diomede n. 9 - perugia - anno iii - maggio-agosto 2008

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Gabriella Mecucci (direttore responsabile)Ruggero Ranieri (coordinatore e condirettore)

Segretaria di redazione:Elisabetta Federici

Comitato direttivo:Andrea CapaccioniRita FloridiMarco NicolettiStefano RagniGiuseppe Severini

Collaboratori:Rita BoiniHans L. HirshDaniele MantucciRita MariniMarco MangiabeneMarina RicciarelliVanna UgoliniFrancesco VignaroliOriella Zanon

Fascicolo chiuso in redazione il 20 agosto 2008

Associazione Culturale “Diomede” – Perugia; Soci fondatori: Alessandro Campi, Andrea Capaccioni, Rita Floridi, Gabriella Mecucci, Marco Nicoletti, Ruggero Ranieri (Presidente), Giuseppe Severini.

"Diomede" esce tre volte l'annoUn fascicolo costa Euro 12.00

© Associazione Culturale “Diomede” – PerugiaProprietà letteraria riservataPiazza Piccinino, 9 – 06121 PerugiaTel. e fax 075-5721008www.associazionediomede.itinfo@associazionediomede.itRegistrazione del Tribunale di Perugia n. 2205 del 12 ottobre 2005Progetto grafico: Stampa & ComunicazioneVideoimpaginazione: Giovanni Moscati Stampa: Digital Point (Ponte Felcino – Perugia)

diomede 9Perugia anno III maggio-agosto 2008

Sommario

7 Editoriale, di Ruggero Ranieri

Congetture & Confutazioni 9 Il vescovo e la città, di Ercole Anastagi 10 Perugia e la movida estiva, di Innocenzo Malvasia 11 Perugia: i beneficiati senza concorrenza, di Roberto Valeriani 12 Continua lo stillicidio, di Astorre Coppoli 12 I Due Mondi: nostalgia o rilancio?, di Porzia Corradi

Analisi & Studi 15 La Nestlé rimarrà in Umbria? Requiem per la Buitoni di Sansepolcro e allarme per lo stabilimento Perugina, di Siro Pollacci 33 Eccellenze e parabole nella tradizione industriale dell’Umbria, di Roberto Segatori 39 Un’ esperienza di programmazione: Il centro sinistra a Perugia negli anni ’60, di Mario Serra

Note & Discussioni 51 Chi ha vinto le elezioni politiche in Umbria?, di Ruggero Ranieri 59 La festa è finita? Le Feste dell’Unità fra cronaca e storia, di Rita Boini 65 Contratti di finanza derivata, di Stefania Filipponi 71 Assisi e i mendicanti: ordinanze controverse, di Francesco Bevilacqua

Forum: un’idea di Perugia 75 Perugia, e il “XX Giugno”. Miti, storia, identità, di Gianfranco Maddoli 81 Le stragi del XX Giugno nei versi di un poeta quacchero e abolizionista americano. “From Perugia” di John Greenleaf Whittier, a cura di Cinzia Latini

Incontri & Profili 89 Il movimento socialista tra craxismo e tangentopoli: il magistrato perugino prestato

alla politica. Intervista a Giorgio Casoli, di Ruggero Ranieri e Rita Floridi

Storia & Memoria 103 I santi di Bernardino di Mariotto, tra signoria dei Baglioni e censura del Papato,

di Alessandra Oddi Baglioni109 Agostino Oldoini (La Spezia 1612 – Perugia 1683). Una nota bio-bibliografica, di Andrea Capaccioni

Ieri & Oggi113 Una famiglia di imprenditori musicali perugini. Intervista a Mario Belati, di Stefano Ragni121 Fatti e misfatti d’arte. Conversazione con Giorgio Bonomi, di Marco Nicoletti

Umbria da Scoprire133 Il Beato Egidio a Perugia: una presenza storica e monumentale, di Francesco Vignaroli137 L’Istituto Agrario di Todi, di Rita Boini139 La Biblioteca “Lodovico Jacobilli” di Foligno, di Fabiola Gentili

Letti & Riletti143 Foligno nel Seicento, di Andrea Capaccioni144 Settecento anni di scienza, di Andrea Capaccioni146 Finestre sull’industria in Umbria, fra passato e presente, di Ruggero Ranieri154 Polemiche sulla storia del PCI umbro, una lettera di Francesco Innamorati

Umbria in Libreria157 Laura Teza, Fra ei poggi e l’aqque al laco Transimeno. Pietro Vannucci, Maturanzio e gli Uomini Famosi nella Perugia dei Baglioni, (di Sara Borsi) 158 Maria Masi Ruggero, Giardini “in aria” e Horti conclusi di Città di Castello, (di Andrea Capaccioni)158 Domus Misericordiae, Settecento anni di storia dell’ospedale di Perugia, (di Francesco Vignaroli)159 Teresa Corea, La città immaginata. Viaggiatori francesi a Foligno dal 16° al 18° secolo, (di Elisabetta Federici)160 Francesca Romana Lepore, Storie di ville e giardini. Dimore private nella provincia di Perugia, (di Elisabetta Federici)161 George Tatge, Terni/Fotografie, (di Ruggero Ranieri)161 Piero Palumbo, Burri. Una vita, (di Sara Borsi)

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Editoriale

In questo numero dedichiamo ampio spazio agli sviluppi dell’economia umbra. Mentre il saggio di Segatori ne mette in evidenza i punti di forza e di debolezza, tracciando una inte-ressante tipologia dei successivi cicli che hanno scandito la crescita industriale, il saggio di Siro Pollacci apre temi di attualità legati alla cessione della Buitoni di Sansepolcro al gruppo Tmt di Mastrolia. Pollacci denuncia da tempo il fatto che la Nestlé non sarebbe impegnata a di-fendere le produzioni ereditate dalla IBP e negli ultimi fatti trova conferma dei suoi sospetti. Egli lancia, pertanto, un grido d’allarme. Interessante anche la sua, condizionata, apertura di credito a un possibile ruolo della Colussi nella ristrutturazione dell’industria alimentare perugina. Neppure tanto sullo sfondo rimane anche la questione ternana, per cui si attendono in autunno importanti sviluppi (vedi la questione della nuova centralea, legata alla sanzione sulle tariffe preferenziali godute dall’azienda, comminata dalla UE). Non siamo lontani da un punto di svolta importante per la presenza a Terni della TKAST e si spera che tutti gli interlocutori siano in grado di raccogliere la sfida. Intanto segnaliamo in questo numero, nelle rubrica “Congetture e Confutazioni”, la nota sull’importante convegno di Terni voluto e organizzato dal Vescovo Paglia, che, al contrario di quanto è apparso nei riduttivi resoconti di molta informazione locale, è stato ricco di spunti e indicazioni sul futuro, in una prospet-tiva cattolico-liberale e riformista.

La situazione politica umbra, all’indomani della vittoria elettorale del centro-destra, sem-brerebbe poter offrire novità importanti. Ma, secondo la lettura dei recenti risultati elettorali, che presento nella rubrica “Analisi e studi”, le cose non stanno proprio così: il PD di Veltroni ha ottenuto una buona affermazione e le prospettive per le prossime amministrative non sem-brano, per il centro-destra, molto brillanti, in quanto il terreno da recuperare nei comuni più importanti è molto ampio, le divisioni tra i partiti moderati (UDC, Destra, PDL) non facili da ricucire. È un’analisi che faccio a malincuore, proprio perché la attuale situazione, con lo scontento che circonda le amministrazioni locali più importanti, le divisioni e la paralisi del-la maggioranza a livello regionale, sembrerebbe aprire buone prospettive per un’alternativa.

Non parliamo in questo numero dello scandalo di “appaltopoli”, per cui un certo numero di dirigenti amministrativi e di imprenditori importanti sono finiti in manette (e qualcuno è ancora in prigione mentre scriviamo). La vicenda non è affatto conclusa, ed è presto per una analisi seria. Certo sembra che abbiano trovato conferma alcune delle denunce che da tempo solleviamo in questa rivista: una regione bloccata, in cui comandano ristrette consorterie in combutta fra di loro e imperversa il partito del cemento. Uno spaccato di quello che non va, in termini di rispetto della trasparenza e dell’interesse pubblico nell’amministrazione di

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Foligno, ce lo dà il pezzo sui meandri della finanza derivata di Stefania Filipponi, che già è intervenuta su questo tema nella trasmissione “Report” di Milena Gabbanelli, che lo ha sollevato a livello nazionale.

Giorgio Casoli, la cui intervista continua, per il movimento socialista, la nostra serie dedi-cata alla storia delle famiglie politiche umbre, avanza molte critiche e spunti pertinenti sulla situazione politica attuale e traccia, più o meno esplicitamente, alcuni inquietanti paralleli con un’altra stagione di tangenti: quella craxiana. Rita Boini, invece, in un pezzo intriso di nostalgia, ma anche di una forte vena critica, riflette sulla sorte delle Feste dell’Unità, che furono palestra di politica e di idealismo per una generazione che si affacciò alla vita politica dopo il ’68, mentre oggi sembrano soprattutto un affare commerciale. Se poi il lettore volesse qualche altro spunto critico sul “sistema Umbria”, questa volta dal punto di vista culturale, potrà leggere la interessantissima intervista di Marco Nicoletti al critico d’arte Giorgio Bo-nomi, che mette sotto accusa non solo i nuovi “monumenti” urbani introdotti recentemente a Perugia, ma la progressiva provincializzazione artistica incoraggiata, spesso, dagli enti locali. Infine segnaliamo, nella rubrica “Analisi e Studi”, il saggio di Mario Serra che ricostruisce l’operato della prima, e ultima, giunta di centro-sinistra al comune di Perugia, dal 1965 al 1970, rivendicandone i meriti e attribuendole una visione urbanistica che se fosse stata applicata avrebbe ottenuto risultati migliori di quanto poi non sia stato.

Continua il Forum “Un’idea di Perugia”, con un intervento ben calibrato di Gianfranco Maddoli, già Sindaco di Perugia, e con la pubblicazione di un brano, finora sconosciuto al pubblico italiano, di John Whittier, un poeta americano del ‘800, appartenente alla tra-dizione quacchera e radicale (presentato e tradotto da Cinzia Latini). L’indignazione che suscitò la strage degli svizzeri a Perugia risuonò in tutto il mondo e fu proprio questa eco internazionale a fornire la miglior legittimazione della resistenza, un po’ disperata e mili-tarmente velleitaria, dei patrioti liberali. Infatti, dopo quel giorno, niente fu come prima, in quanto fu evidente che esisteva già un’opinione pubblica che metteva limiti alle autocrazie e che al suo cospetto lo Stato Pontificio era stato sconfitto.

Accanto a un interessante approfondimento sui Belati, una famiglia di imprenditori mu-sicali perugini, con il quale Stefano Ragni continua, per “Diomede”, il suo lavoro sulle istituzioni e le realizzazioni della musica umbra, presentiamo, nella sezione “Ieri e Oggi”, in forma breve, due argomenti poco conosciuti. Alessandra Oddi Baglioni parla dell’opera di Bernardino di Mariotto, un pittore alla corte della dinastia Baglioni fra ‘400 e ‘500, recentemente rivalutato dalla critica. Il saggio della Oddi Baglioni polemizza con quella che ritiene essere stata una vera damnatio memoriae di Bernardino, operata dal Papato, che ten-tò di minimizzarne la figura, e travisarne le iconografie legate ai Baglioni. Inedito è il breve ritratto presentato da Andrea Capaccioni, di Agostino Oldoini, un erudito gesuita vissuto a Perugia nel ‘600, sul cui sfondo si riflettono interrogativi ancora da esplorare sul ruolo dei gesuiti e sulla cultura della Controriforma.

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Congetture & Confutazioni

Il Vescovo e la città

C’è stato un certo disagio, se non addirittura reazioni stizzite, alla importante, recente iniziativa del Vescovo Paglia a Terni: due giorni di discussione sui problemi economici, sociali e culturali della città. Aperta da una prolusione di Paglia, intessuta di elementi di dottrina tesi a valorizzare la presenza viva, e il peso determinante, della Chiesa, intro-dotta da una ampia e stimolante relazione del sociologo Luca Diotallevi, si è trattato di un vero e proprio forum: un migliaio di presenze, cento interventi, relazioni distribuite in tempo reale.

Sgombriamo il campo dalle obbiezioni preliminari: è legittimo per un Vescovo scende-re in campo? E perché lo ha fatto? cerca di favorire uno schieramento politico-elettorale? Un paio di anni fa, l’arcivescovo di Perugia, Chiaretti, aveva stimolato la curiosità di molti (e le speranze dell’opposizione) con un velato riferimento al “regime” umbro. Abbiamo come “Diomede” applaudito a quella iniziativa, ci sarebbe piaciuto che fosse andata più avanti. Ora, a Terni, Paglia fa, in modo colto e deciso, ben di più. Cerca di indicare quello che non va, di rilanciare una prospettiva di crescita, indica quello che chiama un «percor-so di innovazione», non gli dà un colore politico, ma certo una prospettiva di superamen-to di una situazione attuale di stallo, di immobilismo, di “declino” non solo economico.

I problemi dell’Umbria visti da Terni, sono un po’ diversi di quelli visti da Perugia. Terni ha una sua specifica vocazione industriale e anche una collocazione geografica diversa. Sono risuonate, quindi, nell’impostazione del convegno, non toni secessionisti ma critiche forti all’egemonia perugina sulle istituzioni regionali e universitarie, una forte vocazione a fare sistema con l’area limitrofa estesa anche al Lazio, la opportunità di sfruttare la vicinanza con la metropoli romana e con il corridoio economico Adriatico abruzzese-marchigiano. Del resto questi temi hanno forti radici nella cultura locale e sa-rebbe stato arbitrario sopprimerli. Depurati delle loro scorie, possono essere un motore positivo per tutta la regione.

Gli spunti più interessanti, quelli su cui la stampa e l’informazione più o meno di “re-gime” ha ampiamente sorvolato, sono stati dedicati a una forte critica a gruppi dirigenti locali, inamovibili, imbrigliati in una paralizzante ricerca del consenso, nei veti reciproci, nella incapacità di uscire dalla gestione quotidiana del potere. Ci sono state frustate per tutti: la Camera di Commercio, la politica di distribuzione in mille rivoli di risorse della

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Fondazione Carit, le municipalizzate comunali, le facoltà universitarie, il vero e proprio rifiuto dell’imprenditoria e delle istituzioni locali di affrontare in positivo le sfide poste dalla grandi aziende multinazionali presenti sul territorio (e basti citare il problema della nuova centrale energetica). Critiche anche all’associazionismo, alla vita dei partiti, alla mancanza di trasparenza e competizione. Si è disegnata una agenda per Terni, a metà fra responsabilizzazione individuale, partecipazione dal basso, liberalismo aperto alle sfide dei mercati, comunitarismo cattolico. Idee nuove e stimolanti di cui l’Umbria, e non solo Terni, ha bisogno.

Ercole Anastagi

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Perugia e la movida estiva

Difficile capire che succede nella Perugia estiva. Si parla, nel mondo, di crisi econo-mica, scoppiano guerre, grandi scenari di cambiamento. Ma qui gli altoparlanti strom-bazzano dalle terrazze, dalle piazzette, dai vicoli fino alle prime ore del mattino. Sempre, tutti i giorni, feriali e festivi, sereni o nuvolosi. Venite alla movida perugina, in salsa di festa popolare! Qui si balla, forse si è scoperto il segreto per scacciare le preoccupazioni, forse qualcuno si sente sulla tolda del Titanic. Del resto, molti progetti sono falliti, le ideologie sono cadute, gli ideali anche, le “ganasce” sono finite in procura, cosa resta da fare?

Cultura e monumenti, i segni della nostra identità storica, della nostra fortuna turi-stica, perché preoccuparsi tanto? Nel giugno scorso, la mostra del Pintoricchio è stata chiusa per breve tempo: un quadro prezioso si era staccato, a causa dello sconquasso provocato dall’ennesimo concerto allestito in piazza 4 Novembre. Poco prima i van-dali, indisturbati, avevano deturpato di vernice gli storici portali del Cambio e della Mercanzia. Qualche protesta dei Soprintendenti, qualche scusa, i giornali non dicono niente, il quadro non si è, fortunatamente, danneggiato, e quindi ripartiamo. Prossimo concerto! Sicuramente i vecchi monumenti, la Fontana, il palazzo Comunale, i palazzi storici, ne trarranno beneficio! Intanto, facciamo sì che pochi possano goderne, copria-moli con palchi fantasmagorici, allestimenti psichedelici; aumentiamo i decibel, perché anche i quadri e i reperti della Galleria possano fremere delle vibrazioni. Dei residenti nel centro, invece, meglio non parlare. Se ne vadano, sembra dire l’amministrazione, se vogliono dormire! Tanto ora c’è il Minimetrò, e il nuovo sistema di mobilità. Se poi in centro non ci abita più nessuno, pazienza, si faranno nuovi locali e nuovi concerti. Di spacciatori qualcuno in giro, ne rimarrà.

E’ vero, ora Tremonti rischia di rovinare la festa, occorre risparmiare. Allora costruia-mo un gran palco permanente, un’ “Arena”, al Santa Giuliana e pubblicizziamo, intanto, un costo privato che fino ad oggi gravava sugli organizzatori di “Umbria Jazz”. Si potran-no fare, in futuro, a costo zero molte altre “serate musicali”, così non dormiranno più non solo i residenti del centro, ma anche quelli di gran parte della periferia. Le attività

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sportive? Ma su via, non ci agitiamo: per il momento ci sarà ancora posto a Pian di Mas-siano, finché, grazie alla prossima premialità ai grandi costruttori, scorrerà anche lì una nuova colata di cemento. E bisognerà spostarsi ancora più fuori. Si chiama, “moderna visione urbanistica”.

Innocenzo Malvasia

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Perugia: i beneficiati senza concorrenza

Il giro è complesso, e notevoli le cifre d’affari. Addentrarvisi è complesso, richiede menti investigative sottili. Proviamo a riassumere: c’è il Minimetrò, ci sono i parcheggi e le valorizzazioni immobiliari indotte (per esempio le torri Oikos), beneficiate di apposite fermate a costo pubblico. In questo e in altro (es. il Mercato coperto, cioè il terminale commerciale del MiniMetrò), la musica è sempre la stessa e si vede a cosa serve questa operazione industrialmente insensata. Poco che si scavi, si trovano gli stessi nomi o gli stessi gruppi, volta a volta con vesti diverse: partecipanti delle “società partecipate” che realizzano le opere e beneficiari delle “opere pubbliche” stesse o loro associati in qualche altra intrapresa. È questo l’interesse pubblico che i cittadini finanziano con l’aumento comunale delle imposte ? Una variabile dipendente, piegata di volta in volta agli interes-si forti. A meno di non ostinarsi a credere – con un’ostinazione degna di miglior causa – che tutto questo cemento sia fatto colare in nome di qualche nobile ideale urbanistico !

Ma non basta mai. A questa catena aurea si aggiunge ora l’anello mirabile del “recupe-ro” della svuotata area di Monteluce, un’enorme operazione immobiliare e finanziaria, che prevede la costruzione (o meglio, la ricostruzione) di ben 200.000 metri cubi, su ap-pena circa 70.000 metri quadrati di superficie. Due battaglieri consiglieri di opposizione (Corrado nel Consiglio comunale e Lignani Marchesani in quello regionale) denun-ciarono, qualche tempo fa che l’amministrazione comunale avesse affidato la gestione finanziaria dell’ingente commessa senza alcuna gara pubblica! La beneficiaria è stata Nomura, una dinamica banca d’affari giapponese, interessata fra l’altro alla sfortunata (vogliamo dire così) scalata Unipol-BNL. Era un po’ grossa, addirittura anche per Pe-rugia, dove pure ci siamo abituati un po’ a tutto. Per fortuna, pochi giorni fa, l’Autorità Garante per la Concorrenza e per il Mercato, interpellata, ha fischiato il fallo: quando si affida una commessa di questo tipo e di questa entità occorre fare una gara, per ri-spetto delle regole di concorrenza, nonché di efficienza economica: oltre che di quelle della decenza. Qui invece si voleva far credere credeva che le regole generali altrove non valessero, che la famosa par condicio fosse per altri ! E i subappalti che si andavano ad immaginare ? A voi la risposta. Ecco la trasparenza di dove comanda da sempre uno stesso gruppo d’affari.

Roberto Valeriani

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Continua lo stillicidio

II racket dello sfruttamento della prostituzione cambia le carte, confonde i contorni, al-lunga il passo. E lascia a Perugia un altro corpo senza vita e uno sfondo di violenza. Dopo Tania Bogus, uccisa a martellate dal suo sfruttatore, dopo Franca, una ragazza nigeriana colpita alla testa con una pietra da un’altra donna al Pantano, in lizza con lei per un posto migliore dove vendere il proprio corpo (ma, anche qui, c’era la mano dello sfruttatore che picchiava chi, al mattino, tornava con pochi soldi), i primi di luglio è stata uccisa Ana Temneanu, 20 anni, un figlio di 3, una vita bruciata nel mondo dello sfruttamento della prostituzione. L’hanno trovata a terra, nel suo appartamento di via Rizzo a Perugia, in un condominio dove si confondeva fra famiglie e studenti, soffocata da un cordino della ten-da. Una pista precisa per il suo omicidio ancora non c’è, anche se le indagini si muovono in una sola direzione, quella del racket che vive dello sfruttamento delle donne.

Ma la vicenda è ancora più complessa. Perchè mentre aumenta la disattenzione nei confronti delle tratta, della compravendita di donne e bambini, gli sfruttatori, invece, mettono a punto “meccanismi” sempre più sofisticati. Le rotte della tratta sono ora deli-neate, i metodi per far entrare le donne, rodati. Il passo successivo è aumentare ancora di più i profitti. Ana non era solo una ragazza costretta a vendersi. Ana aveva fatto carriera, adesso anche lei era entrata negli ingranaggi del racket, ai livelli più bassi, quelli dove sono lasciate le donne, luoghi senza alcuno spazio per la solidarietà. Vittima ma anche un po’ carnefice: il suo appartamento veniva usato dalle altre ragazze per cambiarsi, ripo-sare un poco. Così il racket confonde i contorni. E poi Ana, se non fosse morta, sarebbe stata arrestata perchè coinvolta anche in un giro di spaccio. Ecco il racket che allunga il passo: con le ragazze, ora, fa arrivare la droga. Le ragazze, oltre a vendere il proprio corpo, possono vendere anche la droga. Oppure fare tutte e due le cose insieme: party a base di cocaina e sesso. I guadagni degli sfruttatori si ingrossano, il valore della vita di queste ragazze si assottiglia. Sempre più strumenti, da usare, da inserire nei meccanismi dello sfruttamento.

Astorre Coppoli

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I Due Mondi: nostalgia o rilancio?

Spoleto e il festival che non c’è e che probabilmente non tornerà mai così come gli spoletini se lo ricordano e come qualcuno li ha indotti a desiderare. La scritta grande sul manifesto dove a seguire la parola Spoleto sono un cinque piccolo davanti ad un uno grande (il festival è alla cinquantunesima edizione) non basta da sola a segnare davvero l’inizio di una nuova epoca. Certo al 2Mondi 2008 si è concessa una prima possibilità di riacquistare una sua dignità come evento culturale dell’estate del Bel Paese. La prima scintilla di un nuovo vitale fuoco sembra essersi accesa con questa edizione d’esordio dell’era Giorgio Ferrara. Tuttavia a chi sogna un ritorno dei bei tempi che furono, forse

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è il caso di dire che ancora la strada è lunga. Chi non vorrebbe un festival degno della sua storia? Un 2Mondi quale luogo effervescente di incontro tra pittura, musica, recitazione, il balletto, il tutto rappresentato dai grandi a livello mondiale? Tutto era al massimo del suo splendore, spettacoli e spettatori, ricorda qualcuno, mentre l’oggi, forse a causa della troppa ingerenza della politica nella scelta del cartellone, porta a privilegiare gli amici, di amici, di amici, etc.

Ci vorrà ben altro di una sola buona stagione per riconquistare la fiducia di un pub-blico che si è andato disaffezionando via via nel corso dell’ultimo decennio. Ed è così che a fronte di ingenti investimenti ministeriali, delle benedizioni di ben due governi di differente colore, sulle piazze e per le strade di Spoleto non si è riversato il pubblico atteso. I dati ufficiali parlano di 20 mila presenze in 17 giorni, il che vale a dire circa quattro volte di più rispetto al 2007; si evidenzia anche un 48 per cento di posti occupati tra quelli disponibili nei luoghi degli spettacoli. In giro ufficiosamente si vocifera, però, anche di affari che abbassano la soglia delle presenze agli eventi al 35 per cento. A 600 mila euro ammonterebbe, inoltre, l’incasso.

Intanto si inizia a pensare al 2009 e da che cosa si parte? Dal rastrellamento per i fi-nanziamenti. Quest’anno il Festival ha ricevuto dal Ministero oltre 2 milioni di euro, ma questa cifra per il prossimo anno dovrà essere coperta da altri enti (Regione e Provincia) e magari anche da banche e sponsor vari, perché il governo non potrà farsi carico da solo della stessa cifra.

Quest’anno il 2Mondi è ripartito, un po’ affannato, con la ricorsa pesante, con un programma preparato in quattro mesi, un omaggio alla grande regia del Novecento, con spettacoli di livello internazionale (da “Padmavati” di Roussel-Banshali all’”Opera da tre soldi” di Brecht-Weill-Wilson), molta prosa (soprattutto francese), la prestigiosa London Symphony diretta in piazza da Harding, il cinema, un pò di danza, recital all’italiana. Ma in cosa concretamente si è caratterizzato Spoleto 51, questo è più difficile dirlo e forse è proprio questa la sfida per Ferrara. Cosa può veramente dare a Spoleto quella marcia in più, che lo innalzi rispetto alle tante rassegne estive che pur negli ultimi anni sono andate diffondendosi come funghi un po’ in tutta Italia?

Il fatto è che negli ultimi anni la concorrenza è cresciuta e ognuno si è ritagliato una fetta di pubblico e si è fatto il suo sponsor. Insomma, il Festival di Spoleto si riaffaccia sul mondo, ma in un mondo che è cambiato, che non è più quello di una volta.

Porzia Corradi

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Analisi & Studi

La Nestlé rimarrà in Umbria? Requiem per la Buitonidi Sansepolcro e allarme per lo stabilimento Perugina

Siro Pollacciex dirigente della IBP – Industrie Buitoni Perugina

Molto volentieri pubblichiamo questo intervento di un autore, già in passato ospite con interessanti analisi e contributi sulla nostra rivista. Speriamo che le stimolanti considerazioni dell’ingegner Siro Pollacci aprano un dibattito su uno dei principali problemi della struttura industriale dell’Umbria.

La tradizione gloriosa dei Buitoni

A fine giugno, dopo una lunga trattativa, Nestlé ha venduto ad Angelo Mastrolia, nu-mero uno del Gruppo Tmt, lo Stabilimento di Sansepolcro, dove 181 anni fa era sorto il piccolo pastificio artigianale di Giovan Battista Buitoni e Giulia Boninsegni.

Per i primi cento anni di storia del gruppo Buitoni Perugina, Sansepolcro é stato il centro propulsore dello sviluppo di un’azienda che ha reso famosi nel mondo il nome Buitoni e la pasta italiana. Partendo da quel piccolo laboratorio in alcuni modesti locali nel centro dell’allora Borgo Sansepolcro, la famiglia Buitoni, nell’arco di centotrenta anni e di quattro generazioni, aveva costruito a Sansepolcro stabilimenti sempre più importanti, sino a quello degli anni ’50 che, vent’anni dopo, arriverà ad occupare oltre 1.500 addetti.

Per comprendere la gravità della decisione di Nestlè e la ferita che essa ha inflitto ad una grande tradizione industriale italiana ed all’economia dei nostri territori, conviene ripercorrere brevemente la lunga storia industriale che si sviluppa da quella prima ini-ziativa dei coniugi Buitoni. A loro succede il figlio primogenito Giovanni (1822-1901) che denomineremo senior (Sr.) per distinguerlo dal più famoso Giovanni suo nipote e leader della quarta generazione. Giovanni Sr. è il primo grande imprenditore espresso dalla famiglia che trasformerà un’azienda artigianale in un grande impresa industriale. A lui si deve la prima espansione dell’azienda al di fuori di Sansepolcro, con la fondazione dei pastifici di Città di Castello, nel 1856, e di Perugia, nel 1878. Quest’ultimo viene

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affidato alla direzione del figlio Francesco, allora diciottenne, che diventerà il caposti-pite del “ramo perugino” della famiglia, quello che determinerà il grande sviluppo del gruppo nel ‘900.

Con una visione anticipata di molti decenni, Giovanni Sr. introdurrà geniali innova-zioni di prodotto e di processo, mostrando di saper creare, a metà del ‘800, un collega-mento virtuoso tra l’industria e la ricerca scientifica. Da qui nasce la straordinaria idea, suggeritagli dalla lettura di un testo scientifico, di arricchire la pasta con il glutine (che egli denominerà “carne vegetale”, con riferimento anche al suo valore economico, visto che a quei tempi la carne era un cibo che compariva solo sulle tavole dei ricchi e nem-meno tanto di frequente!).1 Nasce così nel 1884 la “Pastina Glutinata” Buitoni, il primo prodotto dietetico per tutti coloro che hanno bisogno di un accresciuto apporto protei-co, per la prima infanzia, i convalescenti, gli sportivi e gli anziani. La Pastina glutinata sarà poi il capostipite di una linea di prodotti specializzati basata sui cereali, un’idea che ancora oggi, a 120 anni di distanza, è una delle linee guida dell’alimentazione dietetica.

Di Giovanni Sr. è anche la realizzazione del nuovo molino a cilindri, uno dei pochi esistenti allora in Italia, che sostituisce con maggiore produttività i tradizionali molini a macine di pietra e l’idea, che sarà realizzata dal figlio Arnaldo, di sfruttare l’acqua del Tevere creando la centrale idroelettrica di Montedoglio, che fornirà la nuova ener-gia alla fabbrica e consentirà anche l’illuminazione pubblica di Borgo Sansepolcro. Nel 1893 Giovanni corona la sua impresa inaugurando il nuovo modernissimo complesso industriale, molino e pastificio, in una nuova grande area industriale fuori delle mura dell’antico Borgo.

Alla morte di Giovanni, gli succedono il figlio Silvio (1856-1939) a capo dei pastifici di Sansepolcro e Città di Castello e Francesco (1859-1938) a Perugia. Quest’ultimo nel 1907, con alcuni soci, tra i quali in posizione preminente Annibale e Luisa Spagnoli, fonda la Perugina che sarà destinata a diventare il motore dello straordinario sviluppo del gruppo Buitoni nel nuovo secolo.

Nel 1909, quando la neonata Perugina si trova ad attraversare una grave crisi, Fran-cesco ne affida la direzione al figlio diciottenne Giovanni (1891-1979), che denomine-remo Jr., il secondo e forse il maggiore imprenditore espresso dalla famiglia. In pochi anni, Giovanni dotato di uno straordinario carisma, di idee che oggi appaiono come sofisticate tecniche di marketing ante litteram e di molto coraggio, porta al successo la Perugina, trasferendola nel 1915 in un moderno stabilimento a Fontivegge ed affidan-done la direzione al fratello, Bruno Sr.

Nel 1927 la Buitoni di Sansepolcro conosce una gravissima crisi finanziaria che la porterà sull’orlo del fallimento e Silvio si dimette dalla presidenza offrendo a Giovanni la guida dell’azienda. Giovanni forte dei risultati della Perugina, che da quel momento diventerà la cash cow del gruppo, assume la presidenza dell’azienda e pone a capo degli

1 Il glutine è la componente proteica del chicco nel grano duro, da cui la pasta, semola di grano duro. Nella lavorazione di pasta glutinata, la semola di grano duro venne separata dall’amido, per essere arricchita di una componente di glutine.

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stabilimenti di Sansepolcro e Roma, che nel frattempo era stato fondato per servire il grande mercato della città, i fratelli Marco e Luigi: in quel momento tutto il gruppo è nelle mani del ramo perugino della famiglia.

Nel 1937, a seguito del successo straordinario ottenuto all’Esposizione universale di Parigi, in cui Giovanni crea sotto la Tour Eiffel il più grande stand, dove si offrono gior-nalmente a tutti i visitatori migliaia di piatti di spaghetti al pomodoro, fonda la Buitoni Française, destinata a diventare nella seconda metà del secolo, sotto la guida del fratello minore Giuseppe, l’altra grande star del firmamento Buitoni, per il suo rapido sviluppo ed i brillanti risultati economici. Nel 1939, recatosi negli Stati Uniti per l’esposizione mondiale di New York, Giovanni Jr. resta affascinato dallo sviluppo economico e dal di-namismo di quel grande Paese e decide di rimanervi, ininterrottamente, per quattordici anni. Fonda, così, la Buitoni Food che egli indirizza a prodotti a maggior valore aggiunto come i sughi pronti, la pizza ed altri prodotti pronti surgelati. Ispirandosi al successo della pastina glutinata, dopo una lunga battaglia legale con la Food Administration che non consentiva di arricchire la pasta con proteine, con l’obiettivo di proporre una pasta dietetica per tutti lancia gli “Spaghetti with less starch”. E, per promuoverne l’introdu-zione, crea due ristoranti, che egli denominerà Spaghetti Bar, nel cuore di New York, a Times Square ed a Broadway. Quest’ultima si rivelerà la prima iniziativa senza successo di Giovanni Buitoni, così come il tentativo che, dietro la sua insistenza, farà la Buitoni Italia nel 1959 con la pasta MinusAmid.

Intanto, la lunga lontananza del capo della famiglia e le incomprensioni che nascono per l’impossibilità e la resistenza di questa a sostenere finanziariamente lo sviluppo in America, portano i quattro fratelli rimasti in Italia ad affermare progressivamente la loro autonomia e la separazione tra le varie aziende create dal fratello. Così il ramo perugino, con Bruno Sr. governa in autonomia la Perugina, con la collaborazione della famiglia Spagnoli; Giuseppe guida con grande successo la società francese che, sulla base dei sug-gerimenti di Giovanni, si indirizza decisamente verso i prodotti pronti (sughi e ravioli in scatola), creando un secondo modernissimo stabilimento nel sud della Francia; i fratelli Marco e Luigi sono a capo dei due stabilimenti italiani, quello di Sansepolcro e quello di Roma, che verrà poi chiuso perché diventato obsoleto e senza possibilità di sviluppo, a seguito anche dei progressi nei trasporti che rendono possibile servire da Sansepolcro il grande mercato della capitale.

A Sansepolcro, anche in conseguenza di ciò, dopo la distruzione della guerra dei due stabilimenti (Alfa e Beta) su cui si era venuta articolando la produzione, all’inizio degli anni ’50 Marco realizza il nuovo grande e modernissimo stabilimento, l’ultimo costruito dalla famiglia nella sua antica sede. Alla fine degli anni ’50, la Buitoni Italia acquisisce anche un nuovo pastificio con annesso molino a Foggia e crea ad Aprilia un nuovo sta-bilimento dedicato al settore dei baby food, a marchio Nipiol. Questa é la geniale diversi-ficazione produttiva che Bruno Buitoni Jr., il primo esponente della quinta generazione ad assumere un ruolo di comando, succedendo allo zio Marco, ha avviato sulla base dell’antica vocazione ai prodotti dietetici, che Buitoni coltivava sin dal lontano 1894.

Intanto Giovanni, rientrato temporaneamente in Italia, convinto della necessità di

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unire le forze della famiglia che appaiono ormai chiaramente inadeguate di fronte al potenziale enorme che Buitoni potrebbe avere nei piatti pronti della cucina italiana a livello mondiale, cerca inutilmente di creare una holding attraverso la IBO, International Buitoni Organisation, che possa assumere un ruolo di coordinamento finanziario e di comando. Ciò gli consentirebbe anche di intervenire negli Stati Uniti dove la dimensio-ne del mercato e la forte competizione richiederebbero una ristrutturazione ed un raf-forzamento dell’azienda da lui fondata che sta subendo notevoli perdite. Ma, nonostante il suo carisma ed il rispetto formale che i fratelli continuano a tributargli, Giovanni non riesce nell’iniziativa, comprende che i fratelli si sono affrancati ed intendono essere pa-droni a casa loro, per cui nel 1960 vende tutte le sue azioni, si dimette da tutte le cariche ricoperte nel gruppo e si ritira a vita privata.

Negli Stati Uniti, il ruolo di amministratore delegato dell’azienda viene assunto da Marco Jr, figlio di Giuseppe. Nel 1966, intanto Paolo Buitoni è succeduto al padre a capo della Perugina e la quinta generazione è ora al comando di tutte al aziende. Paolo alla Perugina, Bruno Jr alla Buitoni Italia, Giuseppe con il figlio Luigi alla Buitoni Fran-cia e l’altro figlio, Marco Jr., alla Buitoni USA. Subito dopo la sua elezione, vincendo anche le resistenze del padre e manifestando così il grande disegno strategico che ha in mente, Paolo decide un forte trasferimento di mezzi finanziari della Perugina a favore della Buitoni USA e della Buitoni Italia. Questa, infatti, si trova ad attraversare un nuovo momento molto critico, forse anche a causa dei recenti importanti investimenti e della competizione sempre più forte con Barilla sulla pasta e con la Plasmon di Heinz e con la Gerber, colossi multinazionali, sui baby food.

È la seconda volta, dopo l’intervento di Giovanni Jr. del 1927, che la Buitoni di Sansepolcro viene salvata dal ramo perugino della famiglia: ma l’acceso campanilismo e l’orgoglio della primogenitura acceca i “biturgense” – famiglia, sindacati e forze politi-che –, che di lì a tre anni esprimeranno tutta la loro avversione alla grande operazione di fusione voluta da Paolo, che per l’ampiezza della visione strategica, e la dedizione totale all’azienda, oltre che per la forza che gli dà la Perugina, fonte principale degli utili della famiglia, è ormai emerso come capo della quinta generazione.

Nel 1969 attraverso la fusione tra la Buitoni Italia e la Perugina, che hanno in portafo-glio anche la maggioranza delle azioni della Buitoni francese ed americana, Paolo fonda la IBP-Industrie Buitoni Perugina, realizzando l’impresa che non era riuscita nemmeno al grande zio Giovanni, iscrivendo così il suo nome nell’albo d’oro della famiglia come ultimo coraggioso capitano d’industria.

Purtroppo la nascita della IBP si scontra con la crisi internazionale ed il primo shock dei prezzi del petrolio e delle materie prime del 1973-74, il drammatico aumento del costo del denaro e l’ottusa ed irresponsabile azione che sindacati e le forze politiche al governo dell’Umbria gli scatenano contro, nonostante la sua grande apertura alle istanze sociali del territorio, secondo le migliori tradizioni della sua famiglia.

Alla fine del 1976, a seguito dei risultati negativi degli ultimi due esercizi, la maggio-ranza della famiglia toglie l’appoggio a Paolo, il quale si dimette lasciando l’incarico di Amministratore delegato al cugino, Bruno Buitoni Jr. I successivi otto anni segnano un

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serio aggravamento della situazione economico finanziaria, dovuto sostanzialmente alle perdite della Buitoni Italia e della Buitoni USA. Nel febbraio del 1985 a Bruno Buitoni Jr., dopo aver cercato altre soluzioni meno radicali, di fronte anche alla manifesta vo-lontà prevalente della numerosa famiglia di ritirarsi dall’attività, tocca l’ingrato compito di mettere fine ad una gloriosa storia, patrimonio dell’industria italiana, vendendo a De Benedetti che tre anni dopo cederà il gruppo alla Nestlé, realizzando un enorme profitto. A riprova del fatto che il gruppo industriale era ancora sano e forte e possedeva un gran-de valore con i suoi marchi ed i suoi prodotti diffusi in tutto il mondo e che si sarebbe potuto salvare con un adeguato intervento finanziario, nell’interesse della famiglia e dell’economia del nostro territorio al cui sviluppo essa aveva dato un grande contributo per oltre 150 anni.

Impegni non rispettati

Nel 1987, durante il breve periodo in cui la proprietà era passata dai Buitoni a De Benedetti, essendo la vecchia area completamente saturata e contornata dallo sviluppo della città, nella nuova zona industriale Alto Tevere fu posta la prima pietra dello stabi-limento attuale, che sarà poi completato da Nestlé l’anno successivo. In quell’occasione, il Direttore generale per l’Europa, Ramon Masip, scrisse una lettera al Sindaco di Sanse-polcro, in cui dichiarava solennemente:

Le posso assicurare che è nostro interesse sviluppare le attività della Buitoni ed è a questo scopo che l’abbiamo acquistata. Naturalmente noi faremo tutto il possibile per incrementare, nel contesto e nei limiti imposti dalla realtà del mercato e dalle possibilità finanziarie, le nostre attività di Sansepolcro.

Evidentemente, per la multinazionale svizzera non solo verba ma anche scripta volant, se solo tre anni furono sufficienti per dimostrare la totale inaffidabilità dell’azienda e del suo management. Infatti, all’inizio degli anni ’90, quando Nestlé decise di entrare nel set-tore della pasta fresca, lo stabilimento relativo dotato delle più avanzate tecnologie, ve-niva realizzato in provincia di Cuneo. La “logica” di una simile assurda decisione andava forse ricercata nel fatto che, nel settore del ”fresco”, in quel sito vi era la produzione della mozzarella Locatelli, un’azienda che verrà poi ceduta, non essendo quella dei formaggi una linea strategica della multinazionale. Ben più forte era, evidentemente, l’affinità con la tecnologia della pasta e di altri prodotti pronti Buitoni (per esempio i sughi) e se ci fosse stata da parte di Nestlé una doverosa attenzione per il futuro dello stabilimento di Sansepolcro, le centinaia di persone che vi lavoravano e gli impegni assunti, è evidente che lì andavano collocate le nuove produzioni, onde sostituire progressivamente e senza traumi quelle destinate inevitabilmente a declinare.

Di fronte ad una decisione così grave, da parte di sindacati e pubbliche amministrazio-ni –, che solo pochi anni prima avevano dimostrato tanto aggressivo attivismo nell’in-terferire nei piani industriali dell’IBP, sino a costringere Paolo Buitoni a scelte assurde ed antieconomiche che furono una concausa importante della crisi apertasi alla fine degli

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anni ’70 –, silenzio assoluto.2 In quell’occasione giocarono, evidentemente, due fattori: da un lato la cronica incapacità di sindacato e amministratori locali di saper guardare lontano, dall’altro, l’atteggiamento succube verso il nuovo “padrone”, considerato trop-po forte per poter tentare anche solo di interloquire!

La stessa situazione si ripete ora: di fronte alla grave decisione di Nestlé di disimpe-gnarsi totalmente da Sansepolcro, che ha in sé anche un evidente significato simbolico, i sindacati, le pubbliche amministrazioni ed i partiti politici del governo locale, tutti della sinistra “storica” (nel senso che, evidentemente, non c’è più!) hanno preferito glissare. E con ben nota tecnica della peggiore politica, per cercare di distrarre le maestranze e l’opinione pubblica, si sono inventati un diverso “nemico” nell’imprenditore Mastrolia, scatenandogli contro una vera e propria crociata, pur avendo egli come unica “colpa” quella di aver avanzato un’offerta più che doppia rispetto a Colussi, il candidato forte-mente sostenuto dalla Regione Umbria, impedendogli di realizzare un affare d’oro.

Colussi o Mastrolia per Sansepolcro?

Le trattative per la cessione dello stabilimento, alle quali avevano partecipato anche la Colussi di Perugia ed una cordata di imprenditori aretini che aveva come capofila Fabianelli, titolare dell’omonimo pastificio di Castiglion Fiorentino, erano state lunghe e controverse.

Le amministrazioni pubbliche ed i sindacati toscani, con una visione ancora cam-panilistica, sostenevano l’ipotesi Fabianelli, manifestamente inadeguata alle dimensioni dell’operazione, mentre la Regione dell’Umbria era scesa in campo con molta determi-nazione a favore di Angelo Colussi.

Ai primi di giugno, la Presidente della Regione, Lorenzetti, dimostrando così la to-tale emarginazione nella vicenda dei poteri politico-sindacali locali nonostante il loro clamoroso agitarsi, aveva annunciato pubblicamente la conclusione della trattativa a favore della Colussi, esprimendo grande soddisfazione per il fatto che era un’importante azienda umbra a succedere alla multinazionale svizzera. Il 24 giugno, invece, Nestlé an-nunciava ufficialmente la cessione al gruppo Tmt guidato da Angelo Mastrolia. Infatti, nonostante che, come si è detto, nel corso della trattativa, da parte dei dipendenti, delle organizzazioni sindacali e delle Regioni Toscana ed Umbria, si fossero manifestate forti resistenze verso l’ipotesi Mastrolia, Nestlé non aveva dato alcun segno di vacillare nel suo orientamento, basato su una solida offerta che, secondo quanto riportato dalla stampa, era più che doppia rispetto a quella presentata da Colussi.

Mastrolia è un nome nuovo, ma già importante nel panorama dell’industria alimen-tare nazionale, presente nel settore della pasta ed in quello del latte e dei latticini. Nella pasta, egli ha già acquisito una grossa fetta della capacità produttiva nazionale, che lo pone al secondo posto dopo Barilla, attraverso l’acquisto dei pastifici Pezzullo di Eboli,

2 Si veda il mio articolo Paolo Buitoni e l’IBP. Una storia da capire, del 21 0ttobre 2007 sul “Corriere dell’Um-bria”.

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Corticella di Bologna, Combattenti di Cremona, oltre ad altri minori. Nel settore del latte, fa capo a lui la Newlat che raggruppa alcune aziende importanti e dai marchi affer-mati, come Polenghi, Giglio e Torre in Pietra.

Pochi giorni dopo la conclusione dell’acquisto, la notizia che Mastrolia era stato rag-giunto da un provvedimento giudiziario che prevedeva gli arresti domiciliari (anche in questo caso la magistratura aveva dato la sgradevole sensazione di agire sotto la regolazio-ne di un timer, giacché i fatti contestati si riferivano al lontano 2004!) aveva dato nuovo fiato a tutti coloro che avrebbero voluto riaprire una trattativa già conclusa. Si sono letti, così, sulla stampa locale i tanto “perentori”, quanto risibili inviti della CGIL: «indipen-dentemente dall’esito delle vicende giudiziarie occorre riaprire immediatamente la tratta-tiva» e la singolare dichiarazione in chiave “religiosa” del rappresentante della RSU dello stabilimento: «le nostre preghiere sono state ascoltate». Il sindacalista biturgense, che non immaginiamo sia un fervente credente, si riferiva probabilmente al fatto che nella “cro-ciata” contro Mastrolia erano scesi in campo anche i vescovi del circondario, impetrando forse qualche speciale intervento della Provvidenza! Al coro si è aggiunta anche la Presi-dente Lorenzetti, sempre molto critica e schierata contro l’imprenditore campano, anche rispetto al Presidente della Regione Toscana competente per territorio, affermando:

le preoccupazioni e le perplessità da me pubblicamente espresse in tempi non sospetti sono oggi sotto gli occhi di tutti.

Anche se Mastrolia, vista la ripresa di queste violente opposizioni politiche e sindacali, aveva dichiarato che se la sua presenza sul territorio non era gradita, era pronto a fare un passo indietro, la trattativa era manifestamente conclusa e questi ultimi sussulti del sindacato e delle pubbliche amministrazioni avevano evidentemente solo il significato di “mostrare bandiera”, nel tentativo di far dimenticare anni di colpevole acquiescenza e senza nuocere a Nestlé. La quale, confermando i tratti più negativi delle multinazionali, ha dimostrato anche in questa occasione di avere come unico parametro la massimizza-zione del profitto, trascurando qualsiasi altra considerazione di opportunità e di imma-gine, come il rispetto per il territorio su cui ci si è insediati, l’occupazione, la tradizione di una grande impresa e gli impegni precedentemente assunti. Infatti, se lo avesse voluto e se fosse stata adeguatamente pressata in questa direzione dai sindacati di Sansepolcro e di Perugia e dai pubblici poteri, Nestlè avrebbe potuto salvare lo stabilimento di Sanse-polcro attraverso un programma di ristrutturazione, anche di parziale ridimensionamen-to, localizzandovi alcune delle nuove produzioni recentemente annunciate.

Conclusa l’operazione, credo che ora ci si debba chiedere quale delle due offerte prin-cipali sul tappeto fosse obiettivamente in grado di offrire le migliori prospettive per il mantenimento di una parte dell’attuale occupazione a Sansepolcro, riducendo il dan-no dell’uscita di scena di Nestlé. Dico di “una parte”, perché il sovradimensionamento dell’organico attuale dello stabilimento è certamente notevole, dati i volumi di produ-zione che si possono immaginare in base alle quote di mercato di Buitoni, pesantemen-te ridimensionate negli ultimi anni, nella pasta, come nelle fette biscottate. Ciò mi fa ritenere che, almeno per il breve termine, il salvataggio di una parte degli attuali posti

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di lavoro sarebbe già un risultato non disprezzabile. E credo che, al di là delle assicura-zioni date da Mastrolia di voler mantenere invariato il livello occupazionale attuale per i prossimi 36 mesi, vi possa essere già un accordo con il sindacato perché, passato qualche mese, una parte del personale possa essere posto in cassa integrazione per 12 mesi e poi, forse, in mobilità per altri 24, secondo quanto prevedono le leggi per lo stato di crisi aziendale.

Se si analizza il problema senza pregiudizi, in un’ottica di marketing ed industriale, si possono fare alcune considerazioni. Colussi, da un lato, poteva mettere in campo un’ organizzazione commerciale molto forte ed una larga distribuzione, appoggiata da no-tevoli investimenti pubblicitari; dall’altro, si deve però considerare che il gruppo ha già con Agnesi un marchio di pasta importante e che si colloca nella stessa fascia di mercato medio-alta, nella quale é posizionato anche Buitoni. E l’esperienza insegna che una stes-sa azienda non è mai riuscita a portare avanti con successo due marchi per uno stesso prodotto, come conferma anche la storia Barilla-Voiello, nonostante in questo caso il primo marchio copra il segmento medio di prezzo e l’altro si inserisca, a fianco di De Cecco, in quello alto. Lo stesso problema si sarebbe posto anche per le fette biscottate, per le quali Colussi ha già un suo marchio molto ben distribuito ed è quindi difficile immaginare che fosse disposto a “spingere” il marchio Buitoni, anziché il proprio. Senza considerare che nella pasta e nei prodotti del forno, Colussi è presente anche con Misu-ra, un marchio specializzato nel settore dietetico, anch’esso molto noto e distribuito.

Per tutti questi motivi, si può supporre che Colussi fosse interessato all’operazione solo per acquisire a condizioni molto convenienti una fabbrica (di qui l’offerta netta-mente inferiore a quella di Mastrolia) per trasferirvi la produzione della pasta Agnesi e chiudere l’antico stabilimento di Imperia. Imperia, assieme a Sansepolcro e a Parma è uno dei siti storici dove si è sviluppata la grande tradizione industriale della pasta ita-liana, ma il suo vecchio stabilimento è ormai strutturalmente obsoleto, avendo però il “pregio” per l’imprenditore (e la iattura per le maestranze che saranno licenziate!) di una localizzazione di particolare valore immobiliare. Per questo motivo Colussi, secondo un progetto da tempo noto, intende realizzare colà un’operazione immobiliare similare a quella recentemente conclusa a Rimini, dove ha chiuso lo stabilimento che occupava una cinquantina di addetti, trasferendo produzione e impianti presso lo stabilimento di Fossano (Cuneo).

È la solita la logica della dismissione di tanti siti industriali per farne oggetto di lucrose speculazioni immobiliari, che sembrano diventate ormai la leva principale del profitto di molte imprese industriali, assecondate spesso da pubbliche amministrazioni che si sono votate anch’esse al business del “catrame e cemento” (come, non tanto tempo fa, l’aveva polemicamente etichettato la Presidente Lorenzetti). Questo business sembrerebbe avere il pregio di dare agli enti locali profitti in due diversi “canali”, come è ormai dimostrato anche nell’Umbria felix: quello legale, attraverso i contributi di concessione a costruire incassati dai Comuni e quello illegale, con le ricche “mazzette” intascate da politici e di-rigenti pubblici disonesti, che hanno fatto dire ad un dirigente nostrano, recentemente arrestato, che vi si «mangia a quattro ganasce!».

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Così, i piccoli e medi imprenditori italiani del settore manifatturiero, struttura por-tante del nostro sistema industriale, sono sempre meno disposti ad investire sul territorio nazionale e delocalizzano la produzione nell’est (prima europeo ed ora asiatico) alla ricerca dei più bassi costi del lavoro, mentre i “grandi” rivolgono i loro interessi a settori come le autostrade, le banche, le telecomunicazioni e la sanità, dove possono godere di pochi rischi e rendite elevate, attraverso gli oligopoli ed i relativi “cartelli” e le pseudo liberalizzazioni, realizzate d’intesa con i poteri pubblici, con la benedizione anche del “new big party”, il partito che dovrebbe rappresentare la nuova sinistra riformista, ma che parla ormai solo inglese, ama le banche e il terziario più che l’industria e spinge gli operai a votare per la destra. In questo modo nella settima potenza economica mondiale (ancora per quanto?) si continua a ridurre, in cascata, produzione, occupazione, salari e consumi interni, mentre i nostri valorosi macroeconomisti, che in genere dell’economia reale hanno una conoscenza assai scarsa, dissertano sulle cause della mancata crescita del nostro PIL con la stessa logica con cui don Ferrante continuava a negare l’epidemia di peste a Milano, argomentando che non poteva essere né “sostanza”, né “accidente”… sino a quando ne restò ucciso!

Tornando al problema delle prospettive dello stabilimento di Sansepolcro, credo che il “deprecato” gruppo di Mastrolia, ben più di Colussi, potrebbe impegnarsi in un rilancio del marchio Buitoni, che gode ancora in Italia di una quota di mercato “potenziale” assai maggiore di quella attuale e che potrebbe essere recuperata se un imprenditore capace e determinato vi si impegnasse seriamente, mettendo fine alla rinunciataria politica di Nestlé. Infatti, occorre considerare che sino ad ora Mastrolia nel settore della pasta aveva acquistato stabilimenti privi di marchi di prestigio e vocati alla produzione per marchio di terzi, in particolare per la grande distribuzione italiana ed estera e non dispone di un marchio proprio di prestigio. Il grosso differenziale della sua offerta e la decisione annunciata di investire altri cinque milioni di euro per sviluppare la produzione dei “Crostini” (lo straordinario prodotto che Buitoni aveva portato al successo in Italia ed all’estero con il nome “Buitost” e, prima ancora, “Melba toast”, del quale Nestlé non ha compreso il potenziale di sviluppo, come risulta già evidente dal nome anonimo con cui l’ha ribattezzato) sono indizi probanti di una strategia di rilancio del marchio e delle vendite dei prodotti Buitoni. Che è l’unica garanzia reale perché lo stabilimento di Sansepolcro, dopo un inevitabile ridimensionamento a breve termine, possa stabilizzare l’occupazione e poi tornare ad incrementarla, cosa che, con la lotta ad oltranza scatenata contro Mastrolia, sembrano non aver compreso sindacalisti e politici. I quali, nella loro incultura economica ed industriale, si sono fatti condizionare dal nome più o meno importante del compratore: la lezione Nestlé, evidentemente, non è bastata!

Cosa vuole fare la Nestlé?

Detto questo circa le due opzioni che erano sul tappeto, resta la domanda principale: perché sindacati e pubbliche amministrazioni, in particolare la Regione Umbria, così attivi contro Mastrolia, non si sono invece mobilitati contro la Nestlé, con l’obiettivo

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di far rientrare il proposito di cedere Sansepolcro e di ottenere, finalmente, un piano industriale serio per l’ancor più importante insediamento di Perugia?

Per quanto riguarda la nostra Regione, credo che la risposta si trovi nella posizione suc-cube, fatta di reverenza e di timore del peggio, che ha spesso caratterizzato l’atteggiamen-to dei pubblici amministratori verso le multinazionali estere, in particolare verso Nestlé, forse perché esse rappresentano ormai una parte molto, troppo, importante dell’eco-nomia umbra, a Perugia come a Terni. Per questo, di fronte alla drastica decisione di Sansepolcro, con una tipica astuzia politica, in cui sono maestri, sindacalisti e pubblici amministratori hanno deciso di creare un diversivo, per non dover prendere posizione contro Nestlè, nel timore di possibili contraccolpi anche a S. Sisto. Senza considerare, però, che i continui cedimenti e la mancanza di coraggio e di iniziativa aggravano i pro-blemi, con il rischio di farli poi esplodere in situazioni drammatiche, come insegna la vicenda dello stabilimento di Sansepolcro, per il quale la battaglia andava fatta quindici anni fa, come abbiamo detto sopra.

Oggi, dopo la progressiva demolizione delle due aziende italiane, Perugina e Buitoni Italia, avvenuta nell’arco dei vent’anni decorsi dall’insediamento di Nestlé a Perugia e Sansepolcro, credo che vi sia un generale convincimento che l’acquisizione del Gruppo da parte del gruppo svizzero sia stata una iattura per i nostri territori. Non si deve dimen-ticare che il primo, devastante effetto della venuta di Nestlè in Umbria si manifestò già alla fine degli anni ’90, quando senza nessuna giustificazione logica, visto che l’azienda perugina rappresentava la parte principale del giro d’affari della Divisione dolciaria ita-liana e che a Perugia, in quasi cent’ anni, si era sviluppata una grande cultura industriale nel settore del cioccolato, tutta la struttura direttiva Perugina fu trasferita da Perugia a Milano, con l’acquiescenza di sindacati e pubbliche amministrazioni. Con quella deci-sione, che seguiva l’altra non meno significativa, della localizzazione nel nord Italia del settore di sviluppo Buitoni, le due aziende italiane, Perugina e Buitoni Italia, venivano decapitate e ridotte a due semplici fabbriche dell’universo Nestlè, con l’aggravante che il loro assetto produttivo le poneva ai margini dei piani industriali della multinazionale.

Pertanto, dopo il grave episodio di Sansepolcro, credo che i sindacati, la Regio-ne dell’Umbria ed i partiti politici si dovrebbero concentrare con tutto l’impegno su un’azione preventiva a difesa dello stabilimento di Perugia. Si tratta, infatti, di un inse-diamento che per le dimensioni assai maggiori dell’organico ed il contesto dell’economia del perugino, che non offre le alternative esistenti nell’alta valle del Tevere, renderebbero molto più gravi nuovi, eventuali passi regressivi Nestlè.

La decisione di cedere lo stabilimento di Sansepolcro deriva certamente dal fatto che la sua produzione é basata sulla pasta secca e sulle fette biscottate, prodotti non compresi nelle linee strategiche di Nestlè. Il primo é un prodotto che era stato subito scartato da Nestlè per il sua marginalità molto ridotta. Le fette biscottate, che erano state intelligen-temente posizionate dai Buitoni come un prodotto dietetico sin dal loro lancio nel lon-tano 1926, avevano un mercato molto interessante, anche sotto il profilo dei margini, ma limitato all’Italia. In Francia, ad esempio, le “biscottes” sono un prodotto venduto ad un prezzo molto vile, più che non la pasta di semola in Italia.

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In questa situazione, l’impegno di Nestlè nella distribuzione è stato modesto, le quote di mercato si sono via via ridotte e ciò ha portato al sovradimensionamento dell’organico e, probabilmente a perdite non trascurabili. A questo punto, anziché impiegare energie e capitali nella ristrutturazione della fabbrica, come avrebbe fatto un imprenditore italia-no, la decisione della multinazionale è stata la più semplice e radicale: disfarsene.

Sotto questo profilo, credo che lo stabilimento di S. Sisto abbia il vantaggio di con-tinuare a produrre utili, come ha sempre fatto la Perugina, nonostante i molti traumi sopportati, ma sembra logico temere che dopo aver curato le perdite nella pasta, Nestlè possa chiedersi se si possono migliorare i risultati italiani anche nel settore del cioccola-to. In questo caso per S. Sisto si aprirebbe uno scenario molto pericoloso. Infatti, dopo la decisione di tre anni fa, quando Nestlè decise la chiusura del Reparto torrefazione e, successivamente, anche dei due reparti a valle, Macchine cioccolato e Cacao polvere, cioè di tutto il ciclo produttivo del cioccolato, in seguito ceduti alla multinazionale Barry, lo stabilimento è attualmente dedicato a “seconde lavorazioni” come modellaggio ed incarto-confezione, che sono le più banali dal punto di vista tecnologico e sono ca-ratterizzate da un grosso carico di personale.

Inutilmente, con una lettera aperta alla Presidente della Regione3, cercai di richiamare l’attenzione dei pubblici poteri e del sindacato sul significato di decapitare lo stabilimen-to di tutto il ciclo di produzione del cioccolato, rinunciando alla propria “materia prima” esclusiva di alta qualità, il famoso cioccolato “mezzodolce Luisa”, dal nome della fonda-trice Luisa Spagnoli. Con l’ottica miope del sindacato, abituato a fare valutazioni solo di breve termine ed a misurare tutto in termini di numero di posti di lavoro, si valutò che, in fondo, si trattava di qualche decina di addetti e la cosa fu accettata. Non si capì che con quella mossa Nestlé separava le produzioni capital intensive, che caratterizzano le prime fasi della lavorazione del cioccolato, dove sono necessari grandi investimenti in impianti con l’utilizzo di poco personale specializzato, da quelle labour intensive delle lavorazioni a valle, dove l’investimento è relativamente meno importante, impianti e macchine sono più agevolmente trasferibili in altre sedi ed è richiesto un personale mol-to più numeroso e di qualificazione medio-bassa.

Cedendo tutta la parte di testa dello stabilimento a Barry, la grande multinazionale della pasta di cioccolato e del cacao, Nestlé evitava di fare gli investimenti importanti (recentemente i dirigenti di Barry hanno annunciato otto milioni già investiti ed altri cinque in programma) che erano necessari per aggiornare e potenziare gli impianti in-stallati dalla Perugina quarant’anni fa.

Era un chiaro segnale che i prodotti e lo stabilimento non erano considerati strategi-ci, per cui valutando la classica alternativa make or buy si era ritenuto più conveniente acquistare i semilavorati (pasta di cioccolato, burro di cacao e cacao in polvere) piutto-sto che produrli. Per quanto detto sopra, data la scarsa incidenza del costo del lavoro,

3 Si veda a questo proposito Lettera aperta alla Presidente della Regione M. Rita Lorenzetti, sul “Corriere dell’Umbria” del 12 dicembre 2004 e l’articolo La commemorazione del centenario della ‘Perugina’ perduta, in “Diomede”, n. 5, aprile 2007, pp. 59-66.

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i recenti investimenti e l’interesse di Barry di disporre di un nuovo centro produttivo con cui servire tutti i piccoli produttori industriali ed artigianali del centro sud italiano e di altri paesi europei, si può ritenere che questa parte della produzione sia stata “messa in sicurezza” per il futuro; ma, purtroppo, dal punto di vista occupazionale si tratta di meno del 10% dell’attuale organico dello stabilimento.

Il grosso del personale rimasto in Nestlé, resta ora legato a delle lavorazioni che per il differenziale del costo del lavoro sono esposte alla insostenibile concorrenza degli stabi-limenti che Nestlé possiede in vari Paesi dell’est Europa, dove il costo del lavoro è pari a tra un quinto e un sesto di quello italiano, per cui si può calcolare che il risparmio che Nestlé potrebbe ottenere, decentrandovi le produzioni di S. Sisto, sarebbe dell’ordine dei 25 milioni di euro annui. Siccome gli svizzeri, maestri di finanza, questi conti elemen-tari li sanno fare e la logica della massimizzazione del profitto è l’unica linea guida delle loro scelte, è logico chiedersi quanto tempo passerà ancora prima che mettano mano al “problema S. Sisto”.

Le prospettive si sono ulteriormente aggravate dopo le dichiarazioni che il dirigente Toia, l’interlocutore sempre riverito dal sindacato e dal potere politico locale, rilasciò a fine 2007, “celebrando” il centenario della Perugina ed i centottanta anni della Buitoni. Egli comunicò ufficialmente che la nuova strategia di Nestlé era quella di allontanarsi sempre più dagli attuali prodotti alimentari per dedicarsi a produzioni dietetiche e sa-lutistiche dove, notoriamente, i margini di profitto sono molto maggiori. In quel mo-mento i sindacati e le pubbliche amministrazioni delle due Regioni avrebbero dovuto aprire immediatamente una grande vertenza, affinché i due stabilimenti esistenti nei loro territori non venissero esclusi dalla nuova diversificazione produttiva annunciata. Nes-suno notò la gravità potenziale di questo annuncio, confermando l’incapacità dei nostri amministratori di comprendere l’evoluzione dell’economia globalizzata e di avere una vera strategia industriale per il nostro territorio, con cui riempire di contenuti reali e non solo di chiacchere i “patti” e i “tavoli di consultazione”, che si susseguono tra i pubblici poteri e le associazioni professionali con fini esclusivamente autoreferenziali.

La drastica e spregiudicata decisione di Nestlé di abbandonare uno dei due siti di quella che fu la più grande impresa nel territorio umbro-toscano della Valle del Tevere, dove in centottanta anni di storia industriale di eccellenza erano stati creati oltre 1500 posti di lavoro diretti ed un importantissimo indotto di aziende della meccanica, della cartotecnica e dei trasporti, dovrebbe indurre finalmente le amministrazioni regionali ed i sindacati ad una seria riflessione sui danni prodotti dai loro errori del passato e da una politica dello sviluppo economico e del lavoro del tutto inadeguata.

Adesso, occorre cercare di rimediare, per quello che si può, al gravissimo danno arre-cato da Nestlé alla nostra economia nei vent’anni trascorsi. Per Sansepolcro, mettendo da parte sterili ed ingiustificate opposizioni, occorre favorire l’inserimento del nuovo imprenditore, controllando che il piano industriale di risanamento e di sviluppo annun-ciato sia credibile e si realizzi nei tempi previsti. Per la Perugina, occorre tentare con tutti gli strumenti possibili, di ottenere l’impegno di Nestlé a localizzarvi alcune delle nuove produzioni di sviluppo che ha recentemente annunciato.

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Questa è evidentemente l’opzione principale: se ciò non sarà possibile, credo che l’uni-ca alternativa possibile per evitare il rischio di un ulteriore, progressivo declino dello stabilimento, sarebbe quella di impegnare Nestlé a ricercare e favorire una soluzione simile a quella di Sansepolcro, individuando un imprenditore interessato ad acquistare il marchio Perugina e ad investire sul rilancio dei suoi tradizionali prodotti, il quale, nel contempo potrebbe assicurare, a prezzi competitivi, a Nestlé le forniture dei prodotti a suo marchio per il mercato italiano.

Sono convinto che in due-tre anni, una “nuova Perugina”, in nuove mani, potrebbe recuperare molte delle posizioni che sono state perdute a favore di Lindt-Caffarel e di un insieme di aziende minori, a causa del disimpegno di Nestlé da quelli che erano i suoi mercati tradizionali. Ciò consentirebbe di consolidare prima, e di rilanciare poi, l’occu-pazione attuale, con il vantaggio aggiuntivo di riqualificarla attraverso il nuovo impianto di una struttura direttiva, di marketing e di R&S: in pratica, ricreando quell’azienda che Nestlé ha azzerato. A questi fini, l’imprenditore che decidesse di venire a localizzarsi in Umbria, potrebbe contare anche sulla disponibilità di qualificate professionalità nella tecnologia e nel marketing, andate disperse, ma tutt’ora esistenti nella Regione.

Se Colussi ha la volontà di ampliare ulteriormente il suo gruppo in Italia ed è dispo-sto ad investire, assumendosi qualche rischio, come dovrebbe competere ad un vero imprenditore, potrebbe essere un candidato ideale per questa operazione. I prodotti del cioccolato e la pasticceria secca Perugina potrebbero essere una diversificazione logica del tradizionale settore dei biscotti, su cui si è costruita la storia industriale della sua azienda e sono caratterizzati da margini assai più elevati di quelli dei prodotti alimentari di base come pasta, pane e biscotti. Egli potrebbe così aggiungere al suo carniere un marchio prestigioso che gode tuttora di una grandissima notorietà e, per il suo rilancio, potrebbe contare sull’appoggio dei pubblici poteri e delle organizzazioni sindacali che l’hanno so-stenuto con tanto impegno nella trattativa per l’acquisto della Buitoni di Sansepolcro.

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I fondatori Giovanni Battista Buitoni e Giulia Boninsegni

La freccia indica i modesti locali del primo laboratorio artigianale Buitoni, al centro dell’allora Borgo

Sansepolcro

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Francesco, figlio di Giovanni sr., capostipite del “ramo perugino” della famiglia e padre dei cinque fratelli della quarta generazione

I cinque fratelli: da sinistra Bruno sr., Giuseppe, Giovanni jr., Luigi e Marco

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L’ultimo grande stabilimento costruito dai Buitoni a Sansepolcro all’inizio degli anni ‘50

Paolo, fondatore e primo amministratore delegato della

IBP

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Bruno jr. ultimo presidente del Gruppo

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Eccellenze e parabole nella tradizioneindustriale dell’Umbria

Roberto SegatoriProfessore ordinario di Sociologia dei fenomeni politici e di Governance e politiche pubbliche

all’Università di Perugia

1. Premessa

Il titolo di questa nota deve essere inteso in un duplice senso. Da un lato come richia-mo al dato di fatto che nel corso dei suoi centovent’anni di storia industriale l’Umbria ha avuto indubbiamente delle punte di eccellenza. Dall’altro come constatazione altrettan-to inconfutabile che i cicli economici della grande industria regionale hanno avuto un andamento parabolico (crescita, apice e declino), con un finale per giunta “sfilacciato”. Nella dimostrazione di questo doppio assunto ci sono di pochissima utilità le numerose indagini congiunturali (di durata trimestrale, semestrale, annuale e al massimo bienna-le) che i vari gruppi di ricerca attivi in Umbria (su input delle Camere di Commercio regionale e provinciali, di Sviluppumbria, dell’Aur, di questa o quella banca) pubblicano periodicamente. Si tratta per lo più di rapporti quantitativi di respiro corto e di scarsa utilizzabilità, a differenza delle poche riflessioni qualitative e di più ampio respiro, che in Umbria pur esistono. Le considerazioni che seguono rappresentano dunque un tentativo di porsi in questa seconda prospettiva, piuttosto che un tenere dietro all’attuale congiun-tura, valutata peraltro da tutti in termini di grave criticità.1

1 Per non appesantire lo stile discorsivo si è preferito evitare i riferimenti bibliografici. Le considerazioni qui contenute nascono comunque dalle ricerche e dagli studi che l’Autore ha dedicato al tema in circa 30 anni di lavoro in Umbria. A titolo indicativo se ne richiamano alcuni, cui si rinvia per un ulteriore approfondimento e per gli apparati bibliografici ivi riportati: Il lavoro a domicilio. Il caso dell’Umbria, (in collab. con F. Crespi e V. Bottacchiari), Bari, De Donato, 1975; Imprenditorialità e piccola e media industria. Il caso dell’Umbria, (con F. Crespi e al.), Milano, Franco Angeli, 1983; A proposito di piccole e medie industrie umbre. Ma il modello adriatico è ancora lontano, in “Indagini” (Bollettino del Cestres), n. 20, marzo 1983; Formiche interstiziali nella bufera. Imprese e imprenditori umbri verso il duemila, in “Quaderni dell’Istituto di Studi Sociali”, 15, 1994; “Medio è bello”, ma chiede una politica, in “Quaderni d’Umbria”, Sviluppumbria, 2002.

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2. Chiavi interpretative

Poiché mi propongo di ragionare sui cicli più significativi dello sviluppo industriale regionale, esplicito subito le chiavi di interpretazione che a mio avviso spiegano meglio di altre il senso dei fenomeni prima abbozzati (comparsa di eccellenze, ma anche an-damento parabolico della fortuna delle grandi imprese), anticipando qui, in qualche modo, le stesse conclusioni del mio discorso.

La prima chiave si riferisce al rapporto tra il microcontesto regionale e il macroconte-sto esterno. Le eccellenze dell’Umbria sono sempre emerse “a bocce ferme”, quando cioè tra l’ambito locale e il macrocontesto si sono avute “assonanze” (congruità e continuità) e non “dissonanze”. Ogni volta che il contesto esterno si è allargato o ha cambiato ve-locemente le proprie condizioni di agibilità (in questo o quel fattore della produzione: finanziario, organizzativo, tecnologico o di marketing), l’industria umbra ha avuto degli impacci o è entrata in crisi.

La seconda chiave è relativa alle caratteristiche del contesto endoregionale. Le eccel-lenze si sono sempre correlate a stagioni di “pluralismo interconnesso” degli attori, e non di “unilateralismo egemone” di questo o quell’attore (ultimamente, quello politico) associato all’ “isolamento atomistico” dei piccoli imprenditori. Quando si sono avute forti leadership plurali tanto in campo privato che in campo pubblico, ed ogni attore ha esercitato la sua leadership in maniera autonoma e senza sovrapposizione di ruoli (pur nella richiamata interconnessione) le cose hanno funzionato. Hanno funzionato di meno quando un singolo attore (grande industria o pmi, classe politica o mondo bancario) ha voluto esercitare più ruoli (imprenditoriale, finanziario, politico insieme), pretendendo di egemonizzare, ma di fatto rendendo chiuso e asfittico, il panorama eco-nomico regionale.

Sulla scorta di tali chiavi interpretative, possiamo ora ripercorrere i due macrocicli primari della grande industria umbra, i due macrocicli “di supplenza” nei periodi critici, il ciclo delle eccellenze della politica (anche la politica ha avuto le sue eccellenze) e la situazione attuale.

3. I due macrocicli della grande industria

Il primo macrociclo regionale si incentra sull’industria siderurgico-meccanica e chimi-ca ed ha il suo periodo di massimo splendore tra la fine dell’800 e gli anni quaranta del ‘900. Il ciclo ha peraltro una continuazione progressivamente declinante nella seconda metà del ‘900, mentre, sempre nella prima metà del secolo scorso, si avvia il decollo dell’industria alimentare a prevalente imprenditoria indigena (il ciclo della metalmec-canica è a prevalente impulso imprenditoriale esogeno). Questo primo ciclo rivela delle eccellenze tecnico-professionali e produttive (si pensi alle Acciaierie ternane e all’Ausa Macchi di Foligno) in presenza di condizioni di contesto particolarmente favorevoli: la capacità regionale di produzione autonoma di energia elettrica e di combustibili solidi (per l’epoca, di tutto rilievo), una buona intermediazione politica che dirotta sul terri-

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torio molte commesse del Ministero della guerra, un clima (che, complessivamente, si sarebbe sempre rinnovato) di sostanziale consenso sociale. Quand’è che il ciclo entra in crisi? Quando mutano repentinamente i fattori dell’input (la concorrenza della lignite di provenienza Benelux mette in ginocchio negli anni cinquanta le miniere di Morgnano di Spoleto) e soprattutto quelli dell’output (crollo della richiesta di produzioni a fini bellici). Il mercato si allarga, la domanda si orienta in altre direzioni, la concorrenza au-menta. Improvvisamente si passa dall’assonanza alla dissonanza del rapporto tra mercato regionale e mercato esterno, che da nazionale diventa europeo.

Il secondo macrociclo riguarda le grandi industrie della provincia di Perugia nella seconda metà del ‘900 del settore alimentare e del tessile-abbigliamento. Nel pullulare dei pastifici e delle aziende delle confezioni, spiccano la Perugina e l’Ellesse. Anche qui abbiamo la manifestazione di due vere eccellenze: un elevato e diffuso (anche a livello operaio) know how produttivo e un marketing straordinariamente innovativo, specie sul fronte delle iniziative promozionali (in ciò la Perugina s’era già segnalata durante il fascismo, l’Ellesse diventerà una caposcuola a partire dagli anni settanta). Ma come declina questo secondo macrociclo? Di nuovo con l’ennesimo allargamento del mercato che, da europeo, diventa mondiale (e, progressivamente, globale, per effetto delle regole emanate dalla WTO). A mercato “spanciato” le risorse umbre non bastano più, se non altro per l’incapacità a mobilitare una massa finanziaria adeguata a fronteggiare la sfida mondiale dei marchi (e dell’innovazione tecnologica e organizzativa). In questi casi gli attori politici girano a vuoto, cercando improbabili alleanze con imprenditori conside-rati politicamente vicini. Così la Perugina, prima di finire alla multinazionale Nestlè, transiterà per le mani di De Benedetti, che, più che la ipotizzata fedeltà politica, seguirà la sua natura di imprenditore finanziario, spezzettando e vendendo convenientemente i bocconi appetibili dell’Azienda.

4. I due macrocicli “di supplenza”

Alla fine dei cicli industriali appena descritti (anni cinquanta-sessanta e anni novan-ta-duemila), l’Umbria trova due paracaduti insperati della medesima caratterizzazione: l’espansione del settore delle costruzioni (e delle cave e dei cementifici), sia nel settore civile, che in quello delle infrastrutture.

Negli anni cinquanta, con la fuoriuscita di migliaia di operai dalle fabbriche e con la crisi dell’agricoltura (peronospera tabaccina del 1953 e crisi dell’olivicultura per la gelata del 1956), i lavoratori che non prendono la via dell’emigrazione si salvano grazie all’im-menso cantiere della ricostruzione post-bellica. Erano contadini o operai meccanici, e ora diventano muratori, manovali, carpentieri e quant’altro.

Dalla seconda metà degli anni novanta, riparte un altro ciclo di costruzioni per usi civili e infrastrutturali. Il terremoto del 1997, l’espansione delle nuove aree residenziali e commerciali intorno alle città maggiori, la Flaminia e molte altre necessità viarie pro-vocano l’arrivo di ingenti risorse e l’avvio di molteplici committenze che l’imprenditoria locale è, peraltro, in grado di catturare solo parzialmente. Intendiamoci: il processo è

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comunque necessario e meritorio, perché la regione ha da sempre problemi di carenze infrastrutturali e di collegamenti con l’esterno. Ma anche questo ciclo, di cui viviamo oggi la parte finale, dà l’idea di una bolla destinata a sgonfiarsi, lasciando sul terreno alcuni indubbi esiti positivi, ma anche aspetti critici. Di buono c’è che in molti casi avremo migliorato il volto delle città, e probabilmente la mobilità urbana e regionale. Di critico c’è che non si capisce bene che fine abbiano fatto gli immensi capitali richiamati dai lavori pubblici e privati, e che l’occupazione, più che assorbire gli indigeni riottosi, ha premiato soprattutto un gran numero di immigrati, che dovrà affrontare con noi il problema dell’integrazione, una volta ridimensionatosi il ciclo produttivo che li ha mobilitati.

5. I cicli della politica

Accanto agli attori imprenditoriali, un breve cenno meritano anche gli attori della politica che si sono mossi tra Roma e l’Umbria. Al ciclo virtuoso della politica degli inizi del ‘900 si deve un notevole contributo all’attestarsi di grandi industrie e all’acquisizione di commesse, che senza l’impegno di parlamentari umbri non si sarebbero certamente avuti. Un altro ciclo politico virtuoso si consuma nei quindici anni che vanno dal 1963 al 1978. Qui i meriti riguardano, da un lato, l’avvio dell’esperienza della programmazio-ne regionale che inizia prima ancora dell’avvento delle regioni sulla spinta dei governi di centro-sinistra e che si avvale del concorso pluralistico di soggetti di diversa estrazione (democristiani, socialisti, comunisti); dall’altro la conduzione di battaglie di alto valore civile e sociale, sempre pluralisticamente partecipate, come quella per la chiusura dei manicomi (la Provincia di Perugia è all’avanguardia in Italia, con Trieste ed Arezzo) e per la promozione di importanti servizi sociali deistituzionalizzati.

Quanto al ciclo politico odierno, ad onta di una dichiarata e interessante apertura metodologica alla governance che prende il nome di Patto per lo sviluppo, si ha l’impres-sione che l’opportunità di gestire ingenti risorse pubbliche, offerta alla direzione politica regionale dai fondi della UE e dai flussi per la ricostruzione post-terremoto e per opere infrastrutturali, stia riportando tale classe politica alla vecchia tentazione egemonica e dirigista, tipica della tradizione comunista, che appare poco rispettosa e attenta ai van-taggi ricavabili da un autentico pluralismo degli attori dello sviluppo.

6. La situazione attuale

Il vero elemento di continuità sotteso a tutti i cicli suddetti è rappresentato dalla resi-stenza della piccola e media impresa nel tempo. Una resistenza che ha avuto un impulso significativo a partire dagli anni settanta del ‘900, e che magari ha trovato conferme anche attraverso un consistente turn over, registrato dal rapporto di natalità/mortalità.

Questo fatto obbliga più che in passato a ragionare sul ruolo della pmi. Ed a solleci-tare due aggiornamenti concettuali. Il primo consiste nella necessità di pervenire ad un minimo di “revisionismo” delle tesi sull’industrializzazione dell’Umbria. Esiste infatti

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un robusto filone interpretativo, ancorato a una chiave di lettura marxista, che ha sem-pre ritenuto decisivo per lo sviluppo regionale il peso della grande industria dei poli ternano-narnese e perugino. Ne sono stati interpreti economisti e storici come Silvio Leonardi e Francesco Indovina negli anni ‘60 (forse condizionati da un’impostazione di stampo lombardo-piemontese), e successivamente Enrico Mantovani, Renato Covino e Giampaolo Gallo. Tesi condivisibile, sia chiaro, ma non fino al punto di legittimare una sostanziale sottovalutazione del contributo offerto alla tenuta economica e occupazio-nale della regione dalla pmi. Più di recente, la tesi del riequilibrio dei ruoli tra grande e piccola-media impresa è stata argomentatamente proposta da Bruno Bracalente, Vinicio Bottacchiari e da chi scrive questa nota. Il secondo aggiornamento concettuale è relativo al tentativo di enfatizzare anche per l’Umbria il ruolo trainante dei distretti industriali a base territoriale. Su tale linea si sono mossi di recente gli economisti Pierluigi Grasselli e Francesco Musotti. Ancorché di interessante potenzialità evocativa, tale tesi risulta in realtà gracile, sia per il basso numero di cluster individuati dall’Istat e da altri istituti di ricerca per l’Umbria (ora 6, ora 4), sia per i deficit di integrazione sistemica (per cui si hanno più aziende operanti in parallelo che in maniera integrata), sia infine per i segnali di crisi che i maggiori presunti distretti stanno rivelando nella congiuntura attuale (si pensi al mobile in stile e al tipografico nell’area di Città di Castello).

Se poi con la parola distretto si vuol fare riferimento a vere filiere di imprese integrate, non necessariamente in contiguità territoriale, con legami funzionali e comunicativi soprattutto virtuali (e qui, con l’aggettivo virtuale, si intendono le modalità del fare rete), allora il discorso cambia e merita una diversa attenzione. Non a caso sia in sede Confapi che in sede Confindustria si ragiona ormai sulla proposta di “poli di eccellen-za” anche per l’Umbria. Il merito di questa nuova linea di indirizzo è infatti triplice. In primo luogo sollecita le pmi a muoversi alla ricerca dell’eccellenza, secondo un percorso che dovrebbe invertire lo stato di “sviluppo senza qualità” degli anni settanta e ottanta (quando coniai quello slogan nel 1983 non mi aspettavo certo che la sua validità sareb-be durata tanto a lungo) in una tensione verso la “qualità per lo sviluppo”. In secondo luogo invita le stesse imprese a coordinarsi in poli di eccellenza, non necessariamente su base territoriale contigua, ma con la finalità trainante della ricerca continua dell’inno-vazione tecnologica, organizzativa e degli strumenti finanziari e di marketing. In terzo luogo chiede anche agli attori politici di concorrere alla propulsione di questo modello, rispettando il pluralismo e le diversità dei ruoli dei soggetti imprenditoriali, pur col fine comune di accrescere la ricchezza e l’occupazione regionale.

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Un’esperienza di programmazione:il Centro Sinistra a Perugia negli Anni ’60

Mario SerraIngegnere

L’ingegner Mario Serra è nato in Friuli e si è trasferito in giovanissima età a Perugia. Lau-reato al Politecnico di Milano, da oltre quaranta anni svolge attività professionale in diversi campi dell’ingegneria civile. In qualità di esperto ha collaborato al primo Piano di Sviluppo economico dell’Umbria del 1961 ed alla successiva attività di pianificazione territoriale, tra cui il Piano urbanistico territoriale regionale del 1983 ed il Piano regionale integrato dei trasporti della Regione Umbria del 1988. È stato iscritto per circa quaranta anni alla Democrazia Cristiana. Ha fatto parte, come Assessore ai lavori pubblici, della giunta di centro-sinistra al comune di Perugia, dal 1965 al ‘70, guidata dal sindaco Berardi. E’ stato poi rieletto nel Consiglio comunale nel 1999, confluendo nelle file della Casa delle libertà. Tra gli altri incarichi, è stato presidente dell’Accademia di Belle Arti, consigliere di ammini-strazione dell’Atam e di Sviluppumbria.

Il 4 dicembre 1963, dopo una lunga marcia di avvicinamento tra DC e PSI (e di allontanamento di questo dal PCI), per opera soprattutto di Moro da un lato e Nenni dall’altro, si presentava alle camere il primo governo organico di centrosinistra, soste-nuto, oltre che da DC e PSI, dal PSDI e dal PRI e con il PLI per la prima volta all’op-posizione. La sua vita non fu facile (vi fu, tra l’altro, l’ennesima scissione del PSI con successiva creazione del PSIUP) e il 26 giugno 1964 cadde per la mancata fiducia su un disegno di legge. Fu tuttavia ricostituito alla fine di luglio, sempre con la presidenza di Moro e la vicepresidenza di Nenni.

Questo era il quadro politico nazionale, quando nel novembre 1964 si svolsero a Pe-rugia le elezioni amministrative che portarono in Consiglio Comunale 18 comunisti, 14 democratici cristiani, 9 socialisti, 3 socialdemocratici, 3 del MSI, due liberali ed uno del PSIUP Malgrado il calo di consensi subito dal PSI (a causa della nuova posizione as-sunta a livello nazionale che aveva portato ad uno spostamento dell’elettorato di sinistra verso il PCI oltre che, anche se in piccola parte, a seguire il PSIUP) si avviarono subito

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le trattative per la costituzione di una giunta di centrosinistra ed il 23 dicembre 1964 il Consiglio comunale elesse sindaco il prof. Antonio Berardi, socialista, già deputato al Parlamento e uomo di grande prestigio sia in campo politico che professionale, e la Giunta formata da cinque socialisti, cinque democristiani (tra cui il Vicesindaco prof. Cesare Quattrocecere, altro personaggio di grande prestigio per le capacità professionali ed il rigore morale) e due socialdemocratici.

A sostenere con grande convinzione la formazione di una giunta di centrosinistra era-no stati, nel PSI, i cosiddetti “autonomisti” che facevano riferimento a Nenni, e, nella DC, il gruppo di cattolici “di sinistra” (non necessariamente delle correnti di sinistra del partito) che aveva dato vita al periodico “Presenza” e che riteneva si dovesse dar vita ad una effettiva e organica collaborazione tra cattolici e socialisti per far crescere il Paese non solo sotto l’aspetto meramente economico, ma anche sotto quello della giustizia sociale.

La Giunta si mise subito al lavoro con grande entusiasmo e con grande spirito di col-laborazione anche da parte di quegli elementi dei due maggiori partiti della coalizione che, per ragioni opposte, avevano avversato la ripetizione a livello perugino delle alleanze a livello nazionale.

Nel suo discorso di insediamento il Sindaco Berardi affermò, tra l’altro:

l’Amministrazione intende seguire una inflessibile linea di giustizia, di equanimità, di operosi-tà. L’Amministrazione si attende la collaborazione indicativa e ragionata dei cittadini.

E proprio per assicurare equanimità ed operosità, con la partecipazione dei cittadini, la Giunta e la maggioranza consiliare, soprattutto per l’influenza del gruppo di “Presen-za”, avviarono un metodo di lavoro basato sulla programmazione, sulla definizione cioè degli interventi e dell’inserimento delle spese in bilancio, non sulla base di decisioni improvvisate, derivanti da spinte ed esigenze estemporanee, ma in base ad una valu-tazione complessiva delle necessità della comunità comunale in modo da compararle, sia in termini di urgenza che in termini di costi, e da perseguire, con il loro progressivo soddisfacimento, nell’arco di più anni1, livelli di vita equilibrati per tutte le componenti sociali e territoriali del Comune. Sia la valutazione delle necessità, che la successiva de-cisione sulla definizione delle priorità dovevano avvenire non solo per opera degli organi tecnico-burocratici dell’Amministrazione e del Consiglio comunale, ma con la parteci-pazione di tutte le componenti sociali e degli stessi cittadini del Comune.

La programmazione dell’attività della Amministrazione doveva quindi essere definita da un Piano pluriennale, redatto con il metodo della partecipazione, al quale avrebbero poi dovuto fare riferimento i bilanci annuali. Il Piano non veniva tuttavia concepito come una rigida predeterminazione dei bilanci di più anni, ma le sue caratteristiche venivano indicate nella flessibilità e nella scorrevolezza. Scorrevolezza e flessibilità con-sistenti nel prevedere che, in occasione della approvazione di ciascun bilancio annuale,

1 La Giunta di centrosinistra anticipava quindi, in qualche modo, quello che oggi è fatto per legge con i bilanci triennali da accompagnare a ciascun bilancio annuale.

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le previsioni del Piano sarebbero state prolungate di un anno con gli aggiornamenti che fossero risultati necessari per il verificarsi di eventi ed esigenze non conosciute al momento della sua prima formulazione. Nell’introduzione del documento del Piano veniva, infatti, affermato:

La scelta del periodo quinquennale [per definire gli interventi programmati] non significa che il Piano si conclude in cinque anni […] ma che la sua scadenza resta sempre quinquennale attraverso il suo scorrimento e con l’aggiornamento e la revisione annuale.

Gli obiettivi del Piano venivano poi così precisati:

a) salvaguardare e valorizzare la funzione del Comune di Perugia come rappresentanza orga-nica e democratica dei cittadini; valorizzare la funzione di Perugia come centro ammini-strativo a livello regionale2 e come centro culturale a livello regionale ed extra regionale;

b) favorire e sostenere lo sviluppo delle attività economiche;c) assicurare un equilibrato assetto urbanistico del territorio comunale;d) realizzare un adeguamento dei servizi necessari al soddisfacimento delle esigenze dei citta-

dini.

Prima però di approfondire questo aspetto della attività della Amministrazione Be-rardi, per meglio comprenderne la portata, è necessario ricordare quale era la situazione urbanistica del Comune a metà degli anni ’60. Nel 1956 il Consiglio comunale aveva adottato (pressoché all’unanimità) il Piano regolatore generale redatto da un gruppo di urbanisti diretti da Bruno Zevi. Il Piano fu approvato, con modifiche e integrazioni, nel 1958, con decreto del Presidente della Repubblica (come prevedeva la legge urba-nistica allora vigente) e registrato il 26 marzo 1959; nel frattempo però la realtà socio-economica era completamente mutata ed il P.R.G. appena approvato non era più in grado di assicurare un ordinato sviluppo alla città ed al territorio comunale.3 Di questo si rese prontamente conto l’allora Assessore all’urbanistica, Ilvano Rasimelli4, che, coin-volgendo tutte le forze politiche e le categorie sociali più competenti, pose mano ad una variante generale (praticamente un nuovo P.R.G.), che fu adottata all’unanimità dal Consiglio comunale il 16 febbraio 1962. Da questa data iniziò un lungo periodo di dif-ficilissima gestione del territorio in quanto, applicando rigidamente la legge urbanistica, non si sarebbe potuta realizzare nessuna nuova costruzione, né nessuna opera pubblica progettata in conformità al nuovo P.R.G. prima della sua definitiva approvazione5, se

2 Si ricordi che all’epoca l’ordinamento regionale non era stato ancora realizzato. 3 Dai censimenti del 1951 e 1961 si rileva che, nel Comune di Perugia, gli addetti all’agricoltura sono passati dal 42% al 24% della popolazione attiva e, per quanto riguarda le donne, dal 39% al 10% della popolazione attiva femminile. Dal censimento 1971 si rileva poi che gli addetti all’agricoltura scenderanno al 10% della popolazione attiva e le donne al 4% della popolazione attiva femminile. La tumultuosa trasformazione della nostra società è iniziata nella seconda metà degli anni ’50, proprio mentre il P.R.G. veniva redatto, adottato ed approvato. 4 Del PCI, assessore nelle giunte di sinistra elette nel 1956 e nel 1960.5 L’approvazione tuttavia si allontanava nel tempo a causa di un braccio di ferro instauratosi tra il Comune di Perugia e gli Organi Ministeriali, che dovevano esprimere il parere per il decreto presidenziale. Il decreto di approvazione arriverà solo il 12 marzo 1968.

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non conformi anche al P.R.G. vigente (che, come si è detto, aveva quasi esaurito ogni capacità di sviluppo).

Questa era la situazione al momento dell’insediamento della Giunta di centrosinistra che quindi si trovava anche a gestire un P.R.G. non ancora approvato ed a portare avanti una battaglia per la sua approvazione senza stravolgimenti. Nell’affrontare il lavoro di programmazione si è procedette anzitutto alla suddivisione del territorio comunale in “zone urbanistiche” avendo come riferimento i centri di servizi e gli insediamenti esi-stenti e previsti dal nuovo P.R.G. Così è motivata e illustrata questa suddivisione nel cap. IV della parte I del documento presentato al Consiglio comunale:

La Variante generale al P.R.G. individua nel comprensorio urbano6 alcuni quartieri autosuf-ficienti per i servizi – di nuova attuazione (Monte Grillo, Tuderte e Piscille7) o previsti con la espansione di alcune frazioni (Ferro di Cavalo, San Sisto, Ponte San Giovanni, Ponte Valle-ceppi, Ponte Felcino). Per il nucleo urbano, e sue espansioni, e per il comprensorio esterno la stessa Variante si limita ad indicare i centri di servizi senza determinare una suddivisione in quartieri. Al fine di determinare l’entità della popolazione gravitante su ciascun centro di servi-zi e di determinare le infrastrutture necessarie a dare un assetto omogeneo alla zona gravitante su ciascuno di tali centri, è apparsa indispensabile la suddivisione in unità territoriali anche del nucleo urbano, con le recenti espansioni, e del comprensorio comunale esterno.In tale suddivisione si è ritenuto di non adottare il termine di “Quartiere8” per il fatto che il nucleo urbano non si è sviluppato per unità autosufficienti, né a tali unità può essere condotto, ed il comprensorio esterno, in relazione alla scarsa densità di popolazione, non può a sua volta essere suddiviso in unità territoriali autosufficienti. Si è invece adottato il termine di “zone urbanistiche”, intendendo che loro caratteristica sia non di avere un insieme di servizi tali da assicurare l’autosufficienza ma la definizione spaziale delle zone residenziali servite da ciascun centro di servizi; il centro di servizi che caratterizza ciascuna zona potrà perciò essere a diversi livelli di efficienza. Pertanto solo alcune delle “zone urbanistiche” potranno essere considerate come “Quartieri”; altre solo aggregate potranno costituire un “Quartiere”.

Furono, così, individuate 25 “Zone urbanistiche” e per ciascuna si iniziò, da un lato, un intenso lavoro per rilevare tutti i dati relativi alla popolazione, alle attività economi-che, al livello di efficienza dei servizi pubblici ed alla consistenza e caratteristiche delle residenze e delle infrastrutture, puntuali e a rete, e, dall’altro, una impegnativa attività di consultazione dei cittadini, con assemblee pubbliche in ciascuna zona alle quali parteci-pavano il Sindaco e gli assessori.

Nel contempo si procedeva ad un esame conoscitivo dei servizi e delle attrezzature ed infrastrutture a servizio dell’intera popolazione comunale, valutando, per ciascuno, il livello di funzionalità esistente, quello giudicato ottimale per il ruolo di Perugia nelle realtà regionale e nazionale ed i costi per raggiungerlo.

6 La Variante generale, che nel nostro testo da qui in poi chiameremo “nuovo P.R.G.”, aveva suddiviso il territorio comunale in due parti: il “Comprensorio urbano”, ove erano previsti la quasi totalità dei nuovi inse-diamenti, residenziali, industriali e di servizi generali, ed il “Comprensorio esterno”, caratterizzato da piccoli nuclei e dalla attività prevalentemente agricola.7 Questi ultimi due poi eliminati in sede di approvazione.8 Termine molto usato all’epoca nell’urbanistica per indicare un insieme di insediamenti residenziali dotato di tutti i servizi primari.

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Nell’ attività di ricerca ed elaborazione gli Uffici comunali dettero in genere prova di grande spirito di collaborazione e si impegnarono anche oltre l’assolvimento di un do-vere. I partecipanti al gruppo di “Presenza” oltre ad aver fornito l’impostazione teorica, frutto di discussioni ed approfondimenti anche precedenti la costituzione della giunta, si impegnarono, a loro volta, anche nel lavoro di elaborazione: sia quelli presenti nella Giunta (come, ovviamente, gli assessori Mario Serra e Ferruccio Chiuini) o in Consiglio comunale (come Nicola Fogu ed Enzo Orioli), sia esterni, come Mario Rojch.

Il frutto del lavoro di analisi e di elaborazione costituì la Ia Parte del documento del Piano 1966/70, presentato al Consiglio comunale nella seduta dell’11 febbraio 1966. La IIa Parte esaminava «La situazione attuale, la dinamica e le prospettive della finanza comunale ordinaria e straordinaria. I mezzi economico-finanziari necessari e reperibili. Gli strumenti organizzativi necessari per l’attuazione del Piano». La IIIa Parte affrontava quindi il tema fondamentale degli «Interventi e scelte prioritarie per il raggiungimento degli obiettivi generali e degli obiettivi specifici». Essa, con il 1° capitolo della IVa Parte, di cui diremo tra poco, costituiva quindi il vero e proprio “Piano”. La IVa Parte, nel primo capitolo definiva “Il finanziamento del piano nel quinquennio 1966/1970”, per poi illustrare «La metodologia seguita nella elaborazione del I° piano quinquennale – ricerche, studi ed elaborazioni svolte» ed infine precisava «Le procedure del piano ai fini della sua attuazione, della evoluzione annuale e del suo controllo».

Nella definizione delle scelte e degli interventi prioritari particolare rilievo assumevano quelli relativi al perseguimento dell’obiettivo di «assicurare un equilibrato assetto urba-nistico del territorio comunale». Il nuovo P.R.G. prevedeva aree edificabili per residenza per una estensione tale da prefigurare, con il loro completo utilizzo, una città di 210.000 / 245.000 abitanti, di cui circa 30-35.000 nel “Comprensorio comunale esterno”, e le conseguenti aree per attrezzature e servizi. Tra le scelte qualificanti del nuovo P.R.G. erano la previsione di espansione della città con la trasformazione in “Quartieri” di frazioni e nuclei compresi nel “Comprensorio urbano” e la previsione di attività direzionali a livello territoriale al di fuori del Centro storico e delle aree ad esso limitrofe; quest’ultima scelta si era concretizzata nella previsione di una completa ristrutturazione dell’area presso la stazione di Fontivegge, fino ad allora occupata da attività industriali, tra cui la Perugina, (da destinare prevalentemente ad attività direzionali) e di quella a valle della ferrovia, sul lato opposto della stazione (zona del “Bellocchio”), occupata da qualche attività indu-striale e da una edilizia minuta, disordinata, realizzata nell’immediato dopoguerra (da destinare prevalentemente a residenza). Il Nuovo P.R.G. non precisava tempi o fasi di attuazione e non precisava le attività direzionali da insediare nella zona di Fontivegge.

Nella premessa del capitolo relativo agli interventi finalizzati ad assicurare un equili-brato assetto urbanistico si osservava:

Poiché la variante generale al P.R.G. configura una città con una popolazione di 210-245.000 abitanti, contro i prevedibili 130.000 al 1970, si rende necessaria la definizione delle direttrici dello sviluppo della città nel tempo, nell’ambito del P.R.G., per evitare una crescita indiscri-minata che porterebbe ad una configurazione razionale solo al raggiungimento del livello di popolazione conseguibile con la completa attuazione del P.R.G.

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e, più avanti, si concludeva:

Appare perciò necessario, considerando il P.R.G. come modello finale di riferimento, indivi-duare alcuni schemi urbanistici modellati a livelli di popolazione intermedi, fra quello attuale e quello del modello finale del P.R.G., tali che, da un lato, assicurino anche durante la crescita, l’esistenza di una città organizzata e, dall’altro, costituiscano tappe successive per il raggiungi-mento del modello finale.

Si osservava, quindi, che era ormai in atto una fuoriuscita di attività direzionali dal Centro storico9, con diffusione casuale nelle zone urbanistiche ad esso circostanti, con gravi distorsioni rispetto ad un modello ordinato di città, e si affermava la necessità che, oltre al trasferimento delle Carceri con utilizzo dell’area per attività direzionali, già nel modello di città di 160-170.000 abitanti, era necessario prevedere la ristrutturazione della zona di Fontivegge. L’entità delle attività direzionali e commerciali da mantenere nel Centro storico fu valutata in relazione alla possibilità di accesso ad esso, tenendo conto della necessità di eliminare progressivamente il traffico veicolare al suo interno. A questo scopo fu fatta la previsione della creazione di una serie di parcheggi nell’intorno del Centro storico (cominciando dalle zone del Pincetto, Piazza Partigiani, Viale Pellini), valutandone la capacità massima in circa 4.000 autovetture.

Il sistema direzionale veniva, quindi, definito come una fascia con asse ideale dall’estre-mità nord del Centro storico al piede della collina, ove si trova la stazione di Fontivegge; lungo questo asse la distribuzione delle diverse attività veniva così prevista:

nella parte nord del Centro storico,• 10 a nord del nucleo etrusco: attività universi-tarie e culturali;all’interno delle mura etrusche: attività culturali, di rappresentanza, di vita civile •di relazione;nella zona a contatto con il Centro storico a sud (zona delle carceri e di piazza •Partigiani): attività direzionali di interesse extra-comunale;nella zona di Fontivegge: attività direzionali a livello cittadino ed extracittadino.•

Lo scopo di queste previsioni era quello di contemperare due esigenze: mantenere la vitalità anche economica e culturale, in senso lato, del Centro storico e allontanare da esso la parte delle attività direzionali e commerciali che, per dimensioni e capacità attrat-tiva, risultava ormai incompatibile con le dimensioni del Centro stesso. Le attività sopra indicate si intendevano naturalmente come prevalenti e non esclusive.

Uno degli interventi più importanti per realizzare il nuovo assetto urbano appariva quindi:

l’eliminazione della frattura nel tessuto urbanistico cittadino, costituita dalla Rocca Paolina, collegando il Centro storico con le zone direzionali gravitanti sull’area di Largo Cacciatori

9 Intendendo in realtà per “Centro storico” quello compreso nella cerchia delle mura etrusche, ove tali attività erano concentrate dall’origine della città10 Questa volta comprendendo l’intero Centro storico all’interno delle mura medievali.

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delle Alpi, piazza Partigiani; ciò è possibile con il trasferimento degli attuali istituti carcerari11 e con la creazione di un collegamento pedonale, parte all’aperto e parte in sotterraneo [...] con impiego di scale mobili per ridurre la grande distanza virtuale dovuta ai dislivelli.12

Il Piano, per assicurare una efficiente mobilità tra le diverse zone urbanistiche e tra ciascuna e le zone direzionali, prevedeva una completa riorganizzazione del trasporto pubblico, allora gestito da due Società private, da attuare, previa la municipalizzazione, secondo linee di indirizzo che venivano così definite:13

I trasporti pubblici, che dovranno gradatamente prevalere sui trasporti privati per gli accessi ed i collegamenti della città storica, dovranno inoltre assolvere alla funzione di realizzare efficienti comunicazioni tra le varie zone urbanistiche e tra queste e i centri direzionali ed infine dovran-no essere inseriti, per quanto riguarda le linee intercomunali, nella rete a servizio dell’intero territorio regionale; si ritiene quindi debbano essere strutturati in tre tipi corrispondenti alle funzioni sopra dette.

Per il primo tipo di trasporto pubblico si dovrà assicurare una rete di linee che, operando •all’interno delle zone urbanistiche in cui sono previste le attività direzionali, assicuri un collegamento con alte frequenze, con rapidità di trasporto e con mezzi di minimo in-gombro tra gli insediamenti direzionali ed i grandi parcheggi a cui dovrebbero affluire le autovetture private;Per il secondo tipo di trasporto si dovrà fare in modo che tutte le zone urbanistiche siano •collegate con le zone direzionali e tra di loro. Per raggiungere tale scopo si ritiene che dovrebbe essere adottato uno schema costituito da una serie di linee che, partendo dai capolinea estremi del comprensorio urbano, colleghino ciascun capolinea con tutti gli altri con percorsi che tocchino sempre le zone direzionali. In tal modo, a titolo esemplificati-vo, se vi fossero cinque capolinea fissando la frequenza di 40’ per il collegamento tra due capolinea e sfalsando le partenze si avrebbe un collegamento ogni 10’ di ciascun capolinea con le zone direzionali. In tal modo ogni zona urbanistica sarebbe collegata efficacemente con le zone direzionali e sarebbe anche strettamente collegata con ogni altra zona senza costringere l’utente a cambiamenti di vettura;14

Il terzo tipo di trasporto, che, per quanto riguarda i collegamenti extra comunali, deve •essere visto nel contesto dello assetto urbanistico regionale, per quanto riguarda la fun-zione di distribuzione all’interno del comprensorio urbano deve essere visto in maniera coordinata con i trasporti pubblici urbani sopra descritti. In relazione a ciò si ritiene debba essere scartata l’ipotesi di una unica autostazione ubicata in una zona centrale, ma si debba considerare l’opportunità della creazione di più autostazioni di testata poste alle estremi-tà del comprensorio urbano in modo che le linee provenienti da un settore del territo-rio regionale penetrino nel comprensorio urbano ed attraversandolo vadano a terminare all’estremità opposta del comprensorio stesso. In tal modo si realizzerebbero i seguenti vantaggi: eliminazione del notevole ingombro che numerosi autobus interurbani costitui-

11 Purtroppo avvenuto con enorme ritardo.12 Intervento poi realizzato dalla Amministrazione di sinistra succeduta a quella di centrosinistra.13 Si riportano integralmente sia perché si ritiene che fossero di grande importanza (e meriterebbero un ap-profondimento per valutarne la validità anche attuale) sia per mettere qualche altro puntino sulle “i” circa la paternità di scelte poi attuate da altre Amministrazioni. 14 La rete che rispondeva a questi criteri fu studiata subito dopo la municipalizzazione e realizzata nel 1971 dalla nuova Amministrazione.

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scono per le zone direzionali; possibilità, per l’utente proveniente dall’esterno della città, di evitare l’uso di un doppio mezzo (interurbano ed urbano) o quanto meno di limitarlo ad un solo cambio di vettura dato che ogni linea interurbana intersecherebbe nel suo percorso tutte le linee urbane; infine, minor costo globale delle autostazioni di testata, che sarebbero realizzate in zone ove i terreni sono facilmente reperibili e a basso costo e che avrebbero anche funzione di grandi aree di sosta;Con uno schema così articolato, oltre alle autostazioni di testata, che potrebbero essere •ubicate lungo le strade di grande comunicazione e che potrebbero essere abbinate a stazio-ni di servizio, centri di ristoro, servizi di informazione turistica, ecc., sarebbe sufficiente prevedere piccole attrezzature per l’attesa del cambio di vettura nei punti nodali di interse-cazione delle linee all’interno del comprensorio urbano;

Le proposte qui formulate debbono essere naturalmente verificate e definite da un approfon-dito studio che dovrà essere rapidamente effettuato, ma fin da ora si ritiene di poter indicare alcuni criteri che si ritengono fondamentali:

per le linee di trasporto urbano a servizio dei centri direzionali e sostitutive del trasporto •privato dovranno essere previste vetture di piccola mole, grande maneggevolezza, grandi doti di ripresa, e le frequenze dovranno essere elevate (5’-10’);per le linee di trasporto urbano di collegamento delle zone urbanistiche si potranno usare •autobus di maggiori dimensioni con l’impiego però di una parte di quelli usati per il primo tipo di trasporto considerato, in modo da intensificare le frequenze nelle ore di punta dei moti pendolari, che non coincidono con le ore di punta degli spostamenti limitati all’in-terno dei centri direzionali. La tariffa dovrebbe essere unica per qualsiasi percorrenza15 in modo da rendere indifferente, almeno dal punto di vista del costo del trasporto, l’ubica-zione della residenza;per i trasporti interurbani, oltre a quanto detto sopra, si dovrà prevedere la loro utilizzazio-•ne anche come trasporti urbani in modo da costituire linee di rapido attraversamento del comprensorio urbano; tale fatto è ovviamente possibile solo se i trasporti urbani vengono gestiti senza fini di lucro e pertanto senza timore di concorrenza. Si ritiene inoltre di poter indicare nelle zone urbanistiche di Ponte San Giovanni, San Sisto, Ponte Felcino l’ubica-zione delle stazioni di testata.

Ci si è limitati qui ad esporre solo alcune delle scelte fondamentali le quali hanno avuto notevole peso anche nell’attività delle Amministrazioni comunali che si sono suc-cedute a quella di centrosinistra. Il Piano presentato al Consiglio comunale conteneva in realtà, in modo dettagliato e minuzioso, tutte le attività e gli interventi ritenuti prioritari per il raggiungimento degli obiettivi indicati.16

Il Piano, come si è detto, fu presentato al Consiglio comunale l’11 febbraio 1966 e fu inviato agli organi decentrati dello Stato, alle organizzazioni di categoria, alle organizza-zioni sindacali, agli ordini professionali, alle principali Associazioni culturali, alle Società erogatrici di servizi (elettricità, telefoni, gas), agli organi di stampa, al fine di acquisire pareri da vagliare negli approfondimenti che il Consiglio comunale avrebbe effettuato attraverso una apposita Commissione ed in aula. Non tutti risposero (in particolare si dovette purtroppo constatare la completa assenza nel dibattito dei Sindacati), ma

15 L’unificazione delle tariffe è stata poi attuata con la municipalizzazione dei servizi di trasporto pubblico.16 Per avere un’idea del grado di approfondimento e di dettaglio basti ricordare che il documento era conte-nuto in cinque volumi dattiloscritti di oltre 1000 pagine complessive, con circa 500 tabelle di dati.

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giunsero comunque molti pareri, tra i quali spiccavano, per il dettaglio delle proposte, che dimostrava un attento esame del documento ed una seria valutazione della realtà comunale, quelli degli ordini degli ingegneri, degli architetti e dei farmacisti, della So-printendenza ai monumenti, della Associazione industriali, dell’Azienda di turismo. La discussione generale occupò varie sedute del Consiglio e si concluse il 26 aprile 1966.

L’attività della Amministrazione continuò, quindi, secondo gli indirizzi del Piano, cor-retti a seguito degli apporti ricevuti dal Consiglio comunale e dalla società, mettendo in cantiere, oltre ad interventi minuti per risolvere i problemi delle varie zone urbanistiche, anche alcuni dei grandi interventi previsti per cercare di governare la crisi di crescita della città che, negli anni ’60, si trasformava da un sonnacchioso centro burocratico a servizio di un territorio agricolo, con poche industrie significative e qualche infrastruttura per un turismo colto, in una città-territorio con una tumultuosa trasformazione dell’economia, ove la prevalenza passava dall’agricoltura all’industria ed al terziario; l’Università, grazie al dinamismo del rettore Giuseppe Ermini, si espandeva sia nel numero delle Facoltà che in dimensioni; iniziava la realizzazione di alcune grandi infrastrutture di interesse nazionale (E/45, raccordo autostradale Perugia-Bettole); l’afflusso turistico cominciava a crescere.

Ritengo opportuno ricordare, a questo punto, che, grazie soprattutto al metodo di lavoro impostato dall’Assessore Rasimelli nella gestione dell’urbanistica ed alla positiva risposta del gruppo consiliare della DC, le grandi scelte urbanistiche e di realizzazione delle opere pubbliche, nei Consigli comunali che precedettero quello con maggioranza di centrosinistra, furono assunte quasi sempre all’unanimità (talvolta con il solo voto contrario del PLI e del MSI) anche se su alcuni aspetti specifici vi poteva essere diver-genza di opinioni.17

Questo metodo di confronto e di partecipazione alle decisioni sui grandi temi, in par-ticolare nell’urbanistica e nella gestione del Piano, fu adottato anche dalla Amministra-zione di centrosinistra, anche se la delusione di essere escluso, dopo 20 anni, dal governo della città, aveva portato all’inizio il PCI ad assumere un atteggiamento di opposizione dura, a volte ostruzionistica.

Lo spirito di collaborazione fu essenziale per giungere alla approvazione definitiva della variante generale al P.R.G. e per alcuni successivi aggiornamenti della stessa, resi necessari per la rapida evoluzione della società.

Le varianti apportate al nuovo P.R.G. durante il governo della Giunta di centrosinistra furono tuttavia in numero molto limitato e non riguardarono previsioni di nuova edi-ficabilità privata, ma l’individuazione della zona industriale di Ponte S.Giovanni (con attuazione pubblica), motivata dalla continua crescita delle richieste di aree per attività produttive, dell’area ospedaliera, per l’insediamento di un nuovo ospedale con i fondi

17 Ricordo, ad esempio, che, al momento di decidere la localizzazione del nuovo Mattatoio il gruppo DC fu contrario alla scelta della Amministrazione (nella attuale via Palermo) ritenendo che presto si sarebbe trovato di nuovo inserito in un contesto urbano e che sarebbe stato preferibile individuare un’area presso Ponte S. Giovanni (cosa avvenuta qualche decennio dopo).

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della legge 574/196518 e della zona universitaria, presso S. Lucia, per l’insediamento della Facoltà di ingegneria, oltre al governo delle zone agricole, di cui si dirà più avanti.

Un altro importante atto per la trasformazione della città, anch’esso assunto all’unani-mità, fu la convenzione con l’I.B.P.–Industrie Buitoni Perugina, per la redazione del Piano particolareggiato di Fontivegge attraverso un concorso internazionale; fu bandito quindi il concorso e nominata la giuria internazionale. in accordo con gli Ordini nazionali degli ingegneri e degli architetti, l’I.N.U. nazionale e la F.I.H.U.A.T. internazionale. Esso ebbe grande risonanza ed ebbe notevoli apprezzamenti;19 ad esso parteciparono circa 120 pro-gettisti di tutto il mondo e per l’esame dei progetti, in base alla convenzione con la I.B.P. che ne assumeva l’onere, furono impiegati numerosi giovani professionisti di Perugia, architetti e ingegneri, che ebbero così modo di venire a contatto con il modo di progettare a livello internazionale (e questo fu un risultato secondario non di poco conto).

Malgrado l’esito positivo del concorso, l’Amministrazione di sinistra, succeduta al centrosinistra, per ostacoli (anche di natura ideologica) al suo interno, non affidò al vincitore la redazione del Piano particolareggiato; i tempi si allungarono (con la scusa della crisi della I.B.P., che in realtà non era iniziata al momento della conclusione del concorso) e alla fine tutto finì in qualche armadio del Comune fino a che, anni dopo, non spuntò Aldo Rossi. Purtroppo quella del concorso per Fontivegge fu forse l’ultima occasione in cui i grandi problemi cittadini furono affrontati in modo bipartisan.

Un’ultima variante fu impostata ed adottata, purtroppo solo in parte, per l’ostruzio-nismo, palese od occulto, di parte del Consiglio comunale (trasversalmente) e di parte degli stessi Uffici comunali, e riguardava la drastica riduzione degli indici di edificabilità delle zone agricole. Tali indici erano stati fissati in 2.000 mc/ha (0,2 mc/mq) nel Com-prensorio urbano ed in 5.000 mc/ha (0,5 mc/mq) nel Comprensorio esterno. Le aree agricole non erano state considerate come zone ove potessero espandersi gli insediamenti residenziali e gli indici erano stati assunti piuttosto elevati a fin di bene, per evitare cioè che chi avesse voluto realizzare una abitazione in campagna, non legata alla conduzione agricola (si riteneva, sulla base della esperienza precedente, che sarebbero stati pochissi-mi), sottraesse una superficie troppo elevata all’agricoltura.

L’aumento dei costi delle aree nelle zone dichiarate edificabili dal P.R.G., le procedure complesse ed i costi per la loro utilizzazione,20 l’esponenziale incremento del mezzo di trasporto individuale, che rendeva pressoché indifferente la localizzazione della re-sidenza, l’aumentato tenore di vita, che faceva prediligere la “villetta” con giardino al

18 Il “Silvestrini”.19 La giuria, a conclusione dei lavori, ha voluto «segnalare come esempio molto positivo lo sforzo compiuto dalla amministrazione comunale di Perugia prima per coordinare un insieme di iniziative pubbliche e private in una visione globale e, successivamente, per definire questa visione attraverso un confronto internazionale nel quale sono stati impegnati architetti e urbanisti di alto livello». Bruno Zevi, nella sua rubrica di architettura e urbanistica su “L’Espresso” del 26 dicembre 1971 lo definì «esemplare nel bando e nella conduzione.20 Il Comune di Perugia, anticipando di cinque anni quanto sarebbe diventato obbligo con la Legge 765/1967, aveva già previsto, con la variante generale adottata nel 1962, che nelle nuove zone di espansione non si po-tessero rilasciare singole licenze di costruzione se non previa redazione di un piano attuativo di lottizzazione, con obbligo di realizzazione delle opere di urbanizzazione.

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condominio, portarono ad una rapidissima diffusione delle residenze nelle zone agricole, rischiando di vanificare il P.R.G. e realizzando il suo negativo. Gli architetti continua-vano a sognare tante unité d’habitation e la gente preferiva le villette dei film americani, se di estrazione cittadina, o la casa con orto, se di estrazione contadina. A questo punto si era reso necessario ridurre drasticamente l’indice di edificabilità nelle zone agricole, in modo da consentire la edificazione di una residenza in campagna solo a chi doveva condurre una azienda agricola, prevedendo nel contempo alcune limitate zone ove fosse possibile realizzare le richieste case unifamiliari (all’americana) o a schiera (all’inglese), accettando democraticamente la volontà dei cittadini e ritenendo velleitario pensare di modificarne la mentalità o, peggio, di imporre coattivamente il modo di vita. Come si è detto fu possibile adottare tale variante solo per parte del territorio comunale (la parte collinare sud).

Purtroppo l’Amministrazione che seguì non continuò in questa azione di contenimen-to della dispersione delle residenze adottando, sì, la variante di riduzione per la restante parte del territorio comunale, ma con tante di quelle deroghe, costituite da piccole zone che conservavano gli indici (o talora li incrementavano), da portare il gruppo consiliare D.C. ad esprimere voto contrario, per la prima volta su un importante provvedimento urbanistico, con la motivazione: «… non per ciò che questa variante è ma per ciò che essa non è».

La città territorio continuò quindi ad espandersi come una “ameba”, per di più con la progressiva adozione di varianti parziali, per soddisfare pubbliche esigenze e privati in-teressi, senza mai una verifica di carattere globale,21 giungendo ad un Piano che definire Regolatore è fuorviante. Quando negli anni ’90 fu posto mano al nuovo Piano Regola-tore fu detto che il Piano del ’62-68 non era più valido, dimenticando che il Piano allora vigente aveva solo una pallida somiglianza con quello del ’62-68. In realtà si era ormai realizzata una città nella quale residenze e servizi erano sparsi in modo indiscriminato nel territorio, con il risultato che la maggior parte degli abitanti non può spostarsi senza l’uso del mezzo privato (che a Perugia non può certo essere la bicicletta!).22

Ho cercato, nello spazio di questo articolo, di illustrare l’attività del centrosinistra de-gli anni ’60 nel suo aspetto che ritengo più qualificante. Molte altre decisioni, anche di valore simbolico, furono assunte e meriterebbero di essere ricordate come, ad esempio, l’abolizione delle classi dei funerali (!) lo spostamento del mercato ortofrutticolo con la creazione del primo parcheggio a ridosso del Centro storico, la estromissione delle auto di servizio dall’atrio di Palazzo dei Priori, ove fino ad allora avevano sostato (!), le varie iniziative in campo culturale.

21 Uno dei più eclatanti errori urbanistici è stato, ad esempio, quello di avere eliminata la previsione della cosiddetta “autostrada urbana”, che avrebbe dovuto collegare lo svincolo di San Faustino del raccordo au-tostradale alla viabilità del centro città (vie XX Settembre e R. d’Andreotto) senza interferire con la viabilità della zona di Fontivegge, che sarebbe quindi rimasta al solo servizio degli insediamenti direzionali, senza rivedere tutte le previsioni edificatorie della zona stessa. Senza entrare nel merito della opportunità o meno di eliminare l’autostrada urbana è evidente che se si decide di affidare alla viabilità locale anche il traffico di at-traversamento qualcosa si dovrà pur rivedere nelle possibilità edificatorie delle aree servite da quella viabilità. 22 Non a caso Perugia è in Italia il capoluogo di provincia con la più alta densità automobilistica.

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Spero che altri, con maggior competenza e senza pregiudizi di parte,23 possa affrontare lo studio della attività di quella Amministrazione, che ha certamente lasciato un segno, e sul clima politico che, dalla fine degli anni ’50 al 1970, in pieno scontro di ideologie, ha consentito di affrontare i problemi della città senza il paraocchi delle stesse ideologie ma avendo presente solo il bene comune.

23 Come è talvolta avvenuto. Si veda, ad esempio, come nel volume Mezzo secolo di urbanistica, AA.VV., Protagon – Perugia –1993, nel capitolo “ La città esplode. Il centro sinistra al potere” (titolo che è tutto un programma) vengono attribuite al centrosinistra tutte le carenze (“le strade non sono asfaltate e non hanno marciapiedi, mancano le fogne, gli allacciamenti idrici sono precari….”) che in realtà erano preesistenti ed il centrosinistra ha censito per cercare di eliminarle!

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Note & Discussioni

Chi ha vinto le elezioni politiche in Umbria?

Ruggero RanieriDocente di Storia Economica

Le ultime politiche hanno registrato una netta virata a destra dell’elettorato italiano, che ha premiato, in netta maggioranza con una percentuale vicina al 47%, la coalizione guidata da Silvio Berlusconi, all’interno di uno schema bipolare che, in nome del voto “utile”, ha penalizzato le forze minori non apparentate.

Confrontando i voti espressi alla Camera nel 2006 e nel 2008, il Popolo della Libertà ha, sostanzialmente, ripreso i voti ottenuti nel 2006 dai partiti componenti, mentre la Lega Nord ha guadagnato quasi il 4%, portandosi a oltre l’8% dei voti nazionali. Nel complesso la coalizione di centro-destra ha ottenuto oltre 17 milioni di voti e una vit-toria sonante di quasi 9 punti percentuali sulla coalizione guidata da Veltroni. Il Partito Democratico, di contro, ha preso oltre il 33% dei voti, aumentando di quasi due punti la percentuale raggiunta nel 2006 dagli ex partiti membri; inoltre un buon successo ha avuto la lista di Di Pietro, con oltre il 4%. Molto grave per il voto di sinistra, è stato il crollo delle forze della sinistra radicale, riunite per l’occasione nella Sinistra Arcobaleno, che hanno perso il 5,80 % rispetto alle politiche del 2006 e sono rimaste al di sotto del quorum del 4%, necessario per avere dei deputati in Parlamento. Un risultato apprezza-bile c’è stato per l’Unione di centro, che, con il 5,62% dei voti, ha superato, invece, la soglia utile per esprimere un suo gruppo parlamentare. Soglia che è risultata proibitiva per tutti gli altri piccoli, come il Partito Socialista e La Destra-Fiamma tricolore.

Si è parlato molto dell’aumento dell’astensione e dei voti non validi. Il fenomeno si è indubbiamente verificato, ed è stimato in circa un milione e mezzo di voti validi in meno rispetto al 2006. La percentuale di voti validi espressi si è situata, comunque, sopra il 77% dell’elettorato.1

1 In Umbria il fenomeno dell’astensionismo e dei voti non validi è stato, anche in questa tornata, leggermente inferiore rispetto al livello nazionale. La percentuale dei voti validi in Umbria è stata, quindi, del 81,7%. Vedi F. Calistri e R. Covino, Le elezioni in Umbria. Radiografia di una sconfitta, “Micropolis”, aprile 2008, p. 8-11.

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Scomponiamo ora il voto a livello regionale umbro, aiutati dalla tabella 1. La coalizio-ne di Berlusconi in Umbria ha preso poco più di 200.000 voti, circa il 36 % del totale, qualche decimo di percentuale sopra il risultato del 2006. Nel 2006, però, la Casa della Libertà, essendo più ampia, era riuscita a portare a casa il 42% dei voti. Questi inclu-devano il 6,7 per cento conquistato, allora, dall’UDC. Nel 2008 L’UDC, da sola, ha perso 2 punti percentuali rispetto al 2006, mantenendo il 4,5%. Un’altra perdita per il centro-destra di Berlusconi sono stati i voti andati a La Destra, più di 20.000, circa il 3.5% dell’elettorato, una percentuale lievemente superiore a quella della Sinistra Arco-baleno (questo, sì, per l’Umbria, un sorpasso clamoroso!). A compensazione sono venuti a Berlusconi 5.000 voti in più dalla Lega Nord, aggiunta non molto significativa nume-ricamente, ma di un certo rilievo politico. Del resto, risultati ancora più significativi la Lega registra in altre regioni dell’Italia centrale, come Marche e Toscana.

La coalizione di Veltroni ottiene in Umbria (come nelle altre regioni “rosse”) un buon successo, conquistando il 47.3% dei voti. Al suo interno il PD da solo ne conquista ol-tre 250.000, superando il 44%. Valutato nel suo insieme, quindi, il risultato umbro del 2008 è quasi il rovescio speculare del risultato nazionale. Insomma, è presto per dire che l’Umbria voglia abbandonare la sinistra.

Può essere interessante, infine, dare un’occhiata alle differenze, peraltro non molto accentuate, negli andamenti elettorali nelle due province umbre. Nella provincia di Pe-rugia va leggermente meglio la coalizione di Berlusconi, e un po’ peggio (con una diffe-renza in meno rispetto a Terni di oltre un punto percentuale) la coalizione di Veltroni. Più catastrofica in provincia di Terni la sconfitta della Sinistra Arcobaleno, che scende di ben 10 punti percentuali, dal 14% del 2006 al 4% del 2008, mentre a Perugia la perdita è più contenuta percentualmente (ma in termini assoluti si è trattato pur sempre di 38.000 voti in meno).

Chi sono i nuovi parlamentari umbri? I deputati neo-eletti sono nove, di cui quattro del PDL, e cinque del PD. I senatori sono, invece, sette, di cui quattro del PD e tre del PDL. Dei deputati ben cinque sono di nuova nomina: Roberto Speciale, Pietro Laffranco, Roc-co Girlanda del PDL e Walter Verini e Carlo Trappolini del PD. Sandro Gozi, del PD, era già deputato, ma non eletto in Umbria. Tre, quindi, i confermati: di cui due, Marina Sereni e Giampiero Bocci, del PD e uno, Luciano Rossi, del PDL. Tra i senatori, invece, solo una conferma: Asciutti del PDL e molti nomi nuovi o “riciclati”: Mauro Agostini, Anna Rita Fioroni, Leopoldo di Girolamo e Francesco Rutelli per il PD, e Domenico Be-nedetti Valentini e Ada Spadoni Urbani per il PDL. Tradizionalmente per l’Umbria, non mancano i “paracadutati”, ma nel complesso sembra una rappresentanza meglio assortita e più equilibrata di quella emersa dalle elezioni del 2006, quando vi erano almeno tre esponenti delle correnti di sinistra più radicale (due di Rifondazione e uno confluito, poi, nella Sinistra Democratica), nonché esponenti di piccole formazioni, come l’Italia dei Valori e l’Udeur, con scarse radici nella regione, risultati vincitori in base a incomprensi-bili alchimie dei resti. Qualche vantaggio quindi la concentrazione bipolare del voto lo ha forse portato in termini di rappresentanza politica, anche se preoccupa un sistema dove non esistono canali democratici per la la scelta dei candidati.

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Come avviene ormai da qualche tempo, finita ogni tornata elettorale, l’AUR e il Di-partimento di Economia dell’Università di Perugia, sulla base di metodologie statistiche collaudate e a partire dai risultati ufficiali di un campione ragionato di seggi umbri, ela-borano una stima dei flussi elettorali: ci dicono cioè, con una buona dose di accuratezza, dove sono fuggiti i voti di chi ha perso, e da dove sono venuti i voti di chi ha vinto.2

Come abbiamo visto, vi è stato, anche in Umbria come a livello nazionale, un modesto incremento di astensioni e di voti non validi. Una parte di questi voti persi, circa 12.000 (pari al 16% del loro elettorato nel 2006), appartenevano alle formazioni confluite nella Sinistra Arcobaleno. Bisogna dire che si è registrato anche un flusso di elettori nella di-rezione opposta, e cioè elettori che hanno espresso nel 2008 un voto valido mentre nel 2006 non lo avevano fatto e che questi hanno premiato soprattutto il PDL. Dove sono andati gli altri voti persi dalla Sinistra Arcobaleno? Una fetta consistente, circa 33.000 voti, il 45% del voto del 2006, li ha presi la coalizione di Veltroni, mentre una quota più piccola (5.000 circa),sono andati addirittura a La Destra di Storace-Santanchè!

L’elettorato del PDL si è dimostrato, in genere, fedele alle scelte già fatte nel 2006. Questo vale soprattutto per Forza Italia; un po’ diversa la storia per Alleanza Nazionale, di cui ben 10.000 voti sugli 89.000 ottenuti nel 2006, sono confluiti questa volta sulle liste de La Destra. In provincia di Perugia, la trasmigrazione ha interessato ben il 20% degli elettori di AN nel 2006, forse a causa di un effetto trascinatore della candidatura per La Destra di Carla Spagnoli.

Una certa trasmigrazione di voti in entrata e in uscita ha interessato l’UDC, in Umbria come a livello nazionale. Il partito di Casini ha ceduto molti voti sia al PDL, sia alla coalizione di Veltroni, ricevendone a sua volta da entrambi gli schieramenti, sia pure in numero molto minore. La coalizione di Veltroni acquisisce, come abbiamo visto, un flusso importante in entrata dalla Sinistra Arcobaleno e dagli altri partiti piccoli già nella coalizione di Prodi. In particolare, soprattutto nella provincia di Perugia, essa ha fatto man bassa dei voti che nel 2006 erano andati alla Rosa nel Pugno (guadagnandone il 60%). Veltroni ha raccolto anche alcuni voti già dell’UDC e tuttavia ha ceduto un numero non trascurabile di voti, circa 12.000, al PDL e qualche cosa anche all’UDC. Numeri, forse, non molto significativi, ma sufficienti a indicare una certa friabilità al centro del PD.

Prospettive per le prossime amministrative

Quali linee di tendenza indicano questi dati per il futuro dell’Umbria? Siamo destinati a rimanere una regione dominata dalla sinistra, o, a partire dalle prossime amministrati-ve del 2009 e regionali del 2010, si può sperare in un cambiamento? Sappiamo che già

2 AUR, Dipartimento di Economia Finanza e Statistica, Università degli Studi di Perugia, Elezioni Politiche 2008- Umbria, Stime dei flussi elettorali, dattiloscritto (maggio 2008). Ringrazio particolarmente il professor Bracalente, coordinatore scientifico del sondaggio, che mi ha messo a disposizione i dati, e fornito ulteriori commenti interpretativi. Vedi anche B. Bracalente “Eppur si muove” anche l’Umbria, “Il Messaggero”-Umbria regione, 30 aprile 2008, p. 42.

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nelle recenti mini-tornate comunali vi sono stati risultati inaspettati, con la caduta in mano al centro-destra di tradizionali bastioni “rossi”, a Todi, Bettona, Deruta e altrove. È un trend che può confermarsi?

Va fatta una considerazione preliminare. Esaminando i risultati elettorali dopo la fine della prima Repubblica, si è sempre verificata in Umbria una differenza sostanziale tra il voto politico, più equilibrato fra i due poli, e quello amministrativo e regionale, spostato a sinistra. Questo differenziale ha raggiunto, in alcuni casi, i dieci punti percentuali. Le ragioni? Intanto un sistema elettorale maggioritario e micro-presidenzialista che favo-risce le coalizioni che partono in vantaggio; inoltre, una maggiore capacità dell’attore dominante della sinistra (PDS, DS e adesso, presumibilmente, PD) di fare sistema e di satellitizzare componenti politiche minori; infine, certo, la carta in più a livello locale del voto di scambio, clientelare, particolarmente forte in una regione da sessant’anni governata dalle stesse forze e dagli stessi apparati di potere. Sull’altro piatto della bilancia si possono mettere: la eventualità di candidati-sindaco forti espressi dai partiti o dall’area di centro-destra; la possibilità di rotture e dissensi nello schieramento di centro-sinistra; lo scontento crescente verso amministratori poco amati, perché percepiti lontani e arro-ganti, se non addirittura corrotti.

Nel complesso, tuttavia, una lettura razionale del voto politico del 2008 fa presume-re, o temere, una larga riconferma di governi locali dominati dal centro-sinistra. Il PD rimane di gran lunga la forza principale con poco meno della metà dei voti e, sebbene a livello nazionale incontri problemi e tensioni non secondarie con le altre forze di sini-stra, per esempio con Rifondazione e Italia dei Valori, è presumibile che a livello locale sia in grado di formare, come in passato, coalizioni maggioritarie abbastanza coese. Que-sto deve valere sicuramente a livello provinciale e regionale, e anche, a stare ai numeri, nei comuni di Perugia e Terni. Dall’altra parte, inoltre, abbiamo uno schieramento, quello del PDL più Lega, che non solo non ha mai dimostrato, in Umbria, grande determinazione in occasione delle battaglie elettorali locali (e i primi segnali, a Perugia, lo confermano), ma che ha, con le recenti scelte nazionali, tagliato fuori le ali, al centro e a destra. È tutta da vedere, quindi, la sua capacità di ricomporre queste fratture con candidature unitarie.

Fatte queste previsioni d’insieme pessimistiche, proviamo a dare un’occhiata disag-gregata ai risultati delle politiche per la Camera del 2008, per vedere dove il centro-destra potrebbe sfidare, con più probabilità di successo, il centro-sinistra. Nella tabella 2 abbiamo enucleato quei territori comunali nei quali la coalizione di Berlusconi ha ottenuto più voti dello schieramento avversario ed è quindi meglio posizionata per vin-cere le future amministrative. Accanto a questi abbiamo individuato i comuni dove il vantaggio della coalizione di Veltroni sul centro-destra è risultato più esiguo, meno, cioè, di 5 punti percentuali. Abbiamo, infine, marcato con un asterisco quei comuni dove il centro-destra ha attualmente una maggioranza di consiglieri e, quindi, esprime già oggi il sindaco.

Vediamo, intanto, che mancano dalla tabella i centri umbri più importanti: non solo Perugia e Terni, ma anche Spoleto, Foligno, Città di Castello, Gubbio, Orvieto,

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Narni e altri. In tutti questi, infatti, il vantaggio di Veltroni, come espresso nel voto delle politiche del 2008 alla Camera, è stato netto. Significa che l’opposizione non ha chance? Assolutamente no, e basterebbe pensare a quanto è avvenuto recentemente a Roma! Tuttavia, la partita vi si presenta complessa e difficile.

Vediamo ora alcuni casi dove la partita è più aperta: dove cioè, ove si confermassero i risultati delle politiche 2008, ci potrebbero essere sorprese, o, nel caso dei pochi comuni già del centro-destra, conferme. Tutti i comuni senza asterisco nella tabella 2 sono passi-bili di essere strappati alla sinistra. Nella prima colonna a sinistra, troviamo per esempio Bastia: qui la coalizione di Veltroni ha ottenuto il 44%, quella di Berlusconi il 40%, mentre un 5% dei voti è andato a La Destra e un 4% all’UDC. Situazioni analoghe, sia pure leggermente meno favorevoli per una eventuale coalizione moderata, si trovano a Trevi, a Montefalco, a Gualdo Cattaneo. A Passignano, il centro-destra, sotto forma di una lista civica ha sbaragliato il centro-sinistra nelle recenti amministrative, mentre nelle politiche Veltroni sopravanza Berlusconi di una manciata di voti.

I comuni nella seconda e quarta colonna, hanno espresso una maggioranza di voti per Berlusconi. Ad Assisi, la coalizione di Berlusconi, con la Lega al 2,5%, raggiunge il 44,5% dei voti, un vantaggio di ben 6 punti sulla coalizione di Veltroni; da tenere presente che l’UDC ha avuto il 6,8% dei voti. A Bettona il vantaggio del centro-destra è più esiguo, meno di due punti percentuali, e ancora più esiguo è stato a Deruta. Più consistente, il vantaggio a Todi, con Berlusconi al 45% e Veltroni al 39, e il 4,6% di voti a La Destra. Anche Cascia si conferma una roccaforte del centro-destra, pronta quindi a essere riconquistata. A Norcia, una città dove litigi interni hanno recentemente provocato la caduta della giunta di centro-destra e il commissariamento, Berlusconi, da solo, supera ampiamente il 50%. Nocera Umbra e Valfabbrica sembrano orien-tate decisamente al centro-destra, con ampi margini per la coalizione di Berlusconi. A Gualdo Tadino e Torgiano, invece, il vantaggio di Berlusconi è molto esiguo e il suo schieramento non va molto oltre il 40%; la partita amministrativa, quindi, si presenta più incerta. In particolare a Gualdo Tadino il fatto che la coalizione di Berlusconi con il 40.18 %, superi di 2 punti quella di Veltroni, sembra lasciare un ruolo determinante all’UDC, che ha raccolto il 7.7% dei voti.

La situazione nella provincia di Terni presenta meno incertezze: i vantaggi della coali-zione di Veltroni sono generalmente molto ampi. Fanno eccezione un pugno di comuni, nelle colonne 3 e 4, in cui, o le distanze sono ravvicinate, o la coalizione di Berlusconi è in vantaggio. Poiché Attigliano, Otricoli e Stroncone sono già governati da coalizioni di centro-destra, restano un gruppo di piccoli comuni da conquistare (alcuni, oggi, go-vernati da liste civiche di incerto colore).

Riassumendo, quindi, le recenti politiche confermano un’Umbria dominata dal cen-tro-sinistra, ma lasciano qualche spazio in più di all’iniziativa del centro-destra, magari partendo dal basso, con una “lunga marcia”.

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La festa è finita? Le Feste dell’Unità fra cronaca e storia

Rita BoiniGiornalista del “Corriere dell’Umbria” e scrittrice

Nate nell’immediato dopoguerra, dopo la Liberazione e l’entrata in scena ufficiale dei partiti – per il Partito Comunista si trattava in realtà dell’uscita dalla clandestinità – i Festival e le Feste dell’Unità decollarono negli anni ‘50. Per anni vi furono due nomi paralleli, Festival erano le manifestazioni che interessavano uno spazio territorialmente più ampio – c’erano il Festival regionale e quello provinciale – mentre la Festa dell’Unità interessava una città, un paese, un singolo, e a volte piccolo, quartiere. Il nome Festival svanì a poco a poco insieme agli anni’60, confluendo in quello di Festa dell’Unità. Punto di riferimento era il giornale del partito comunista, l’«Unità», appunto. Leggerla, per un «compagno», (mi si perdoni l’aver messo la parola tra virgolette, quel termine un tempo motivo di identità, appartenenza e anche orgoglio, per chi compagno era davvero, e ber-saglio usato ironicamente per chi ai compagni era avverso, mi sembra antico, desueto, lontano nel tempo, anche se degno di grande rispetto) era un dovere; capire dalle sue pagine cosa si doveva pensare e come ci si doveva comportare un obbligo; comperarla ancora di più. Forse non tutti riuscivano a leggere l’«Unità», nell’Umbria che ancora tra anni ‘50 e anni ‘60 vedeva un discreto tasso di analfabetismo e una bassa scolarizzazione. L’«Unità», parlo di quella che ancora si leggeva negli anni ‘70, non aiutava il compito, pesante, noiosa, per nulla invitante alla lettura com’era.

L’«Unità», al pari della festa a lei intitolata, era ad un tempo un modo per aderire al proprio credo politico e un modo di finanziare il partito, che peraltro di finanziamenti ne aveva di ben più consistenti da Oltrecortina. Farsi vedere con l’«Unità» sotto braccio, al pari che farsi vedere alla Festa dell’Unità, in certi ambienti e in certe zone era un atto di coraggio. Erano gli anni in cui c’erano i rossi, i bianchi, i neri. I primi avevano, appunto, la Festa dell’Unità, i secondi la Festa del Biancofiore (in Umbria evento assai sporadico), i terzi, solo in anni recenti sdoganati da un passato scomodo, qualche rara Festa della Fiamma tricolore.

Era dunque la Festa dell’Unità a riempire in massa piazze e piazzette. Qui in Umbria, almeno fino ai primi anni ‘70, essere comunista significava avere difficoltà a trovare –

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nelle aziende private, soprattutto – lavoro; nel caso si fosse entrati la possibilità di essere licenziati, in ogni caso di non fare carriera e essere guardati con diffidenza. Pare impossi-bile, nell’ottica di quanto accade oggi – e se è vero quanto ministri del tutto rispettabili come Brunetta sostengono, che cioè in regioni come la nostra chi milita in partiti di sinistra gode di molte facilitazioni, tanto per usare un termine eufemistico – ma è vero: sono in grado, a richiesta, di far sfilare una processione di persone, pronte a raccontare e provare la loro storia in questo senso. Organizzare la Festa dell’Unità, parteciparvi atti-vamente, o semplicemente frequentarla, era dunque un atto di coraggio, farlo procurava un marchio.

In Provincia di Perugia – questo è stato l’ambito territoriale della mia breve ricerca – le prime Feste dell’Unità sono nate, sorprendentemente, ma non troppo, nei paesi. Pretola, San Sisto, Ponte Valleceppi e tutti gli altri ponti, se si vuole rimanere nel perugino. Ma anche piccoli comuni della Provincia, come Collazzone, i paesi che s’affacciano sul lago Trasimeno, tanto per citare. Paesi dove l’immediato dopoguerra non aveva portato il benessere, dove si trascinava una secolare storia di povertà e anche di umiliazioni, dove ancora negli anni ‘70, allontanato lo spettro dell’analfabetismo, non tutte le famiglie potevano permettersi di far proseguire ai propri figli gli studi superiori e, se erano con-tadini, e a costo di enormi sacrifici riuscivano a iscriverli, si sentivano dire da qualcuno: «Ai miei tempi i figli dei contadini andavano a guardare le pecore, e non a scuola». Nel Partito Comunista vedevano lo strumento del riscatto – c’era chi sognava la rivoluzione, che avrebbe avuto come momento di punta l’impiccagione al campanile della chiesa dei proprietari terrieri e del prete, che cambiavano a seconda del paese, cui s’aggiunse in un secondo tempo, in questo caso in tutti, è il caso di dirlo, i campanili, Agnelli, l’Avvocato – e nella Festa un momento della lunga strada per perseguirlo.

A giro, le feste di paese vennero seguite, a Perugia, da quelle di quartiere. Organizzate dalla sezione del partito che, appunto, si trovava nel quartiere, in alcuni casi vissero lo spazio di una stagione; in altri ebbero fama e una lunga vita, tanto che qualcuna esiste ancora ora, dopo tutte le tempeste che hanno travolto il comunismo, il partito e l’Unità. Cito, in ordine sparso, Porta Eburnea, Corso Cavour, Sant’Erminio, via Birago, piazza Grimana, Elce-Rimbocchi. La sezione del Pci “Stella rossa” di Porta Santa Susanna un anno ne organizzò una nell’appena sistemata piazza di San Francesco al Prato, arrivando – in anni in cui tra comunisti e chiesa cattolica ci si guardava ancora in «cagnesco» – a un accordo con i frati del vicino luogo di culto: all’ora in cui le campane dovevano suo-nare si sarebbero spenti i rumori della festa, per poi riprendere dopo la fine dell’ultimo rintocco.

Tutte queste feste, e le prime edizioni delle feste comunali e provinciali che nacquero negli anni successivi, avevano degli elementi comuni. Il primo, se vogliamo dare spazio alla memoria auditiva, è costituito dalla musica: in continuazione gli «altoparlanti» – essendo gli attuali sofisticati sistemi di diffusione prima sconosciuti, poi troppo costosi, per una festa che era anche mezzo di raccolta fondi – trasmettevano «Bandiera rossa», l’«Internazionale», i canti partigiani. Un altro elemento era la presenza in ogni festa di una libreria, termine pomposo, per piccoli stand la cui dotazione era accuratamente

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selezionata, per argomento e per editore. Si trovavano, infatti, tutti i testi «sacri», a co-minciare dal Capitale di Marx, e le collane di ben scelti editori: Editori Riuniti, in primo luogo, Feltrinelli, Einaudi. Niente in comune con le librerie della Festa di oggi, dove tutti i generi – comprese, assecondando forse le leggi di mercato, le ricette di cucina – sono presenti e dove tutti gli editori sono ammessi. Quanto a quelli dell’epoca, parlo degli editori, gli Editori Riuniti, un tempo gloriosa casa legata in vario modo al Pci, spenti gli antichi splendori, vivacchia in qualche modo e se non è del tutto sparita lo deve alla ge-nerosità, una generosità forse legata alla memoria di un mondo spazzato via non solo nei nomi, di un imprenditore romano ma umbro di origine, che per non farla morire ne ha acquistato le quote di maggioranza e che la tiene in vita, assicurandole la sopravvivenza in regime, per lui, di assoluta perdita. Per il resto a lungo si facevano dibattiti e incontri, ma anche giochi popolari: la boxe regnò sovrana in molte edizioni delle feste perugine, quelle della Perugia ancora povera, artigiana e con una sua identità cittadina.

Gli stand gastronomici meriterebbero non un capitolo, ma un libro, passione e com-petenza culinaria messe a disposizione del partito e della Festa, da donne ma anche da uomini, in quelli che, ancora oggi, cambiato il nome e tanti costumi della Festa, perfino l’anima, oserei dire, continuano ad essere un punto fermo e vengono chiamati da tutti «ristoranti». Ma un’altra caratteristica era costante e fortemente sentita: quella del vo-lontariato. Prima del 1990 tutto, ma proprio tutto, era affidato al volontariato. Lo staff della festa che di volta in volta si teneva, in un paese, in un quartiere, più tardi a livello provinciale e comunale, era composto da uomini e donne che sacrificavano ferie e tempo libero, energie e idee, per investire in un evento in cui credevano profondamente. Anche stand, gazebo, strutture venivano montati dai «compagni», un faticoso lavoro da uomini che spesso pesava molto più del loro lavoro vero. L’attuale festa vede una parte del lavoro affidata a ditte: spesso, ed è sicuramente il caso delle strutture da montare, per motivi di sicurezza e forse anche in ottemperanza a qualche legge. Ma forse è meglio così, che legge e buonsenso suggeriscano gli appalti, perchè viene da chiedersi se ancora ci sono uomini disposti a sottoporsi a faticacce per la Festa. Un altro lavoro di volontariato, ritenuto importante, era quello della sorveglianza notturna. Una sorveglianza che non era dettata solo dal timore che ci fossero furti – di rifornimenti in dispensa, di libri o altro messi in mostra negli stand – ma anche dal timore di aggressioni. Timori non infondati, i «vec-chi» riferiscono di attacchi subiti e di altri respinti, da parte dei «fascisti». Ma lo fanno senza che nella loro voce risuoni esecrazione o condanna morale. «Tanto se non erano loro a tentare di menarci lo facevamo noi». Specchio di tempi in cui gli steccati erano veri e invalicabili, ma altrettanto vero, nella lotta, era il rispetto.

La macchina della festa era organizzatissima e, pur basandosi solamente sul volontaria-to (cuochi che non erano cuochi, guardiani notturni che non erano guardiani notturni, camerieri che non erano camerieri) funzionava alla perfezione. Alle spalle del resto aveva un Partito la cui organizzazione era tanto rigida quanto esemplare: la federazione, la sezione, la cellula. Ognuno, nel Partito e nella Festa, a fare il suo dovere, ad eseguire il suo compito. Erano gli anni della disciplina politica, che a volte aveva effetti ai nostri occhi aberranti, ma che era un valore morale, ben lontana dal conformismo di massa che

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di lì a poco avrebbe investito la società, e perciò anche il Partito e la sua festa. Erano gli anni, nelle nostre campagne, dei sindaci contadini, che alla mancanza di istruzione, loro negata dalla storia, sopperivano con la saggezza e la capacità di guardare lontano, del pragmatismo e delle aspettative di un futuro migliore.

Intanto nascevano, a cominciare dai primi anni ‘70, anche in Umbria le Feste comu-nali e provinciali. Umbertide, Foligno, Città di Castello, Perugia ebbero le loro, quella di Perugia ebbe sede prima in piazza Partigiani, per trasferirsi poi ai giardini Carducci e quindi, ormai da tempo e forse definitivamente, negli ampi spazi di Pian di Massiano. La prima festa comunale di Perugia risale ai primi anni ‘80 e vide, nell’ideazione e nell’orga-nizzazione le sezioni di Porta Eburnea, via Birago, corso Cavour. Paolo Sartoretti, Paolo Baronti (cuoco per diletto, ma eccellente, cui si deve la fama di uno dei ristoranti della Festa), Primo Tenca, Galeno Scattini, sono nomi da non tralasciare nel lungo elenco di chi si è dedicato, almeno negli anni che potremmo definire «classici», alla Festa: ma an-che in questo caso la completezza ci suggerisce che, per essere equi, dovremmo compilare un annuario. La Festa provinciale dell’Unità risale ai primi anni ‘70, la prima edizione ebbe luogo a Lacugnano: lo schema è sempre uguale, cambia l’ampiezza, il numero degli stand. I cambiamenti che hanno attraversato la Festa sono sempre stati trasversali, toc-cando contemporaneamente le feste di paese, quartiere, comunali e provinciali.

Conviene a questo punto ripercorrere le fasi della storia del Pci, che il 31 dicembre 1990 vede il suo ultimo giorno con il vecchio nome, diventa Pds; fino al 1995, poi cambia di nuovo nome in quell’anno, per diventare Ds, l’ultimo recente cambiamento vede la nascita del Pd, una cosa totalmente diversa, anche per le molte anime, talvolta in apparente contrasto, che riunisce. La Festa dell’Unità rimane sostanzialmente uguale fino all’esistenza del Pci, il cambiamento da quel giorno è graduale ma forte, va di pari passo con il cambiamento della società, dei partiti, di gruppi, di associazioni, del mondo intero. L’ultimo cambiamento riguarda il nome, da quest’anno la Festa dell’Unità non esiste più, sostituita dalla Festa del Partito democratico. Un cambiamento di nome che ha provocato non poche polemiche, sulla necessità e opportunità, peraltro immediata-mente rientrate, anche se non è dato sapere cosa ne pensi il popolo della Festa, le migliaia di persone che qui, in Umbria, hanno dato nel corso degli anni tempo, impegno, in un lontano passato a volte pagando per quel tempo, quell’impegno, quel credo. Anche la Festa è cambiata. Soprattutto il popolo della Festa. Andando ai dibattiti più affollati, quelli che portano in città i big del partito di riferimento, Fassino, Veltroni, viene spon-taneo cercare tra il pubblico operai, agricoltori, artigiani, i rappresentanti di quella che un tempo, a seconda del proprio punto di vista sulla politica e sulla vita, si sarebbero chiamati «appartenenti alla classi subalterne» o «gente del popolo». Una classe cambiata, assottigliata, ma non sparita. E invece hai piuttosto l’impressione che ad affollare la Fe-sta, non più dell’Unità ma del Partito democratico, siano i rappresentanti di una piccola borghesia impiegatizia, che il cambiamento del nome rispecchi il cambiamento di un mondo. Ti chiedi dove sia finita quella classe, quella categoria di gente che è vissuta nella speranza di un mondo migliore, migliore indipendentemente dai vantaggi personali che ne avrebbe potuto trarre ogni singola persona. E poco consola che in coda alla grandi

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feste, quella organizzata a Ponte Valleceppi, dove è stata fondata una delle più vecchie Feste dell’Unità umbre, abbia mescolato i nomi e, per adottare il nuovo senza cancellare il vecchio, sia stata chiamata «Festa dell’Unità del partito democratico».

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Contratti di finanza derivata

Stefania FilipponiAvvocato

Gli enti locali hanno stipulato, nel recente passato, contratti di finanza derivata, per far cassa e, in cambio di “premi” talvolta modesti, si sono accollati esposizioni future non quantificabili al momento della stipula e non inserite nei bilanci. Anche il Comune di Foligno non ha saputo resistere al fascino degli swap.

Brevemente, i fatti. Con delibera n. 530 del novembre 2002 la Giunta Comunale ha incaricato l’Area Servizi Finanziari di

verificare la possibilità di liberare risorse finanziarie utili ad una migliore formulazione delle politiche di bilancio 2003-05 attraverso la rimodulazione della [...] struttura di in-debitamento.

L’Amministrazione comunale, in pratica, cercava un modo per risparmiare, nel pe-riodo 2003-05, sugli interessi passivi sui mutui, che all’1/1/03 ammontavano a 29,7 milioni di Euro (12,3 a tasso fisso e 17,4 a tasso variabile).

L’ufficio competente, dopo aver individuato vari istituti di credito, ha affidato l’inca-rico di consulenza al M.P.S. Finance Banca Mobiliare S.p.A. Agli inizi di giugno 2003 la Giunta Comunale ha autorizzato, con delibera, a «concludere l’operazione di Interest Rate Swap [...] entro il termine del mese di giugno 2003». Pochi giorni dopo è stato conferito «mandato gratuito per consulenza, assistenza e gestione di Interest Rate Swap» al M.P.S. Finance Banca Mobiliare S.p.A. ed approvato «lo schema di contratto quadro predisposto dal Monte dei Paschi di Siena S.p.A.» Il successivo 26 giugno è stato stipula-to il contratto di Interest Rate Swap, avente per oggetto i soli mutui a tasso fisso.

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In sintesi i termini contrattuali:

Importo € 12.369.259,00data iniziale 31/12/2002scadenza finale 31/12/2014scadenze periodiche ogni 30/06 e 31/12 dal 30/06/2003 al

30/12/2014 .tasso parametro dal 31/12/2002 al 31/12/2005 4,77% nei periodi in cui l’Euribor 6 mesi è inferiore a 5,40%, altrimenti Euribor 6 mesi +2,55% 31/12/2005 al 31/12/2008 4,85% nei periodi in cui l’Euribor 6 mesi è inferiore a 5,40%, altrimenti Euribor 6 mesi +2,55 31/12/2008 al 31/12/2011 5,10% nei periodi in cui l’Euribor 6 mesi è inferiore a 5,60%, altrimenti Euribor 6 mesi +2,55 31/12/2011 al 31/12/2014 5,28% nei periodi in cui l’Euribor 6 mesi è inferiore a 6,00%, altrimenti Euribor 6 mesi +2,55

L’Interest Rate Swap è un’operazione finanziaria, detta derivata, che può essere utiliz-zata sia per proteggersi da variazioni future dei tassi di interesse, sia per speculare sul loro andamento. All’articolo 4, comma 1, del Contratto quadro sottoscritto dal Comune di Foligno si puntualizza:

Le parti si danno reciprocamente atto [...] della natura aleatoria dei contratti specifici, in quanto il valore di mercato di tali contratti può essere oggetto ad imprevedibili variazioni, comportando pertanto un elevato rischio in termini economici.

Esemplificando: con il contratto firmato nel 2003, per il periodo 2003-2014, il Co-mune di Foligno, nei periodi in cui l’Euribor è al di sotto della soglia concordata (ad esempio 5,40%) beneficia di un tasso più basso di quello originario sui mutui a tasso fisso (il resto è a carico del ‘Monte’); per contro, nel caso opposto, ovvero in ipotesi di superamento della soglia, l’Ente è tenuto a pagare un tasso molto più elevato (Euribor effettivo + 2,55%).

L’Euribor utilizzato è quello a sei mesi, rilevato in prossimità del pagamento della rata del semestre precedente. Secondo il Prof Marco P. Tucci (docente all’Università di Sie-na), visto che «al peggio non c’è limite», la penalizzazione effettiva non ha un limite pre-

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ciso, ma dipende dalla differenza fra l’Euribor e il tasso soglia. Di conseguenza a priori si conosce solo la penalizzazione minima. Applicando questi tassi all’ammontare dei mutui a tasso fisso esistenti in un certo momento è possibile quantificare il risparmio massimo possibile e la minima perdita possibile in ciascun periodo. Queste sono riportate nel grafico sottostante dove la linea continua denota l’andamento del massimo risparmio e quella punteggiata la dinamica della minima perdita.

Per esempio, se nel giorno di rilevazione del dicembre 2002 l’Euribor fosse stato sotto la soglia del 5,4%, il Comune avrebbe risparmiato intorno ai 33.000 Euro di interessi nel giugno 2003. Nel caso contrario avrebbe speso almeno 165 mila euro in più. Visto che l’ammontare dei mutui decresce nel tempo a causa dell’ammortamento, le linee del massimo guadagno e della minima perdita tendono a scendere fino a toccare 1.544 e 21.484 Euro, rispettivamente, nel secondo semestre del 2014. Va sottolineato tuttavia che la perdita effettiva nei periodi sfavorevoli potrebbe aumentare, anziché diminuire come nel grafico, a seguito di un consistente aumento dell’Euribor.

Ma cos’è l’Euribor? Come indica il suo nome per esteso, “Euro Interbank Offered Rate”, l’Euribor è il tasso medio a cui avvengono le transazioni finanziarie in Euro tra le grandi banche europee. Viene rilevato tutti i giorni lavorativi e può avere anche forti oscillazioni nel tempo. Questo tasso tocca il minimo storico nel 2002, al 2,10%, e ri-mane stabile su tali valori per oltre un anno. Ricomincia a salire nel quarto trimestre del 2005. In quasi due anni, da fine 2005 a novembre 2007 la media mensile di Euribor a sei mesi passa dal 2,20% al 4,68%, con un balzo di quasi 2,50 punti percentuali, come riportato nel grafico che segue.

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Nota: *rilevazione al 27 dicembre 2007.

Continua ancora il Prof. Tucci:

Questa la situazione al dicembre 2007. E per il futuro? Dal dicembre 2005 la media mensile dell’Euribor a sei mesi è aumentato di oltre mezzo punto a semestre ed ora si trova paurosa-mente vicina al tasso che fa scattare la penalizzazione nel contratto Swap. È verosimile, perciò, una serie di periodi sfavorevoli con pesanti conseguenze sui bilanci comunali.

Il Direttore Generale del Comune di Foligno, Arch. Alfiero Moretti, con una nota del 9 gennaio ha specificato:

L’operazione “IRS con barriera” conclusa dal Comune di Foligno rientra tra quelle previste dalla legge (art. 3 comma 2 lettera a) del D.M. 389 del 01/12/2003) ed è stata studiata in ter-mini di rischio con modalità assolutamente prudenziali, tali da evitare possibili costi aggiuntivi per il Comune. Il contratto concluso con il Monte dei Paschi di Siena S.p.A. “contraddistinto da un adeguato merito di credito” (art. 3 comma 4 del D.M. 389 dello 01/12/2003) ha fatto risparmiare al Comune di Foligno, dal 2003 al giugno 2008, un totale di 213.000,00 euro di interessi. Inoltre, mai un solo euro è stato corrisposto dal Comune al Monte Paschi a qualsiasi titolo, né di interessi, né tanto meno di commissioni.In previsione, sulla base futura della curva dei tassi di interesse, il Comune di Foligno non si troverà mai nella condizione di dover sostenere costi aggiuntivi. È inesistente la possibilità di mettere a repentaglio i bilanci futuri del Comune. E comunque, nel rispetto del principio della prudenza, si è proceduto ad accantonare in bi-lancio quote dei risparmi ottenuti allo scopo di riservarsi la facoltà di chiudere il contratto in qualsiasi momento.

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A titolo puramente informativo, alla data attuale, con circa 20.000,00 euro si potrebbe chiu-dere tale contratto, con un guadagno secco per il Comune di Foligno di 193.000,00 euro.

In primo luogo, se l’intento del contratto era quello di ottenere risorse e liquidità da investire, magari in servizi, l’avere, nel frattempo, accantonato parte dei risparmi per essere pronti a recedere, vanifica lo scopo e dimostra che si è trattato di una pura opera-zione speculativa, effettuata con soldi pubblici.

Inoltre, alcuni dati sono volutamente inesatti: non è vero che il Comune di Foligno non ha corrisposto alcunché al Monte dei Paschi. Report la trasmissione che effettua inchieste per Rai 3, nella puntata trasmessa l’8 aprile, ha fatto prezzare dai propri analisti il contratto stipulato dal Comune di Foligno e Matteo Corradori (consulente finanziario indipendente) ha stimato il costo implicito in € 180.000,00; non solo: il rischio del Co-mune di Foligno fino al 2014 è stato valutato in € 700.000,00 a fronte di un modesto guadagno.

Ancora: non è vero che il costo del recesso (mark to market) al gennaio 2008, era di € 20.000,00 ma, secondo i documenti dello stesso Monte dei Paschi, ammontava ad € 41.000,00 ovvero il doppio. D’altronde il mark to market varia quotidianamente ed un innalzamento dei tassi di interesse ha l’effetto di far aumentare il prezzo del recesso. E intanto, nel mese di giugno, l’Euribor è salito a 5,22.

In ogni caso gli swap sono notoriamente prodotti aggressivi e, secondo la Corte dei Conti,

il fenomeno dei derivati è preoccupante perché le esposizioni finanziarie possono diventare progressivamente insostenibili.

Nel frattempo sui derivati sono arrivate le prime condanne penali. La Corte di appello di Milano lo scorso febbraio ha ravvisato, per tre direttori di filiale, gli estremi della truf-fa. Trattandosi di contratti aleatori che presentano oggettivamente un’alta probabilità di perdita per i clienti (specie se inesperti), possono far sorgere in capo di chi li ha proposti delle responsabilità penali. Il PM milanese Greco, a un convegno sui derivati, non ha escluso che si possa aprire a breve una “stagione di derivati” visto che, «raggiri in moda-lità seriale potrebbero portare a configurare persino l’associazione a delinquere».

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Assisi e i mendicanti: ordinanze controverse

Francesco BevilacquaPubblicista e collaboratore de “Il Sole 24 Ore Edizioni Agricole”

Ad Assisi, la città di San Francesco, che si strappò le vesti per offrirsi totalmente a Madonna Povertà, dedicandosi a una vita all’insegna dell’aiuto verso il prossimo e alla predicazione della pace e della carità, è stato recentemente proibito con un’ordinanza del Sindaco Claudio Ricci il mendicare vicino ai gradini delle chiese e ai monumenti. L’ordinanza, dell’aprile scorso, tesa a «salvaguardare i luoghi di culto e la decenza», fa

divieto di mendicare nei luoghi pubblici situati a meno di 500 metri da chiese, luoghi di culto, monumenti, piazze ed edifici pubblici. […] È vietato sdraiarsi, o sedersi a terra, in prossimità dei luoghi di culto, edifici pubblici, sotto i portici, sulle soglie e sui lati degli ingressi nonché lungo i muri perimetrali di detti edifici.

Basta osservare la mappa dei monumenti e delle chiese dislocate nella città serafica, per rendersi conto che, se applicata rigidamente, solo al di fuori delle mura si potrà trovare traccia di mendicanti in cerca di persone caritatevoli. Il sindaco Claudio Ricci ha tenuto subito a precisare che l’iniziativa non è che una naturale evoluzione di quella politica co-munale che mira alla tutela della legalità, «sollecitata da cittadini, ospiti e comunità reli-giose». Il provvedimento va visto quindi nell’ambito del bisogno di sicurezza sempre più invocato negli ultimi tempi dai cittadini e soprattutto nel rispetto della tranquillità di residenti e turisti ché possano ammirare indisturbati le bellezze artistiche del territorio.

In questo ambito sono, in realtà, due, oltre a quella in questione, le ordinanze del sindaco di Assisi: la prima stabilisce l’orario di chiusura di bar e locali in genere (una di notte, una e mezzo d’estate), la seconda ordina l’allontanamento coatto dalla città di tutti i campi nomadi. In un’ottica più ampia non si può non collegare il provvedimento a quelli adottati nel recente passato da altri comuni di città d’arte e paesi a vocazione turistica: a Firenze, dopo quello sui lavavetri, un provvedimento simile ha fatto un certo scalpore. Anche Padova e Vicenza si sono schierate contro l’accattonaggio: a Padova sono anche state previste sanzioni contro le contrattazioni in strada con le prostitute, a Verona persino contro gli snack consumati in piazza.

Certamente la risonanza dell’ordinanza emessa nella città del poverello è stata molto

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più ampia, così come lo scalpore suscitato in tutte quelle persone che l’hanno considera-ta come un’imposizione istituzionale, che rinnega in un certo modo l’identità del luogo. L’aspetto paradossale è che tutto ciò sia avvenuto proprio ad Assisi, dove la povertà non può essere considerata come una bruttura da nascondere, un’occasione per accelerare il passo davanti ad una mano tesa. In questa terra mistica, la solidarietà, l’accoglienza, l’assistenza ai meno fortunati si dovrebbe respirare nell’aria, perché questa è l’eredità di quel Francesco, che rinunciò al suo nome ed alle sue ricchezze per seguire e diffondere la sua fede. Di fronte a qualche critica, gli amministratori comunali hanno affermato che la misura è tesa ad arginare il fenomeno dell’accattonaggio “per professione”, mentre sarà applicata con “umanità ed intelligenza” per i mendicanti che hanno effettivo bisogno. C’è da chiedersi come sarà possibile stilare questa specie di classifica tra mendicanti: i bisognosi veri, gli emarginati dalla nostra società; i bisognosi forzati, quelli che chiedono perché costretti dai racket; ed i bisognosi per scelta, quelli che chiedono perché non hanno voglia di lavorare? Ricci ha affermato che:

l’applicazione seguirà il buon senso ed una prassi già formalizzata e diffusa: chi risulta con precedenti penali, foglio di via dal comune.

Assisi è città sicura, lo ha ammesso anche il primo cittadino, «che però di fronte a segnali di potenziale pericolo non vuole fare finta di niente».

Non è un’ossessione politica, il sindaco lo nega:

molte comunità religiose locali ci hanno pregato di provvedere. L’obiettivo è preservare la sacralità di questi luoghi, senza rinunciare all’accoglienza .

Per la curia di Assisi, guidata dal vescovo monsignor Domenico Sorrentino, l’ordinan-za emanata «in modo del tutto autonomo dall’amministrazione comunale», riguarda un fenomeno di mendicità e,

non di rado, di sfruttamento della mendicità che talvolta assume forme moleste e persino violente comportando obiettivi problemi per l’ordine pubblico. Appare quindi come un atto doveroso della pubblica amministrazione. Si ricorda, tuttavia, che in questa materia non basta sanzionare e reprimere. Accanto al fenomeno preso di mira, esistono tante situazioni di effet-tiva indigenza.

In una nota la curia assisana, ha definito:

necessario, specie in una città che si gloria dello spirito di Assisi, che si incrementino e all’oc-correnza si creino adeguati servizi di accoglienza che aiutino ad uscire dalla prassi della men-dicità coloro che sono realmente nel bisogno. Allontanarli dalla città di Francesco, senza nulla fare per risolvere il loro problema, sarebbe davvero incomprensibile e inaccettabile.

A tal fine la chiesa locale,

assicura ogni possibile collaborazione per lo sviluppo dei pubblici servizi di accoglienza, di solidarietà e giustizia sociale

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e ha reso noto che,

soprattutto attraverso la Caritas diocesana, le parrocchie, le comunità religiose, le varie strut-ture caritative e di accoglienza, già da tempo e in diversi modi risponde alle domande di tanti poveri che bussano alla sua porta.

Padre Vincenzo Coli, la massima autorità in quanto Custode del Sacro Convento, successivamente l’emanazione del provvedimento, aveva detto:

Bisogna vedere nella concretezza come si esprime e come viene applicata, ma se richiama un certo rispetto di se stessi, dei luoghi e anche degli altri, l’iniziativa del comune aiuterà a discer-nere tra chi ha bisogno, e chi specula, in un paese dove è cresciuto il business della mendicità professionale e vi sono persone che lo fanno per professione e altri che effettivamente hanno davvero necessità. Certo, andrà applicata con umanità e intelligenza.

Appena qualche giorno successivo all’ordinanza, sono andato in “perlustrazione” nelle vicinanze di alcune piazze e luoghi di culto del comune: mendicanti svolgevano indi-sturbati la loro “professione” e sui gradoni delle chiese erano presenti turisti che si ripo-savano o consumavano il loro pranzo al sacco: gli addetti alla vigilanza erano impegnati nella gestione del traffico (eravamo nei giorni del ponte del primo maggio), ma erano impassibili di fronte ai mendicanti, posti a poche centinaia di metri da loro.

Chiaramente è bene lasciar passare un certo periodo di “rodaggio” per valutare il ri-spetto o meno dell’ordinanza: magari in mesi più calmi per quanto riguarda l’afflusso di turisti o dopo un “periodo di formazione”, nel quale è meglio avvertire ed educare chi è poco informato, piuttosto che reprimere, si potrà tracciare un bilancio sull’utilità o meno di tale disposizione. Nel frattempo qualche critico ha sostenuto che la mossa sia stata più che altro pubblicitaria, poiché ha comunque attirato l’attenzione dei mass me-dia e, se pur sono state più le critiche, che non i commenti positivi, di Assisi si è parlato tanto, e non solo a livello locale; per cui la risonanza mediatica è stata efficace, mettendo in risalto il ruolo del Comune. Altri sostengono che l’ordinanza abbia avuto matrice esclusivamente politica e ha prevenuto le paure derivanti dagli ultimi fatti di cronaca che hanno coinvolto rom ed extracomunitari, che con le loro violenze hanno destato preoccupazione nella gente, colmando in questo caso un bisogno civico di sicurezza.

Proprio sull’aspetto politico se vogliamo, l’amministrazione ha finora colto nel segno in quanto, oltre a soddisfare i residenti e il loro bisogno di protezione da parte delle isti-tuzioni, ha giovato soprattutto ai commercianti, poiché non sostare con cibi e bevande indurrebbe i turisti a frequentare maggiormente bar e ristoranti, con ripercussioni posi-tive sull’economia del territorio. Come già detto, sarebbe prematuro, vista la mancanza di sanzioni finora registrate a riguardo, dire che il tutto si è risolto in una bolla di sapone: nel nostro paese, anche se negli ultimi periodi vi sono state delle eccezioni (vedi la legge che prevedeva il divieto di fumare nei locali pubblici, fin da subito fatta rispettare), la tendenza è quella di assimilare la legge ed abituarsi progressivamente ad essa sia per i controllati che per i controllori, con una certa tolleranza nel periodo iniziale. Resta da vedere, quindi, nel prossimo periodo la rigidità con la quale sarà trattata la disposizione;

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personalmente credo sarebbe auspicabile la più completa ed esauriente informazione e divulgazione di quanto emesso, attraverso ad esempio i classici opuscoli di informazione turistica, o la pubblicazione del testo dell’ordinanza sul portale del comune, affinché almeno i turisti più abituati a documentarsi prima di partire per un viaggio, siano infor-mati e non si trovino di fronte a spiacevoli inconvenienti.

Una buona comunicazione istituzionale non solo potrà dare un’immagine esterna più efficace dell’amministrazione, ma renderà comunque più accettabile anche verso i critici più severi, il contenuto di quanto disposto.

Sarà comunque determinante il lavoro degli addetti al controllo di tale disposizione comunale: dovranno essere consapevoli di dover discernere il fenomeno del mero accat-tonaggio da quella che ormai si può definire un’industria del racket, in cui gente senza scrupoli non esita a mandare in strada bambini in tenera età o ad approfittare di storpi e mutilati e della compassione che questi generano nella gente. Vigilare con umanità ed intelligenza: un compito certamente arduo e troppo discrezionale, in cui il metro di valutazione è così soggettivo, che si rischia troppo rigore nell’applicazione delle sanzioni o, al contrario, una superficialità che renderebbe inutile l’ordinanza.

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Forum:un’idea di Perugia

Perugia e il ”XX Giugno”.Miti, storia, identità

Gianfranco MaddoliProfessore Ordinario di Storia Greca all’Università di Perugia

La nota di Franco Bozzi, Il XX Giugno: ancora mito fondativo?1 rievoca efficacemente clima e sentimenti di un certo ambiente “laico” (ma in questo caso sarebbe forse meglio dire “laicista”) nei confronti di un episodio perugino del nostro Risorgimento che ha avuto per lungo tempo una eco emotiva ed emblematica nella città che ne fu protagoni-sta. L’Autore, che di quei sentimenti è ancora pienamente partecipe, ma di cui lamenta la progressiva scomparsa, denuncia la “slavina culturale” che a suo avviso è in atto a Perugia, misurabile in particolare dall’oblìo in cui quella data è tenuta dalla cittadinanza e dalla stessa istituzione comunale. Una specifica responsabilità Bozzi attribuisce allo scrivente nel definitivo stemperamento del significato della celebrazione, «alla quale, essendo Sindaco Maddoli, è stato chiamato a partecipare anche l’Arcivescovo: e così il cerchio si è chiuso nel nome di un universalista embrassons-nous, che accogliendo tutte le opinioni non ne condivide in realtà più nessuna».2

Ritengo di aver titolo per replicare a una siffatta affermazione: non solo perché chia-mato in causa, ma anche nel merito del problema e nell’ottica risorgimentalista e laica del professor Bozzi. Per motivo di famiglia, anzitutto: chi si reca al civico cimitero di Perugia trova iscritto, nella lapide che figura sotto il portico d’ingresso in memoria dei veterani del 1848-‘49, il nome del mio bisnonno Federico Maddoli, partecipe come volontario della difesa della Repubblica di Venezia e della Repubblica Romana, nonché della spedizione dei Mille durante la quale perse un occhio sulle pendici dell’Aspromon-te! Ho le carte in regola con il Risorgimento. Ma non si tratta solo di questo: tra le perso-ne che hanno influito, sia pure con estrema discrezione, sulla mia formazione giovanile è stato quell’Averardo Montesperelli, mio zio acquisito, che viene giustamente citato da Bozzi tra le ultime personalità ancora sensibili al messaggio del XX Giugno 1859 e che io, Sindaco, invitai a parlare (insieme a un altro “laico” illuminato, Marcello Grego, mio professore al Liceo di Storia e Filosofia) di fronte al monumento del Frontone nell’“in-

1 “Diomede” n. 6, anno III, maggio-agosto 2007, pp. 48-55.2 Ibidem, p. 54. La commemorazione cui Bozzi si riferisce è del 1996.

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criminata” ricorrenza. Devo infine precisare che la “laicità” (non il “laicismo”!)3 non è e non potrà mai essere prerogativa di parte e che io, sebbene mi professi cristiano, sono particolarmente geloso del mio essere “laico”, cioè totalmente rispettoso dell’autonomia dello Stato repubblicano e democratico in cui vivo e dei valori costituzionali che ne sono alla base.

È su questi valori – libertà e laicità in primis (ma non sono i soli!) –, della cui percezio-ne abbiamo forse misura diversa e che derivano anche (ma non soltanto) dall’esperienza risorgimentale, che dobbiamo oggi incontrarci e confrontarci. Sono valori che fanno parte della conquista umana e che hanno trovato testimonianze in epoche diverse della storia, prima e dopo il Risorgimento, anche se il Risorgimento riveste per noi Italiani un significato del tutto particolare; cambiano, infatti, nel tempo i contesti storici e i soggetti che a quei valori fanno riferimento o che per altro verso li offendono. La Chiesa dello Stato temporale, grazie al Risorgimento, non esiste più, anche se non tutta accettò al momento la “provvidenziale” eversione e anche se oggi non mancano al suo interno segnali di involuzione rispetto agli orizzonti apertisi con il Concilio Vaticano II; e se in nome di questi più larghi orizzonti, che superano antiche barriere storiche, un arcivesco-vo (nella persona di Giuseppe Chiaretti, uomo colto e sensibile) fu invitato a partecipare alla celebrazione perugina del XX Giugno e quell’arcivescovo affermò in quella sede, insieme a tanti laici non credenti, il valore della libertas perusina, a me parve e pare – e non a me soltanto – un grande risultato di incontro su un valore finalmente riconosciuto come comune, al di là delle contingenze storiche, anche da parte dell’istituzione che un secolo e mezzo fa quel valore aveva offeso e negato, e che solo pochi decenni prima del 1996, nella persona dell’arcivescovo di Perugia Mons. Parente, ancora si rifiutava di rico-noscere. Del resto lo stesso Papa Giovanni Paolo II, in occasione della sua visita a Perugia nel 1986, non aveva taciuto le sofferenze arrecate alla città dal potere temporale, sanan-do, come ha affermato lo storico Luciano Tosi, una frattura nella storia di Perugia.4

Non dunque, nella celebrazione del 1996, un qualunquista embrassons-nous tra opi-nioni deboli e intercambiabili, come vorrebbe il professor Bozzi, ma una riaffermazione forte e condivisa della “libertà” di fronte a qualsiasi oppressore, anche di quello rivestito nei panni delle religioni che oggi torna di scottante attualità in una dimensione ormai divenuta globale. Nella mia valutazione quell’invito e quella partecipazione significa-rono, ben lungi da una sterilizzazione dell’evento, la riaffermazione definitiva della sua fecondità esemplare in un contesto ormai irreversibilmente mutato; il riconoscimento e la condivisione da parte di tutti del valore simbolico di quell’episodio.

Il XX Giugno di Perugia fa, infatti, parte, ormai, di un patrimonio di esempi conse-gnati alla Storia, come avviene di ogni evento per il trascorrere degli anni e dei secoli. Scrive Giulio Bollati a proposito della “grande guerra”5 che, se le battaglie di Campal-

3 Sul significato di questi termini vedi ora ampiamente E. Bromuri, Perugia, città laica o cattolica?, in “Diome-de” n. 8, anno III, gennaio-aprile 2008, pp. 43-51.4 L. Tosi, Non solo il XX Giugno. La visita di Giovanni Paolo a Perugia, in “Diomede”, n. 7, settembre-dicembre 2007, pp. 61-70. 5 in Storia d’Italia, 4*** (Dall’Unità a oggi), Torino, Einaudi, 1976 (premessa alle immagini).

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dino (1289) o di Pavia (1527) non hanno l’impatto emotivo di nomi come Podgora, Monte Nero, Ortigara, cioè quello di una catastrofe mitologica, è pur vero che «anche quel mito finirà per dissolversi». E forse, per l’attuale generazione, si è già dissolto. Non dobbiamo perciò troppo meravigliarci se la trasformata comunità cittadina, dopo cento-cinquanta anni, non avverte più emotivamente come “mito fondativo” l’episodio della resistenza perugina all’esercito dello Stato Pontificio. Né varranno a resuscitarlo le pate-tiche rievocazioni (così ormai appaiono ai più) messe in atto da alcuni “benedetti laici”. Del resto sappiamo bene come le ideologie risorgimentali abbiano alimentato nel secolo scorso anche dolorosi conflitti6 e non vorremmo che, nel suo piccolo, un rinnovato mito del XX Giugno servisse a riproporre a livello locale superati conflitti ideologici di cui non si avverte certo il bisogno.

«Tutti gli uomini del Risorgimento» – scriveva Adolfo Omodeo a introduzione de L’età del Risorgimento italiano7 –

dal Mazzini al Cavour, da Garibaldi al Settembrini avevan coscienza di lavorare e di soffrire oltre che per l’Italia per un ideale universalmente umano, che valeva per tutti i popoli [...]. Nel nesso organico della storia umana è il significato e la grandezza del Risorgimento.

Non nelle piccole, attardate e spesso strumentali polemiche locali. Sono ben altri, oggi, gli orizzonti – a livello nazionale e soprattutto mondiale – verso i quali mobilitarsi in nome degli indiscutibili valori richiamati anche dalle cosiddette “stragi di Perugia”: sono gli orizzonti di ogni parte del mondo ove si verificano ancora guerre e genocidi, oppressioni di libertà e imperialismi, fondamentalismi e negazioni della democrazia e della libertà di coscienza. E insieme gli orizzonti di casa nostra, ad esempio con le dram-matiche quotidiane “stragi” sul lavoro, e molto altro.

Nessuno dovrà negare il valore emblematico del XX Giugno perugino, soprattutto nella città che ne è erede, ma neanche scandalizzarsi se esso non riesce più a mobilitare le coscienze delle nuove generazioni; anche nell’inevitabile affievolirsi della memoria esso può tuttavia “tramutarsi”, come del resto lo stesso intervento di Bozzi sollecita, «in una occasione preziosa per riflettere e misurarsi». Anzitutto sul cambiamento di Perugia, che giustamente il Professore richiama e sottolinea: su quello già avvenuto, su quello attual-mente in corso, sulle prospettive future.

Sarebbe miope voler negare le trasformazioni positive che negli ultimi decenni la Cit-tà ha vissuto nel processo di “modernizzazione”: dal ruolo delle sue Università e delle sue istituzioni culturali alla razionalizzazione del sistema sanitario, e in particolare alla riforma della psichiatria, dalla qualificazione e internazionalizzazione di tante sue impre-se8, alla riorganizzazione e alle innovazioni nei sistemi di trasporto fino al recentissimo Minimetrò. Ma altrettanto realisticamente occorre non nascondersi gli aspetti negativi e

6 E. Ragionieri, La “grande guerra” e l’agonia dello stato liberale, ibidem, p. 1961 ss.7 A. Omodeo, L’età del Risorgimento italiano, Napoli 1942, p. 12 s. della ristampa anastatica (Napoli 1996). Nell’opera, pur ampia, l’episodio perugino non è menzionato.8 Su questo aspetto si veda l’analisi di R. Ranieri, L’Umbria e le multinazionali, in “Diomede” n. 6, settembre-dicembre 2007, p. 57-61.

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quelli che comunque ne rendono incerto il futuro. Perugia all’inizio del XXI secolo non è più né potrà tornare ad essere solo “la città

del XX giugno” nel senso, se non altro, che ben più ampio dovrà essere l’impegno della Città a recuperare e ridefinire la propria identità culturale, che è fatta di storia – di una lunga storia – con i segni che questa ha lasciato, ma anche di profonde innovazioni, e di comprensione attiva di quella storia e di quelle innovazioni da parte degli uomini che oggi ne costituiscono la comunità. Fino a pochi decenni fa Perugia era la città dentro le mura antiche, che emblematicamente ne richiamavano due tratti identitari fondamen-tali: l’esperienza etrusca e quella comunale medioevale, connotata quest’ultima da una forte impronta cristiano - cattolica9 in un’Umbria decisivamente segnata dai messaggi di Benedetto da Norcia e Francesco di Assisi. Entro quella cerchia si svilupparono poi le fasi successive, da quella umanistica dei suoi grandi artisti, ma anche del governo pontificio a quella ottocentesca con la partecipazione (ma anche le opposizioni) ai moti risorgimentali, fino alla più recente vicenda del Fascismo e della Resistenza.

Protetti da quelle mura, che facilitavano conoscenze e comunicazione, non era difficile per i cittadini di Perugia mantenere accesa la consapevolezza della propria identità attra-verso il dibattito civile e la quotidiana memoria evocata dai monumenti. Ma nel corso della seconda metà del Novecento, nel volgere di pochi anni, Perugia, come molte altre città italiane, ha conosciuto una travolgente trasformazione urbanistica, una dispersione dei suoi abitanti, un’accentuazione delle tendenze individualiste, cui fa riscontro un in-debolimento della partecipazione politica, un’assuefazione ai modelli consumistici ben simboleggiato dal moltiplicarsi degli iper-mercati, l’affievolirsi se non l’assenza di radici culturali locali in larga parte delle nuove generazioni, da ultimo una progressiva infiltra-zione di presenze straniere di difficile amalgama, portatrici di altre culture e di altre sen-sibilità, ignare della nostra storia. Di fronte a questo quadro, che è preoccupante quanto realistico, pensare a Perugia come alla “città del XX giugno” è a dir poco inadeguato; in questi ultimi decenni con la trasformazione urbanistica si è trasformata la stessa idea di “città”. La nuova Perugia deve ritrovare una sua identità alla luce delle nuove coordinate, senza disperdere ovviamente il secolare patrimonio della sua storia, della quale fanno parte anche gli eventi del 1859, ma certo non essi soltanto.

Scriveva un grande storico antico, Tucidide, che la città, prima ancora che dalle mura e dalle case, è costituita dagli uomini che la compongono: ai cittadini della Perugia di inizio terzo millennio, e ai loro governanti, spetta l’onere non facile di rinsaldare l’iden-tità comunitaria accogliendo la sfida della “modernità” e della globalizzazione. Le mura, le case, i monumenti – soprattutto quelli della vecchia città –, insieme con il paesaggio, conservano in quanto memoria della storia un ruolo fondamentale nella conservazione e nel recupero di un’identità oggi a forte rischio, ma sta soprattutto a chi ha il compito

9 Giustamente Mons. Bromuri, intervenendo nel presente forum (cit. a n. 3), ricorda come questa impronta si sia mantenuta viva nel tempo fino al XX secolo, nonostante voci e aree di cittadini non credenti o decisamente avversi alla Chiesa cattolica (singolare, fra l’altro, la dimensione delle esperienze massoniche), e nonostante la connotazione politica di sinistra delle amministrazioni cittadine e della base che le esprimeva. Ma qui la riflessione deve farsi necessariamente più articolata e non è questa la sede per svilupparla.

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di salvaguardarli e valorizzarli, insieme alla scuola in tutti i suoi livelli, di farli parlare alle nuove generazioni, e in particolare a quella fascia sempre più consistente di popolazione straniera che oggi passa sotto l’Arco Etrusco o accanto alla Fontana Maggiore o, se vo-gliamo, al monumento al XX Giugno senza percepire e capire le ragioni e il significato di quei documenti lasciati dal passato.

Per quanto si possa auspicare che gli anonimi quartieri periferici, nei quali ci si orienta per lo più in base alla presenza emergente di un grande edificio commerciale sostituitosi alla chiesa in epoca di religione del mercato, possano trovare col tempo una forma di reale aggregazione interna e con il nucleo più antico della città (in questo senso il Mini-metrò, soprattutto se sviluppato ulteriormente, potrà esercitare una funzione importan-te), è e resterà il vecchio centro storico – bene culturale complesso quanto delicato – il fattore simbolico capace di fornire un’anima all’identità di Perugia, così come avviene per tutte le città millenarie del mondo, da Atene a Istanbul, da Roma a Città del Messi-co. Di qui la necessità e l’urgenza, come ho detto, di educare alla storia, a tutta la nostra storia, a partire dal rispetto e dalla valorizzazione di quel libro aperto che è costituito dal paesaggio, dalle mura, dalle strade, dai monumenti di ogni tipo e di ogni epoca, ciascuno recante un messaggio per chi sia messo in condizione di leggerlo: monumenti che parlano, ma che hanno altresì bisogno di rivolgersi a qualcuno che intenda il loro linguaggio. E oggi questi ultimi sono sempre in minor numero. È dunque necessario riflettere sull’identità di Perugia e alimentarla di continuo, rafforzando e allargando la cerchia di coloro che vi si riconoscano: identità è memoria della storia, di tutta la storia della città, ma è insieme progettazione del suo futuro.10 Se non si vuole che il recupero della memoria storica divenga solo un guscio di rifugio, occorre coniugarlo con una de-cisa assunzione di responsabilità di fronte alle problematiche del presente, occorre cioè un’identità anche di prospettiva. E qui tutte le energie vive della città vanno coinvolte.

Non mancano le esperienze positive in atto in questa direzione, ma in questo mo-mento sono forse insufficienti di fronte all’irruente cambiamento della cittadinanza e dei suoi valori di riferimento. Quando si assiste allo svuotamento progressivo di alcuni quartieri della vecchia città, con i veri residenti sostituiti da rappresentanti (in molti casi sfruttati e spesso irregolari) delle più svariate etnìe e lingue; quando si constata il continuo consumo di territorio attraverso una cementificazione spesso non necessaria, che distrugge verde e paesaggio e mal si concilia con i dichiarati intenti di una politica a favore del centro storico; quando la politica non reagisce adeguatamente alla spinta del “mattone”, che di recente ha rivelato anche preoccupanti risvolti dai possibili esiti penali; di fronte all’estendersi delle fasce di disagio sociale, in particolare giovanile; a una diffusa incuria per il decoro urbano; a una ormai dilagante trasformazione di vecchie botteghe e di fondi in abitacoli oscuri da affittare a studenti esterni alla cittadinanza (e non si sa se sia più grave il loro essere abusivi o autorizzati!); quando si percorrono, da pedoni spesso con fatica e disagio, vie, piazze e angoli di una splendida città d’arte ridotti

10 Si vedano in proposito, in questa Rivista (n. 7, 2007, p. 15 ss.) gli interventi al Forum: la forma perduta della città, in particolare B. Bracalente, Sviluppo economico e qualità dei centri storici.

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a garages permanenti: allora si fa più forte il timore per la perdita di un’identità di Peru-gia fondata su una storia e una cultura millenaria e per il rischio che essa resti impressa nell’immaginario collettivo solo come la città della povera Meredith Kercher o quella dal più dolce, consumistico volto di Eurochocolate e di altre effimere manifestazioni.

Non che manchino i tentativi, più o meno decisi e coerenti, di reagire a questi sintomi: i recenti progetti del Comune per una diversa politica del traffico, ad esempio, vanno finalmente in controtendenza, ma dovranno essere accompagnati da tutto un “sistema” di interventi coerenti che saranno probabilmente ostacolati da inveterate abitudini nega-tive dei cittadini o da accondiscendenti e politicanti cedimenti. Né va dimenticato certo il silenzioso e duro lavoro di tanti soggetti, a cominciare dai servizi sociali comunali e dal quotidiano impegno della Caritas. Resta tuttavia oggi impresso nel diffuso sentire dei cittadini un senso di disagio e di presa di distanza dalle Istituzioni che non può non pre-occupare. Il più recente Rapporto Censis11 sottolinea e analizza «la continua inclinazione al peggio che attraversa quotidianamente l’opinione degli italiani, indotta e supportata anche da contenuti e toni della comunicazione di massa» e il rischio di restarne prigio-nieri senza capire il meccanismo globale che ne è alla base.

Sono sintomi, quelli che ho appena enunciati, e altri ancora, di complesse dinamiche globali e di diversificate problematiche economiche e sociali alle quali non possiamo peraltro sottrarci, ma anche di precise scelte amministrative. Né possiamo restare, cito ancora il Rapporto,

in nessuna delle passive accettazioni dell’entropia che ci sta consumando. Occorre saper elaborare nuove offerte di cultura collettive, incardinate nella fedeltà all’idea e alla prassi del nostro sviluppo storico, antico e recente.

In questa riscoperta e valorizzazione delle energie nascoste nella società perugina, ar-ricchita – e non solo disturbata! – anche dagli apporti di altre culture, non c’è posto per attardate distinzioni e superate polemiche di marca ottocentesca. E il non infondato timore di perdita di un’identità deve spingerci con urgenza, oltre i “miti”, alla sollecita-zione delle responsabilità e all’impegno personale.

11 Rapporto sulla situazione sociale del Paese , Milano, Franco Angeli, 2007, Considerazioni generali, p. XI ss..

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Le stragi del XX Giugno nei versi di un poeta quacchero e abolizionista americano:

“From Perugia” di John Greenleaf Whittier

Cinzia LatiniProfessoressa di Materie letterarie e docente all’Università per Stranieri

Anche per me, perugina d’adozione, fu piuttosto sorprendente scoprire come i fatti del XX Giugno fossero così vivi nella coscienza popolare, tanto da essere ancora solenne-mente celebrati, e fossero un tratto saliente dell’identità storica cittadina, di cui ogni pe-rugino è tuttora ben consapevole.1 So che Franco Bozzi non sarebbe del tutto d’accordo, ma la mia affermazione è dovuta a quelle vicende della mia vita che mi hanno condotta a lavorare, per un certo periodo, nella segreteria del Sindaco di Perugia. Con quanta cura, amore ed attenzione era preparata l’agenda celebrativa del XX Giugno! Ogni avveni-mento che ne faceva parte era attentamente valutato dal Sindaco e dai suoi collaboratori ed era selezionato sulla base del suo significato nel contesto della vita cittadina.

Ciò ha rafforzato la mia constatazione di come Perugia, a differenza di altre città italiane, mantenga nel suo immaginario collettivo, se vogliamo mettere la questione in questi termini, l’idea del XX Giugno come fondante per la Perugia democratica e laica che tuttora si vanta di essere.

Non tornerò sulla storia già nota ai lettori, ma passerò ad illustrare una ricaduta, forse inattesa, di tali vicende, che consiste nella scoperta di una testimonianza d’Oltreoceano di cui non c’era traccia negli studi condotti fino ad oggi –, e quello di Romano Ugolini rappresenta la sintesi migliore2 e sicuramente più nota.

Com’è noto quanto accadde nel giugno 1859, ebbe una vasta eco sulla stampa, anche su quella internazionale,3 ed in particolare su quella in lingua inglese, poiché in tali vicis-situdini fu coinvolta anche una famiglia americana, i Perkins, che, impegnati nel “Gran

1 Mi ricollego al primo intervento del Forum sul XX Giugno, aperto da “Diomede”, e in particolare all’articolo di apertura di Franco Bozzi, “Diomede”, n.6, 2007, pp. 55-62.2 R. Ugolini, Cavour e Napoleone III nell’Italia centrale. Il sacrificio di Perugia, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, 1973.3 G.B. Furiozzi , L’Umbria nel Risorgimento, Perugia, 2000, p. 48 (seg.ti. Furiozzi).

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Tour” europeo, alloggiavano a Perugia presso l’Albergo di Francia, nella zona di Corso Cavour. Anche il proprietario dell’albergo, Giuseppe Storti, fu trucidato ed i Perkins, benché il capofamiglia avesse lautamente pagato per l’incolumità dei suoi cari, furono derubati dei loro averi ed ebbero salva la vita solo grazie all’intercessione di un soldato svizzero, tale Ernest Wellauer.4

L’ambasciatore americano a Roma, lo Stockton, protestò presso l’Antonelli per quanto occorso ai Perkins e l’accaduto fu riportato al Congresso americano, dove l’allora presi-dente James Buchanan prese l’impegno di avere le dovute scuse dalla Santa Sede.5

Oggetto della mia ricerca6 è la poesia From Perugia, qui di seguito riportata e tradotta, composta dal poeta americano John Greenleaf Whittier (Haverhill 1807 – Hampton Falls 1892) sull’onda di tali eventi, che forse ebbe modo di conoscere dalla stampa di Washington, con cui aveva importanti ed intensi contatti.

Whittier7 è stata una figura di primissimo piano nel panorama letterario degli Sta-ti Uniti dell’800, tanto che il “New York Times”8 lo definì “il poeta vivente preferito dall’America”. Ebbe una vastissima fama, testimoniata anche dal fatto che ci sono tut-tora due città che portano ancora il suo nome, Whittier, in Alaska e l’altra omonima in California. Nel 1940 la sua effige venne riprodotta su una serie di francobolli statuniten-si che celebravano le glorie letterarie nazionali.

John Greenleaf Whittier nacque nel 1807 ad East Haverhill, da una devota famiglia di contadini quaccheri. Visse l’infanzia nella casa che da due secoli apparteneva ai suoi antenati, in un ambiente molto rigoroso, immerso nella natura. La vita rurale, la sobrietà dei costumi, il senso della natura, degli affetti familiari, sarebbero stati i tratti salienti della sua opera, insieme al forte senso religioso, all’anelito alla giustizia ed alla fratel-lanza tra gli uomini. Completò la sua formazione da autodidatta e ben presto si dedicò alla scrittura, pare dopo la lettura delle poesie di Burns. L’abolizionista William Lloyd Garrison lo sostenne ed incoraggiò nei suoi primi passi. Con le raccolte Legends of New England e Moll Pitcher inizia ad essere conosciuto al grande pubblico. Nel 1833 è tra i membri della prima Convention anti-schiavitù che si tenne a Philadelphia. Whittier fu un convinto sostenitore della causa antischiavista e la sua appartenenza alla “Società degli Amici”, ebbe non poca influenza.

La attività di giornalista-editore è un altro tratto di rilievo nella biografia di Whittier. Infatti, nel 1838, si trovava a Philadelphia, dove dirigeva il “Pennsylvania Freeman”, una pubblicazione della Società anti schiavista. La sede del giornale subì un incendio doloso e, poco dopo, tornò ad Amesbury per ricongiungersi ai suoi famigliari che avevano or-mai venduto l’antica proprietà di Haverhill. Si occupò nel 1844 della pubblicazione del

4 In U. Ranieri di Sorbello, Perugia della Bell’Epoca, Perugia, 1969 p. 20. Mentre Montesperelli, Perugia nel Risorgimento 1830 - 1860, Perugia,1996, p. 83, riporta il cognome con grafia diversa, Villaor.5 Furiozzi, p. 55.6 La poesia è stata segnalata da Sandro Portelli su “Il Manifesto” del 6 gennaio del 2001. 7 Per la biografia sono stati consultati i seguenti siti: college.cengage.com, poets.org, poemhunter.com, ha-verhill.org.8 “New York Times” del 23 gennaio 1887.

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“The Middlesex Standard” e successivamente del “National Era”, a Washington. Altro aspetto importante nella vita di Whittier fu quello politico. Whittier fondò, infatti, l’Antislavery Liberty party nel 1840, che rappresentò al Congresso del 1842. Da tale formazione si sarebbe poi evoluto il partito repubblicano.

Snow-Bound pubblicato nel 1866, lo consacrò definitivamente come poeta e lo collocò nella cerchia dei “Fireside poets”. I poeti di questa corrente si caratterizzavano per il tono moraleggiante, la sensibilità politica, per la metrica adatta alla memorizzazione.9

Le scrittrici Sarah Orne Jewett e Annie Fields furono legate a lui da profonda amicizia. Negli ultimi anni della sua vita, ormai famoso e celebrato in tutto il paese, fu festeggiato per i suoi settanta anni, con un pranzo cui presero parte personaggi come Ralph Wal-do Emerson, Henry Wadsworth Longfellow, Mark Twain, Oliver Wendell Holmes. Si spense nel 1892.

Oggi forse non apprezziamo la quantità “alluvionale” degli scritti, in prosa e in versi, di Whittier, se non per il loro valore di testimonianza sull’America dell’età preindustriale.

FROM PERUGIA10

The thing which has the most dissevered the people from the Pope,– the unforgivable thing,– the breaking point between him and them,– has been the encouragement and pro-motion he gave to the officer under whom were executed the slaughters of Perugia. That made the breaking point in many honest hearts that had clung to him before, Harriet Bee-cher Stowe’s, “Letters from Italy”.

The tall, sallow guardsmen their horsetails have spread, 1Flaming out in their violet, yellow, and red;And behind go the lackeys in crimson and buff,And the chamberlains gorgeous in velvet and ruff;Next, in red-legged pomp, come the cardinals forth, 5Each a lord of the church and a prince of the earth.

What’s this squeak of the fife, and this batter of drumLo! the Swiss of the Church from Perugia come;The militant angels, whose sabres drive homeTo the hearts of the malcontents, cursed and abhorred, 10The good Father’s missives, and “Thus saith the Lord!”And lend to his logic the point of the sword!

O maids of Etruria, gazing forlorn

9 Per approfondimenti ulteriori si rimanda a poets.org.10 Il testo è tratto dal sito www.gutenberg.org/etext/9580. Anti-Slavery, Labor and Reform, Complete from Volume III., the Works of Whittier: Anti-Slavery Poems and Songs of Labor and Reform. La poesia è riportata con la data errata del 1858 , preceduta da una breve citazione tratta da Harriet Beecheer Stowe, che è stata riportata integralmente. METRICA – Strofe di sei versi con schema metrico prevalente AABBCC.

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O’er dark Thrasymenus, dishevelled and torn!O fathers, who pluck at your gray beards for shame! 15O mothers, struck dumb by a woe without name!Well ye know how the Holy Church hireling behaves,And his tender compassion of prisons and graves!

There they stand, the hired stabbers, the blood-stains yet fresh,That splashed like red wine from the vintage of flesh; 20Grim instruments, careless as pincers and rackHow the joints tear apart, and the strained sinews crack;But the hate that glares on them is sharp as their swords,And the sneer and the scowl print the air with fierce words!

Off with hats, down with knees, shout your vivas like mad! 25Here’s the Pope in his holiday righteousness clad,From shorn crown to toe-nail, kiss-worn to the quick,Of sainthood in purple the pattern and pick,Who the role of the priest and the soldier unites,And, praying like Aaron, like Joshua fights! 30

Is this Pio Nono the gracious, for whomWe sang our hosannas and lighted all Rome;With whose advent we dreamed the new era beganWhen the priest should be human, the monk be a man?Ah, the wolf ’s with the sheep, and the fox with the fowl, 35 When freedom we trust to the crosier and cowl!

Stand aside, men of Rome! Here’s a hangman-faced Swiss--(A blessing for him surely can’t go amiss)--Would kneel down the sanctified slipper to kiss.Short shrift will suffice him,--he’s blest beyond doubt; 40But there ‘s blood on his hands which would scarcely wash out,Though Peter himself held the baptismal spout!

Make way for the next! Here’s another sweet sonWhat’s this mastiff-jawed rascal in epaulets done?He did, whispers rumor, (its truth God forbid!) 45At Perugia what Herod at Bethlehem did.And the mothers? Don’t name them! these humors of warThey who keep him in service must pardon him for.

Hist! here’s the arch-knave in a cardinal’s hat,With the heart of a wolf, and the stealth of a cat 50(As if Judas and Herod together were rolled),

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Who keeps, all as one, the Pope’s conscience and gold,Mounts guard on the altar, and pilfers from thence,And flatters St. Peter while stealing his pence!

Who doubts Antonelli? Have miracles ceased 55When robbers say mass, and Barabbas is priest?When the Church eats and drinks, at its mystical board,The true flesh and blood carved and shed by its sword,When its martyr, unsinged, claps the crown on his head,And roasts, as his proxy, his neighbor instead! 60

There! the bells jow and jangle the same blessed wayThat they did when they rang for Bartholomew’s day.Hark! the tallow-faced monsters, nor women nor boys,Vex the air with a shrill, sexless horror of noise.Te Deum laudamus! All round without stint 65The incense-pot swings with a taint of blood in ‘t!

And now for the blessing! Of little account,You know, is the old one they heard on the Mount.Its giver was landless, His raiment was poor,No jewelled tiara His fishermen wore; 70No incense, no lackeys, no riches, no home,No Swiss guards! We order things better at Rome.

So bless us the strong hand, and curse us the weak;Let Austria’s vulture have food for her beak;Let the wolf-whelp of Naples play Bomba again, 75With his death-cap of silence, and halter, and chain;Put reason, and justice, and truth under ban;For the sin unforgiven is freedom for man!

DA PERUGIA

La cosa che più ha allontanato la gente dal Papa, la cosa che non si può perdonare, il punto di rottura tra lui e loro, è stato l’incoraggiamento e la promozione che ha dato all’ufficiale11

sotto cui furono compiute le stragi di Perugia. Questo ha costituito il punto di rottura in molti cuori onesti che prima gli erano fedeli, da Harriett Beecher Stowe, “Letters from Italy”.

Le alte e terree guardie hanno sciolto le loro code di cavallo, fiammeggianti nei loro colori viola, gialli e rossi, dietro vanno i lacchè in cremisi e cuoio,

11 Trattasi della promozione a Generale del Colonnello Schmid, Comandante delle truppe mercenarie.

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i camerlenghi nei loro sgargianti velluti e gorgiere, poi nella pompa delle loro rosse calzature vengono avanti i cardinali, ognuno Signore della Chiesa e principe della terra.

Cos’è questo suono acuto dei pifferi ed il rollio dei tamburi?Ecco che tornano gli Svizzeri della Chiesa da Perugia ,gli angeli militanti le cui sciabole incidono nei cuori dei malcontenti, maledetti ed aborriti, le parole del buon Padre, così disse il Signore!E prestano a questa logica la lama della spada.

O donne dell’Etruria che abbandonate guardate il suo cupo Trasimeno, lacero e scar-migliato!O padri che strappate le vostre barbe per la vergogna!O madri, ammutolite per una pena senza nome! Ben conoscete come si comporta chi è al soldo della Santa Chiesa, e la sua tenera com-passione di tombe e prigioni.

Eccoli gli assassini prezzolati, le macchie di sangue ancora fresche, che sgorgano come vino rosso dal macero delle carni.Sinistri strumenti, spietati come ruote e tenaglie,come spezzano le giunture e fendono i tendini tesi,ma l’odio che riverbera da loro è tagliente come le loro spade ed i loro sguardi e ghigni imprimono nell’aria feroci parole.

Giù i cappelli, in ginocchio, urlate i vostri viva come folli!Ecco il Papa nel suo sontuoso vestito del giusto,dalla chierica incoronata ai suoi piedi consumati dai baci dei lesti, disegni e trame di santità in porpora, colui che unisce il ruolo del sacerdote e del soldatoche prega come Aronne e combatte come Giosuè.

È costui, sua grazia Pio IX, per il quale noi abbiamo cantato i nostri osanna e illumi-nato Roma,il cui avvento, abbiamo sognato come l’inizio in una nuova era,in cui i preti fossero umani ed i monaci uomini? Ah il lupo con la pecora, la volpe con la colomba,quando affideremo la libertà alla tonaca ed al pastorale!

Fatevi da parte, uomini di Roma! Ecco uno Svizzero col viso da boia, una benedizione non gli si può di certo negare, si piegherà per baciare la sacra pantofola. Una breve espiazione basterà per lui, è assolto al di la’ di ogni dubbio, ma c’è sangue sulle sue mani che a stento lo stesso Pietro potrebbe lavare,

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se fosse lui a versare l’acqua battesimale.

Fate largo al prossimo! Ecco un altro mansueto figlio,Cos’ha fatto questa canaglia gallonata dalla mascella di mastino. Lui, sussurrano le voci, (Dio ce ne guardi, fosse vero!)ha fatto a Perugia quello che ha fatto Erode a Betlemme.E le madri? Non nominatele! Queste ironie della Guerra!Chi lo ha assoldato lo deve perdonare.

Tacete! Ecco il furfante matricolato col cappello da cardinale,12 dal cuore di lupo e la malizia del gatto(come se Giuda ed Erode fossero un tutt’uno),che custodisce sia la coscienza del papa che il suo oro,fa la guardia all’altare e da li ruba furtivo,loda San Pietro e lo deruba degli spiccioli.

Chi dubita di Antonelli? Sono finiti i miracoli quando i ladri dicono messa e Barabba fa il prete?Quando la Chiesa mangia e beve al suo mistico banchettola vera carne ed il vero sangue tagliati e lacerati dalla sua spada, quando il suo martire, senza nemmeno una bruciatura, si infila la corona in testa e arrostisce, invece, il suo prossimo come il suo protettore.13

Ecco! Le campane strepitano e stridono nello stesso modo benedetto in cui suonarono nel giorno di Bartolomeo.14

Ascoltate i mostri dalle pallide facce, ne’ donne ne’ uomini,opprimono l’aria con uno stridente ed asessuato orrore di suono. Te deum laudamus! Tutt’intorno senza posal’incensiere oscilla macchiato di sangue.

Ed ora per benedizione! Di poco conto, lo sapete, è quanto in antico ascoltarono sulla Montagna.15

Colui che ha donato era senza terra, la sua veste era povera, il suoi pescatori non portavano tiare ingioiellate, non avevano incenso, lacchè, case,ricchezze, né guardie svizzere! Noi possiamo disporre di meglio a Roma

Dunque ci benedica la mano forte e ci maledica quella debole,che l’avvoltoio dell’Austria abbia cibo per il suo becco,fate che il figlio del lupo di Napoli si comporti di nuovo come Bomba,16

12 Trattasi del Cardinale Antonelli.13 Riferimento al martirio di San Lorenzo.14 Allusione alla strage degli Ugonotti avvenuta a Parigi nel 1527.15 È un riferimento al discorso evangelico sulla Montagna.16 Rispettivamente Francesco II e Ferdinando II di Borbone.

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con il suo manto mortale di silenzio, il capestro e le catene ,bandite la ragione, la giustizia e la verità perché il peccato non perdonato è la libertà dell’uomo!

A mo’ di commento si nota che la poesia è composta da strofe di sei versi, con rime che facilitano la memorizzazione. Il commento storico si presenta di particolare difficol-tà. Whittier è un poeta che, con sentire da poeta, descrive quanto a lui noto dei fatti di Perugia. L’elemento conduttore è una feroce polemica contro la Chiesa cattolica e le sue istituzioni. A questo sicuramente non era estraneo il suo credo religioso, lo stesso che portò i padri pellegrini a sbarcare a Cape Cod, non lontano da dove il nostro è nato e risiedeva. Tutta la polemica si ritrova nell’ultimo verso, dove la libertà dell’uomo e gli atti che ne conseguono, non possono avere per giudice che il solo Iddio.

Bibliografia

G.B. Furiozzi, L’Umbria nel Risorgimento, Perugia, 2002.A. Montesperelli, Perugia nel Risorgimento 1830- 1860, Perugia, 1996 seconda ed.U. Ranieri, Perugia della Bell’Epoca, Perugia, 1969.R. Ugolini, Cavour e Napoleone III nell’Italia Centrale. Il sacrificio di Perugia, Roma,1973.

Sitografia

http://college.cengage.comwww.essexheritage.orgwww.gutemberg.org www.haverhillpl.orgwww.johngreenleafwhittier.comwww.whittierhome.orgwww.poemshunter.orgwww.poets.org

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Il movimento socialista tra craxismo e tangentopoli:il magistrato perugino prestato alla politica.

Intervista a Giorgio Casoli

Ruggero Ranieri e Rita FloridiDocente di Storia Economica – Docente di scienze naturali, chimica e geografia al Liceo

scientifico“G. Alessi” di Perugia

Giorgio Casoli, magistrato, entra in carriera nel 1952 e si dimette con il grado di Procura-tore Generale Aggiunto presso la Suprema Corte di Cassazione. Fu Sindaco di Perugia dal 7 luglio 1980 al 24 maggio 1987 e Senatore della Repubblica nel PSI dal 1987 al 1992. Vice Presidente delle Commissioni Bicamerali per la Riforma del Codice di Procedura Penale, Capogruppo in Commissione Giustizia e Commissione per gli Affari Costituzionali, Sottose-gretario di Stato al Ministero delle Poste e Comunicazioni. È stato fra l’altro, Vice Presidente nazionale dell’ANCI.

Senatore Casoli, Lei si onora di un prestigioso curriculum sia professionale sia politico, ed è oggi una delle figure storiche del movimento socialista in Umbria. Abbiamo pensato che una serie di interviste tese a ricostruire le principali famiglie politiche dell’Umbria non sarebbe stata completa senza il suo apporto. Cercheremo, quindi, con Lei di ricostruire sia la sua per-sonale esperienza della vita politica, ma anche culturale e sociale, della nostra Regione, sia, in particolare, il ruolo da Lei svolto nel partito socialista.

Ho cominciato la mia carriera politica piuttosto tardi. Non ho, infatti, un retroterra di partito, non ho fatto mai politica fino al 1980. Dopo essermi laureato a Perugia nel 1950 in Giurisprudenza, fui assistente universitario e feci anche pratica presso lo studio di Piero Calamandrei a Firenze. Poi, dato che lo stipendio di assistente era piuttosto modesto, sono arrivato alla magistratura. Ho cominciato la carriera di magistrato a Pe-rugia nell’aprile del 1952; nel 1955 fui trasferito alla pretura di Assisi e dopo sette anni mi trasferii a Perugia presso il tribunale, dove mi fu affidata la dirigenza dell’Ufficio istruzione penale.

Negli anni 70 fui trasferito con funzioni di appello a Milano, prima come consigliere

Incontri & Profili

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della Corte di Appello, poi come Presidente della Corte di Assise di Appello. In quella sede ebbi occasione di occuparmi di processi contro le Brigate rosse e contro la delin-quenza organizzata. Furono anni molto esaltanti, ma molto pericolosi perché processare brigatisti del calibro di Curcio, Franceschini, Ognibene ed esponenti della criminalità come Vallanzasca ed altri non era senza rischio. A Milano ebbi occasione di frequentare ambienti culturali come il Circolo filologico ed il Circolo della stampa, presso il qua-le, tra l’altro partecipai insieme a Soldati ed a Zucconi alla presentazione del libro di Luciano Radi (Buongiorno onorevole). Come massone ero solito partecipare a periodici dibattiti culturali che registravano la presenza di personaggi qualificati anche del mondo ecclesiastico, tra i quali Padre Esposito. Frequentavo anche il Circolo Turati, dove si di-battevano i temi politici di particolare attualità tra i quali il divorzio. Come magistrato, pur manifestando il mio pensiero laico, non facevo parte di nessun partito, ma ebbi occasione di conoscere Craxi e questo mi avvicinò alla politica attiva.

Nel 1980 mi fu proposto di fare il capolista del PSI a Perugia in occasione delle ele-zioni amministrative. La scelta cadde su di me, sia perché la celebrazione di processi importanti mi aveva conferito una certa notorietà nazionale, sia perché – e soprattutto – avrei rappresentato una novità per Perugia, abituata ad eleggere uomini di apparato. In sostanza rappresentavo una svolta di novità, di cui già allora si avvertiva l’esigenza. Ini-zialmente mi fu proposto di partecipare come indipendente ma, pur essendo inesperto, intuii che se mi fossi presentato fuori del partito sarei stato scaricato alla prima occasione sfavorevole. Pertanto, sia pure con qualche iniziale riluttanza, il partito si mobilitò a sostegno della mia candidatura. L’operazione ebbe un particolare successo perché i socia-listi raddoppiarono i loro suffragi e le mie preferenze raggiunsero un livello sconosciuto a Perugia.

Se pure, come Lei dice, nel periodo precedente alla sua candidatura a Sindaco di Perugia non aveva partecipato alla vita di partito in Umbria, sarebbe comunque interessante cono-scere il suo giudizio sul dibattito politico nella regione degli anni Cinquanta e Sessanta.

Francamente ero un cittadino che ascoltava e non ero immerso nella vita politica. I miei interessi e le mie frequentazioni riguardavano essenzialmente l’ambiente universi-tario, che non avevo mai del tutto abbandonato, e l’ambiente culturale giuridico con partecipazione a congressi in Italia ed all’estero. Anche quando stavo a Perugia avevo un particolare rapporto con Firenze alla quale mi avevano avvicinato il prof. Carlo Furno ed il maestro Siciliani, divenuto nel frattempo direttore del Maggio Musicale Fiorentino. In quella città frequentavo anche l’ambiente de “Il Ponte”, una rivista in quel tempo assai prestigiosa, alla quale collaboravano studiosi di grande livello. Ricordo che fin dagli anni ‘50 ho partecipato a convegni che si tenevano anche all’estero e precisamente in Polonia, Francia e Spagna, anche grazie alla presenza in Perugia del Centro Magistrati “Luigi Severini”, che svolgeva un ruolo di informazione e di approfondimento delle tematiche della giustizia sotto il profilo internazionale.

Lei è perugino?

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Sono nato a Fabro, dove mia madre esercitava la professione di maestra elementare; sono poi andato a Città della Pieve, dove ho fissato la mia dimora. Ho frequentato il ginnasio ed il liceo ad Orvieto, salvo una pausa di un anno nel quale frequentai il liceo di Perugia. Nella stessa Perugia ho conseguito la laurea in Giurisprudenza.

Negli anni Sessanta quale era il clima culturale di Perugia?

Era molto diverso da oggi, molto più vivace e qualificato; il centro storico rappresenta-va il cuore della città ed i cittadini avevano a cuore che le sue strutture fossero particolar-mente qualificate e curate. Sia l’Università italiana, sia quella per Stranieri erano tenute in alta considerazione a livello nazionale, sia per la qualità dei docenti che per il livello degli studenti. Particolare prestigio avevano le Facoltà di Giurisprudenza e di Medicina nelle quali si susseguirono personaggi che hanno avuto un ruolo determinante nella vita scientifica e culturale del Paese. Rispetto ad allora l’Università ha avuto una notevole espansione, ma la dilatazione, così come è avvenuto nel mondo universitario in genere, ha avuto un effetto negativo sulla qualità e sul livello dello studio.

C’era, quindi, una vita ricca culturalmente e socialmente vivace. Occorre anche aggiungere come gli anni Sessanta vedessero una progressiva ascesa del PCI.

Il progressivo successo del PCI in Umbria come in altre regioni dell’Italia centrale era dovuto in parte a ragioni storiche ed in parte a ragioni sociali ed organizzative. Quan-to alle prime vi era specialmente nelle campagne una consolidata avversione verso la politica conservatrice e gretta, perseguita dagli agrari che facevano capo alla gerarchia ecclesiastica. Quanto alle altre ragioni, il PCI seppe meglio di ogni altra forza politica organizzare il dissenso e farsi portavoce delle istanze sociali che provenivano dalle classi meno abbienti.

Ritiene che fosse ancora così importante il sentimento anti-clericale, pur a una distanza di cento anni dalla fine dello Stato Pontificio?

Sì; infatti, nel 1859 le rivolte furono capeggiate da laici liberali. Personaggi come Guardabassi non erano certo comunisti, ma certamente non condividevano la posizione dei clericali. Conseguentemente, vi era un’élite culturalmente laica e anticlericale che fondava il suo dissenso essenzialmente su ragioni ideologiche e libertarie, alla quale si associava il movimento contadino che fondava il suo dissenso essenzialmente su ragioni di carattere economico, date dalla gretta politica agraria avallata dal clero. I comunisti, che come già detto, seppero interpretare i sentimenti della maggioranza degli umbri, ebbero altresì la capacità di gestire con accortezza gli ingredienti del potere imponendosi quasi ovunque nel governo delle città e delle campagne.

Che rilievo ebbe, secondo lei, la figura di Capitini?

Capitini è stato mitizzato un po’ troppo. Senza nulla togliere al personaggio, a mio giudizio egli non è stato uno studioso di prima grandezza, ma deve essenzialmente la sua

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fama all’aver trattato, primo forse in Italia, il tema della pace e del pacifismo. Tema che non sempre è stato utilizzato con le finalità vagheggiate da Capitini, essendo, per alcuni, divenuto strumento di lotta politica.

Per finire di tratteggiare il quadro di Perugia negli anni 50-60, come valuta il ruolo della Massoneria? Era una presenza forte?

La Massoneria era, in verità, una presenza forte nella società perugina sia per tradizio-ne, sia per la qualità degli aderenti. A mio giudizio, quella di allora era una Massoneria più qualificata rispetto a quella di oggi, che indubbiamente vanta un numero di adesioni ben maggiore di quello degli anni di riferimento. A mio giudizio, infatti, la istituzione massonica aveva allora una vocazione culturale e spirituale più marcata ed i suoi ade-renti primeggiavano più per qualità personali che per manovre clientelari. I personaggi di spicco della istituzione, tra i quali mi limiterò a citare il maestro Miliocchi, erano campioni del libero pensiero, delle libertà individuali e sociali, della umana solidarietà e del laicismo rispettoso delle idee altrui. Se alcuni di loro riuscirono a guadagnarsi un ruolo di primaria importanza nella vita politica, sociale ed economica della città ciò fu essenzialmente dovuto alle loro qualità personali e non a sostegni anomali o di consor-teria. Del resto la storia politica e culturale della città è legata al contributo di personag-gi illustri come Guardabassi, Angeloni, Antinori, Fabretti e molti altri. Per quanto mi riguarda, mi iscrissi alla Massoneria circa 40 anni fa, su sollecitazione di Miliocchi e di Giuseppe Castellini nonché di Enzo Paolo Tiberi.

Torniamo al 1980, quando lei accettava la candidatura come capolista nelle liste del par-tito socialista; in un certo senso questo fu anche l’occasione per tornare a Perugia?

Sì, tornai a Perugia, ma solo dopo un anno circa da quando fui eletto. Dall’elezione dell’aprile-maggio del 1980 sono venuto via da Milano nell’81, quando fui trasferito a Roma, alla prima Sezione penale della Cassazione con funzioni direttive superiori. Nel primo anno del mio mandato feci una vita da cane, facendo settimanalmente la spola fra Perugia e Milano, dove avevo conservato il mio posto di lavoro. Il mio compito di Sindaco divenne più agevole a seguito del mio trasferimento a Roma perché, malgrado il carico di lavoro, la capitale era più facilmente raggiungibile. Durante tutto il mio mandato di sindaco continuai a svolgere l’attività di magistrato, che interruppi soltanto quando fui eletto senatore nel 1987.

Veniamo ora alla sua esperienza di Sindaco. Quali ne furono gli aspetti principali, sia dal punto di vista politico, che da quello amministrativo?

La mia esperienza agli inizi degli anni ’80 fu quasi certamente unica e senza preceden-ti, perché non mi risulta che vi fossero stati altri casi di contemporaneo esercizio della funzione di Sindaco e quella di magistrato, impegnato per di più ai vertici della magi-stratura. La mia scelta di continuare l’esercizio della professione giudicante era motivata dal fatto che soltanto l’attività professionale mi garantiva sicurezza economica e sociale

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di fronte alla precarietà e alla temporaneità della funzione politica. Questa posizione mi conferì un indubbio vantaggio perché, specialmente allora, la funzione giudiziaria conferiva un indubbio prestigio.

Altro vantaggio, di cui inizialmente non avevo avvertito l’importanza e che addirittura era considerata una condizione negativa, era dato dalla mia scarsa conoscenza dei proble-mi cittadini e dalla mia riluttanza ad occuparmi di problemi burocratici di ordinaria am-ministrazione, riguardanti soprattutto appalti e licenze. Questo mi consentiva di dedi-care la mia attenzione principalmente ai problemi generali della città ed a programmare le iniziative che a mio avviso potevano incidere sull’immagine e sul progresso della città in una visione moderna, proiettata verso il futuro. Questa impostazione lasciava anche maggiore spazio agli altri amministratori, che potevano più liberamente occuparsi dei problemi del quotidiano, politicamente più sensibili e più produttivi dal punto di vista pratico. In sostanza ritenni di interpretare il ruolo di sindaco in modo diverso dai miei predecessori, valorizzando le risorse culturali della città, cercando di capire quelli che dovevano essere i poli del suo sviluppo e cercando soprattutto di fare uscire Perugia dalla sua dimensione provinciale, proiettandola verso la realtà nazionale ed internazionale. Questo indirizzo, grazie anche alla collaborazione di tutte le forze presenti in Consiglio comunale, non fu ostacolato ed ebbe successo, conseguendo anche riconoscimenti di prestigio a livello nazionale. Ed, infatti, fui nominato vice presidente nazionale dell’AN-CI e cioè dell’Associazione nazionale dei comuni di Italia e fui annoverato fra i dieci grandi Sindaci di Italia. Riconoscimento che premiava la piccola città di Perugia rispetto alle altre grandi città.

Come fu formulata questa lusinghiera graduatoria?

Con un referendum tra tutti i Sindaci di Italia ed io fui l’unico tra i Sindaci delle città di provincia ad avere questo ambito riconoscimento, tenendo conto della dimensione delle altre città e della spiccata personalità dei loro primi cittadini. La politica delle au-tonomie locali era molto più marcata che non oggi.

Chi furono gli assessori all’Urbanistica durante i suoi mandati?

Non ricordo esattamente i nomi degli assessori che si occupavano del settore urbani-stico. Tra i socialisti mi sembra che fossero Mario Silla Baglioni, divenuto poi Sindaco, ed Enea Bricca.

Durante la sua esperienza di Sindaco ci fu la vendita della Perugina; cosa ricorda di quella operazione?

Non ricordo se la vendita della Perugina avvenne alla fine del mio mandato, ma facem-mo di tutto per mantenere la azienda in mani perugine.

Quale fu il dibattito politico in proposito?

Iniziò con la dismissione dell’area dello stabilimento di Fontivegge. In quell’occasione

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fu compiuto un primo tentativo di favorire la Perugina attraverso la valorizzazione del suo terreno. Ma la proprietà non seppe utilizzare in modo proficuo questa iniziativa. L’attività industriale era già stata spostata a S. Sisto, mentre a Fontivegge era rimasto il vecchio stabilimento. L’amministrazione comunale decise di demolire il vecchio fab-bricato e di costruire sull’area un nuovo quartiere residenziale, affidandone la progetta-zione ad un noto architetto urbanista, il prof. Aldo Rossi. Dalla destinazione dell’area, la Perugina avrebbe potuto ricavare risorse che, secondo l’amministrazione comunale, avrebbero consentito alla società di usufruire dell’afflusso dei nuovi capitali. Purtroppo questa iniziativa, malgrado la sua realizzazione, non fu sufficiente per salvare l’azienda, che poi fu acquisita in un primo momento dal gruppo De Benedetti.

In questa vicenda chi giocò un ruolo determinante, la Regione o il Comune?

La competenza della gestione del territorio spettava al Comune ma la Regione svolse un ruolo di sollecitazione politica ed economica, assicurando la costruzione di una pro-pria sede istituzionale che garantiva l’afflusso di cospicui finanziamenti. Sotto il profilo urbanistico, giova ripeterlo, la redazione del progetto, la destinazione e l’agibilità dei fabbricati era di competenza del Comune.

Quali altri aspetti della sua esperienza di Sindaco le sembrano più significativi?

Il mio mandato anche grazie alla compattezza della maggioranza ed al significativo contributo degli assessori, nonché al senso di responsabilità delle forze di opposizione fu caratterizzato da notevoli acquisizioni che contribuirono al progresso della città. Non è senza significato che in quel periodo la città di Perugia fosse nella graduatoria CENSIS ai primi posti per vivibilità e per qualità dei servizi. Fra i servizi realizzati voglio ricordare l’apertura dell’aeroporto, la ripavimentazione del Corso e di alcune strade e piazze di ri-levante interesse, il restauro della Sala dei Notari e del Palazzo dei Priori, l’apertura della scala mobile che attraverso la Rocca Paolina, del pari riaperta ad uso pubblico, collega Piazza Partigiani con il centro storico, ed altre opere di cui è rimasta traccia significativa anche sul territorio periferico.

Sul piano culturale varie iniziative artistiche furono intraprese o progettate anche in funzione dei nuovi spazi espositivi che l’apertura della Rocca Paolina aveva reso dispo-nibili. Fra le iniziative realizzate mi piace ricordare la Mostra di arte contemporanea “Attraversamenti” curata da Maurizio Calvesi che fu inaugurata dal Presidente della Re-pubblica, Sandro Pertini e che ebbe una risonanza internazionale, sia per la qualità delle opere esposte, che per il prestigio dei locali in cui la mostra venne ospitata in varie parti della città. La iniziativa che avrebbe dovuto avere un seguito con mostre periodiche di grande qualità non proseguì per diversi orientamenti seguiti dalle amministrazioni successive.

Altre iniziative – iniziate sotto i migliori auspici ed anche con l’adesione della Regione Umbria e dell’Università degli Stranieri – non ebbero sorte migliore. Alludo in parti-colare al programma “Italian Heritage” messo a punto insieme all’italo americano di

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origine gualdese Frank Stella, che doveva condurre a Perugia centinaia di italo americani aderenti alla NIAF (fondazione che raggruppa i principali esponenti della comunità italiana negli Stati Uniti) per aiutarli a riscoprire le loro radici e la loro identità culturale attraverso la frequenza dell’Università per Stranieri. Il programma, che era a buon punto e che avrebbe avuto anche riflessi commerciali in quanto Frank Stella era Presidente dell’Associazione industriali di Detroit, purtroppo naufragò per mancanza di impulso successivo alla conclusione del mio mandato. Altra iniziativa che fu distorta nelle sue fi-nalità fu l’apertura voluta dalla Regione di un Museo di arte moderna nel Palazzo Penna, contrariamente al parere espresso dal sottoscritto che aveva proposto l’apertura di una Galleria di arte contemporanea, meno costosa e più significativa, aperta alla sperimenta-zione di giovani artisti che avrebbero avuto in Perugia un rilevante polo di attrazione.

Vi furono altri rapporti internazionali di Perugia che lei tentò di promuovere?

Come già detto, il rapporto internazionale più significativo fu quello aperto con il programma Italian Heritage che, oltre agli effetti culturali e turistici, avrebbe prodot-to occasioni di lavoro offerte dalla collaborazione fra imprese americane ed italiane. A questo proposito vorrei ricordare la concreta introduzione sul mercato americano di una importante impresa umbra di Pantalla di Todi, che produce prefabbricati antisismici, il cui titolare fu personalmente accompagnato da una delegazione comunale a Detroit. Altri rapporti si concretarono in gemellaggi, tra i quali il più significativo fu quello con la città universitaria di Tübingen. Scambi culturali avvennero con varie città europee che guardavano a Perugia con interesse e con una certa ammirazione.

Tornando agli aspetti più politici della sua esperienza di Sindaco: lei, socialista, presiedeva una maggioranza in cui il PCI aveva un ruolo predominante. Quali furono i suoi rapporti sia con il PSI, sia con il PCI?

Dopo una iniziale diffidenza, perché ero visto come un dilettante fra professionisti della politica, cominciai ad essere apprezzato, in quanto grazie ad alcune iniziative l’immagine nazionale della città era migliorata ed era altresì migliorato il tenore di vita dei cittadini, che guardavano con simpatia all’amministrazione comunale. Al tempo stesso facevo scar-sa ombra ai politici locali perché a Perugia mi occupavo solo marginalmente degli affari di partito, concentrando la mia attività sulla amministrazione del Comune. I dirigenti locali del PSI avevano il loro leader nell’onorevole Enrico Manca, autorevole esponente della direzione del partito. Per quanto riguarda i comunisti la concordia che regnava in Giunta ed i buoni risultati conseguiti dall’amministrazione incoraggiarono un rapporto collaborativo, che non venne meno neppure quando i rapporti fra i due partiti divennero particolarmente tesi. Ed, infatti, durante il mio mandato lo scontro fra Berlinguer e Cra-xi, la conflittualità all’interno del sindacato della componente socialista e comunista ed altre ragioni di tensione politica avevano reso molto tesi i rapporti tra i socialisti e i comu-nisti. Questa situazione, anche grazie al buon senso di tutti, che percepivano la popolarità dell’amministrazione tra i cittadini, non ebbe effetti apprezzabili. Con la conseguenza che

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la collaborazione amministrativa continuò ininterrotta senza un giorno di crisi. Per sottolineare il ruolo che la città di Perugia aveva assunto a livello nazionale voglio

ricordare che visitarono Perugia molte personalità, tra le quali il Papa Giovanni Paolo II, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, i Presidenti del Consiglio Andreotti, Spadolini e Craxi. Queste presenze e queste gratificazioni giovavano indirettamente an-che al PCI. Nell’ambito dell’amministrazione lo sforzo di obbiettività sui problemi più sentiti dalla popolazione era apprezzato da entrambe le componenti, che costituivano la maggioranza. Questo insieme di circostanze favorì una tranquilla navigazione, anche quando adottai una decisione che per l’epoca sembrò clamorosa: quella di ricevere in Comune nel mio studio l’onorevole Almirante, leader del Movimento Sociale. La mia scelta, la prima che venisse adottata vigente un governo social-comunista, fu accettata senza eccessivi sconquassi anche grazie all’equilibrata mediazione svolta dal Vice Sinda-co, sen. Raffaele Rossi.

Quindi i rapporti più difficili furono, forse, per Lei proprio i rapporti con i socialisti?

Durante il mio mandato di Sindaco i rapporti con i socialisti, e cioè con il mio partito, a livello locale erano ottimi, anche perché i risultati elettorali erano stati ampiamente soddisfacenti. Qualche inevitabile dissenso non aveva avuto apprezzabili conseguenze. Anche i rapporti con il leader del partito in Umbria, Enrico Manca, erano ottimi ed improntati ad apparente amicizia, soprattutto perché avevo preso posizione a favore di Manca nell’affare della P2, che aveva suscitato un vero e proprio terremoto nei vertici della politica italiana. I rapporti con Manca si deteriorarono allorché, divenuto senatore e collaboratore di Craxi, mi affacciai alla ribalta nazionale con la conseguenza, a mio giu-dizio, che Manca ebbe il timore che gli potessi fare concorrenza nel partito. Ed, infatti, le mie quotazioni nel partito e nel Parlamento erano cresciute, essendo stato chiamato a far parte della direzione del partito, nominato Presidente della Commissione di Ga-ranzia del partito stesso e consigliere personale del segretario per gli Affari Istituzionali e Giudiziari. Anche in Parlamento mi vennero affidati ruoli di grande responsabilità e di grande impatto come relatore della Legge sulla droga, sulla violenza sessuale, sulla riforma dei reati contro la pubblica amministrazione ecc. Mi fu affidato anche l’incarico di difendere il Presidente Cossiga nella Commissione che doveva decidere sulla messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica, sollevata dai Comunisti e dai Radicali. L’on. Manca creò ostacoli anche alla mia seconda elezione sostenendo le candidature di due miei pericolosi concorrenti. Malgrado questa ostilità, riuscii ad essere nuovamente eletto e ad essere nominato Sottosegretario alle Poste e alle Telecomunicazioni, nel quale incarico realizzai la riforma dell’amministrazione postale in società per azioni. La mia sorte politica sembrava destinata ad un grande avvenire, perché Craxi si era impegnato a farmi nominare, su sollecitazione dell’on. Vassalli, Ministro di Grazia e Giustizia. La caduta di Craxi e la fine del PSI travolsero ogni mia aspirazione.

Gli scontri ebbero, quindi, natura più personale che politica?

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Probabilmente l’una e l’altra cosa, perché nell’ambiente politico è difficile intravedere il limite fra il conflitto personale ed il conflitto ideologico. Anzi, il dissenso politico serve spesso per mascherare altri meno nobili sentimenti finalizzati alla acquisizione del pote-re. Con la conseguenza che il concorrente viene visto come ostacolo alla realizzazione dei propri programmi. Il pretesto ideologico in politica serve a mascherare e ad edulcorare mire di potere, che con le ideologie hanno ben poco a che fare. E’ questa una conno-tazione dalla quale è ben difficile dissociarsi per chiunque faccia politica. Ed il discorso riguarda anche il sottoscritto.

Non c’era anche il fatto che i socialisti volessero staccarsi dai comunisti?

In effetti, era questo l’obbiettivo perseguito da Craxi, che era uno statista con una visione lungimirante ed aveva percepito con anticipo sui tempi la crisi che il comunismo stava irreparabilmente subendo e che la sorte del Paese non poteva essere affidata ad una forza politica che stava per diventare antistorica. Questa intuizione e l’operatività conse-guente portarono alla persecuzione di Craxi ed alla sua liquidazione dalla scena politica, prima che dalla vita terrena. Craxi non fu immune da difetti; anche lui, sia pure per nobili intenti, fu coinvolto in vicende meschine, ma lui pensava in grande, aveva un’altra caratura rispetto ai suoi collaboratori, alcuni dei quali miravano soltanto al contingente profitto personale. Questi personaggi che vivevano di luce riflessa, appena entrato in crisi l’apparato che faceva capo a Craxi, sono tutti politicamente finiti.

Quanto contava per i socialisti la volontà di sottrarsi all’egemonia forte del PCI?

Il PCI ce l’ha sempre avuta questa mania egemonica nei confronti degli odiati cugini, dal cui grembo provengono. Infatti, i socialisti potevano far loro concorrenza sul piano ideologico, avendo il vantaggio fra l’altro, di non aver mai condiviso il comunismo di matrice bolscevica. I socialisti erano, sì, un’armata brancaleone estremamente libertaria, estremamente anarcoide, sempre pronti ad accapigliarsi fra di loro, però avevano un senso di libertà, rifiutavano e rifiutano le idee del comunismo autoritario.

C’era, quindi, una rivalità forte?

Effettivamente c’era una forte rivalità fra i due partiti a livello ideologico. Vi era però una comunanza di interessi specialmente in alcune realtà locali, che comportava una spartizione di potere. Fortunatamente, durante l’espletamento del mio mandato di Sin-daco, fui tenuto fuori da questa spartizione per le ragioni sopra menzionate.

E come giudica il ruolo politico di Manca che, in Umbria, come lei diceva, è sempre stato il dominus del socialismo?

Manca fu Ministro del commercio estero nei ministeri Cossiga e Forlani. In seguito fu nominato Presidente della Rai, pur partecipando alle competizioni elettorali. Manca è stato politicamente una persona di primo ordine, non altrettanto posso dire dal punto di vista umano, anche se il mio giudizio può essere inquinato da risentimenti personali.

Egli, dotato di spiccata intelligenza, è stato è un ottimo conoscitore del partito e della politica, spregiudicato e disinvolto al punto di passare da una posizione all’altra, secondo il tornaconto del momento. Esemplare fu l’episodio di De Martino che Manca contribuì a rovesciare, malgrado gli dovesse gratitudine. Questo non deve meravigliare perché in politica è usuale comportarsi in tal modo.

Le sue differenze con Manca si intensificarono, quindi, dopo il suo mandato di Sindaco?

Fino a quando feci il Sindaco, come ho già detto, e quindi operavo a livello locale, Manca mi fu di sostegno e mi mostrò amicizia. Le cose cambiarono radicalmente quan-do, affacciatomi alla vita politica nazionale con un certo successo, egli temette una ipo-tetica concorrenza che in verità mai mi sono sognato di fare. Ero convinto, infatti, che potevamo sostenere ruoli diversi e che la nostra solidale amicizia avesse potuto rafforzare reciprocamente la nostra posizione, soprattutto a livello nazionale. Manca era soprattut-to geloso del mio rapporto fiduciario con Craxi, che mi aveva gratificato con incarichi di prestigio e che si avvaleva della mia collaborazione tecnica in materie che richiedevano una specifica competenza giuridica. Craxi si fidava di me anche perché non avevo un re-troterra politico e perché avevamo instaurato un rapporto umanamente confidenziale.

Le fu utile nell’espletare il mandato da sindaco l’esperienza di magistrato?

Sì, mi fu utile perché mi dava la consapevolezza delle responsabilità che mi assumevo. Durante il mio mandato ci fu un periodo di apparente legalità, perché mi rendevo su-bito conto se determinati comportamenti erano regolari o viziati. Pertanto, se venivano commesse irregolarità, queste avvenivano a mia insaputa.

A chi si riferisce quando parla di eventuali autori delle irregolarità?

Non posso indicare gli autori di eventuali irregolarità, perché non mi risulta che siano state commesse. Ovviamente, se risultasse che fossero state commesse, mi riferivo agli amministratori in carica e a chiunque avesse avuto l’occasione di mettere mano a prati-che irregolari.

Anche ai dirigenti della macchina amministrativa?

A questa domanda ho già risposto. A parte il fatto che non mi sono mai accorto di funzionari infedeli, voglio precisare che ho avuto la fortuna di avere due dirigenti apicali di specchiata correttezza e di spiccata competenza professionale: alludo al Segretario ge-nerale dr. Pianesi ed al Ragioniere capo dr. Raichini, che garantivano in modo esemplare la regolarità dei servizi ai quali erano preposti. Anche per quanto riguarda gli ammini-stratori non ho riscontrato alcun comportamento illecito. Se questo sia dovuto ad onestà o prudenza non spetta a me stabilirlo.

Quando parla di irregolarità si riferisce in particolare agli appalti?

Non saprei dirlo. Certo è che l’imprenditoria umbra ha come suo principale datore di

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lavoro la pubblica amministrazione e quindi è possibile, come sembra essere accaduto recentemente, che i rapporti fra alcuni imprenditori ed alcuni amministratori non siano del tutto limpidi. La cautela in questo settore impone di andare con i piedi di piombo. Lo scandalo di tangentopoli si verificò essenzialmente perché la corruzione dilagante non veniva neppure coperta, ma ostentata come espressione di potere. Conseguente-mente fu agevole per gli inquirenti individuare numerosi casi di corruzione, fatti senza discrezione, quasi alla luce del sole. Gli esempi nel paese ed anche nella nostra regione sono stati numerosi.

Vorremo ora chiederle qualcosa sull’ultima parte delle sua attività politica, come Senatore per due legislature, dall’87 al ’94.

In effetti, la mia attività parlamentare, tenendo conto della sua breve durata, è stata esaltante e per me di ampia soddisfazione. Dei miei incarichi ho già parlato prima.

La maggior parte della sua attività politica fu quindi svolta in questo periodo a livello nazionale?

Sì. Agli incarichi di cui ho fatto in precedenza menzione desidero aggiungere la Vice-presidenza della Commissione bicamerale per la riforma del Codice di Procedura Penale promossa dal Ministro Vassalli.

Qual è il suo giudizio su quest’ultima parte della vita del partito socialista, anche relati-vamente all’Umbria?

Il Partito Socialista doveva la sua unità ed il suo peso politico alla personalità di Cra-xi, sicuramente insieme a De Gasperi l’uomo politico più importante che abbia avuto l’Italia del dopoguerra. Senza naturalmente togliere qualche cosa ad Andreotti, la cui abilità e la cui sensibilità politica sono proverbiali. Ma, mentre Craxi nella sua genialità amava rischiare, Andreotti, più prudente, soleva scartare soluzioni pericolose in nome di una più sicura conservazione del potere. Purtroppo la vita politica italiana fu rovinata dalla rivalità fra Craxi ed Andreotti, determinata anche dalla diversità di obbiettivi che intendevano perseguire.

Nella rivalità con Craxi, non fu importante anche il ruolo di De Mita?

De Mita non aveva il peso politico di Andreotti. Tra Craxi ed Andreotti fu giocata essenzialmente una partita a due, anche perché Forlani non seppe far valere il suo peso. Andreotti perseguiva l’obbiettivo della Presidenza della Repubblica e per questo aveva bisogno dei voti comunisti. Questo spiega la sua apertura verso questi ultimi e l’avversio-ne all’idea di Craxi di fiaccare con elezioni anticipate il Partito Comunista dopo la cadu-ta del muro di Berlino. Craxi non riuscì nei suoi propositi, preannunciati ad un gruppo di fedelissimi nel settembre del 1989, sia perché fiaccato da una gravissima forma di diabete, sia per la resistenza di Andreotti. Gli eventi che successivamente intervennero portarono alla sconfitta dei due leader, delusi nei loro obbiettivi, e furono preparatori

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della fine della Prima Repubblica.

Le elezioni subito dopo l’89 non ci furono!?

Ho già enunciato le ragioni per le quali le elezioni non ci furono e cioè in partico-lare per la resistenza di Andreotti. Le sue aspettative tuttavia vennero deluse, perché il Presidente Cossiga sciolse anticipatamente le Camere e non fu possibile la elezione del Presidente della Repubblica con il Parlamento nel quale i comunisti avevano ancora una sensibile e decisiva rappresentanza.

Ci rendiamo conto che Lei ha vissuto queste fasi drammatiche della fine della Prima Re-pubblica da un osservatorio privilegiato e che la sua conversazione è una miniera di informa-zioni inedite e preziose. In questa nostra intervista, tuttavia, centrata sulla politica regionale, non possiamo approfondire come sarebbe necessario. Le chiediamo, nondimeno, qualche ulte-riore notizia sulla caduta drammatica del partito socialista, travolto da Tangentopoli.

Ho già risposto in parte a questa domanda. Il Partito Socialista fu irreparabilmente travolto dall’inchiesta di tangentopoli, sia perché aggredito dai comunisti che non volle-ro assecondare Craxi nel suo tentativo di salvataggio della classe politica, sia per la fragili-tà della sua organizzazione, sia perché le operazioni illecite erano state fatte direttamente dai protagonisti senza adeguata copertura. Così, ebbero buon gioco gli inquirenti nello scoprire le malefatte commesse. In particolare a Di Pietro fu abbastanza facile incastrare Chiesa facendogli credere di essere stato tradito, quando in realtà il magistrato, esperto in informatica, aveva scoperto autonomamente le operazioni sospette.

Quali furono le conseguenze di tangentopoli sulla vita politica dei socialisti in Umbria?

Dopo tangentopoli, dopo il dissolvimento del partito, c’è stato qualcuno che ha rac-colto i cocci, ma erano persone di modesto livello le quali non hanno saputo raccogliere la bandiera dal fango in cui era caduta. Malgrado gli sforzi, hanno continuato a volare basso ed a collezionare errori su errori, nel vago miraggio di conservare o di acquistare poche briciole di potere. In Umbria la situazione è stata migliore rispetto al resto d’Italia, perché il movimento socialista è radicato in maniera abbastanza salda nei ceti popolari e borghesi.

Come fecero i comunisti, invece, sostanzialmente a rimanere indenni?

Perché avevano una organizzazione granitica e, contrariamente ai socialisti, le loro operazioni erano sempre più schermate e tali da non compromettere i dirigenti apicali. Craxi, invece, qualche volta si era esposto personalmente, perché aveva scarsa fiducia dei suoi luogotenenti.

Dopo il ’94, quali posizioni politiche ha preso?

Dopo il 94 ho rifiutato la candidatura in Forza Italia perché non mi sembrava digni-

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toso cambiare bandiera e tradire il mio passato.

Come valuta lo sviluppo della vita politica degli anni ’90?

Come appare dai risultati concreti, vi è dato un generale scadimento qualitativo della classe dirigenziale emersa dalle macerie della Prima Repubblica. Ciò è stato determinato in primo luogo da una eccessiva personalizzazione della politica, per cui i protagonisti, non tenuti a freno dall’organizzazione e dalla logica di partito, hanno accentuato il clientelismo e la corruzione conseguente. Con questo non voglio dire che in precedenza questi ingredienti e questi aspetti fossero assenti; erano presenti, ma in misura diversa e maggiormente sopportabile. Oggi tali fattori negativi hanno assunto una proporzio-ne soverchiante. In secondo luogo, il deterioramento della politica è riferibile anche al vuoto lasciato dalla caduta della Prima Repubblica, che ha travolto anche gli uomini più preparati ed ai quali sono subentrati comprimari che occupavano file decisamente secondarie o uomini (nuovi) impreparati alla vita politica e quindi non del tutto capaci di affrontare compiutamente i problemi del nostro difficile paese. Questo discorso vale non solo per i socialisti, ma anche per tutte le altre forze politiche. Non ho mancato di fare queste riflessioni con molti amici anche di Forza Italia ai quali scherzosamente ho rimproverato di fare male persino le leggi “ad personam”.

Tornando sull’argomento della caduta della Prima Repubblica, voglio ricordare un episodio che mi riguarda. Su sollecitazione di Craxi predisposi un disegno di legge che avrebbe depenalizzato il finanziamento privato ai partiti. Su questo disegno di legge ave-vo ottenuto il consenso anche di alcuni significativi esponenti della maggioranza. L’on. Amato, allora Presidente del Consiglio, rifiutò, in modo brusco nei miei confronti, di presentare e di appoggiare il disegno di legge, che, sia pure con difficoltà ed a prezzo di gravi contrasti con l’opposizione, sarebbe stato approvato in Parlamento. Questo rifiuto diede il colpo di grazia alla Prima Repubblica con la via libera alle inchieste giudiziarie. Non spetta a me esprimere un giudizio politico sull’atteggiamento dell’on. Amato, che ho personalmente disapprovato per ragioni di patriottismo di partito. Probabilmente la storia avrebbe avuto un corso diverso. Ma oggi è inutile recriminare.

Come vede la battaglia a Perugia e in Umbria oggi e nell’immediato futuro?

Dal dopoguerra ad oggi, tranne una breve parentesi, le stesse forze politiche hanno governato la città. Questa continuità e questa dimestichezza con l’esercizio del potere, se da un lato hanno consentito di consolidare il consenso interessato, dall’altro hanno creato un indubbio logoramento, dato essenzialmente dalla sicumera e dall’arroganza che conseguono alla certezza del potere ed alla sua inamovibilità. Attualmente il livello di popolarità dell’amministrazione comunale, a seguito di scelte ritenute dai più sba-gliate ed a seguito di disfunzioni amministrative che hanno penalizzato la qualità della vita cittadina, ha raggiunto il limite più basso. Per questa ragione è lecito domandarsi se convenga alla città optare per una soluzione alternativa alle attuali forze di governo. L’impresa è oggettivamente difficile perché, stando all’esperienza delle ultime consul-

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tazioni elettorali, l’opposizione non ha saputo fornire soluzioni alternative capaci di riscuotere il consenso dei cittadini e perché gli interessi gestiti dalla maggioranza sono tali da rafforzarne il potere. L’esperimento può comunque essere tentato a comune van-taggio, a condizione però che gli aspiranti al governo della città sappiano esprimere candidature eccellenti, tali da riscuotere la fiducia della maggioranza dei cittadini anche sul territorio decentrato, e sappiano formulare programmi innovativi capaci di riportare Perugia al livello di eccellenza che merita. L’esempio di Terni con il prof. Ciaurro (mio compagno di università) è significativo ed emblematico. Il clima è certamente favorevole al cambiamento, ma questo non basta se non se ne sa approfittare nel modo giusto. La prospettiva del cambiamento, sia essa concretamente realizzabile o no, sarà comunque utile alla città, perché sarà di stimolo ad una serrata competizione e in ogni caso a fare meglio; anche per l’attuale maggioranza.

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I Santi di Bernardino di Mariotto, fra signoria deiBaglioni e censura del Papato

Alessandra Oddi BaglioniStorica dell’arte

Alla Galleria Nazionale dell’Umbria fa bella mostra di sé la Madonna con il Bambino adorato dai Santi Anna, Sebastiano e Rocco, un quadro dipinto da Bernardino di Mariot-to. Dello stesso autore la Galleria custodisce inoltre, nei suoi fondi, la Pala degli Oliveta-ni, rappresentante la Vergine con Bambino tra i Santi Andrea Apostolo e Giuliano.

I due dipinti dimostrano come la pittura costituisse nei tempi passati uno strumen-to di comunicazione visiva, asservito ai poteri forti del tempo, quasi a dire un vero e proprio medium di massa, prima dell’avvento della foto e della televisione. Essi sono l’esempio di come un’intera città, su istigazione papale, abbia cercato di cancellare le memorie di tutto ciò che poteva in qualche modo renderla indipendente dal dominio chiesastico. La rappresentazione dei condottieri e degli uomini illustri veniva stravolta in riproduzioni di figure di santi. L’aureola che rappresentava il potere terrestre diventava simbolo di santità.

Ma chi era l’uomo Bernardino, e quali contenuti di immagine voleva trasmettere? Bernardino nacque a Perugia: le fonti non ci dicono quando, ma sapendo che il primo quadro che gli viene attribuito è del 1498, si può supporre che nacque attorno al 1478. Suo padre, Mariotto dello Stagno1, orafo, utilizzava la sua arte per imbellire le armature ed i cimieri dei grandi condottieri. Il piccolo Bernardo ebbe quindi modo di incontrare i condottieri che suo padre serviva ed è probabile che avesse stabilito un rapporto di particolare familiarità con i personaggi della famiglia Baglioni.

Un rapporto particolarmente stretto il ragazzo lo instaurò sicuramente con Giam-paolo, che lo segnalò per dipingere una Madonna per il convento benedettino di San Francesco delle Donne, a Suor Giacoma, figlia di Baldo Perigli, rettore del Collegio della Sapienza vecchia nonché ambasciatore del Comune di Perugia presso il pontefice. Il

1 Un documento di pagamento da parte dei Priori a Benedetto Bonfigli recita: «disse volea satisfare a Mariotto da lo stagno, orafo».

Storia & Memoria

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giovane si fece onore, dipingendo magnificamente, sullo sfondo di un tipico paesaggio umbro con in primo piano cherubini quattrocenteschi, il volto levigato della Madonna benedicente, cui era particolarmente devota la fondatrice dell’ordine.

Gli artisti, a quel tempo, iniziavano a lavorare nei conventi, nella speranza di essere notati dai mecenati ed ottenere così più importanti commesse. Per Bernardino fu il contrario: Giampaolo Baglioni, uno dei signori di Perugia, si preoccupò personalmente di promuoverlo nelle sue qualità artistiche ancora agli esordi. Il comandante umbro, infatti, fu colpito dal suo stile così diverso da quello dei pittori umbri contemporanei, che si richiamava a temi veneziani, e tentò di inserirlo fra gli artisti di famiglia, sostenuti da Braccio e dai suoi discendenti.

A Perugia, però, spadroneggiava l’artista preferito dai suoi zii Guido e Rodolfo: Pietro Vannucci. Costui non permetteva a nessun altro di inserirsi a Perugia, tanto che perfino l’altro Bernardo, quello che il Vasari chiamerà Pinturicchio, aveva dovuto allontanarsi dalla città. Giampaolo decise allora di condurre Bernardino con sé. E probabilmente lo portò dapprima a Bastia, città che faceva sempre parte dei domini baglioneschi, dove egli dipinse, nel 1498, per la chiesa parrocchiale, la Madonna in trono col bambino, at-tualmente alla pinacoteca comunale di Fabriano.

Dopo la strage delle nozze rosse nel 1500, Giampaolo si era rifugiato a Spello, da dove faceva frequenti sortite per cercare truppe fresche, non solo a Bastia ma anche a Sanseverino, nelle Marche. Sanseverino era situata in posizione strategica tra le Marche e l’Umbria, ai piedi degli Appennini e costituiva un importante nodo viario dove passava-no eserciti, mercanti e pellegrini. Per questa ragione, molti perugini vi avevano esercitato l’ufficio di podestà.

Nel 1502 il Baglioni portò Bernardino di Mariotto a Sanseverino e così facendo ne determinò la fortuna. Il pittore perugino, infatti, ereditò la casa e la bottega di Lorenzo d’Alessandro e trascorse nel piccolo centro un ventennio di lavoro.

I rapporti tra Giampaolo e Bernardino non risultano da documenti scritti, ma sono plausibili per analogia con una serie di altri documenti che dimostrano come il Baglioni intervenisse spesso in quegli anni nella vita della cittadina marchigiana. E’ documen-tato, ad esempio, come nel maggio del 1506 Gentile e Giampaolo Baglioni chiedano che venga eletto tale Dionisio da Carrara a podestà della cittadina2 e come nel luglio del 1506 Giampaolo invii il suo cancelliere al Comune di Sanseverino per proporre la spedizione di suoi soldati nel territorio che dovranno essere alloggiati ed alimentati a spese del comune stesso3 ed, infine, come nel settembre dell’anno successivo il Baglioni chieda al Comune che venga eletto come ufficiale dei danni ser Roberto di Cristoforo da Perugia, suo cancelliere4.

Ne emerge dunque una figura, quella di Giampaolo Baglioni, usa a caldeggiare i suoi

2 A.S.C.S, Riformanze Consiliari dal 1504 al 1508, in Paciaroni, Bernardino di Mariotto da Perugia.3 A.S.C.S., ibidem.4 A.S.C.S., ibidem. la richiesta viene accolta dal Consiglio di credenza, che gli assegna l’incarico semestrale dopo i nomi dei già eletti con i capitoli consueti.

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clientes nel paese di Sanseverino e ne è un ulteriore controprova la sua lettera al Console ed al Consiglio di Sanseverino affinché venga facilitato il rimpatrio di certo Pierfrance-sco Scaramuccia e della sua famiglia.5

E’ dunque plausibile che per tutto il ventennio sanseverinate aleggiasse su Bernardino la figura del comandante Baglioni. Conseguentemente non è casuale che il pittore non scordasse mai Giampaolo e che anche dopo la sua morte continuasse a ritrarlo nelle sue opere.

Purtroppo la Chiesa, perseguendo la damnatio memoriae della stirpe dei Baglioni, cer-cò di occultare le sembianze di colui che aveva preteso di instaurare un grande stato nell’Italia centrale, indipendente dal papato.

Nelle dispute che seguirono alle “nozze rosse” ed all’uccisione di Giampaolo da parte di Leone X, Bernardino volle contribuire al consolidamento della dinastia, continuando a dipingere Giampaolo e la sua parte anche dopo l’assassinio del condottiero. La situa-zione a Perugia era, infatti, in quei tempi altamente instabile. Nel 1500 i due fratelli del grande Braccio, Guido e Rodolfo, vennero uccisi così come lo fu Grifonetto, nipote diretto di Braccio. Erede dei domini baglioneschi diventò il figlio di Rodolfo, Giampa-olo, contrastato dal cugino Gentile, vescovo di Perugia che chiese al papa la dispensa per sposarsi e poter continuare la dinastia. Leone X, pensando che Gentile sarebbe stato maggiormente prono ai voleri papali, imprigionò ed uccise Giampaolo, reo di essersi ribellato alla signoria pontificia. Quest’ultimo fu accusato di stupro e di incesto con la sorella, affinché i suoi discendenti non avessero alcuna possibilità di adire ai possedi-menti perugini.

Il disegno però non riuscì a compiersi, poiché Giampaolo aveva avuto dei figli legitti-mi dalla moglie Ippolita, fra cui il famoso Malatesta, e il pittore da lui beneficato cercò di accreditarli come i soli discendenti di una famiglia regnante. Nel 1530 a Perugia, infatti, iniziava l’ascesa di Malatesta, che doveva sottolineare la sua discendenza dalla legittima moglie di Giampaolo e togliere dal campo i numerosi bastardi seminati da suo padre. Perchè tutto ciò si realizzasse era necessario che la popolazione tutta fosse con lui.

A quel tempo il ruolo che oggi giocano i canali televisivi lo avevano i quadri. Gli artisti di corte dipingevano opere che diventavano i migliori strumenti di comunicazione del signore che li commissionava. La realtà diventava quella dipinta più di quella reale.

Morto tre mesi dopo il grande condottiero, il suo grande amico Raffaello e tre anni dopo Pietro Vannucci (1523), soltanto Bernardino di Mariotto avrebbe potuto ritrarre a mente Giampaolo per averlo visto negli anni tante volte da vicino. Così, per fare cosa gradita a Malatesta, i due fratelli Andrea e Donato de Narduccio, che vivevano nel suo entourage, commissionarono e pagarono la pala degli Olivetani nel 1533.

Nei due quadri citati all’inizio, Giampaolo è dipinto con tutti i suoi tratti caratteristi-ci. Primo fra tutti la barba biondo rossastra portata alla germana o anzi più propriamente all’uso dei lanzichenecchi, ossia con il taglio in mezzo ed il doppio pizzetto arricciato; poi il naso: quel naso aquilino a punta che ancor oggi è nel dna dei Baglioni. L’uomo è

5 A.S.C.S. Riformanze consiliari dal 1502 al 1504, vol. 39, ibidem.

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ritratto nella sua maturità, ma i tratti sono gli stessi che aveva dipinto nel 1500, Pinturic-chio nella cappella Baglioni e il biondo rosso dei capelli è lo stesso affrescato da Signorelli nel Duomo di Orvieto.

Nell’Incoronazione della Vergine è raffigurato nei suoi anni giovanili, con i chiari oc-chi a mandorla, il fisico longilineo, la spada dall’elsa lavorata come tante volte l’aveva vista Bernardino fanciullo. Il copricapo che indossa è simile a quello che Raffaello aveva messo in testa al personaggio che portava il Cristo nella Deposizione Baglioni. I guanti finemente lavorati alludono ad un uomo che aveva fama di essersi presentato financo al patibolo perfettamente abbigliato.

Per questo quadro Bernardino si rifà alle strutture compositive di Raffaello, che certo è stato il più grande cantore delle gesta dei Baglioni. Soltanto la caparbia volontà del papato poteva vedere in quel guerriero un San Giuliano. Così come nel dipinto succes-sivo, Madonna con il Bambino adorato dai santi Anna, Sebastiano e Rocco, dove i com-mittenti, come d’uso, vengono raffigurati in un angolo del quadro. Se assumiamo, per la straordinaria somiglianza tra il San Sebastiano ed il cosiddetto San Giuliano del quadro precedente, che anche qui sia raffigurato Giampaolo, allora la figura alla sua destra non può che essere Ippolita, la madre di Malatesta. Del resto è evidente che trattasi di una figura femminile, con le trecce e la leggera pinguedine del mento che contraddistingue i volti muliebri di Bernardino. Ci volle tutta la caparbietà della Chiesa per vedere nel personaggio un San Rocco e nel chiaroscuro delle corde vocali di un collo femmineo una piaga della peste!

In effetti, Bernardino aveva dipinto un San Rocco per la Chiesa di San Giovanni a Monteluce (frazione di Sanseverino), ma con tutt’altre fattezze! Viene il dubbio che anche i due angioletti dietro alla Madonna siano la trasposizione poetica dei piccoli Ma-latesta e Orazio, cui successivamente sono stati aggiunte le ali e l’aureola celeste. Anche la narrazione in primo piano della Madonna che offre il proprio figlio alla madre è la rappresentazione simbolica del detto mater sempre certa est: e chi più del primo figlio di Ippolita aveva diritto alla successione?

Questi due quadri divengono, quindi, la presa di posizione di Bernardino in favore di Malatesta. Consegnando all’eternità i genitori e sottolineandone la discendenza legitti-ma, Bernardino nobilita la stirpe del guerriero suo mecenate, a cui il pittore tanto do-veva. Non avrebbe mai immaginato il Bernardino che la Chiesa non si sarebbe limitata ad impedire l’indipendenza dei territori umbri, ma avrebbe perfino tentato di cancellare tutte le tracce di coloro che avevano osato alzare la testa contro l’ingerenza e il potere romano.

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Bernardino di Mariotto, Madonna con il Bambino adorato dai Santi Anna, Sebastiano e Rocco, Galleria Nazionale dell’Umbria, Perugia

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Bernardino di Mariotto, Pala degli Olivetani, Galleria Nazionale dell’Umbria, Perugia

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Agostino Oldoini (La Spezia 1612- Perugia 1683). Una nota bio-bibliografica.

Andrea CapaccioniUniversità per Stranieri di Perugia; docente a contratto di biblioteconomia all’Università

degli Studi di Perugia

Agostino Oldoini, gesuita, è stato un esponente della cultura erudita del ‘600. Di origine ligure, operò lungo tempo a Perugia ma va segnalata la sua attiva presenza nella vita cultu-rale romana. Oldoini è noto per la sua edizione delle vite dei pontefici di A. Chacon e per una serie di repertori bio-bibliografici. Il presente contributo intende fornire alcuni spunti di ricerca per approfondire la figura e il lavoro di questo erudito e bibliografo.

Gli Oldoini, originari di Cremona, si trasferirono a Genova nel Quattrocento e verso la fine di quello stesso secolo alcuni membri della famiglia si stabilirono a La Spezia.1 Tra que-sti, in particolare, citiamo Giambattista Oldoini che ricopriva incarichi per la Repubblica di Genova agli inizi del Cinquecento. Uno dei suoi figli, Agostino, ebbe a sua volta cinque figli, tra i quali c’è Girolamo. Orazio, figlio di Girolamo, sposò Cassandra Lolio e dal loro matrimonio nacque prima Bernardo e poi, il 6 giugno 1612, il nostro Agostino.

Compiuti i primi studi nella cittadina ligure il giovane fu portato dal padre a Roma e iscritto nel Collegio gesuitico. Presto Agostino matura la volontà di entrare nella Com-pagnia: il 4 febbraio del 1628 professerà i voti nel Collegio di Napoli. Questa cronolo-gia, oramai accettata, differisce da quella proposta da Augustin et Alois de Backer (1854) che arretrava la nascita di Agostino al 1601 e la pronuncia dei voti al 1612.2 Dieci anni dopo circa, con certezza nel 1635,3 ritroviamo Agostino nel Collegio di Ancona con l’in-carico di docente nella scuola pubblica gestita dai gesuiti (prefetto della congregazione dei scolari); qui pubblica il volume Alcune difficoltà principali della grammatica con i pre-

1 A. Neri, Notizie di Agostino Oldoini, storico e bibliografo ligure del secolo XVII, in “Giornale Liguistico”, II (1875), pp. 181-196.2 Augustin et Alois de Backer, Bibliothèque des ecrivains de la Compagnie de Jesu, t. II, Liège, L. Grandmont-Donders, 1854, p. 445.3 R. Domenichini, Note sulla presenza della Compagnia di Gesù in alcune località della Marca. 1: La fondazio-ne dei Collegi, in Deputazione di storia patria per le Marche, “Atti e memorie”, 99 (1994), p. 186.

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cetti di ciascuna regola date in luce ad istanza ed uso dei scolari della Compagnia del Gesù, in Ancona, presso Marco Savioni, 1637; l’opera risulta rara tanto da non comparire negli annali tipografici della città.

Agostino Oldoini si trasferisce a Roma dove può dedicarsi al lavoro bibliografico. La presenza di molte biblioteche, in particolare ecclesiastiche e private, gli permette di consultare opere a stampa e manoscritte. In particolare stava lavorando ad un ampio ag-giornamento, definito dallo stesso in una lettera al padre agostiniano Angelico Aprosio di Ventimiglia «l’opera mia grande»,4 del lavoro di Alfonso Chacon (1540-1599) Vitae et res gestae Pontificum romanorum et s.r.e. Cardinalium ab initio nascentis ecclesiae usque ad Clementem IX, già edito a Roma prima nel 1601 e poi nel 1630. Il lavoro di aggiorna-mento dell’Oldoini era durato alcuni anni ed era pronto per la stampa già nel 1651 ma, per una serie di problemi, vide la luce solo nel 1677 (Romae, cura et sumptib. Philippi et Ant. De Rubeis). Oldoini imputava allo stampatore De Rossi «una naturale lentezza nelle sue azioni» e

di havere lasciato vedere l’opera a molti che vi hanno interesse per la parentela, o amicizia, o altro (Lettera all’Aprosio, Perugia 27 gennaio 1677).

La causa di un così grande ritardo va forse cercata altrove. Carlo Cartari, noto scrit-tore e avvocato concistoriale e buon amico dell’Oldoini, scrivendo il 25 agosto 1674 all’Aprosio alludeva ad alcune difficoltà:

il padre additionatore al Ciaccone [i.e. Chacon] dimora in Collegio Romano, con qualche abilità, ma non libertà assoluta; puol andare per tutta la casa, anche in Chiesa; parlar a tutti; ma non uscire; vive però con molta sofferenza.

Nel frattempo Oldoini aveva dato alle stampe per un altro editore romano il Necro-logium Pontificum ac pseudopontificum Romanorum cum notis (Romae, typis, & expensis Ignatij de Lazaris, 1671).

Nel 1675 Oldoini fu inviato a Perugia e nominato rettore del Collegio locale. Go-dendo forse di una maggiore serenità nei rapporti con il suo Ordine egli ebbe modo di concentrasi sulla grande quantità di appunti e notizie bibliografiche raccolte durante gli anni romani e dedicarsi alla loro organizzazione e pubblicazione. Nello stesso anno esce il volume Clementes titulo sanctitatis vel morum sanctimonia illustres simul editi cum animaduersionibus, (Perusiae, ex typographia Episcopali apud Laurentium Cianum, 1675) e l’anno successivo l’importante contributo bio-bibliografico, il primo della serie:5 Athenaeum romanum in quo summorum Pontificum, ac pseudopontificum, nec non S.R.E.

4 Cfr. Lettere inedite del Padre Agostino Oldoini della Spezia, a cura di A. Neri in “Il filomate”, 1870, n.13 p.1-2, n.14 p.1-2, n.15 p.1, n.16 p.1-2, n.17 p. 3-5, n.18 p.2, n.19 p.3; Epistolario Aprosiano, Lettere di Ago-stino Oldoini (n. 12), anni 1676-80, Biblioteca Universitaria di Genova, Ms.E.VI.9, si veda anche Antonia Ida Fontana, Epistolario e indice dei corrispondenti del P. Angelico Aprosio, “Accademie e Biblioteche d’Italia”, 42 (1974), nn. 4-5, p. 339-370).5 Theodore Besterman, Le origini della bibliografia, a cura di A. Capaccioni, Firenze, Le Lettere, 2008, pp. 116; 132; si vedano anche A. Serrai, Storia della bibliografia, III, Roma, Bulzoni, 1991, pp. 163-165; 175-176, 1991; e L. Balsamo, La bibliografia. Storia di una tradizione, Firenze, Sansoni, 1992, pp. 61; 63.

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cardinalium et pseudocard. scripta publice exponuntur (Perusiae, ex typographia camerali, apud haeredes Sebastiani Zechini, 1676).

Nel 1677 Oldoini riuscì finalmente a stampare i quattro volumi della sua edizione delle Vitae et res gestae pontificum romanorum. I suoi legami con Roma non si erano interrotti. Pur mantenendo il suo incarico perugino, egli vi si era spesso recato per te-nere i rapporti con le autorità della Compagnia e per consultare biblioteche e collezioni private. Nel 1678 pubblica una nuova rassegna bibliografica l’Athenaeum augustum in quo Perusinorum scripta publice exponuntur (Perusiae, typis, & exspensis Laurentij Ciani, & Francisci Desideri) e nel 1680 l’Athenaeum ligusticum, seu Syllabus scriptorum ligu-rum nec non sarzanensium, ac cyrnensium reipublicae Genuensis subditorum, (Perusiae, ex typographia Episcopali, apud HH. Laurentij Ciani, & Franciscum Desiderium) dedi-cato a personaggi illustri liguri, sarazanesi e corsi. Quest’ultima opera era già pronta per la stampa nel 1676 ma fu pubblicata con qualche anno di ritardo perché l’autore, come testimonia la corrispondenza, non riusciva a trovare i finanziamenti per stamparla.

La produzione a stampa si ferma qui, Oldoini ha oramai 68 anni. Ci sono però altri lavori da segnalare. Sono state attribuite al nostro due opere, probabilmente miscella-nee, che non è stato possibile rintracciare: Oratio in funere Roberti Cardinalis Ubaldini (…) celebratis in cattedrali Montispolitani, forse del 1635 anno della morte del cardinal R. Ubaldini, e Elogium in laudem Hieronymi Genuini. Tre suoi lavori furono inseriti in altrettante pubblicazioni. Si tratta di una bibliografia degli scrittori pistoiesi che il con-fratello Francesco Antonio Zaccaria incluse, evidentemente con il consenso dell’Oldoini, nel secondo tomo della sua Bibliotheca Pistoriensis..., inque duos libros distributa, quorum prior manuscriptos trium, praecipiarumque Pistoriensium bibliothecarum codices, posterior Pistorienses scriptores complectitur (Augustae Taurinorum, ex Typographia Regia, 1752) e il Catalogus auctorum qui scripserunt de Romanis Pontificibus (pp. 464-477) inserito postumo nell’opera di Johann Gerhard Meuschen Caeremonialia electionis et coronationis Pontificis Romani et Caeremoniale Episcoporum, juxta ... exemplaria Romana, Veneta ac Taurinensia, ... una cum curioso anekdwto de creatione ... Pii II., et L. Aretini ... opusculo de temporibus suis; necnon A. Oldoini Catalogo auctorum qui de Romanis Pontificibus scripse-runt (Francofurti, 1732). Fino ad oggi sconosciuto risulta invece il repertorio dedicato ai cardinali compilato da Georgius Josephus Eggs che utilizza il lavoro di Oldoini: Purpura Docta, seu vitæ ... S. R. E. Cardinalium qui ... doctrina ... inclaruere. Desumpta x A. Cico-nio, A. Victorello, A. Oldoino, aliisque ... scriptoribus ... In sex libros, cum uberrimis notis marginalibus ac triplici indice ... digesta et in lucem edita per G. J. E. (Monachii, 1714).

Achille Neri ricostruisce anche un caso di presunto plagio: l’opera del gesuita Giulio Negri Storia degli scrittori fiorentini, la cui elaborazione iniziò nel 1691, ma che uscì postuma a Ferrara nel 17226, sarebbe in gran parte copiata dal manoscritto dell’Oldoini

6 Storia degli scrittori fiorentini la quale abbraccia intorno a due mila autori, che negli ultimi cinque secoli hanno illustrata co i loro scritti quella nazione, in qualunque materia, ed in qualunque lingua, e disciplina: con la distinta nota delle lor’ opere, cosi manoscritte, che stampate, e degli scrittori, che di loro hanno con lode parlato o fatto menzione: opera postuma del p. Giulio Negri ferrarese della Compagnia di Gesù, in Ferrara, per Bernardino Pomatelli stampatore vescovile, 1722.

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“Athenaeum florentinum”. Negri aveva potuto consultare quel testo, come egli stesso scrive, «fra gl’innumerabili manoscritti del dottissimo p. Oldoini» e in un secondo tempo verosimilmente anche sottrarlo (non risulta infatti presente tra i manoscritti depositati presso la Biblioteca Augusta di Perugia) 7. Scrive però a proposito Gaetano Melzi nel suo Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani (Milano, G. Pirola, 1852):

Se deve credersi al P. Gandolfi si valse il p. Negri de’mss. già preparati a questo fine dal P. Ago-stino Oldoini, suo confratello. Essendo però opera pubblicata dopo la sua morte, e la lettera che vi si legge innanzi dettata da altra persona, non puossi accusarlo assolutamente di plagio, perché forse non avrebbe trascurato di confessare il vero autore se fosse stato a tempo di stam-pare egli stesso vivendo la presente istoria (p. 226).

Per un’informazione più completa ricordiamo, in quanto spesso confuso con il nostro, che in quegli stessi anni operò un parente stretto di Agostino e suo quasi omonimo: Giovanni Agostino Oldoini, morto a La Spezia nel 1710, cappuccino, teologo, ricordato in modo particolare per la sua attività di traduttore dal francese.

La morte di Agostino Oldoini, verosimilmente avvenuta a Perugia, deve invece col-locarsi nei primi sei mesi del 1683. Fino al febbraio di quell’anno infatti egli aveva mantenuto viva la corrispondenza con Antonio Magliabechi. Nel luglio dello stesso anno sarà invece l’erudito fiorentino a dare un’indiretta conferma della scomparsa del suo corrispondente.

Studioso instancabile, Oldoini lasciò tra le sue carte molti altri manoscritti alcuni già pronti per la stampa. Tra i volumi di argomento bibliografico ne segnaliamo due: Nova bibliothecarum officina in qua habetur enumeratio omnium auctorum operumque sub titulo Bibliothece, elenchi, catalogi, indicis, nomenclationis, Athenaeum et similium (ms 876), successivo al 1680 e dedicato a Carlo Cartari, riporta alle carte 37v-38v un interessante elenco delle sue opere; e l’Atheneum marianum (ms 929) manoscritto pronto per la stampa (riporta l’autorizzazione del generale dell’Ordine Oliva datata 1675, c. 2r) in cui troviamo alcune osservazioni in risposta alle “obietioni” sollevate in occasione della richiesta di pubblicazione dell’opera, in particolare si legge:

Se si debbano levare le opere prohibite et ingiuriose, mi rimetto alla pratica tenuta per secoli etiam in Roma. Io so che nel 1581 si stampò in Roma la Cronica delli Eremitani di S. Agosti-no da Giuseppe Panfilo [Panfili, 1579]; nel 1613 Bellarmino de Scriptoribus ecclesiasticis; nel 1633 Apes Urbanae di Loene Allatio [Allacci], nel 1648 Bibliotheca mariana del Marracci con la sottoscrizione o approvatione del presente Padre r.mo circa il medesimo tempo il Catalogo de scrittori francescani, gli anni addietro [Sacrum] Theatrum dominicanum del P. Fontana [1666]; parte prima degli Scrittori liguri di Michele Giustiniano [1667] e l’anno passato la Bibliotheca hispanica [1672] di Nicolò Antonio; a tutti li sudetti autori e a molti altri è stato permesso inserire nelle loro opere gli autori proibihti senza niuna dichiaratione come si puole vedere in quelle (c. 5v).

7 La Biblioteca dei Gesuiti di Perugia e le carte dell’Oldoini furono cedute dopo nel 1773 dalle autorità ec-clesiastiche al Comune di Perugia che le depositò presso la Biblioteca comunale Augusta. Cfr. G Cecchini, La Biblioteca Augusta del Comune di Perugia, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1978, p. 92.

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Una famiglia di imprenditori musicali perugini. Intervista a Mario Belati.

Stefano RagniDocente del Conservatorio di musica di Perugia e dell’Università per Stranieri

Un incontro a palazzo Calderini

Anno 1870. Decisioni e novità si ebbero in quest’anno sul piano edilizio. Il Comune concesse l’area dei canapè all’architetto Calderini per innalzarvi un affare che non s’era mai sentito dire: un caseggiato in condominio! Non che le case di Perugia avessero ciascuna un unico padrone. […] ma nessuno aveva mai pensato di che si potesse fabbricare ex-novo una casa col proposito di dividerla. Calderini ebbe infatti difficoltà a vendere gli appartamenti. Per almeno due anni dovette reclamizzare l’offerta dei quartieri che erano lussuosi e ampi, ma naturalmente senza bagno e con gabinetti a semplice buco. (Uguccione Ranieri di Sor-bello, “Perugia della Bell’Epoca”, Perugia, Volumnia, 1970, p. 186).

Incontriamo Mario Belati in quello che è il luogo storico e ambientale da cui parte la storia dell’omonima casa editrice, ditta antesignana di interessi economici ed artistici che ha dato luogo a un itinerario commerciale e musicale protrattosi per tre generazioni di imprenditori perugini:

Là davanti c’era la colonnina della Shell per il rifornimento degli autobus. Qui, dove siamo seduti, era l’ingresso della sala di esposizione e il vano dove ora c’è la tabaccheria lo usavo come garage per la mia Millecento serie a. All’angolo c’era il negozio delle Lambretta, poi ci venne l’autoscuola Perusia. Tutto il piano terra e gli spazi sottostanti erano nostri: mio nonno Tito li comprò “sulla pianta”, affermando che voleva vivere in centro, perché se gli veniva voglia di andare al cinema, che allora era il Pavone, non voleva fare troppa strada. Poi, naturalmente, dato il suo carattere, al cinema non ci andò mai.

Siamo nel bar di piazza Italia, nel palazzo Calderini, e chi parla è un distinto signore dai capelli candidi e dallo sguardo azzurro dell’intelligenza: Mario Belati è l’ultimo espo-nente di una dinastia di imprenditori che, nella storia economica della città rivestono

Ieri & Oggi

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la levatura e l’importanza degli Spagnoli e dei Buitoni. Per la loro appartenenza al ver-sante della produzione musicale li si potrebbe paragonare ai Morettini, gli organari che a meno di cento metri da qui, in via del Circo, per più di tre generazioni progettarono strumenti ancora suonati nelle chiese di tutta l’Italia centrale.

Un’altra famiglia che, quasi un secolo prima, operando nella città del Papa-re, ha sa-puto coniugare il senso dell’arte con una progettualità artigianale che, per dinamismo, capacità di sviluppo e latitudine operativa, ha assunto le dimensioni di quella che oggi si definirebbe una media industria. Prosegue Mario Belati:

Il cortile qui dietro, dove oggi c’è il giardino, prosegue Mario Belati, allora era coperto a vetri ed era il luogo dove venivano rifiniti gli strumenti: tutto il lavoro di modellatura e di assem-blaggio si faceva nei locali che davano su via Marzia, un’attività rumorosa che non faceva certo paura al nostro dirimpettaio, che era l’elettrauto Speziali. Quando mio nonno Tito comprò questa enorme estensione di fabbricato in un palazzone che era il primo condominio con cui la Perugia della Belle Epoque entrava nella modernità, tutto il pavimento del pianterreno era di asfalto: questo marmo che si calpesta oggi è di molto posteriore.

Oggi Mario Belati, funzionario in pensione dell’amministrazione pubblica dove ha ri-vestito alti incarichi dirigenziali nei ministeri della Ricerca e dell’Università ama definirsi un “erede di imprenditori” che è tornato a casa con l’amore per le auto d’epoca e il gusto di ripristinare le memorie di una ditta di fabbricazione di strumenti e di edizioni a stam-pa per banda che ha avuto diffusione europea. La Casa Musicale Tito Belati, fondata dal capostipite, data dagli inizi del secolo: il primo catalogo è del 1900, l’anno della Tosca di Puccini, mentre l’insediamento a palazzo Calderini data dal 1905. Travolta in parte dalla crisi economica del ’30 la Tito Belati chiuse il settore di fabbricazione di strumenti a fiato e conservò solo quel settore delle pubblicazioni di musiche per banda che, pur attraverso le oscillazioni del settore, è arrivata intatta ai nostri giorni.

La storia della Casa Musicale Tito Belati

Nel 1890 il maestro Tito Belati è nominato direttore della banda dell’Unione Musi-cale Italiana di Lione. Aveva solo venticinque anni, era figlio di un proprietario terriero di San Martino in Colle e studiava la musica contro la volontà del padre. Lo sosteneva il nonno Claudio, un nome rimasto in famiglia per gratitudine. Gli passava i soldi-ni per prendere l’omnibus, ma Tito li risparmiava per comprare la musica, e pertanto percorreva a piedi la strada tra il paesello e il Liceo musicale Morlacchi di via Fratti. In questi vecchi e oscuri locali del convento dei padri Filippini studiava composizione con Armando Mercuri che gli insegnava anche la direzione d’orchestra. La decisione di lavorare all’estero era stata presa con la consapevolezza di venire a contatto con un mon-do professionale certamente più evoluto di quello italiano, ancorato al melodramma tradizionale.

Nel 1900 Belati era maestro della Banda Reggimentale del 35° fanteria del Regio Esercito Italiano di stanza a Foggia. I progetti di riforma del repertorio bandistico dif-fusi da Alessandro Vessella nell’ultimo decennio del secolo non trovavano impreparato

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il giovane perugino che a contatto con l’ambiente musicale francese aveva meditato in senso personale idee di modernizzazione di un settore ancora lontano da tentazioni economicamente competitive. Lasciato repentinamente l’incarico militare e ritornato a Perugia, Belati fonda lo Stabilimento Musicale che portò subito il suo nome. La ditta musicale era destinata in breve tempo a diventare sinonimo di musica per banda in Italia e nel mondo, anche grazie alle comunità italiane presenti nei più disparati angoli della terra. Ricorda Mario Belati:

La casa editrice era costituita da bauli contenenti le partiture che venivano custodite sotto il letto, con mia nonna che si occupava di evadere gli ordini e di provvedere alle spedizioni. Poi il trasferimento a Perugia, sempre in un appartamento, ma in Borgo XX Giugno, con l’acquisizione di rappresentanze di strumenti e di accessori bandistici, per le marche francesi. Lo sviluppo della stampa di “parti levate”, ovvero le singole musiche che ogni strumentista si mette sul leggio per suonarle, fu la vera novità della nostra ditta. Prima di allora questi fogli venivano compilati dai singoli maestri di banda che copiavano a mano dalla partitura colletti-va. In tal senso la innovazione fu subito recepita dal mercato: il fatturato salì e il grande salto fu sancito dall’acquisto della nuova sede al palazzo Calderini, precedentemente acquistata e presto disposta per accogliere lo Stabilimento Musicale, con tanto di officina per la produzione in loco degli strumenti completi in ogni loro componente.

Ma il novello editore seppe lavorare anche su un altro versante, che era quello, già promosso da Vessella, di accendere un vero dibattito accademico per definire organici stabili e accertabili di piccola, media e grande banda. Fu necessario convincere anche i compositori, (e Belati si annoverava tra loro) di scrivere strumentazioni adatte ad essere eseguite con organici variabili senza che la musica stessa ne ricevesse nocumento. Secon-dariamente Belati puntò all’assimilazione di quello che era allora il repertorio corrente, ovvero il melodramma popolare, la musica lirica: la nuova realtà bandistica avrebbe portato le opere sulle piazze cantando come un cast di interpreti vocali e suonando al pari di un complesso sinfonico. Ancora, tra le idee innovative di Belati prese corpo quel-la di inserirsi nel settore didattico, proponendo metodi per l’insegnamento che fossero rigorosi, ma non escludessero l’utilizzazione da parte di strumentisti dilettanti, ovvero la più parte dei cultori del settore. Coi metodi del maestro perugino si poteva fornire a questi “musici occasionali per diletto” una base teorica sufficiente per affrontare con un certo successo le opere più impegnative. E così a ogni piccola formazione di paese veniva consentito di fare cultura insieme al più godibile intrattenimento musicale.

Azienda e strumenti

Il problema da risolvere era quello di produrre strumenti di qualità per un’utenza non certo danarosa, disposta tuttavia a spendere quel poco che aveva per un manufatto che fosse di proprietà. L’intuizione di Belati fu quella di produrre a palazzo Calderini strumenti di buona fattura a costi accessibili, circostanza che fu messa in atto con l’as-semblaggio di macchine professionali in grado di realizzare ottoni e legni in un processo produttivo che, dati i forti numeri, consentisse una determinante e convincente riduzio-

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ne dei costi. Che la qualità ci fosse è testimoniato non solo dalla immediata diffusione dei prodotti sonori perugini, ma anche dai premi che, durante le mostre internazionali, i fiati dello Stabilimento Tito Belati conquistavano (a piene mani) a mani tese: il più prestigioso fu quello conseguito all’Expo Mondiale di Bruxelles.

Ricorda ancora Mario Belati:

Oggi in molti paesi, soprattutto nell’America latina, mi imbatto in strumenti di mio nonno battuti alle aste del settore con prezzi più che elevati. L’internazionalizzazione della casa non fece mai perdere a mio nonno il senso delle radici: fu sua la decisione di legare strettamente Casa editrice e Stabilimento strumentale a Perugia, confermando per ambedue l’emblema aziendale del grifo rampante, stemma che oggi ritrovo in ogni angolo dei luoghi musicali che visito e che contemplo con un pizzico di commozione e di orgoglio. Mi piace ricordare che, a quei tempi, solo la Perugina apponeva marchio simile sui baci e sulla Fondente Luisa. D’altra parte emblemi Liberty e Art Decò hanno sempre ben figurato sui nostri cataloghi, nei manife-sti, nelle cartoline pubblicitarie e in ogni nostra iniziativa grafica.

Arrivati al 1911, il maestro di banda, ormai consolidatosi come industriale di succes-so, vuole consolidare il suo mercato e fidelizzare clientela e fornitori: è necessario ora creare un nuovo strumento di comunicazione come un giornale aziendale dalla marcata caratura culturale e divulgativa. Nasce così “L’Amico dei bandisti”, un periodico che conoscerà anche tirature da oltre diecimila copie e che per due decenni rappresenterà il polmone pulsante dei percorsi culturali della musica per banda italiana. Con una agguerrita redazione composta da tecnici del settore, il periodico si caratterizza subi-to come una palestra di dibattiti sulla situazione bandistica nazionale, diventando un punto di riferimento per gli “innovatori”: la rivista cominciò a proporre anche concorsi di composizione riservando ai vincitori non solo la relativa pubblicazione, ma anche l’inserimento del titolo nel catalogo della casa editrice.

Era ormai tempo di internazionalizzazione e la casa Belati accettò la sfida, accompa-gnando gli emigranti fin nelle più remote regioni delle due Americhe. Ogni comunità di italiani, dovunque si radicasse, si portava dietro le sue tradizioni musicali, banda compresa. La Belati si attrezzò per provvedere anche all’estero i bandisti italiani della prediletta musica “di casa”, innescando un processo di diffusione extra-continentale che ancora oggi è vivo nella memoria di molti.

Nel 1930 fu la crisi mondiale e anche per la ditta perugina ci furono momenti di difficoltà: venne chiuso il settore aziendale destinato alla produzione degli strumenti. Si era avviato il fatale processo di recessione a cui fu soggetta l’attività bandistica con la guerra e con il boom della ricostruzione, caratterizzata dall’irruzione della musica afro-americana. E’ degli anni ’50 l’accordo commerciale con la casa milanese Vidale e il trasferimento nella città del duomo.

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Il ruolo di Mario Belati, editore di terza generazione:la tradizione e la sfida dei tempi nuovi

Sono nato a san Martino in Colle nel 1943 e mi hanno battezzato proprio l’otto settembre nella chiesetta del Feltre, dove in questi giorni si celebra il Pintoricchio per l’affresco della Madonna. A differenza di mio padre Claudio che era violinista e che, con un contratto per gli Stati Uniti in tasca, dovette acconciarsi a prendere in mano le sorti della casa musicale, la mia storia personale è del tutto estranea alla musica. Le materie e gli studi compiuti a Pe-rugia nella facoltà di Economia e Commercio dell’Università mi portavano verso un settore del tutto nuovo, ovvero la tecnica della ricerca di mercato. Allora le industrie italiane non applicavano questa disciplina. Tutta la mia funzione di “erede di imprenditori musicali” era lontana a venire, anche perché sentivo in cuor mio che nella mia città ci avrei vissuto poco. Con la laurea mi arrivarono le prime offerte di lavoro che giudicavo poco allettanti. Poi fu il caso fortuito a decidere. Conobbi in città una vecchia amica parigina di mio padre che aveva frequentato negli anni ’20 l’Università per Stranieri. Questa attempata signora di profonda cultura e di grande apertura mentale nella settimana passata tra noi mi fornì le chiavi di let-tura dello sviluppo mondiale che lei, da un osservatorio privilegiato come la capitale francese, vedeva molto meglio di me. Dopo dieci giorni dalla sua partenza mi telefonò per dirmi che se avessi voluto avrei potuto usufruire di una borsa di studio del governo francese per studiare due anni negli Usa, per poi inserirmi nella Comunità Europea. Traumatizzato dalla proposta seppi solo rispondere che non me la sentivo di lasciare solo mio padre. La soluzione fu mediata opportunamente, con l’accettazione di un posto della Banca Nazionale del Lavoro per il corso di funzionario. Mi stabilii a Roma, anche se cominciai a girare tutta l’Italia. La mia carriera si è svolta in una continua metamorfosi: il ministro Romita mi portò al Ministero della Ricerca per farmi occupare del settore del finanziamento e della ricerca industriale: c’era bisogno di tecnici che fossero in grado di dialogare anche con gli esponenti del Ministero del Tesoro. La mia attività si è articolata successivamente negli ambiti di direttore generale della Ricerca, pri-ma, dell’Università poi, fino a diventare capo di gabinetto vicario, prendendo il posto di Fazio. Nel ’97 sono passato all’Autorità di Garanzia della Comunicazione su delega di Maccanico.

Il racconto di Mario Belati continua a snodarsi tra i ricordi personali che, fatalmente, vanno a intrecciarsi con quelli della ditta di famiglia:

Cosa avveniva nel frattempo della Casa editrice? Sopravviveva a Milano, dando un suo gettito in diritti d’autore ed amministrata dalla compartecipazione Vidale. Ma alla metà degli anni ’70 i conti andarono improvvisamente in rosso. Si presentavano allora due ipotesi: chiusura o rilancio. Una decisione non facile per me che sono strettamente legato alle tradizioni della mia famiglia. Ma il rilancio significava diventare imprenditore part-time in un settore, quello musicale, che a me era totalmente sconosciuto. Cominciai allora a riannodare una serie di rapporti con vecchi amici di mio padre, a partire da Francesco Siciliani, il fondatore della Sagra Musicale Umbra, a Marino Marini, cantautore e figlio di un nostro compositore per banda. Ma decisivo fu l’avvicinamento a quello che considero ancora oggi un grande personaggio della musica umbra, il maestro Pietro Franceschini. Trombista eccezionale, grande esperto della direzione di banda, didatta del Conservatorio perugino, Franceschini era un vero punto di irradiazione di molteplici interessi musicali. Con lui mi misi in viaggio alla volta di Milano per promuovere l’ipotesi di un mini-piano industriale, comprendente anche una verifica di magazzino per vedere il reale stato delle cose. Viaggiammo in treno e al ritorno Franceschini mi espose la sua “filosofia aziendale”: mantenere l’impegno con la Belati e tener viva la sua

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antica funzione di faro dell’editoria italiana per banda era una scommessa da fare. Era del resto una questione di storia e di tradizione. Non era vero che tra il ’20 e il 28 la Belati, come produzione di strumenti a fiato, aveva raggiunto un fatturato da media industria? Franceschini mi espose nel viaggio di ritorno, che avvenne in treno, i principi entro cui avrei dovuto agire, io che venivo da tutt’altro settore che non era quello musicale: ristudiare la storia della Casa per poter ripristinare il senso del vecchio e del consolidato. Era un concetto vichiano che può risultare utile anche oggi a chiunque decida di affrontare un piano di intervento o di risana-mento di impresa. Con la certezza che Franceschini mi avrebbe assistito con la sua esperienza e la sua umanità riaprii con vera emozione la sede perugina della Belati realizzando quello che mi stava a cuore, la “evoluzione nella tradizione”.

L’attualità

Il lungo racconto di Mario Belati ci porta alla contemporaneità. Alla accettazione del-la sfida del moderno mercato dell’industria musicale, percorso da una concorrenzialità senza respiro, un vero impegno per una ditta che si ponga come antagonista delle grosse concentrazioni editoriali, i grandi colossi del globalismo. Passata l’emozione fu necessa-rio porre mano ai problemi dei singoli settori: organizzazione, produzione, repertorio, marketing e comunicazione:

Per l’organizzazione avevo pochi problemi ad applicare in forma ridotta le tecniche che gior-nalmente utilizzavo in banca: per il resto era tutta un’altra storia da scoprire! Ricordo solo alcuni dei punti più significativi di un lavoro appassionante che solo oggi ho tradotto in uno slogan per l’Associazione Gens Italica che presiedo: conoscere per costruire. Il primo passo fu dunque la riorganizzazione del repertorio, il vero patrimonio di una casa editrice: studiarne il gradimento è condizione della sua redditività. Ora la banda assolveva compiti diversi rispetto all’anteguerra, ed in particolare bisognava agevolare il gusto del pubblico e degli esecutori, in-dirizzandosi verso quelle composizioni che per il mercato estero era già una realtà: operare sulla musica ever green in un formula che, sul mercato italiano del passato era gia stata realizzata con le famose “fantasie su temi d’opera”. Decisa questa linea editoriale, ci accorgemmo presto delle difficoltà della selezione dei motivi e della necessità di strumentare in modo agevole quello che doveva diventare un pezzo di successo. Quando Renato Carosone, uno dei geni della canzone italiana, ci ringraziò per aver tradotto i suoi motivi più celebri in una vera e propria “sinfonia”, capimmo di aver centrato l’obiettivo. Ancora oggi, in presenza di un catalogo datato 1993, le “fantasie” della gestione editoriale Franceschini sono richieste dai nostri vecchi clienti. E la fantasie di canzoni e di pezzi lirici italiani sono tuttora molto apprezzate dalle nostre comunità italiane residenti all’estero: in questo senso si chiude il cerchio che mio nonno Tito aveva di-segnato con la sua momentanea “emigrazione” a Lione. Questo senza rinunciare allo zoccolo duro della nostra editoria, quelle marce e quegli inni religiosi che costituiscono tuttora una delle nostra produzioni di maggiore consumo.

La storia della Casa Belati si intreccia ora coi destini delle nuove generazioni di musici-sti. È il momento delle grandi avventure discografiche con quattro Lp in vinile realizzati con la Banda della Polizia di Stato e altrettanti promossi da Andrea Franceschelli e dal suo Grand Ensemble, una vera orchestra a fiati costituita dagli allievi del Conservatorio perugino. Con l’intervento autorevole di Giorgio Calabrese, paroliere e autore di succes-

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so, il Grand Ensemble arrivò in televisione in un contenitore di successo come era allora la Domenica In di Pippo Baudo. In mezzo a tutto questo non poteva mancare il contatto tra la Belati e il prestigioso Concorso Internazionale di Composizione di musica origina-le per banda di Corciano. Un marchio che oggi sotto l’impulso di Andrea Franceschelli è un made in Italy apprezzato nel mondo intero: le musiche premiate trovano subito idonea collocazione nel nuovo catalogo Belati.

Le conclusioni ancora a Mario Belati:

La casa editrice vive oggi sulle linee imprenditoriali tracciate da Franceschini. Ultimamen-te l’ho tenuta un po’ congelata, ma pur sempre viva. E ho intenzione di riaprire i giochi con la creazione di un comitato sorto per onorare la memoria dell’indimenticabile Pietro Franceschini. A suo nome sarà dedicato il Comitato per la realizzazione di un Centro Sto-rico delle Bande Musicali. A questo Centro sarà affidato l’onere di organizzare l’Archivio Storico della Casa Editrice Tito Belati e di divulgarlo attraverso web, un archivio quindi non museale, ma assolutamente vivo da far conoscere, un lembo di storia del Novecento che è ancora attualità. Nel nome di un’imprenditoria perugina che vorrei giudicare ancora capace di scatti di orgoglio.

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Fatti e misfatti d’arte.Conversazione con Giorgio Bonomi

Marco NicolettiScrittore e saggista

Prendendo spunto da un articolo di Giorgio Bonomi apparso in un quotidiano locale umbro e riguardante alcune osservazioni sulle opere recentemente collocate in corrispondenza delle stazioni del nuovo Minimetrò perugino, ho il piacere di intrattenermi con lui per un confronto sulle espressioni dell’arte figurativa contemporanea.

Giorgio Bonomi è nato a Roma nel 1946, vive a Perugia. Dopo un periodo di studi e scritti di filosofia politica, tra cui il libro Partito e rivoluzione in Gramsci, (Feltrinelli 1973), si è dedicato all’arte contemporanea come critico, curatore di mostre, saggista, fondando e dirigendo la rivista “Titolo”. Ha diretto il Centro Espositivo della Rocca Paolina di Perugia dal 1994 al 1999. È stato il Direttore della Fondazione Zappettini (Chiavari e Milano) che si occupa della pittura analitica, ed è il Direttore della rinata Biennale di Scultura di Gubbio.

Tra le più di cento mostre curate in Italia e all’estero, ricordiamo: Plessi; Beuys. Difesa della Natura; le Biennali di Scultura di Gubbio del 1992, 1994, 2006, 2008; 3 X Mono-chrom: Fontana, Manzoni, “Pinelli; Pittura 70. Pittura pittura e astrazione analitica. Ha collaborato alle tre rassegne (1996-1998) Arte italiana degli ultimi trenta anni, del Museo d’Arte Moderna di Bologna; a Il corpo-figura dell’immmagine. Aspetti dell’arte astratta italiana del dopoguerra, Städische Galerie, Rosenheim (Germania) e Museo Civico, Lecco, 2000.

Tra i libri più recenti, si ricordano: La collezione Burri, (1995); Introduzione all’arte contemporanea, (1996); Promuovere l’alluvione: Fluxus e dintorni, (1997); Il tempo. Scienza, cultura, educazione, (1998); Storia delle Biennali di Gubbio e Museo di Scul-tura Contemporanea, (2006); Maria Mulas, (2007).

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Mi è piaciuto molto il fatto che, da serio conoscitore della materia, lei abbia avuto l’onestà intellettuale e il buon gusto di avanzare decise critiche nei confronti di alcune recenti istalla-zioni proposte, il cui valore è decisamente basso, tanto da apparire, non si dice agli occhi degli esperti, ma soprattutto al buon senso comune, frutto di frettolose improvvisazioni. Muovendo da un primo livello di osservazione, vorrei chiederle un inquadramento generale sui fenomeni del contemporaneo in Italia, per poter capire come sia stato vissuto dalla cultura umbra e quali frutti abbia prodotto.

Partiamo da una premessa sull’arte contemporanea in generale. Questa si sviluppa dal Novecento in poi. Le grandi avanguardie storiche, non solo nelle arti figurative, ma anche nella musica e in tutte le altre espressioni che, crocianamente, possiamo definire le “attività dello spirito”, hanno avuto un progresso enorme all’incirca fino alla seconda guerra mondiale. In seguito, eccettuate le espressioni di quei non molti artisti che hanno apportato qualcosa di nuovo sul piano linguistico, il panorama è stato occupato da molti epigoni e da moltissimi cialtroni. Benché io sia un contemporaneista e viva di questo, devo riconoscere questa triste realtà. Io ho un concetto della storia che vede questa svi-lupparsi; certo può fare anche, in certe epoche, dei passi indietro, ma poi continua in avanti e, di fatto, il totale della somma algebrica ha sempre segno positivo. Attualmente ci troviamo in un periodo di crisi produttiva, che è sofferta anche dalla poesia, lettera-tura, teatro, musica e anche dal cinema, che ha avuto prestigiose espressioni fino agli anni ’70 e oggi, mi sembra, si trovi in evidente difficoltà. Così cerco di operare con e frequentare chi, con grande fatica e con grande serietà, fa ricerca e prova a creare qualche nuovo “termine”, o anche solo qualche nuova “lettera”, nel linguaggio dell’arte: non sarà un nuovo linguaggio, ma già è tanto!

A tale proposito desidero offrire alla nostra discussione ulteriori sollecitazioni, in modo da rendere ancora più vario il panorama delle suggestioni. Ho con me un testo1 contenente una serie di saggi di Sigfrido Bartolini – scrittore d’arte poco noto, direi “controcorrente” – e mi piace leggerle un brano relativo all’influsso che ha avuto il mercato sull’arte contemporanea, ove si osserva come questa sia divenuta suddita del mercato, rinunciando alle proprie origi-narie vocazioni. Scrive Bartolini: «La grande impostura dell’arte contemporanea si identi-fica nel dominio assoluto di un mercato che ha strappato l’arte dalla vita, ne ha creata una parallela e lontanissima dal bello e dal vero, ma perfettamente funzionale al potere di una combriccola che gestisce la menzogna per arricchirsi e ricavare potere. Se si accontentasse di soldi, in fondo poco male. Il crimine vero è che deruba di qualche cosa di essenziale: porta via l’anima». E’ un affermazione che mi convince assai.

Non condivido minimamente il giudizio per una ragione molto semplice: è vero che oggi il mercato influenza molto l’arte, ma allo studioso questo non dovrebbe interessare. Io cerco di analizzare l’opera d’arte e l’artista in base ai valori estetici che quelli sono in grado di esprimere. Non mi interessa il mercato, pur riconoscendo che il mercato

1 S. Bartolini, La grande impostura, Firenze 2002.

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è anche un rilevatore di qualità, anche se non l’unico né il più importante. Credo che affermazioni del genere di quelle espresse da Bartolini siano motivate da un’avversione verso l’arte contemporanea, prevalentemente astratta e concettuale. Chi si ferma al “fi-gurativo” non vede la bellezza della geometria; sicuramente Mondrian offre una bellezza maggiore e una maggiore purezza di quelle offerte da tanti pittori più realistici.

Io invece rimango dell’idea, pur condividendo il concetto della purezza espressiva. Certo, qui si aprirebbe tutto il discorso sulla Minimal Art e il suo valore “zen” ricercato soprattutto dallo storico gruppo di Ad Reinhardt, ma sono affinamenti di grande qualità, pressoché sco-nosciuti dalla cultura artistica locale e affrontando i quali devieremmo dall’obiettivo della nostra discussione che, prevedo, ci porterà a osservazioni assai meno entusiasmanti. Vediamo dunque come è stato interpretato il contemporaneo in Umbria.

La domanda è difficile ma, pensandoci bene, credo che, a parte Burri e Dottori, l’Um-bria non abbia mai toccato veramente il contemporaneo.

Mi pare che molti degli artisti distintisi localmente nel contemporaneo, provengano dalla scuola romana o abbiano avuto importanti contatti con l’estero. Alcuni non sono poi nem-meno umbri di origine.

Senza dubbio. È un’osservazione fondamentale. Burri, ha vissuto molto tempo a Roma, negli Stati Uniti e negli ultimi anni in Francia; ha avuto così modo di allargarsi la mente. Non credo che se fosse rimasto sempre in Umbria avrebbe potuto fare quello che ha fatto. Passa per grande gloria locale Dottori, che è sicuramente importante, ma non lo reputo all’altezza di Boccioni e degli altri Futuristi. Lo stesso Dottori ha poi vissuto a Roma.

Come si spiega questa assenza dalle grandi correnti della cultura?

Io non sono originariamente umbro; ci vivo da più di trent’anni e credo di poter espri-mere alcune osservazioni con una certa obiettività. Innanzi tutto credo che la regione abbia sofferto il fatto di non avere il mare e questo l’ha posta fuori dal flusso dei grandi contatti con altri popoli e altre culture.

Anche Piemonte e Lombardia non hanno mare, ma ciò non ha costituito un handicap al loro progresso culturale.

È vero, ma hanno potuto compensare quella mancanza con una favorevole posizione geografica, con le risorse interne e con altri destini che a noi sono mancati. L’Umbria non ha avuto neppure grandi invasioni con i conseguenti ingressi di culture e rimescolamenti etnici. Come in Toscana si vedono ancora i visi dei puttini o delle fanciulle botticelliane, qui da noi, si vedono ancora i volti dei Lucumoni etruschi. Poi da noi non c’è mai stata né grande ricchezza, né grande miseria, per cui la popolazione non ha neppure dovuto attivare inventiva e volontà per sopravvivere e mutare radicalmente il proprio status.

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Stele di Mario Pizzoni

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A tale proposito, ma con maggiore cinismo, Giuseppe Prezzolini, lui stesso perugino d’ado-zione, scriveva: «gli umbri soffrono la tara dell’ottusità contadina». Mi pare che l’afferma-zione, in base a quanto detto, esprima una sua verità.

Assolutamente d’accordo. Lo stesso Partito comunista, che qui ha fornito la classe dirigente per cinquant’anni, nelle sue analisi di autocritica, rilevò, tra l’altro, che uno dei propri limiti interni era proprio l’origine contadina della propria classe dirigente: non operaia, né borghese, ma contadina! Naturalmente ci sarebbe da discutere anche sulla borghesia umbra, che è stata molto ristretta, meschina e incapace. L’analisi è certamente empirica, ma se si osserva, ad esempio, la classe imprenditoriale, ebbene, nessuno è ri-uscito a fare il salto e a diventare un grande industriale. Nelle aziende il passaggio dalla conduzione familiare a quella di impresa moderna è risultato fatale. Se pensiamo alla Benetton e alla ElleEsse, queste sono partite negli stessi anni e, allora, l’ElleEsse ebbe un grande successo, ma Benetton oggi è presente in tutto il mondo, mentre ElleEsse, come nome, marchio e prestigio, risulta pressoché scomparsa. Per non dire della famiglia Bui-toni, che è risultata anch’essa incapace di mantenere le proprie posizioni, e via di seguito: tutte imprese che sono risultate efficienti fino ad un certo punto, fintanto che la dimen-sione e la conduzione sono rimaste a carattere familiare. Tutto questo indica proprio una estrema ristrettezza di vedute, di cultura e forse anche di coraggio: proprio un “fare” contadino, se vogliamo insistere nel paradosso. Torniamo però ai nostri argomenti, tor-niamo al discorso dell’arte. Quali sono state le figure che hanno significato qualcosa per l’arte contemporanea umbra? Oltre alla presenza di Burri che, come abbiamo detto, ha inciso assai poco nel contesto, anche per ragioni politiche, essendo stato sdoganato da appena vent’anni, causa il suo posizionamento a destra, che lo ha relegato ai margini dell’ambiente locale, e lo stesso, e per le medesime ragioni, è avvenuto anche per Dotto-ri, ci sono comunque stati un paio di fenomeni di grande valore qualitativo: uno rappre-sentato dalla mostra di sculture all’aperto, nel 1962 a Spoleto, curata da Carandente – la prima occasione in cui una città umbra, ma non solo umbra, diviene contenitore di una mostra internazionale di scultura –, l’altro è lo Spazio dell’Immagine di Foligno del 1967, dove illustri artisti – da Fontana a Castellani a Notari – hanno creato ambienti, stanze, non più semplici opere, precorrendo una tendenza che verrà poi ampiamente sviluppata dall’arte statunitense e mondiale.

In seguito, se mi si passa una citazione personale, vorrei ricordare la creazione del CERP (Centro Espositivo della Rocca Paolina) della Provincia di Perugia in cui ho orga-nizzato delle mostre, senza tema di smentita, “straordinarie”, da Plessi a Beuys: ora lì si fanno le mostre sui prodotti tipici calabresi, sui formaggi e su qualche artista meno che “locale” e peggio che “scadente”!

Tornerei un attimo a Burri e alla domanda precedente sui rapporti tra arte e mercato. Non crede che gran parte del suo successo, senza sottovalutare il valore dell’innovazione, sia stato dovuto anche ad efficaci e vaste operazioni di marketing?

Negli anni in cui operava Burri il discorso era diverso perché c’erano sì tanti artisti, ma

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quelli “veri”, quelli che facevano mostre, che venivano seguiti dalla critica, erano pochi; tutti gli altri erano dilettanti. Oggi questo schema si è trasformato e abbiamo migliaia di persone che prendono i pennelli in mano e dicono: «Io faccio il pittore». Oggi è faci-lissimo avere due o più cataloghi, fare una mostra, rappresentarsi, insomma. La colpa di tutto ciò è naturalmente anche nostra, della categoria dei critici. A Roma, alla fine degli anni ’50, i vari Consagra, Turcato, Burri, facevano letteralmente la fame, però erano consapevoli di essere loro il futuro. Nonostante l’opposizione di tutta l’ideologia del Partito comunista da un lato – Togliatti in testa – e dall’altro del mondo democristia-

Sister Orca di Marvin Oliver

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no – Andreotti in testa –, loro sapevano che avrebbero rappresentato il futuro prossimo dell’arte in Italia. Vivevano di consapevolezza, e poco avevano a che fare con il mercato. Oggi tutto è cambiato: mi sembra che viviamo un periodo di proletarizzazione degli artisti.

Burri, Dottori, costituiscono dunque due fenomeni a parte, non interamente riconducibili alla figura dell’artista contemporaneo perfettamente definibile come umbro dal punto di vista formativo. Ma ne esistono?

A questo punto devo dire una cattiveria. Se fossi commissario alla Biennale di Vene-zia e mi chiedessero di indicare qualche artista umbro da invitare alla manifestazione accanto ad artisti internazionali, ebbene, avrei qualche difficoltà a dare una risposta. Ci sono alcuni giovani abbastanza bravi, però anche loro soffrono di quel provincialismo di cui prima abbiamo ampiamente accennato. Questa è un’osservazione che ho scritto in un saggio in occasione di Terra di Maestri, che ha suscitato grosse irritazioni, senza però che mi siano state fornite obiezioni convincenti. Di artisti umbri che in passato hanno avuto l’occasione, la “ fortuna” (in senso machiavellico) del successo e se la sono lasciata sfuggire, ce ne sono: parlo, per esempio, di Raponi, Benucci, Brunori. Artisti che sono stati in mostre assai importanti, come la Biennale veneziana o la Quadriennale romana in tempi non sospetti, quando non c’erano gli inviti preconfezionati, eppure la provincia li ha risucchiati! Loro dovevano avere il coraggio di uscire fuori, di andarsene o, al limite, viaggiare molto. Invece sono rimasti e si sono creati un loro “mercatino” locale, che poi li ha fagocitati.

Prendiamo Bacosi, noto ai più come il campione del quadraccio commerciale, ebbene, lui negli anni ’60, collegandosi all’informale di Burri, ha realizzato delle opere di valo-re. Purtroppo lo stesso fenomeno si sta oggi verificando con gli artisti più giovani. Io, sessantenne, faccio cinquantamila chilometri all’anno, dico sempre loro di viaggiare, di “muovere il c…”, perché sebbene questa sia l’era dell’informazione in tempo reale, dato il numero enorme di artisti presenti sulla scena, avviene che, se uno non è in grado di emergere sulla massa per valori indiscutibili, le proprie chances di successo rimangono legate esclusivamente alla fortuna di potersi trovare in prossimità del critico, della galle-ria, del museo, e quindi di essere scelto. Molti perugini giovani hanno avuto occasioni, hanno fatto delle mostre importanti, poi si sono stancati, si sono creati una famiglia, si sono rinchiusi nella loro tana e sono scomparsi dalla scena nazionale. È il risucchio della provincia. Non è vero che questa non esiste più, ci si può anche vivere bene, però ogni tanto bisogna andare a Roma e a Milano e oltre (per esempio Londra, New York), altrimenti è finita. Ripeto, di artisti bravi ce ne sono – almeno tutti quelli che stanno all’interno della Quadriennale in corso – ma tra loro nessuno spicca. Appena si offre loro una chance, questi sembrano avere paura, preferiscono il piccolo insegnamento all’Acca-demia… e così via.

A proposito di “accademia” intesa come pratica di studio fondamentale, credo che molti artisti contemporanei non sappiano nemmeno disegnare. È accettabile questo?

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Assolutamente no. Faccio un esempio attuale: la crisi che sta vivendo la nostra Acca-demia di Belle Arti – e qui parliamo di Istituzioni – in fondo non viene a caso, ma è legata ad una graduale perdita di caratteristica e prestigio. Ecco che si ritorna sempre al discorso del provincialismo. Pare che tra le mura della nostra Istituzione circolasse una parola d’ordine che suonava così: «fuori i Romani dall’Accademia!» Perciò Mattiacci e Corà, che erano due nomi internazionali, sono stati messi in condizione di andarsene. In un discorso più generale, penso comunque che le Accademie non abbiano più motivo di esistere e si dovrebbero istituire, come in Spagna, le Facoltà di Arte dove si studiano materie teoriche e pratiche; in più si devono creare scuole di alto artigianato – questo

Sirenetta (?)

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era in passato l’Accademia – affinché si possa tornare alla cultura e alla pratica dell’arti-gianato artistico: il ferro battuto, la ceramica ecc. Io sono perfettamente d’accordo che tutti devono imparare delle tecniche di base, perché l’arte è soprattutto tecnica, come lo è la scrittura, la poesia, la musica e via di seguito. È proprio dalla tecnica, perfettamente conosciuta, che scaturiscono poi molte idee creative, quindi è imprescindibile per un artista conoscerla.

Da queste idee di riferimento passiamo ora a parlare delle opere che hanno mosso la ri-provazione sua e della città. Sono prove che paiono simboleggiare come, anche nel campo dell’arte, si sia raggiunto quel limite negativo già traguardato dalla città in campo politico, sociale ed etico. Parliamo di sculture – o istallazioni – realizzate dagli artisti Burattini, Raponi, Mannelli, Pizzoni, che si evidenziano in esiti, a dir poco, infelici. In alcuni casi è la povertà di ideazione ad evidenziarsi, in altri la poco accurata esecuzione, in altri ancora l’inadeguatezza proporzionale delle opere in relazione al sito che le ospita. L’immagine glo-bale dell’operazione rivela l’aspetto di una debole improvvisazione che si recepisce come un affronto al gusto (e alle tasche) dei cittadini. Altro frutto di genetica ottusità?

Si tratta soprattutto di opere brutte esteticamente e male eseguite. Prendiamo la ste-le di Pizzoni collocata al centro della rotonda nei pressi del Palaevangelisti: ieri (una settimana dopo l’inaugurazione) già la fontana non buttava più acqua e, in più, – ho notato – appare evidente alla vista il condotto che porta l’acqua, malamente occultato in cima alla scultura. Non ci è concessa neppure la suggestione di vedere lo zampillo che sgorga dalla pietra! Questo, secondo me, rientra ancora nell’incultura tipica dei nostri amministratori che si manifesta in un degrado progressivo. In passato abbiamo avuto come assessori alla cultura professori provenienti dall’università, di Latino come Coli, di Archivistica come Abbondanza, un archeologo, poi Soprintendente, mia sorella Laura Bonomi, tutte persone colte e preparate. Poi c’è stato un baratro – uno aveva appena la terza media – dal quale non si è più risaliti, nonostante qualche giovane da poco laurea-to. Ora, la città di Perugia è una città massacrata ove però, intendiamoci, il cattivo gusto predomina da lunghi anni.

Osserviamo la qualità del costruito. Basta fare sessanta chilometri ed arrivare alla peri-feria di Arezzo per vedere case popolari di tutt’altra qualità. Qui da noi, alcuni anni fa, dopo aver cementificato senza gusto e rispetto, si è chiamato Aldo Rossi – troppo tardi – facendolo intervenire su un progetto già stabilito, realizzandolo male e non rimanendo fedeli all’idea del maestro… un mezzo fallimento. Qualche buon edificio c’è (penso a quelli dei Signorini, dello Studio Hof, e di pochi altri) ma in generale prevalgono i ma-nufatti di quelle poche aziende che costruiscono, con i progettisti interni ed anonimi, in una assurda viabilità che non turba gli interessi dei proprietari dei suoli.

Tornando al discorso dell’arte pubblica, oltre a mancare il gusto per il bello, sono an-che mancate le commissioni ad hoc, con esperti in grado di selezionare da un campione ampio di candidature e non soltanto da quel ristretto manipolo di artisti (mediocri) che il contado perugino è in grado di offrire. Vede, in passato si è molto criticato Mancini,

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definito “lo scultore di regime”, ma la sua qualità, pur nella varietà degli stili, appare oggi di gran lunga superiore alle prove di cui ora parliamo.

Questo è però un controsenso. Perché per il metrò cittadino le Amministrazioni chiamano Nouvel e per le arti figurative mobilitano soltanto i mediocri artisti locali?

Questa esterofilia è un fatto recente; non va dimenticato che i danni maggiori in campo urbanistico ed architettonico sono da addebitarsi sempre a progettualità locale. Così è per l’arte pubblica: e i risultati si vedono. L’opera di Burattini collocata di fronte alla Questura – una sorta di tre “stecchini” – è completamente fuori scala rispetto al sito che la ospita. Non c’era bisogno di essere grandi architetti per valutare questa anomalia: i singoli pezzi dovevano essere alti e larghi almeno il doppio per assumere non dico una significanza, ma almeno una coerenza in quel contesto. Il giudizio di una seria commis-sione avrebbe rilevato l’inconsistenza della proposta.

C’è poi un’altra opera di carattere figurativo, la peggiore di tutte, una “sirenetta” col-locata di fronte alla stazione di Fontivegge, che richiama le obbrobriose statuine in ce-mento di Biancaneve e i sette nani, quelle che troviamo in ogni angolo della provincia italiana. Consideriamo anche il “muro” di Colombo Manuelli dedicato a Gramsci e collocato accanto alla ciminiera, sotto la Piazza del Bacio, un’opera estremamente dema-gogica e, francamente, fuori tempo: si pensi che i “muri” sono stati fatti, fin dagli anni ’60, in tutti i paesi e in moltissime occasioni, per i partigiani, per gli ebrei, per i caduti in Vietnam ecc.

E tornano ancora, immutati, dopo quarant’anni, come etichette ideologiche ammuffite ma purtroppo inamovibili….è spaventoso!

Non è l’ideologia di Gramsci che è ammuffita, lo è chi crede di potere usare il suo nome e il suo pensiero per fini personali fuori contesto.

Voglio essere buono definendo la questione semplicemente patetica: Manuelli era mio amico ed anche un artista bravo, ma aveva smesso di fare l’artista e si era messo a fare po-litica con i gruppi della Sinistra più radicale – eravamo compagni insieme – poi è ritor-nato all’arte ma, non riuscendo più ad integrarsi nel nuovo sistema dell’arte, ha lasciato tutto, ritirandosi a vita privata. Ogni tanto, quando lo chiamano, realizza ancora qualco-sa, ma questa sua emarginazione appare evidente dalla ripetitività e dalla estemporaneità dei soggetti proposti. Lo stesso Raponi, che è artista intelligente, ha realizzato quei tubi che sbrodolano cemento colorato, collocati, fortunatamente seminascosti, presso una stazione intermedia. Anche qui appare un passatismo ripetitivo e stanco: quante colature abbiamo visto, dagli anni ’60 ad oggi, realizzate con i più svariati materiali? Poi c’è il medaglione con il grifo di Pasticci, al centro della rotonda dei Rimbocchi, che pare un grosso portachiavi… insomma, spesso mancano le parole per definire certe cose.

Ora, di fronte all’evidenza di tale limite, alcuni amministratori iniziano a fare lo sca-ricabarile delle responsabilità ma è troppo tardi. Eppure, in questa deludente panorami-ca, qualcosa di buono da recuperare ancora ci sarebbe, tipo quella scultura del grande

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Staccioli – un vero artista, presente in varie parti del mondo, dagli USA alla Corea, dalla Spagna al Belgio – che io feci collocare in Via del Giochetto, presso l’ex manicomio, tenuta oggi in uno stato di indescrivibile abbandono. È una vergogna!

Tornando però alle opere oggetto delle nostre osservazioni, sebbene l’opinione pubbli-ca le aborrisca, credo sarà molto difficile toglierle di mezzo e quindi dobbiamo prendere atto che, ancora una volta, si è persa l’occasione di offrire alla città un adeguato com-plemento di arte e di bellezza. Vorrei aggiungere un ricordo illuminante. Quando, negli anni ’80, durante un convegno, Aldo Rossi ricordò i tempi in cui, venendo dal Lago Trasimeno, lo skyline della città era sgombero da anonimi casermoni e si poteva vedere Perugia, al tramonto, rosata con i suoi palazzi medievali, l’ingegner Fabio Ciuffini gli rispose che lui era un romantico alla Lady Godiva, che sognava scene d’Arcadia… una risposta cretina, perché Rossi, in realtà, già da allora avvertiva lo scempio cui la città era destinata.

Abbiamo detto molto e ora, in conclusione, vorrei accennare a un’ultima fatale presenza che verrà svelata proprio domani: Sister Orca, un totem metallico multicolore collocato nella Piazza Umbria Jazz per celebrare il gemellaggio tra Perugia e Seattle.

Questo è l’esempio che “al peggio non c’è fine”. Ma ha senso portare qui un totem in-diano? L’autore poi, Marvin Oliver, è pressoché sconosciuto. Ecco che il cerchio si chiu-de e ci ritroviamo al discorso iniziale del provincialismo. Mi tornano alla mente quelle colombe della pace, che sembrano “palombacce”, realizzate in memoria di Olaf Palme, che se ne stanno appiccicate, completamente fuori scala nelle loro misure ridottissime soprattutto rispetto all’ampiezza del muro su cui si poggiano, su una parete delle scale mobili cittadine. Furono commissionate dall’Amministrazione a Pierucci, un artista pe-rugino di mediocre valore, ma da tempo stabilizzatosi negli Stati Uniti: probabilmente si scelse lui soltanto perché sapeva di “americano”. Che tristezza!

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Il beato Egidio a Perugia:una presenza storica e monumentale

Francesco VignaroliPubblicista e Guida Turistica dell’Umbria

“... tanto che ‘l venerabile Bernardo/si scalzò prima, e dietro a tanta pace/ corse e, correndo, li parve esser tardo./ Oh ignota ricchezza!, oh ben ferace!/ Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro/ dietro a lo sposo, sì la sposa piace.” (Dante, Paradiso Canto XI, 79-84)

Quest’anno ricorre un centenario molto importante, che è però sottovalutato e sta passando sotto silenzio. Nel corso dell’anno 1208 accaddero ad Assisi una serie di fatti, che ai contemporanei dovettero sembrare poco più che l’espressione di crisi d’identità di alcuni giovani; in realtà questi accadimenti innescarono un movimento che nel corso dei successivi otto secoli ha coinvolto centinaia di migliaia di persone, portando pra-ticamente in ogni parte del globo il nome di San Francesco e rendendo la sua piccola città natale uno dei luoghi più noti al mondo. Circa due anni prima, Giovanni di Pietro di Bernardone, figlio primogenito venticinquenne di uno degli esponenti più in vista della classe mercantile della città, noto a tutti con il soprannome “Francesco”, aveva rinunciato in pubblico ai diritti di successione sull’attività e sulle proprietà del padre per dedicarsi completamente a una vita religiosa di tipo semi-eremitico. La scelta plateale di Francesco, lacerante per la sua famiglia e scandalosa per l’ambiente sociale assisano, non era stata ben compresa né accettata dalla cittadinanza. Di fatto, per circa due anni, il giovane si era ritrovato completamente isolato e la sua scelta non doveva lasciar intrav-vedere nessun esito di qualche rilievo, ma un problema interno a una delle famiglie più in vista della città.

Nel mese di aprile dell’anno 1208 accade invece qualcosa che muterà il destino della contestata scelta del giovane Francesco: tre giovani amici decidono di seguirlo nella sua scelta di vita religiosa sui generis, completamente diversa da quelle “canoniche” di quei tempi. I tre sono Bernardo di Quintavalle, Pietro Cattani e Egidio. I primi erano, come Francesco, esponenti della classe dirigente della città, mentre il terzo, Egidio era figlio di contadini. Non si riesce a ricostruire le fasi di gestazione della scelta di questi primi

Umbria da Scoprire

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compagni, ma è presumibile che i rapporti tra loro e Francesco non si fossero mai com-pletamente interrotti. Comunque siano andate le cose con esattezza, il 1208 è un anno centrale nella vita di San Francesco e nella storia del medioevo, perché segna la nascita, non programmata, del movimento francescano. Dopo i primi tre, infatti, si può dire che il gruppo dei primi francescani si fece, quasi di giorno in giorno, più grande. In pochi anni la comunità dei frati raggiunse delle dimensioni e un’importanza religiosa, ma an-che storica e culturale, di eccezionale valore, nemmeno minimamente immaginabile ai primi fondatori.

È inutile, perché ben noto, affrontare in questa sede la grandezza e l’influenza del movimento francescano nel corso degli ultimi otto secoli. Quello che ci preme è sotto-lineare come l’atto di nascita del movimento francescano non sia tanto da individuare nel momento in cui Francesco rinuncia ai beni paterni (1206-07), ma piuttosto nella scelta di Bernardo, Pietro ed Egidio di unirsi a Francesco (aprile 1208). Essi sono i co-fondatori del movimento, perché trasformarono, con la loro adesione, la scelta indivi-duale del santo in un’esperienza comunitaria e comunicabile ad altri. È indubitabile che, nel bene e nel male, un singolo uomo diventa “grande”, se non davanti a Dio, almeno davanti alla storia, quando i suoi atti arrivano a influenzare le esistenze di altri esseri umani. La “grandezza” di San Francesco si è espressa attraverso i suoi compagni: senza di loro, Francesco d’Assisi non avrebbe avuto alcun rilievo storico! Sarebbe stato uno dei tanti eremiti anonimi del medioevo, magari santo ma, sconosciuto.

Questa vicenda interessa direttamente Perugia, perché Egidio, uno dei tre protagoni-sti, spese gran parte della sua vita nella nostra città, vi morì e qui si conservano i suoi resti e alcuni luoghi legati alla sua presenza. Non vogliamo ripercorrere la vicenda uma-na e spirituale di questo seguace di San Francesco, che divenne “perugino” nell’ultima parte della sua vita (per chi fosse interessato, segnaliamo una recente biografia su di lui: Bernardo Commodi, Vita del beato Egidio compagno di San Francesco, E.F.I., 2002), ma solamente dare alcuni accenni sull’importanza di questa figura e sui luoghi che ricordano la sua presenza a Perugia.

Egidio è al giorno d’oggi pressoché sconosciuto, mentre alla sua epoca era un perso-naggio celebre. Di umilissime origini, come abbiamo accennato, Egidio possedeva una personalità molto forte e un’intelligenza acuta, di cui sono testimonianza alcuni “detti” che ci sono stati tramandati. Per la sua profonda esperienza religiosa e la sua umanità, venata di un certo senso dell’ironia, egli divenne, se non una guida del movimento francescano, almeno un punto di riferimento spirituale molto importante all’interno e all’esterno dell’ordine. A lui si rivolgevano, infatti, molte persone, sia religiosi che laici, persone normali e importanti personaggi. Si narra, ad esempio, che l’umile frate francescano ricevette la visita del re di Francia San Luigi IX, ma questo è probabilmente un fatto leggendario. Mentre è storica la visita di papa Gregorio IX. Anche il famoso San Bonaventura da Bagnoregio, prima professore all’Università di Parigi, poi Ministro Generale dei Francescani e biografo ufficiale di San Francesco, venne a Perugia nel 1260 per avere un colloquio con il frate e poter ascoltare il racconto degli inizi della storia di San Francesco da uno degli ultimi testimoni oculari rimasti in vita.

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Egidio, soprattutto nei primi anni, aveva vissuto per lo più viaggiando per l’Italia e il Mediterraneo, per portare il messaggio francescano. Egli arrivò sino in Spagna, in Terra Santa e in Tunisia, dove per poco non venne ucciso a causa della predicazione della re-ligione cristiana in terra mussulmana. Poi, dal 1214-15, sempre più scelse di vivere in eremitaggio per dedicarsi alla preghiera e divenendo celebre per avere spesso esperienze mistiche. Dopo aver soggiornato in diversi eremi dell’Umbria, nel 1230 (San Francesco era morto da 4 anni) decise di fermarsi a Monteripido, alle porte di Perugia, divenendo uno dei personaggi più noti della città di allora.

Il colle di Monteripido, su cui sorse nel XV secolo l’attuale grande complesso conven-tuale, era ricoperto da un bosco che venne concesso in uso e poi donato dal proprietario ai frati. L’eremo era ovviamente molto semplice: un piccolo oratorio, capanne per i frati e l’orto. Il beato rimase a Monteripido per più di trent’anni e qui morì nel 1262. Quando in città si diffuse la notizia che il compagno di san Francesco stava per morire, le autorità cittadine mandarono delle guardie armate per impedire che, una volta morto, la salma del celebre frate venisse trafugata. Dopo la morte, il corpo di Egidio venne portato in processione alla chiesa di San Francesco al Prato e qui tumulato.

Certamente il segno più grande della presenza di Egidio a Perugia è la mole del con-vento francescano di Monteripido: il fatto che proprio in quel luogo venisse edificato nel Quattrocento il convento attuale è direttamente legato alla presenza di Egidio e degli altri frati del XIII secolo, i quali scelsero il colle fuori Porta Sant’Angelo come sede del loro eremo. Nell’attuale struttura esiste una piccola cappella che corrisponderebbe al luogo dove sorgeva la celletta di Egidio e dove lui morì. Sotto l’altare si trova anche una reliquia del beato, mentre la parete di fondo porta un affresco dove Egidio è raffigurato ai piedi della crocefissione insieme alla Madonna, San Giovanni e San Francesco. Le spoglie del santo vennero, come già detto, tumulate in San Francesco al Prato, collocate dentro un antico sarcofago romano ritrovato nella zona qualche anno prima, durante i lavori di scavo per la costruzione della chiesa. Il sarcofago è un raffinatissimo esempio di scultura antica, forse il più bell’esempio di arte funeraria romana che si trovi in tutta l’Umbria. Fra l’altro, questo sarcofago è un esempio abbastanza raro, fuori Roma, di arte tardo imperiale con sculture già di significato cristiano: nella parte inferiore c’è una scena che sembra rappresentare “Gesù tra i dottori”, mentre nel coperchio si vede il racconto di “Giona e la Balena”, episodio dell’Antico Testamento che profetizza la morte e resurrezione di Cristo. Così il prezioso ed elegante sepolcro di un ricco cristiano della Perugia romana divenne, dopo almeno otto secoli dalla sua realizzazione, l’ultima dimora del più umile e illetterato dei primi seguaci di San Francesco.

Dopo una serie di spostamenti, dovuti alla progressiva inagibilità della chiesa france-scana, il sarcofago con i resti del Beato Egidio venne definitivamente collocato, alla metà del XX secolo, nell’attiguo Oratorio di San Bernardino, dove oggi funge da altare. Sulla parte centrale del coperchio si vede ancora benissimo l’iscrizione in oro “Beati Egidji Sepulcrum”. Nei secoli immediatamente successivi alla morte del frate, la sua tomba era continuamente meta di persone che chiedevano grazie al compagno “perugino” di San Francesco.

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È noto che il rapporto tra il grande santo di Assisi e la vicina Perugia non fu mai buo-no, restava forse traccia nell’animo dell’assisano delle vicende della sua gioventù, quando la rivalità tra le due città sfociò nella battaglia di Collestrada (1202) a cui Francesco partecipò come combattente e nella quale venne catturato e tenuto prigioniero per un anno nelle non certo confortevoli prigioni di Perugia. Da un certo punto di vista, pos-siamo vedere la lunga permanenza del Beato Egidio a Monteripido come il segno della riconciliazione tra San Francesco, senza paragoni la più grande figura che l’Umbria abbia dato all’umanità, e la nostra città. Un buon motivo per rinfrescare la memoria cittadina su questo figlio di contadini di Assisi, che venne a vivere e morire a Perugia ottocento anni fa; un personaggio che attraverso la sua storia e i suoi “detti” sa ancora dirci cose acute, che fanno riflettere e che ci testimoniano come, tutto sommato, la vita degli esseri umani si giochi sempre intorno alle stesse cose... “Questo mondo è un campo tale, che chi ha la parte più grossa ha la peggiore” (Beato Egidio, Detti).

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L’Istituto Agrario di Todi

Rita BoiniGiornalista del “Corriere dell’Umbria” e scrittrice

Un complesso di edifici antichi, ma di varie epoche, e proprietà sparse in tutto il territo-rio – si spazia da un’azienda agraria a un allevamento di bovini – e una storia prestigiosa: è l’Istituto tecnico statale agrario di Todi, il più antico istituto agrario d’Italia. La nascita nel 1863, negli anni che seguono l’Unità e i grandi cambiamenti del paese. Gli amministratori della Congregazione di carità di Todi deliberano la fondazione di una “colonia agricola”, a finanziare la neonata istituzione l’Opera pia Consolazione, titolare a Todi anche oggi – seppure con diversa denominazione – dell’omonimo tempio e di numerose proprietà, ma anche obbligata, per statuto, ad occuparsi di assistenza, solidarietà, filantropia.

Scopo dell’istituzione della colonia agricola è di «elevare le condizioni morali e del sapere di poveri giovani del mondo agricolo tuderte e le condizioni dell’agricoltura dello stesso territorio». In realtà a studiare, fin dall’inizio, all’Agrario, non andranno mai i “poveri” in senso stretto: piuttosto i figli della borghesia agraria, piccola e media, ma non soltanto, e i figli dei coltivatori diretti, cioè contadini che coltivano la loro terra, magari un piccolo podere, ma senza essere i mezzadri di un qualche padrone, e che aspirano a migliorare il proprio status sociale.

Dall’Agrario usciranno tecnici che devono dirigere la propria, o altrui, media azienda o essere inseriti, con la loro professionalità, nell’organigramma di una grande azienda. Più tardi, con la fine della mezzadria, anche impiegati e dirigenti di enti legati all’agri-coltura. Una scuola, questo sì, molto legata al maschile: le prime donne, uno sparuto gruppo di sei, entreranno solo a metà anni ‘60. Inoltre gli allievi non saranno certo sol-tanto tuderti: fin dall’inizio, per il fatto che è stato il primo e che si guadagna da subito un solido prestigio, ma anche per la presenza del convitto, che permette agli studenti di soggiornarvi, arrivano studenti da tutta Italia e anche dall’estero.

Nel 1883 la colonia agricola si trasforma in Regia scuola pratica di Agricoltura; nel 1921 viene intitolata ad Augusto Ciuffelli, di Massa Martana, più volte ministro e che della scuola era stato presidente del Comitato amministrativo per un decennio; nel 1924 diventa Regia scuola agraria; nel 1933 Regio Istituto Tecnico Agrario. Ma quale che sia il nome che via via prende, continua a sfornare agenti rurali e periti agrari, ad essere sem-

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pre all’avanguardia nella conoscenza e nella trasmissione del sapere in campo agricolo, a incrementare il suo patrimonio, reale e culturale.

La sede è a pochi metri dal luogo in cui San Francesco si fermò e fece erigere uno dei più antichi ospedali di carità dell’Umbria, a costituire l’edificio principale della sede centrale l’ex convento francescano di Montecristo, in cui si vuole che ebbe per breve tempo sepol-tura Jacopone da Todi. La conoscenza sempre aggiornata delle tecniche agricole, senza mai scordare la tradizione italiana, è tra i punti fermi dell’Istituto, immutata negli anni. Una scuola che accanto allo studio e alle lezioni teoriche affianca la pratica, tanto che oltre alle normali aule e al convitto, vi sono, nel territorio circostante, una cantina, un caseificio, una vera e propria azienda agricola. In gran parte a ospitare queste “appendici” dell’Istitu-to (che per dimensioni e produzione sono alla pari di una qualsiasi azienda agricola medio grande e di tutto rispetto) sono edifici antichi, in cui si respirano storia e tradizioni.

Attualmente sono in atto alcuni importanti progetti, in filo diretto di continuità con il passato della scuola, come il progetto di conservazione e valorizzazione della biodiversità di interesse agrario della Regione Umbria: antiche varietà di alberi da frutto vengono impiantate nel terreno annesso all’orto botanico dell’Istituto Tecnico Agrario. Anche se il fiore all’occhiello di queste sperimentazioni è l’ultimo nato: il “Passito di Montecristo” ottenuto dalle uve Grechetto, antico vitigno tuderte, finora mai utilizzato in purezza per la produzione di vini da dessert, nato dall’intuizione dei tecnici dell’Istituto coordinati da Riccardo Cotarella, enologo orvietano di livello internazionale.

Quasi centocinquant’anni di attività ininterrotta significano anche una biblioteca che si è formata nel corso degli anni e che racconta, indirettamente, la storia di un lungo periodo dell’agricoltura italiana, oltre che possedere alcuni testi preziosi. Ma anche col-lezioni didattiche, come quella di frutta finta, sulla quale, letteralmente, generazioni di studenti hanno studiato le varie qualità di pere, mele, ciliegie, albicocche, pesche che il mercato offriva, e in qualche caso offre ancora. Collezione didattica non più utilizzata negli ultimi anni, e tenuta con grande cura, come tutto quello che fa parte della storia di questa istituzione scolastica. Ma anche oggetti da museo, come si è recentemente scoper-to: infatti, la frutta finta dell’Agrario è opera di Francesco Garnier Valletti, modellatore di fiori e frutta, famoso per questo nell’Ottocento in tutte le corti europee ma anche in scuole e Università, che ne acquistavano la frutta per scopi didattici. Oggi Garnier Val-letti è considerato un naturalista e un artista di vaglia, della sua produzione poche sono le collezioni rimaste, una è quella di Todi.

L’Istituto possiede anche una collezione di attrezzi d’epoca della scuola, in gran parte paralleli, come epoca, al lungo percorso dell’istituzione, dagli esordi ai giorni nostri. Ma anche oggetti più antichi: è il caso di un torchio gigantesco, datato 1570. Il torchio è stato donato dalla Provincia di Perugia e proviene dalla località Monte Lo Verso di Gubbio. A parte la vasca ed il disco basale, che sono due pezzi unici in pietra, il resto è costituito da gigantesche travi di quercia, mentre le altrettanto notevoli vite e contro-vite sono di mallo di noce. Da qualche anno gli ex allievi hanno costituito un’Associazione, che annualmente si riunisce nell’antico Istituto, e che è la manifestazione evidente dello spirito d’identità che la scuola è riuscita a creare.

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La Biblioteca “Lodovico Jacobilli” di Foligno

Fabiola Gentili Giornalista

Foligno ritrova finalmente la sua biblioteca più antica, centro culturale e memoria storica del territorio. È stata, infatti, inaugurata il 21 giugno scorso la nuova sede della Biblioteca Diocesana “Lodovico Jacobilli”, collocata in piazza San Giacomo a Palazzo Elmi Andreozzi, acquistato e restaurato dopo il terremoto del ’97 dalla diocesi di Foli-gno per conservare al meglio il ricco patrimonio culturale e librario, che fu dell’illustre erudito folignate Lodovico Jacobilli. A tagliare il nastro della nuova struttura il vescovo di Foligno monsignor Arduino Bertoldo e il sindaco di Foligno Manlio Marini, mentre da Roma sono giunti il plauso e gli auguri di monsignor Giuseppe Betori, folignate, segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana.

La Biblioteca “Lodovico Jacobilli” è una delle più antiche istituzioni del settore dell’Umbria e d’Italia. Venne fondata nel 1662, grazie alla donazione del dotto sacerdote folignate Lodovico Jacobilli. I libri e i documenti donati furono poco più di 5mila. Ad essi se ne aggiunsero altri 3.500 nel 1664 quando Lodovico Jacobilli morì. Una biblio-teca considerevole per il numero e per la qualità delle opere, ma anche per il fatto che lo Jacobilli la lasciò in eredità al Seminario Vescovile di Foligno “per benefitio publico”. Nel dare una finalità pubblica alla propria Biblioteca – che secondo lo stile dell’epoca era squisitamente privata – Jacobilli si pose nel gruppo di testa degli studiosi che intra-videro il futuro pensando la cultura come patrimonio non solo da custodire, ma anche da condividere.

A dare forte impulso alla Biblioteca, alla fine dell’800, fu monsignor Michele Faloci Pulignani, ma le vicende belliche costituirono una nuova battuta d’arresto, soprattutto dopo il bombardamento aereo di Foligno nel 1943. La Biblioteca fu rimessa in piedi solo nel 1963 e continua il suo servizio ancora oggi. La Diocesi di Foligno – soprattutto con l’impegno solerte e illuminato di monsignor Francesco Conti, che ne è stato diretto-re dal 1974 al 2003 – ha sempre perseguito con tenacia il forte sviluppo della Biblioteca. Oggi la “Jacobilli”, così viene affettuosamente chiamata dai folignati, è stata spostata dal Seminario Vescovile alla nuova sede di Palazzo Elmi Andreozzi, recentemente restaurato dopo il sisma del ’97.

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La rinnovata Biblioteca – alla cui guida c’è oggi il teologo monsignor Dante Cesari-ni – è dislocata su tre piani, con numerose stanze in grado di ospitare adeguatamente il ricco patrimonio librario della stessa costituito da ben 75mila unità, fra cui preziosi manoscritti datati addirittura intorno all’anno mille. La Biblioteca conserva anche al-cuni manoscritti autografi delle stesso Jacobilli e alcuni incunaboli, oltre a una pregiata raccolta numismatica, con oltre 1.500 monete antiche. Dal 2001 è attiva nel Servizio Bibliotecario nazionale ed è aperta al pubblico tutti i giorni. A frequentarla sono soprat-tutto studiosi e universitari provenienti anche da fuori regione, con una media di oltre 1300 presenze l’anno.

La Biblioteca “Jacobilli” custodisce anche l’Archivio Storico Diocesano e l’Archivio Capitolare del Duomo di Foligno, con ben 3.054 unità archivistiche che raccontano la

Frontespizio della prima edizione delle Vite dello Jacobilli

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storia della Diocesi e della città di Foligno. L’Archivio Storico infatti è il luogo preposto all’archiviazione e alla conservazione di documenti relativi alla storia della Chiesa locale, dalla fine del XIV secolo al 1974. Al suo interno è possibile trovare notizie relative alla storia, alla società e alla popolazione folignate, nonché all’arte e all’architettura delle chiese del territorio. L’Archivio Capitolare è invece destinato alla conservazione dei do-cumenti che riguardano la storia della Cattedrale di San Feliciano, la cui prima notizia documentata risale al lontano 1078. Al suo interno si possono trovare i censimenti re-lativi ai battesimi, ai matrimoni e ai funerali avvenuti nel corso dei secoli nel Duomo di Foligno. Entrambi gli archivi sono stati riordinati e resi fruibili dopo alcuni restauri insieme alla rinnovata Biblioteca “Lodovico Jacobilli”, ritrovato centro culturale di Fo-ligno.

Una sala della Biblioteca

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Letti & Rilettia cura di Andrea Capaccioni e Ruggero Ranieri

Foligno nel Seicento

Discorso di Fabio Pontano sopra l’antichità della città di Foligno, a cura di Luigi Sensi, Foligno, Accademia fulginia di lettere scienze e arti, 2008, (Suppl. n. 7 al «Bollettino storico della città di Foligno»), p. 215, s.i.p.

Lodovico Jacobilli e Gli Annali della città di Foligno, di Fabio Bettoni, Bruno Marinelli, Roberto Tavazzi, Foligno, Ente Giostra della Quintana, 2008, p. 271, s.i.p.

Andrea Capaccioni

Continua l’impegno di studiosi, istituzioni e associazioni per favorire studi e pubblicazioni dedicati al Seicento folignate. Nelle due pub-blicazioni che prendiamo in esame sono ripro-dotti due opere la cui importanza è da tempo riconosciuta: il Discorso sopra l’antichità della città di Foligno (1618) di Fabio Pontano e Gli Annali della città di Foligno (XVII sec.) di Lo-dovico Jacobilli.

L’Accademia fulginia di lettere scienze e arti e l’Archeoclub d’Italia di Foligno hanno pro-mosso la ristampa anastatica del Discorso sopra l’antichità della città di Foligno di Fabio Ponta-no stampato a Perugia nel 1618 dal tipografo Marco Naccarini. Dopo le introduzioni firma-te da Fabio Bettoni e Piero Lai, Rossana Landi della Biblioteca comunale fa notare che l’esame dell’originale da cui è tratta l’anastatica, recen-temente acquisito dal Comune di Foligno, ha

permesso di identificare due edizioni (ma forse si tratta di “stati”) stampate lo stesso anno dal-lo stesso Naccarini. La breve analisi è conclusa con l’affermazione che la seconda edizione si presenta come un completamento della prima. Alcuni nostri riscontri bibliografici suggerisco-no tuttavia l’utilità di un esame bibliologico delle due edizioni.

All’intervento della Landi seguono la ripro-duzione anastatica del Discorso del Pontano e due saggi. Il primo, scritto da Luigi Sensi dell’Università di Perugia, è concepito come una serie di schede di approfondimento il cui scopo è quello di presentare l’opera dell’erudi-to nel quadro della Foligno dell’epoca. Sensi fornisce informazioni sulla genesi dei Discorsi, sulla vita dell’autore, sui rapporti con gli altri intellettuali – interessanti in questo caso le ri-flessioni sulla relazione con la cerchia degli stu-diosi perugini – e sullo stato delle conoscenze di antiquaria nel Seicento e nei secoli prece-denti. Breve, ma ben documentato, il saggio di Bruno Marinelli è dedicato alla vita del Pon-tano e mette in mostra come l’erudito non fu sempre apprezzato dalla sua città e per questa ragione fu costretto a spostarsi ripetutamente per lunghi periodi. Solo negli ultimi anni della sua vita, a partire dal 1615, egli fu richiamato come insegnante nella scuola pubblica e gli fu anche assegnato l’incarico di raccogliere infor-mazioni sulla città: l’occasione che lo portò alla stesura delle sue note sulle antichità folignati. Il presente volume è completato da una serie di appendici tra le quali segnaliamo la biografia del Pontano curata da Carlo Pontani, suo lon-

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tano parente, e alcune lettere dell’intellettuale seicentesco perugino M. Antonio Bonciari; se-guono indici dei nomi, dei luoghi e delle cose notevoli. Questa ristampa anastatica si presen-ta come un lavoro di ricerca, ricco di spunti, in grado di accrescere le conoscenze non solo sul personaggio ma anche sull’ambiente cittadino dell’epoca.

Il secondo volume è costituito da una rac-colta di interventi che fanno da contorno alla trascrizione, curata da Bruno Marinelli, di una parte del manoscritto di Lodovico Jaco-billi (Roma 1598 – Foligno 1664), conservato presso la biblioteca di Foligno che porta il suo nome, intitolato Annali della città di Foligno. La pubblicazione inaugura una nuova collana editoriale “I quaderni della Biblioteca Jacobilli. Serie Diciassettesimo secolo” (che curiosamen-te riprende nella prima parte lo stesso titolo della collana promossa dalla stessa Biblioteca Jacobilli) promossa dal Comitato scientifico dell’Ente Giostra della Quintana di Foligno. Un caso, raro nella nostra regione, di felice connubio tra le attività di un evento culturale e turistico (la Quintana) e la ricerca e la di-vulgazione storica. La rinascita contemporanea dell’interesse per Jacobilli, tralasciando di dire delle ristampe di alcune sue opere pubblicate recentemente (Vite de’ santi e beati dell’Umbria, Bologna, Forni, 2008; Discorso della città di Foligno, Sant’Eraclio di Foligno, Il Formichie-re, 2008), si può far risalire al 1999, anno delle giornate di studio dedicate all’erudito folignate promosse da mons. Francesco Conti, diretto-re della Biblioteca Jacobilli i cui atti sono stati pubblicati nel 2004 (Lodovico Jacobilli, erudito del ‘600, a cura di Maria Duranti, Foligno, Bi-blioteca Jacobilli).

La scommessa degli autori del volume Lodo-vico Jacobilli e Gli Annali della città di Foligno è stata quella di dare alle stampe, anche se in parte, una delle opere manoscritte più impor-tanti di Jacobilli. Contenuti in unico volume di più di seicento carte, l’opera copre un arco cronologico ampio che va dal 1113 al 1643; la parte trascritta riguarda invece la prima parte

del Seicento (1592-1623) la cui valorizzazio-ne interessa particolarmente l’Ente giostra. Il risultato del lavoro di Marinelli, curatore della trascrizione, è convincente. Vinta la prima dif-ficoltà e cioè la decifrazione della difficile scrit-tura dello Jacobilli, egli ci riconsegna un testo ben curato, puntuale nelle annotazioni (anche se talvolta prolisse), esplicito nell’indicare la-cune o dubbi interpretativi. Seguono i saggi di Roberto Tavazzi della Biblioteca Jacobilli e di Fabio Bettoni dell’Università di Perugia. Il pri-mo dedica alcune riflessioni (Lodovico Jacobilli tra storie e “historie”) al lavoro di storiografo e agiografo dell’erudito folignate fornendo alcuni approfondimenti interessanti sulla tradizione letteraria cui si richiamava lo studioso e sulla sua fortuna critica con una veloce selezione di giudizi, dai suoi contemporanei fino ad oggi. Più complesso e articolato il saggio di Bettoni (Roma parva. Una “piccola Roma” al tempo di Lodovico Jacobilli). L’autore propone, infatti, un affresco della Foligno secentesca attraverso la descrizione della città con i suoi edifici, le vie il territorio circostante e il racconto di coloro che ci vivevano. Bettoni così, in una sintesi convincente, intreccia storia urbana e storia so-ciale. Seguono due appendici di carattere stati-stico e documentario curate dallo stesso autore. Chiude il volume, un ampio indice dei nomi disposto su tre colonne.

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Settecento anni di Scienze

Scienza e scienziati a Perugia. Le collezioni scientifiche dell’Università degli Studi di Perugia, a cura di Marco Maovaz, Antonio Pieretti, Bruno Romano, Milano, Skira, pp. 288, euro 45

Andrea Capaccioni

Nell’ambito delle manifestazione per il fe-steggiamento del settimo centenario dell’Uni-versità degli Studi di Perugia (1308-2008) le

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facoltà scientifiche dell’ateneo perugino han-no promosso la mostra “Storicamente. Scien-za e scienziati a Perugia”, rimasta aperta dal 2 aprile al 2 giugno 2008 presso il Centro esposi-tivo della Rocca Paolina nel capoluogo umbro, con lo scopo di ripercorrere, attraverso le pro-prie collezioni di materiali e apparecchiature, le principali tappe della storia delle discipline scientifiche. Una selezione del materiale espo-sto sarà visionabile fino al mese di settembre presso il chiostro di Palazzo Murena sede del Rettorato dell’Università; verrà poi inaugurata la seconda grande mostra intitolata “Magistri, insegnamenti, libri”, curata dalle facoltà uma-nistiche dell’Ateneo, nella sala Podiani della Galleria nazionale dell’Umbria (23 settembre - 30 dicembre 2008).

Prendiamo in esame in questa sede il cata-logo della mostra “Storicamente” intitolato Scienza e scienziati a Perugia curato dal pro rettore dell’Università di Perugia Antonio Pie-retti con Bruno Romano e Marco Maovaz e pubblicato in modo impeccabile dall’editore ginevrino Skira.

Alla breve introduzione del Rettore France-sco Bistoni, che espone le ragioni della mostra e del catalogo, seguono i due saggi introduttivi di Antonio Pieretti (Per un’idea della storia del-la scienza) e Paolo Belardi (Diffuso-Concentra-to-Integrato-Articolato. Settecento anni di conso-nanza tra il modello dell’Università e la forma della città). Pieretti si interroga sul significato del fare storia della scienza. In poche pagine lo studioso riesce con chiarezza a delineare le principali tendenze. La scienza appare divisa tra un approccio “interno” che difende la sua specificità rispetto ad altre discipline (arte, economia, ecc.) e un orientamento che invece concepisce se stessa come “un prodotto dell’in-telligenza umana”. La storia della scienza, conclude Pieretti, per evitare una visione “ide-ologica” deve «far emergere la specificità della scienza, senza tuttavia rinunciare a cogliere i fattori capaci di dare coerenza, intelligibilità e persuasività alla sua ricostruzione» (p. 19). Il contributo di Paolo Belardi intende fornire un

quadro interpretativo del rapporto tra l’univer-sità perugina e la città dal punto di vista urba-nistico. Lo studioso individua quattro modelli corrispondenti ad altrettanti periodi: nel mo-dello diffuso (1308-1514) l’università si serve di diversi luoghi della città per poter espletare la sua azione: le case dei docenti, i collegi, ecc.; nel modello concentrato (1514-1926) l’ateneo tende a riunire le attività in alcuni edifici speci-fici; in quello integrato (1926-1969) si registra un mantenimento delle sedi storiche e nello stesso tempo una “disseminazione” in altre parti della città (l’ampliamento delle cliniche universitarie a Monteluce, il nuovo polo uma-nistico nella zona del Verzaro, ecc.); l’ultimo modello definito articolato cerca di interpreta-re l’evoluzione degli spazi universitari fino ad oggi (1969-2008).

Il catalogo ospita poi i contributi riguardanti le aree scientifiche presenti nell’Università di Perugia: medicina e farmacia, botanica, fisica, matematica, mineralogia, chimica e scienze del-la terra, zoologia ed ecologia, scienze veterina-rie e zoootecniche, scienze agrarie. Nei saggi La medicina (Marco Moavaz, Ileana Giambanco, Rosario Francesco Donato, Bruno Romano) e La farmacia (Renata Fringuelli) viene ricordato che i primi insegnamenti medici dello Studium risalgono alla seconda metà del XIII secolo e che già agli inizi del 1300 papa Clemente V istituì la “Facultas medicinae, philosophiae et artium”. Da Gentile da Foligno (XIV sec.) fino al secolo scorso il primo saggio passa in rasse-gna figure di spicco; meriti scientifici, ma an-che momenti di difficoltà di questa importante facoltà. Il secondo saggio ricorda invece che, pur vantando personalità importanti in questo settore anche nei secoli precedenti, bisognerà aspettare invece il XIX secolo per l’inizio dei corsi di Farmacia. Il contributo dedicato alla Botanica (Marco Moavaz, Bruno Romano) ripercorre le tappe di questa facoltà risalendo fino al 1530 anno in cui presumibilmente ven-gono istituite, tra le prime in Italia, le cattedre di teoria e pratica dei semplici. Da ricordare poi nel XVIII secolo la istituzione dell’orto bo-

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tanico e l’attività di Annibale Mariotti e infine il trasferimento della sede presso l’Istituto su-periore agrario di San Pietro a Perugia. Il sag-gio dedicato alla Fisica (Maurizio Maria Busso, Paolo Diodati, Daniele Fioretto) colloca nel XIII secolo le prime letture perugine di fisica. Dal XIV fino al XVII secolo, poi, furono te-nute lezioni di astronomia, matematica, logica e astrologia nell’ambito delle lectiones philoso-phiae naturalis. Solo recentemente sono stati istituiti il Corso di Laurea in Fisica (1978) e il Dipartimento di Fisica (1982).

Lo studio e l’insegnamento della Matemati-ca a Perugia (Robert Ghattas, Emanuela Ughi) inizia nel Quattrocento. Diversi i docenti che si alterneranno in questo secolo e senza dubbio il più noto fu Luca Pacioli. Il saggio si conclu-de con un cenno alla importante attività acca-demica svolta da Calogero Vinti a partire dal 1970. L’interesse per la Mineralogia, Chimica e Scienze della terra (Romano Rinaldi) può farsi risalire alla seconda metà del XVIII secolo. Gli studi in questi settori cresceranno, mettendo in luce studiosi come Luigi Canali, Sebastia-no Purgotti, Enrico Dal Pozzo. La Facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali fu isti-tuita nel 1952 per volontà del Rettore Giusep-pe Ermini. Zoologia ed Ecologia (Maria Vittoria Di Giovanni) sono insegnamenti istituiti dopo l’Unità d’Italia (1866). Il primo importante sviluppo di queste discipline si deve ad Andrea Batelli (1884-1896), da segnalare poi le figure di Orazio Antinori (XIX sec.), del naturalista e sacerdote perugino Giulio Cicioni (1844-1923) e di Giampaolo Moretti. Interessanti le descrizioni di alcune collezioni naturalistiche.Nei saggi dedicati alle Scienze veterinarie (Pie-tro Ceccarelli) e Zootecniche (Emilia Duranti) viene mostrato come, pur operando alcuni me-dici in questo settore già nel Settecento, solo nei primi decenni del XIX secolo fu istituito un corso biennale per veterinari. Nel 1864 venne fondata la scuola superiore di medicina veteri-naria di Perugia, i cui insegnamenti erano con-divisi con altre facoltà. Alla fine del secolo ven-nero inaugurate le prime cliniche veterinarie.

Nel 1924 fu istituita la Facoltà di Veterinaria. I primi insegnamenti in Scienze agrarie (Mar-co Moavaz, Francesco Bonciarelli, Francesco Tei) sono da collocare nei primi decenni del XIX secolo con l’istituzione della cattedra di Botanica e Agraria tenuta inizialmente da Feli-ce Santi, Cesare Massari e Domenico Bruschi. L’insegnamento di questa disciplina registrerà una stabilità solo a partire dal 1862 con Raffa-ello Antinori (1818-1906). Un suo allievo, Eu-genio Faina (1846-1926), inaugurerà l’Istituto superiore agrario, tra i primi in Italia.

Tutti i contribuiti, come abbiamo notato, ri-percorrono sinteticamente, ma in modo chiaro e documentato le origini delle rispettive facol-tà, lo sviluppo dei primi insegnamenti relativi alle diverse discipline e prestano particolare attenzione alle personalità accademiche più rilevanti. Ogni saggio è corredato da un ricco apparto fotografico che riproduce gli oggetti e i documenti esposti durante la mostra. Il volu-me, i cui pregi sono indubbi, presenta a nostro avviso due lacune: è privo di indici e gli appa-rati bibliografici presentano alcune sviste.

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Finestre sull’industria in Umbria: fra passato e presente

Alberino Cianci, Saiga. Il progetto autarchico della gomma naturale. Dalla coltivazione del guayule alla nascita del polo chimico di Terni, Arrone (TR), Edizioni Thyrus, 2007.

Livio Salvadori, FBM, 1906-2006. Cento anni. Marsciano, Fornaci Briziarelli Marsciano, 2006.

Sergio Sacchi, Alvaro Tacchini, Mario Tosti, Massimo Zangarella, L’industria meccanica in Altotevere, Città di Castello (PG), Edimond, 2008.

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Agenzia Umbria Ricerche, Stato e Imprese. Le politiche in Italia e in Umbria. Rapporto MET 2007, Perugia, AUR, 2007.

Ruggero Ranieri

Questi quattro volumi, molto diversi fra loro, aiutano a ricostruire elementi importanti, e poco conosciuti, del passato e del presente industriale dell’Umbria. Contengono studi e analisi sia di carattere storico, sia di politica economica e indu-striale. L’industria in Umbria ha importanti tra-dizioni e ha conosciuto, negli ultimi trent’anni, uno sviluppo molto forte. Seguirne le traiettorie e i problemi è non solo molto interessante, ma an-che quasi un dovere civico per chi si occupa della nostra regione. Cominciamo questa rassegna, pas-sando dal particolare, e cioè i due studi dedicati a una sola azienda (la Saiga di Narni e le Fornaci Briziarelli di Marsciano), al più generale, il set-tore meccanico dell’Alta Val del Tevere e, infine, all’indagine sulle politiche industriali regionali curata dall’AUR.

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L’opera di Cianci, che lavora presso la Tre-ofan del polo chimico ternano-narnese, è una rielaborazione di una tesi di laurea discussa presso l’Università dell’Aquila e, sulla base di una documentazione inedita, traccia la vicenda del tentativo operato durante gli anni ‘30 dalle gerarchie economiche e politiche del fascismo di dare vita in Italia a una produzione di gom-ma naturale, come parte della politica autar-chica. Il tentativo si concretizzò nella creazione di una impresa mista, partecipata dall’IRI e dal gruppo Pirelli, la SAIGA, poi, nel 1939, confluita nella SAIGS, un’altra compartecipa-ta IRI-Pirelli, volta alla produzione di gomma sintetica.

Bisogna dire subito che la vicenda della gom-ma naturale in Italia fu un fallimento, in quan-to non si raggiunse mai la fase della produzio-ne industriale. Furono esperiti vari tentativi a partire da piante esotiche, trapiantate. Il ten-tativo più serio fu quello fatto con il guayule,

una pianta originaria del Messico, e coltivata a livello estensivo negli Stati Uniti. Vi furono varie missioni di tecnici italiani in America e di tecnici USA in Italia. Si pensava di arrivare a coltivarne varie migliaia di ettari, in Sarde-gna, in Puglia, in Campania e anche in Libia e Cirenaica; si arrivò a mettere su ben 14 vivai sperimentali (i più promettenti nella provin-cia di Foggia). Cianci non spiega esattamente quali furono gli ostacoli che frustrarono questi tentativi: sembra di capire che furono un misto di condizioni climatiche imperfette, di ritardi e lentezze, nonché problemi di risorse umane e organizzative carenti e anche, una certa confu-sione di progetti, in quanto si continuarono a perseguire contemporaneamente varie opzioni, ciascuna appoggiata da una diversa fazione del-la gerarchia fascista.

Con l’avvicinarsi del conflitto, poi, si privile-giò la via più sicura, anche se più dispendiosa, della gomma sintetica, che utilizzava in parti-colare l’acetilene ottenuto dal carburo di cal-cio, proveniente in esubero dallo stabilimento elettrochimico di Papigno, allora posseduto dalla società Terni. Dall’acetilene si arrivava, infatti, al butadiene, materia prima per otte-nere la gomma sintetica, attraverso una sintesi messa a punto da alcuni fra i più quotati tecni-ci chimici dell’epoca, fra cui Giulio Natta, cui, nel dopoguerra, si dovette la sintesi del poli-propilene, che gli procurò il premio Nobel del 1963, e che rimane uno dei fiori all’occhiello della chimica italiana.

La produzione di gomma sintetica ebbe for-tuna un po’ migliore di quella della gomma naturale: la SAIGS impiantò due stabilimenti: uno a Terni e uno a Ferrara. Quello di Terni fu completato solo nel 1943 e fece quindi solo in tempo a fornire alcuni prodotti intermedi allo stabilimento di Ferrara, il quale produsse circa 13 mila tonnellate di gomma sintetica dal 1942 al 1944.

Dopo la guerra la vicenda chimica del ter-nano trovò nuovo impulso quando la Poly-mer, azienda del gruppo Montecatini, rilevò la SAIGS, la quale aveva ricevuto anche alcuni

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fondi del Piano Marshall per la ricostruzione industriale e l’utilizzo dell’acetilene per pro-durre plastiche. L’area industriale SAIGS, fra la Flaminia e il fiume Nera, divenne sede dei villaggi Polymer e Cianferini, e dopo il 1954 del Centro Ricerche Polymer per la valoriz-zazione del polipropilene, e poi dell’impianto industriale di Moplen del 1960. C’è, quindi, secondo l’autore una linea di continuità e di sviluppo − fondata sulla mobilitazione sia di risorse, sia di competenze di ricerca −, nel com-plesso chimico ternano dai progetti, in gran parte abortiti, dell’autarchia, fino agli sviluppi del dopoguerra.

Il breve studio di Cianci non pretende di esaurire questo tema, ma ha il merito di in-dagare un capitolo secondario, ma non irrile-vante, dello sforzo autarchico dell’Italia, che, l’autore sostiene, non fu una semplice comme-dia, ma uno sforzo condotto con grande impe-gno. C’è da aggiungere che gli obbiettivi posti dal regime erano troppo ambiziosi, perseguiti tardivamente, e inevitabilmente non furono raggiunti. Il volume, molto ben illustrato, è di scorrevole lettura, ben corredato da immagini e da una buona bibliografia.

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La FBM, Fornaci Briziarelli Marsciano, di cui questa pubblicazione celebra il centena-rio, è oggi una industria leader nel suo settore: quello dei laterizi. Ha quattro stabilimenti di produzione, a Marsciano, Bevagna, Duna-robba e Fiano Romano. Chi entra a Roma da Nord, percorrendo l’A1, può ammirare da vi-cino questo ultimo stabilimento, segno visibile della imprenditorialità umbra. Il gruppo ha ol-tre 400 dipendenti, e una capacità produttiva di 45.000 quintali di laterizi al giorno. Tutto cominciò alla fine dell’800 con un piccolo for-no a ridosso delle antiche mura di Marsciano, trasformato poi, qualche anno dopo, in una società. Pio Briziarelli, che aveva ereditato una piccola impresa di costruzioni, ne fu il fonda-tore e protagonista. Nel 1910 la società occu-pava 40 operai.

Il volume, formato folio, è estremamente pregiato e ben curato dall’architetto Livio Sal-vadori, con testi illustrativi approfonditi e in-teressanti. Si tratta di un volume aziendale ben concepito e ben realizzato. Una parte è dedicata alla ricostruzione della storia della società, una seconda a un ritratto degli stabilimenti come si presentano oggi; vi sono, poi, schede che illu-strano i più importanti progetti realizzati (edi-fici pubblici e privati, restauri ecc) dalla FBM, un po’ in tutta Italia. Si rivolge, quindi, agli operatori del ramo (progettisti, utilizzatori, ar-chitetti), ma anche a chi ha lavorato nella ditta, ai cittadini e agli studiosi.

Particolarmente importante per la FBM fu il consolidamento societario operato fra la fine degli anni ‘20 e gli inizi degli anni ‘30: ven-nero rilevate altre fornaci in Umbria (a Foli-gno, Assisi e Terni) e la azienda si affacciava, in consorzio con altri produttori di laterizi, sull’importante mercato romano. Le acquisi-zioni vennero accorpate in un’unica società, ormai controllata completamente dalla fami-glia Briziarelli, dove emergeva la seconda gene-razione. Nel 1938, ci fu anche un significativo ampliamento dello stabilimento di Marsciano. In questo periodo operò negli stabilimenti an-che una Sezione Artistica di Terrecotte diretta dal prof. Guaitini, docente dell’Istituto d’Arte di Perugia, adibita a trovare soluzioni per fregi, stipiti, lunette e altri elementi decorativi per palazzi pubblici e privati.

La seconda parte degli anni ‘30 fornì occa-sioni ulteriori di sviluppo: le fornaci divenne-ro, infatti, fornitrici importanti dei cantieri della Capitale, a cominciare dall’E42. Succes-sivamente, la guerra portò nuove commesse. Attraversato il periodo dei bombardamenti e dei danneggiamenti da parte delle truppe tede-sche in ritirata, l’azienda si attivò, poi, imme-diatamente nell’opera di ricostruzione a fianco degli Alleati, che richiedevano urgentemente forniture per la ricostruzione dei ponti distrut-ti, nonché per fortificazioni.

Gli anni del dopoguerra furono una stagio-ne particolarmente dinamica dal punto di vista

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tecnologico e di espansione di mercati. Veniva-no messe a punto dai progettisti della società nuove tecniche costruttive per travi, solai, ca-priate e volte, brevettate insieme alla RDB di Piacenza. Queste soluzioni, la cui sperimenta-zione era cominciata negli anni ‘30 in funzio-ne dell’autosufficienza autarchica, riducevano la necessità di semilavorati di ferro. Vennero usate in alcuni importanti interventi: edifici pubblici, scuole, ministeri, conventi.

Dal punto di vista tecnologico, il salto fu rappresentato dall’introduzione del forno a tunnel per la cottura a ciclo continuo, il pri-mo al mondo per il settore dei laterizi. Pre-cedentemente forni continui erano stati usati per ceramiche e oggetti di piccole dimensioni, ma a Marsciano si riadattò un brevetto tedesco per costruire un forno lungo 120 metri, e lar-go quasi due. Entrò in produzione nel 1952. La produzione avveniva con vagoni pieni di laterizi che si spostavano progressivamente sui binari per raggiungere le fonti di calore. Con-sentì un rilevante aumento della produzione e della produttività, fino ai 900-1000 quintali di laterizi finiti al giorno.

L’ introduzione delle tecnologie in continuo interessò, nel dopoguerra, vari settori indu-striali, dalla siderurgia, alla metallurgia, alla petrolchimica, portando a una rivoluzione nel-le produzioni, ma anche nelle professionalità e nell’organizzazione. Generalmente queste in-novazioni tecnologiche, almeno nella loro pri-ma generazione, provenivano dagli Stati Uniti, ma in questo caso i Briziarelli si appoggiarono a tecnologie europee. Il primo forno francese, il CERIC 1, fu introdotto nel 1976, mentre oggi è attivo il CERIC 3. Da rilevare che la produzione in continuo sollecitava anche svi-luppi sul piano dei controlli di processo; così che l’informatizzazione con sistemi IBM, che avvenne già, a Marsciano, alla fine degli anni ‘60.

Tra il 1962 e il 1965 la FBM raddoppiava la linea produttiva di Marsciano, rinnovava gli impianti di Santa Maria degli Angeli e costruiva tre nuovi stabilimenti a Fiano Romano, a Du-

narobba e nella periferia di Foligno, nei pressi dello stabilimento di Bevagna, ormai obsoleto. Inoltre, il rapido ampliamento del mercato, collegato al miracolo economico, permise per la prima volta un processo di specializzazione dei vari stabilimenti: Marsciano si concentrò sulle tegole e coppi, Bevagna sui mattoni trafi-lati; Dunarobba sui materiali da muro e Fiano Romano sui prefabbricati.

Dagli anni ‘70 acquistarono importanza le costruzioni di laterizi a vista; molto usate nell’edilizia popolare, ma importanti anche in realizzazioni più pregiate, sfruttavano le qualità estetiche di quello che rimaneva un materiale povero, per conferire pregio e qualità architet-tonica agli edifici. Due importanti realizzazio-ni della FBM di quegli anni: il complesso degli impianti sportivi dell’Acqua Cetosa a Roma e il quartiere di Madonna Alta a Perugia.

La terza generazione dei Briziarelli entrava in azienda già negli anni ‘60 e nel 1980 la sua fi-gura centrale, Enzo Briziarelli, diventava, a 37 anni, amministratore delegato. La continuità e la compattezza familiare è stata, del resto, forse il motivo centrale del successo di FBM. Negli anni ‘70 la FBM affrontava per la prima volta in modo significativo i mercati esteri (Francia, Paesi Arabi, Canada) e nello stesso tempo si organizzava come gruppo industriale, artico-lato in società diverse, ciascuna affidata a un componente della famiglia. Negli anni ‘90 su-bentrerà il controllo di una finanziaria di fami-glia, con quote per i vari membri del nucleo familiare, tra cui si affacciano le prime giovani imprenditrici.

Questo volume costituisce, per i suoi pregi grafici e contenutistici, un bello sforzo. Ha tuttavia, dei limiti. Se pure si evitano, giusta-mente, i toni agiografici, l’azienda e la famiglia rimangono il centro totalizzante del racconto, e si dice troppo poco, per esempio, delle stra-tegie delle aziende concorrenti, delle rispetti-ve quote di mercato. Manca del tutto, inol-tre, l’aspetto dei risultati di bilancio. Manca, inoltre, o, per lo meno, non riceve lo spazio che meriterebbe, uno dei temi conduttori del

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successo della FBM, e cioè il rapporto con il territorio e la città di Marsciano. Per convin-cersi della forza di questo legame, basta, del resto, visitare il Museo del Laterizio installato dall’amministrazione marscianese nel palazzo Pietromarchi, con la sua ampia rassegna di re-perti archeologici, storici, industriali.

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Il terzo volume è dedicato al settore metal-meccanico dell’Alta Valle del Tevere. Si tratta di un’opera magna, quasi 500 pagine di grande formato, riccamente illustrata, con testo bilin-gue, e corredata da un’impressionante serie di contributi scientifici. L’opera è stata realizzata dal Rotary di Città di Castello, voluta dal suo presidente Lorenzo Medici, e sorretta dallo sforzo congiunto dei Comuni di Città di Ca-stello e Umbertide, della Confindustria e Ca-mera di Commercio di Perugia, dell’Università degli Studi di Perugia, della Regione dell’Um-bria. Un’opera celebrativa, forse, ma non reto-rica e ricca di contenuti storico-economici.

La prima domanda da porsi è che cosa esat-tamente si vuole qui ricordare e celebrare. In che cosa esattamente consiste e che rilevanza ha l’industria meccanica in AltoTevere? Si trat-ta di una organizzazione distrettuale, simile a quella che caratterizza tanti territori della Terza Italia? Quali sono i suoi tratti specifici e le sue aree di specializzazione, quali i suoi punti di forza tecnologici, commerciali, organizzativi?

Nonostante i loro valenti sforzi, gli autori, e in particolare Sergio Sacchi che si occupa della sezione contemporanea, non riescono a fornire risposte esaurienti a questi interrogativi. Ven-gono oggi condotte in gran numero rilevazioni statistiche, ma vi prevalgono gli aspetti quanti-tativi e mostrano i loro limiti quando si tratta di avvicinare una costellazione territoriale di moltissime imprese, per lo più piccole e diffe-renziate. Un altro problema è che le statistiche obbediscono ai confini amministrativi delle province e delle regioni, ma le reti industriali non fanno altrettanto: l’Alta Valle del Tevere

abbraccia il confine umbro-toscano-romagno-lo e certe sue valenze industriali da Terza Italia sembra scaturiscano proprio da questa sua po-rosità geografica.

Quello che si può dire con una certa sicu-rezza è che un territorio piccolo, con poco più del 10% della popolazione della provincia di Perugia, concentra una rilevante capacità di industrie meccaniche e che queste si sono sviluppate rapidamente negli ultimi anni, più che tenendo il passo con il pur rapido sviluppo delle piccole industrie, anche meccaniche, nel resto della provincia. Pertanto, se prendiamo le imprese con almeno 6 dipendenti nel set-tore meccanico, vediamo che i 4 comuni di San Giustino, Città di Castello, Umbertide e Montone ne ospitano un numero molto eleva-to (circa il 25% della provincia).

Per saperne di più occorre, pertanto, volgersi alla storia. La prima sezione del volume curata da Mario Tosti è dedicata alla storia antica e medievale: botteghe di fabbri, corporazioni, tecniche produttive, scambi di materie prime e prodotti finiti, molti sono i fili che consentono di rintracciare nel passato dell’Alta Valle del Te-vere le radici delle specializzazioni meccaniche. Un precedente molto importante sembra esse-re stato quello della produzione delle falci alla Fratta, cioè a Umbertide: i fabbri della Fratta erano famosi in tutta l’Italia centrale fin dal 1200. Si giovavano dell’energia idraulica de-rivante dalla vecchia diga sul Tevere, costruita per la sicurezza del borgo, fondamentale avam-posto militare di Perugia. Grazie a una collau-data capacità produttiva e a una organizzazio-ne commerciale sofisticata essi continuarono a esercitare un controllo sulla produzione di falci fino a tutto il 1600, dominando, in particola-re, il rifornimento del mercato romano.

La seconda sezione di Alvaro Tacchini trac-cia la storia dell’arte fabbrile a partire dall’Ot-tocento ai giorni nostri. E’ una storia della prima industrializzazione della Alta Valle del Tevere e si ferma agli albori degli anni ‘60. In realtà, le origini a metà dell’Ottocento furono molto modeste. C’era un piccolo artigianato

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urbano di fabbri tuttofare, alcuni abili nel fer-ro battuto, a Città di Castello, una città isolata e relativamente poco importante, sia pure dalle gloriose tradizioni comunali. Nell’ambiente agricolo circostante la situazione era ancora peggiore. Il comune di Città di Castello era stato amputato dalla creazione di due altri co-muni, San Giustino e Fratta (Umbertide). Tra i suoi pochi punti di forza, la locale Cassa di Risparmio fondata nel 1855.

Ancora il censimento del 1881 dava conto di una economia essenzialmente agricola, pur con qualche attività artigianale, sia urbana che agri-cola. Qualche iniziativa più consistente prese corpo all’inizio del secolo − per esempio la Officine Meccaniche e Fonderia Cooperative, la Gualterotti & Malvestiti iniziata nel 1908 e fallita nel 1914, la Falchi e Beccari − ma i ten-tativi di passare a una dimensione industriale si scontrarono con difficoltà di mercato e ri-strettezze finanziarie. Vi furono, è vero, svilup-pi promettenti nell’agricoltura, con la conver-sione alla coltivazione estensiva del tabacco da parte di molti proprietari, mentre il tessile, con il Laboratorio Tela Umbra, la industria tipo-grafica, la lavorazione del legno conoscevano i primi stabilimenti di una certa dimensione. Nel complesso, però, non c’era spazio per la specializzazione, il mercato locale esprimeva prevalentemente una domanda di riparazioni, di oggetti di artigianato, di prodotti per l’agri-coltura, di qualche carro ferroviario, legato ai primi collegamenti ferroviari (vedi la linea Arezzo-Fossato, poi cessata nel 1944).

Fu in questo periodo che prese avvio prima a Giove, poi a Selci di Lama, la produzione di aratri di Francesco Nardi. I Nardi cominciaro-no una produzione su scala modestissima, ma seppero gradatamente ampliarla grazie anche alla fortuna internazionale che i loro model-li incontrarono in vari esposizioni dell’epoca. Nel 1911 comunque la loro attività era essen-zialmente familiare, con l’aggiunta di cinque dipendenti.

Uno dei fatti più importanti di questo pe-riodo fu la creazione, nel 1909, della Scuola

Bufalini un istituto professionale per l’aggior-namento di artigiani e operai qualificati, che fu frequentato da fabbri e meccanici, oltre che da falegnami e muratori e curò anche la for-mazione di giovani. La donazione che lo rese possibile provenne dal marchese Bufalini, che insieme al Barone Franchetti (massimo pro-prietario terriero della valle), esercitò un ruolo illuminato di incoraggiamento alle iniziative industriali.

Negli anni ‘20, dalle botteghe artigiane clas-siche si passa a piccole officine con qualche at-trezzo e macchinario moderno. (Generalmente erano mosse da un unico motore, che, attra-verso un albero di trasmissione, movimentava tutti i macchinari). Parlare di industrializzazio-ne sembra, tuttavia, prematuro, se nel 1921 le prime cinque aziende meccaniche tifernate hanno in tutto 80 addetti. Nel 1940 l’intero comparto arrivava a 300 addetti. Il mercato era ancora essenzialmente agricolo, con qualche supporto di una rinnovata moda per l’artigia-nato artistico del ferro battuto. Due aziende, tuttavia, trovarono un certo dinamismo: la Godioli e Bellanti, che divenne essenziale for-nitrice per il consorzio dei produttori di tabac-co e la Nardi che conobbe una vera e propria crescita industriale, inserendosi nelle commes-se delle bonifiche di regime e per la coloniz-zazione dell’Africa italiana, arrivando alla fine degli anni ‘30 a produrre qualche migliaia di aratri all’anno. Per partenogenesi dalla Nardi si formava, nel 1937, la Nardi & Rossi, poi SA-FIMA, attiva nella stessa gamma di prodotti, a testimonianza del ruolo propulsore che può assumere una industria leader.

Dopo le distruzioni della guerra, gli anni ‘50 non sembrarono, almeno in questa zona, portare nulla di buono: furono, infatti, anni di svuotamento delle campagne e di emigra-zione. Vi fu un forte decremento della popo-lazione attiva in agricoltura che continuò ne-gli anni ‘60, compensato molto parzialmente dall’incremento industriale. La piccola scala continuava, dunque, a dominare l’industria della valle, il cui settore prevalente rimaneva

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il tabacco, seguito dalle tipografie. La Nardi rimaneva l’azienda meccanica più dinamica: costruiva aratri e macchine agricole per gli Enti di bonifica e per i paesi in via di svilup-po, in Africa, Sud America, in Europa dell’Est (Jugoslavia). Nel 1957 era salita a 450 addet-ti. Un’altra azienda specializzata in macchine agricole, e che derivò le sue competenze pro-fessionali dalla Nardi fu la Sogema, fondata nel 1952. La Godioli e Bellanti trovava ulteriore sviluppo nella produzione di macchine per la lavorazione del tabacco.

Nel 1961 il Comune di Città di Castello, guidato dal sindaco Corba, insieme alla locale Cassa di Risparmio, presieduta da Luigi Pillit-tu, decidono di dare il via a una zona industria-le, a Riosecco a nord della città. Dietro que-sta decisione lungimirante, vi era la crisi della tabacchicoltura colpita dalla peronospera, che faceva temere di un crollo dell’economia locale ed essa fu resa possibile dal fatto che veniva-no estese all’Umbria alcune agevolazioni fiscali per le zone depresse, particolarmente attrattive per le nuove localizzazioni industriali.

La politica ebbe successo e incoraggiò molte aziende a fare il salto di qualità verso la me-dia-grande dimensione. Due aziende come la Godioli e Bellanti e la Sogema rilocarono nella zona industriale, un’altra, importante, la Ren-zacci (lavatrici) vi si costituì, appositamente, nel 1968. Fra anni ’60 e ‘70 si moltiplicò il numero di aziende meccaniche attive, coinvol-gendo in pieno anche i territori di San Giu-stino, di Umbertide, di Trestina (dove nacque una nuova zona industriale). La Ponti, fra le altre, nasce negli anni ’80 con una specializ-zazione nelle macchine per l’industria grafica. Insomma dopo una lunga storia industriale sonnacchiosa e poco produttiva, ci fu una svol-ta importante.

Le Sezioni successive del volume curate da Massimo Zangarelli sono più celebrative, che scientifiche. Passano in rassegna, con schede illustrate, sia le principali aziende oggi attive nell’AVT (I Protagonisti) sia le società più pic-cole (I coprotagonisti), sia le strutture e le istitu-

zioni di supporto (I testimoni): comuni, studi professionali, banche, istituzioni associative e camerali. Fra le schede più interessanti segna-liamo quella sulla Scuola Operaia Bufalini, che ha funzionato e funziona tuttora come vero ge-neratore per lo sviluppo industriale della zona. La Scuola conobbe una crescita costante fino al 1960, poi un andamento meno brillante e poi un dimezzamento delle iscrizioni, fino ai 60 allievi degli anni ‘80. I giovani del luogo abbandonano la formazione professionale, cer-cando fortuna e prestigio nella formazione su-periore, nonostante le aziende richiedano tec-nici e operai qualificati. Alla Scuola, pertanto, si iscrivono oggi sempre meno italiani e sempre più extracomunitari.

Le sezioni finali sono curate dall’economista industriale Sergio Sacchi e sono dedicate allo sviluppo recente. Si comincia con una traccia della storia dell’industria metalmeccanica ita-liana, accompagnata da una utilissima disamina delle classificazioni merceologiche che costitui-scono il settore. Si passa poi ad illustrare alcuni dati quantitativi: se negli anni ‘50 e ‘60 vi era stata perdita di popolazione, negli anni ‘70, so-prattutto grazie all’espansione di San Giustino, la tendenza si invertì. All’interno di un rapido fenomeno di industrializzazione diffusa che interessò l’intera regione, e soprattutto la pro-vincia di Perugia, fino ad allora la più agricola, l’Alta Valle del Tevere fece la sua parte, espan-dendosi soprattutto nel settore meccanico, con produzioni che aggredirono per la prima volta, in maniera massiccia, i mercati esteri.

Rimangono due interrogativi: le cause della rapida espansione e il suo vero spessore, in ter-mini di qualità. Sulle cause, non sembra che si possa aggiungere molto alla vasta letteratura sulla industrializzazione diffusa nella Terza Ita-lia: l’Alta Valle del Tevere sembra rispecchiarne molto bene alcune caratteristiche: le interrela-zioni fra mondo agricolo e industriale, riserve di imprenditorialità dalle tradizioni artigiana-li e mezzadrili, un’accumulazione di capitale umano e, infine, una forte azione di sostegno dei poteri locali.

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Veniamo al secondo punto, su cui si cimenta Sacchi. Si tratta di un bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno? O meglio, l’industria meccanica in questione è un fenomeno derivato e subal-terno, dominato da produzioni semplici ese-guite su commessa o è stato in grado di offrire sub-forniture di qualità, fino al controllo com-petitivo di alcuni mercati di nicchia? Dicevo all’inizio che mancano i dati empirici per offri-re risposte definitive: una analisi recente della subfornitura meccanica umbra mostra, però, che se molte aziende lavorano su commessa per terzi, la maggioranza hanno una gamma di clienti articolata, si avvale, a sua volta, di sub-fornitori e lavora prevalentemente su gamme di prodotti di piccola e media serie.

***

L’ultimo volume che qui recensiamo è un’in-dagine commissionata dall’AUR a un istituto specializzato di ricerche economiche, il MET (Monitoraggio Economia e Territorio), sulle politiche industriali in Umbria nel periodo tra il 1999 e il 2006. E cioè: quanti sono gli aiuti che ricevono dalle istituzioni pubbliche le im-prese umbre? Sotto quali voci li ricevono e da chi (Stato, Regione ecc.) e che uso ne fanno?

La prima parte del volume riporta e analizza i flussi di spesa della politica industriale sia na-zionale, che per le varie regioni, con attenzione particolare all’Umbria. Le seconda è invece ba-sata su un questionario alle imprese (151 le im-prese umbre interrogate), sollecitate a spiegare e commentare l’utilizzo dei fondi ricevuti.

La premessa del ragionamento è che le poli-tiche industriali sono utili e importanti e che tutti i paesi industriali avanzati, compresi gli Stati Uniti, se ne avvalgono. C’è un certo ram-marico che lo Stato italiano abbia destinato meno fondi a questo capitolo, ma, si osserva, fortunatamente sono subentrate le Regioni in funzione di supplenza. Manca, invece, una di-scussione un po’ più seria degli orientamenti critici emersi in questa materia, a partire dal livello europeo, particolarmente sulle erogazio-ni a pioggia, sia per gli effetti negativi che de-

terminano sulle condizioni di concorrenza nei mercati, sia per la loro scarsa efficacia.

Di quali aiuti si parla? Tra i principali vi sono crediti di imposta per gli investimenti, incen-tivi alla ricerca, crediti alle esportazioni, aiuti alla creazione di nuove imprese, incentivi ter-ritoriali (Patti Territoriali, Contratti d’Area), sussidi per l’internazionalizzazione. I più usati ancora oggi, si fa fatica a credere, sono quelli non selettivi, generalizzanti. L’unica differen-za con il passato è che ne vengono erogati di meno. Nel 2006, per esempio, le risorse eroga-te alle imprese (industria, artigianato e servizi alle imprese) sono ammontati a circa 4,5 mi-liardi di Euro (misurati in Equivalente Sovven-zione Lorda). Questa somma rappresenta una caduta in termini reali di quasi il 40% rispetto al 2002, caduta che è avvenuta gradualmente anno per anno; è inferiore anche ai livelli regi-strati nel 1999 e nel 2001.

Gli aiuti diminuiscono, ma le Regioni si danno da fare per arginare il fenomeno e com-pensare le minori risorse statali. Infatti, sul totale degli aiuti, è aumentato il peso percen-tuale delle erogazioni regionali, dal 10% circa del 2002 al 23% del 2006. Il fenomeno ha interessato tutta l’Italia, ed è particolarmente accentuato in Umbria, dove gli aiuti regionali sono saliti dal 19,2% del 2002 al 38,1% del 2006. Si sono destinati alle imprese, così, in Umbria nel complesso (cioè Stato più Regio-ne), nel 2006, 58 milioni di euro, mentre, con-siderando gli otto anni fra il 1999 e il 2006, 384 milioni circa.

Quanto hanno contato complessivamente gli aiuti? Nel 2006 hanno avuto un’incidenza media nazionale del 6,4% sugli investimenti fissi lordi dell’industria. Tuttavia, mentre nelle regioni più industriali del centro-nord, come Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Pie-monte, ma anche Marche e Toscana, l’inciden-za è molto bassa, nelle regioni meridionali è alta, anche altissima. In Umbria l’incidenza si colloca al 6,8%, molto sopra i valori del cen-tro-nord, ma molto sotto quelli del Sud.

Per quali obbiettivi sono stati distribuiti gli

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aiuti? Problemi metodologici e di raccolta di dati fanno sì che il Rapporto AUR fornisca cifre relative solo all’ultimo anno, il 2006. Il dato sconcertante è che un enorme quantità di risorse, circa il 60% di quelle erogate, sono state aiuti agli investimenti senza una qualifica-zione particolare. In Umbria questa percentua-le si situa al 40%. Al secondo posto, il 20% del totale, vengono gli aiuti a R&S che vengono dati soprattutto, in grandissima parte, dalla Re-gioni. Nel centro-nord, le quote di risorse de-stinate a R&S e a internazionalizzazione sono maggiori che nel resto del paese e raggiungono spesso quote elevate. In Emilia-Romagna, per esempio, il 64% delle risorse va alla R&S; in Piemonte, Veneto, Lombardia intorno al 30%. In Umbria la percentuale si colloca intorno al 24%. Molto bassa, inoltre, in Umbria la quota di risorse per l’internazionalizzazione delle im-prese, nonostante molti osservatori ritengano questa una priorità del sistema umbro, mentre molto alta quella per alleviare crisi aziendali, di cui, però, il rapporto non fornisce alcuna spiegazione.

I dati forniti dal questionario alle imprese sono di più dubbio valore statistico e di più difficile interpretazione. Sembra che le impre-se umbre soffrono di difficoltà di accedere al credito, e che la percentuale del fatturato che ricavano dalle esportazioni, pur crescente, sia inferiore alla media delle regioni del centro-nord. Un dato è chiaro: più grandi le imprese, più fanno R&S, più esportano, più investono in questo comparto. Quello che colpisce di più, tuttavia, è che le imprese umbre, come quelle di molte regioni italiane, esprimano un parere in maggioranza negativo sui contribu-ti pubblici: un “elevato grado di sfiducia”, un giudizio di “scarsa trasparenza”, di procedure amministrative lente, costose e imprevedibi-li. Gli autori del rapporto non danno conto pienamente di questo fenomeno e cercano di minimizzarlo, ma in realtà esso è abbastanza clamoroso.

E ci riporta alla domanda iniziale: quali aiu-ti, per chi, con quali controlli? Viene, infatti, erogata una pioggia di somme modeste, spesso

non più di qualche decina di migliaia di euro. È vero che esse possono essere utili a finanzia-re qualche nuovo capannone, ma siamo sicuri che ciò sia da incoraggiare con soldi pubblici?

Il Rapporto è uno studio serio e allarga il nostro campo di conoscenze. La nostra critica se mai va a quel gruppo di osservatori e policy-makers regionali, che gioiscono di questa di-stribuzione di soldi e soldarelli alle imprese, vi vedono conferma di una cultura dirigista risor-gente, pensano che la politica industriale, così concepita, possa essere elevata a strumento re-gionalista e il suo indebolimento, se mai, usa-to come clava per colpire il governo centrale, soprattutto se di centro-destra. Insomma, tra-discono la loro nostalgia per i primi anni ‘80, quando in Italia si faceva politica industriale alla grande (e abbiamo visto con quali risultati negativi per il debito pubblico e deludenti per la innovazione industriale!).

Proponiamo un’altra interpretazione. Que-ste piccole erogazioni non fanno massa criti-ca, non fanno politica industriale, fanno solo distribuzione di risorse a pioggia, senza seri controlli. Creano scontento e divisioni nel mondo dell’impresa, sottraggono energie. Non si tratta di assumere posizioni ideologiche, ma di misurarsi con la realtà: i soldi pubblici sareb-bero meglio destinati alla ricerca di base, alle strutture di ricerca, alle infrastrutture. Oppure concentrate su pochi, qualificanti obbiettivi strategici.

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Polemiche sulla storia del PCI Umbro.

Una lettera di Francesco Innamorati

A proposito della rassegna apparsa su “Diome-de”, n. 8 (gennaio-aprile 20008) dal titolo “La parabola dei comunisti umbri” di Ruggero Ra-nieri, riceviamo e volentieri pubblichiamo una lettera di Francesco Innamorati.

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Perugia, 27/05/2008

Egregio prof.

Ruggero Ranieri di Sorbello

Ho letto sul n. 8 di “Diomede” la sua recensio-ne (La parabola dei comunisti umbri) del mio Perugia e il Partito Comunista e dei lavori di S. Gambuli (La mia Umbria e di I. Rasimeli Un rompiscatole). Come lei osserva c’è «molta car-ne al fuoco in queste memorie da cui gli storici potranno attingere largamente».

Per quel che riguarda il mio libro mi sem-bra che lei abbia giustamente posto in rilievo una questione per me molto importante: «la reazione anti-socialista a Perugia si giovò anche di una antica frattura sociale» (e quindi anche culturale): quella fra città e campagna.

Non condivido alcuni altri suoi giudizi ma in quasi tutti leggo l’impegno dello studioso e del cittadino.

Ed ora due osservazioni: a) non mi sembra di aver «glissato rapidamente» sui fatti del 1956 (rapporto Krusciov e Ungheria): dalla pagina 94 alla pagina 98 parlo solo di quei fatti e dei dibattiti intorno a quei fatti; b) le commemorazioni del trentennale della Resi-stenza non «avvennero in un clima autore-ferenziale e celebrativo» anche perché (oltre ala raccolta di testimonianze, alle parate mi-litari, ai raduni di partigiani, etc..) vennero organizzati due convegni di storici, dei più diversi orientamenti: “L’Italia e l’Umbria dal fascismo alla resistenza: problemi e contributi di ricerca” (gli Atti sono stati pubblicati nel 1978 dalla società editrice “Il Mulino” a cura di Giacomina Nenci con il titolo Politica e società in Italia dal fascismo alla Resistenza) e Laicato cattolico e chiesa locale in Umbria dal fascismo alla Resistenza (Atti pubblicati come sopra a cura di Alberto Monticone con il ti-tolo Cattolici e fascisti in Umbria – 1922 – 1945). Tutti gli studi sono stati condotti con grande rigore scientifico e non danno della

Resistenza umbra una immagine autoreferen-ziale come potrà accertarsene se vorrà consul-tarli.

Con stima Francesco Innamorati

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Laura Teza, Fra ei poggi e l’aqque al laco Transimeno. Pietro Vannucci Maturanzio e gli Uomini Famosi nella Perugia dei Baglioni, Quattroemme, Perugia, 2008, euro 20.

Sara Borsi

L’indagine di Laura Teza, docente di Storia dell’arte umbra presso la Facoltà di Lettere e Fi-losofia dell’Università degli studi di Perugia, ricomponendo i diversi filoni di ricerca che hanno determinato la storiografia artistica nata intorno all’umanesimo perugino, ha tracciato un quadro storico, prima che artistico, in cui le vicende artistiche e culturali della Perugia dei Baglioni ven-gono ridefinite come esito di quello specifico contesto politico e sociale, di cui il Trasimeno è, allo stesso tempo, scenario e simbolo.

Ripercorrendo criticamente il valore simbolico che il lago ha assunto non solo nell’immagi-nario e nella tradizione culturale e, quindi pittorica, perugina, ma anche nelle vicende politiche, la studiosa ha ridefinito il ruolo del pittore Pietro Vannucci, interprete fedele dei piani politici e propagandistici dei Baglioni. Infatti, lo stesso Perugino potrà immortalarsi tra i viri illustres del Collegio del Cambio, la cui decorazione rappresenterà il prodotto finale e maturo di quell’uma-nesimo che in Giannantonio Campano, Maturanzio, Amico Graziani, Alfano Alfani e lo stesso Perugino, aveva avuto i suoi fautori e, nei Baglioni, importanti mecenati. Alla luce delle turbo-lente vicende politico-militari che videro coinvolta la famiglia Baglioni, vengono infine riletti alcuni dei più significativi fatti pittorici del rinascimento perugino: la decorazione del palazzo di Braccio Baglioni in Colle Landone con il ciclo degli Uomini famosi, interessante tentativo di giustificazione e celebrazione del potere acquisito attraverso la legittimazione dinastica; la decora-zione delle cappelle Baglioni a Spello e dell’Oratorio dei Bianchi a Castel della Pieve che, insieme ad altri dipinti per committenti vicini alla criptosignoria perugina, vengono interpretati come strumenti di propaganda politica di cui il lago è ancora una volta simbolo e spettatore. Lo studio, muovendosi nei diversi meandri della ricerca storica, artistica, ma anche geografica, letteraria e antropologica, offre molti spunti di riflessione e revisione storico-artistica, restituendo un quadro affascinante e convincente della Perugia dei Baglioni e della storia dell’arte umbra.

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Umbria in Libreriaa cura di Andrea Capaccioni & Ruggero Ranieri

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Maria Masi Ruggiero, Giardini “in aria” e Horti conclusi di Città di Castello, Città di Castello, Petruzzi, 2007, p. 196, euro 28.

Andrea Capaccioni

L’autrice di questo volume fornisce un apprezzabile contributo all’approfondimento di un aspetto spesso trascurato delle nostre città: i giardini e i chiostri. Non è difficile, infatti, trovare guide dedicate ai parchi urbani o alle aree verdi, ma è raro rintracciare un’indagine sui giardini. La Ruggiero dopo essersi inoltrata nella sua città, Città di Castello, è rimasta affascinata da questo aspetto e ha deciso di studiarlo a fondo. Ne è scaturito un volume ricco di informazioni, ben scritto e documentato.

Il Giardino “in aria”, oggetto del primo capitolo del volume, è una definizione di giardino pen-sile ed è usata fin dal tardo Cinquecento. L’autrice, dopo un’accurata ricerca storica e un pratico riscontro “sul campo” ha rintracciato i principali giardini pensili pubblici e privati di Città di Ca-stello, rione per rione, fornendo un’esposizione accurata della composizione (giardino all’italiana, all’inglese, ecc.), dei tipi di fiori e delle piante, delle notizie storiche delle famiglie, dei luoghi e degli edifici. Il tutto raccontato con uno stile piacevole: «Dietro la Pinacoteca – scrive l’autrice –, fra via della Cannoniera e via dei Casceri, c’è un bel giardino di proprietà della famiglia Zangarelli, più conosciuta in città come famiglia del ‘maestro’» (p. 32). Il secondo capitolo è riservato invece ai chiostri (horti conclusi) dei monasteri femminili di santa Chiara delle Murate, di santa Cecilia delle Clarisse, delle Cappuccine di santa Veronica. Ricco l’apparato iconografico: tutti i giardini e gli orti sono stati fotografi da Enrico Milanesi. Chiude il volume un utile indice per categorie delle piante dei giardini, mentre dobbiamo segnalare l’assenza di un indice dei nomi e dei luoghi.

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Domus Misericordiae. Settecento anni di storia dell’ospedale di Perugia, Perugia 2006, euro 40

Francesco Vignaroli

L’Azienda Ospedaliera di Perugia, insieme a molte istituzioni cittadine e regionali organizza-rono nel 2005 un convegno per celebrare il settimo anniversario della “Domus Misericordiae”, il grande ospedale medievale dal quale è poi derivato quello attuale. Gli atti del convegno sono stati pubblicati alla fine del 2006 in appendice al “Bollettino della Deputazione di Storia Patria dell’Umbria”. Gli interventi offrono un ampio ventaglio di approcci a una delle istituzioni della Perugia storica a un tempo stesso più importanti e meno conosciute. Ne segnaliamo alcuni a titolo di esempio. Il contributo di Grohmann offre una veloce ricostruzione del percorso storico dell’Ospedale, paragonandolo anche con istituzioni consimili di altre città italiane, e ripercor-rendo l’evoluzione dell’idea stessa di “ospedale” dal medioevo a oggi. Fiore, Beddini e Bocci descrivono le vicende e le trasformazioni edilizie della sede dell’Ospedale: una serie di edifici che vennero costruiti sul lato orientale della cinta muraria etrusca, che si affacciavano, cioè, lungo la Via della Pesceria, l’attuale Via Oberdan. Tittarelli analizza le vicende economiche e le modifi-cazioni dell’attività assistenziale. Biganti dà un quadro della committenza artistica dell’ospedale, segnalando, fra l’altro, come per l’istituzione ospedaliera del XIII, XIV e XV secolo il recupero della salute spirituale dei malati era altrettanto importante quanto di quella fisica. In quest’ot-

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tica (rispetto alla quale la nostra epoca ha fatto molti passi... indietro!), l’apparato d’immagini artistiche era considerato fondamentale. Delle molte opere che vennero prodotte per l’Ospedale, alcune sono giunte fino a noi, come una bella croce lignea dipinta su entrambi i lati del XIII secolo, altre sono andate perdute o disperse lontano da Perugia, come le miniature del libro della matricola, una delle quali è ascrivibile a Pintoricchio ed è stata esposta nella recente mostra dedicata al pittore.

Benché gli interventi siano sintetici, essendo evidentemente realizzati per il breve spazio della comunicazione al convegno, la loro pubblicazione ha fissato un quadro abbastanza esaustivo della complessità della storia della più importante istituzione di cura della città, facendo il punto sullo stato delle nostre conoscenze e fornendo un ottimo strumento di studio. Il volume è accompa-gnato da un utile corredo di immagini fotografiche e disegni. La distribuzione è a cura dell’Azien-da Ospedaliera (dott.ssa Federica Cappelletti), ma è difficile da trovare nelle librerie della città. Forse eccessivo il prezzo di euro 40.

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Teresa Corea, La città “immaginata”. Viaggiatori francesi a Foligno dal XVI al XVIII secolo, Edizioni Era Nuova, pp. 153, euro 16.

Elisabetta Federici

Il libro di Teresa Corea ripercorre le tappe fondamentali del voyage en Italie dei francesi dal XVI al XVIII secolo, concentrando l’indagine in particolar modo nei loro soggiorni in area folignate.

Attraverso lo studio dei resoconti di viaggio di alcuni autori francesi, l’autrice esplora le varie sfaccettature di un esperienza che solo apparentemente si risolve nel suo valore documentario, ma che in realtà si carica di molte valenze psicologiche che appartengono all’immaginario indivi-duale e collettivo, alle aspettative di viaggio e alle motivazioni che spinsero un nutrito esercito di pellegrini, studiosi, letterati, antiquari, artisti o semplici curiosi a visitare il nostro paese in epoca moderna.

Da qui l’indagine molto originale, condotta nella seconda parte del libro, sul confronto tra la Foligno “reale” e quella “immaginata”, che guida l’autrice in un vero e proprio viaggio nella mente degli autori francesi nel tentativo di, sono parole della Corea, «sciogliere l’intreccio tra realtà e immaginario e fra immaginario individuale e immaginario collettivo». Interessante la scelta di presentare parallelamente il racconto “storico”, desunto da guide e descrizioni di storici locali, accanto a quello “individuale” dei resoconti di viaggiatori che affidavano ai propri taccuini im-pressioni e osservazioni personali sui luoghi visitati al fine di far cogliere al lettore, anche visiva-mente, le affinità e le incongruenze presenti tra realtà e immaginazione.

Poche le novità, al contrario, nella prima parte del libro, in cui l’autrice resta ancorata ad un taglio più tradizionale del libri di odeporica, soffermandosi troppo a lungo nella presentazione storica di Foligno nello Stato Pontificio e nella ricognizione delle dinamiche del viaggio in Italia e in Umbria dei francesi, già abbondantemente trattate in pubblicazioni precedenti di autori come De Vecchi Ranieri o Sorbini.

I nomi dei viaggiatori francesi che la Corea prende in esame – Montaigne, Croyat, Corot, Misson, Richard – solo per menzionarne alcuni, sono quelli che già, prima di lei, gli autori sopra citati hanno trattato, lasciando deluse in parte le aspettative di chi, con una nuova pubblicazione dedicata agli studi sul viaggio in Umbria, si sarebbe aspettato novità e informazioni aggiuntive

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sulle descrizioni della nostra regione attraverso la penna dei viaggiatori francesi.

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Francesca Romana Lepore, Storie di ville e giardini. Dimore private nella provincia di Perugia, Edimond, 2008, euro 48.

Elisabetta Federici

Accanto all’Umbria canonica, dei luoghi più noti e degli itinerari più visitati dove tutto sembra oramai essere già stato visto e rivisto da masse di vacanzieri che ogni anno si riversano nella re-gione attirati dalla fama di mete promosse da un esercito agguerrito di tour leaders, esiste ancora un’Umbria segreta fatta di piccole gemme di incontaminata bellezza e valore storico ancora tutte da scoprire.

A questi tesori disseminati nel territorio della nostra regione, la Provincia di Perugia e l’Associa-zione Dimore Storiche Italiane, Sezione Umbria, hanno voluto dedicare una pubblicazione che è anche il risultato editoriale di una serie di visite guidate che hanno portato per mano l’ignaro visitatore alla scoperta di ville e castelli ai più sconosciuti.

Attraverso una carrellata di undici dimore storiche della provincia di Perugia, l’autrice, France-sca Romana Lepore, guida il lettore all’interno di sale affrescate e cunicoli di atavica bellezza, in studioli di illustri personaggi, nelle loro stanze private, tra i viali e i boschetti segreti di giardini e parchi, fornendo le chiavi interpretative per coglierne il fascino attraverso copiose informazioni sul contesto storico e l’ambiente artistico in cui tali gioielli architettonici presero vita.

Scorrono di fronte ai nostri occhi gli scatti fotografici di ex eremi, oggi diventati luoghi di acco-glienza, come l’Eremo delle Grazie, gioiello incastonato nel cuore del bosco sacro di Monteluco a Spoleto, che tra i suoi illustri visitatori del passato fornì accoglienza anche ad un ottantenne Mi-chelangelo che, come ricorda Vasari, «ebbe gran piacere nelle montagne di Spoleto a visitar quei romiti […] perché veramente non si trova pace se non nei boschi». Largo spazio è dedicato anche a quelle dimore storiche di proprietà privata, come il Palazzo di campagna della Ginestrella, Villa Monticelli, Villa San Martinelli, Villa Montefreddo o Villa Aureli, che i proprietari permettono di visitare solo in occasioni speciali come questa, rendendo visibile al pubblico un patrimonio custodito nel tempo con grande attenzione e amore.

L’iniziativa editoriale, accanto all’indiscusso valore documentario di cui si fa promotrice, ha anche il particolare merito di sensibilizzare il lettore al rispetto e alla tutela di tesori artistici che, spesso salvati dalla definitiva rovina grazie all’intervento di privati e pubbliche istituzioni, appar-tengono alla nostra storia e al nostro patrimonio comune.

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George Tatge, Terni / Fotografie, Firenze, Polistampa, 2006. Presentazione di Bruno Toscano. Cassa di Risparmio di Terni e Narni, Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni.

Ruggero Ranieri

Va a merito dei dirigenti della CaRit di aver commissionato questo bel volume (purtroppo molto difficile da reperire), che, attraverso un centinaio di immagini di George Tatge, ci porta a scoprire i tanti aspetti, antichi e moderni della città e dei dintorni di Terni. George Tatge è un affermato fotografo italo-americano, che ha vissuto a lungo a Todi e ha lavorato per gli Alinari di Firenze. Al suo attivo un volume, in qualche modo simile nella concezione fotografica, Perugia Terra Vecchia, Terra Nuova, pubblicato nel 1984. Naturalmente venticinque anni di progressi tecnici non sono passati invano e la resa delle fotografie ternane di Tatge è più nitida, più ampia e prospettica, gli effetti di chiaroscuro più drammatici. L’ispirazione, tuttavia, rimane simile: uno sguardo colto, anti-retorico, attento ai particolari, umani, monumentali e paesaggistici, agli straordinari impasti di modernità e tradizione che le nostre città offrono in abbondanza, e Terni più di altre.

Le immagini sono accompagnate da originali didascalie e un importante apparato critico, di Roberto Abbondanza e il volume è indubbiamente anche frutto del suo lungo sodalizio umano con Tatge. Vi è, inoltre, una breve prefazione di Bruno Toscano.

Che immagine offre il volume di Terni? Terni è una città molto più complicata di quanto, al-meno da chi non è ternano, si pensi. Contiene vari strati monumentali pregevoli, dal romano al moderno, che è difficile apprezzare in quanto spesso sconnessi fra loro, all’interno di un tessuto urbanistico che ha vissuto epoche di modernizzazione travolgenti (la nuova città industriale della fine dell’Ottocento e del primo Novecento), traumi profondi (i bombardamenti del secondo conflitto) e ricostruzioni ambiziose. Forse l’epoca più originale della architettura ternana è pro-prio quella dal 1946 agli anni ’70, quando sorsero nuovi quartieri, nuovi edifici, villaggi operai, sotto al guida di architetti di fama mondiale come Mario Ridolfi e Frankl. Se quasi ovunque l’architettura degli anni Cinquanta e Sessanta è da dimenticare, a Terni ve ne sono molti esempi esteticamente interessanti e funzionali, mentre la città “operaia” ha stimolato sperimentazioni innovative nelle costruzioni popolari.

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Piero Palumbo, Burri. Una vita, 2007, Milano, Mondadori Electa Spa, euro 29.

Sara Borsi

Piero Palumbo, per iniziativa della Quadriennale di Roma, pubblica la prima biografia dell’arti-sta, a dodici anni dalla sua morte. La ricostruzione viene, così, a completare un percorso critico che solo in rarissimi casi aveva considerato la vicenda biografica insieme a quella artistica: Burri è stato notoriamente riluttante nei confronti di giornalisti e interviste. “Le mie opere parlano per me”.

Poco dopo la scomparsa del pittore Stefano Zorzi pubblicò la sua Parola di Burri, intervista dalla quale veniva fuori l’immagine dell’uomo dietro all’artista decantato nelle monografie di Brandi, Rubiu, Serafini...

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Palumbo ripercorre la vicenda biografica dell’artista attingendo non tanto a quanto è stato scritto sull’artista, ma a quanto avrebbe svelato l’uomo: le immagini inedite, gli scritti privati, le passioni e gli svaghi. Ne risulta un quadro poliedrico e, ironia della sorte, polimaterico, in cui trova riscontro quell’impossibilità di classificazione della sua irripetibile poetica: classica e roman-tica al tempo stesso, espressione di una materia che di volta in volta diventa colore da stendere e marmo da scolpire, trasparente e pesante, fatta di pieni e di vuoti, indicibilmente bella nella sua concretezza e, a volte, irrimediabilmente e indecentemente lacerata.

Ultime edizioni della Uguccione Ranieri di Sorbello Foundation

LE BIBLIOTECHE E GLI ARCHIVI DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE. IL CASO ITALIANOa cura di Andrea Capaccioni, Andrea Paoli e Ruggero Ranieri, (Pendragon, Bologna), (p. XXXVII + 581)

Importante volume che affronta un aspetto della nostra storia recente fino a pochi anni fa scarsamente conosciuto: un lavoro prezioso e oscuro di organizzazione e di tutela, svolto da bibliotecari e archivisti che, nonostante alcune perdite, consentì di salvare la parte più preziosa del patrimonio documentario italiano. Contribuiscono alla realizzazione del libro molti autorevoli studiosi, bibliotecari e archivisti. euro 38,00

IL VIAGGIO MONDANO DEL CONTE COSTANTINO RANIERI IN ITALIA SUPERIORE NEL 1727(WORKING PAPER N.12), a cura di Concetto Nicosia , (p. 86)

Un interessante documento delle esperienze di viaggio di un nobile perugino e della sua famiglia all’inizio del XVIII secolo, dove emergono i racconti di incontri mondani con principi, cardinali, letterati, dell’epoca, eventi curiosi e insoliti aneddoti che ci offrono uno spaccato significativo degli usi e costumi della società settecentesca italiana. euro 10.00

NOVECENTO E INTELLETTUALI: UNA RIFLESSIONE SULLL’IMPEGNO POLITICO (WORKING PAPER N.13), (p. 27)

L’opera raccoglie gli atti della presentazione di Fratelli Separati. Drieu-Aragon-Malraux: il fascista, il comunista, l’avventuriero di Maurizio Serra, tenutasi a Perugia nelle sale della Fondazione Ranieri il 26 ottobre 2007. Contiene saggi e riflessioni di Giorgio Petracchi, Giovanni Belardelli, Alessandro Campi, Maurizio Serra, Ruggero Ranieri. euro 4.00

PRIGIONIERI ALLEATI: CATTURA, DETENZIONE E FUGA NELLE MARCHE 1941-1944 di Giuseppe Millozzi, prefazione di Ruggero Ranieri(p. VI + 140)

Attraverso lo studio di documenti conservati negli archivi di Roma e di Londra, l’autore analizza la cattura, la detenzione e la fuga dei prigionieri di guerra Alleati nei campi di Servigliano, Sforzacosta e Monte Urano.

euro 20.00

PRIGIONIERI ALLEATI: FUGA, RIFUGI IN CAMPAGNA E MISSIONI SEGRETE 1941-1944 (WORKING PAPER N.14)(p. 29)

L’opera raccoglie gli atti della presentazione dei volumi Prigionieri alleati: cattura, detenzione e fuga nelle Marche 1941-1944 di Giuseppe Millozzi, I diari di Babka di Alessandro Perini e Combattendo con il nemico di Susan Jacobs, tenutasi a Perugia nel 2007. Contiene interventi di Roger Absalom, John Davis, Alberto Stramaccioni, Giuseppe Millozzi, Alessandro Perini, Ruggero Ranieri.

euro 4.00

LE PUBBLICAZIONI DELLA FONDAZIONE POSSONO ESSERE ACQUISTATE VIA INTERNET SUL SITO:www.fondazioneranieri.orgPER MAGGIORI INFORMAZIONI:Uguccione Ranieri di Sorbello FoundationPiazza Piccinino, 9 06122 Perugiatel. 075 5732775 – 075 5724869 – fax 075 [email protected]