano che a 15 anni le ragazze raggiungono punteggi
nettamente superiori sia in campo umanistico che scientifico; tuttavia nel
momento in cui sono chiamate a scegliere quale università frequentare
quasi il 75% sceglie facoltà umanistiche. Quando tuttavia optano per
facoltà scientifiche tendono ad ottenere risultati migliori di quelli dei loro
colleghi. Se questi dati possono farci solo supporre una limitazione
stereotipica, molto più sconcertante è la testimonianza di una studentessa
in medicina prossima alla laurea ed alla successiva scelta dell’ambito da
approfondire, alla quale è stato consigliato di non perdere tempo con
determinate richieste di specializzazione, quali neurologia e tutti i tipi di
chirurgia, in quanto tacitamente precluse alle donne. Nello stesso tempo il
consiglio è stato quello di proseguire gli studi in cardiologia, pediatria o
geriatria, dato che quelle, in ambito medico, sono identificate come
specializzazioni “femminili”. Che questo sia un caso isolato di mal
orientamento scolastico oppure la norma ha poca importanza in quanto è
innegabile che sia un esempio concreto dei preconcetti che possiamo
riconoscere nella nostra società e che influenzano da sempre la vita delle
donne.
Gli stereotipi della suddivisione dei lavori e dei compiti sono
estremamente radicati nella società italiana, tanto che il tasso di presenza
nel mercato del lavoro è tra i più bassi dei Paesi OCSE; nel 2011 solo il 52%
delle donne lavorava o cercava attivamente un lavoro. Così le potenzialità
20
27 Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico; istituita nel 1961, ha come obiettivo la promozione di politiche in grado di migliorare il benessere economico e sociale nel mondo. Analizza i cambiamenti economici, sociali ed ambientali e confronta i dati per prevedere le tendenze future. Sulla base di tali considerazioni, si prefigge di consigliare le politiche nazionali allo scopo di migliorare le condizioni di vita della popolazione. Malgrado un orientamento iniziale prevalentemente economico, nel tempo l’Organizzazione ha spostato la sua attenzione anche a tematiche quali l’istruzione e le tutele sociali dei cittadini dei Paesi membri, nonché alla lotta al terrorismo ed alla criminalità internazionale.
restano inespresse e le donne italiane, malgrado le notevoli capacità
emerse dallo studio sulle competenze precedentemente citato, rimangono
relegate al ruolo di “angeli del focolare”. Questa immagine, che può essere
contestata come antiquata, si è andata evolvendo nel tempo ed ha assunto
nuove implicazioni decisamente attuali. Se si considera ad esempio il
rapporto che le imprese hanno con i loro dipendenti ci si può rendere
conto della preferenza che queste nutrono nei confronti degli uomini
semplicemente perché, basandosi sull’immaginario collettivo, considerano
che in caso di conflitto tra esigenze aziendali ed esigenze familiari, un
uomo sarà più incline ad anteporre le prime alle seconde, mentre una
donna si sentirà in dovere di compiere la scelta opposta.
1.3 La lotta per i diritti delle donne: un percorso storico
Guardando indietro agli ultimi 200 anni o poco più, si può osservare
il tortuoso cammino che la campagna per l’emancipazione femminile ha
percorso e per molti aspetti continua a percorrere. Esplorando questa
strada, spesso impervia e dissestata, emerge l’incessante impegno delle
donne, non solo nella cittadinanza ma anche in una società che tale
cittadinanza ha progressivamente contribuito a rendere più aperta nei loro
confronti. La lotta per i diritti femminili è dunque caratterizzata da un
duplice processo: da una parte di universalizzazione dei diritti, dall’altra
di diversificazione e creazione di modelli alternativi rispetto a quelli
esclusivamente maschili.
All’inizio di questo cammino è emersa chiaramente la difficoltà di
suscitare ed ottenere un radicale cambiamento di mentalità in una società
che aveva, non tanto negato, quanto piuttosto mai riconosciuto i diritti
delle donne. «Sulla scena domina un solo soggetto, il maschio, che reifica
tutto il resto e che scava attorno a sé il vuoto, quel vuoto che corrisponde
21
alla secolare assenza storico-simbolica della donna […]»28. Data l’assoluta
predominanza di una logica androcentrica, da una questione di principio
si è spostata l’attenzione verso un oggetto più concreto quale il diritto di
voto, che avrebbe idealmente permesso alle donne di difendere i propri
interessi e di sfuggire alle umiliazioni sociali ed economiche di cui molto
spesso sono state oggetto.
La condizione di disparità che caratterizza l’universo femminile e che
da secoli le donne tentano di superare è efficacemente sintetizzata in
queste parole: «Sebbene le donne costituiscano per numero la metà del
genere umano e per costituzione non difettino delle capacità di pensiero,
di linguaggio e d’azione degli uomini, la loro influenza nella formazione
dell’opinione e della volontà pubblica è stata nel tempo rigorosamente
limitata tramite una ripartizione dei ruoli che le ha confinate nella sfera
privata. Pur esistendo significative sfumature ed eccezioni, all’interno di
tutte le comunità sociali conosciute, sia che esse si distinguano per origini
di etnia, classe religione e politica lo status attribuito alle donne è sempre
subalterno a quello maschile.»29
Nel primo paragrafo di questo capitolo si è fatto riferimento alla
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, redatta nel contesto
della Rivoluzione francese. Questo fondamentale avvenimento storico ha
garantito diritti prima di allora inaccessibili ad una parte della
popolazione, ma rimaneva una distinzione tra i cosiddetti cittadini attivi,
uomini al di sopra dei 25 anni di età e con una determinata disponibilità
22
28 A. Amato - F. D’Agostino, Cento e una voce di filosofia del diritto, cit., p. 2829 M. Ampola - L. Corchia, Dialogo su Jürgen Habermas, le trasformazioni della modernità, Edizioni ETS, Pisa, 2007, p. 147
economica30, ed i cittadini passivi, tra cui i ceti più poveri e le donne.
Queste ultime, dopo aver apportato un notevole contributo alla
Rivoluzione31, partecipando alle proteste e facendosi anche in certi casi
portavoce del malcontento e delle istanze degli insorti, risentirono
fortemente dell’esclusione dalla vita politica e della negazione del
riconoscimento di diritti che avevano ampiamente meritato e che erano
stati loro promessi. Tra le rivendicazioni rivoluzionarie vi era infatti anche
la questione delle donne ed in particolare modo la negazione da parte
della monarchia dei loro diritti civili. La Dichiarazione dei diritti
dell'uomo doveva quindi comprendere, almeno idealmente, anche i diritti
della donna, in un epocale sovvertimento rispetto alle ingiustizie
dell'ordine precedente. Questa premessa, una volta disattesa, portò
all'emergere di istanze femministe che, adottando il personaggio di
23
30 Le condizioni per essere riconosciuto come cittadino attivo comprendevano il pagamento di un contributo diretto pari almeno al valore di tre giornate lavorative. Il diritto di voto venne quindi riconosciuto a poco più di 4 milioni di abitanti su una popolazione di circa 26 milioni. I cittadini attivi erano dunque appena il 16% dei francesi.A.Mathiez - G.Lefebvre, La Rivoluzione Francese, vol.1, Einaudi, Torino, 1975, p. 11331 Il 5 ottobre 1789 una folla di circa seimila persone, composta prevalentemente da donne, si mise in marcia alla volta di Versailles e fece irruzione nella sala dell’Assemblea Nazionale. Nel frattempo una delegazione di donne venne ricevuta da re, che diede finalmente la sua approvazione alla Dichiarazione dei diritti approvata in agosto dall’Assemblea ed alla legge che riduceva il potere legislativo della monarchia ad un mero diritto di veto.
Antigone32 già in precedenza richiamato dagli stessi rivoluzionari francesi,
ne fecero il simbolo della rivendicazione dei loro diritti. Una delle letture
del contrasto tra Antigone e Creonte è infatti incentrata sul dissidio tra le
leggi umane e le leggi divine; nell'opera si sostiene che queste ultime sono
inscritte dentro ogni persona e che per questo sono universali e non
possono mai essere contrastate da quelle umane. È proprio questo
principio che veniva richiamato nel periodo rivoluzionario quando si
affermava che la legge del sovrano non poteva porsi al di sopra dei diritti
dell'uomo.
La storia, che inizialmente era quindi stata esaltata quale simbolo
dell'oppressione del cittadino vittima della logica del potere, veniva
nell'ottica della rivendicazione femminile dei diritti ad assumere un nuovo
significato, rappresentando la secolare contrapposizione tra maschile e
femminile e la lotta della donna contro la sua stessa vessazione. In una
società che non si distaccava da quella dell'antica Grecia per quanto
riguarda l'esclusione delle donne dalla politica, la dissidenza di Antigone
non riguardava più solo la sottomissione alla tirannide, ma anche alla
cultura e ai pregiudizi dominanti che relegavano la donna in una
posizione di sottomissione, debolezza ed ubbidienza rispetto alla volontà
dell'uomo. Il suo coraggio e la sua ribellione mettevano quindi idealmente
24
32 Figlia dell'unione tra Edipo e sua madre Giocasta. Resosi conto dell'incesto compiuto Edipo si accieca e abbandona il trono di Tebe. Il regno viene quindi gestito da Creonte, fratello di Giocasta, fino al raggiungimento dell'età per regnare dei due figli di Edipo, Eteocle e Polinice. Questi, essendo gemelli, si accordano per regnare a turno, un anno alla volta. Ad iniziare è Eteocle, ma scaduto il suo anno di governo questi fa allontanare dalla città il fratello, reclamando per sé l'esclusiva detenzione del potere.L'esilio di Polinice lo conduce al regno di Adrasto che, venendo a conoscenza della sua storia, gli concede in sposa una delle sue figlie e promette di restaurare il potere che gli è stato usurpato. Marciano quindi su Tebe dove i due fratelli si sfidano a duello e, nel corso della contesa, si uccidono a vicenda. Il regno torna quindi nelle mani di Creonte che dichiara nemico della patria Polinice e ne vieta la sepoltura. Antigone sfidando l'ordine del re infrange questo divieto e, condotta al cospetto dello zio, rivendica il suo gesto come dettato dalle "norme degli dei", che non possono mai essere surclassate da quelle degli uomini. Condannata ad essere murata viva in una caverna, la giovane Antigone decide di togliersi la vita.
scompiglio nelle relazioni tra i sessi; nella tragedia Antigone veniva
giudicata folle per questa sua dissidenza e per l'indifferenza rispetto «ai
limiti di una femminilità che la società del tempo considera imposti dalla
natura»33. In quest'ottica Creonte diveniva quindi il simbolo del maschile
che pretende di monopolizzare il pensiero e la pratica della legge,
difendendo una gerarchia che confermi la supremazia dell'uomo sulla
donna e della vita politica sulla vita familiare.
Prendendo quindi la storia di Antigone a modello per perorare la
causa dei diritti delle donne, che era stata accantonata dopo il successo
della Rivoluzione, Olympe de Gouges34 nell'ottobre del 1789 presentò
all'Assemblea Nazionale una proposta per la realizzazione della completa
eguaglianza legale tra i sessi, di più opportunità di lavoro per le donne e
di una migliore educazione per le bambine. Ritenendo di avere il dovere
di parlare in vece delle cittadine per rivendicare i diritti delle donne, nel
1791 scrisse la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina,
sottolineando la necessità del riconoscimento di una parità giuridica e
legale tra uomini e donne. Questo scritto, che incorporava le sue più
urgenti battaglie, era modellato sulla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino del 1789 e ne metteva ironicamente in risalto il fallimento,
enfatizzando la mancata applicazione dell’ideale d’uguaglianza. La
conclusione della sua Dichiarazione è caratterizzata dal motto "Donne,
risvegliatevi!" col quale incitava le donne francesi ad aprire gli occhi e ad
interrogarsi su quali vantaggi avessero effettivamente ottenuto dalla
Rivoluzione. Olympe sosteneva infatti l'uguaglianza dei diritti per uomini
25
33 G. P. Di Nicola, Nostalgia di Antigone, Effatà Editrice, Cantalupa (TO), 2010, p. 9234 Marie Olympe de Gouges (1748-1793). Autrice ed attivista francese, famosa per i suoi scritti politici ed il supporto alla Rivoluzione francese. Considerata una pioniera del femminismo, sostenne strenuamente i diritti delle donne, che riteneva naturali ed inalienabili.
e donne, insistendo che a quest'ultima venissero restituiti i diritti naturali
della quale era stata privata dalla forza del pregiudizio. Ritenendo di
avere il dovere di parlare in vece delle cittadine per rivendicare i diritti
delle donne, finì per attaccare delle convenzioni che persino i rivoluzionari
consideravano inviolabili.
Questa schiettezza nel criticare il nuovo governo la portò, nel 1973, a
scagliarsi con forza contro Robespierre, sospettandolo di aspirare alla
dittatura e chiamandolo in causa in numerosi dei suoi scritti. Così facendo
violò la legge per la repressione degli scritti che sfidavano il principio
repubblicano; lo stesso giorno della pubblicazione del suo manifesto di
denuncia venne arrestata dai sostenitori di Robespierre e condannata
pochi giorni dopo. Malgrado la detenzione riuscì a far pubblicare due
manifesti: nel primo35 denunciava le condizioni della sua detenzione,
sostenendo che violavano la Dichiarazione dei diritti dell'uomo, mentre
nel secondo rivendicava la sua devozione alla causa patriottica,
respingendo le pesanti accuse di tradimento. Lasciò così le sue ultime fiere
parole: «Sapevo in anticipo che queste tigri, che non meritano di portare il
nome "uomo" dovevano essere lusingate perché io potessi essere assolta;
ma colui o colei che non ha nulla da rimproverare a se stesso con ha nulla
da temere. Li ho sfidati; hanno minacciato di sottopormi al Tribunale
rivoluzionario. Me lo aspettavo, ho detto loro.»36 Portata in Tribunale la
mattina del 2 novembre venne privata dell'avvocato, ma si difese con
maestria ed intelligenza. Accusata di aver tradito il governo repubblicano,
venne condannata a morte; la motivazione della sentenza era un esplicito
26
35 pubblicato il 15 settembre 1793. Il 17 settembre una legge ordinava l'immediato arresto di tutti coloro che non avevano il certificato di cittadinanza e di tutte le persone che attraverso i loro scritti o i loro comportamenti avevano contrastato in un qualsiasi modo il governo giacobino. Centinaia di migliaia di sospettati vennero arrestati.36 S. Mousset, Women's Rights and the French Revolution: A Biography of Olympe de Gouges, Transaction Publishers, New Brunswick, New Jersey, 2007, p. 94
«atto di accusa contro l'illogica e criminale pretesa di fare politica e cultura
al pari degli uomini, trascurando quelle virtù femminili che avrebbero
dovuto esser loro intimamente e inestirpabilmente proprie»37. Questa
condanna è la prova tangibile di come anche il nuovo regime
rivoluzionario non si fosse discostato dal precedente per quello che
riguardava il riconoscimento dei diritti delle donne e della loro libertà, che
ancora una volta veniva calpestata. Come aveva infatti sottolineato la
stessa Olympe de Gouges, l'uguaglianza che la Rivoluzione aveva
preannunciato non era mai stata realizzata; ecco dunque che le donne
potevano salire al patibolo, ma non avevano ancora diritto di espressione
politica.
Le istanze di trasformazione della società, fondata su modelli
patriarcali, sono dunque da intendersi come la «rivendicazione di una
promessa, implicitamente presente nei fondamenti universalistici della
morale e del diritto costituzionale dei moderni stati occidentali»38.
Muovendo da questo primo esempio possiamo ricostruire
brevemente la storia del movimento che ha sostenuto i diritti delle donne,
e nello specifico il diritto al voto. Come gli ideali di uguaglianza e libertà
della rivoluzione si diffusero nei Paesi europei e nel mondo, così fecero le
tesi femministe e di lì a pochi anni anche nel Regno Unito si venne a creare
un forte movimento a sostegno dei diritti delle donne. Un loro
riconoscimento, seppur parziale, si concretizzò nel 1835, quando alle
donne inglesi venne concesso di partecipare al voto per le elezioni locali. Il
movimento delle suffragette, sorto nel 1865, venne ben presto abbracciato
27
37 M. P. Paternò, Dall'eguaglianza alla differenza: diritti dell'uomo e cittadinanza femminile, Giuffrè Editore, Milano, 2006, p. 18738 M. Ampola - L. Corchia, Dialogo su Jürgen Habermas, le trasformazioni della modernità, cit., p.146
da numerosi uomini e donne intenzionati a perorare la causa dei diritti
femminili e supportato anche da importanti esponenti della cultura
dell'epoca come John Stuart Mill39, che rivendicò la parità di diritti civili e
politici e l’accesso delle donne a tutte le occupazioni sostenendo che il
grado di riconoscimento dei diritti femminili è indicativo del livello di
civiltà di una nazione.
Mentre il primo paese a riconoscere il diritto di voto delle donne fu la
Nuova Zelanda nel 1893, i progressi nel vecchio continente procedevano
lenti e col tempo la frustrazione per i risultati mancati portò ad azioni
dimostrative sempre più eclatanti. Nei primi anni del '900 molte furono le
suffragette incarcerate dopo manifestazioni di piazza e che proseguirono
nella loro lotta attuando la pratica degli scioperi della fame. L’obiettivo era
semplice: raggiungere la parità rispetto agli uomini, ottenere il diritto al
voto, al lavoro, all'uguaglianza dei diritti civili.
Malgrado tutti gli sforzi portati avanti fino a quel momento, fu la I
Guerra Mondiale il vero punto di svolta. Essendo la maggior parte degli
uomini impiegata al fronte, alla Nazione non restò altra scelta che affidarsi
alle donne, che si fecero carico di molti dei lavori tradizionalmente
maschili divenendo così membri attivi dell'economia e della società.
Assunsero ruoli mai ricoperti prima, svolgendo anche i lavori più pesanti
nel settore agricolo come in quello industriale; vennero impiegate in
settori come la metallurgia bellica e la meccanica, mentre in casa
ottemperarono a compiti all’epoca tipicamente maschili come la gestione
della burocrazia e dei problemi legali. Dopo una tale prova di valore al
28
39 John Stuart Mill (1806 - 1873). Filosofo ed economista britannico, dopo 21 anni di intima amicizia, nel 1851 sposa la filosofa inglese Harriet Taylor. Dopo appena 8 anni di matrimonio rimane vedovo, ma l'influenza della moglie risulta fondamentale per la sua posizione circa i diritti delle donne e nel 1859 lo porta a scrivere il saggio Sulla libertà (On liberty, the subjection of Women). Tra il 1865 ed il 1868 è deputato al Parlamento inglese; in quel contesto propone il diritto di voto alle donne, il sistema elettorale proporzionale e la legalizzazione dei sindacati e delle cooperative.
Governo Britannico non restò che approvare, nel 1918, la loro richiesta di
diritto di voto, che arrivò a comprendere tutte le donne inglesi nel 192840.
In numerosi Paesi, tuttavia, questo processo fu molto più lungo e
sofferto. Tra i Paesi europei, gli ultimi a riconoscere il diritto delle donne al
voto furono l'Italia nell’immediato secondo dopoguerra, la Grecia nel 1952
e la Svizzera, che ritardò ulteriormente il processo permettendo alle donne
di partecipare al voto solo dal 1971.
Il suffragio universale è dunque una conquista del XX secolo,
cionondimeno alla data attuale persistono ancora situazioni in cui alle
donne è negato l’esercizio di tale diritto e possiamo solo auspicare che il
XXI secolo ponga rimedio a questa mancanza41.
Le evidenti disparità che hanno caratterizzato la nostra storia hanno
portato verso la fine degli anni ’60 alla riforma ed all’espansione del
movimento per i diritti delle donne. Si sviluppò così in quegli anni una
corrente spontanea, formata da donne di tutte le classi sociali che
riconoscevano le une nelle altre idee e sensazioni date da un vissuto
comune. Ciò che ne derivò fu quindi un movimento politico in grado di
travalicare i limiti dati da barriere quali quelle di classe, nazionalità,
lingua, età, religione, istruzione e così via. Il sentimento prevalente era la
sensazione della necessità di un cambio di civiltà; il malessere diffuso
causato da quella che era la sbilanciata relazione dei sessi e tra i sessi non
poteva che portare ad un cambiamento nella relazione con gli uomini, con
la morale, con la cultura e con ogni aspetto della società dell’epoca.
29
40 Nel 1918 era stato concesso il diritto di voto solamente alle donne sposate al di sopra dei 30 anni di età.41 Alla data odierna, in Arabia Saudita il voto è concesso solo agli uomini; lo stesso accade negli Emirati Arabi Uniti, ma il governo ha dichiarato che il voto potrebbe essere esteso alle donne per le elezioni del 2019. In Libano, invece, il voto è concesso a tutti gli uomini mentre viene autorizzato per le donne che abbiano avuto accesso allo studio elementare.
Questo movimento viene solitamente identificato col termine
femminismo, ma «qui cominciano i problemi. Problemi di nomi, perché il
movimento delle donne, le donne in movimento, noi, non abbiamo trovato
un nome adeguato: “femminismo” sta stretto perché porta il peso
dell’ideologia della liberazione dei popoli, però dà soddisfazione il
riconoscimento che continua ad avere la parola tra molte donne che
amano la libertà più delle ideologie.»42
In un periodo come quello a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 di grande
fermento politico, gran parte dell’attenzione pubblica era catalizzata dalla
questione del sociale43, mentre tutto ciò che esulava da quel contesto era
automaticamente escluso dalla politica. Un tale inquadramento fece sì che
una parte sostanziale dell’esperienza femminile rimanesse fuori dalla
storia e fuori dalla politica; caso esemplare ne è il fallimento della proposta
di dare un salario alle casalinghe. Poiché il loro lavoro non si pone in
relazione diretta con l’esercizio del potere, e la loro autorità è per così dire
circoscritta dalle mura domestiche, tale argomento non è stato in grado di
attirare un’attenzione adeguata. L’identità sociale è infatti da sempre
attribuita in linea paterna; è il nome del padre, il cognome, a darci
un’identità riconosciuta e riconoscibile dal resto della comunità. La madre,
la donna, rimane ancora esclusa; ha ottenuto il diritto di voto, ma il suo
disagio non si è placato perché le sue radici risiedono nella perdurante
mediazione maschile tra lei e la società.
30
42 M. Rivera Garretas, Donne in relazione, la rivoluzione del femminismo, Liguori Editore, Napoli, 2007, p. 1243 Il sociale in questo contesto è da intendersi in relazione all’esercizio del potere. Temi come quelli della giustizia e della sicurezza sociale erano al centro del dibattito politico; le rivendicazioni di diritti e garanzie da parte di differenti gruppi sociali nei confronti dei governi mossero gli equilibri di potere, che presero a ruotare attorno a queste tematiche. Le distinzioni tra i vari gruppi e partiti politici si accentuarono e mutarono, andando ad abbracciare o respingere le differenti tematiche sociali. Un esempio può essere l’aspra lotta politica e culturale che in quegli anni si andò delineando in Italia tra i partiti di destra e sinistra.
Per le donne dell’epoca era quindi difficile riconoscersi od essere
tenute in considerazione nei dibattiti e nei gruppi maschili. Iniziarono così
a riunirsi tra loro ed a condividere la comune voglia di partecipazione
attiva, in contesti che permettevano di esprimere il disagio dell’esclusione
dalla vita politica. Il femminismo era perciò in continua espansione, la
sensazione di disparità ormai troppo dirompente per essere ancora
tollerata. Le donne costituivano gruppi, organizzavano dibattiti,
pubblicavano libri e riviste focalizzando l’attenzione dell’opinione
pubblica e delle scienze sociali che, soprattuto negli Stati Uniti, iniziarono
ad interessarsi ed a studiare il fenomeno. Sullo slancio delle contestazioni
giovanili del ’68 queste idee si andarono diffondendo anche in Europa,
portando alla creazione di centri femminili che iniziarono ad impostare
dei programmi di assistenza per le donne, soprattutto per la tutela delle
vittime di violenza. Con il passare degli anni le idee femministe finirono
per entrare a far parte della mentalità di una gran parte delle donne,
vennero riprese da alcuni partiti politici e trovarono riscontro nei mass
media. Il dibattito venne introdotto quindi anche nell’ambito istituzionale
e le questioni di differenze di genere entrarono nell’agenda delle Nazioni
Unite.
L’11 novembre 1972 una risoluzione dell’Assemblea Generale
proclamava il 1975 come Anno Internazionale della Donna, il cui obiettivo
sarebbe stato il perseguimento della creazione di una società in cui la
popolazione femminile potesse partecipare attivamente alla vita politica,
sociale ed economica del proprio Paese. Veniva riconosciuto inoltre che la
tematica della violenza è strettamente legata alla condizione sociale
complessiva in cui versano le donne; ad esempio la debolezza economica è
31
un fattore che notoriamente espone ad un maggiore rischio di abusi di
ogni genere, anche sessuali.
In questo nuovo contesto di apertura alle problematiche femminili si
tenne la prima Conferenza mondiale sulla condizione della donna,
organizzata a Città del Messico44 in occasione dell’Anno Internazionale
della Donna. La conferenza aveva lo scopo di sensibilizzare gli Stati
partecipanti riguardo alle tematiche dell’uguaglianza e dell’eliminazione
delle discriminazioni sessuali, nonché della piena partecipazione delle
donne allo sviluppo ed al rafforzamento della pace mondiale. Dopo due
settimane di lavori, la Conferenza produsse un Piano d’azione mondiale
che indicava le linee guida che gli Stati avrebbero dovuto seguire nei
successivi dieci anni. Per alcuni obiettivi urgenti45 era previsto un
conseguimento perlomeno parziale entro il 1980, data in cui si sarebbe
tenuta una nuova Conferenza mondiale durante la quale verificare i
risultati ottenuti. Nel contesto del Piano d’azione venne inoltre proposta la
proclamazione del decennio 1975-1985 quale Decennio delle Nazioni Unite
per la Donna.
Questi propositi, che siano stati o meno realizzati, sono il segno di un
cambiamento radicale nella percezione della condizione femminile. Le
donne da soggetto passivo si trasformano in soggetto attivo, al quale
vengono riconosciuti, almeno in teoria, pari diritti e soprattutto il potere di
cambiare la propria condizione. La loro partecipazione attiva viene infatti
finalmente considerata come indispensabile per lo sviluppo dei diritti
umani. Ne è esempio il fatto che delle 133 delegazioni riunite a Città del
Messico 113 fossero guidate da donne.
32
44 Conferenza mondiale di Città del Messico, 19 giugno - 2 luglio 197545 Gli obiettivi considerati più urgenti si focalizzavano sul garantire alle donne l’accesso a risorse come alimentazione, sanità, istruzione, lavoro e partecipazione politica.
A seguito della Conferenza l’Assemblea Generale delle Nazioni
Unite adottò numerose risoluzioni46 a sostegno del riconoscimento dei
diritti delle donne, invitando tutti i Paesi che ancora non avevano
sottoscritto le relative convenzioni ad impegnarsi per farlo nel più breve
tempo possibile.
L’iniziativa più importante emersa dalla Conferenza di Città del
Messico è stata tuttavia la creazione dell’Istituto Internazionale per la
Ricerca e la Formazione per il Progresso delle Donne - INSTRAW47 - e del
Fondo delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Femminile - UNIFEM48. Anche
grazie al lavoro di questi enti tra il 1976 ed il 1979 è stato elaborato il testo
della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le
donne - CEDAW - adottata dall’Assemblea Generale il 18 dicembre 1979.
Durante la Conferenza mondiale sulle donne di Copenaghen49 la
Convenzione venne firmata da numerosi Stati, entrando poi in vigore il 3
33
46 Tra queste vogliamo citare la Ris. 3521 (XXX) del 15 dicembre 1975 per l’uguaglianza tra uomini e donne e l’eliminazione della discriminazione nei confronti delle donne. Rimarcando la consapevolezza che le donne dovrebbero avere eguali ruoli rispetto agli uomini in ogni sfera della vita, viene dichiarato che le discriminazioni di genere sono «incompatibili con la dignità umana».47 International Research and Training Institute for the Advancement of Women. Istituto autonomo dedicato alla ricerca, formazione e diffusione di informazioni riguardanti la condizione femminile. Si occupa di promuovere la sicurezza delle donne, lo sviluppo e la partecipazione femminile nella politica e nei processi decisionali. I suoi scopi sono il miglioramento della vita delle donne in tutto il mondo e la garanzia dei loro diritti. Dal gennaio 2011 è stato accorpato in UN Women.48 Unies Fonds de développement des Nations pour la femme. Il fondo fornisce assistenza finanziaria e tecnica ai programmi che promuovono i diritti umani delle donne, la loro partecipazione politica e sicurezza economica. Dalla sua fondazione ha contribuito a sostenere l'empowerment delle donne e l'uguaglianza di genere attraverso i suoi programmi ed a numerosi collegamenti con organizzazioni femminili nelle principali regioni del mondo.Nel gennaio 2011 è stata fusa in UN Women, un'entità composita delle Nazioni Unite nella quale hanno converso, oltre a UNIFEM, altri tre enti: l’INSTRAW, la Divisione per l'avanzamento delle donne - DAW e l’Ufficio del consigliere speciale sulle questioni di genere e l'avanzamento delle donne - OSAGI.49 Conferenza di Copenaghen, 14 - 30 luglio 1980
settembre 198150. Ratificando la CEDAW gli Stati si assunsero l’impegno di
garantire alle donne il concreto godimento dei diritti fondamentali,
nonché di stimolare e promuovere un cambiamento culturale che portasse
alla completa libertà della donna.
Questa seconda Conferenza mondiale doveva essere anche
l’occasione per valutare i risultati ottenuti nei precedenti 5 anni, ma l’esito
della verifica non fu certo soddisfacente. La dimostrazione da parte dei
governi di una scarsa volontà politica, la mancanza di un sufficiente
coinvolgimento degli uomini nel migliorare il ruolo delle donne nella
società, il perdurare di abitudini sociali e legali tradizionali, la difficoltà di
accesso a percorsi scolastici e la conseguente mancanza d’istruzione, il
mancato riconoscimento del valore del contributo delle donne alla società,
furono solo alcuni dei maggiori ostacoli riscontrati nell’implementazione
del Programma d’azione della Conferenza di Città del Messico. In
aggiunta, vennero segnalati un complessivo degrado della condizione
della donna nelle aree rurali e nelle periferie urbane, l’assoluta
inadeguatezza, all’interno dei singoli Stati, delle strutture per l’attuazione
di piani articolati volti al miglioramento della condizione femminile e si
raccomandavano quindi interventi sociali di maggior portata. Nella
maggior parte dei Paesi venne inoltre riscontrato il perdurare di notevoli
disparità nel mercato del lavoro: i salari delle donne continuavano ad
essere nettamente inferiori a quelli maschili, seppur relazionati ad un
numero di ore lavorative maggiore.
Per rispondere a queste preoccupazioni, al termine della Conferenza
di Copenaghen fu adottato il Programma d’azione per la seconda metà del
Decennio delle donne, il cui scopo centrale sarebbe stato il perseguimento
della concreta e reale eliminazione di ogni discriminazione, soprattutto nei
34
50 Ad oggi risulta ratificata da 188 Paesi
settori della sanità, dell’istruzione e del lavoro. I governi vennero
sollecitati alla promozione dell’eguaglianza non solo tramite l’emanazione
di leggi, che avrebbero rischiato di rimanere esclusivamente sulla carta e
di non essere mai realmente applicate, ma soprattutto tramite
l’elaborazione di programmi concreti e specifici e prevedendo lo
stanziamento di fondi adeguati alla loro attuazione.
Tra i risultati più importanti della Conferenza mondiale del 1980,
fondamentale per la nostra riflessione, è il riconoscimento delle serie
conseguenze psicologiche e sociali della violenza domestica e la
conclusione che le donne dovevano essere protette da violenze e stupri.
Quella che partì come un’iniziativa quasi estemporanea, portò alla
considerazione del tema della violenza domestica nel contesto del
Consiglio Economico e Sociale51 che nel 1982 adottò la risoluzione
1982/22, nella quale definì l’abuso di donne e bambini come
un’intollerabile offesa alla dignità della persona. A tale dichiarazione fece
poi seguire una richiesta d’azione per combattere questi «mali sociali».
Di lì a tre anni la terza Conferenza mondiale52 segnò un punto di
svolta per l’impegno internazionale sulla condizione della donna: fu la
prima Conferenza a concludersi con un adesione unanime agli impegni
proposti in conclusione ai lavori e per la prima volta venne riconosciuta
l’importanza dell’adozione di strategie di lungo periodo per il
miglioramento della condizione femminile.
Com’era accaduto a Copenaghen, il primo obiettivo fu quello di
valutare i progressi compiuti dagli Stati membri durante il Decennio di
lavoro sull’uguaglianza, lo sviluppo e la pace appena concluso. Ancora
35
51 Economic and Social Council - ECOSOC. È la piattaforma principale delle Nazioni Unite per la riflessione, il dibattito e l’innovazione riguardo lo sviluppo sostenibile.52 Conferenza di Nairobi, 15 - 26 luglio 1985
una volta i risultati si rivelarono insoddisfacenti; la violenza, soprattutto
quella domestica, venne identificata come un grosso ostacolo alla pace, un
fenomeno che riguardava il mondo intero e che metteva a repentaglio lo
sviluppo personale e sociale delle donne ed era quindi da considerarsi
contrario all’interesse della società. I partecipanti presero particolarmente
a cuore questo tema, sentendo che in precedenza non gli era stata data
tutta l’attenzione che richiedeva.
La Conferenza si appellò quindi alla comunità internazionale perché
fossero applicate le leggi già approvate per la parità e la sicurezza delle
donne, mentre i temi della lotta alla violenza e del rafforzamento del ruolo
delle donne nelle iniziative di pace e sviluppo vennero dichiarati obiettivi
interdipendenti, che se perseguiti si sarebbero rafforzarti a vicenda.
Venne così approvato il Piano d’azione, noto come «Strategie di
lungo periodo per il progresso delle donne fino al 2000», che forniva
indicazioni per la promozione della pace e l’eliminazione della violenza
contro le donne in ogni aspetto della società. Gli Stati membri vennero
esortati ad adottare misure per l’eliminazione di ogni forma di
discriminazione contro le donne e per facilitarne la partecipazione negli
sforzi per promuovere la pace e lo sviluppo. La Conferenza di Nairobi
riconobbe quindi che la parità di genere non era un problema isolato e che
si rendeva necessaria, per il superamento di certe barriere, la
partecipazione delle donne in tutti gli ambiti decisionali, non solo in quelli
relativi al genere.
I primi risultati di queste sollecitazioni non tardarono ad arrivare ed
entro la fine del decennio delle Donne più di 100 Stati Membri avevano
istituito dei meccanismi allo scopo di favorire il miglioramento delle
condizioni femminili nel loro Paese e di coinvolgere le donne nello
sviluppo delle stesse.
36
L’accesa discussione avviatasi a Nairobi sul tema della violenza
contro le donne non era fortunatamente destinata ad estinguersi. A partire
dalla fine degli anni ’80 vennero affrontati, in un numero sempre maggiore
di contesti, argomenti come il maltrattamento e le molestie sessuali. La
questione ricevette poi ulteriore credito nel contesto della Conferenza
mondiale delle Nazioni Unite sui diritti umani53, che diede nuovo slancio
alla campagna internazionale per la promozione dei diritti delle donne. La
Conferenza, caratterizzata per una partecipazione senza precedenti di
Stati, organismi internazionali e rappresentanti di più di 800
organizzazioni non governative, portò all’approvazione, con votazione
unanime, di una Dichiarazione conclusiva e di un Programma d’azione
per il rafforzamento dei meccanismi di tutela dei diritti umani,
comprensivi di importanti riferimenti in merito ai diritti delle donne. Nel
Programma veniva menzionata la CEDAW e si richiedeva la sua ratifica
universale entro l’anno 2000; si invitava inoltre la Commissione ad
esaminare la possibilità di introdurre il diritto di petizione54 per dare la
possibilità alle donne di segnalare una mancata protezione dei loro diritti
da parte del proprio Stato.
Il problema della violenza, malgrado la sua allarmante portata, non
era stato fino a questo momento tenuto in particolare considerazione da
parte dei governi, che tendevano a considerarla una questione limitata alle
relazioni private tra individui e che per questo esulasse dai loro obblighi
di intervento contratti in ambito internazionale. In questa sede venne
37
53 Conferenza di Vienna, 14 - 25 giungo 199354 Questa raccomandazione ha portato all’adozione del Protocollo facoltativo della CEDAW da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1999 ed alla sua entrata in vigore il 22 dicembre del 2000. Il Protocollo istituisce la possibilità di ricorso in caso di violazione dei diritti e prevede due procedure: una di denuncia, utilizzabile da singole donne o da gruppi; una d’indagine, che consente al Comitato CEDAW di indagare su casi di violazioni gravi o sistematiche dei diritti umani nei paesi che hanno sottoscritto il Protocollo facoltativo.
pertanto ribadito che ogni forma di violenza di genere è sempre da
condannare perché, come già sostenuto in numerose risoluzioni, contraria
e incompatibile con la dignità e il valore della persona umana. Di
conseguenza la Conferenza invitò l’Assemblea Generale all’adozione della
Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne55 e ad istituire
uno Special Rapporteur56 sullo stesso tema.
Nel 1995 si tenne a Pechino la quarta Conferenza mondiale sulle
donne57, nella quale intervennero 189 Paesi con circa 17.000 delegati e
delegate. Le donne diventarono così, da oggetto del problema, una risorsa
per risolverlo. In questo contesto venne ribadito che i diritti delle donne
sono da ritenersi diritti umani ed universali, pertanto nessuna ragione di
fede, cultura o estremismo religioso può giustificarne la violazione.
La Conferenza di Pechino si incentrò poi principalmente sulle
politiche di empowerment e mainstreaming. «La prima (parola chiave)
implica l'attribuzione di potere alle donne, di una loro partecipazione
attiva a tutti i livelli. Il mainstreaming, invece, si riferisce alla necessità di
inserire nelle politiche generali tematiche propriamente femminili.»58
Venne dunque richiesto un rinnovamento della politica e delle istituzioni,
che si sarebbe dovuto concretizzare con la partecipazione diretta delle
donne a tutti i livelli delle istituzioni stesse.
La Dichiarazione di Pechino ed il relativo Programma d’azione sono
stati considerati il progetto per la promozione dei diritti delle donne più
38
55 Avvenuta il 20 dicembre 199356 Lo Special Rapporteur è istituito dalla risoluzione dalla Commissione sui Diritti Umani del marzo 1994. Ha tre funzioni: raccogliere informazioni sulla violenza e sulle sue cause e conseguenze; analizzare i dati raccolti; raccomandare misure per l'eliminazione del problema.57 Conferenza di Pechino, 4 - 15 settembre 199558 P. Maceroni, Le Nazioni Unite e la parità tra i sessi: recenti sviluppi,http://www.onuitalia.it/diritti/UNICVcontr/parita.html
progressista di sempre. La piattaforma individuò 12 settori critici59 che
costituiscono ancora oggi le linee guida per il monitoraggio della
condizione femminile nel mondo. L’ideale che ispirò questa iniziativa era
quello della creazione di un mondo in cui ogni donna e ragazza potesse
esercitare tutti i suoi diritti, come quello di vivere libera dalla violenza, di
andare a scuole, di partecipare alle decisioni in perfetta parità.
Una Sessione Speciale dell’Assemblea Generale denominata
«Pechino +5» si tenne a New York nel 2000, allo scopo di valutare i
progressi del Programma d’azione della Conferenza del ‘95. In questo
contesto vennero evidenziate le problematiche che continuavano a
sussistere nell’affermazione e nella fruizione da parte delle donne dei loro
diritti, come ad esempio la questione della povertà e soprattutto della
cosiddetta femminilizzazione della povertà. Con l’adozione di questa
espressione si intende constatare un maggior impatto delle situazioni di
impoverimento sulle donne, poiché sono le prime a vedersi negato
l’accesso a risorse quali la terra, il credito e il patrimonio ereditario, e ad
essere così privandole di ogni prospettiva.
Malgrado il perdurare di numerose problematiche, dalle
osservazioni di Pechino +5 emersero anche numerosi esempi di politiche
di miglioramento della condizione femminile dagli esiti positivi. In vari
Paesi erano state create nuove leggi per dare applicazione alla
Convenzione del 1979; il numero di donne coinvolte nei processi
decisionali era in crescita e finalmente la loro voce iniziava ad essere
ascoltata.
39
59 1) donne e ambiente; 2) donne al potere e nei processi decisionali; 3) bambine; 4) donne ed economia; 5) donne e povertà; 6) violenza contro le donne; 7) diritti umani delle donne; 8) educazione e formazione delle donne; 9) meccanismi istituzionali per il progresso delle donne; 10) donne e salute; 11) donne e media; 12) donne e conflitti armati.
Un ulteriore seguito al Programma d’azione di Pechino sarà dato nel
suo 20° anniversario da una Conferenza, già denominata Pechino+2060, che
rappresenterà l’occasione per rinnovare gli impegni presi, rinvigorire la
volontà politica e mobilitare l’opinione pubblica.
La piattaforma iniziale aveva auspicato la realizzazione della parità
di genere in ogni aspetto della vita, ma nessun Paese è ancora riuscito a
raggiungere tale obiettivo: un terzo della popolazione femminile mondiale
subisce violenza fisica o sessuale nel corso della vita e ci sono enormi
lacune in materia di assistenza sanitaria, tanto che circa 800 donne
muoiono di parto ogni giorno. In ambito lavorativo, ancora oggi
guadagnano meno degli uomini e spesso ricoprono posizioni
qualitativamente inferiori. Nel raccogliere questi dati in preparazione a
Pechino+20, l’ONU ricorda che migliorare la condizione della donna è
nell’interesse comune. Dove le donne sono più emancipate le economie,
ad esempio, crescono più rapidamente e le famiglie sono più sane e più
istruite. La Commissione avvierà quindi un riesame dei progressi
compiuti nell’attuazione del Piano d’azione di Pechino e provvederà a
creare un’agenda di sviluppo per il raggiungimento della parità di genere
e l’empowerment delle donne dal 2015 in poi.
Come abbiamo visto, il tema dei diritti delle donne ha affrontato un
lungo e non sempre lineare percorso per giungere al riconoscimento
attuale. Siamo ancora molto lontani dall’effettiva realizzazione di una
parità di genere e soprattutto dalla garanzia di sicurezza in ogni aspetto
della vita delle donne che da molto tempo si auspica. Se da una parte la
loro integrità fisica e morale è messa ancora costantemente a rischio da un
contesto di violenza diffusa, trasversale a tutte le società ed i Paesi del
mondo, è altresì innegabile che ci sia stata un’evoluzione nella condizione
40
60 La sessione si terrà presso la sede delle Nazioni Unite a New York dal 9 al 20 marzo 2015
2. La violenza sulle donne
L’evoluzione storica della battaglia per i diritti femminili ha portato
al centro del dibattito internazionale la questione della violenza sulle
donne, ma cosa si intende realmente con questa espressione?
Nel primo articolo della Dichiarazione sull’eliminazione della violenza
contro le donne del 1993 si specifica che l’espressione “violenza contro le
donne” comprende «ogni atto di violenza fondata sul genere che abbia
come risultato, o che possa probabilmente avere come risultato, un danno
o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le
minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà,
che avvenga nella vita pubblica o privata.» Nel secondo articolo si passa
poi ad elencare le principali, ma non uniche, tipologie di violenza, che
comprendono quelle in ambito familiare, quelle che avvengono all’interno
della comunità e le violenze perpetrate dallo Stato.
Prima di addentrarci ulteriormente nell’argomento è opportuno fare
alcune precisazioni linguistiche; le parole possono assumere significati
diversi a seconda del contesto a cui fanno riferimento, o posso addirittura
svuotarsi di ogni significato quando vengono utilizzare in modo
inconsapevole. Ogni parola ha in sé interpretazioni e sfumature che la
rendono viva e che possono evocare in chi la utilizza immagini ed
emozioni differenti; risulta dunque importante specificare fin dal principio
quale particolare significato si voglia attribuire a parole come “violenza” o
“vittima”, proprio perché troppo spesso un mancato chiarimento a
riguardo porta ad alterare la percezione di ciò che queste parole
rappresentano.
42
2.1 L’importanza del linguaggio
Vittime. Come nominare le persone che hanno subito violenza? La
maggior parte delle donne, ad esempio, tende a negare le violenze subite,
ma soprattutto, anche denunciando le violenze, rifiuta in qualche modo di
attribuirsi il termine vittima. Con l’espressione “vittima di violenza” si
rischia infatti di identificare l’intera persona con l’esperienza che ha
vissuto. Per comprendere questa distinzione si può fare un semplice
esempio con il quale chiunque si può identificare, basta ritornare con la
mente a quando si era bambini. Sarà capitato a tutti di combinare qualche
piccolo danno o disubbidire ai genitori. La differenza che intercorre tra
“essere un bambino cattivo” e “aver combinato un guaio” è la differenza
che intercorre tra l’identificarsi con il fatto avvenuto e riconoscere
semplicemente che il fatto sia avvenuto. Nel primo caso mi vedrò come
una persona cattiva, che rischia sempre di fare qualche danno e le persone
che ho intorno faranno altrettanto. Nel secondo riconosco di aver
disubbidito o fatto un danno, ma questo non presuppone un cambiamento
nella mia persona e quindi non darò per scontato che l’evento accadrà
nuovamente, ma anzi potrei imparare dall’errore commesso. L’esempio è
sicuramente banale, ma ci permette di capire l’enorme differenza che può
fare riferirsi ad una persona identificandola come vittima e quindi
presupponendo che resterà tale per sempre, oppure riconoscere che quella
stessa persona ha subito una violenza, ma che questo non riqualifica tutto
il suo essere e quindi che lei rimane anche altro.
Questa premessa era d’obbligo per specificare che scegliendo di
utilizzare il termine “vittima”, e non ad esempio il termine
“sopravvissuta” che si sta diffondendo nei Paesi anglofoni, non ci si
riferisce ad una persona che è vittima di violenze, ma che ha subito delle
violenze.
43
Violenza contro le donne. Secondo Massimo Greco e Laura Sabatino,
«utilizzando la locuzione “violenza contro le donne”, non si esplicita la
figura del perpetratore»1. In questo modo, anche in un contesto in cui si
sta esplicitamente parlando di violenza degli uomini contro le donne, si
finisce col concentrare tutta l’attenzione sulla vittima e non la si sposta
sull’attore maschile della violenza.
Nella maggior parte dei casi, la violenza è attuata dagli uomini nei
confronti delle donne; darle quindi un nome, facendo riferimento al
soggetto maschile che la agisce, può aiutare a suscitare negli uomini stessi
un senso di responsabilità e di consapevolezza nei confronti di un
problema culturale, quello appunto della violenza degli uomini sulle
donne, che «è il prodotto della costruzione sociale d’una forma particolare
di mascolinità (la mascolinità aggressiva)».2
Il termine violenza sarà perciò riferito a quella perpetrata nei
confronti di qualsiasi persona, sia essa donna o uomo, giovane o anziana;
con l’espressione violenza contro le donne si andrà invece ad indicare nello
specifico la violenza agita da un uomo nei confronti di una donna.
2.2 Il concetto di violenza
Parlando di violenza è innanzitutto opportuno chiedersi cosa si
intenda effettivamente con questo termine, anche a prescindere dal genere
verso il quale è compiuta. La violenza, secondo la definizione del
vocabolario Treccani, è da intendersi come «l’abuso della forza
(rappresentata anche da sole parole, o da sevizie morali, minacce, ricatti),
come mezzo di costrizione, di oppressione, per obbligare cioè altri ad agire
44
1 M. Greco, Lettere dal silenzio, FrancoAngeli, Milano, 2011, p. 222 Ivi, p. 34
o a cedere contro la propria volontà».3 Il concetto di violenza è di
conseguenza strettamente collegato a quello di potere, tanto che viene
considerata uno strumento del potere stesso. Esempio di ciò sono le
usanze delle società primitive4, che basavano sul sangue e sui delitti rituali
il loro ordine sociale. La violazione del tabù dell’omicidio, soprattutto di
un consanguineo, permetteva di impadronirsi del potere del sangue; l’atto
di violazione del corpo e della vita altrui consentiva al violatore di
acquisire prosperità e potenza. In queste società tribali l’attività rituale
degli uomini, seppur basata sulla violenza e lo spargimento di sangue, era
considerata pura, soprattutto in contrapposizione a quella femminile dato
che, in un contesto di antagonismo tra i sessi, la donna era considerata
pericolosa e impura5. In questo modo «la purezza finisce per essere
rivestita d’una efficacia magica rubata all’impurità. Con l’evoluzione delle
classi, la magia di purezza si concretizzerà nella sottomissione della
donna, nell’esaltazione della paternità, nella proprietà. […] la magia di
purezza sembra essere una risposta maschile alla magia d’impurità
considerata di pertinenza femminile»6. Così si evolvono rituali e credenze
arcaiche, la violazione dei tabù diviene prima sinonimo di purezza ed
infine assume le caratteristiche della sacralità, enfatizzando sempre più il
contrasto tra puro ed impuro, nel momento in cui il rituale magico diviene
pratica religiosa e si eleva nella spiritualità.
45
3 Voce “violenza” dal Vocabolario della Lingua Italiana Treccani,http://www.treccani.it/vocabolario/violenza/
4 J. Riest, Alla ricerca di Dio: la via dell’antropologia religiosa - vol.1, Editoriale Jaka Book, Milano, 20095 L’arcaico presupposto delle antiche strutture patriarcali riguardante l’impurità femminile è stato spesso ricondotto al sangue mestruale, considerato elemento magicamente contaminante (Lanternari). «Il motivo dell’impurità femminile è, credo, universale, dato che ovunque, in Asia come in India, come in Africa, presso gli Indiani nordamericani come presso gli Indios del Sudamerica il ritmico sanguinare colpì e allarmò la fantasia preistorica, pre-filosofica e pre-scientifica - e lo si ritrova infatti pulsare nel profondo delle mitologie più diverse» (Macciocchi).6 J. Ries, Alla ricerca di Dio: La via dell’antropologia religiosa - vol.1, cit., p.8
In passato dunque la violenza era una prerogativa di chi deteneva il
potere temporale o spirituale, come poteva essere il mago, lo sciamano, o
in ultimo il sacerdote; in molti antichi testi religiosi, tra cui ad esempio la
Bibbia o il Bhagavad-gita, si fa riferimento infatti a svariate forme di
violenza come manifestazioni di potere. Come osserva la sociologa Ignazia
Bartholini «Il Dio dell’Antico Testamento è, in tal senso, un Dio terribile
“che magnifica la sua potenza, più importante della giustizia”, e la cui
stessa natura è sublime “perché suscita terrore»7. La violenza associata alla
spiritualità è dunque divina e spesso purificatrice; basti pensare
all’episodio biblico in cui si narra la distruzione di Sodoma e Gomorra,
perfetto esempio di come la violenza possa essere un simbolo di salvezza.
Nell’evolversi delle culture, dei loro rituali e delle religioni, il male e
dolore fisico è quindi vissuto anche come un bene sociale; in un contesto
nel quale si vanno distinguendo delle polarità così contrastanti come puro-
impuro, materiale-immateriale, la separazione tra fisicità e spiritualità
viene enfatizzata e la violenza sul corpo viene sempre più esaltata come
mezzo per l’elevazione dello spirito8. Proseguendo nell’esempio possiamo
osservare che «anche la violenza perpetrata sul corpo di Cristo può essere
letta antropologicamente come male agito su una persona e finalizzato a
fin di bene, addirittura per il bene dell’intera umanità; […] In questo caso
il male, anzi, il male dell’intera umanità, è stato concentrato in un corpo da
martoriare […].»9
Ritornando quindi alla questione della violenza sulle donne,
possiamo ricollegarla a due diversi ed atavici concetti: l’idea della donna
46
7 I. Bartholini, Violenza di prossimità: la vittima, il carnefice, lo spettatore, il "grande occhio", FrancoAngeli, Milano, 2013, p. 538 Si vedano le cosiddette pratiche di mortificazione corporale, come ad esempio l’utilizzo del cilicio o di strumenti simili, che rientrano nell’antica tradizione ascetica della Chiesa e sono stati impiegati dalla maggior parte dei santi [fonte: Opus Dei]http://opusdei.it/it-it/article/a-proposito-di-un-libro-sull-opus-dei/9 C. B. Tortolici, Violenza e dintorni, Armando Editore, Roma, 2005, pp. 76-77
collegata all’impurità e l’idea della violenza sul corpo come mezzo di
esaltazione e purificazione spirituale. La donna, supremo simbolo di
impurità e tentazione, si trasforma in capro espiatorio, oggetto della
salvezza attraverso la sofferenza. Su di lei vengono proiettati peccati e
negatività che, tramite la mortificazione della fisicità femminile, vengono
espiati e purificati. Il corpo della donna diviene un luogo da violare e la
salvezza che ne deriva assume connotati tanto più potenti quanto più
sacro viene considerato questo luogo. E sacro lo è, se lo si pensa come il
luogo dell’origine della vita.10
Questa sacralità teorica veniva tuttavia rinnegata dalla pratica della
tradizione, che identificava nel sistema riproduttivo femminile il centro
dell’impurità. Emblematico è il trattamento della puerpera che, già
nell’antica Grecia, era considerata impura quanto un cadavere. In ogni
cultura e religione alle donne è quindi stato vietato di entrare nei luoghi di
culto o addirittura di avere un qualsiasi contatto con altre persone almeno
per 40 giorni11 dopo il parto. A quel punto era richiesta loro una
purificazione, che poteva comprendere preghiere o sacrifici rituali.
Richiamando l’esempio della caccia alle streghe riportato nel primo
capitolo, possiamo osservare un collegamento tra questa idea del parto e
le persecuzioni avvenute. Come evidenziato, una gran parte delle vittime
della caccia alle streghe erano infatti madri o levatrici ed il pregiudizio nei
confronti del parto e del contatto con la femminilità aveva quindi
certamente contribuito ad aumentare il numero di donne considerate
47
10 Ivi, pp. 78-7911 Ad esempio nella cultura ebraica una donna che abbia partorito un bambino non può accedere ai luoghi di culto per 40 giorni, mentre partorendo una bambina l’interdizione arriva ad 80 giorni.
impure e perseguitate ingiustamente. Secondo il Malleus Maleficarum12,
l’essere femminile era veicolo di peccato e di seduzione pericolosa; le
torture volte a strappare confessioni erano soprattutto a sfondo sessuale e
miravano a sfregiare la femminilità della donna, mutilandola nelle sue
parti intime, a spezzarne il corpo e lacerarne lo spirito, in un assurdo
eccesso di crudeltà.
Il tema dell’impurità della donna si riflette anche sui metodi per
l’uccisione adottati dall’Inquisizione, il cui strumento privilegiato era il
rogo in quanto al fuoco era attribuita la capacità di purificare le streghe dal
male. Anche se erano molteplici le torture che potevano condurle alla
morte e molto spesso l’acqua era utilizzata come elemento rivelatore dei
loro peccati,13 i resti delle vittime venivano comunque molto spesso
bruciati in un rogo per completare il rito di purificazione.
Allora come oggi l’azione violenta si concentra sul corpo della donna
«come se fosse creta da modellare, un magma che deve prendere una certa
forma».14 Quale forma? Secondo la teoria di Consuelo Corradi, che fa
riferimento alla cosiddetta violenza di massa ma che può applicarsi anche
ai casi di violenza privata, al corpo della vittima è attribuito un valore
48
12 Il Malleus Maleficarum (Il Martello delle Streghe) è un trattato sulla persecuzione delle streghe, scritto nel 1486 da Heinrich Kramer e Jakob Sprenger, due frati domenicani tedeschi. Lo scopo del libro era quello di illustrare le forme di stregoneria esistenti all’epoca, sottolineando che a praticarla erano più spesso le donne rispetto agli uomini, e diffondere l’utilizzo delle procedure consigliate nel testo stesso per la ricerca e la condanna delle streghe. Il fatto di ritenere le donne maggiormente vulnerabili alle tentazioni demoniache affondava le radici nella convinzione che esse avessero una fede più debole e una carnalità maggiore rispetto agli uomini. [Fonte: H.P. Broedel, The Malleus Maleficarum and the Construction of Witchcraft, Manchester University Press, 2003]13 Uno dei metodi utilizzati per verificare la colpevolezza della donna accusata di stregoneria era gettarla in uno specchio d’acqua o in un fiume con mani e piedi immobilizzati oppure legata ad una sedia; se questa riusciva in qualche modo a rimanere a galla l’accusa di stregoneria era confermata.14 C. Corradi, Sociologia della violenza: modernità, identità, potere, Maltemi Editore, Roma, 2009, p. 35
illusorio all’interno di una relazione di potere. Nel momento in cui si
confronta una persona con l’immagine idealizzata e si scopre che questa
non corrisponde al modello con il quale ci si vuole relazionare, si ricorre
alla violenza che «separa il corpo dalla persona concreta cui appartiene al
fine di trasformarlo in un’astrazione, in un modello puro»15.
Il corpo femminile è poi da sempre il bersaglio di modificazioni
anche auto-inflitte, ulteriore forma di violenza che scaturisce dalla
pressione culturale che spinge ad adattarsi a modelli imposti; basti
pensare al Rinascimento quando le nobildonne solevano strapparsi i
capelli all’attaccatura della fronte poiché andava di moda averla molto
alta, o a tutti gli impianti e gli interventi di chirurgia che oggigiorno
stanno diventando sempre più comuni anche tra le giovani donne, i cui
corpi sono sottoposti all’opprimente confronto con regole ossessive e
minuziose, per non entrare poi nel merito della questione delle
mutilazioni genitali femminili, che spesso segnano in profondità anche la
psiche delle bambine e delle donne che vi sono sottoposte. Queste
alterazioni del corpo, più o meno estreme, vanno a coinvolgere
concretamente ed in profondità l’identità della persona, «il corpo diventa
uno dei marcatori più evidenti dell’appartenenza sociale di un individuo,
della sua condizione di escluso o integrato in una comunità attraverso un
lavorio estetizzante o erotizzante.»16
La violenza è dunque imposizione fisica, materiale, sia diretta,
attraverso la violazione del corpo altrui, sia indiretta, attraverso
l’imposizione culturale; è associata all’esercizio del potere, soprattutto
concreto e maschile, ed alla purificazione del corpo, soprattutto quello
femminile. Ma la violenza non è solo legata alla fisicità. La violenza è
49
15 Ibidem16 Ivi, p. 37
anche uno dei modi in cui si crea l’illusione dell’identità e dell’unicità di
questa in un mondo che da sempre si evolve più rapidamente di quanto
non siano in grado di fare la consapevolezza e le tradizioni umane. Come
sostiene la ricercatrice Ignazia Bartholini, nella società contemporanea gli
individui, perdendo le categorie classiche con cui identificarsi, che
possono essere, ad esempio, il genere o lo status sociale, anche in relazione
alla professione, e ritornano ad interagire tra loro tramite modelli arcaici
«basati su passioni non mediate: l’amore oppure l’odio, l’attrazione
sessuale o la violenza sessuale e finalizzati all’esercizio del potere come
rappresentazione di sé.»17 All’interno delle relazioni, gli individui fanno
della violenza il modello in base al quale realizzare se stessi e definire la
propria identità. Con la mancata identificazione in ruoli specifici e la
conseguente perdita di identità si finisce con l’adottare nuovi ruoli, più
cruenti, per riottenere il controllo sull’immagine di sé. L’uomo viene
quindi dominato dall’insicurezza «e la frustrazione crescente trasforma un
potenziale aggressivo nella realtà di diverse forme di violenza
distruttrice»18. I meccanismi di globalizzazione e la sempre maggiore
mancanza di contatto autentico, minano il riconoscimento della persona,
«la modernità intesa come regno burocratico del disincantamento sembra
voler confondere le singolarità individuali in un unico sé neutro. Per
questo non è la differenza ma una pericolosa omogeneità che costituisce il
nucleo sulfureo della violenza»19. L’individuo si rende, tramite la violenza
riconoscibile attraverso lo sguardo dell’Altro, che diventa strumento di
affermazione dell’identità. Vittima e carnefice condividono così una
relazione nevrotica, con un senso di teatralità che li porta ad interpretare
50
17 I. Bartholini, Violenza di prossimità: la vittima, il carnefice, lo spettatore, il "grande occhio", cit., pp. 51-5218 E.Giusti - L.Fusco, Uomini: psicologia e psicoterapia della maschilità, Sovera, Roma, 2002, p. 6119 C. Corradi, Sociologia della violenza: modernità, identità, potere, cit., p. 32
dei ruoli socialmente riconoscibili. Quanto più la realtà, e di conseguenza
il riferimento del potere, diventa intangibile, come avviene ad esempio
nella mondializzazione del mercato e dell’economia finanziaria, tanto più
sul piano individuale «la violenza assume i confini inquietanti del partner,
del compagno di scuola, della persona con cui si divide il proprio vissuto
in una relazione di prossimità».20 Il luogo comune, che identifica la
violenza come qualcosa di arcaico e superato nelle culture democratiche
moderne, che dovrebbero essere in grado di reprimerla, viene così
smentito nella pratica, dalle notizie che apprendiamo quotidianamente dai
mass media, come nella teoria: oggi come nel passato, l’individuo nel
mettere in atto comportamenti violenti utilizza la forza e la violenza, che
possono essere fisiche, psicologiche e simboliche, come strumento di
affermazione del proprio potere sull’Altro.
2.3 Le forme della violenza
A volte la violenza si palesa senza vergogna, mostrandosi
apertamente per quella che è, in modi che sono universalmente
riconosciuti. È il caso degli abusi fisici, delle percosse, dell’idea di stupro
che tutti condannano, dell’uccisione. Ma non sempre la violenza è così
evidente, può celarsi dietro molte maschere e può passare inosservata a
chi non la stia cercando o, piuttosto, non la voglia vedere; in questo caso la
violenza può essere psicologia, economica, spirituale21, culturale. Queste
tipologie di violenza sono inevitabilmente collegate, ad esempio la
violenza fisica è sempre preannunciata da una qualche forma di violenza
51
20 I. Bartholini, Violenza di prossimità: la vittima, il carnefice, lo spettatore, il "grande occhio", cit., p. 5221 Per violenza spirituale si intendono qualsiasi comportamento che denigri le credenze religiose o spirituali di una donna, le impedisca di praticare la sua fede o la costringa a partecipare a riti religiosi contro la sua volontà; inoltre sono compresi il maltrattamento o la minaccia di maltrattamento di donne o bambini in rituali religiosi o occulti.
psicologica, che molto spesso viene sottovalutata dalle vittime stesse che
non la riconoscono come tale. Inoltre è bene ricordare che in quest'ambito
rientra anche la cosiddetta violenza assistita. Con questo termine si
intende l'esperienza indiretta da parte di bambini e bambine di qualsiasi
forma di maltrattamento subito da figure di riferimento o amate. Anche
quando non sono direttamente coinvolti vedono, ascoltano e si rendono
sempre conto della violenza che subiscono le persone per loro importanti;
si può a stento immaginare cosa possa provare un figlio che assiste alle
violenze di un genitore nei confronti dell’altro. Le due persone che ama e
delle quali si dovrebbe poter fidare incondizionatamente, dalle quali si
dovrebbe sentire protetto sono quelle che lo fanno sentire insicuro,
spaventato. Così il bambino, invece di essere protetto, sente di voler
proteggere, senza però essere in grado di farlo. Per questo motivo è
fondamentale ricordare che i bambini che assistono a violenze domestiche
di qualsiasi natura da grandi potranno sviluppare disturbi dell'affettività
oppure modelli di comportamento analogo, agendo o subendo violenze a
loro volta.
Violenza Psicologica
Come sostiene la psicologa Sara Sandrini, socia della Casa delle
donne di Brescia, con il termine violenza psicologica si intende «una serie di
atteggiamenti e discorsi volti direttamente a denigrare l’altra persona e il
suo modo di essere. Rientrano in questa definizione tutte quelle parole e
quei gesti che hanno lo scopo di rendere l’altro insicuro, così da poterlo
controllare e sottomettere»22. Questo tipo di violenza è sottile, non lascia
segni visibili, ed è difficilmente dimostrabile, ma è una delle forme più
distruttive perché viola l’integrità mentale ed emotiva della vittima
52
22 La violenza psicologica, approfondimento pubblicato sul sito della Casa delle Donne di Brescia il 5 aprile 2014 - http://www.casadelledonne-bs.it/2014/04/la-violenza-psicologica/
portandola a provare un generale senso di inferiorità ed a non riconoscersi
più alcun valore come essere umano. È assolutamente normale che nella
famiglia, come in qualsiasi gruppo sociale, si creino delle conflittualità o
dei dissensi e questo crea numerose difficoltà nel riconoscere la violenza
psicologica, ma «diversa e patologica risulta la situazione familiare dove la
conflittualità si trasforma in aggressione e violenza».23
Le vittime di questa tipologia di violenza non sono esclusivamente
donne, anche se ne restano i bersagli privilegiati come anche della
violenza fisica, ma possono essere uomini, bambine, bambini e persone
anziane. Queste violenze sono mosse generalmente da un desiderio di
potere e controllo e possono concretizzarsi in gesti o parole volti alla
svalutazione ed all’umiliazione della persona, ad esempio in ambito
familiare come madre o padre, come figlio o come amante, e possono
implicare coercizione o privazione di alcune forme di libertà personali con
lo scopo di controllare ed isolare la vittima, ad esempio impedendole di
vedere amici o familiari.
Di questo fornisce alcuni esempi Patrizia Romito, citando delle
interviste condotte con donne vittime di violenze, con i quali illustra come
molte donne trovino più distruttiva e dura da tollerare questa violenza
rispetto a quella fisica:
«Mi diceva che sono grassa, che sono brutta, che si vergognava a portarmi fuori. E io andavo davanti allo specchio, non mi guardavo con gli occhi miei, mi guardavo con gli occhi suoi, mi dicevo ha ragione, e mi adagiavo. […]
Guai se i mie parenti mi chiamano, e guai se parlo al telefono con loro, ho
visto mia madre due volte in 18 anni, due volte, e mi mette contro i figli.»24
Ma le violenze psicologiche comprendono anche la trascuratezza,
l’esclusione, l’abbandono o il rifiuto del dialogo, la minaccia del
53
23 M. Strano, Manuale di criminologia clinica, SEE, Firenze, 2003, p. 77524 P. Romito, La violenza di genere su donne e minori: un’introduzione, FrancoAngeli, Milano, 2000, p. 59
danneggiamento di cose o persone care alla vittima, la gelosia patologica,
il ricatto, la manipolazione e la strumentalizzazione dei figli. La persona
può essere accusata di pazzia, ridicolizzata e criticata per ciò che fa, per le
sue capacità intellettive o per il suo aspetto fisico. «La violenza psicologica
può includere anche minacce o atti intimidatori quali lo sbattere le porte,
lanciare o rompere gli oggetti […] La minaccia di suicidio costituisce una
violenza di estrema gravità perché porta il partner a sentirsi responsabile
delle azioni dell’altro e a dover restare immobile per il timore delle
conseguenze di qualsiasi sua scelta»25. Altra forma tipica di violenza
psicologica consiste poi nel colpevolizzare la vittima, deformando
sistematicamente ciò che dice o fa, portandola a provare senso di colpa ed
insinuando in essa la convinzione di aver istigato la violenza con i suoi
comportamenti, e quindi meritato ciò che sta subendo; questa si trova
allora ad accettare continue umiliazioni, ritenendo di doversi rassegnare
per non compromettere il rapporto o, in presenza di figli, la stabilità della
famiglia. Le stesse persone alle quali la vittima si rivolge per chiedere
aiuto «familiari, operatori sociali e sanitari, poliziotti - spesso preferiscono
non vedere la violenza, non impicciarsene; sembrano condividere i valori
dell’uomo violento e gli danno ragione; colpevolizzano la donna e la
convincono a restare, per il bene dei figli o per il bene del marito (che è
disoccupato, frustrato, solo, infelice, ecc.); […] Come se non bastasse, si
trovano colpevolizzate, come se i loro eventuali problemi psicologici
fossero la causa delle violenze e non la loro conseguenza»26. Le vittime
restano così legate ai loro carnefici perché sentono minimizzato il loro
dolore, perché credono di poter ancora cambiare la situazione, perché non
54
25 La violenza psicologica, approfondimento pubblicato sul sito della Casa delle Donne di Brescia il 5 aprile 2014 - http://www.casadelledonne-bs.it/2014/04/la-violenza-psicologica/26 P. Romito, La violenza di genere su donne e minori: un’introduzione, cit., pp. 74-76
vogliono separarsi dai figli od obbligarli a separarsi dal genitore violento
ma pur sempre considerato figura di riferimento importante, non si
allontanano per senso del dovere sentendosi responsabili del benessere
altrui più del loro stesso, o spesso perché le violenze e le umiliazioni
subite, lo svilimento costante della loro persona le ha davvero portate a
credere di non valere niente e di non essere in grado di farcela. Eppure,
come sostiene il Magistrato Domenico Chindemi, «la eventuale, ma
statisticamente rara sentenza di condanna rappresenta per la vittima il
pubblico riconoscimento della sua sofferenza ed è quindi indispensabile
per stare meglio psicologicamente»27.
Per concludere l’elenco, come forme di violenza psicologica, si
possono citare anche lo stalking28, il mobbing29 e la violenza economica30.
«All'interno della coppia, il clima di violenza genera un circolo vizioso che
si autoalimenta e genera conseguenze sempre più gravi. Si instaura in
modo graduale, attraverso litigi che, inizialmente banali, col tempo
55
27 Le vittime si rendono sempre conto della violenza psicologica? Intervista esclusiva al Magistrato Domenico Chindemi, articolo pubblicato sul sito www.sanremonews.it il 16 novembre 201428 Lo stalking (traducibile con “fare la posta” o “avvicinarsi di soppiatto”) è una forma di violenza ossessiva e persecutoria che crea una relazione forzata e controllate tra persecutore e vittima e che finisce per condizionare il normale svolgimento della vita quotidiana di quest’ultima, provocando un continuo stato di ansia e paura. Quindi è la modalità ripetuta nel tempo, contro la volontà della vittima, che riassume in sé il principale significato delle condotte persecutorie. Lo stalking consiste, ad esempio, in: telefonate, e-mail, pedinamenti, diffamazioni e minacce.[estratto dal sito dell’Arma dei Carabinieri www.carabinieri.it]29 Il mobbing si può definire come una persecuzione, sistematica e protratta nel tempo, esercitata sul luogo di lavoro da parte di colleghi o superiori nei confronti del lavoratore ed avente come obiettivo le sue dimissioni. Consiste in atteggiamenti ostili, ad esempio, di emarginazione, maldicenza, sabotaggio professionale, mancato accesso a informazioni, cambiamento di sede forzato, ma può sfociare anche in aggressioni fisiche più o meno dirette. [estratto dal sito dell’Arma dei Carabinieri www.carabinieri.it]30 La violenza economica consiste in forme dirette ed indirette di controllo sull’indipendenza economica, come ad esempio vietare o impedire il lavoro o la formazione, privare del denaro o esercitarvi un controllo eccessivo, impedire l'accesso al conto bancario condiviso, sfruttare il lavoro, impedire la libertà d'acquisto o rinfacciarla e stigmatizzarla se esercitata, costringere all'assunzione di impegni finanziari. [E. Giordano - M. Masellis, Violenza in famiglia: percorsi giurisprudenziali, Giuffrè Editore, Milano, 2011]
diventano più frequenti e intensi, fino a quando la situazione precipita ed
esplode l'aggressività. Quasi sempre, ai maltrattamenti seguono periodi di
"luna di miele", in cui il partner si dimostra particolarmente affettuoso e
disponibile, che, però, non durano a lungo. Così il "ciclo della violenza"
ricomincia di nuovo»31. Tali atteggiamenti si manifestano quindi
gradualmente nella relazione, ma protraendosi ed accentuandosi nel
tempo portano ad un processo di distruzione psicologica della persona,
maschio o femmina che sia, che ne è oggetto. La sistematica umiliazione
mina la sua autostima ed il costante disprezzo al quale è esposta porta la
persona stessa a disprezzarsi e a sentirsi immeritevole di amore e rispetto.
Le vittime di questi abusi provano un forte senso di vergogna per ciò che
subiscono e spesso non chiedono aiuto per paura di essere derise oppure
accusate di falsità, ma molto spesso la mancata denuncia di queste
situazioni porta ad un’escalation dei maltrattamenti che può sfociare in
violenze dagli esiti anche fatali. La minaccia tuttavia non proviene solo
dall’aggressore: il senso di insicurezza e di isolamento, la convinzione di
non avere vie d’uscita, spesso spinge le vittime in stati di depressione più
o meno acuta che possono sfociare anche nell’autolesionismo ed infine nel
suicidio32.
Violenza Fisica
La violenza fisica segue sempre o quasi sempre la violenza
psicologica. Consiste in qualsiasi forma di aggressività e di
maltrattamento contro la persona volta a procurare dolore o terrorizzare la
vittima e che generalmente comporta l’uso della forza. Si manifesta con
azioni come lanciare oggetti, spingere, schiaffeggiare, percuotere con o
56
31 http://www.carabinieri.it/Internet/Cittadino/Consigli/Tematici/Questioni+di+vita/Violenza/Violenza e abuso: chi, come, quando, perché. Pagina aggiornata al 30/09/201032 A. M. Giannini, Itinerari di vittimologia, Giuffrè Editore, Milano, 2012
senza l’ausilio di oggetti, strangolare, ustionare, infliggere ferite, torturare
ed arriva a comprendere l’uccisione.
I segni sul corpo sono marchi di dominio, la conferma della
sottomissione dell’altro; il corpo rappresenta il luogo dell’identità e per
questo la devastazione psicologica che causa la sua violazione ha
conseguenze che vanno bel oltre quelle fisiche. La dottoressa Marta
Bianchi in un articolo riporta la testimonianza di una vittima di violenza
«Quando chiudo gli occhi rivedo le torture fisiche; avrei voluto morire,
sparire, ma non se ne ha il diritto. I ricordi che più mi arrivano sono quelli
dell'odore del mio sangue […]. So che l'atteggiamento giusto sarebbe
quello di dire che il passato è passato e mettere tutto alle spalle, ma so
bene che niente rimarginerà le profonde ferite. Quando vedi sulla tua pelle
i segni della tortura, del coltello, dei lacci ai polsi tutto diventa indelebile e
viene inciso nella tua anima»33. Le conseguenze della violenza, come si
evince dalla testimonianza, comportano una serie di problemi di salute
non solo fisica, ma anche psichica; dolori cronici, dipendenza da farmaci o
droghe, perdita di autostima, depressioni sono solo alcuni dei sintomi di
questo genere di trauma. «Anche se le ferite rappresentano solamente una
parte degli effetti avversi sulla salute delle donne, sono una delle
conseguenze più visibili della violenza. La tipologia dei danni subiti va
dagli ematomi e le fratture, all'invalidità permanente, come la perdita
parziale dell'udito o della vista, allo sfiguramento dovuto alle
bruciature»34.
In alcuni casi chi subisce questo tipo di abusi cade in forme di
depressione così profonde da non riuscire a vedere altra soluzione che il
suicidio. Questo perché la maggior parte delle violenze avviene in ambito
57
33 M. Bianchi. La violenza fisica sulla donna, http://www.psicologiadonna.altervista.org/violenzafisica.html34 Ibidem
domestico e familiare; secondo un rapporto dell’UNICEF «La violenza
nell’ambiente domestico è di solito opera degli uomini che con le vittime
hanno, o hanno avuto, un rapporto di fiducia, di intimità e di potere:
mariti, fidanzati, padri, suoceri, patrigni, fratelli, zii, figli, o altri parenti.
La violenza domestica nella maggioranza dei casi viene commessa dagli
uomini contro le donne. Anche le donne possono essere violente, ma i loro
atti ammontano ad una percentuale minima dei casi»35.
Il fatto che la maggior parte delle violenze avvenga in ambito
familiare, anche a prescindere dal soggetto maschile o femminile della
violenza, implica che molto spesso le vittime si vedano costrette a scegliere
se distaccarsi dalla situazione di sottomissione, o rimanervi, ad esempio
rivolgendo il pensiero ai figli che nel caso rimarrebbero in qualche modo
privi di uno dei due genitori. Il ritrovarsi in una situazione di questo tipo è
quindi un ulteriore motivo di disagio e può essere interpretata come una
forma di violenza psicologica indiretta.
Bisogna infine considerare che un esito estremo della violenza fisica
consiste nell’uccisione della vittima e che numerosi sono i casi che
avvengono proprio nell’ambito familiare. «L’omicidio del coniuge o del
partner è un crimine domestico drammaticamente diffuso […] In Italia, nel
biennio 1993-1994 si sono registrati oltre 400 casi di omicidio e di tentato
omicidio fra parenti e partner. In pratica un omicidio su 5 risulta un
“omicidio domestico” […]. l’omicidio all’interno delle coppie è in primo
luogo un omicidio di genere e ciò perché la quasi totalità delle vittime è di
sesso femminile, con autori di sesso maschile».36 Gli uomini che uccidono
le loro compagne o mogli quasi sempre fanno precedere all’atto
dell’uccisione numerose violenze ed abusi all’interno della coppia, che
58
35 UNICEF, La violenza domestica contro le donne e le bambine, Innocenti Digest, n° 6 giugno 2000
36 M. Strano, Manuale di criminologia clinica, cit., pp. 353-354
possono protrarsi per anni; esercitano un potere assoluto sulla famiglia,
che ritengono esistere solo in funzione loro e perché sono loro a
comandarla; ciò che li spinge a portare queste violenze all’estrema
conseguenza è molto spesso quindi un gesto che percepiscono come una
minaccia alla loro autorità assoluta, come ad esempio la decisione della
donna di allontanarsi per sottrarsi alle violenze.
Quando a commettere l’omicidio è invece la donna, l’elemento
scatenante è quasi sempre «un prolungato periodo di abuso da parte del
partner che sarà poi vittima dell’omicidio».37
Violenza sessuale
Una particolare forma di violenza, sia fisica che psicologica, è la
violenza sessuale, che «si configura come un atto di prepotenza e di
sopraffazione che esprime una volontà di potere e di dominio dell’uomo
sopra la donna»38. Questo tipo di abuso «comprende l’imposizione di
pratiche sessuali indesiderate o di rapporti che facciano male fisicamente e
che siano lesivi della dignità, ottenute con minacce di varia natura»39 e
quindi imposte contro la volontà della vittima, ma consiste anche in
comportamenti a sfondo sessuale e in qualsiasi forma di sessualità
passiva. Nella violenza sessuale rientra dunque una vasta gamma di atti
quali, ad esempio: contatti intenzionali col corpo, avance pressanti, stupro,
prostituzione forzata, richieste a sfondo sessuale in cambio di favori,
matrimonio o coabitazione forzata.
Gli uomini, dal canto loro, cercano di giustificare la violenza
appellandosi a luoghi comuni e «miti dello stupro: la donna aveva un
comportamento seduttivo, li aveva provocati (per esempio, accettando un
59
37 Ivi, pp. 355-35638 E. Ciconte, Storia dello stupro e di donne ribelli, Rubbettino Editore, 2014, eBook39 http://www.direcontrolaviolenza.it/cose-la-violenza-contro-le-donne/
passaggio in macchina, chiedendo aiuto per cambiare un pneumatico ecc.).
[…] Il concetto di “vis grata puella” (la violenza è gradita alla fanciulla) è
stato un cavallo di battaglia della difesa degli stupratori nelle aule dei
tribunali»40. L’imposizione di un’intimità indesiderata è in realtà un atto
estremamente umiliante, che provoca nelle vittime profonde conseguenze
psicologiche oltre che fisiche; il «termine “violazione” richiama molti
connotati semantici: è profanazione, sacrilegio, oltraggio, offesa,
prepotenza, abuso, violenza, e a sua volta, il termine violenza richiama il
significato di qualcosa che agisce con forza, con impeto e con irascibilità.
Se si riflette su tutte queste componenti, si può comprendere quanto grave
sia lo stupro per una donna che lo subisce»41. Le persone che incorrono in
questo tipo di violenza finiscono per essere considerate semplicemente
oggetti, vengono depredate della loro stessa natura di esseri umani e a
quel punto il loro dolore, il fardello psicologico che si porteranno dietro
per tutta la vita, non viene immaginato né tantomeno tenuto in
considerazione; quando poi gli stupratori sono persone conosciute
(partner, padri, zii, fratelli, amici, colleghi) «le conseguenze sul benessere
fisico e psicologico della donna, sulla fiducia in sé stessa e negli altri, sul
suo sentimento di poter esercitare un controllo sul mondo possono essere
devastanti e perdurare a lungo»42. Marchiare con la violenza il corpo di un
individuo significa renderlo una perenne testimonianza della prepotenza e
della potenza esercitata su di esso e la «massima violenza che si perpetra
sulla donna è lo stupro. Lo fa il singolo uomo che crede in tal modo di
testimoniare la sua potenza nei suoi confronti, ma lo praticano anche
ragazzi ed uomini in gruppo quando, insieme, vogliono sentirsi i detentori
di una forza punitiva o quando si riuniscono in branco per cercare la forza
60
40 P. Romito, La violenza di genere su donne e minori: un’introduzione, cit., pp. 28-3941 C. B. Tortolici, Violenza e dintorni, cit., p. 7942 P. Romito, La violenza di genere su donne e minori: un’introduzione, cit., p. 22
di avere un rapporto sessuale che da soli non riescono ad avere: credono
che questo sia il modo di risolvere la loro impotenza sessuale. La donna,
nell’uno e nell’altro caso, è un oggetto da rompere, è un ‘luogo’ da violare
[…]. L’uomo che violenta la donna che lo ha rifiutato crede di riscattare il
rifiuto subito, e quando agisce con altri crede di poter dimostrare la
propria forza decisionale ed operativa; consapevole della sua nullità,
l’azione di violenza per lui assume il significato di una rivincita»43. Lo
stupro, l’abuso sono sintomi dell’incapacità di chi commette certi atti di
violenza di riconoscere l’altro, di vederlo come un essere umano suo pari,
con i suoi bisogni, i suoi desideri ed i suoi diritti. In questo senso una
sentenza del 1853 citata da Enzo Ciconte e riferita alla violenza subita da
una prostituta fa chiara luce sul fondamentale concetto del riconoscimento
della libertà della persona: «Anche il più abituale libertinaggio non
impedisce che il fatto costituisca reato giacché la vita libertina di una
donna non dà diritto a chicchessia di violentarla; essa non ha mica
venduta la libertà della propria persona»44.
Nella stessa ottica di libertà della persona è importante osservare
come lo stupro coniugale sia ancora in molti casi ignorato, sottovalutato o
addirittura considerato come un crimine meno rilevante rispetto alla
violenza perpetrata al di fuori della coppia. Eppure secondo il rapporto
Hidden in Plain Sight dell’UNICEF circa 84 milioni di donne e ragazze in
190 Paesi hanno subito violenze psicologiche, fisiche o sessuali nel
contesto di relazioni stabili e di queste quasi il 70% non ha mai chiesto
aiuto perché ritenevano che fosse in qualche modo lecito per l’uomo
abusare di loro, e in ogni caso «ammettere di essere stata stuprata o
picchiata dal partner, può essere molto doloroso e difficile, a volte
61
43 C. B. Tortolici, Violenza e dintorni, cit., p. 7844 E. Ciconte, Storia dello stupro e di donne ribelli, cit.
addirittura impossibile»45. All’interno di una relazione intima lo stupro è,
più di ogni altro tipo di violenza, considerato marginale e difficilmente
dimostrabile a meno che non sia accompagnato da altri visibili abusi fisici
o evidenti violenze psicologiche. Questa visione è probabilmente legata
allo stereotipo della moglie e dei suoi doveri coniugali, che riescono
ancora oggi a prevalere anche sui diritti umani più diffusamente
riconosciuti. Non sono rari i casi di cause legali che richiedono
innumerevoli elementi di prova della violenza avvenuta e sentenze che,
anche dopo la conferma del fatto avvenuto, depenalizzano la violenza
coniugale arrivando anche a dimezzare la condanna rispetto allo stesso
atto compiuto al di fuori della famiglia. Una delle motivazioni della
tolleranza di queste violenze può essere trovata osservando che, negli
stereotipi culturali della maggior parte delle società del mondo, molto
spesso i rapporti sessuali all’interno della coppia sono considerati come
atti dovuti46; le donne stesse, pur sentendo l’abuso, provano vergogna nel
denunciarlo, credendo che la violenza subita sia in qualche modo naturale
e che per questo il dolore che provano sarà difficilmente riconosciuto e
creduto. Sono veramente poche le donne che denunciano lo stupro subito
e queste si trovano quasi sempre ad affrontare le critiche di chi dubita
della loro attendibilità, vengono accusate di ripicche e vendette o di
ingigantire i fatti, mentre la realtà è diametralmente opposta «cioè le
62
45 P. Romito, La violenza di genere su donne e minori: un’introduzione, cit., p. 1946 Si veda ad esempio il concetto di doveri coniugali per la Chiesa cattolica, che fino a non molto tempo fa durante la confessione interrogava le donne sposate per verificare che, per l'appunto, adempiessero ai loro doveri. Un ulteriore esempio è il Codice di famiglia etiope del 1995, il quale prevede che uno dei doveri fondamentali sia quello della coabitazione, che include il debito coniugale; per la giurisprudenza etiope, dunque, il rifiuto del rapporto sessuale viola i doveri coniugali e la diretta conseguenza di questo è la non punibilità dello stupro del marito nei confronti della moglie.
donne subiscono degli stupri molto più spesso di quanto loro stesse non
riconoscano»47.
Anche dopo l’eventuale separazione il rischio di continuare a subire
violenze è estremamente alto e queste possono diventare anche più
frequenti e più gravi, tanto che «una donna ha più probabilità di morire
quando lascia un uomo violento che quando resta con lui»48.
Violenza Culturale
Il caso dello stupro coniugale può rientrare anche nella complessa
categoria della violenza culturale; l’abuso sessuale in un contesto
domestico o intimo nella maggioranza dei paesi del mondo non è infatti
considerato come un reato e le donne stesse in molte società «non
considerano il sesso forzato come stupro se sono sposate, o coabitano, con
chi glielo impone. Sono circa 2,6 miliardi le donne e ragazze che vivono in
Paesi dove questa violenza non è esplicitamente criminalizzata49. Il
presupposto è che una volta che la donna si vincola con un contratto di
matrimonio, il marito ha il diritto di avere accesso sessuale illimitato alla
moglie»50. Ancora una volta la donna viene posta in uno stato di
dipendenza e subordinazione rispetto all’uomo; sottomessa, non può far
altro che accettare come doverose e normali delle violenze che, seppur
socialmente accettate ed accettabili, incidono profondi segni nel suo
animo. Questa è solo una delle molte varietà di pratiche tradizionali e
culturali che causano sofferenze e morte e alle quali sono sottoposte donne
e bambine in tutto il mondo. Altri esempi sono le mutilazioni genitali
63
47 P. Romito, La violenza di genere su donne e minori: un’introduzione, cit., p. 2548 Ivi, p. 6849 Ad oggi nel mondo solo 52 Paesi hanno riconosciuto lo stupro coniugale come reato50 UNICEF, La violenza domestica contro le donne e le bambine, Innocenti Digest, n° 6 giugno 2000
femminili, la violenza correlata alla dote, gli attacchi con l’acido, i delitti
d’onore, i matrimoni precoci e le uccisioni per stregoneria.
Si considerano mutilazioni genitali femminili tutte le procedure che
intenzionalmente modificano o causano ferite agli organi genitali
femminili senza alcuna ragione medica51. Si stima che ad oggi, solo nei
Paesi dove queste sono più comuni, siano circa 133 milioni le bambine e le
donne ancora in vita che sono state sottoposte a pratiche di mutilazione
genitale; anche in Europa all'interno di alcune comunità di immigrati,
anche di seconda o terza generazione, queste pratiche continuano ad
essere attuate. Tali pratiche, oltre a causare indicibili sofferenze fisiche,
causano duraturi traumi psicologici e possono comportare numerosi rischi
per la salute, provocare infertilità e persino la morte. Molto spesso le
vittime, dopo il matrimonio, devono essere nuovamente tagliate per
consentire i rapporti sessuali, mentre il momento del parto diventa
difficile e molto rischioso: per compensare la ridotta elasticità del tessuto
cicatriziale piccoli tagli si aprono, rischiando poi di infettarsi e
sviluppando in seguito altro tessuto cicatriziale che riduce ulteriormente
l’elasticità. Ogni parto diviene così sempre più lungo e doloroso52.
Per quanto riguarda la violenza correlata alla dote, malgrado sia stata
legalmente abolita in molti Paesi, è in costante aumento53. Nel momento in
64
51 Si veda ad esempio il caso dell’endometriosi, che si cura quasi esclusivamente con un intervento chirurgico agli organi genitali femminile e che per ovvie ragioni non può rientrare nella categoria delle violenze. Quindi nella categoria delle mutilazioni genitali femminili sono considerati esclusivamente gli interventi che non abbiano come fine la salute della donna, ma solo il perpetrarsi di barbare pratiche sociali e culturali.52 European Commission, Daphne Booklets: Issues and experiences in combating violence against children, young people and women - Harmful traditional practices, Luxembourg, 200753 In India nel 2006 le donne uccise per questioni di dote erano state 7.618 mentre nel 2011 8.618; un incremento è stato rilevato anche nelle violenze perpetrate dal marito e dalla famiglia del marito che, dai 63.128 casi del 2006, hanno raggiunto i 99.135 casi del 2011. La percentuale di condanne è tuttavia rimasta pressoché invariata: dal 33,7% del 2006 ha registrato un calo negli anni successivi fino ad arrivare al 35,8% del 2011. [UNFPA, Laws and son preference in India: a reality check, New Delhi, 2013]
cui le crescenti richieste del marito e della sua famiglia non vengono
soddisfatte, questi causano la morte della sposa, molto spesso in
“incidenti” domestici di cui il più frequente è l’incendio della cucina. Nel
2000 le Nazioni Unite hanno stimato che circa 5000 ragazze e donne
vengono uccise ogni anno54, più di 13 ogni giorno, per questioni legate alla
dote, ma sono purtroppo molti i casi che non rientrano in queste cifre
perché vengono ancora registrati come incidenti domestici.
L’attacco con l’acido è una forma di violenza premeditata e brutale che
consiste nell’utilizzare come arma delle sostanze corrosive allo scopo di
sfigurare, mutilare o uccidere una persona, nella maggior parte dei casi
una donna. Generalmente l’attacco è portato al volto, causando ampie
cicatrici e mutilazioni, nonché traumi psicologici. Queste violenze
finiscono col danneggiare l’intera esistenza della vittima, che oltre alle
conseguenze personali sarà costretta ad affrontare molto spesso anche il
rifiuto da parte della sua società. Più diffusa di quello che solitamente si
può pensare55, questo genere di violenza viene perpetrata nei confronti di
donne e bambine considerate molto spesso colpevoli di aver rifiutato
avance o proposte di matrimonio, prese di mira in contesti di faide
familiari o come ritorsione in seguito all’incapacità della loro famiglia di
soddisfare le richieste di dote.
Nella categoria dei delitti d’onore rientrano tutte le uccisioni di donne
al fine di preservare o riscattare l’onore loro e delle loro famiglie. Le cause
scatenanti possono essere le più varie, dall’innamoramento disapprovato
dalla famiglia, al presunto adulterio e persino in seguito a stupro. In molti
casi gli assassini sono i membri della famiglia più giovani, così da evitare o
65
54 UNFPA, Laws and son preference in India: a reality check, New Delhi, 201355 In tutto il mondo sono stimati più di 1500 attacchi con l’acido ogni anno, ma è probabile che il numero sia nettamente superiore, dato che sono molte le vittime troppo spaventate per denunciare la violenza.
ridurre al minimo le condanne, dove previste. Sono molte nel mondo le
donne vittime di questi delitti, ma come per tutte le altre forme di violenza
i numeri ufficiali sono sempre inferiori alla realtà, dato che molti di questi
atti vengono classificati come incidenti o suicidi.
Il matrimonio precoce, altrimenti conosciuto come fenomeno delle
spose bambine, è una forma di violenza che interessa centinaia di milioni
di bambine e ragazze in tutto il mondo; le priva della libertà, in quanto
avviene anche senza il loro consenso, compromette la loro salute fisica e
psicologica, le espone a malattie sessualmente trasmissibili e conduce a
gravidanze infantili, pericolose sia per i figli che per le madri. Infine, per le
bambine che vengono date in sposa in tenera età, il tasso di incidenza di
altri tipi di violenze e abusi è nettamente superiore rispetto a quello delle
donne che si sposano dai 18 anni in poi.
Un’altra forma di violenza culturale è l’uccisione di donne accusate
di stregoneria, un fenomeno ancora significativo in molti Paesi dell’Africa,
dell’Asia e delle isole del Pacifico e che risulta attualmente in aumento.
L’accusa di stregoneria è spesso usata come pretesto per mascherare abusi
contro le donne e porta al rapimento ed alla sparizione di donne e
bambine, che vengono sottoposte a pubbliche cerimonie di esorcismo che
comprendono violente percosse, abusi sessuali, mutilazioni, per poi
sovente concludersi con brutali assassinii o roghi. Nella maggior parte dei
casi sono le giovani donne ad essere accusate di stregoneria, ma spesso
sono le anziane, soprattutto vedove, ad essere più esposte e vulnerabili a
queste violenze, non avendo figli o parenti che le possano proteggere, o
venendo accusate dai loro stessi familiari che mirano ad impossessarsi
delle loro proprietà. Coloro i quali mettono in atto le torture e le uccisioni
sono quasi esclusivamente uomini che, quando si trovano di fronte una
donna che considerano un ostacolo posto tra loro e ciò che desiderano,
66
non esitano ad accusarla di stregoneria per sentirsi, e in alcuni casi essere,
liberi di torturarla e ucciderla. In alcuni Paesi, infatti, muovere questo tipo
di accuse permette di ottenere attenuanti, riduzioni di pena o in alcuni casi
la completa assoluzione56.
Gendercidio. Il termine è stato introdotto nella lingua inglese per
analogia alla definizione dell’Oxford English Dictionary di genocidio
come "lo sterminio intenzionale di una razza di persone" e riferendolo
quindi allo sterminio deliberato di persone di un determinato sesso basato
sulla discriminazione sessuale. Il termine è volutamente neutro, in quanto
l’uccisione sessualmente discriminatoria viene condannata a prescindere
dal sesso della vittima57.
In alcuni Paesi per molti anni è stato rilevato un rapporto distorto tra
i sessi, nel senso che la popolazione maschile censita risulta maggiore
rispetto a quanto ci si aspetterebbe sulla base dei normali tassi di natalità e
mortalità. Questo squilibrio è spesso il risultato della preferenza accordata
ai figli maschi in base a preconcetti culturali e contesti economici o sociali
che spingono ad avere famiglie più piccole. Tali squilibri sono stati
segnalati soprattutto in Cina e in India, ma sono stati osservati anche in
altri Paesi quali Vietnam, Albania, Azerbaigian e Georgia. La
discriminazione nei confronti della popolazione femminile ha portato ad
un crescente squilibrio a favore del sesso maschile, con famiglie che hanno
attuato per molti decenni pratiche selettive quali l'infanticidio, o di recente
tecniche più moderne come i test ad ultrasuoni seguiti da aborti selettivi,
per garantirsi figli maschi. Dai rapporti internazionali risulta che ancora
67
56 Ad esempio in Papua Nuova Guinea una legge in vigore fino al 2013 «offriva forti attenuanti per crimini violenti, se l’accusato aveva agito per fermare atti di stregoneria» [Fonte: Amnesty Internationa, newsletter n. 76 – giugno 2013 ]57 European Commission, Daphne Booklets: Issues and experiences in combating violence against children, young people and women - Harmful traditional practices, Luxembourg, 2007
oggi potrebbero essere ben 100 milioni le donne mancanti58, per questo la
selezione del sesso prima della nascita e l’incuria o maltrattamento delle
bambine59 restano una delle principali preoccupazioni delle
organizzazioni per la tutela delle donne e dell’infanzia. Inoltre, soprattutto
in Cina, sono stati constatati alti tassi di suicidi femminili, attribuiti allo
squilibrio tra i sessi, alla pressione sociale e psicologica esercitata sulle
donne richiedendo loro figli maschi e un trattamento preferenziale dei
maschi nella società.
Le violenze finora citate sono solo alcune delle tipologie di violenza
alle quali le donne di tutto il mondo sono sottoposte quotidianamente.
Anche se possono risultare apparentemente differenti e scollegate tra loro,
tutte queste violenze, agite nelle diverse società e su donne diverse, in
realtà sono accomunate da un’unica perversa motivazione: il
femminicidio, l’eliminazione della donna in quanto tale.
Femminicidio60
L’estrema violenza che un uomo può compiere nei confronti di una
donna è il suo assassinio. È sembrato opportuno dedicare uno spazio a sé
stante per questo tema e questo termine dato che ancora molte sono le
critiche alla sua introduzione ed al riconoscimento stesso dell’atto che
identifica, ossia l’assassinio di una donna in quanto donna. Con il termine
femminicidio non si intende differenziare le vittime, quasi avessero valori
68
58 L’espressione "donne mancanti" è stata coniata dall’economista e filosofo indiano Amartya Sen nel 1990 in riferimento alla constatazione che in alcune parti del mondo il rapporto complessivo tra donne e uomini risulta sospettosamente basso59 Le lesioni e gli “infortuni” rappresentano, in queste aree dove il rapporto tra i sessi risulta sbilanciato, una buona parte delle cause dei decessi femminili in eccesso.60 La parola femminicidio esiste nella lingua italiana solo a partire dal 2001. Nella lingua inglese invece, dal 1801 esisteva la parola femicide. La parola femminicidio si è diffusa nella lingua italiana a partire dal 2008. […] E' una parola formata del tutto regolarmente, unendo e componendo insieme la parola femmina, con quella parte finale -cidio, che ha il significato appunto di uccisione. Uccisione di una donna. [fonte: Treccani.it]http://www.treccani.it/webtv/videos/pdnm_della_valle_femminicidio.html#
differenti e l’uccisione di una donna potesse essere più o meno importante
di quella di un uomo. In una situazione che si possa definire neutra dal
punto di vista del genere, come potrebbe essere quella di una donna o di
un uomo uccisi in un incidente stradale, l’atto sarebbe indubbiamente da
identificare come omicidio per entrambi. La differenza dunque è nel gesto
e nelle motivazioni di chi lo compie; la parola femminicidio indica infatti,
secondo il vocabolario Zingarelli, «uccisione o violenza compiuta nei
confronti di una donna, spec. quando il fatto di essere donna costituisce
l'elemento scatenante dell'azione criminosa»61. Nel vocabolario Devoto-Oli
si trova poi un ulteriore specificazione, poiché in esso si intende per
femminicidio «qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente
sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice
patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare
l'identità attraverso l'assoggettamento fisico o psicologico, fino alla
schiavitù o alla morte»62.
Il termine si riferisce dunque non all’assassinio in sé, ma
all’intenzione dell’uomo che usa violenza o uccide una donna proprio per
il fatto di essere donna. Di queste azioni la storia è da sempre intrisa, ma
l’adozione di un termine che le metta in luce, che le renda in un certo
senso una categoria a parte, indica un cambiamento nella percezione del
fenomeno ed apre nuove prospettive di evoluzione culturale in quanto
introduce nella questione una nuova consapevolezza. È fondamentale
infatti rendersi consapevoli che la violenza e l’uccisione di una donna o di
una bambina è qualcosa di diverso dall’omicidio perché dietro un atto di
questo tipo si cela una visione culturale che identifica la femminilità come
69
61 Voce “femminicidio” dal Vocabolario della Lingua Italiana Zingarellihttp://dizionaripiu.zanichelli.it/parola-del-giorno/2012/11/25/femminicidio/
62 Voce “femminicidio” dal Vocabolario della Lingua Italiana Devoto-Oli, in http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/femminicidio-perch-parola
qualcosa di disprezzabile, di insignificante, di impuro, inferiore e
dominabile fino alle più estreme conseguenze. L’uccisione è dunque solo
un aspetto che va ad inserirsi in un quadro ben più grande di violenze e
abusi, ma che non sono semplici fatti concatenati. Il femminicidio non è un
mero insieme di atti criminali, è qualcosa di più, un concetto che va al di là
ed è maggiore della somma delle sue parti.
Questo particolare tipo di violenza è l’espressione di una concezione
plurimillenaria che fa del potere virile il suo principio cardine. Come è
emerso anche dalle ricerche svolte da Patrizia Romito, «sembra insomma
che i giovani maschi continuino a dare per scontata la loro supremazia, e
vivano le esigenze di autonomia e di eguaglianza delle ragazze come una
sfida a una posizione di dominanza, mai veramente rimessa in questione a
livello sociale»63. La ribellione femminile è quindi da sempre oggetto di
punizioni violente, eclatanti come i roghi della caccia alle streghe, che
servono a mantenere la donna sottomessa. In quest’ottica distorta la libertà
della donna è vista come una minaccia e la violenza come il modo per
affrontarla ed annientare una soggettività che in pratica non viene
percepita come tale. Per il termine stesso “femmina”, che secondo il
Malleus deriva etimologicamente «da “fede” e “meno”, perché ha sempre
minor fede e la serba meno»64, mentre nel vocabolario Treccani viene
riportato il significato di donna adulta «ma nel linguaggio comune è per lo
più spregiativo»65, ad indicare un atteggiamento culturale che considera la
donna non come un essere umano dotato di una sua individualità, ma
come un oggetto di cui è lecito rivendicare il possesso. La donna avrebbe
quindi, secondo questa mentalità, l’obbligo di interpretare il ruolo scelto
70
63 P. Romito, La violenza di genere su donne e minori: un’introduzione, cit., p. 6564 M. Summers, The Malleus Maleficarum of Heinrich Kramer and James Sprenger, Dover Publications, New York, 1971, p. 4465 Voce “femmina” in Dizionario Enciclopedico italiano - vol. IV, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, 1970, pp. 672-673
per lei dal maschio con il quale si relaziona di volta in volta; a seconda dei
casi dovrebbe perciò interpretare la vergine sottomessa, la brava moglie, la
puttana, senza mai poter scegliere cosa fare della propria vita, perché
come abbiamo visto la punizione è immediata ed ha molti modi di essere
attuata, dall’umiliazione allo schiaffo, dallo stupro all’assassinio. Un
esempio abbastanza recente di come questi modelli e stereotipi vengono
applicati alla donna, sottoponendola a valutazioni e critiche in qualsiasi
contesto della sua vita, lo si può trovare nell’articolo pubblicato dal
giornalista Massimo Fini nel 2009, che titolava «Una razza nemica, meglio
soli»66. In quell’articolo si può infatti ritrovare la descrizione, quasi
mitologica, dello stereotipo della donna sessualmente disponibile descritta
come «baccante, orgiastica, dionisiaca, caotica, per lei nessuna regola,
nessun principio può valere più di un istinto vitale. E quindi totalmente
inaffidabile. Per questo, per secoli o millenni, l’uomo ha cercato di
irreggimentarla»67. In questo senso la donna è vista come un essere dalla
sessualità irrefrenabile, così istintiva da divenire inaffidabile, totalmente
dominata dalle sue passioni. Ennesima giustificazione al sessismo e alle
violenze sessuali, ennesimo riferimento alle donne che se la cercano, che
«non fan che provocare, sculando in bikini, in tanga, in mini»68. Ma questa
donna non può soddisfare tutti i bisogni maschili, ecco dunque che viene
richiamato anche il modello della brava madre e moglie, figura ideale,
messa a repentaglio dalle donne stesse che, non più totalmente
assoggettate all’uomo, hanno preso a lavorare e che per questo oggigiorno
«han perso, per qualche carrieruccia da segretaria, ogni femminilità, ogni
dolcezza, ogni istinto materno nei confronti del marito o compagno che
71
66 F. Massimo, Una razza nemica, meglio soli, Il Resto del Carlino, 8 marzo 2009http://qn.quotidiano.net//2009/03/08/156544-razza_nemica_meglio_soli.shtml67 Ibidem68 Ibidem
sia, e spesso anche dei figli quando si degnano ancora di farli»69. Questo
tipo di mentalità è quella che ridicolizza le donne che lamentano le
molestie sul lavoro, che taccia di falsità quelle che denunciano le violenze
domestiche, che volta lo sguardo dall’altra parte e mormora a mezza voce
che in fondo è un caso isolato e frutto di problemi personali quando una
donna viene uccisa per la sola colpa di essere donna.
Per questo motivo ci sentiamo di affermare che il femminicidio non è
un fenomeno individuale. Sicuramente è il singolo uomo che, incarnando
queste idee, sente di avere il diritto di dominare la vita della donna, ma è
la cultura di violenza che ha ereditato e che ancora lo condiziona a
consentirglielo. La violenza non dipende dunque, come sostengono alcuni,
dai problemi psicologici del singolo, ma «riformare il comportamento
maschile e limitare la violenza, richiederebbe una ristrutturazione sociale
profonda, che certamente gli uomini, nel loro complesso, non hanno
nessun interesse a realizzare»70, perché in fondo è più semplice invitare le
donne ad evitare situazioni potenzialmente pericolose piuttosto che
«insegnare agli uomini a non stuprare, né molestare, neanche
verbalmente»71.
Femminicidio, quindi, diventa una forma di controllo sociale sulle
donne. Femminicidio come parola chiave per spezzare questo circolo
vizioso, introducendo nella società una nuova consapevolezza e sensibilità
nei confronti della violenza contro le donne, che ha mille volti e si
manifesta in modalità che molto spesso restano celate alla conoscenza dei
più. «La maggior parte delle persone non vede la continuità tra la
discriminazione sociale e professionale nei confronti delle donne e la
72
69 Ibidem70 P. Romito, Un silenzio assordante: la violenza occultata su donne e minori, FrancoAngeli, Milano, 2005, p. 7371 M. Borrelli, La cultura dello stupro vive assieme a noi, Orticalab.it, 19 novembre 2014http://www.orticalab.it/La-cultura-dello-stupro-vive
violenza contro di loro, […]. Molti trovano inaccettabili la violenza
“domestica” e gli stupri, ma ritengono normale farsi servire a casa,
controllare la loro compagna o commentare “scherzosamente” le
caratteristiche fisiche delle colleghe - peraltro quasi sempre meno pagate
di loro - sul posto di lavoro»72. Non considerare tutto ciò come un insieme,
mantenere separate le tipologie di violenza non fa che impedire la visione
d’insieme del problema, visione che se davvero fosse completa sarebbe
intollerabilmente straziante e forse questo è uno dei motivi per i quali si
cerca di evitarla, di sminuire, di riferirsi al caso isolato. Ma è esattamente
questo che la parola femminicidio sta combattendo: l’individualismo della
violenza, il considerarla qualcosa che non riguarda ognuno di noi solo
perché non tutti ne facciamo uso. Eppure siamo tutti membri della specie
umana e la violenza contro uno qualsiasi di noi dovrebbe essere sentita
come una violenza contro ciascuno di noi. E questa visione, questo
insegnamento, può venire dalle donne stesse, come afferma il dottor Denis
Mukwege73 che da oltre quindici anni in Congo soccorre ed aiuta le
vittime di violenze. Loro «combattono per i loro bambini, per la comunità,
per le altre donne e anche per me. È così commovente. Da loro ho
imparato a pensare agli altri. Quando riprendono conoscenza, dopo tutto
quello che hanno subito, la prima domanda che fanno non è mai per se
stesse, mai “che ne sarà del mio futuro?”, ma sempre “come stanno i miei
73
72 T. Ravazzolo - S. Valanzano (a cura di), Donne che sbattono contro le porte. Riflessioni su violenze e stalking, FrancoAngeli, Milano, 2010, pp. 22-2373 Denis Mukwege. (Bukavu, 1 marzo 1955) Dottore, fondatore e direttore del Panzi Hospital nella provincia del Kivu Sud, Repubblica Democratica del Congo. Insignito del premio Sacharov, del Premio Internazionale Primo Levi, del premio dei Diritti umani dell’Onu e candidato al Nobel per la Pace. Da più di quindici anni presta cure alle donne vittime degli stupri che, nel ventennale conflitto che imperversa in Congo, vengono utilizzati come arma da tutte le fazioni, trasformando il corpo delle donne in un nuovo campo di battaglia.
bambini, i miei genitori o mio marito”. Loro non danno solo la vita, la
proteggono»74.
2.4 L’estensione delle violenza: una valutazione statistica
Da quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel dicembre
1993 ha adottato la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le
donne e l’anno successivo la Commissione sui Diritti dell’Uomo ha
richiesto un’analisi del fenomeno della violenza contro le donne, sono
state numerose le indagini svolte al fine di documentare statisticamente il
problema. Quantificare questo fenomeno è tuttavia estremamente arduo in
quanto il reperimento di dati si basa principalmente sulle denunce sporte
e sulle dichiarazioni in sede d’intervista, ma non tiene ovviamente conto
delle violenze non riportate; «l’omertà familiare gioca un ruolo importante
nella possibilità di effettuare una rilevazione quantitativa appropriata del
fenomeno. Secondo i dati ISTAT75 il numero di denunce per
maltrattamento in base all’art. 572 si aggira sui 5000 casi all’anno; di
queste, la maggior parte proviene dai rapporti delle forze di pubblica
sicurezza e solo una piccola percentuale è attribuita a privati o deriva da
querela di parte. Ciò ci dà un’idea di quanto consistente sia il fenomeno
sommerso dei maltrattamenti che non vengono segnalati e che vengono
invece giustificati ai controlli medici come “incidenti”»76. Molte donne
infatti non parlano con nessuno delle minacce o delle violenze che
subiscono, altrettante ne parlano esclusivamente con familiari e amici,
pochissime si rivolgono a psicologi, servizi sociali o centri specializzati.
74
74 A. Cotticelli, Stupro, il medico che “cuce e ripara” le donne in Congo. La storia di Mukwege, Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2014http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/10/22/stupro-il-medico-che-cuce-e-ripara-le-donne-in-congo-la-storia-di-mukwege/1145478/75 ISTAT, La violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia: anno 2006, Roma, 200776 M. Strano, Manuale di criminologia clinica, cit., p.776
«Tra le donne che hanno parlato con qualcuno della violenza subita il
10,5% ne ha parlato dopo uno o più anni»77. Di tutti i casi di violenza in
famiglia solo il 7,3% sono stati denunciati, dei casi di stupro o tentativo di
stupro sono stati denunciati solo il 5,3%, cifra che scende al 4,7% se la
violenza è agita dal partner.
Nel primo rapporto dell’organizzazione United Nations Women
viene calcolato che, ad oggi, sono ancora 603 milioni le donne che vivono
in Paesi in cui la violenza domestica di un uomo contro la moglie o le
figlie non è considerata un reato; in più, circa 2,5 miliardi di donne vivono
in Paesi in cui lo stupro coniugale non è un crimine e risulta quindi non
denunciabile. In Europa, ad esempio, solo il 14% delle violenze denunciate
porta ad una condanna dell’autore.
Anche secondo l’Organizzazione mondiale della sanità contrastare la
violenza sulle donne dovrebbe essere considerata una priorità per la sanità
pubblica. Lo studio del 2013 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità
sulla violenza domestica e sessuale contro le donne ha definito tali
violenze come un importante problema di salute pubblica, nonché una
violazione dei diritti umani delle donne. L’OMS, avendo basato l’indagine
sulle denunce delle vittime, sostiene di aver potuto ottenere stime accurate
riguardo la violenza in contesti di non-conflitto. Secondo questa ricerca il
35% delle donne in tutto il mondo ha avuto esperienze di violenza nel
corso della vita. Sembra quasi ironico confrontare questo dato con i
risultati ottenuti da una serie di studi sul tema dello stupro, condotta tra il
1980 ed il 1981 negli Stati Uniti e in Canada dallo psicologo Neil
Malamuth, secondo i quali «il 35% degli studenti di college che aveva
intervistato sarebbero stati pronti a violentare una donna, se fossero stati
certi di non essere presi. Ci sarebbe insomma una continuità tra lo stupro e
75
77 R. Canu, La violenza domestica contro le donne in Italia e nel contesto internazionale ed europeo, La Riflessione, Cagliari, 2008, p. 38
il comportamento maschile “normale” e socialmente incoraggiato, basato
su privilegi acquisiti e mai ridiscussi, sull’esaltazione della dominanza e
sul mito della potenza sessuale»78.
In media il 30% delle donne che hanno avuto una relazione riferisce
di aver subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale da parte del
partner. In più, a livello globale, il 38% degli omicidi di donne vengono
commessi da un compagno o ex-partner.
Tra le donne in età compresa tra i 15 ed i 49 anni in ogni Paese del
mondo c’è un’incidenza di violenze fisiche o sessuali da parte del
compagno, che può variare da un minimo del 15% in Giappone ad un
massimo del 71% in Etiopia.
Le violenze comportano per le donne problemi di salute fisica,
mentale, sessuale e riproduttiva anche molto gravi ed avere conseguenze
di lungo termine sia su di loro che sui loro figli. La violenza domestica e
sessuale può portare ad aborti, problemi ginecologici, infezioni; quando
avviene in gravidanza aumenta la probabilità di aborti spontanei, di parti
prematuri, che neonati nascano morti o sottopeso. Gli esiti delle violenze
possono poi essere fatali, poiché accade che le violenze cessino solo con
l’omicidio o con il suicidio della donna.
76
78 P. Romito, La violenza di genere su donne e minori: un’introduzione, cit., p. 27
Dati ancor più aggiornati possono essere ritrovati nel recente
sondaggio condotto nel 2012 dall’Agenzia dell'Unione Europea per i diritti
fondamentali79 e pubblicato nel 2014. L’indagine, che ha coinvolto 42.000
donne dei 28 Stati membri, ha evidenziato che la violenza di genere
colpisce in misura sproporzionata le donne e costituisce una grave
violazione dei diritti umani che l’Unione Europea non può permettersi di
ignorare80. È emerso inoltre che l’abuso è un fenomeno molto diffuso, ma
che solo il 13 o 14% delle violenze gravi vengono denunciate. L’Agenzia è
comunque riuscita a stimare che 13 milioni di donne nell’Unione Europea
hanno subito violenza fisica solo nell’anno precedente alle interviste. Nello
stesso lasso di tempo sono state 3,7 milioni le donne a subire violenze
sessuali.
In generale i dati confermano le statistiche precedenti, riportando che
circa il 31% delle donne ha subito uno o più atti di violenza fisica dall’età
77
79 L’Agenzia ha sede a Vienna ed è stata istituita dal Consiglio Europeo il 15 febbraio 2007. Ha lo scopo di fornire alle istituzioni europee e alle autorità nazionali competenti assistenza e consulenza sui diritti fondamentali nell'attuazione del diritto comunitario, nonché di aiutarle ad adottare le misure o a definire le iniziative appropriate. L’Agenzia ha dunque il compito di: raccogliere, analizzare e diffondere informazioni obiettive ed affidabili sulla situazione dei diritti fondamentali nell'UE; condurre ricerche e studi nel campo di tali diritti; pubblicare conclusioni e pareri su argomenti specifici; promuovere il dialogo con la società civile per sensibilizzare l’opinione pubblica ai diritti fondamentali.80 FRA, Violence against women: an EU-wide survey - Main results, Lussemburgo, 2014, p. 3
di 15 anni, mentre l’11% ha subito una forma di violenza sessuale. Molti
europei pensano ancora che quello che accade all’interno della famiglia, o
comunque di una relazione intima, non riguardi nessuno se non le
persone direttamente coinvolte. Questo è particolarmente vero nei casi di
violenza familiare contro le donne poiché molto spesso sono ancora viste
come cittadine di seconda classe, subordinate agli uomini presenti nella
loro vita. Sembra impensabile che qualcuno possa considerare accettabile
la violenza familiare, eppure da un sondaggio del 1999 è risultato che circa
3 europei su 100 la considerano accettabile e legittima81.
I Dati Nazionali
Il più recente rapporto ISTAT sulla violenza contro le donne, è stato
pubblicato nel febbraio del 2007, e secondo i dati in esso riportati in Italia
sono stimate in 6 milioni 743 mila le donne vittime di violenza fisica o
sessuale nel corso della vita82; le tipologie di violenza, come abbiamo visto
in precedenza, raramente si presentano isolate per cui è stato stimato che
un terzo delle vittime subisce sia violenze fisiche che sessuali e la
maggioranza subisce ripetuti episodi di violenza nel corso della vita. Dei
quasi 7 milioni di vittime, 5 milioni hanno subito violenze sessuali, di cui 1
milione 400 mila prima dei 16 anni, quasi 4 milioni violenze fisiche e circa
1 milione ha subito stupri o tentati stupri.
Per quanto riguarda le forme che assumono le violenze, «tra tutte le
violenze fisiche rilevate, è più frequente l’essere spinta, strattonata,
afferrata, l’avere avuto storto un braccio o i capelli tirati (56,7%), l’essere
minacciata di essere colpita (52,0%), schiaffeggiata, presa a calci, pugni o
morsi (36,1%). Segue l’uso o la minaccia di usare pistola o coltelli (8,1%) o
78
81 European Commission, Daphne Booklets: Issues and experiences in combating violence against children, young people and women - Family violence, Luxembourg, 200882 Nell’indagine dell’Agenzia dell'Unione Europea per i diritti fondamentali il 27% delle donne italiane intervistate ha dichiarato di aver subito violenze fisiche o sessuali
il tentativo di strangolamento o soffocamento e ustione (5,3%). Tra tutte le
forme di violenze sessuali, le più diffuse sono le molestie fisiche, ovvero
l’essere stata toccata sessualmente contro la propria volontà (79,5%), l’aver
avuto rapporti sessuali non desiderati vissuti come violenza (19,0%), il
tentato stupro (14,0%), lo stupro (9,6%) e i rapporti sessuali degradanti ed
umilianti (6,1%)». Inoltre il 90,5% dei casi di violenza fisica o sessuale è
accompagnato anche da violenze di tipo psicologico.
Violenza fisica
Il 56,4% delle donne ha subito violenze da uomini con cui non
avevano una relazione, mentre il 43,6% in famiglia o dal partner (di cui il
22,6% esclusivamente dal partner e il 21% sia in famiglia che fuori). I
partner sono tuttavia considerati i maggiori responsabili delle violenze
fisiche e di stupri e rapporti sessuali indesiderati, ma subiti per timore di
ritorsioni. Secondo questi dati il 69,7% degli stupri sarebbero quindi opera
del partner mentre il 17,4 di un conoscente, da questi dati emerge che solo
il 6,2% degli stupri è commesso da persone sconosciute alla vittima.
A differenza della violenza da non partner che è in primo luogo
sessuale, la violenza domestica più diffusa è quella fisica. Le violenze
subite all’interno della famiglia sono per lo più di grave entità, «il 34,5%
delle donne ha dichiarato che la violenza subita è stata molto grave e il
29,7% abbastanza grave. Il 21,3% delle donne ha avuto la sensazione che la
sua vita fosse in pericolo in occasione della violenza subita». Inoltre «690
mila donne hanno subito violenze ripetute da partner e avevano figli al
momento della violenza. Il 62,4% ha dichiarato che i figli hanno assistito
ad uno o più episodi di violenza. Nel 19,6% dei casi i figli vi hanno
assistito raramente, nel 20,2% a volte, nel 22,6% spesso». Tuttavia,
malgrado questi dati, più di un terzo delle donne (36%) ha considerato le
violenze semplicemente come qualcosa che è accaduto, il 44% come
79
qualcosa di sbagliato, e solo il 18,2% ha considerato la violenza subita in
famiglia come un reato. In generale la violenza da parte del partner è
comunque vissuta come più grave rispetto a quella subita da parte di
conoscenti o sconosciuti.
Violenza psicologica
Sono 7 milioni 134 mila le donne che secondo l’indagine ISTAT
hanno subito o subiscono violenza psicologica (il 43,2% di tutte le donne
con un partner83) e di queste 6 milioni 92 mila hanno subito
esclusivamente questo tipo di violenza, mentre 1 milione 42 mila donne
hanno subito anche violenze fisiche o sessuali.
Tra le donne che hanno dichiarato di aver subito violenze
psicologiche, il 46,7% le ha identificate con atti di isolamento o tentativo di
isolamento, come limitazioni nei rapporti con la famiglia e gli amici o
impedimenti nel lavoro e nello studio o nella ricerca di questi. Il 40,7% ha
dichiarato di aver subito forme di controllo più o meno limitanti ed
umilianti, come l’imposizione di un determinato abbigliamento,
pedinamenti e divieti di parlare con altri uomini. La violenza economica è
stata subita dal 30,7% delle donne, alle quali è stato impedito di utilizzare
il proprio denaro, di conoscere il reddito familiare e di compiere scelte di
spesa. La svalorizzazione, intesa come umiliazioni ed offese rivolte alla
vittima anche in pubblico, critiche per l’aspetto esteriore o per il modo di
gestire la casa ed i figli, è una forma di violenza che ha colpito il 23,8%
delle donne intervistate. Queste sono poi state intimidite con minacce di
danneggiamento di oggetti personali, con ricatti riguardanti il ferimento
dei figli, delle persone care o di animali, nonché con minacce di suicidio
nel 7,8% dei casi.
80
83 Dall’ultimo censimento ISTAT (2011) risultano circa 14 milioni le coppie, sposate e non, in Italia.
«Le donne che hanno subito più violenze dai partner, in quasi la
metà dei casi hanno sofferto, a seguito dei fatti subiti, di perdita di fiducia
e autostima, di sensazione di impotenza (44,9%), disturbi del sonno
(41,5%), ansia (37,4%), depressione (35,1%), difficoltà di concentrazione
(24,3%), dolori ricorrenti in diverse parti (18,5%), difficoltà a gestire i figli
(14,3%), idee di suicidio e autolesionismo (12,3%)».
Stalking
Sono 2 milioni 77 mila le donne che hanno subito comportamenti
persecutori che le hanno particolarmente spaventate. Di queste, 1 milione
e 139 hanno subito come forma di violenza esclusivamente lo stalking,
mentre 937 mila, quasi il 50%, aveva subito anche violenze fisiche o
sessuali da parte di un partner precedente. Di tutte le vittime di stalking, il
18,8% l’ha subito dal partner al momento o dopo la separazione.
Come abbiamo detto, quantificare il fenomeno della violenza contro
le donne è estremamente complesso e i dati possono risultare falsati dalla
mancata denuncia da parte delle donne stesse o in alcuni casi, come
denunciano alcuni detrattori del concetto di violenza di genere e di
femminicidio, dalle false denunce che talvolta avvengono in sede di
separazione tra genitori. L’unico dato certo risulta dunque quello relativo
agli omicidi, anche se persino in questo caso le statistiche risultano falsate
dal fatto che, malgrado nella categoria del femminicidio siano
generalmente considerati anche i casi di suicidio indotto da protratte
violenze, i dati raccolti ad oggi in Italia non tengono conto delle
motivazioni dei suicidi e di conseguenza quelli causati dalla violenza nei
confronti delle donne non possono rientrare nel conteggio delle morti.
81
Secondo i dati del rapporto Eures-Ansa84 del dicembre 2012, in Italia ogni
anno vengono uccise in media 172 donne, praticamente una ogni due
giorni. Il compagno, coniuge o ex-partner è responsabile del 66,3% delle
morti, mentre il 12,1% sono madri che muoiono per mano dei figli. Minore
è il numero delle figlie assassinate dai genitori, pari all’8,5% del totale,
mentre nettamente inferiori sono i casi di sorelle uccise dai fratelli (2,5%),
di suocere uccise dai generi (1,9%) e di nonne uccise dai nipoti (1,1%). Va
sottolineato che secondo questa statistica gli episodi cosiddetti di raptus
comprendono solo il 9,8% dei casi.
I restanti delitti sono perpetrati in parte nel cosiddetto ambito di
prossimità da parte di amici, conoscenti e vicini della vittima, e al di fuori
di questo contesto dalla criminalità comune e da quella organizzata.
Nel 2011 i femminicidi «hanno toccato il 30,9 per cento degli omicidi
totali, raggiungendo la percentuale più alta in assoluto […]. Gli omicidi
commessi nel contesto familiare e in particolar modo quelli perpetrati
all’interno della coppia sono aumentati di quasi il 50 per cento negli ultimi
dieci anni.»85 Per comprendere meglio questi dati e la situazione generale
del Paese sarebbero necessarie delle indagini più approfondite e condotte
con criteri differenti, che al momento non sono ancora state effettuate; per
questo motivo le principali Convenzioni internazionali sulla violenza
contro le donne sottolineano come punti fondamentali per la lotta a questo
problema proprio dei rilevamenti statistici nazionali che tengano in
considerazione un numero maggiore di aspetti.
Infine, un dato importante che emerge dai dati della statistica Eures-
Ansa, riguarda le violenze subite dalle vittime ed in particolare risulta che
82
84 Eures-Ansa, Il femminicidio in Italia nell’ultimo decennio: dimensioni, caratteristiche e profili di rischio, 201285 R. Diaz, L. Garofano, I labirinti del male: femminicidio, stalking e violenza sulle donne in Italia, Infinito Edizioni, 2013, eBook
circa il 10% di loro aveva già sporto denuncia prima di essere uccisa;
risulta inoltre che il 17,6% delle vittime era stato minacciato di morte in
precedenza, «evidenziando che l’omicidio era stato pianificato nel tempo e
che quindi poteva essere evitato, se la vittima fosse stata adeguatamente
protetta»86. Come tutti i reati, infatti, anche i casi di violenza contro le
donne richiedono di essere supportati da testimonianze, documenti e
prove, che molto spesso risultano insufficienti dato che gli abusi
avvengono per lo più in ambito privata; la denuncia si riduce allora alla
parola della vittima contro la parola dell’accusato e nel conseguente
dubbio la legge non può che ritenere quest’ultimo non colpevole. Le leggi
sono ovviamente indispensabili ed una risorsa fondamentale per la tutela
delle donne, ma anche quando vengono applicate spesso non bastano.
Non sono infatti rari i casi in cui le donne vengono uccise anche dopo che
l’iter legale era stato avviato: ammonimenti dei questori, ordini di
allontanamento dalla casa familiare, persino l’arresto talvolta risulta
inefficace. In un contesto sociale nel quale la percezione maschile nei
confronti delle donne sembra regredire invece di migliorare, per cui un
italiano su tre considera la violenza domestica sulle donne come una
questione privata da risolvere in famiglia ed uno su cinque considera
accettabile denigrare una donna con insulti a sfondo sessuale87, la
soluzione del problema della violenza sembra ancora molto lontana.
83
86 Ibidem87 Well_B_Lab*, Rosa shocking: violenza, stereotipi… e altre questioni del genere, WeWorld Intervita, 2014
3. Gli strumenti di tutela dei diritti delle donne
In questo capitolo si introdurranno tre documenti internazionali che
hanno segnato la storia dei diritti delle donne ed influenzato le legislazioni
nazionali dei Paesi che vi hanno aderito, incentivandoli a tutelarli in
misura crescente; si vedrà quindi brevemente la struttura ed il
funzionamento dei meccanismi della CEDAW ed i risultati delle
Conferenze di Pechino e di Istanbul.
La Convenzione CEDAW è il principale trattato internazionale in
materia di diritti umani delle donne; il tema della violenza nei loro
confronti, seppur non menzionato nel testo della Convenzione, è stato
individuato come una questione centrale e di sua competenza nella
Raccomandazione Generale n°12 del 1989, con la quale il Comitato
CEDAW richiede a tutti gli Stati membri di fornire informazioni sulle leggi
e le iniziative messe in atto per tutelare le donne da ogni forma di
violenza, compresa quella sessuale e domestica. Nel 1992 ha poi emesso
una nuova Raccomandazione, la n° 19, nella quale dà una definizione
precisa di cosa debba intendersi per violenza contro le donne; su quella
stessa definizione il Comitato ha basato poi il suo contributo alla stesura
della Dichiarazione presentata nel 1993. Nel testo della Dichiarazione
sull’eliminazione della violenza contro le donne, discussa durante la
Conferenza di Vienna e adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni
Unite il 20 dicembre dello stesso anno, la violenza contro le donne è infatti
definita all’art.1 come «qualunque atto di violenza sessista che produca, o
possa produrre, danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche, ivi
compresa la minaccia di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria
della libertà, sia nella vita pubblica che nella vita privata». Il tema della
violenza contro le donne viene poi ripreso anche nella Conferenza di
84
Pechino del 1995, divenendo uno degli obiettivi centrali delle Nazioni
Unite in vista del nuovo millennio.
Nel testo della Dichiarazione di Pechino gli Stati partecipanti
dichiarano infatti il loro impegno senza riserve per l’eliminazione di
qualsiasi ostacolo al progresso delle donne, riaffermando la volontà di
garantire la piena realizzazione dei loro diritti fondamentali in quanto
parte inalienabile e indivisibile di tutti i diritti umani e delle libertà
fondamentali della persona, e l’impegno ad adottare misure efficaci contro
le loro violazioni, prevenendo ed eliminando «tutte le forme di violenza
contro le donne e le bambine». La Piattaforma di Pechino aveva inoltre
posto tra gli obiettivi da conseguire entro il nuovo millennio la ratifica
universale della CEDAW; questo obiettivo ad oggi non è ancora stato
raggiunto, dato che gli Stati membri della Convezione sono attualmente
188 su 205.
Dal punto di vista pratico, la Convenzione sull’eliminazione di tutte le
forme di discriminazione contro le donne è stato il testo che ha aperto la strada
ad una nuova concezione dei trattati internazionali sui diritti umani. Se
prima gli Stati si impegnavano esclusivamente a non violare i diritti
riconosciuti nei suddetti trattati, dal momento della sua istituzione sono
85
divenuti responsabili anche delle violazioni dei diritti umani compiute da
singoli individui al loro interno. Il testo della Convenzione esplicita infatti
l’impegno degli Stati a «prendere ogni misura adeguata per eliminare la
discriminazione contro le donne da parte di qualsivoglia persona,
organizzazione o impresa» (art.2).
Riprendendo questa impostazione, anche la Dichiarazione
sull’eliminazione della violenza contro le donne del 1993 chiarisce, all’art.4, che
gli Stati firmatari sono tenuti a «prevenire, indagare e punire, ai sensi della
legislazione nazionale, gli atti di violenza contro le donne, siano essi
compiuti dallo Stato o da soggetti privati».
Infine, la Conferenza di Pechino e la seguente Conferenza che ne ha
monitorato i risultati, denominata informalmente Pechino+5, si sono
concluse con la sottoscrizione da parte degli Stati partecipanti di
Piattaforme d’azione che li impegnano a «trattare tutte le forme di
violenza contro le donne e le bambine come reati penali punibili dalla
legge, compresa la violenza fondata su qualsivoglia forma di
discriminazione», esplicitando anche per la prima volta che tra le forme di
violenza sono comprese i delitti d’onore e gli attacchi con l’acido. Tra le
principali raccomandazioni rientra anche l’esortazione agli Stati
partecipanti a prendere provvedimenti legislativi più energici contro tutte
le forme di violenza domestica, fra cui lo stupro e gli abusi sessuali
coniugali. Viene poi esplicitata la necessità di leggi e programmi educativi
che contribuiscano a modificare pratiche tradizionali quali le mutilazioni
genitali, i matrimoni precoci e forzati, i delitti d’onore e le violenze dovute
a questioni di dote.
86
3.1 Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le
donne, osservazioni e critiche alla situazione italiana
Come si è visto nel primo capitolo, una prima apertura alle
problematiche femminili si ebbe negli anni ’70 con la proclamazione
dell’Anno Internazionale della Donna, nel cui contesto venne organizzata
la Conferenza di Città del Messico. Il Piano d’azione che venne delineato
in quell’occasione portò all’elaborazione della Convenzione sull’eliminazione
di tutte le forme di discriminazione contro le donne adottata dall’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1979 ed entrata in vigore il 3
settembre 1981 in seguito alla sua ventesima ratifica.
Tra i trattati internazionali sui diritti umani, questa riveste un ruolo
di estrema importanza in quanto, non solo stabilisce il riconoscimento
internazionale dei diritti delle donne, ma anche un programma d'azione
che i Paesi membri sono tenuti a implementare per garantire il godimento
di tali diritti. È dunque a ragione considerato come «l’accordo
internazionale giuridico fondamentale sui diritti delle donne»1. A
differenza della maggior parte dei trattati sui diritti umani, che risultano
applicabili solo a violazioni commesse da uno Stato, la CEDAW riconosce
nel suo ambito di competenza anche le violazioni da parte di singoli
cittadini. Dato che nel mondo la maggior parte delle violenze subite dalle
donne avviene in ambiente domestico, o comunque per mano di singoli
individui, l’importanza di questo documento è palese. La Convenzione,
individuando la discriminazione femminile in ogni distinzione, esclusione
o limitazione in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in
qualsiasi altro campo, impone agli Stati firmatari di adottare tutte le
87
1 P. Degani, Diritti umani e violenza contro le donne: recenti sviluppi in materia di tutela internazionale, Eurooffset, Maerne (Venezia), 2000, p. 26
misure appropriate per garantire alle donne l'esercizio e il godimento dei
diritti umani e delle libertà fondamentali.
La Convenzione si prefigge lo scopo di allargare il concetto di diritti
umani, riconoscendo formalmente il ruolo svolto dalla cultura e dalla
tradizione nel limitare il godimento dei diritti fondamentali da parte delle
donne. Stereotipi, costumi, norme antiquate, danno origine a vincoli
sociali, giuridici ed economici che ostacolano ed impediscono la piena
parità tra uomini e donne. Per questo motivo gli Stati parte, riconosciuti
come attori fondamentali «nella promozione dell’integrazione della donna
nella società»2, sono tenuti ad adoperarsi per modificare modelli di
comportamento individuali o sociali basati su pregiudizi che riguardano
l’idea dell'inferiorità della donna rispetto all’uomo. Nel complesso, la
Convenzione traccia un quadro completo delle forme di discriminazione
che incidono, in modo più o meno sostanziale, sulla vita di tutte le donne
del mondo.
La Convenzione tratta in modo dettagliato anche i diritti civili delle
donne e il loro status giuridico; sottolinea l’essenzialità della protezione
della maternità e dell’infanzia, riconoscendola come diritto fondamentale
in ogni area, che si tratti di lavoro, di diritto di famiglia, di sanità o di
istruzione. L’obbligo per gli Stati membri è dunque quello di offrire dei
servizi sociali, soprattutto strutture per l’infanzia, che permettano agli
individui di conciliare le responsabilità familiari con il lavoro e la
partecipazione alla vita pubblica. È stata la prima a dare una più ampia
interpretazione di discriminazione di genere, includendovi anche le
violenze di genere ed ha quindi poi contribuito allo sviluppo del diritto
penale internazionale, nel quale lo stupro e la violenza sessuale sono stati
riconosciuti come crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
88
2 Ivi, p. 18
Una peculiarità della Convenzione rispetto ai trattati precedenti è
l’affermazione del diritto di scelta riproduttiva delle donne e del concetto
di pianificazione familiare. Ciò significa che alle donne viene riconosciuto
il diritto di decidere liberamente e responsabilmente riguardo al numero
di figli da avere e quindi anche il diritto all’accesso alle informazioni ed ai
mezzi che consentano loro di esercitare tali diritti.
L'attuazione della Convenzione, per contrastare le persistenti
violazioni dei diritti fondamentali delle donne, è monitorata dal Comitato
per l'eliminazione della discriminazione contro le donne composto da 23 esperti
nominati dai loro governi ed eletti dagli Stati firmatari come individui «di
alta moralità e competenza nel settore oggetto della Convenzione» (art.17).
Gli Stati membri sono tenuti a presentare una relazione al Comitato
almeno una volta ogni quattro anni, indicando le misure adottate per dare
attuazione alle disposizioni della Convenzione. I membri del Comitato
possono così valutare l’andamento di ogni Paese e formulare, dove
necessario, delle raccomandazioni generali per il miglioramento della
condizione femminile nei singoli Stati. Il Comitato è infine tenuto a
sottoporre all'Assemblea Generale, tramite il Consiglio Economico e
Sociale, una relazione annuale sulle sue attività nella quale riportare, tra le
altre cose, le osservazioni conclusive riguardanti i rapporti di ogni Stato
membro e le sue raccomandazioni.
Per sollecitare ed incentivare l’applicazione della Convenzione da
parte degli Stati, nel 1999 è stato adottato il suo Protocollo Facoltativo,
entrato in vigore il 22 dicembre 2000. Una particolarità di questo
Protocollo risiede nel fatto che, all’articolo 17, vieta agli Stati di porre
riserve al momento della firma; tutti gli Stati che hanno deciso di
sottoscriverlo sono quindi obbligati ad applicare tutte le disposizioni che
89
contiene e non sono in alcun modo autorizzati a violarlo. L’adozione del
Protocollo ha lo scopo di fungere da incentivo per i Governi ad adottare
programmi d’azione più efficaci a livello nazionale per garantire alle
donne il pieno godimento dei diritti loro riconosciuti. L’elemento
essenziale del documento è tuttavia la creazione, per le donne vittime di
discriminazione, della possibilità di sottoporre alla CEDAW questioni
riguardanti la violazione dei diritti riconosciuti loro dalla Convenzione
stessa; il Protocollo instaura inoltre una procedura d’inchiesta che può
essere attivata autonomamente dal Comitato nel momento in cui riceve
informazioni riguardanti gravi e sistematiche violazioni dei diritti delle
donne in uno Stato membro e che prevede di invitare quest’ultimo a
cooperare nell’analisi delle violazioni contestate. Infine nel preambolo è
richiesto ad ogni Stato firmatario di pubblicizzare le norme sancite dalla
Convezione e viene reso noto che comunicazioni e inchieste della
Commissione saranno rese pubbliche.
La presentazione dei ricorsi, individuali o collettivi, da parte delle
persone che ritengono di aver subito una violazione dei diritti riconosciuti
dalla Convenzione è subordinata ad alcune condizioni: le comunicazioni
devono pervenire in forma scritta, non possono essere anonime e devono
essere fatte da cittadine di uno Stato firmatario sia della Convenzione che
del Protocollo3. Ulteriori condizioni di ammissibilità sono: l’aver esaurito
ogni via di ricorso nazionale, non aver in atto ricorsi per la stessa
violazione presso altri organismi internazionali ed infine i fatti in oggetto
della comunicazione devono essere avvenuti dopo l’entrata in vigore del
Protocollo.
90
3 Ad esempio è stato di recente respinto un ricorso da parte di una donna indiana poiché il suo Paese ha sottoscritto la Convenzione ma non ha aderito al Protocollo opzionale.
Una volta ricevuta la comunicazione, il Comitato può decidere di
contattare lo Stato coinvolto nel ricorso per dargli la possibilità di attuare
misure adeguate riguardo la violazione di cui è ritenuto responsabile.
Questa procedura può servire ad evitare il trascorrere di un lungo periodo
di tempo, che potrebbe intercorrerebbe dal momento della segnalazione a
quello dell’effettiva condanna dello Stato, durante il quale le vittime
potrebbero continuare a subire la violazione dei loro diritti. La procedura
consiste infatti in un semplice, ma lungo processo: una volta ricevuta la
comunicazione il Comitato, utilizzando i dati fornitigli dalla ricorrente o
chiedendone ulteriori allo Stato interessato, invia delle raccomandazioni a
quest’ultimo, il quale entro sei mesi deve rispondere con una spiegazione
scritta riguardante la violazione dei diritti in oggetto e un elenco di azioni
che ritiene di poter mettere in atto per rimediare.
Per quanto riguarda le procedura d’inchiesta, il Comitato ha la facoltà
di avviarla di propria iniziativa e consiste nel segnalare allo Stato
l’avvenuto riscontro di gravi violazioni al suo interno, unitamente alla
richiesta di cooperare per quanto riguarda l’analisi delle violazioni stesse,
nonché di inviare al Comitato delle osservazioni in merito. Dopo sei mesi
allo Stato possono essere richieste informazioni riguardanti le misure
adottate per rimediare alla situazione discriminatoria contestatagli. Ogni
91
Stato membro può in ogni caso decidere, al momento della ratifica del
Protocollo, di non riconoscere al Comitato questa competenza,
sottraendosi di fatto ad ogni eventuale inchiesta; tale decisione può essere
comunque revocata in qualsiasi momento con una notifica al Segretario
Generale. Sono tuttavia numerosi gli Stati che nel corso degli anni hanno
instaurato un dialogo costruttivo con la Commissione e che hanno
cambiato la loro legislazione o le pratiche amministrative per uniformarsi
hai principi della Convenzione, per esempio promulgando leggi volte ad
arginare il problema della violenza domestica. Nel contesto della CEDAW
gli Stati si sono aperti al dialogo ed in cambio hanno ottenuto consigli ed
esempi per affrontare gli ostacoli alla piena attuazione dei diritti umani
delle donne.
L’Italia ha ratificato la Convenzione il 10 giugno 1985, a quattro anni
dalla sua entrata in vigore, ed ha sottoscritto il Protocollo opzionale il 29
ottobre 2002. Dal momento dell’adesione, le sono stati richiesti 6 rapporti,
che ha consegnato quasi sempre con notevole ritardo.
Region COUNTRY Document type Symbol/Title Due date Submitted dateEurope and Central Asia Italy State party’s
report 01 Jul 2015
Europe and Central Asia Italy Follow-up State
party’s reportCEDAW/C/ITA/
CO/6/Add.1 29 Jul 2013 07 Aug 2013
Europe and Central Asia Italy State party’s
reportCEDAW/C/ITA/
6 10 Jul 2006 16 Dec 2009
Europe and Central Asia Italy State party’s
reportCEDAW/C/ITA/
4-5 10 Jul 2002 22 Dec 2003
Europe and Central Asia Italy State party’s
reportCEDAW/C/ITA/
3 10 Jul 1994 21 Jun 1997
Europe and Central Asia Italy State party’s
reportCEDAW/C/ITA/
2 10 Jul 1990 01 Mar1994
Europe and Central Asia Italy State party’s
reportCEDAW/C/5/
Add.62 10 Jul 1986 20 Oct 1989
92
Andremo quindi ora ad analizzare le ultime considerazioni rivolte
all’Italia dal Comitato CEDAW, focalizzando l’attenzione su alcune delle
questioni sollevate, soprattutto in relazione alla violenza contro le donne.
Considerazioni e raccomandazioni sul rapporto consegnato nel dicembre 2003
Nel capitolo dedicato alla violenza contro le donne, il Comitato
esordisce evidenziando il contributo dato dalle precedenti osservazioni
della CEDAW nell’aumento di consapevolezza del devastante problema
della violenza maschile nel confronti delle donne e dei suoi negativi effetti
sociali ed economici; ritiene tuttavia che lo Stato abbia preso misure
inadeguate per attuare le raccomandazioni dei precedenti commenti
conclusivi adottati nel 1997.
Proseguendo nell’analisi della lotta dello Stato alla violenza, elogia la
significativa innovazione comportata dalla legge n.66 del 15 febbraio 1996,
che classifica lo stupro e la violenza sessuale come crimini contro la
persona, invece che contro la morale pubblica e il buon costume come
avveniva in precedenza. La nuova legge ha reso possibili decisioni
giudiziarie che rispondono in modo più adeguato al problema, anche
grazie all’ampliamento della definizione di violenza sessuale, che
comprende ora non solo gli stupri ma qualsiasi contatto corporeo che privi
la vittima della sua libertà di autodeterminazione nella sfera sessuale. In
questo contesto le innovazioni più significative che il Comitato riconosce
all’Italia sono alcune sentenze molto severe in difesa della dignità delle
vittime di violenza, ad esclusione della sentenza n.1636 del 10 febbraio
93
19994, che viene citata ma tuttavia considerata come un caso isolato. Nelle
considerazioni vengono poi considerate le leggi n.60 e n.134 del 2001
riguardanti la difesa d’ufficio ed il patrocinio a carico dello Stato per i non
abbienti, che consentono alle vittime indigenti di abusi e stupri di ottenere
consulenze legali gratuite, così da veder difesi e tutelati i loro diritti, come
era stato chiesto da tempo dai centri antiviolenza e da varie associazioni.
Un ulteriore merito riconosciuto al Governo italiano è l’emanazione
della legge n.154 del 5 aprile 2001, denominata “Misure contro la violenza
nelle relazioni familiari”, la quale prevede la possibilità per i giudici di
disporre delle misure cautelari di allontanamento dalla casa familiare del
coniuge, del convivente o di un altro componente del nucleo familiare
colpevole di violenze; il giudice può inoltre richiedere l’intervento dei
servizi sociali, di un centro di mediazione familiare o di associazioni che
accolgano donne e minori vittime di abusi e maltrattamenti.
In ultimo viene menzionato il progetto di modifica dell’articolo 51
della Costituzione, presentato per garantire la parità di accesso di uomini
e donne alle cariche elettive, la cui approvazione definitiva era prevista,
com’è stato, nel 2003. Il Comitato a tal proposito esprime disappunto del
constatare che tale modifica non sia accompagnata da una definizione di
discriminazione contro le donne né nella Costituzione né nella
legislazione. Invita poi lo Stato a creare una struttura istituzionale che
«riconosca la specificità della discriminazione delle donne e che sia l’unica
responsabile del progresso delle donne e del monitoraggio della
94
4 La sentenza della Cassazione annullò una condanna per stupro poiché la vittima «indossava i jeans». I giudici hanno motivato la sentenza sostenendo che i jeans sono «un indumento che non si può sfilare nemmeno in parte senza la fattiva collaborazione di chi lo porta» ed hanno aggiunto che è dunque impossibile sfilarli se la vittima si oppone «con tutte le sue forze». Da appena tre anni lo stupro era passato da reato contro la morale a reato contro la persona e proprio questo è stato richiamato dai giudici come ulteriore motivazione della sentenza quando hanno sostenuto che «è illogico affermare che una ragazza possa subire uno stupro, che è una grave offesa alla persona, nel timore di patire altre ipotetiche e non certo più gravi offese alla propria incolumità fisica».
realizzazione pratica del principio di parità sostanziale di uomini e donne
nel godimento dei diritti umani».
In conclusione il Comitato ribadisce la sua preoccupazione per la
persistenza e pervasività dell’atteggiamento patriarcale nella società
italiana, per la «rappresentazione che viene data delle donne da parte dei
mass media e della pubblicità, per il fatto che viene ritratta come oggetto
sessuale e in ruoli stereotipati» ed anche per la persistenza della violenza
contro le donne, compresa quella domestica, e soprattutto per l’assenza di
una strategia globale per combatterla. Viene poi raccomandato di attuare e
monitorare l’efficacia delle leggi sulla violenza nei confronti delle donne e
di sostenere i centri antiviolenza.
Le considerazioni della CEDAW si concludono quindi con la
constatazione che, nonostante i numerosi passi avanti compiuti dal
Governo italiano, la strada da percorrere sia ancora molto lunga e
rappresenti una grande sfida culturale e politica; le azioni sono ancora
troppo in ritardo rispetto alle intenzioni ed il Comitato ritiene che il tema
della violenza contro le donne non sia ancora una priorità per le istituzioni
dato che le misure adottate, per quanto numerose, non sono state
sviluppate con continuità.
Considerazioni e raccomandazioni sul rapporto consegnato nel dicembre 2009
Il gruppo di lavoro preliminare incaricato di esaminare il rapporto
italiano, ha stilato una lista di questioni e domande alla quale lo Stato era
tenuto a rispondere. Nello specifico ha richiesto spiegazioni
95
sull’approvazione del decreto legislativo n.198 dell’aprile 20065 che
secondo il rapporto italiano introduce il concetto di discriminazione in
linea con l’articolo 1 della Convenzione.
Viene poi sottolineato il silenzio della relazione sulle misure adottate
per divulgare informazioni sulla CEDAW sia in ambito pubblico che
privato, come già raccomandato dal Comitato nelle osservazioni
conclusive precedenti. Viene poi puntualizzato che, in quelle stesse
osservazioni, lo Stato era stato invitato ad adottare un programma ampio e
coordinato per combattere la diffusa accettazione di ruoli stereotipati di
uomini e donne, mentre il rapporto attuale afferma che gli stereotipi di
genere sono ancora profondamente radicati e dalle informazioni fornite
non sembra essere prevista una strategia a lungo termine per combatterli.
Più in generale il Comitato si rammarica che molte delle preoccupazioni e
delle raccomandazioni esposte in precedenza non siano state prese in
debita considerazione.
Infine, per quanto riguarda la questione della violenza sulle donne, il
gruppo di lavoro richiede informazioni aggiornate sulle due proposte di
96
5 Il decreto riguarda principalmente disposizioni che hanno per oggetto «misure volte ad eliminare ogni distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza, o come scopo, di compromettere o di impedire il riconoscimento, il godimento o l'esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo». Promuove inoltre «la rimozione dei comportamenti discriminatori per sesso e di ogni altro ostacolo che limiti di fatto l'uguaglianza fra uomo e donna nell'accesso al lavoro e sul lavoro e la progressione professionale e di carriera». Nel decreto vengono considerate come discriminazioni anche le molestie, intese come comportamenti indesiderati aventi o meno connotazione sessuale e poste in essere per ragioni inerenti al sesso, che abbiano lo scopo o l’effetto «di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo».
legge6 per combatterla e un aggiornamento sull’elaborazione di un piano
d’azione nazionale per contrastare tutte le forme di violenza nei confronti
delle donne. Un’ulteriore nota riguarda i dati estremamente limitati forniti
dalla relazione in riguardo alle varie forme di violenza di genere. Lo Stato
viene quindi sollecitato a chiarire se ha già avviato o intende stabilire una
raccolta di dati e di informazioni sistematica e regolare in proposito. Viene
richiesto, nel caso, di fornire anche informazioni sul numero dei centri
antiviolenza e sulla loro ricettività e capacità di assistenza alle vittime, così
come vengono richiesti dati statistici riguardanti le espulsioni forzate del
coniuge o compagno violento previste dalla legge, il numero di denunce
presentate da donne e le azioni penali contro gli autori delle violenze.
Un’ultima richiesta di dati statistici riguarda poi il numero di donne uccise
dai loro compagni, mariti o ex-partner.
A tutti questi quesiti lo Stato italiano è riuscito a dare risposta solo a
diversi anni di distanza data, ad esempio, la mancanza di una statistica
ufficiale sui femminicidi.
Nel luglio 2011 l’iniziativa “30 anni di CEDAW: lavori in corsa” ha
riunito numerose associazioni, tra cui la rete nazionale dei centri anti
violenza D.i.RE, per raccogliere le informazioni necessarie alla stesura di
un Rapporto ombra sull’implementazione della Convenzione in Italia. In
tale rapporto è stato inserito un capitolo specifico sul femminicidio, nel
97
6 Disegno di legge AC.1440, presentato il 2 luglio 2008 ed approvato dalla Camera il 29 gennaio 2009, riguardante misure contro gli atti persecutori (stalking), che prevede una pena per chi minaccia o molesta ripetutamente qualcuno in modo tale da indurlo in un costante e grave stato d’ansia o di paura, generando nella vittima timore per la propria incolumità e costringendola così a cambiare le proprie abitudini di vita.Disegno di legge AC.1424, presentato il 1 luglio 2008 ed approvato dalla Camera il 14 luglio 2009, riguardante misure contro la violenza sessuale, che prevede misure per rafforzare la tutela penale introducendo aggravanti relative alle modalità di azione, imponendo al giudice di disporre l'aumento della pena in caso di recidiva e introducendo meccanismi in grado di rendere certa la pena per tali reati.Entrambi i disegni di legge sono stati trasmessi al Senato, ma nessuno dei due è stato approvato in tale sede.
quale sono stati riportati i dati non ufficiali riguardanti il fenomeno, ma
raccolti grazie al contributo delle associazioni, che sono andate così a
riempire il vuoto lasciato dalle istituzioni proprio in materia di censimento
del fenomeno.
Da questo contributo è emerso che, confrontando i dati del 2006 con
quelli del 2010, malgrado una diminuzione dei casi di omicidio, si è avuto
un aumento di quelli di femminicidio7. In Italia risulta inoltre mancante
una statistica sulle cause di suicidi che, se compiuti da donne vittime di
violenza, dovrebbero rientrare nel conteggio dei femminicidi; uno studio
europeo indica infatti che, nel 2006, di 2419 femminicidi 1409 risultavano
essere donne uccise dai compagni o ex-partner, mentre 1010 avevano
scelto il suicidio come strumento per sfuggire alla violenza domestica
subita8.
Le statistiche così esposte dal Rapporto ombra e le mancanze delle
istituzioni italiane nel fornire dati rilevanti sul tema della violenza contro
le donne sono state prese in debita considerazione da parte del Comitato
CEDAW che, dopo aver ricevuto e valutato anche la risposta dello Stato
alle richieste di chiarimento, nelle sue Raccomandazioni ed osservazioni
conclusive ha sottolineato la preoccupazione per l’elevato numero di
femminicidi, che considera come un possibile indicatore del fallimento
delle autorità italiane nel proteggere adeguatamente le donne vittime dei
loro compagni o ex-partner. Ulteriori motivi di preoccupazione sono poi la
pervasività della violenza contro le donne e le ragazze e la persistenza di
atteggiamenti socio-culturali che condonano la violenza domestica. Il
Comitato accoglie comunque con favore l'adozione del decreto legge n.
98
7 Nel 2006 su 181 omicidi di donne 101 erano femminicidi; nel 2010 su 151 omicidi di donne 127 erano femminicidi.
8 Dati ricavati dal rapporto del Programma DAPHNE III – 2007, sulla violenza domestica e la mortalità ad essa legata. Estimation of Intimate Partner Violence related mortality in Europe - Synthesis of the scientific report, versione del 23/06/2010
11/2009 "Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla
violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori" che ha introdotto il reato
di stalking e la detenzione obbligatoria per gli autori di violenza sessuale9,
così come la prima ricerca completa sulla violenza fisica, sessuale e
psicologica contro le donne condotta dall’ISTAT nel 2006. Una critica alla
legge n.11/2009 è stata mossa da Maria Virgilio10, che in un rapporto ha
osservato come «Le ultime novità legislative fanno espresso riferimento
nel loro titolo alla sicurezza “pubblica”. Il bene giuridico “persona” - che
faticosamente era stato sottratto alla moralità pubblica e al buon costume -
viene nuovamente immerso in una dimensione super-individuale, quella
del bene collettivo e pubblico della “sicurezza pubblica”» e prosegue
sottolineando come «La violenza maschile sulle donne torna a essere
prevalentemente violenza sessuale. In primo piano viene collocata la
aggressione sessuale nello spazio pubblico da parte di sconosciuti. […]
Emerge - e diventa “emergenza” - lo stupro di strada, che è violenza
(sessuale e agita fuori delle relazioni di fiducia) statisticamente minoritaria
nell’ambito della violenza»11.
Il Comitato esorta quindi lo Stato a porre l’accento sull’adozione di
misure globali per affrontare la violenza contro le donne nella famiglia e
99
9 Decreto legge 11/2009, convertito nella legge n.38 del 23 aprile 2009, riguardante misure di contrasto alla violenza sessuale e stalking, che prevede l’obbligatorietà della custodia cautelare in carcere per i delitti di prostituzione minorile, pornografia minorile, iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile, violenza sessuale, atti sessuali con minorenni, violenza sessuale di gruppo; l’estensione a tutte le vittime di violenza sessuale del gratuito patrocinio a spese dello Stato e l’introduzione del reato di atti persecutori (stalking). Malgrado l’obbligatorietà della detenzione prevista per i crimini in questione, nel testo della legge viene tuttavia specificato che « l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione possono essere concessi ai detenuti e internati […] per uno dei delitti ivi previsti, purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva».10 Ex-consulente dell’Ufficio legislativo del Dipartimento pari opportunità11 M. Virgilio (edited by), Lexop: report research 2013, Bononia University press, Bologna, 2013, p. 146
nella società; garantire alle vittime protezione immediata tramite, ad
esempio, l'espulsione del colpevole da casa, o garantendo che possano
accedere a rifugi sicuri e ben finanziati e che abbiano accesso ad assistenza
legale e consulenza psico-sociale gratuite. Il Governo italiano viene poi
invitato a migliorare il sistema di raccolta di dati riguardanti tutte le forme
di violenza contro le donne, compresa la violenza domestica, le misure di
protezione, le azioni penali e le condanne inflitte agli autori. Viene poi
sollecitato ad attuare campagne di sensibilizzazione ed educazione
pubblica attraverso i media per sviluppare una concezione della violenza
sulle donne come socialmente inaccettabile e che diffondano informazioni
sulle misure disponibili per prevenire tale violenza. Infine lo Stato viene
esortato a ratificare in maniera tempestiva la Convenzione del Consiglio
d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la
violenza domestica.
Il Comitato evidenzia che erano state adottate misure per contrastare
la pratica delle cosiddette “dimissioni in bianco”, che penalizzava anche le
donne in gravidanza costringendole ad interrompere il rapporto di lavoro,
e si rammarica che la legge n.188/200712 sia già stata abrogata. Lo Stato
viene quindi esortato a prendere tutte le misure necessarie per abolire
questa pratica.
Il Comitato si rammarica che lo Stato non abbia sviluppato un
programma completo e coordinato per combattere la diffusa accettazione
100
12 Per porre fine alla pratica delle “dimissioni in bianco”, che obbliga i neoassunti a firmare una lettera di dimissioni priva di data che può essere utilizzata in qualsiasi momento e per qualunque motivo dal datore di lavoro per allontanare il dipendente senza corrispondere alcuna indennità, il Parlamento aveva approvato la legge n.188 del 2007 che imponeva l’obbligo di redigere le dimissioni esclusivamente su modello informatico tramite il sito del Ministero del Lavoro. I moduli erano gratuiti ed avevano durata limitata a quindici giorni, per cui risultava impossibile falsificarli o alterarli. Nel giugno 2008 in nuovo governo, nel contesto delle cosiddette “semplificazioni” ha disposto l’abrogazione della legge, riportando di fatto i lavoratori nella condizione precedente.
di ruoli stereotipati di uomini e donne, come raccomandato nelle
Osservazioni conclusive precedenti. La preoccupazione è che tali
stereotipi, che si sono manifestati anche in dichiarazioni pubbliche fatte da
politici italiani, compromettano lo status sociale delle donne, riflettendosi
poi in una serie di svantaggi, tra cui difficoltà di accesso al mercato del
lavoro ed alle posizioni decisionali, nonché influenze negative sulle scelte
delle donne sia accademiche che professionali. Il Comitato invita quindi lo
Stato a porre in essere una politica globale destinata a uomini e donne,
ragazzi e ragazze, per superare la rappresentazione delle donne come
oggetti sessuali, gli stereotipi patriarcali riguardanti il loro ruolo nella
società, nella famiglia e nell’istruzione. In ultimo raccomanda allo Stato di
regolamentare e monitorare gli elementi sessisti nei media.
Le osservazioni del Comitato riprendono il già citato Rapporto
Ombra della piattaforma di associazioni “Lavori in corsa: 30 anni
CEDAW”, che per certi aspetti era stato anche molto più specifico nel
contestare le inadeguate misure per contrastare le discriminazioni e la
violenza contro le donne adottate sino a quel momento dallo Stato
italiano. Di seguito vorremmo riportare solo due delle molte
considerazioni che vengono presentate riguardo ai numerosi aspetti della
discriminazione e della violenza contro le donne.
La prima riguarda il perseguimento penale degli autori delle
violenze, che risulta molto spesso fallace data l’eccessiva durata del
processi penali e il conseguente rischio che cadano in prescrizione. Con la
legge n.251 del 2005, infatti, «questi reati si prescrivono in soli sette anni e
mezzo, troppo pochi, considerata la complessità che presentano, […].
Quasi sempre soprattutto nei grossi Tribunali, come Roma, i processi
101
finiscono con una sentenza di non doversi procedere in sede di appello per
intervenuta prescrizione del reato»13.
La seconda è incentrata sulla rappresentazione del femminicidio
sulla stampa. Nel rapporto ombra viene infatti sottolineato come molto
spesso i media tendano a divulgare le notizie su questi crimini
spiegandole in un’ottica stereotipata; gli autori vengono così presentati
come «vittime di “raptus” e follia omicida”, ingenerando nell’opinione
pubblica la falsa idea che i femminicidi vengano perlopiù commessi da
persone portatrici di disagi psicologici o preda di attacchi di aggressività
improvvisa»14. Questo tipo di interpretazione è tuttavia assolutamente
lontano dalla realtà, infatti «negli ultimi 5 anni meno del 10% di
femminicidi è stato commesso a causa di patologie psichiatriche o altre
forme di malattie e meno del 10% dei femminicidi è stato commesso per
liti legate a problemi economici o lavorativi»15. Il rapporto prosegue
sottolineando che il problema «è di carattere culturale: per prevenire il
femminicidio è necessario in primo luogo sradicare la mentalità patriarcale
che vuole la donna ancora legata ai ruoli tradizionali, sia nel quotidiano
privato che nell’immaginario erotico di corpo a disposizione del marito,
svestita, e della comunità, coperta per pudore o prostituita»16. Senza
un’adeguato intervento in questo senso, con la creazione di piani a lungo
termine ed estesi a tutti gli ambiti della società, sia pubblici che privati, la
situazione non potrà che rimanere immutata.
102
13 B. Spinelli, Rapporto Ombra - Elaborato dalla piattaforma italiana “Lavori in Corsa: 30 anni CEDAW” in merito allo stato di attuazione da parte dell’Italia della Convenzione ONU per l’Eliminazione di Ogni Forma di Discriminazione nei Confronti della Donna (CEDAW) in riferimento al VI Rapporto presentato dal Governo italiano nel 2009, Italia, Giugno 2011, p. 13214 Ivi, p. 14015 Ibidem16 Ivi, p. 141
3.2 La Piattaforma di Pechino e la verifica dei progressi italiani
La Conferenza di Pechino del settembre 1995 ha contribuito ad un
significativo aumento di consapevolezza a livello globale riguardo alla
questione femminile. Mai prima di allora si era visto un tale
coinvolgimento da parte delle Nazioni e della società civile; è stata infatti
la prima Conferenza Mondiale sulle Donne ad ottenere un’affluenza di
ben 17.000 partecipanti e 30.000 attivisti provenienti da tutto il mondo,
mossi dal comune ideale dell’emancipazione femminile globale e della
parità di genere. Il dibattito avviato in quel contesto, a volte anche molto
acceso, ha portato i 189 Governi partecipanti ad assumersi impegni di
portata storica; la Dichiarazione di Pechino e la Piattaforma d’azione
scaturite dalla Conferenza rappresentano il progetto più avanzato di
sempre per la promozione dei diritti delle donne. La Piattaforma ambisce
a stimolare un’evoluzione globale, trasformando il mondo in un luogo in
cui ogni donna e bambina possa essere libera ed esercitare tutti i suoi
diritti, come quello di vivere libera dalla violenza, di andare a scuola, e di
ottenere finalmente l’eguaglianza che le spetta. Volendosi porre come base
per un determinante cambiamento la Piattaforma d’azione ha assunto
impegni onnicomprensivi in dodici aree critiche, per ognuna delle quali ha
individuato degli specifici obiettivi strategici:
A. Donne e povertàB. Istruzione e formazione delle donneC. Donne e saluteD. Violenza contro le donneE. Donne e conflitti armatiF. Donne ed economiaG. Donne, potere e processi decisionaliH. Meccanismi istituzionali per il progresso delle donneI. Diritti umani delle donne
103
J. Donne e mediaK. Donne e ambienteL. Le bambine
Lo slancio dato dalla Piattaforma di Pechino verso la parità di genere
ed il cambiamento della condizione femminile in tutto il mondo viene
monitorato ogni cinque anni, da qui il nome delle conferenze successive
“Pechino+5”, “Pechino+10” e “Pechino+15” che hanno verificato i
progressi compiuti dagli Stati e globalmente. I risultati analizzati in queste
occasioni non sono tuttavia risultati adeguati agli impegni presi e
l’obiettivo della parità di genere in tutte le dimensioni della vita non è
stato ancora raggiunto da nessun Paese. Secondo le Nazioni Unite «le
donne guadagnano meno degli uomini e sono più propense a lavorare in
posti di lavoro di scarsa qualità. Un terzo subisce violenza fisica o sessuale
nel corso della vita. Le lacune riguardanti i diritti riproduttivi ed i servizi
sanitari lasciano morire di parto 800 donne ogni giorno»17.
In linea con l’argomento sinora trattato andremo quindi ad
analizzare le considerazioni della Dichiarazione di Pechino, le azioni
intraprese di conseguenza ed i risultati ottenuti sino a questo momento
per l’area tematica D riguardante la violenza sulle donne.
La Piattaforma di Pechino identifica la violenza contro le donne come
un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi di eguaglianza, sviluppo e
pace, in quanto impedisce alle donne di godere delle loro libertà
fondamentali. In tutte le società del mondo le donne e le ragazze sono
infatti, in misura diversa, sottoposte a violenze fisiche e sessuali, ad abusi
psicologici e a trattamenti discriminatori in ogni ambito della loro vita,
privato e pubblico, sociale ed economico. Per questo motivo con il temine
104
17 http://beijing20.unwomen.org/en/about
“violenza contro le donne” si deve intendere «qualsiasi atto di violenza
contro le donne che provoca, o potrebbe provocare, un danno fisico,
sessuale o psicologico o una sofferenza alle donne, incluse le minacce di
compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che
si verifichino in pubblico o in privato»18. I Governi vengono quindi
sollecitati a prendere delle misure per garantire la tutela delle donne e
punire i colpevoli di tali crimini.
La violenza contro le donne è nel testo della Dichiarazione
riconosciuta come uno dei meccanismi sociali che costringono le donne in
una condizione di subordinazione rispetto all’uomo, in quanto
manifestazione dei rapporti di forza storicamente sbilanciati che hanno
portato alla formazione di tradizioni e consuetudini discriminatorie.
Anche le immagini di violenza contro le donne nei mass media, così come
l’uso delle donne e delle bambine come oggetti sessuali, sono da
considerarsi come fattori che contribuiscono al perdurare di stereotipi che
influenzano negativamente il pubblico, bambini e giovani in special modo.
L’assenza di leggi adeguate e la mancata riforma di quelle preesistenti,
l’impegno inadeguato da parte dei Governi per applicarle e per
promuovere la consapevolezza per affrontare il problema portano, ancora
oggi, le donne ad essere private della possibilità di accedere ad
informazioni legali e a strumenti che potrebbero aiutarle e proteggerle
nell’uscita da situazioni di violenza.
105
18 United Nations, Report of the Fourth World Conference on Women - Beijing, 4-15 September 1995, New York, 1996, p. 48Nel testo viene inoltre fornito un’elenco delle principali, ma non uniche, pratiche comprese nel concetto di violenza contro le donne: la violenza fisica, sessuale e psicologica nell’ambito della famiglia, nella società e perpetrata o tollerata dallo Stato, la violenza per cause legate alla dote, lo stupro coniugale, la mutilazione genitale femminile e altre pratiche tradizionali affini, la violenza extraconiugale e la violenza derivante dallo sfruttamento e dalla prostituzione forzata, lo stupro, l’abuso sessuale, la molestia sessuale, e l’intimidazione sul posto di lavoro. Sono poi comprese tutte le violazioni dei diritti delle donne in situazioni di conflitto armato, soprattutto omicidio, stupro sistematico, schiavitù sessuale, gravidanza forzata.
Per questo motivo la Piattaforma di Pechino invita tutti i Governi ad
affrontare il problema promuovendo strategie precise e ad ampio spettro
che introducano la problematica in ogni settore e i cui effetti siano
concretamente verificabili. A tal fine, oltre alla divisione delle tematiche
relative alla questione femminile in dodici aree critiche, per ciascuna di
queste sono stati delineati una serie di obiettivi strategici. Per quanto
riguarda l’area della violenza contro le donne sono tre gli obiettivi che gli
Stati si sono impegnati a perseguire: l’adozione di misure per prevenire ed
eliminare al violenza e per assistere le vittime; studiare le sue cause e
conseguenze e l’efficacia delle misure di prevenzione adottate; eliminare la
tratta delle donne e delle bambine.
Per realizzare questi obiettivi i Governi, sottoscrivendo la
Piattaforma d’azione, si sono impegnati a mettere in atto una serie di
iniziative quali, ad esempio, condannare la violenza e non invocare alcuna
abitudine, tradizione o argomentazione religiosa per esimersi dai propri
obblighi rispetto alla sua eliminazione; introdurre o inasprire le sanzioni
penali, civili, amministrative per punire e risarcire i torti provocati alle
donne e alle bambine che siano soggette a qualsiasi forma di violenza in
casa, sul luogo di lavoro, o nella società. Gli Stati sono di conseguenza
tenuti a vigilare per prevenire e punire gli atti di violenza contro le donne,
fornendo poi alle vittime accesso ai meccanismi della giustizia,
informandole dei loro diritti e delle tipologie di assistenza disponibili. È
responsabilità degli Stati fornire alle vittime strutture di accoglienza
generosamente finanziate e sostegno alle donne e alle bambine, nella
forma di servizi di assistenza medica e psicologica e aiuto legale gratuito o
a basso costo. Inoltre ogni Stato si è impegnato a «sviluppare programmi
di assistenza psicologica, di terapia e di sostegno per le bambine, le
adolescenti e le giovani donne che sono state o sono vittime di violenze da
106
parte dei loro prossimi, in particolare per quelle che vivono nella casa o
nelle istituzioni dove tali abusi si verificano». Infine, anche per quanto
riguarda i colpevoli, i Governi hanno la responsabilità di fornire e
finanziare programmi di consulenza e rieducazione, al fine di prevenire il
ripetersi delle violenze.
Tutti gli Stati sono poi tenuti a promuovere la compilazione di
statistiche e incoraggiare la ricerca sulle cause e le conseguenze della
violenza contro le donne, nonché a diffondere e pubblicizzare i risultati
della ricerca e degli studi condotti.
In ultimo, per quanto concerne la lotta alla tratta delle donne, alcune
delle azioni che gli Stati si sono impegnati ad attuare sono l’adozione di
misure appropriate per affrontare le cause profonde del traffico di donne e
di bambine per la prostituzione e altre forme di commercializzazione del
sesso e lo sviluppo di programmi, politiche e leggi per condannare e
proibire il turismo sessuale e la tratta, proteggendo in particolare le
giovani donne, le bambine ed i bambini.
L’Unione Europea si è impegnata fin da subito per conseguire gli
obiettivi strategici della Piattaforma d’azione di Pechino e negli anni ha
monitorato i risultati dei suoi Stati membri pubblicando periodiche
relazioni tramite l’Istituto Europeo per l’Eguaglianza di Genere - EIGE.
Anche l’UNECE, la Commissione Economica delle Nazioni Unite per
l’Europa ha contribuito a monitorare l’andamento dei lavori e, tra le varie
iniziative, ha organizzato una riunione di revisione, tenutasi a Ginevra il 6
e 7 novembre 2014 in vista della prossima Conferenza Pechino+20, per la
quale ha richiesto ad ogni Stato europeo un rapporto nazionale
sull’andamento delle iniziative intraprese per raggiungere gli obiettivi
della Piattaforma d’azione. Prendendo spunto dalla relazione fornita dal
107
Governo italiano in quest’ultimo contesto, e confrontandola con i rapporti
divulgati da vari organismi internazionali e nazionali, andremo quindi a
verificare quali siano stati gli effettivi risultati conseguiti dello Stato
italiano.
Il Consiglio Europeo, nel contesto dell’attuazione della Piattaforma
d’azione di Pechino, ha sviluppato una serie di atti vincolanti che hanno
svolto un importante ruolo nella prevenzione della violenza di genere in
alcune delle sue forme. In particolare si possono ricordare la direttiva
2004/113/CE19 del 13 dicembre 2004 per l’applicazione del principio della
parità di trattamento tra uomini e donne nell'accesso e nella fornitura di
beni e servizi e che fornisce una definizione di molestie sessuali
classificandole come una discriminazione sulla base del sesso; la direttiva
2006/54/CE20 del 5 luglio 2006 relativa all'attuazione del principio delle
pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in
materia di occupazione e impiego e che ribadisce la definizione delle
molestie come discriminazioni sulla base del sesso; la direttiva 2011/36/
UE21 del 5 aprile 2011 riguardante la prevenzione e la repressione della
tratta degli esseri umani e la protezione delle vittime, che stabilisce norme
minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni nel settore della
tratta di esseri umani. Sulla base di queste sono poi state create la direttiva
2011/99/UE22 del 13 dicembre 2011 sull'ordine di protezione europeo che
mira a proteggere le vittime, comprese le vittime della violenza di genere,
di molestie, stalking o tentato omicidio, stabilendo il riconoscimento
108
19 Attuata in Italia tramite decreto legislativo n.196 del 6 novembre 200720 Attuata in Italia tramite decreto legislativo n.5 del 25 gennaio 201021 Attuata in Italia tramite decreto legislativo n.24 del 4 marzo 201422 Corrispondente in Italia allo schema di decreto legislativo n.117, ad oggi in corso di
esame. Termine di attuazione: 11 gennaio 2015
reciproco degli ordini di protezione all'interno dell'Unione Europea e la
direttiva 2012/29/UE23 del 25 ottobre 2012 che stabilisce norme minime
riguardanti i diritti, l'assistenza e la protezione delle vittime di reato, che
riguardano, tra le altre cose, il diritto a ricevere informazioni sufficienti e
comprensibili sui propri diritti, per consentire alle vittime di decidere con
cognizione di causa in merito alla loro partecipazione al procedimento
penale; l’accesso ai servizi di assistenza che forniscano consigli, sostegno
psicologico e supporto pratico, anche nei casi in cui ancora non sia stata
presentata denuncia; riconoscimento della vulnerabilità della vittima e
protezione della stessa dal pericolo di ritorsione e intimidazione.
Per quanto riguarda la protezione delle vittime in Italia non esiste
ancora una legge che preveda l’organizzazione e la fornitura di servizi
sociali da parte dell’autorità statale, lasciandone di fatto la gestione
esclusivamente alle Organizzazioni non governative o agli enti locali. Il
Governo italiano nel 2011 ha tuttavia emanato un avviso per l’erogazione
di fondi per il sostegno ai centri antiviolenza finalizzato all’ampliamento
del numero di servizi alle vittime e all’apertura di nuovi centri, nella
cornice delle misure previste nel primo Piano Nazionale contro la violenza di
genere e lo stalking approvato nel novembre dell’anno precedente24.
Rispondendo al Consiglio europeo, che nel 1997 aveva raccomandato che
fosse disponibile un centro antiviolenza ogni 7.500 abitanti, l’obiettivo del
Governo era quello di «accrescere nel paese il numero di posti letto
disponibili in rifugi sicuri in cui le donne e i loro bambini che hanno
subito violenza possano vivere liberi dalla paura di essere nuovamente
109
23 Ad oggi non risulta inserita in alcuno schema di decreto legislativo. Termine di attuazione: 16 novembre 2015
24 In Italia non esistono leggi nazionali organiche sulla violenza contro le donne, né tanto meno un piano di intervento governativo; la prima iniziativa in tale senso è stato il Piano Nazionale contro la violenza di genere e lo stalking approvato con decreto ministeriale l’11 novembre 2010, ma rimane un piano limitato, mancante della visione d’insieme che sarebbe necessaria per affrontare il problema.
vittime di abuso»25. Il progetto era dunque quello di finanziare interventi
di sostegno ai centri antiviolenza già attivi sul territorio, nonché di
finanziare l’apertura di ulteriori strutture, destinando a queste iniziative
una somma complessiva di 10 milioni di euro. Nel 2011 esistevano infatti
solo 54 case rifugio, tutte gestite da ONG indipendenti e con capacità di
accoglienza limitate, che in totale riuscivano a fornire circa 500 posti per
donne e bambini, assolutamente insufficienti rispetto alle 5711 richieste
ricevute quell’anno26. Confrontando questi dati con quelli del 2013 si può
notare che il numero dei rifugi disponibili sul territorio nazionale è
effettivamente aumentato ed ora sono presenti 11 nuovi centri gestiti dalle
autorità locali o da altre organizzazioni. I posti disponibili tuttavia sono
ancora estremamente limitati rispetto alle necessità del Paese: secondo gli
ultimi dati in Italia nel 2013 ne sarebbero stati richiesti 6.019, mentre,
malgrado l’aumento dei centri, sono ancora circa 500 quelli disponibili27. È
poi opportuno ricordare che con la legge n.119/2013, che stabilisce
Disposizioni Urgenti in materia di Sicurezza e per il contrasto alla Violenza di
Genere, il Governo aveva stanziato 16,5 milioni di euro per il periodo
2013/2014 per i numeri verdi, i centri antiviolenza e le case rifugio;
tuttavia i criteri previsti per l’erogazione dei fondi erano molto ampi e
sono stati compresi nei finanziamenti anche centri pubblici e privati che si
occupano di situazioni di disagio generico. Il decreto finiva dunque per
110
25 Dipartimento per le pari opportunità, Avviso per il “sostegno ai centri antiviolenza ed alle strutture pubbliche e provate finalizzato ad ampliare il numero di servizi offerti alle vittime la cui incolumità sia particolarmente a rischio e per l’apertura di centri antiviolenza a carattere residenziale nelle aree dove è maggiore il gap tra la domanda e l’offerta”, avviso del 14 novembre 2011 con scadenza 10 gennaio 2012http://www.pariopportunita.gov.it/images/stories/documenti_vari/UserFiles/Il_Dipartimento/avvisocentriantiviolenza_14112011.pdf26 WAVE - Women Against Violence Europe, Country Report 2011
http://www.wave-network.org/country/italy27 WAVE Women Against Violence Europe, Country Report 2013
http://www.wave-network.org/country/italy
comprendere 352 strutture a fronte di circa un centinaio che si occupano in
modo specifico di violenza contro le donne; a tutte queste strutture è stato
destinato circa il 13% dei fondi totali28, poco più di due milioni di euro,
ossia circa 3.000 euro all’anno per due anni per ciascuna struttura,
minacciando così la stessa sopravvivenza dei rifugi e dei centri
indipendenti che da decenni operano sul territorio. Le ulteriori misure
introdotte da quest’ultima legge apportano modifiche alla legislazione
precedente in materia di violenza contro le donne basate sull’idea
di relazione affettiva di per sé, sganciata dal vincolo matrimoniale o dalla
convivenza. In questo modo la legge tende ad adattarsi maggiormente alla
realtà, nella quale molto spesso qualsiasi tipo di relazione affettiva può
divenire teatro di violenze ai danni delle donne. Risulta tuttavia difficile
individuare in relazioni meno “convenzionali” le caratteristiche che
permettano di applicare questa legge.
La legge n.119/2013, così come il nuovo Piano nazionale
antiviolenza, che dovrebbe essere adottato entro gennaio 2015, sono
rimedi limitati e temporanei, ma la prima vera forma di protezione delle
vittime è la prevenzione e per quella servono piani articolati a lungo
termine, nonché, come raccomandato da più enti internazionali,
l’istituzione di un organo di controllo preposto al monitoraggio della
violenza contro le donne ed al conseguente adeguamento delle politiche.
Il rapporto dell’EIGE, che prende in considerazione il supporto alle
vittime come indicatore per verificare l’attuazione della Piattaforma di
Pechino, nelle conclusioni riporta un generale progresso nei servizi di
sostegno alle vittime di violenza, ma sottolinea al contempo che molte
111
28 Circa il 54% è stato destinato a “programmi regionali” ed il restante 33% all’apertura di nuovi centri
sono ancora le cose da fare29. Ciò che preoccupa maggiormente è la
mancanza di monitoraggio delle varie politiche e soprattutto della loro
applicazione pratica per verificare che siano adeguatamente attuate.
3.3 Convenzione di Istanbul: la condanna definitiva della violenza domestica?
Nell’ambito delle iniziative internazionali per la realizzazione degli
obiettivi di Pechino rientra anche la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla
prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza
domestica redatta ad Istanbul l’11 maggio 2011 e ratificata dall’Italia con la
legge n.77/2013. Con questa Convenzione gli Stati membri del Consiglio
d’Europa e gli altri firmatari riconoscono «che il raggiungimento
dell’uguaglianza di genere de jure e de facto è un elemento chiave per
prevenire la violenza contro le donne», che «la violenza contro le donne è
una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi,
che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei
loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena
emancipazione» e che «la violenza domestica colpisce le donne in modo
sproporzionato» ma anche gli uomini possono essere vittime di violenza
domestica, così come i bambini lo sono anche in quanto testimoni di
violenze all'interno della famiglia. La Convenzione ha dunque come
obiettivo la protezione delle donne, prevenendo ed eliminando ogni forma
di violenza nei loro confronti, ed anche il perseguimento e l’eliminazione
della violenza domestica in generale. Vuole poi contribuire ad eliminare
«ogni forma di discriminazione contro le donne e promuovere la concreta
parità tra i sessi» e a predisporre «politiche e misure di protezione e di
assistenza a favore di tutte le vittime di violenza contro le donne e di
112
29 EIGE, Review of the implementation of the Beijing Platform for Action in the EU Member States: violence against women - victim support, Publications Office of the European Union, Belgium, 2012, p. 55
violenza domestica […] che colpisce le donne in modo sproporzionato».
La Convenzione prosegue poi specificando che con il termine “donne” si
intendono anche le ragazze minorenni e che nell’espressione “violenza
domestica” vengono compresi «tutti gli atti di violenza fisica, sessuale,
psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del
nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner,
indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia
condiviso la stessa residenza con la vittima». Viene inoltre specificato che
tutti i reati previsti dalla Convenzione si applicano «a prescindere dalla
natura del rapporto tra la vittima e l’autore del reato».
Questo documento, nell’affrontare il tema della lotta alla violenza
sulle donne, adotta dunque un approccio che focalizza l’attenzione sulla
protezione e soprattutto sulla prevenzione, concentrandosi sulla necessità
di un cambiamento nella mentalità e nella società. L’elemento culturale è
fondamentale, qualsiasi legge o convenzione che non ispiri innanzitutto
un cambiamento in questo ambito rischia altrimenti di rimanere
inapplicata e le speranze in essa riposte disattese.
Tra gli obblighi che la sottoscrizione della Convenzione impone agli
Stati ci sono lo stanziamento di risorse finanziare e umane appropriate per
prevenire e combattere la violenza, il sostegno e la cooperazione con
organizzazioni non governative e società civile e l’istituzione di un
organismo ufficiale per il coordinamento, l’attuazione, il monitoraggio e la
«valutazione delle politiche e delle misure destinate a prevenire e
contrastare ogni forma di violenza». Gli Stati si impegnano inoltre, a scopo
preventivo e di trattamento, a promuovere programmi di sensibilizzazione
ed educazione sul tema, nonché ad istituire e sostenere programmi rivolti
agli autori delle violenze, per modificare i modelli comportamentali
violenti e prevenire ulteriori crimini. Per quanto riguarda le vittime gli
113
Stati si impegnano ad adottare tutte le misure necessarie a proteggerle da
ulteriori atti di violenza e a garantire loro un supporto adeguato per il
recupero. Tale supporto comprende le case rifugio, che devono essere
adeguate, «facilmente accessibili e in numero sufficiente per offrire un
alloggio sicuro alle vittime, in particolare le donne e i loro bambini, e per
aiutarle in modo proattivo», i centri di prima assistenza per le vittime di
stupri e violenze sessuali, anche questi facilmente accessibili e in numero
sufficiente, «che possano proporre una visita medica e una consulenza
medico-legale, un supporto per superare il trauma e dei consigli» e
comprende inoltre le misure necessarie a garantire i diritti ed i bisogni dei
bambini testimoni di ogni forma di violenza che rientri nel campo
d’applicazione della Convenzione. Nell’ambito della prevenzione gli Stati
sono poi tenuti ad adottare delle misure per incoraggiare qualsiasi persona
testimone di un atto di violenza a segnalarlo alle organizzazioni o autorità
competenti; inoltre dovrebbero essere previste delle misure per garantire
che la riservatezza imposta a determinate figure professionali non ostacoli
la loro possibilità «di fare una segnalazione alle organizzazioni o autorità
competenti, qualora abbiano ragionevoli motivi per ritenere che sia stato
commesso un grave atto di violenza» o che ne possano temere di nuovi.
Allo scopo di garantire l’attuazione delle disposizioni da parte degli
Stati che hanno sottoscritto la Convenzione è stata prevista l’istituzione di
un meccanismo di controllo composto da un «gruppo di esperti sulla lotta
contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica»,
denominato GREVIO, con il compito di esaminare i rapporti ciclici
presentati da ogni Stato parte sulle misure adottate per l’attuazione della
Convenzione. Il GREVIO può organizzare, in collaborazione con le
autorità nazionali, delle visite nei paesi interessati, se le informazioni
ricevute nei rapporti o da altre fonti risultano insufficienti o indicano una
114
situazione in cui i problemi rilevati «richiedono un'attenzione immediata
per prevenire o limitare la portata o il numero di gravi violazioni della
Convenzione»; in tali casi può richiedere un rapporto urgente sulle misure
adottate dal Governo per contrastare «una forma di violenza sulle donne
grave, diffusa o ricorrente». Se il caso lo richiede può inoltre stabilire la
necessità di condurre un’indagine. Dopo aver ricevuto le relazioni, ed
eventualmente aver approfondito determinate problematiche, il GREVIO
elabora una bozza di analisi sull’applicazione della Convenzione
contenente anche suggerimenti e proposte per lo Stato interessato; la
bozza viene poi trasmessa a quest’ultimo che può così formulare i
commenti che verranno presi in considerazione e, unitamente al rapporto,
resi pubblici.
Il ruolo fondamentale che questo documento potrà svolgere nel
migliorare le condizioni di vita e tutelare il benessere delle donne è stato
perfettamente espresso nel discorso tenuto da Morten Kjærum30 in
occasione delle celebrazioni per l’entrata in vigore della Convenzione. Il
direttore della FRA ha infatti affermato che «la Convenzione offre per la
prima volta ad un'intera regione norme giuridicamente vincolanti» e
sottolinea come questa non si concentri solo sui rimedi alla violenza, ma
anche sulla prevenzione. «Con la contestazione nel corso degli ultimi
decenni dei modelli tradizionali di genere, abbiamo bisogno di un
dibattito su come aiutare gli uomini a trovare nuovi ruoli nella società, così
come nelle loro famiglie. [...] Così il ruolo degli uomini, non solo come
autori di violenza contro le donne, ma anche nella società in generale,
necessita ovviamente di essere esplorato in modo più dettagliato.
Soprattutto abbiamo bisogno di un dibattito pubblico che enfatizzi che
115
30 Direttore dell’Agenzia europea dei diritti fondamentali (FRA)
assillare, molestare o colpire le donne non è attraente, non è virile e non è
accettabile»31. Secondo Kjærum, dunque, la Convenzione di Istanbul può
fornire il contesto fondamentale ed assolutamente necessario per
affrontare finalmente questi temi.
116
31 Discordo tenuto da Morten Kjærum in occasione della conferenza “Safe from fear, safe from violence - Celebrating the entry into force of the Istanbul Convention” e pubblicato il 22 settembre 2014http://fra.europa.eu/en/speech/2014/safe-fear-safe-violence-celebrating-entry-force-istanbul-convention
4. Dalla parte delle donne: organizzazioni e iniziative
La cultura della violenza di genere ha segnato la vita delle donne per
millenni ed è quindi relativamente recente l’interessamento collettivo nei
confronti di questo problema. La discriminazione nei confronti delle
donne e le violenze che subiscono quotidianamente rientrano in un più
ampio contesto di atavica esecrazione che ha radici profonde e ben
radicate in quasi tutte le culture; secondo i dati del WomanStat Project1, non
esiste un solo Paese al mondo dove le donne siano perfettamente al sicuro.
Per questo motivo per contrastare il problema non sono sufficienti leggi e
trattati, ma è necessario un radicale mutamento di percezione e sensibilità
in ogni angolo del pianeta. Ecco perché tutte le Convenzioni internazionali
richiedono il coinvolgimento delle società civili affinché il messaggio di
condanna della violenza non rimanga confinato nelle torri d’avorio della
politica internazionale, ma sia diffuso il più possibile tra le persone, nella
speranza che susciti in loro il cambiamento necessario. «L’esperienza di
molti Paesi indica che le donne e gli uomini possono essere coinvolti nella
lotta contro la violenza in tutte le sue forme e che efficaci misure pubbliche
possono essere adottate per affrontare sia le cause sia le conseguenze della
violenza»2. Se lo Stato in questo è spesso carente, a livello internazionale le
organizzazioni non governative hanno tentato in molti modi di dar voce
alle donne, per contrastare la violenza su di loro e sono così riuscite ad
ottenere qualche risultato concreto, dimostrando che c’è speranza, che la
disparità può finalmente essere superata e che il cambiamento culturale
verso la fine della violenza contro le donne è possibile.
117
1 Il progetto raccoglie informazioni dettagliate sulla condizione delle donne nel mondo e mette in relazione questi dati con la sicurezza degli Stati. Combina la letteratura esistente con interviste di esperti per ottenere informazioni qualitative e quantitative su oltre 360 indicatori di status delle donne in 175 paesi. Il progetto è iniziato nel 2001 e ad oggi vi partecipano undici ricercatori di nove università in quattro Paesi differenti.2 Piattaforma d’Azione di Pechino, 1995, art.120
Per questo motivo può essere utile analizzare alcuni esempi di
iniziative internazionali e nazionali volte ad aumentare la consapevolezza
nei confronti della violenza sulle donne e permettere ad esse di poter
finalmente godere dei loro diritti, tutelandole da ulteriori violenze. Per
quanto riguarda invece l’assistenza che le donne italiane ricevono in
seguito alle violenze subite, si vedrà il caso dei centri antiviolenza e di
come lo Stato contribuisca, o meno, alle loro attività.
4.1 Le iniziative di sensibilizzazione internazionali e italiane a confronto
Nel luglio del 2010 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha dato
vita a UN Women, l’organismo per l’uguaglianza di genere e
l’emancipazione delle donne, il cui ruolo principale è sostenere la
formulazione di politiche e standard globali, aiutando poi i Paesi che lo
richiedono ad attuare tali norme e mantenere l’attenzione del sistema delle
Nazioni Unite focalizzata sugli impegni presi nei confronti delle esigenze
delle donne di tutto il mondo. UN Women è stato quindi creato per
affrontare le sfide che ancora oggi si presentano al raggiungimento
dell’eguaglianza e del pieno godimento dei diritti delle donne,
prefiggendosi di essere «un campione dinamico e forte per le donne e le
ragazze, dando loro una voce potente a livello globale, regionale e locale»3.
Collaborando con organizzazioni della società civile per aumentare la
consapevolezza delle cause e delle conseguenze della violenza, questo
organismo ha enfatizzato la necessità di modificare gli stereotipi, le
tradizioni sessiste e androcentriche, e quindi i comportamenti di uomini e
ragazzi, in vista del raggiungimento dell’eguaglianza di genere; in tal
modo viene richiamato anche l’articolo 5 della Convenzione sull’eliminazione
di tutte le forme di discriminazione contro le donne, che impegna gli Stati a
118
3 http://www.unwomen.org/en/about-us/about-un-women
prendere ogni misura appropriata per «modificare i modelli socio-culturali
di comportamento degli uomini e delle donne, al fine di conseguire
l’eliminazione dei pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie o di ogni
altro genere che sono basate sull’idea dell’inferiorità o della superiorità
dell’uno o dell’altro sesso o su ruoli stereotipati per gli uomini e per le
donne».
UN Women gestisce la campagna del Segretario Generale delle
Nazioni Unite Ban Ki-moon UNiTE to end violence against women, lanciata
nel 2008 per sensibilizzare l’opinione pubblica ed aumentare la volontà
politica a porre fine a tutte le forme di violenza contro le donne. La
campagna sollecita tutti i governi, ma soprattutto la società civile, donne,
uomini e tutti coloro che possono contribuire a cambiare la situazione
sociale, a mobilitarsi per affrontare quella che viene definita una pandemia
globale. Per questo motivo si impegna ad incentivare e supportare
campagne nazionali e locali per la prevenzione ed il sostegno nei confronti
delle donne che hanno subito abusi. Da questa campagna sono nate molte
altre iniziative, come ad esempio Orange Day, un’iniziativa simbolica che
ha identificato il 25 di ogni mese come giorno per accrescere la
consapevolezza nei confronti della violenza contro le donne, invitando ad
indossare qualcosa di arancione per mostrare il proprio supporto alla
campagna. Questa iniziativa ispirata al 25 novembre, Giornata
internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, è volta a
sensibilizzare ed attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sul problema
ed è riuscita a coinvolgere milioni di persone in più di 50 Stati. L’iniziativa
più importante è tuttavia Ring the Bell! che, essendo destinata
principalmente agli uomini, introduce una prospettiva fondamentale ma
finora scarsamente condivisa. Invitando gli uomini ad intervenire ogni
volta che sentono una donna in pericolo si trasmette l’idea che non siano
119
solo le donne ad essere responsabili della lotta alla violenza, e che la lotta
per i loro diritti non è esclusivamente una questione femminile. Come UN
Women ha ribadito più volte, i Paesi dove le donne sono maggiormente
libere ed emancipate sono gli stessi Paesi dove la società e l’economia sono
più prospere e la qualità della vita è superiore. È nell’interesse di tutti che
le donne possano finalmente essere libere ed è quindi una responsabilità
di tutti combattere la violenza e la disuguaglianza. Nel suo messaggio per
l’iniziativa Ring the Bell! il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha
affermato che, malgrado in un mondo globalizzato i problemi possano il
più delle volte essere affrontati solo con la cooperazione tra governi, «c’è
un terribile problema che possiamo affrontare come individui: la violenza
contro le donne»4 ed invita gli uomini e i ragazzi a schierarsi in prima
persona per fermare la violenza, semplicemente suonando il campanello
quando sentono qualcosa che li può far sospettare che una donna o una
ragazza stia subendo degli abusi; in questo modo un semplice gesto
«interrompe quello che sta avvenendo. Mostra che ci sono persone che
stanno guardando e ascoltando. Può dare ad una donna l’occasione di
scappare»5. L’iniziativa è stata lanciata per la prima volta in India nel 2008
dall’organizzazione internazionale per i diritti umani Breakthrough ed è
tuttora attiva sia dal punto di vista multimediale, con la diffusione della
campagna su televisione, stampa, radio e internet, sia dal punto di vista
della mobilitazione delle comunità, con corsi di formazione e workshop6.
Questa iniziativa ha evidenziando il ruolo che anche gli uomini possono
120
4 Messaggio del Segretario Generale per la campagna Ring the Bell - New York, 21 settembre 20105 Ibidem6 240 milioni di persone sono state esposte alla componente multimediale della campagna (130 milioni nella prima fase tra il 2008 e il 2009 e 110 milioni nella seconda tra il 2009 e il 2010. Più di 25.000 giovani e rappresentanti della comunità sono stati formati sui temi della violenza domestica, delle questioni di genere, dell’HIV e dei diritti umani.
svolgere nel ridurre e porre fine alla violenza domestica7 e con il
messaggio del Segretario Generale delle Nazioni Unite si sta cercando di
espanderla a livello globale. Dal marzo 2013 un evento collegato a questa
iniziativa è stato lanciato per renderla internazionale: un milione di
uomini è stato invitato a promettere di intraprendere azioni concrete per
porre fine alla violenza contro le donne, intervenendo quando necessario e
i messaggi dell’iniziativa sono stati adottati da organizzazioni di tutto il
mondo, tra cui Canada, Cina, Sud Africa, Brasile, Pakistan e Vietnam.
L’appello a sfidare lo status quo che priva le donne dei loro diritti può
essere considerato come un potenziale punto di svolta, nella speranza di
costruire «un mondo in cui le donne siano al sicuro e in cui ciascuno di noi
viva liberamente, pienamente e senza paura»8.
Un report che riassume i risultati ottenuti durante i primi due anni
della Campagna9 ha evidenziato come questa sia riuscita a modificare la
percezione del problema della violenza domestica, incrementando la
consapevolezza sia negli uomini che nelle donne che questa forma di
abuso è estremamente presente all’interno delle famiglie che li circondano.
Se si prendono ad esempio i dati del report riguardanti gli abusi emotivi,
si può notare come la campagna sia stata efficace perché questi venissero
riconosciuti come una forma di violenza domestica. Nel 2008 il 31% degli
uomini e il 19,2% delle donne li considerava come violenza domestica, nel
2010 a riconoscerli come tale sono stati il 35,2% degli uomini ed il 53,7%
delle donne. Un’altro esempio degli importanti risultati ottenuti da questa
121
7 La collaborazione della componente maschile della comunità è considerata la chiave per affrontare la questione della violenza domestica. Gli uomini compongono la maggioranza delle forze dell’ordine e controllano le istituzioni sociali, politiche e religiose, per questo possono assumere anche un ruolo fondamentale nella mobilitazione contro la violenza, che deriva soprattutto da tradizioni patriarcali ed atteggiamenti sessisti.8 http://www.bellbajao.org/home/about/9 Swati Chakraborty, End line suervey on domestic violence and HIV/AIDS, 2010, Breakthrough, 2012
campagna sono i risultati della domanda riguardante il rifiuto della
moglie ad avere rapporti sessuali col marito quando è stanca: se prima
della Campagna solo il 45% delle persone intervistate sosteneva la
posizione della donna, dopo due anni si era passati al 75%; in definitiva le
persone che si opponevano all’idea che la moglie avesse voce in capitolo
nell’intrattenere rapporti sessuali col marito sono notevolmente diminuite.
Come risulta dal report la Campagna ha poi ottenuto degli importanti
risultati sulla fondamentale questione degli abusi domestici, soprattutto
per quanto riguarda la considerazione di questi come problemi di tutta la
comunità; tradizionalmente la violenza domestica, in India come in altre
parti del mondo, è vista come una questione privata tra marito e moglie e
per questo molto spesso le donne subiscono gli abusi in silenzio. Dopo soli
due anni di Campagna, invece, il 90% delle persone intervistate ha
dichiarato di considerare le violenze all’interno della coppia come un
problema sociale e non circoscritto alla famiglia; grazie a questo si è creata
la possibilità per le donne non solo di denunciare le violenze subite, ma
anche di lottare per l’eguaglianza nella vita familiare e nella società.
Alcune delle testimonianze che si possono trovare sul sito dell’iniziativa
riportano storie di ragazzi che hanno attivato dei gruppi d’informazione
nei loro villaggi sulle questioni dei matrimoni precoci, dell’educazione
delle bambine e della riduzione della mortalità legata al parto, oppure di
comunità che si sono organizzate, grazie all’aiuto delle donne, per
migliorare i trasporti pubblici, l’accesso all’acqua e la sicurezza dei
quartieri. In generale l’iniziativa Ring the Bell! (Bell Bajao! in lingua Indi) ha
portato significativi cambiamenti, nella sua area di diffusione, per quanto
riguarda la consapevolezza e la percezione della violenza nei confronti
delle donne; nel report vengono tuttavia analizzate anche le aree tematiche
o i mezzi di comunicazione che non hanno ottenuto i risultati previsti e
122
che, grazie ai dati raccolti, si prevede di modificare e migliorare per
conseguire gli obiettivi desiderati.
Fare un confronto con le iniziative promosse in ambito italiano non è
semplice, soprattutto a causa della mancanza di informazioni e di
monitoraggio delle campagne di informazione e sensibilizzazione. La
raccomandazione generale n.9 della CEDAW10 riguardante i dati statistici
li considera come informazioni assolutamente necessarie per capire la
reale situazione delle donne in ogni Paese; nella Dichiarazione
sull’eliminazione della violenza contro le donne del 1993 in un punto dell’art.4
viene richiesta la promozione della ricerca e della compilazione di
statistiche, soprattutto sulla violenza domestica e «sull’efficacia delle
misure adottate per prevenire e riparare alla violenza contro le donne».
L’Italia aveva risposto a queste richieste con la legge finanziaria del 2007,11
che prevedeva l’istituzione di un Osservatorio nazionale contro la violenza
sessuale e di genere; a questo aspetto della legge non è mai stata data
attuazione e ancora oggi nel nostro Paese la raccolta dei dati se viene
effettuata non viene né monitorata, né resa pubblica. L’art.11 della
Convenzione di Istanbul riguarda nello specifico la raccolta dei dati e la
ricerca, ribadendo ancora una volta la richiesta di studiare i dati sulla
violenza contro le donne ed anche «l’efficacia delle misure adottate».
A differenza dunque di quanto richiesto da tutte le Convezioni citate,
in Italia non esiste ancora un organo di controllo delle politiche, delle
attività e delle iniziative attuate per contrastare la violenza nei confronti
delle donne, né tantomeno una sistematica raccolta e analisi dei dati in
proposito. Per quanto riguarda le campagne di sensibilizzazione,
123
10 CEDAW, General Recommendation 9, UN GAOR, 1989, Doc. No. A/44/38.11 Legge n.296/2006
prendendo in esame un lasso di tempo analogo a quello della campagna
internazionale Ring the Bell!, dal 2008 ad oggi ne sono state avviate 9,
ciascuna della durata di circa due settimane. Già da questo dato si può
osservare come in Italia siano mancati completamente una politica
organica ed un progetto di lungo termine per il contrasto della violenza
sulle donne.
Nel 2008 non è stata attivata alcuna campagna contro la violenza
sulle donne e la prima è dunque quella del marzo 2009 che pubblicizzava
il numero antiviolenza “1522”; la campagna invitava le donne a reagire
alle violenze subite chiamando il servizio di accoglienza telefonica ed è
stata trasmessa dalle reti RAI dall’8 marzo 200912. Come già sottolineato,
nessun dato sull’efficacia della campagna è stato raccolto e non è stata
fatta, o quantomeno divulgata, alcuna stima di quante persone abbia
effettivamente raggiunto. Nel luglio dello stesso anno una nuova
campagna, questa volta contro lo stalking, che da cinque mesi era stato
riconosciuto come reato perseguibile penalmente, ha pubblicizzato il
nuovo servizio di assistenza contro lo stalking del numero antiviolenza
“1522”; lo spot, secondo quanto riportato nella sezione del sito del
Governo Italiano dedicata al dipartimento per l’informazione e l’editoria,
è stato trasmesso per due settimane, dal 19 luglio al 2 agosto, ed anche in
questo caso invitava le donne vittime di stalking a denunciare i loro
persecutori. Dall’entrata in vigore della legge sullo stalking, il 25 febbraio
2009, in poco più di un anno vi erano state oltre 7.000 denunce e le
richieste di aiuto al numero antiviolenza erano aumentate del 25%; per
questo motivo nel 2010 la campagna d’informazione contro lo stalking è
stata nuovamente trasmessa, sempre per un periodo di 14 giorni, a partire
124
12 http://www.governo.it/DIE/attivita/campagne_istituzionali/XVI_Legislatura/1522_reagire/index.html
dal 1 agosto. La medesima campagna è stata poi riproposta dal 28 luglio
all’11 agosto del 2012.
Per una nuova campagna di comunicazione a sostegno delle donne
vittime di violenza è stato necessario aspettare quasi due anni, fino al
marzo del 2012, quando è stata avviata una nuova promozione del
numero antiviolenza “1522”, il cui coordinamento era stato nel frattempo
delegato all’associazione Telefono Rosa. In questo caso il messaggio, che
recitava «Se sei vittima o testimone di un atto di violenza chiama il
1522»13, non era rivolto esclusivamente alle donne ma stava iniziando ad
affiorare l’idea che anche chi le circonda potesse avere la responsabilità di
porre fine agli abusi. L’associazione Telefono Rosa, nel divulgare i dati
riguardanti le telefonate ricevute, ha sottolineato come durante il periodo
della campagna ci sia stato un aumento delle richieste di aiuto, ritornate
tuttavia ai livelli precedenti nell’arco di un paio di mesi. La promozione
del numero antiviolenza è ripresa nel 2013, con degli spot trasmessi sulle
reti RAI, questa volta per soli sette giorni, dal 24 al 31 maggio. Anche in
quest’occasione è stato ribadito che il numero è in funzione non solo per le
donne che subiscono abusi o violenze, ma anche per eventuali testimoni
che abbiano la volontà di denunciare ciò a cui hanno assistito. Il 25
novembre dello stesso anno, in concomitanza con la Giornata mondiale per
l’eliminazione della violenza contro le donne, una nuova campagna ha preso il
via, pubblicizzando sempre il numero antiviolenza e stalking 1522 e
rivolgendosi alle donne perché imparino a «riconoscere i mille volti della
violenza»14; secondo i promotori della campagna «le donne devono
trovare il coraggio di abbandonare la maschera forzata di accettazione e
125
13 http://www.governo.it/DIE/attivita/campagne_istituzionali/XVI_Legislatura/violenza_donne_2012/index.html14 http://www.governo.it/GovernoInforma/campagne_comunicazione/riconosci_violenza/index.html
accondiscendenza che spesso vengono costrette ad indossare, devono
uscire dal finto abbraccio protettivo dei loro compagni violenti, e capire
con chi hanno a che fare già alla prima avvisaglia di violenza»15.
L’iniziativa ha preso forma con affissioni e pubblicazioni sui quotidiani
nazionali dal 18 novembre per la durata di circa un mese. Un altro anno è
poi trascorso per la successiva campagna 100% contro la violenza sulle donne
che è stata trasmessa dal 22 al 25 novembre 2014. Lo spot televisivo è
incentrato sulla divulgazione dei dati statistici sulla violenza contro le
donne pubblicati dall’ISTAT nel 2007, ottenuti dall’unica indagine
effettuata in Italia su questo tema, e «mira a sensibilizzare l’opinione
pubblica sul tema della violenza contro le donne, fenomeno che nel nostro
Paese ha assunto dimensioni allarmanti»16. In questo caso non vi sono
destinatari specifici in quanto «la violenza contro le donne è un fenomeno
trasversale che interessa uomini e donne di ogni età, provenienza
territoriale e sociale»17.
Non vi sono dati che possano testimoniare l’efficacia o il fallimento
di queste campagne di sensibilizzazione, esattamente come mancano in
Italia delle attività di monitoraggio della condizione femminile. Gli unici
dati pubblicati sono quelli raccolti dalle associazioni ed organizzazioni
non governative, come la Casa delle donne di Bologna, che da anni monitora
i dati dei femminicidi basandosi sull’unica fonte disponibile, ossia gli
articoli pubblicati sui giornali nazionali e locali. A livello statale invece
manca completamente un sistema affidabile e costante per la raccolta di
dati sia qualitativi che quantitativi sulla violenza e non è dunque possibile
confrontare l’efficacia delle campagne di sensibilizzazione italiane con
126
15 Ibidem16 http://www.governo.it/GovernoInforma/campagne_comunicazione/giornata_contro_violenza_donna/index.html17 Ibidem
quelle internazionali. L’unico dato che tuttavia emerge da queste
osservazioni è la palese scarsità d’impegno e di interesse che il Governo ha
finora dimostrato nei confronti di quella che in molte sedi, internazionali e
di attivismo locale, è invece stata apertamente dichiarata una vera e
propria emergenza sociale.
La necessità di agire sulla prevenzione è stata ribadita anche nel
rapporto dell’associazione Intervita sui costi economici e sociali della
violenza contro le donne, che ha sottolineato l’esigenza di ridurre i costi
«che la collettività sostiene nella presa in carico delle donne che subiscono
violenza (e sulle spese che esse stesse sostengono), sia per ridurre (nel
medio e lungo periodo) la possibilità che la violenza continui a
esercitarsi»18. La ricerca ha quindi stimato che i costi sociali della violenza
siano di circa 17 miliardi di euro19 ogni anno, comprensivi di costi
economici (salute, farmaci, giustizia, legali), costi legati alla mancata
produttività, costi di risarcimento danni e investimenti nella prevenzione.
Secondo i relatori del progetto «i numeri, che in Italia sono sempre
mancati fino agli ultimi mesi, possono offrire una base solida a strategie
più efficaci. Perché i numeri possono finalmente alzare un muro contro chi
nega che il femminicidio sia un problema strutturale in Italia»20 e l’invito
che muovono è dunque quello di promuovere la sensibilizzazione
evitando di procrastinare gli interventi o di limitarli esclusivamente a delle
circoscritte reazioni nei confronti di singoli episodi di violenza, o a qualche
ricorrenza come l’8 marzo o il 25 novembre.
127
18 G. Badalassi - F. Garreffa - G. Vingelli (a cura di), Quanto Costa il Silenzio? Indagine nazionale sui costi economici e sociali della violenza contro le donne, Intervita Onlus, Milano, 2013, p.13419 Secondo questa ricerca, la stima dei costi della violenza domestica è di 16.719.540.330 di euro, ai quali vanno sommati i 6.323.028 di euro spesi per la “prevenzione”.20 G. Badalassi - F. Garreffa - G. Vingelli (a cura di), Quanto Costa il Silenzio? Indagine nazionale sui costi economici e sociali della violenza contro le donne. cit., p. 8
4.2 L’Italia e il supporto alle vittime: i centri antiviolenza
Come è stato più volte evidenziato i cosiddetti piani d’azione
nazionali non rispettano gli standard internazionali previsti dalle
Convenzioni sottoscritte dall’Italia. La stessa campagna UNiTE ha più
volte richiamato gli Stati che non si sono ancora dotati di strumenti
adeguati per contrastare e risolvere il problema della violenza sulle donne,
tra cui l’Italia, perché entro il 2015, e quindi la Conferenza Pechino+20,
pongano rimedio a questa inadempienza, come sollecitato anche dalle
risoluzioni dell’ONU A/RES/61/143 del 19 dicembre 2006 e A/RES/
63/155 del 18 dicembre 2008, riguardanti l’intensificazione degli sforzi per
eliminare ogni forma di violenza contro le donne. I parametri
internazionali richiedono infatti l’introduzione di specifici piani d’azione
volti all’eliminazione della violenza contro le donne, supportati dalle
necessarie risorse umane, finanziarie e tecniche; richiedono inoltre un
costante monitoraggio dei progressi, nonché la collaborazione dei Governi
con la società civile ed in particolare le organizzazioni femminili.
I Piani d’azione nazionali stabiliti sinora dal Governo italiano sono
risultati assolutamente inadeguati: nel 2006 è stato istituito il Fondo per le
politiche relative ai diritti e alle pari opportunità, che prevedeva finanziamenti
per l’istituzione di un Osservatorio nazionale contro la violenza sessuale e di
genere e di un Piano d’azione nazionale; dopo anni di stallo, nel 2011 tale
Piano è stato approvato dalla Corte dei Conti, ma dei fondi stanziati è
stata effettivamente investita solo una piccola parte21 e soprattutto senza
128
21 « Nel 2011 è stato previsto il finanziamento da parte del Dipartimento per le Pari Opportunità per 10 milioni di Euro ai Centri Antiviolenza che accolgono le donne vittime di abusi. Il contributo del dipartimento per le Pari opportunità è al massimo pari al 90% del costo totale previsto per la realizzazione della proposta progettuale presentata. I Centri Antiviolenza, pertanto, devono garantire un cofinanziamento pari almeno al 10% del costo totale: in molti contesti tuttavia, stante la cronica assenza di finanziamenti regolari, non c’è da parte dei Centri una effettiva disponibilità finanziaria per accedere ai finanziamenti». [G. Badalassi - F. Garreffa - G. Vingelli (a cura di), Quanto Costa il Silenzio? Indagine nazionale sui costi economici e sociali della violenza contro le donne, cit., p. 128]
seguire obiettivi precisi, né tantomeno verificare i risultati ottenuti. Questa
politica del risparmio immediato, che ad un piano articolato e multilivello
privilegia investimenti limitati e circoscritti, non ha portato in realtà, come
abbiamo visto, alcun cambiamento nella situazione delle donne italiane,
che ancora oggi subiscono violenze e vengono uccise in numero sempre
maggiore, ed inoltre ha contribuito all’instaurarsi di un meccanismo per
cui le spese pubbliche indirette causate dal dilagante problema della
violenza risultano ad oggi, come già detto, assolutamente superiori al
costo che avrebbe l’istituzione di un piano articolato ed a lungo termine
per il contrasto della violenza alle donne. Nel rapporto dell’associazione
Intervita viene, a tal proposito, menzionata una ricerca che ha tentato di
valutare i benefici che si possono ottenere investendo in prevenzione e
contrasto alla violenza sulle donne: «in Arizona è stato stimato che ogni
Dollaro investito in Centri Antiviolenza ne fa risparmiare tra i 6,80 e i
18,40»22. In questo contesto, in cui alla mancata tutela delle sue cittadine lo
Stato italiano adduce infondate, come è stato dimostrato dal rapporto testé
citato, motivazioni economiche, è opportuno ricordare l’osservazione di
Rashida Manjoo, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite contro la violenza
sulle donne: «l’attuale situazione politica ed economica dell’Italia non può
essere utilizzata come giustificazione per la diminuzione di attenzione e
risorse dedicate alla lotta contro tutte le manifestazioni della violenza su
donne e bambine in questo Paese»23. Eppure, malgrado le innumerevoli
raccomandazioni internazionali che negli anni hanno esortato il Governo
italiano a porre in essere un programma in grado di affrontare in modo
olistico il problema della violenza sulle donne, manca ancora una risposta
129
22 G. Badalassi - F. Garreffa - G. Vingelli (a cura di), Quanto Costa il Silenzio? Indagine nazionale sui costi economici e sociali della violenza contro le donne, cit., p. 12423 Rashida Manjoo, Dichiarazione preliminare, 26 gennaio 2012, http://www.amnesty.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/5996
concreta ed efficace a queste richieste, lasciando il Paese in una situazione
in cui «un quadro giuridico frammentario e l'inadeguatezza delle indagini,
delle sanzioni e del risarcimento alle donne vittime di violenza sono fattori
che contribuiscono al muro di silenzio e di invisibilità che circonda questo
tema»24. Queste mancanze si riflettono soprattutto sulle attività di
supporto alle donne che hanno subito degli abusi ed in particolare sui
centri antiviolenza e le case rifugio. Com’è stato evidenziato anche nel
Rapporto ombra dell’iniziativa 30 anni di CEDAW: lavori in corsa, delle
poche sedi25 presenti sul territorio molte sono a rischio perché non godono
di finanziamenti stabili. Le capacità di accoglienza di queste strutture,
gestite in prevalenza da Associazioni ed Organizzazioni non governative,
sono infatti assolutamente insufficienti per gestire l’elevato numero di
richieste che si trovano a dover affrontare. «Le risorse economiche
stanziate a livello locale e nazionale per la gestione dei luoghi e dei servizi
sono insufficienti alla copertura dei costi, così molte strutture rischiano la
chiusura»26. I finanziamenti a queste strutture vengono erogati con bandi
nazionali di difficile accessibilità ed erogati dalle singole regioni, creando
una disponibilità ed una distribuzione delle risorse economiche
disomogenee; le strutture sono quindi precarie «in quanto possono
programmare le attività di supporto e sostegno solo per periodi di tempo
limitati alla durata dei finanziamenti»27. I centri antiviolenza dovrebbero
poter accogliere tutte le donne che sporgono denuncia verso il partner
violento e che necessitano di conseguenza di un luogo dove rifugiarsi per
130
24 Ibidem25 «Attualmente in Italia ci sono oltre 119 Centri antiviolenza di cui 93 sono gestiti da Associazioni di donne e 56 hanno case di ospitalità. Il numero di strutture è insufficiente per rispettare gli standard stabiliti a livello europeo». [B. Spinelli, Rapporto Ombra, cit., p. 124]26 B. Spinelli, Rapporto Ombra, cit., p. 12427 Ibidem
allontanarsi fin da subito da lui e per evitare che questo possa reagire con
ulteriori violenze per vendetta o per costringere la vittima a ritirare la
denuncia. Malgrado questo sia un rischio ben noto alle autorità, «non sono
aumentati i fondi e le strutture a disposizione per l’ospitalità di emergenza
delle donne che vogliono sporgere denuncia in situazioni di alto rischio»28.
In mancanza di supporto da parte dello Stato, qualsiasi sforzo portato
avanti dai centri antiviolenza e dalle associazioni di volontariato non può
dunque risultare che vano e discontinuo. Anche il rapporto dell’EIGE sulle
diverse forme di supporto alle vittime nei Paesi europei29 ha rilevato che i
servizi specializzati, come ad esempio i rifugi, sono distribuiti in modo
disomogeneo e che molti di questi affrontano problemi di capacità di
accoglienza e di finanziamento. Queste osservazioni sono confermate
anche nell’annuale rilevazione dati dell’associazione nazionale D.i.Re
Donne in Rete contro la violenza, che per il 2013 ha rilevato un’accoglienza,
nei centri che fanno parte della sua rete, di 602 donne e 622 bambini,
mentre sono state 556 le donne che non sono riuscite ad avere ospitalità a
causa della mancanza di posti letto. Dei 68 centri che fanno parte
dell’associazione, infatti, solo 44 hanno la possibilità di ospitare le donne
che lo necessitano. In generale poi le donne accolte e supportate dai Centri
antiviolenza della Rete sono state 18.521, di cui più di 14.000 non avevano
mai avuto contatti con strutture adibite all’assistenza delle vittime di
violenza; come viene sottolineato nella rilevazione dei dati, i numeri sono
in costante aumento ed inoltre, «più un Centro antiviolenza è radicato,
attivo e presente sul territorio, più aumenta il numero delle donne che
chiedono aiuto»30. La denuncia di una violenza non può non essere
131
28 Ivi, p. 12529 EIGE, Review of the implementation of the Beijing Platform for Action in the EU Member States: violence against women - victim support, cit.30 D.i.Re. I dati dei Centri Antiviolenza di D.i.Re - 1° gennaio al 31 dicembre 2013. D.i.Re, 2014,
p. 2
supportata da un sostegno successivo; molto spesso infatti le donne che
subiscono violenze non si rivolgono alle autorità perché non percepiscono
lo Stato come un ente in grado di tutelare. La maggior parte delle donne
non è a conoscenza dell’esistenza delle leggi emanate per contrastare la
violenza domestica, si vedano ad esempio gli ordini di allontanamento,
ma anche quando questa viene denunciata l’iter legale richiede tempi così
lunghi da essere inconciliabili con le necessità di protezione della vittima.
Occorrono mesi per portare avanti la denuncia e fino a due anni per la fase
istruttoria; è sempre nell’ordine degli anni che si misurano le durate dei
processi che, se continuano in secondo e terzo grado possono posticipare
l’eventuale sentenza di condanna anche di dieci anni. In tutto questo
tempo, l’imputato rimane in libertà; inoltre con i riti abbreviati c’è la
possibilità che la pena sia ridotta o addirittura sospesa, «con la
conseguenza che il colpevole potrebbe non essere mai detenuto»31. Oltre ai
centri di ascolto è quindi fondamentale, per salvaguardare le vittime,
sostenere l’apertura di case protette per le donne che, dopo la denuncia,
necessitano di luoghi sicuri in cui rifugiarsi, anche con i loro figli, dato che
attraverso la denuncia non viene loro «assicurata automaticamente alcuna
protezione/sicurezza!»32.
Il lavoro dei centri antiviolenza è dunque quello di sostenere le
donne nei loro percorsi di uscita dalla violenza, offrendo consulenza legale
e psicologica, gruppi di sostegno e, ove possibile, accogliendole in case
rifugio a indirizzo segreto per allontanarle dall’abitazione familiare in caso
vi sia il rischio di un’escalation di violenza. Ancora una volta non si può
che ribadire come in tutto questo l’assistenza da parte dello Stato risulti
indispensabile al fine di proteggere e tutelare le donne che subiscono
132
31 Informazioni importanti sui processi relativi ai reati di violenza, http://www.diagnose-gewalt.eu/recht-it/gesetzliche-grundlagen-italien/strafprozess-bei-gewalttaten32 Ibidem
violenze e rischiano ogni giorno la vita in un contesto, quello domestico,
nel quale invece dovrebbero sentirsi al sicuro.
4.3 I frutti della violenza: femminicidi ed orfani
In Italia ogni tre giorni una donna viene uccisa. Assassinata da un
marito, un compagno, un’amante, persino un figlio. Il fenomeno dei
femminicidi ormai è così diffuso da essere diventato quasi normale; tante
storie diverse e in fondo uguali che portano l’opinione pubblica, abituata a
notizie sempre nuove ed eclatanti, a chiedersi “E allora? Che c’è di nuovo
in questo? Sono cose che si sanno”. E così le vittime continuano a passare
inosservate, della loro esistenza rimane solo la notizia di un momento
subito sostituita dalla successiva, spariscono dalla scena nel silenzio
collettivo e, come ha detto il premio Nobel per la pace Elie Wiesel, «il
silenzio non aiuta mai la vittima, ma sempre l’aggressore»33.
In un contesto globale in cui «la diffusione degli omicidi basati sul
genere, nelle loro diverse manifestazioni, ha assunto proporzioni
allarmanti […] queste morti non sono eventi isolati che accadono in
maniera accidentale e fortuita, ma sono l’ultimo efferato atto di
prepotenza che pone fine a una serie di violenze ripetutesi nel tempo»34;
infatti almeno il 50% dei femminicidi vengono preceduti da violenze,
minacce e condotte persecutorie (stalking). Con la legge n.119/2013 sul
femminicidio è previsto per chi compie questi atti in seguito
all’allontanamento dalla casa familiare anche l’uso del braccialetto
elettronico, per verificare che l’interdizione dai luoghi frequentati dalla
133
33 citato in Wiesel alla Camera: «Auschwitz non ha guarito il mondo dall'antisemitismo», Il Sole 24Ore, 27 gennaio 2010, http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/dossier/Tempo% 2 0 l i b e ro % 2 0 e % 2 0 C u l t u r a / 2 0 1 0 / g i o r n o - d e l l a - m e m o r i a / e v e n t i / w i e s e l . s h t m l ?uuid=fc738882-0b39-11df-8e59-6b66dae07f89&DocRulesView=Libero34 R. Manjoo, Report of the Special Rapporteur on Violence against Women, its Causes and Consequences, UN General Assembly, 23 maggio 2012
vittima venga effettivamente rispettata. Il controllo a distanza è uno
strumento che, in altri Paesi europei, negli anni ha dimostrato di essere
molto efficace nel prevenire aggressioni e delitti, ma in Italia, anche se
previsto, è ancora scarsamente utilizzato. Il suo utilizzo è stato più volte
incentivato, come risulta anche dal comunicato stampa del Consiglio dei
Ministri del 17 dicembre 2013, nel quale viene riportata la volontà di
diminuire il numero delle persone presenti in carcere ampliando l’utilizzo
del braccialetto elettronico, atto che dovrebbe rappresentare «una sicura
garanzia in ordine al mantenimento di adeguati standard di controllo
istituzionale sui detenuti». Il problema tuttavia si è presentato quando, a
sei mesi da questo comunicato, i braccialetti elettronici sono risultati già
tutti esauriti; infatti il contratto stipulato dal Governo con l’azienda
fornitrice prevedeva solo 2.000 pezzi, a fronte di più di 10.000 denunce di
stalking ogni anno ed escludendo tutti gli altri reati che possono prevedere
gli arresti domiciliari. Di fronte a questi dati viene spontaneo chiedersi
quante delle vittime di femminicidi si sarebbero potute salvare se lo Stato
avesse adottato misure preventive più efficaci, o avesse deciso di investire
nella loro sicurezza, invece di fallire «nel garantire alle donne una vita
libera e priva di violenze»35.
C’è inoltre un aspetto dei femminicidi che viene raramente
considerato e che può essere definito la loro eredità. Se è vero che le vittime
vengono ben presto dimenticate, i loro figli non sono affatto presi in
considerazione, né dall’opinione pubblica, né tanto meno dallo Stato.
Queste uccisioni distruggono «la vita di migliaia di neonati, bambini,
adolescenti che improvvisamente perdono la madre in uno dei modi più
atroci: infatti l'assassino è 8 volte su 10 il loro padre. Sono vittime che
devono fare i conti con il trauma della violenza e del dolore associato con
134
35 Ibidem
la perdita di entrambi i genitori contemporaneamente, perché uno ha
deliberatamente ucciso l'altro»36. Nasce su queste basi il progetto europeo
Switch Off,per capire quali siano le conseguenze dei femminicidi sugli
orfani che creano e le pratiche di assistenza ad oggi attive; l’iniziativa ha
quindi lo scopo di creare delle linee guida europee per la gestione e il
supporto a bambini e bambine che, come è emerso dagli studi condotti
nell’ambito del progetto, sono ad alto rischio di depressione, disturbo da
stress post-traumatico e di suicidio. Lo studio, realizzato grazie ad una
collaborazione tra le università di Napoli, Cipro e della Lituania, si è
concentrato molto sugli orfani italiani, stimati in più di 1.500 negli ultimi
dodici anni e ha cercato di individuare quale sia stata l’assistenza che
hanno ricevuto a livello terapeutico, giuridico, o sociale. Proprio dalla
testimonianza di una ragazza, vittima anche lei della violenza del padre
che le ha ucciso la madre per poi suicidarsi, emerge come in Italia queste
cosiddette “vittime secondarie” siano totalmente ignorate, così come in
molti casi le richieste di aiuto delle donne uccise; «Mia madre aveva
denunciato mio padre ma non è stata ascoltata, nessuno è intervenuto per
impedire l'omicidio. Perché i parenti delle vittime di mafia, i familiari dei
morti sul lavoro hanno degli indennizzi e noi no? Avevamo chiesto che
nella legge sul femminicidio venissero inserite misure di sostegno per gli
orfani. Ci hanno detto che non c'era più tempo... Abbiamo scritto al
presidente della Repubblica. Nessuna risposta»37. Nell’attesa che venga
divulgato il report ufficiale, e che possa avere riscontro nelle politiche
degli Stati europei, dai dati e dalle testimonianze emerse risulta comunque
evidente come anche in questo caso il Governo italiano sia particolarmente
135
36 www.switch-off.eu37 M.N. De Luca, Io, orfana del femminicidio ora sogno di fare il magistrato, La Repubblica, 21 novembre 2014, p. 37
indifferente nei confronti di fenomeni sempre più diffusi e così tragici e
deleteri per la sua società.
Proprio per contrastare il disinteresse e l’inadeguatezza delle
politiche di diversi Stati, dove le disposizioni legislative sono spesso di
portata limitata o non vengono applicate, sia le Nazioni Unite che
l’Unione Europea hanno condotto degli studi comparativi sulle
legislazioni e le pratiche di assistenza alle donne vittime di violenze,
selezionando quelle più efficaci e creando così dei modelli da prendere ad
esempio. Nello specifico, il manuale pubblicato dalla Divisione per il
progresso delle donne del Dipartimento degli affari economici e sociali
dell’ONU nel 2010 si proponeva di fornire una guida dettagliata per
sostenere l'adozione e l'efficace attuazione di legislazioni che contrastino la
violenza contro le donne, ne puniscano gli autori e garantiscano i diritti
delle vittime in ogni Paese del mondo; questo è infatti uno dei cinque
obiettivi chiave che la Campagna del Segretario Generale UNiTE to end
violence against women si è prefissa di realizzare in tutti i Paesi aderenti
entro il 2015. In questo manuale vengono dunque fornite una serie di
raccomandazioni, supportate da esempi di legislazioni attualmente vigenti
in diverse Nazioni, su ciò che le leggi di ogni Stato dovrebbero prevedere
per i differenti aspetti del problema della violenza sulle donne. Ad
esempio, per quanto riguarda i processi per violenze, secondo il manuale
la legislazione dovrebbe «prevedere la creazione di tribunali specializzati
o procedimenti giudiziari speciali che garantiscano una gestione
tempestiva ed efficiente dei casi di violenza contro le donne»38 e dovrebbe
inoltre prevedere che «gli agenti assegnati ai tribunali specializzati
136
38 UN DESA - Division for the Advancement of Women, Handbook for Legislation on Violence against Women, United Nations, New York, 2010, p. 19
ricevano una formazione specializzata»39. Tribunali specializzati sono già
presenti in numerosi Paesi, tra cui ad esempio Brasile, Spagna, Uruguay,
Venezuela e Regno Unito e sono risultati estremamente efficaci per la
formazione che è fornita al personale che vi opera ed efficienti per la
celerità di gestione dei casi.
Un altro punto riguarda poi la protezione, il supporto e l’assistenza
alle vittime. In questo senso dallo studio comparato è emerso che la
legislazione dovrebbe obbligare lo Stato a finanziare e contribuire ad
istituire servizi completi ed integrati di sostegno alle vittime di violenza, a
sostenere adeguatamente i figli di queste donne e stabilire gli standard
minimi di disponibilità di servizi di supporto già richiamati in altre
documenti internazionali40.
Un altro esempio delle raccomandazioni segnalate nella guida
dell’ONU può riguardare quelle sul rafforzamento delle sanzioni per reati
di violenza domestica ripetuti o aggravati. In questo caso dallo studio è
emerso che la legislazione dovrebbe prevedere sanzioni sempre più severe
per i ripetuti episodi di violenza domestica, a prescindere dalla gravità
delle lesioni; inoltre dovrebbe aumentare le sanzioni in caso di violazioni
multiple di ordini di protezione. Come viene infatti puntualizzato,
«episodi ripetuti di violenza domestica sono comuni e, quando la stessa
pena è applicata per ogni aggressione, l'effetto deterrente è discutibile»41 e
vengono poi puntualizzati alcuni esempi di legislazioni che hanno
introdotto questo tipo di aggravanti, come quella Svedese o Ceca. Inoltre
137
39 Ibidem40 Gli standard minimi prevedono: un rifugio ogni 10.000 abitanti, che fornisca alloggio di emergenza, consulenza qualificata e assistenza nella ricerca di un alloggio a lungo termine; un centro di avvocatura e counseling ogni 50.000 donne, che fornisca consulenza ed assistenza legale, supporto proattivo e intervento in caso di crisi ed a lungo termine; infine un centro di emergenza stupro ogni 200.000 donne.41 UN DESA - Division for the Advancement of Women, Handbook for Legislation on Violence against Women, cit., p. 52
la legislazione, per quanto riguarda le pene alternative, dovrebbe
specificare che il loro utilizzo deve essere oggetto di estrema cautela e vi si
dovrebbe ricorrere solo nei casi ove sia possibile un monitoraggio costante
da parte di funzionari giudiziari e organizzazioni non governative di
donne, al fine di garantire la sicurezza della vittima e l’efficacia della
sentenza. Il Regno Unito ha avuto esperienze positive con il programma
integrato contro l’abuso domestico come alternativa alla condanna. Il
programma ha una durata di 26 settimane e si concentra sull’assunzione
di responsabilità dei colpevoli per il loro comportamento e sull’impegno
per il loro recupero. I programmi accreditati devono essere associati ad
una organizzazione di supporto per le vittime, in modo che ci sia un
riscontro da parte di queste per quanto riguarda la cessazione delle
violenze.
Questi sono dunque alcuni dei numerosi esempi di politiche attive
ed efficienti che vari Paesi del mondo hanno adottato per contrastare la
violenza sulle donne, per il supporto delle vittime e per il recupero o la
punizione dei colpevoli. Sarebbe quindi auspicabile che anche l’Italia
iniziasse ad adeguarsi agli standard internazionali, che stanno divenendo
sempre più elevati ed efficaci.
138
Conclusioni
Guardando indietro al percorso sul riconoscimento delle donne come
soggette di diritto, è possibile osservare come non solo l’uguaglianza di
genere, ma la stessa sicurezza delle donne sia un obiettivo ancora lontano
da raggiungere. Sebbene nel contesto della politica internazionale siano
stati siglati numerosi impegni affinché la violenza contro le donne
divenisse un problema centrale nell’agenda dei singoli Governi, così da
debellare definitivamente una piaga che minaccia quotidianamente un
terzo della popolazione femminile mondiale, risulta evidente come alcuni
degli Stati che hanno contribuito alla creazione delle Convenzioni
internazionali in difesa dei diritti delle donne, siano gli stessi che li stanno
deliberatamente trascurando, permettendo che le violenze continuino a
perpetrarsi.
Questo è stato particolarmente evidenziato nel caso specifico
dell’Italia, che pur avendo aderito a tutte le iniziative analizzate, la
Piattaforma di Pechino, la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di
discriminazione contro le donne e la Conferenza di Istanbul, è stata più volte
criticata nei rapporti e nelle relazioni internazionali per le sue
inadempienze. Il parziale adeguamento rispetto agli impegni presi, le
tempistiche e le modalità dei processi, i mancati finanziamenti ai centri di
supporto per le vittime di violenze, sono tutti segni del disinteresse del
Governo italiano nei confronti delle sue cittadine ed in generale della
questione femminile.
Sarebbe dunque necessario un migliore adeguamento agli standard
internazionali, con l’istituzione innanzitutto di un organismo statale
preposto al monitoraggio della situazione delle donne, in grado di
valutare l’entità delle violenze e delle discriminazioni che subiscono, di
formulare un piano d’azione a lungo termine per la risoluzione dei
139
problemi legati a questi fenomeni, di verificare l’effettiva applicazione
delle norme vigenti e che fungesse da punto d’incontro e di
coordinamento tra la politica e le organizzazioni della società civile.
Tornando alle proposte suggerite dalle Nazioni Unite, segnalate nella
parte finale dell’elaborato, potrebbe essere un’interessante innovazione
l’istituzione di tribunali o procedure specializzate nella gestione di casi di
violenza sulle donne; molto spesso infatti il problema maggiore
riscontrato dalle vittime che decidono di intraprendere un percorso di
denuncia è proprio l’inadeguatezza dei pubblici ufficiali nell’affrontare e
gestire queste specifiche tematiche; talvolta ciò accade perché, proprio chi
sarebbe deputato a tutelare la vittima si ritrova invece a condividere gli
stessi pregiudizi e stereotipi di chi ha commesso il reato.
Per quanto dunque sia necessaria una legislazione migliore e meno
frammentata, nonché una politica in grado di affrontare il problema della
violenza in modo olistico, ciò da solo non è sufficiente; l’elemento davvero
essenziale per l’estirpazione della piaga della violenza sulle donne è il
cambiamento della prospettiva nei confronti del genere femminile. Come
si è visto il pregiudizio e lo spregio nei confronti delle donne sono
elementi che fanno parte della nostra cultura sin dall’età della pietra; per
migliaia di anni le donne sono state soggiogate e bistrattate in ragione di
una presunta superiorità maschile ed è proprio dagli uomini che si
dovrebbe ripartire dunque per fondare una nuova concezione della
convivenza tra i sessi. Da quei due uomini su tre che sanno come amare
una donna senza ritenerla una loro proprietà, che sanno apprezzare la sua
bellezza senza renderla volgare, che sanno accettare le sue decisioni anche
se non soddisfano i loro desideri, che la sanno rispettare come donna,
come persona, come essere umano loro pari.
140
Ma come si può sperare di cambiare una mentalità così arcaica e
radicata nella nostra cultura? Con iniziative come NoiNo.org, «una rete di
uomini che condividono un impegno comune: rifiutare la violenza
maschile contro le donne, chiaramente e in pubblico»1. NoiNo.org è
un’iniziativa nata da uomini che riconoscono che il problema della
violenza maschile contro le donne li riguarda direttamente, proprio in
quanto uomini. Con questa campagna vengono quindi raccolte «buone
idee e buone pratiche, per contrastare il sessismo nella nostra vita
quotidiana e prevenire la violenza di genere»2. Un esempio concreto di
quello che questa rete è riuscita ad ispirare è il progetto “Noi non lo
faremo” dell’Istituto Tecnico Tecnologico di Cesena, che ha suscitato
notevole interesse in tutta la comunità cittadina e che è stato presentato
anche in Parlamento; attraverso questo progetto si è data «ai ragazzi e alle
ragazze l'occasione per mettere in discussione la mentalità in cui tutti
siamo immersi, i pregiudizi diffusi e accettati, la concezione delle relazioni
che è il terreno di coltura della violenza quotidiana»3. Ripartire dai giovani
che saranno gli uomini e le donne del domani diffondendo progetti come
quello citato in ogni scuola del Paese, controbilanciando al contempo
l’enfasi che viene messa su quegli stessi pregiudizi e stereotipi da parte
delle fonti di istruzione parallela quali i mass media, potrebbe essere la
vera soluzione del problema della violenza. Permettere ai ragazzi di
crescere nella consapevolezza che essere uomini non vuol dire essere
aggressivi, violenti, possessivi o prevaricatori, permettere loro di vivere
con serenità il rapporto con l’altro sesso, senza che si sentano forzati in
stereotipi che vengono loro tramandati; allo stesso tempo permettere alle
ragazze di crescere in una società dove non si sentano costantemente
141
1 Tratto dal sito NoiNo.org “Chi siamo” - http://noino.org/pagina.php?id=77612 Ibidem3 La rivincita dei nerd. Una scuola contro il sessismo, in http://noino.org/blog-post.php?id=7344
raffrontate a modelli estetici e comportamentali al punto da interiorizzare
questi paragoni e farli propri una volta divenute adulte, dar loro la
possibilità di desiderare altro rispetto a quello che le tradizioni impongono
loro, così che siano loro stesse le prime a rifiutarsi di incarnare gli
stereotipi secondo i quali, ad esempio, possono studiare medicina, ma non
chirurgia, possono applicarsi alle scienze, ma la matematica non fa per
loro, ma anche stereotipi estetici e comportamentali che le spingono, anche
quando non vogliono, a svestirsi e mascherarsi quando vogliono piacere,
essere miti e sopportare ogni prevaricazione per essere delle brave mogli,
rinunciare al lavoro per essere delle buone madri, indurirsi quando hanno
successo nel lavoro.
È da queste ragazze e da questi ragazzi, dagli uomini e dalle donne
che sono in grado di ispirarli ad essere migliori, ad essere veramente se
stessi senza soddisfare presunte aspettative che residui di tradizioni ormai
desuete impongono loro, che si dovrebbero trarre gli insegnamenti
necessari affinché tutti gli uomini e le donne possano cambiare, possano
varcare la soglia della consapevolezza e rendersi conto che rispettare una
donna è rispettare se stessi e l’intera umanità. Tutelare i diritti delle donne
significa tutelare il futuro del mondo poiché quando le donne godono dei
loro diritti tutta la comunità ne trae beneficio; e allora perché non
trasformare le parole di Schopenhauer in un augurio di crescita per
l’intera umanità: «Io credo che la donna, se riesce a staccarsi dalla massa o
meglio a elevarsi su di essa, cresca ininterrottamente»4 sviluppandosi
sempre di più. La speranza è dunque che si arrivi un giorno a vedere tutti
gli esseri umani, uomini e donne insieme, spezzare le catene delle
tradizioni e degli stereotipi primitivi che finora hanno ostacolato la loro
crescita e la loro stessa felicità.
142
4 A. Schopenhauer, Colloqui, BUR Rizzoli, 2000, eBook
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