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Cristiano Crescentini e Franco Fabbro Neuropsicologia del bilinguismo nei bambini

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Cristiano Crescentini in

Franco Fabbro

Nevropsihologija dvojezičnosti

pri otrocih

Cristiano Crescentini e

Franco Fabbro

Neuropsicologia del bilinguismo

nei bambini

ISBN 978-88-7342-209-9

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ISBN 978-88-7342-209-9

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Neuropsicologia del bilinguismo

nei bambiniCristiano Crescentini e Franco Fabbro

2014

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Indice

1. Il linguaggio come funzione del cervello ................................. 7

2. Metodi per studiare l’organizzazione del linguaggio nel cervello ................................................................ 12

3. Acquisizione della prima lingua ...................................................... 15

4. Il ruolo della memoria nell’acquisizione delle lingue ........ 18

5. Il cervello bilingue dei bambini ...................................................... 22

6. Acquisizione o apprendimento della seconda lingua nel bambino ............................................... 25

7. Periodi critici nell’acquisizione delle lingue ............................. 29

8. Età di acquisizione e livello di competenza della seconda lingua ........................ 33

9. Essere bilingui o plurilingui produce benefici intellettivi o contribuisce a causare altri disturbi? ....................................... 36

10. Quando iniziare l’educazione bilingue e che cosa ne determina il successo in età prescolare? .. 39

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11. Disturbi del linguaggio nei bambini bilingui ......................... 42

Le afasie nei bambini bilingui .......................................................... 42

Il ritardo mentale nei bambini bilingui ...................................... 43

I disturbi specifici del linguaggio (DSL) nei bilingui .......... 44

La dislessia nei bambini bilingui .................................................... 46

12. Fenomeni di mescolamento e commutazione delle lingue .......................................................... 48

13. Sordità e bilinguismo ............................................................................. 50

Note .......................................................................................................................... 54

Riferimenti bibliografici ................................................................................ 58

Gli Autori ................................................................................................................. 66

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1 Il linguaggio come funzione del cervello

Il linguaggio è una capacità distintamente umana di vitale importanza per le capacità cognitive e comunicative che sono alla base del successo degli esseri umani, sia come individui che come specie. Anche se gene-ralmente pensiamo al linguaggio come forma di comunicazione, è più corretto pensare ad esso come ad un codice composto da diversi tipi di forme e simboli che, combinati in accordo alle regole della gram-matica, assolvono molte funzioni una delle quali è la comunicazione. Il linguaggio si articola in più livelli distinti, separati ma interrelati fra loro, che riguardano parole semplici, parole con struttura interna, frasi e discorsi. Tra questi livelli vanno riconosciuti quello fonologico, morfologico, sintattico, semantico e il livello del discorso.1

La fonologia prende in esame i suoni linguistici dal punto di vista della loro funzione (trasmettere significati) e della loro organizzazione in parole, a partire dalle unità distinte di suono, i fonemi. La fonetica

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prende in esame le concrete realizzazioni sonore, con riferimento alla loro dimensione fisica e articolatoria o acustica.

La morfologia è quella parte della linguistica che si occupa dello studio della struttura grammaticale delle parole e come esse sono for-mate. Il ‘morfema’ è la più piccola unità linguistica dotata di significa-to; ogni parola di una lingua risulta composta da uno o più morfemi. La morfologia inoltre indaga sui meccanismi della concordanza delle parole (ad es. tra aggettivo e sostantivo), sul genere, sul numero e sui tempi verbali. L’insieme delle parole di una lingua ne forma il lessico; la disciplina che prende in esame la struttura del lessico si chiama les-sicologia. Chi conosce una lingua possiede perciò un ‘lessico mentale’ che gli fornisce una serie di informazioni sulle parole che conosce (ad es. pronuncia, ortografia, significato, etc.).

La ‘sintassi’, che letteralmente equivale a “combinazione o disposi-zione”, costituisce il livello di analisi del linguaggio che si occupa della struttura delle frasi, riguarda cioè come si combinano fra loro le parole e come esse sono organizzate in frasi.

La semantica è quella parte della linguistica che studia il significato delle parole (semantica lessicale), degli insiemi di parole, delle frasi (semantica frasale) e dei testi. All’interno della semantica, lo studio del lessico riguarda le proprietà inerenti le parole e i morfemi, che vengono descritti mediante tratti semantici. Molto più complesso è lo studio del significato delle frasi e dei testi, poiché esso dipende sia dal significato delle parole, spesso ambiguo, sia da come esse sono struttu-ralmente combinate all’interno di una frase o di un discorso, il quale esprime solitamente le intenzioni e i desideri di un parlante. La seman-tica frasale va quindi integrata con la pragmatica, ovvero con lo studio dell’uso del linguaggio nel contesto.

I significati veicolati dalle frasi sono inseriti in strutture di ordi-ne superiore che costituiscono il livello del discorso del linguaggio. Il discorso include le informazioni pertinenti all’argomento sotto di-scussione, il centro dell’attenzione del parlante oltre ad informazioni

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circa l’ordine temporale degli eventi, la causalità, e così via. Le infor-mazioni trasmesse con il discorso servono come base per aggiornare la conoscenza del mondo di un individuo nonché per il ragionamento e la pianificazione delle azioni. La struttura e l’elaborazione del discor-so coinvolgono molti elementi e operazioni non linguistiche, come il recupero delle informazioni dalla memoria semantica e le inferenze logiche.

Diversi tipi di evidenze neuroscientifiche ci forniscono oggi infor-mazioni dettagliate sul modo in cui il cervello è organizzato per rap-presentare ed elaborare il linguaggio.2 Come vedremo nella prossima sezione, tali evidenze includono le correlazioni fra deficit nell’elabo-razione del linguaggio e lesioni cerebrali, fra variazioni di flusso san-guigno cerebrale e altre risposte emodinamiche ed elaborazione del linguaggio in soggetti normali, fra risposte elettrofisiologiche e magne-toencefalografiche ed elaborazione del linguaggio in soggetti norma-li, e l’effetto della stimolazione elettrocorticale sul linguaggio. Queste fonti di dati indicano che il linguaggio è primariamente rappresentato ed elaborato nella corteccia associativa perisilviana dei lobi frontale e temporo-parietale, con eventuali contributi di altre aree cerebrali.

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Figura 1: Superficie laterale dell'emisfero cerebrale sinistro. Viene indicata la localizzazione approssimativa dei principali giri e solchi.

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2 Metodi per studiare l’organizzazione del linguaggio nel cervello

Come abbiamo accennato nella sezione precedente, le scoperte delle neuroscienze cognitive indicano che l’elaborazione del linguaggio im-plica l’attivazione della corteccia associativa perisilviana ed in partico-lare il giro frontale inferiore [aree di Brodman (BA) 45 e 44 (area di Broca)], il giro angolare (BA39) e il giro sopramarginale (BA40) del lobo parietale e il giro temporale superiore (BA22: area di Wernicke) dell’emisfero dominante (il sinistro).1 Il metodo più diffuso per valuta-re l’organizzazione del linguaggio nel cervello è stato quello di studiare pazienti monolingui e multilingui con disturbi del linguaggio causati da lesioni cerebrali successive all’acquisizione del linguaggio.2 Recen-temente, si stanno impiegando altre tecniche molto efficaci per stu-diare la rappresentazione del linguaggio nel cervello sia in condizioni di normalità sia di patologia; esse includono le cosiddette tecniche di neuroimmagine funzionale come la Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI) e la Tomografia ad Emissione di Positroni (PET) che permet-

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tono di misurare e visualizzare l’attività cerebrale in vivo, basandosi sull’assunto secondo cui incrementi di attività neurale in una data re-gione cerebrale si accompagnano ad un aumento del flusso cerebrale e del consumo di ossigeno, cui segue un aumento dell’apporto locale di sangue. Ci sono inoltre le tecniche elettrofisiologiche come quella dei Potenziali Evento-Correlati (ERP) che, al pari di quelle di neuroanato-mia funzionale, sono altrettanto non invasive. Ad esempio, la tecnica elettroencefalografica permette di misurare, tramite una serie di elet-trodi registranti posizionati sullo scalpo, l’attività dei neuroni corticali sottostanti ciascun elettrodo. La Magnetoencefalografia (MEG) si basa invece sulla registrazione, tramite particolari sensori posti in prossi-mità dello scalpo, dei campi magnetici indotti dall’attività elettrica dei neuroni. Infine, la Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS) si basa sul principio di induzione elettromagnetica secondo cui un im-pulso di corrente elettrica che passa attraverso una bobina di metallo appoggiata sullo scalpo genera un campo elettromagnetico di breve durata e molto circoscritto che può raggiungere la sottostante porzione di corteccia cerebrale bloccandone il funzionamento, in maniera del tutto temporanea e reversibile.3

Una serie considerevole di dati sperimentali ottenuti mediante l’uso delle tecniche appena menzionate indica che diversi aspetti dell’elabo-razione del linguaggio sono localizzati in diverse parti della corteccia perisilviana e lateralizzati in modo diverso nei due emisferi. Le mo-derne neuroscienze cognitive ci dicono inoltre che sia la localizzazio-ne sia la lateralizzazione mostrano un certo grado di variabilità tra gli individui. In particolare, per quanto riguarda la localizzazione delle diverse funzioni del linguaggio, molti studi suggeriscono che il lobo temporale anteriore sia coinvolto nella rappresentazione dei significati delle parole. L’area di Wernicke ad esempio sembra essere specializzata nell’uso del codice fonemico della lingua ed è importante per la com-prensione del linguaggio. L’area di Broca invece sembra presiedere alla codifica della sintassi e alla combinazione dei fonemi per comporre

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parole. Un danno funzionale in quest’area (dovuto a ictus, ischemia, o altro) può provocare la cosiddetta afasia di Broca, classificata tra le afasie non fluenti. I pazienti colpiti da afasia non fluente (sia bambini che adulti) possono essere incapaci di comprendere o formulare frasi con una struttura grammaticale complessa. Infine, il lobo parietale in-feriore sembra giocare un ruolo importante nel mantenimento delle rappresentazioni fonologiche all’interno della memoria a breve termi-ne verbale.4

Come abbiamo accennato, altre aree al di fuori della corteccia as-sociativa perisilviana rivestono un ruolo importante nel supportare l’elaborazione del linguaggio. Ad esempio lesioni alla corteccia mo-toria supplementare, posta lungo la superficie mediale del lobo fron-tale, possono portare a disturbi di attivazione del linguaggio. Anche le strutture sottocorticali dei gangli della base, come il nucleo cau-dato, e del talamo sembrano essere importanti per promuovere l’ini-zio dell’espressione verbale. Queste strutture sono altresì importanti per il controllo semantico, grammaticale e fonemico dei segmenti del linguaggio, prima che essi vengano espressi.5 Infine, come abbiamo detto, la maggior parte dell’elaborazione linguistica si verifica in un emisfero chiamato dominante, che è quello sinistro. In circa il 98% degli individui destrimani, l’emisfero sinistro è il dominante; questa proporzione si riduce al 60-65% negli individui mancini. Anche se il linguaggio è stata la prima funzione nota per essere lateralizzata, essa non lo è completamente. Sebbene non rivesta un ruolo così cruciale nell’elaborazione del linguaggio come l’emisfero sinistro, anche l’emi-sfero non dominante (il destro) è coinvolto in molte operazioni lin-guistiche. Probabilmente il livello di elaborazione del linguaggio dove entra maggiormente in gioco l’emisfero destro riguarda l’elaborazione del discorso e in particolar modo le sue componenti non letterali come le metafore e la prosodia.6

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3 Acquisizione della prima lingua

L’acquisizione del linguaggio si riferisce al processo attraverso cui si realizza la capacità di parlare e capire la particolare lingua o lingue a cui un bambino è stato esposto. A 5-6 anni di età i bambini divengono generalmente degli abili e competenti parlanti della loro lingua nati-va. Durante questi primi anni di sviluppo, i bambini acquisiscono la capacità di percepire e produrre i suoni della lingua cui sono esposti e le regole fonologiche necessarie per combinare tali suoni in parole do-tate di significato. Il bambino acquisisce inoltre un vocabolario ampio e diversificato e le regole per giustapporre in maniera appropriata le parole in complesse frasi grammaticali caratterizzate da una corretta morfologia. Infine, i bambini diventano abili utenti di questo sistema linguistico al fine di adattare la lingua in linea con i vari contesti sociali a cui sono quotidianamente esposti.1

L’acquisizione della prima lingua può essere suddivisa in diverse tappe di sviluppo.2 Il periodo che precede la produzione delle prime

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parole viene detto pre-linguistico3 e interessa generalmente il primo anno di vita. Il periodo pre-linguistico può essere ulteriormente suddi-viso in una serie di fasi:

Durante la fase delle prime vocalizzazioni (primi 3 mesi di vita), il bambino piange e produce delle vocalizzazioni nelle quali gli adulti tendono a riconoscere delle associazioni consonante-vocale. Successi-vamente, nella fase della lallazione rudimentale (4-7 mesi) il bambino comincia ad aumentare il repertorio di suoni consonantici e vocalici che è in grado di produrre fino a che, verso i 6 mesi, si manifestano le prime combinazioni consonanti-vocali. Dai 7 mesi ai 9 mesi (fase della lallazione canonica), il bambino comincia a produrre sillabe ben for-mate, caratterizzate dalla combinazione di una consonante e una vo-cale. I bambini producono le sillabe in maniera ripetitiva, ad esempio “ba-ba-ba”. Il comportamento di lallazione, probabilmente codificato a livello genetico, sembra dipendere da diverse strutture sottocorticali, le quali giocano un ruolo molto importante anche nella capacità, già presente alla nascita, di distinguere sillabe diverse come “ba” e “bi”. Infine, fra i 9 e i 18 mesi (fase della produzione di prime parole) il bam-bino pronuncia le prime parole che sono spesso caratterizzate da 2 sil-labe uguali ripetute (“mama”). In questo periodo il bambino tende ad utilizzare la stessa parola per identificare un’ampia gamma di oggetti, persone, situazioni e tende inoltre ad alternare periodi di lallazioni a produzioni di singole parole. In media i bambini producono la loro prima parola a 11 mesi, alcuni più precoci a 8 e altri più lenti a 18.

Dopo il primo anno, l’acquisizione del linguaggio prosegue con il cosiddetto stadio della parola frase (12-18 mesi)4 in cui i bambini ten-dono a produrre enunciati formati da una sola parola, intendendo però con essa lo svolgersi di un’intera azione (“mamma” è “mamma vieni qui”). Successivamente, dai 10 ai 20 mesi il bambino aumenta il nu-mero di parole che è in grado di produrre. I bambini di 22 mesi hanno un vocabolario espressivo di più di 50 parole ma già 6 mesi prima ne comprendono circa 200. A 6 anni il bambino comprende circa 10000

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parole. Quando il bambino è in grado di produrre 50 parole allora egli comincia a formare frasi di 2 parole. Durante lo stadio delle frasi formate da due parole (18-24 mesi), il bambino è in grado di produrre enunciati formati appunto da due parole e di comprendere pronomi personali oltre che ordini semplici; l’espressione verbale caratteristica di questo periodo è spesso ripetitiva e sono rare le risposte appropriate alla conversazione. Vi sono comportamenti verbali ecolalici (il bambi-no spesso ripete letteralmente quello che sente dire dagli altri).

Dai 24 ai 36 mesi (periodo delle piccole frasi con più di due parole), il bambino produce frasi più lunghe ma telegrafiche, dove vengono omessi elementi grammaticali come le parole funzione (articoli, ausi-liari, pronomi, eccetera). Mentre cresce il vocabolario, diminuisce la tendenza a produrre monologhi, è perciò possibile stabilire in questo periodo una reale conversazione con il bambino. Più tardivamente, dai 36 ai 55 mesi (sviluppo grammaticale e morfologico), vi è un rapido sviluppo del linguaggio. Le frasi prodotte si allungano e il bambino inizia a usare le parole funzione oltre che a coniugare correttamente i verbi; inoltre l’ordine delle parole nelle frasi si stabilizza (soggetto-ver-bo-complemento oggetto in Italiano). Il bambino è in grado di fare correttamente domande e risposte utilizzando i pronomi personali. Il vocabolario espressivo sale fino alle 1000 parole; il bambino conosce e utilizza parole che si riferiscono a concetti spaziali e temporali (come “sopra-sotto” o “prima-dopo”). Dai 3 anni, il bambino inizia inoltre a comprendere e pronunciare alcune frasi passive. Dai 4 anni di età, egli possiede una conoscenza di base del linguaggio, a 5 anni commette pochi errori grammaticali e tende a corregge quelli commessi. A 6 anni il suo linguaggio è simile a quello dell’adulto; a quest’età più del 90% delle sue espressioni verbali risultano comprensibili anche agli adulti al di fuori della cerchia familiare. A 8 anni il bambino ha una buona competenza grammaticale, simile a quella dell’adulto, infine verso i 10 anni, egli comprende numerosi significati non letterali delle espressio-ni verbali (aspetti pragmatici della comunicazione verbale).

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4 Il ruolo della memoria nell’acquisizione delle lingue

La memoria è la capacità di mantenere le informazioni precedentemen-te apprese all’interno di un sistema di immagazzinamento in modo che esse possano essere utilizzate in un secondo momento. La memoria può essere osservata in comportamenti manifesti, come quando uno studente recupera informazioni da letture precedenti in modo da poter rispondere alle domande di un test, o in eventi meno prontamente osservabili, come lo sviluppo e il cambiamento del tessuto neuronale che avviene a livello neurobiologico. La memoria non è un costrutto unitario, ma riflette piuttosto un numero distinto di abilità cognitive1 che possono essere classificate lungo un certo numero di dimensioni diverse e che entrano diversamente in gioco durante l’acquisizione del linguaggio nonché durante il suo utilizzo quotidiano.2

Già alla metà del secolo scorso, è stata proposta la distinzione tra memoria a breve termine e memoria a lungo termine.3 La prima forma di memoria si riferisce alla propria capacità di ricordare del materiale immediatamente dopo che è stato presentato o in seguito ad una rei-

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terazione interna senza interruzioni del materiale. La seconda forma di memoria si riferisce alla capacità di ricordare le informazioni in un secondo momento, senza la necessità di reiterare le stesse durante il periodo intercorrente. La memoria a breve termine è di capacità limi-tata e le informazioni al suo interno possono essere mantenute per un massimo di alcuni minuti. Dopo questo periodo esse vengono perse o sostituite da nuove informazioni. Al contrario, la memoria a lungo termine ha una capacità straordinariamente vasta, in grado di mante-nere le informazioni per un tempo indeterminato senza la necessità di reiterazioni continue.

All’interno della memoria a lungo termine sono stati differenziati due importanti sotto-sistemi che implicano abilità, processi cognitivi e substrati neurali diversi: il sistema della memoria implicita e quello della memoria esplicita.4 Il sistema di memoria implicita, a sua volta formato da una serie di sottocomponenti diverse (come quella pro-cedurale importante per l’articolazione dei suoni linguistici e che ci permette di guidare un’automobile senza prestarvi troppa attenzione), è un tipo di memoria filogeneticamente molto antica, probabilmente una delle forme più importanti di memoria degli esseri viventi; essa ri-guarda le conoscenze motorie e cognitive che non sono accessibili alla consapevolezza ma che sono in grado allo stesso modo di influenzare il nostro comportamento. Diversi studi mostrano che i bambini fino a 8-10 mesi possiedono solo questo tipo di memoria; essa matura molto velocemente tant’è che all’età di 3 anni i bambini presentano una me-moria implicita molto simile a quella dei bambini più grandi (6 anni), mentre la memoria esplicita è ancora poco sviluppata. La memoria implicita, soprattutto quella di tipo procedurale, sembra dipendere dall’elaborazione delle informazioni a livello delle strutture sottocor-ticali come i gangli della base e il cervelletto, strutture che nel bambi-no sviluppano abbastanza precocemente, entro i 4 anni, a differenza delle aree che sottendono la memoria esplicita (aree associative della corteccia cerebrale come i lobi temporale e frontale e l’ippocampo)

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che invece maturano più tardivamente, fino alla pubertà.5 La memoria implicita è cosi di primaria importanza per lo sviluppo e la memoriz-zazione di diversi aspetti della prima lingua, soprattutto quelli inerenti la fonologia, come il riconoscimento e l’articolazione di suoni, e la morfosintassi, come le regole di flessione e combinazione delle parole.6

La memoria esplicita o dichiarativa comprende tutto ciò che può essere descritto consapevolmente e si divide in memoria semantica e memoria episodica.7 La memoria episodica consiste nella memoria re-lativa agli eventi generali e nella memoria autobiografica, che riguarda il ricordo di fatti della vita personale. La memoria semantica invece comprende le nostre conoscenze enciclopediche sul mondo e si rife-risce quindi anche ai significati delle parole e dei concetti. Quindi, quest’ultima forma di memoria riveste un ruolo chiave per l’apprendi-mento consapevole dei significati delle parole e rende possibile che un bambino dopo i 3 anni di età possa descrivere verbalmente un episodio del passato.

Infine, anche la memoria a breve termine è formata da diversi sot-totipi funzionali; uno di questi è la memoria di lavoro che contiene le informazioni che vengono mantenute in mente per uno scopo; essa consta di tre componenti funzionali: l’esecutore centrale, il circuito ar-ticolatorio, e il magazzino episodico temporaneo.8 Mentre l’obiettivo dell’esecutore centrale è quello di coordinare la gestione delle richie-ste cognitive e attentive, il circuito articolatorio mira alla ritenzione e manipolazione di informazioni in forma fonologico-verbale. Dopo il temporaneo immagazzinamento delle parole (nella scala di tempo di alcuni secondi), per non essere dimenticate esse devono essere ripetute interiormente tramite il “sistema di ripasso articolatorio”. Le strutture chiave per la memoria di lavoro in generale e per il circuito articola-torio in particolare riguardano le aree cerebrali del lobo temporale, frontale e le cortecce motorie e premotorie oltre che le strutture sotto-corticali. La memoria di lavoro fonologica mostra un incremento delle sue capacità, sia per quanto riguarda l’immagazzinamento che per il

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processo di ripetizione subvocale, dai 4 ai 10 anni di età ed è legato alla maturazione soprattutto delle strutture del lobo frontale. La memoria di lavoro fonologica sembra rivestire un ruolo importante nell’acqui-sizione grammaticale: essa permetterebbe infatti ad un morfema di essere mantenuto attivo in memoria per il tempo sufficiente affinché esso venga elaborato correttamente.9 Sembra che questo tipo di me-moria sia richiesto soprattutto quando il bambino deve decodificare e comprendere strutture morfosintattiche complesse, che risultano non ancora automatizzate nel suo bagaglio linguistico.

Riassumendo, anche se diverse componenti di memoria interven-gono in diversi aspetti dell’elaborazione linguistica, è importante no-tare che durante il linguaggio risultano costantemente coinvolte sia componenti della memoria implicita che esplicita oltre che alle com-ponenti della memoria di lavoro a breve termine.

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5 Il cervello bilingue dei bambini

Il bilinguismo è al centro di un rinnovato interesse nell’ambito delle ricerche svolte dalle neuroscienze cognitive. Nonostante il bilinguismo interessi direttamente più della metà della popolazione mondiale, la sua definizione non è affatto scontata; secondo alcuni studiosi si può considerare bilingue colui che è capace di usare abitualmente due lin-gue con un controllo simile a quello di un parlante di madre lingua; tale definizione concorda con quella generalmente presente nell’uso popolare del termine secondo cui essere bilingue equivale a parlare due lingue perfettamente; sulla base di questa accezione, il bilingui-smo in senso stretto sarebbe proprio dei bambini allevati in contesti caratterizzati dall’uso simultaneo di due lingue oppure di individui che non hanno bisogno di tradurre in quanto in grado di controllare con-temporaneamente due sistemi linguistici paralleli. D’altro canto altri ricercatori sostengono che è bilingue chiunque possieda una minima competenza nelle seguenti quattro abilità linguistiche: comprensione uditiva, abilità di produzione orale, lettura e scrittura in una lingua

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diversa dalla propria lingua madre. Fra queste due posizioni estreme si collocano le posizioni di altri autori.

Più nello specifico, in ambito di psicologia del bilinguismo e di linguistica si sono distinti diversi tipi di bilinguismo.1 Ad esempio, si parla di bilinguismo compatto quando un individuo ha appreso le due lingue contemporaneamente prima dei sei anni, perché esse erano parlate indifferentemente dal padre e dalla madre. Nel bilinguismo coordinato, invece, la seconda lingua è stata appresa perfettamente prima della pubertà, ma comunque in un ambiente diverso dalla fa-miglia. Nel bilinguismo subordinato una delle due lingue rimane la lingua base e la seconda viene adoperata utilizzando sempre come in-termediaria la prima lingua. Altre definizioni di bilinguismo sono state quelle di bilinguismo precoce, per indicare che le due lingue sono state acquisite in tenera età, bilinguismo tardivo, quando la seconda lingua è stata acquisita molto tempo dopo la prima, e acquisizione adulta di una seconda lingua, per denotare l’individuo che ha iniziato molto tardi a imparare la lingua straniera. Come descritto all’inizio di questa sezione, altre definizioni hanno cercato di descrivere il grado di competenza nelle due lingue, distinguendo fra bilinguismo bilan-ciato quando un individuo conosce le due lingue allo stesso livello e bilinguismo dominante per indicare una persona che è più fluente in una lingua rispetto all’altra.

In generale, la ricerca sul cervello bilingue affronta il problema del-la rappresentazione e del funzionamento di più lingue in un unico cervello. Essa si è estesa su vari fronti ed ha abbracciato un periodo lungo più di 100 anni, dalle prime segnalazioni di casi di afasia (un disturbo acquisito del linguaggio conseguente a una lesione cerebrale) in soggetti bilingui e poliglotti, fino ai più recenti studi di neuroimma-gine funzionale riguardo i modelli di attivazione cerebrale nel cervello intatto di persone bilingui. Un problema di fondo presente sia nella clinica che nella ricerca sperimentale sul bilinguismo è stato quello di determinare se, e in quali circostanze, ci sono dei correlati neuropsi-

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cologici intraemisferici e/o interemisferici distinti per l’acquisizione e l’utilizzo di due o più lingue. Gli studi si sono così focalizzati lungo quattro linee di ricerca:2 (i) i modelli di recupero del linguaggio in afasici (sia bambini che adulti) bilingui o poliglotti, (ii) l’incidenza di afasia crociata (l’insorgenza di sintomi afasici in seguito a lesioni all’e-misfero cerebrale destro in soggetti destrimani) nei bilingui/poliglotti vs. le persone monolingue, (iii) l’estensione del coinvolgimento dell’e-misfero destro nel linguaggio nel cervello intatto di individui bilingui vs. monolingui e (iv) i risultati degli studi di neuroimmagine funzio-nale sul cervello dei bilingui allo scopo di capire se le regioni neurali at-tivate durante l’ elaborazione di ogni lingua parlata sono spazialmente sovrapposte o distinte.

In pratica, il bilinguismo è un fenomeno multidimensionale nel quale entrano in gioco sia aspetti tecnici linguistici e neuropsicologici, quali la competenza, l’età di acquisizione e la rappresentazione cere-brale delle lingue, che aspetti cognitivi, emotivi, sociali e culturali.

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6 Acquisizione o apprendimento della seconda lingua nel bambino

Allo stato attuale delle ricerche in ambito di neuroscienze cognitive ap-pare importante distinguere fra acquisizione e apprendimento di una lingua.1 Come abbiamo visto nelle sezioni precedenti, l’acquisizione di una lingua viene effettuata con modalità naturali, in un ambiente informale, con il coinvolgimento preponderante della memoria impli-cita. L’apprendimento di una lingua avviene invece prevalentemente con modalità formali, cioè attraverso l’apprendimento intenzionale di regole linguistiche, facendo ricorso alle competenze metalinguistiche dell’individuo e alle analogie con le strutture della lingua materna; essa inoltre avviene spesso in un ambiente istituzionale senza la possibilità di interazioni regolari con parlanti nativi.

In linea con alcune definizioni di bilinguismo introdotte nella se-zione procedente, parlando di acquisizione è inoltre importante di-stinguere fra acquisizione della prima lingua e acquisizione o appren-dimento della seconda lingua. Per quanto riguarda l’acquisizione della seconda lingua possiamo distinguere l’acquisizione simultanea della

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prima e della seconda lingua, dall’acquisizione precoce della secon-da lingua fino alla pubertà, dall’acquisizione o apprendimento tardivo della seconda lingua. Tutti questi modelli di sviluppo della conoscenza delle lingue si distinguono gli uni dagli altri per determinate caratteri-stiche, ma la distinzione fondamentale è quella fra i processi di acqui-sizione precoci delle lingue parlate da un individuo e processi di acqui-sizione o apprendimento tardivi della seconda lingua. Come vedremo nelle prossime due sezioni, distinguere fra acquisizione e apprendi-mento delle lingue o fra lingue acquisite in età diverse è importante dato che è probabile che tali processi coinvolgano strutture cerebrali diverse, ovvero strutture corticali e sottocorticali per l’acquisizione e prevalentemente aree della corteccia cerebrale per l’apprendimento.2

Per quanto concerne l’acquisizione simultanea di due lingue a parti-re dalla nascita, la questione principale degli studi sul bilinguismo com-patto o simultaneo è stata quella di capire se il percorso dello sviluppo linguistico di un bambino bilingue differisce da quello di un bambino esposto ad una sola lingua e, più in particolare, se le abilità linguisti-che siano in qualche modo contrastate dal bilinguismo. Alcuni studi sembrano mostrare che gli stadi dello sviluppo linguistico dei bambini bilingui, quando paragonati a quelli di un bambino monolingue, sia-no caratterizzati da ritardi di sviluppo. Ad esempio, se confrontiamo lo sviluppo lessicale, nei primi anni di vita, di un bambino bilingue con un altro monolingue, il bilingue sembrerà meno sviluppato del mono-lingue. Un bambino monolingue al terzo anno di vita comprende circa 800/900 parole così come un bambino bilingue anche se, in questo caso, tale cifra esprime le parole conosciute dal bambino complessiva-mente per le due lingue. Anche se inizialmente il rapporto tra le due lingue può essere sbilanciato, è importante notare che con il tempo esso si riequilibra tant’è che in breve tempo molti bambini bilingui si comportano linguisticamente come i bambini monolingui pari età. È probabile che le iniziali differenze tra bambini bilingui e bambini mo-nolingui riflettano le ridotte capacità di memorizzazione del bambino,

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soprattutto della memoria esplicita.3 D’altro canto, i bambini bilingui, proprio perché esposti a due linguaggi, sembrano possedere un reper-torio fonologico più ricco rispetto ai monolingui. La ricerca si è quindi orientata nel cercare di capire se lo sviluppo fonologico dei bambini esposti in modo simultaneo a due lingue segua lo stesso pattern di svi-luppo dei bambini monolingui; in altre parole si è cercato di capire se i bambini bilingui posseggano due distinti sistemi fonologici.4 Come abbiamo visto, nella fase della lallazione, il bambino ripete consonanti e vocali combinate in sillabe. Alcuni studi hanno rilevato che i neonati reagiscono diversamente a seconda della lingua in cui si rivolgono loro gli adulti di riferimento. Perciò, anche la lallazione assume le caratte-ristiche fonetiche di questa lingua. Sembra infatti che già dai primi mesi il bambino sia in grado di distinguere le espressioni verbali che appartengono alle lingue degli adulti di riferimento e che la rappresen-tazione fonologica di ogni lingua inizi a formarsi già in questo periodo. Malgrado le iniziali differenze fra bambini bilingui e bambini mono-lingui, soggette fra l’altro a larghe differenze individuali, possiamo dire che le tappe maturative dello sviluppo linguistico in ambiente bilingue avvengono allo stesso modo che in ambiente monolingue. Molti studi hanno infatti documentato che lo sviluppo fonologico e morfosintat-tico sono simili nei bambini bilingui (in entrambe le lingue) rispetto ai bambini monolingui.5

Per quanto riguarda invece l’acquisizione della seconda lingua tra i 3 e i 5-6 anni di età, cioè quando il bambino ha già imparato ad esprimersi nella sua prima lingua, sappiamo che l’acquisizione pro-cede attraverso una serie di fasi, analoghe a quelle che attraversano i bambini monolingui quando apprendono una lingua. Ad una fase di silenzio-ascolto ne segue una più tardiva in cui il bambino produce strutture sempre più complesse. Il processo di apprendimento della seconda lingua dura da tre a cinque anni e, dato importante, i bambini che imparano la seconda lingua prima degli 8 anni possono raggiun-gere lo stesso grado di competenza in entrambe le lingue dei bambini

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monolingui dalla nascita, a patto che la seconda lingua venga praticata costantemente.

Infine, quando la seconda lingua viene appresa nella scuola secon-daria, ovvero tra i 12 e i 18 anni di età, il ragazzo deve attivare delle ri-sorse mentali diverse, e potenzialmente maggiori, rispetto al bambino. L’acquisizione della seconda lingua durante questo periodo risulta più difficile rispetto all’età della scuola primaria ma comunque più facile rispetto ad apprenderla in età adulta.6 Queste differenze suggeriscono l’esistenza di “periodi critici” per l’acquisizione del linguaggio, argo-mento che affrontiamo nelle prossime due sezioni.

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7 Periodi critici nell’acquisizione delle lingue

L’esistenza di periodi critici nell’acquisizione del linguaggio sembra dipendere dalla maturazione e plasticità delle strutture del cervello che sottendono la rappresentazione cerebrale di alcune componenti fondamentali del linguaggio. In questo senso, alcuni aspetti neurobio-logici quali la mielinizzazione (il processo che porta al rivestimento degli assoni con guaine mieliniche facilitando la trasmissione delle in-formazioni fra neuroni) e la sinaptogenesi (che si riferisce al processo di crescita del numero di sinapsi nel tessuto nervoso rappresentando un indice della complessità dei collegamenti fra i neuroni), giocano probabilmente un ruolo chiave nel determinare il periodo critico per l’acquisizione delle lingue straniere.1 Anche se a tutt’oggi risulta ancora difficile indicare un limite temporale sicuro entro il quale si compie il periodo critico per l’acquisizione completa di una seconda lingua, l’età di 8 anni sembra essere cruciale. Generalmente, a quest’età un bambi-no ha già terminato lo sviluppo fonologico e morfosintattico della sua prima lingua e questo suggerisce che un’acquisizione completa della

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seconda lingua è possibile quando non ha ancora avuto termine lo sviluppo della prima. Inoltre, entro l’età critica, i sistemi neurali della memoria implicita presentano un elevato grado di plasticità; entro gli 8 anni i bambini possono apprendere numerose procedure relative alle diverse lingue. Superata l’età critica il bambino userà ciò che già sa del sistema della prima lingua, tenderà ad applicare ad esempio le regole morfologiche e le strutture sintattiche della prima lingua alla seconda. A riprova dell’importanza dei periodi critici per l’acquisizione delle lingue, alcuni studi sui modelli di recupero delle lingue a seguito di afasie nel bambino mostrano che una lesione cerebrale successiva al periodo critico di acquisizione del linguaggio provoca deficit perma-nenti del linguaggio.2

Il problema della localizzazione cerebrale delle lingue nel cervello dei bilingui ha riguardato soprattutto la questione se le due lingue siano localizzate nelle stesse aree o in aree differenti del cervello. A tal proposito, nel secolo scorso si sono succedute diverse ipotesi, talvolta diametralmente opposte fra loro. Più recentemente, numerosi studi, basati anche sui modelli di recupero delle lingue in individui bilingui e sul ruolo delle diverse forme di memoria nell’acquisizione delle lingue, hanno evidenziato che le lingue conosciute da un bilingue potrebbero essere organizzate in parte in aree cerebrali specifiche ed in parte in aree comuni del cervello. Più nel dettaglio, diverse ricerche hanno messo in evidenza che la rappresentazione cerebrale della seconda lingua può dipendere in larga misura dall’età in cui quest’ultima è stata acquisita, dal livello di competenza raggiunto e dalle modalità di apprendimen-to.3 L’età di acquisizione della seconda lingua sembra essere un fat-tore molto importante per determinare la rappresentazione cerebrale macroscopica di tale lingua, soprattutto quando vengono chiamati in causa compiti di produzione linguistica.4 D’altro canto, il livello di competenza raggiunto sembra essere importante per determinare la rappresentazione cerebrale della seconda lingua soprattutto quando si indaga la comprensione delle lingue.5 In linea generale, sembra perciò

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che se la seconda lingua è stata acquisita in età prescolare, nel bambino si attivano aree corticali diverse da quelle che si attivano se l’apprendi-mento è avvenuto dopo questo periodo.

Ad esempio, in alcuni studi di neurofisiologia è stato dimostrato che quando vengono trattate le componenti semantiche e grammati-cali della prima e della seconda lingua, nel cervello dei bilingui precoci si attivano le medesime aree corticali: anteriori nel lobo frontale per quanto concerne gli elementi grammaticali e strutture posteriori dei lobi temporale e parietale per quanto riguarda gli elementi semanti-ci. D’altro canto, negli individui che apprendono la seconda lingua dopo gli 8 anni si attivano aree diverse, soprattutto per gli elementi grammaticali che, nella seconda lingua, vengono rappresentati nelle aree posteriori assieme agli elementi lessicali delle due lingue. Men-tre gli elementi grammaticali della prima lingua continuano ad essere rappresentati nel lobo frontale.6 In linea con questi risultati, altri studi di neuroimmagine funzionale hanno mostrato che negli individui che hanno appreso la seconda lingua dopo i sette anni, malgrado il rag-giungimento di elevate abilità in quest’ultima lingua, gli aspetti espres-sivi delle due lingue sono rappresentati in due diverse aree segregate della corteccia frontale inferiore di sinistra. Al contrario, in seguito a compiti di comprensione, l’età di acquisizione delle lingue non sembra invece influenzare la rappresentazione delle lingue nelle aree corticali dei lobi temporale e parietale.7 Un’altra ricerca più recente8 ha messo in luce la possibile esistenza di due periodi critici durante l’età prescolare probabilmente legati ai diversi ritmi di sviluppo della sinaptogenesi. È stato dimostrato che sia l’acquisizione precoce che precocissima della seconda lingua, rispettivamente tra i 3 e gli 8 anni e prima dei 3 anni, portano ad una completa competenza nella seconda lingua, ma al tem-po stesso, comportano differenze a livello neurobiologico. Mentre da una parte non ci sono differenze fra la rappresentazione cerebrale della prima e della seconda lingua quando esse sono state acquisite prima dei 3 anni, dall’altra parte la rappresentazione cerebrale della seconda

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lingua risulta più estesa di quella della prima quando l’acquisizione della seconda avviene fra i 3 e gli 8 anni. Infine, quando la seconda lingua viene acquisita dopo gli 8 anni la sua rappresentazione cerebrale risulta ancora più estesa.

In generale, i risultati suggeriscono che una lingua appresa dopo gli otto anni tende ad avere una minore rappresentazione nei sistemi della memoria procedurale implicita (lobo frontale e strutture sottocorticali sottostanti). Quando invece la seconda lingua viene acquisita prima degli otto anni, o ancor meglio prima dei 3 anni, gli elementi gramma-ticali tendono ad essere organizzati nelle stesse strutture nervose della prima lingua. Ciò significa a sua volta che l’uso di una lingua appresa dopo il periodo critico degli 8 anni sarà meno automatico e richiederà un dispendio di energie mentali maggiori rispetto all’espressione nella prima lingua.9

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8 Età di acquisizione e livello di competenza della seconda lingua

Numerose ricerche di psico- e neurolinguistica si sono concentrare nel cercare di precisare i periodi critici relativi all’acquisizione di una piena competenza nella seconda lingua e, più in particolare, nelle sue varie componenti. È emerso che le competenze più difficili da raggiun-gere nell’apprendimento della seconda lingua riguardano soprattutto le abilità grammaticali, ovvero quelle inerenti i livelli morfologici e sintattici del linguaggio, e quelle fonologiche che si traducono nel ri-uscire ad avere o meno una pronuncia perfetta nella seconda lingua. Ricordiamo che le abilità fonologiche e grammaticali di una lingua sono in larga parte sottese dalle aree corticali frontali e dalle relative aree sottocorticali.1

Per quanto concerne la competenza grammaticale, è stato notato che le principali difficoltà riscontrate da chi inizia ad apprendere la se-conda lingua nel periodo della pubertà riguardano l’uso corretto delle

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parole funzione dato che l’apprendimento dei sostantivi, aggettivi e verbi, sembra non presentare particolari periodi critici, continuando infatti per tutta la vita. Ad esempio, in esperimenti in cui agli individui immigrati in un paese straniero a diverse età veniva chiesto di giudicare se alcune frasi ascoltate erano grammaticalmente corrette o meno, è stato osservato che l’accuratezza di tali giudizi era minore nelle persone immigrate dopo gli 8 anni di età rispetto agli individui immigrati in un altro paese in tenera età.2 Inoltre, il livello di competenza morfo-sintattico raggiunto in una lingua appresa durante la pubertà o in età ancor più adulta sembra essere influenzato dalla distanza linguistica fra la prima e la seconda lingua, aspetto che sembra pesare meno nel caso in cui la seconda lingua venga acquisita in età molto più precoce.3 Infatti, come abbiamo visto nelle sezioni precedenti, è stato accertato che i bambini che acquisiscono la seconda lingua tra i 3 e i 7 anni di età possono raggiungere una competenza grammaticale completa in entrambe le lingue parlate, in maniera relativamente indipendente-mente dal tipo di lingue.

Per quanto riguarda invece la competenza fonologica raggiunta nel-la seconda lingua, numerose ricerche si sono focalizzate nello studio del fenomeno dell’accento straniero in relazione all’età di apprendimento della seconda lingua. Risulta infatti che una delle maggiori difficoltà per chi si accinge ad apprendere una lingua straniera consista nella ca-pacità di acquisire una pronuncia perfetta, ovvero di parlare con accen-to e intonazione non distinguibile da quello dei parlanti nativi. Una serie di studi compiuti in bambini immigrati in paesi stranieri a diverse età ha mostrato che solamente i bambini immersi nella seconda lingua prima degli otto anni riuscivano a sviluppare una pronuncia perfetta nella seconda lingua.4 D’altro canto, altri studi sono stati meno ottimi-stici per quanto riguarda il fenomeno dell’accento straniero mostrando che la sua presenza per la seconda lingua può ricorrere anche quando quest’ultima viene acquisita a partire dai 3 anni di vita, ed indipen-dentemente da quanto essa sia stata praticata.5 Tuttavia, possiamo dire

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che un individuo che apprende una seconda lingua in età adulta ha sicuramente maggiori probabilità di presentare un accento straniero rispetto a un bambino che si avvicina a tale lingua prima dei 7 anni.6

Riassumendo possiamo dire che le persone esposte alla seconda lin-gua dopo la pubertà presentano importanti limitazioni grammaticali e fonologiche rispetto alle persone esposte alla seconda lingua entro il termine del periodo critico. Come abbiamo visto, durante l’età scolare il bambino ha già imparato ad esprimersi adeguatamente nella sua pri-ma lingua, perciò, se è in questo periodo che egli inizia ad apprendere la seconda lingua capiterà che vengano commessi degli sbagli laddove il bambino cerchi di applicare le procedure (ad esempio strutture sin-tattiche e regole morfologiche) apprese per la prima lingua alla secon-da. È altresì importante notare che l’esercizio e la pratica della seconda lingua contribuiranno comunque a far diminuire le interferenze della prima lingua sulla seconda.

Infine, risulta importante mettere in evidenza che anche altri fattori entrano in gioco in maniera cruciale per concorrere a determinare il livello di competenza che una persona può raggiungere nella seconda lingua. In particolare, un fattore cruciale è senz’altro la motivazione, individuale del bambino o condivisa fra genitori, istituzioni e bam-bini, con cui si compie il processo di acquisizione o apprendimento della seconda lingua. Inoltre, anche caratteristiche più propriamente individuali del bambino come la sua personalità estroversa o introversa giocano un ruolo chiave nel determinare il successo con le lingue stra-niere. Infine, anche l’ambiente è un fattore importante. Se il bambino è poco esposto all’altra lingua ricevendo così scarsi feedback, ad esem-pio perché nell’ambiente dove egli si sviluppa tale lingua è poco parla-ta, allora il processo di acquisizione risulterà più lento e impegnativo.

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9 Essere bilingui o plurilingui produce benefici intellettivi o contribuisce a causare altri disturbi?

Fin dagli inizi del secolo scorso il bilinguismo è stato, e spesso lo è an-cora oggi, circondato da pregiudizi e scarsa informazione. Si riteneva infatti che far imparare due lingue ad un bambino provocasse un ri-tardo nel suo sviluppo mentale. Si pensava che un’educazione bilingue precoce avrebbe causato nel bambino problemi di ragionamento cau-sati da una confusione permanente fra le due lingue. Si riteneva inoltre che la competenza raggiunta in ogni lingua sarebbe stata superficiale se paragonata a quella di una persona monolingue.1

Più di recente, i risultati di ricerche sul cervello e sull’educazione bi-lingue stanno contribuendo a sfatare i pregiudizi negativi sul bilingui-smo. Erano gli inizi degli anni ’60 del secolo scorso quando uno studio volto a verificare se l’educazione bilingue fosse realmente dannosa per lo sviluppo del bambino ha mostrato che i bambini bilingui esegui-

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vano meglio dei bambini monolingui una serie di prove verbali e non verbali.2 Una serie di studi successivi hanno o confermato i risultati di questo studio pioneristico o mostrato che l’educazione bilingue non porta a differenze significative nello sviluppo intellettivo dei bambini rispetto ad una educazione monolingue.

Un gruppo di ricerche si sono dapprima focalizzate sulla compo-nente linguistica dello sviluppo del bambino investigando sia il livello di competenza raggiunto nelle lingue che la competenza metalinguisti-ca di bambini bilingui a confronto di bambini monolingui. Se da una parte alcuni dati mostrano che i bambini bilingui precoci sembrano avere un vocabolario meno ampio e sono meno veloci nel trovare le pa-role giuste, differenze fra l’altro destinate a scomparire già nelle prime fasi dell’età scolare, dall’altra parte sono state trovate alcune differenze nelle competenze metalinguistiche.3 La consapevolezza metalinguisti-ca è la conoscenza esplicita della struttura linguistica e la possibilità di accedervi intenzionalmente; abilità fondamentali per lo sviluppo degli usi complessi del linguaggio e per l’acquisizione dell’alfabetizzazione linguistica. Sembra che i bambini bilingui abbiano una conoscenza spontanea maggiore della struttura del linguaggio come se ne notasse-ro intuitivamente la struttura e il funzionamento. Inoltre, a causa del fatto che il bilinguismo porta ad avere due vocaboli o modi di esprime-re lo stesso concetto, sembra che i bambini bilingui abbiano una mag-giore abilità di distinguere tra forma e significato delle parole e una maggior consapevolezza della relazione arbitraria esistente tra le due.4

Sempre in ambito linguistico, altri studi più recenti mostrano come non sia mai troppo presto per esporre i bambini alla seconda lingua e anche che il bilinguismo non crea confusione nei bambini. Infatti, già alla nascita i bambini esposti a più di una lingua sembrano essere in grado di differenziare le lingue e quindi di apprendere entrambe; è stato proposto che questo risultato è dovuto al fatto che il bilinguismo facilita un precoce sviluppo delle abilità di controllo e flessibilità co-gnitiva.5

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In linea con quest’ultima ipotesi è stato osservato che gli individui bilingui presentano vantaggi sul controllo esecutivo dell’attenzione, anche in domini cognitivi diversi dal linguaggio.6 In particolare i bilin-gui sono particolarmente abili nell’indirizzare l’attenzione sugli stimoli rilevanti presentando al contempo una capacità più sviluppata di ini-bizione di informazioni irrilevanti. Questa abilità di controllo selettivo dell’attenzione e di inibizione sembra originare dall’esercizio continuo svolto dai bilingui per controllare efficacemente le due lingue. Infatti, quando un bilingue si esprime in una delle due lingue che conosce, entrambe vengono attivate mentalmente, con un’inibizione parziale della lingua che non viene parlata in quel momento, probabilmente perché essa risulterebbe irrilevante al contesto. Infine, un aspetto mol-to importante è il dato secondo cui il bilinguismo precoce sembra es-sere correlato ad una minore o ritardata incidenza di demenza senile;7 cioè il bilinguismo precoce ha vantaggi dal punto di vista cognitivo che perdurano per tutta la vita.

Infine, vale la pena ricordare che un’educazione bilingue del bam-bino porta con sé un’altra serie di vantaggi che vanno al di là dei be-nefici effetti cognitivi discussi in precedenza e di quelli linguistici di conoscere e parlare due lingue anziché una soltanto. Il bambino bilin-gue potrà accedere più facilmente di quello monolingue a due culture, svilupperà maggiore tolleranza per le culture diverse, potrà avere più opportunità di viaggiare e avrà degli indubbi vantaggi nel mondo del lavoro. Riassumendo, diverse evidenze sperimentali suggeriscono che i vantaggi di una educazione bilingue sorpassano ampiamente gli svan-taggi, soprattutto quando si va a considerare l’impatto su tutta la vita del bambino e dell’adulto bilingue.

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10 Quando iniziare l’educazione bilingue e che cosa ne determina il successo in età prescolare?

Un’educazione bilingue precoce è ancora oggi prassi piuttosto insolita in numerosi paesi europei e in particolare in Italia. Tendiamo ancora a credere che far imparare due lingue ad un bambino in tenera età ri-chieda uno sforzo cognitivo per lui troppo gravoso. È a causa di queste credenze che spesso genitori o insegnanti propendono per la scelta di ritardare l’acquisizione di una lingua straniera fino a quando la prima lingua non sia stata definitivamente acquisita e cioè durante le ultime fasi della scuola primaria. Ebbene, dagli argomenti trattati nelle sezioni precedenti risulta ormai chiaro che il risultato conseguente all’introdu-zione della seconda lingua dopo gli 8 anni non è generalmente quello sperato: l’acquisizione procederà in maniera meno automatica e con più difficoltà di quanto creduto e la competenza raggiunta difficilmen-te sarà paragonabile a quella della prima lingua.1

Come abbiamo mostrato nelle sezioni precedenti, il cervello è per-fettamente in grado di gestire due o più lingue simultaneamente fin

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dalla nascita e il livello di competenza raggiunto in una lingua, so-prattutto nei suoi aspetti fonologici e morfosintattici, risulta essere fortemente correlato con l’età di acquisizione. In altre parole, a causa della sua plasticità il cervello ha la massima ricettività nei confronti del linguaggio nei primi anni di vita, prima della chiusura dei cosiddetti periodi critici. Inoltre, un’educazione bilingue precoce porta ai bambi-ni degli indubbi vantaggi sul piano cognitivo e sociale proprio perché il bilinguismo precoce è un processo spontaneo attraverso cui le lingue costantemente praticate vengono acquisite dal bambino naturalmente, senza sforzo e automaticamente attraverso la mediazione dei sistemi della memoria implicita.

Una grossa mole di dati neuroscientifici ci suggerisce perciò che non è fruttuoso far iniziare l’acquisizione della seconda lingua dopo gli 8 anni. Al contrario, se il nostro scopo è di promuovere una re-ale conoscenza e cultura bilingue nel bambino allora appare eviden-te che l’immersione in una lingua straniera dovrebbe avvenire in età precoce, durante gli anni dell’asilo nido o della scuola dell’infanzia. Nell’apprendimento della seconda lingua in età prescolare non sono solamente necessari i fattori inerenti lo sviluppo neuropsicologico e cognitivo del bambino ma entrano in gioco anche altre componenti molto importanti, a cui si è accennato nelle sezioni precedenti. Fra queste ricordiamo la componente sociale e quella affettiva. In partico-lare, l’ambiente dove avviene l’acquisizione della seconda lingua do-vrebbe essere il più naturale possibile ovvero dovrebbe promuovere un uso della lingua rivolto alla comunicazione naturale in situazioni il più concrete possibili piuttosto che un ambiente formale concentra-to sulla forma della lingua dove è richiesta la conoscenza consapevole (esplicita) e l’applicazione di regole imparate connesse con gli aspetti fonologici e morfosintattici di una lingua. Inoltre, risulta indispen-sabile che in tale ambiente, la seconda lingua sia utilizzata oltre che dagli insegnanti e genitori anche dai coetanei del bambino in quanto sarà proprio da loro che egli potrà più facilmente imparare come usare

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la lingua per comunicare in situazioni naturali. Infine, allo scopo di una acquisizione naturale della lingua straniera da parte del bambi-no in età prescolare, genitori e insegnati non dovrebbero prescindere dal considerare lo stato emotivo del bambino, evitando situazioni che creino imbarazzo nel caso di errori e promuovendo al contempo si-tuazioni affettive positive; si dovrebbe poi attentamente considerare anche la motivazione del bambino, cercando di stimolare ed impiega-re quest’ultima nella pratica quotidiana della lingua (ad esempio con canzoni filastrocche o giochi).

Infine gli insegnanti dovrebbero astenersi dal giudicare il bambino come se egli conoscesse soltanto la lingua della scuola, interpretando piuttosto le sue possibili difficoltà come tappe naturali dell’apprendi-mento scolastico di un bambino bilingue. Inoltre, è importante no-tare che in linea generale i bambini non utilizzano una lingua diversa dalla loro se si accorgono che il loro insegnante è in grado di capirli e di parlare la loro lingua. Perciò, l’insegnante dovrà fare particola-re attenzione ad utilizzare sempre e soltanto la lingua straniera con i bambini piccoli.2 Questo comportamento contribuirà ad evitare il mescolamento delle due lingue da parte del bambino. Questa rego-la dovrebbe valere anche nell’educazione bilingue precoce, quando i genitori sono di madrelingua differente. In questo caso essi potranno decidere di usare in famiglia una sola lingua, oppure ciascun genitore potrà utilizzare la propria.

A conclusione appare evidente che, ai fini di un’acquisizione effi-cace della seconda lingua in età prescolare, sono necessarie una serie di componenti interrelate fra loro fra cui quella sociale, linguistica, cognitiva, psicologica e affettiva.

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11 Disturbi del linguaggio nei bambini bilingui

I disturbi del linguaggio sono un problema piuttosto frequente in età evolutiva. Essi possono dipendere da cause acquisite (afasie), o da disturbi evolutivi, come ad esempio la sordità, il ritardo mentale e l’au-tismo. Tuttavia, la porzione più ampia dei disturbi del linguaggio ri-guarda bambini che non hanno né problemi sensoriali, né intellettivi e neppure evidenti lesioni neurologiche. Questi bambini sono colpiti da un disturbo specifico del linguaggio.

11.1. Le afasie nei bambini bilingui. I disturbi acquisiti del linguaggio più frequenti nei bambini sono le afasie. Si tratta della perdita di alcuni aspetti del linguaggio in seguito a una lesione del cervello. Le cause più frequenti di afasia nei bambini sono i traumi cranici e i tumori cerebrali, molto meno frequentemente la causa può essere un’infezione virale (encefaliti) o una malattia vasco-lare (ictus). Le afasie nei bambini sono quindi disturbi del linguaggio dovuti a malattie neurologiche, che si instaurano dopo che il linguag-

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gio si è già sviluppato, in genere dai 3 ai 15 anni. I deficit del linguag-gio che si manifestano a seguito di una lesione del cervello possono presentare un quadro simile ai diversi tipi di afasie dell’adulto, tuttavia nei bambini prevale un quadro di afasia non fluente.

Quando una lesione colpisce uno o più centri del linguaggio il bambino tende a perdere la capacità di esprimersi fluentemente, fino a situazioni di vero e proprio mutismo, mentre in genere è abbastan-za conservata la comprensione. Dopo l’evento traumatico, nel giro di qualche mese, il bambino recupera in maniera soddisfacente la ca-pacità di parlare. A qualche anno dal trauma le capacità linguistiche appaiono completamente ristabilite, tuttavia, come hanno dimostrato numerosi studi, questo risultato è soltanto apparente. Infatti, anche i bambini con un ottimo recupero del linguaggio continuano a mani-festare per tutta la vita dei lievi deficit negli aspetti più complessi della comprensione e dell’espressione verbale. Altri deficit che si associano frequentemente alle afasie nei bambini sono i disturbi della lettura, della scrittura e del calcolo.

Lo studio delle afasie acquisite nei bambini bilingui ha evidenziato che il tipo e la gravità dell’afasia nella prima lingua è in genere simile a quello presente nella seconda lingua. Inoltre indipendentemente dalla lingua sottoposta a trattamento logopedico, le due o più lingue che il bambino conosce tendono a recuperare in maniera parallela. Non vi è quindi alcuna ragione basata su dati scientifici per indicare una restri-zione nell’uso delle due lingue nei bambini afasici bilingui.1

11.2. Il ritardo mentale nei bambini bilingui. Diversi studi di neurolinguistica hanno evidenziato che i soggetti con ri-tardo mentale presentano caratteristici deficit del linguaggio. Poiché il les-sico, la semantica, la pragmatica e l’analisi del discorso sono strettamente collegati allo sviluppo intellettivo è lecito attendersi problemi in tali setto-ri. La fonologia e la sintassi sono invece componenti del linguaggio relati-vamente indipendenti dall’intelligenza. Quindi, quando un bambino con

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ritardo mentale presenta problemi nella comprensione e nella produzione dei suoni o problemi grammaticali ci troviamo di fronte a un vero e pro-prio disturbo del linguaggio associato a un ritardo mentale.

La sindrome di Down è una malattia nella quale oltre al ritardo mentale vi è anche un disturbo del linguaggio. I bambini Down pre-sentano, infatti, uno sviluppo deficitario in ambito articolatorio e morfosintattico. Studi recenti su bambini bilingui affetti da sindrome di Down hanno evidenziato che le loro difficoltà erano presenti in entrambe le lingue, a un livello simile a quello dei bambini Down monolingui. Ciò significa che l’educazione bilingue nei bambini con sindrome di Down e più in generale con ritardo mentale non determi-na alcun problema nello sviluppo linguistico.2

11.3. I disturbi specifici del linguaggio (DSL) nei bilingui. I DSL sono disturbi dell’acquisizione del linguaggio che colpiscono i bambini con udito e intelligenza normali e senza apparenti problemi neurologici, psichiatrici o rilevanti difficoltà socio-culturali. È stato calcolato che circa il 7% dei bambini in età scolare presenta un DSL, con una frequenza 2-3 volte maggiore nei maschi. Numerosi bambini con questi disturbi presentano una preferenza manuale sinistra, e la maggior parte di loro (circa il 50%) ha un altro familiare (il papà, la mamma o un altro fratello) con lo stesso problema.3 Le cause dei DSL non sono ancora note. Un gruppo di ricercatori americani ha riscontrato che i bambini con disturbo specifico del linguaggio hanno difficoltà nel riconoscimento di alcuni suoni tipici del linguaggio (in particolare delle consonanti occlusive: b, p, d, t, k, g ) perché questi suoni si presentano nella “catena del parlato” a una velocità troppo alta per i loro sistemi di discriminazione uditiva.4 Lo studio di una famiglia inglese in cui più della metà dei componenti presentava un disturbo specifico del linguaggio ha permesso di identificare un’anomalia in un gene specifico (FOXP2).5 Ciò indica che in alcuni casi i DSL possono dipendere da alterazioni genetiche specifiche.

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È utile distinguere i bambini con un ritardo nello sviluppo del lin-guaggio (late talkers) dai bambini con un disturbo specifico del linguag-gio. I bambini con DSL possono presentare disturbi nella comprensio-ne e nell’espressione del linguaggio. Le difficoltà nella comprensione dei suoni del linguaggio, delle parole e degli aspetti grammaticali costi-tuiscono le tipologie più gravi. Altri bambini non presentano problemi di comprensione ma le loro difficoltà riguardano prevalentemente l’e-spressione verbale. Nel loro eloquio sono presenti numerose pause ed errori morfosintattici. Un terzo tipo di bambini presentano prevalen-temente problemi articolatori. Invece, nei late talkers la comprensione del linguaggio è ottima per l’età, soltanto lo sviluppo espressivo è ral-lentato senza tuttavia presentare le caratteristiche patologiche presenti nei bambini con disfasia evolutiva.

Negli ultimi anni diversi studi sono stati dedicati all’analisi dei di-sturbi del linguaggio nei bambini bilingui.6 L’insieme di queste ricer-che hanno permesso chiarire alcuni punti fondamentali: a) i bambini bilingui presentano gli stessi deficit nelle due lingue; b) lo sviluppo del linguaggio nei bambini bilingui con DSL è simile a quello dei bambini monolingui con DSL; c) i bambini bilingui con DSL non presentano alcun problema pragmatico nell’uso delle due lingue; d) è preferibile che la terapia del linguaggio venga eseguita nella lingua utilizzata a scuola; tuttavia, viene consigliata anche nella seconda lingua, spesso con l’ausilio dei familiari.

L’insieme degli studi scientifici sino ad ora realizzati indica che il bilinguismo non determina alcun problema aggiuntivo nei bambini con DSL, inoltre, non vi è alcun dato scientifico che sostenga l’ipotesi che l’esclusione dell’uso di una lingua favorisca lo sviluppo dell’altra. Quindi è irragionevole consigliare, come momento terapeutico, l’uso di una lingua soltanto. Questo discorso non vale soltanto per i bam-bini bilingui, ma può essere esteso anche a bambini monolingui con DSL che si accingono ad apprendere una seconda lingua. Non vi è alcuna ragione scientifica documentata per “esonerare” un bambino

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con DSL dall’acquisizione di una seconda lingua. Ovviamente in que-sti casi le tappe di acquisizione o apprendimento della seconda lingua potranno essere più lente e differenti rispetto ai bambini di controllo.

11.4. La dislessia nei bambini bilingui. La dislessia è un disturbo specifico dell’apprendimento della lettura. Si tratta di bambini che presentano uno sviluppo intellettivo e linguistico normale, che non hanno deficit neurologici, né problemi di ordine emozionale, economico, culturale o sociale. Per poter fare una dia-gnosi di dislessia è necessario effettuare una valutazione dello sviluppo intellettivo (QI) e linguistico e una valutazione delle abilità di lettura. I bambini con dislessia presentano delle abilità di lettura inferiori a due o più deviazioni standard per quanto riguarda la correttezza, la rapidità o la comprensione. Si calcola che questo disturbo colpisca circa il 5% dei bambini della scuola primaria.7

La dislessia si manifesta prevalentemente nei bambini maschi. Vi è un’importante componente ereditaria. La maggior parte dei ricercatori riconosce che la dislessia si associa ad alcuni deficit caratteristici. In genere, essi presentano una ridotta memoria a breve termine verbale (memoria di lavoro), una difficoltà nella segmentazione fonemica delle parole, una difficoltà nel reperimento delle parole (deficit di accesso lessicale). Molta attenzione è stata posta al possibile rapporto fra la dislessia evolutiva e i disturbi specifici del linguaggio. Sono state sug-gerite anche possibili difficoltà nella discriminazione di stimoli verbali, deficit visivi e attentivi e deficit di automatizzazione (ipofunzionamen-to cerebellare). Numerosi geni correlati con la dislessia (DYX1C1 sul cromosoma 15; KIAA0319 e DCDC2 sul cromosoma 6) svolgono un ruolo cruciale nello sviluppo del cervello.8

Negli ultimi anni sono stati effettuati numerosi studi su bambini bilingui affetti da dislessia. Un primo dato, di fondamentale impor-tanza, è che il bilinguismo non provoca, né facilita, né aggrava una eventuale condizione di dislessia. Infatti, sia la frequenza del disturbo

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sia le difficoltà di lettura sono simili nei bambini bilingui rispetto ai monolingui. Anche se nella dislessia sono presenti deficit nella memo-ria di lavoro e nel reperimento lessicale, ciò non significa che un bam-bino con questo disturbo non possa apprendere una seconda lingua. Ovviamente le tappe dello sviluppo della seconda lingua potrebbero essere lievemente differenti rispetto ad un bambino che non presenta disturbi dell’apprendimento.9

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12 Fenomeni di mescolamento e commutazione delle lingue

Due fenomeni tipici delle persone bilingui sono la commutazione (switching) e la mescolanza delle lingue (mixing). La commutazione riguarda la scelta di parlare o meno in una lingua. Già a 22 mesi i bambini bilingui sono in grado di scegliere in maniera appropriata la lingua a seconda del contesto linguistico. Essi cioè utilizzano la lingua che in quel momento tutte le persone sono in grado di comprende-re. Così è stato evidenziato che i bambini adottati dopo breve tempo smettono di esprimersi nella lingua materna perché si accorgono che gli interlocutori non la comprendono. La capacità di scegliere le lingue da utilizzare con uno specifico interlocutore e/o in un dato contesto è un aspetto pragmatico della comunicazione verbale. Si è evidenziato che le persone bilingui con lesioni al lobo frontale possono presentare il fenomeno della commutazione patologica, possono cioè rivolgersi a un interlocutore in una lingua che questi non è in grado di capire, anche se si rendono conto che la persona non li capisce, ma non ne possono fare a meno.1

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Il mescolamento delle lingue (code-mixing) è invece un fenomeno piuttosto frequente nei bilingui. La frequenza di mescolamento delle lingue in un bilingue dipende da molti fattori il più importante dei quali è la modalità di apprendimento delle lingue. Se il bambino ap-prende le due lingue dai genitori secondo la regola “una persona una lingua”, cioè un genitore utilizza sempre e soltanto un lingua con il proprio figlio, i fenomeni di mixing saranno molto limitati. Alla stessa stregua se un bambino apprende una lingua in famiglia e una seconda o terza lingua per immersione in ambiente scolatico, i fenomeni di mixing saranno molto limitati. Un ulteriore fattore che può influen-zare il mescolamento delle lingue è quello relativo alle norme sociali. Infatti, in alcune culture il fenomeno del mixing è facilitato, in altre è prescritto. Nel caso di lesioni cerebrali, con afasia, i pazienti bilingui possono presentare fenomeni di mixing patologico a tutti i livelli lingui-stici: fonologico, lessicale e morfosintattico.2 Invece i bambini bilingui con disturbi specifici del linguaggio non presentano una frequenza di mixing superiore ai bambini monolingui con DSL.3

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13 Sordità e bilinguismo

La sordità è uno dei più gravi deficit sensoriali. Viene misurata facendo ascoltare ai soggetti dei suoni con differenti frequenze e con differenti intensità (audiometria tonale), oppure facendo ascoltare delle parole con diversa intensità (audiometria vocale). L’intensità dei suoni e delle parole viene misurata in numero di decibel (dB). I livelli più bassi cor-rispondono alla voce sussurrata (circa 30 dB), i livelli più alti alle urla (100 dB), mentre il rumore assordante di un aereo o di un concerto rock può arrivare anche a 130 dB. A seconda della perdita di sensibilità uditiva si riconoscono differenti tipi di ipoacusie.

Si definiscono sordità lievi quelle nelle quali i soggetti presentano una perdita di udito per suoni tra i 20 e i 40 dB (difficoltà ad ascolta-re un discorso in ambiente rumoroso o parole sussurrate). La sordità è moderata quando un soggetto non riconosce suoni tra i 40 e i 70 dB (perdita della capacità di seguire una conversazione normale). Con questo livello di ipoacusia è utile introdurre l’uso di un amplificatore uditivo. La sordità viene definita severa quando una persona non è in grado di riconoscere suoni con intensità tra i 70 e i 90 dB (difficoltà

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nell’udire una conversazione e i rumori dell’ambiente). La sordità vie-ne detta profonda quando un soggetto non è in grado di udire suoni con più di 90 dB di intensità. Si distinguono sordità di tipo preverba-le, insorte prima dell’acquisizione del linguaggio, e sordità postverbali quando il danno si è verificato dopo lo sviluppo del linguaggio. Si calcola che 1 bambino ogni 1000 sia affetto da sordità profonda bila-terale (la metà dipendono da un disturbo neurosensoriale), mentre 1 bambino ogni 300 presenta una sordità di minore gravità.

Uno degli effetti più gravi della sordità in età infantile è la compro-missione della capacità di acquisire il linguaggio. Fin dall’antichità era noto che i bambini con sordità precoce non riuscivano a sviluppare il linguaggio, i bambini che nascevano sordi diventavano muti (sor-do-muti). Nonostante l’acquisizione del linguaggio sia molto proba-bilmente regolato da specifiche basi genetiche, l’ascolto del linguaggio nei primi anni di vita è un fattore essenziale per il suo sviluppo. Una sordità profonda nell’adulto compromette invece in maniera molto più lieve il linguaggio e altre competenze comunicative. La sordità pre-verbale grave o profonda può determinare l’incapacità di acquisire il linguaggio, di partecipare alla vita di relazione e di apprendere la let-tura e la scrittura. Fin da piccoli i bambini con queste forme di sordità sono stati avviati alla logopedia. Nel caso di bambini con sordità pre-verbale e con livello intellettivo normale, nonostante lo sforzo notevole da parte del bambino e dei logopedisti, lo sviluppo del linguaggio non era quasi mai normale. Permanevano errori nella pronuncia, di proso-dia ed errori sintattici.

Per i bambini sordi congeniti è molto più facile e spontaneo acqui-sire una lingua dei segni. Sembra che fin dall’antichità le comunità dei sordi abbiano utilizzato le lingue dei segni. William Stokoe (1919-2000), nella seconda metà del secolo scorso, ha evidenziato come le lingue dei segni siano, da un punto di vista linguistico, organizzate ne-gli stessi livelli e nelle stesse strutture delle lingue orali. Veniva a cadere così un preconcetto molto diffuso che considerava le lingue gestuali

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come un mezzo “inferiore” di comunicazione. Gli studi di psicolingui-stica hanno evidenziato che i bambini sordi congeniti manifestano una naturale tendenza ad acquisire le lingue dei segni con tempi e modalità simili all’acquisizione delle lingue orali nei bambini. È stato quindi suggerito di avviare precocemente tutti i bambini sordi all’acquisizio-ne della lingua nazionale dei segni e contemporaneamente anche alla lingua orale per permettere la comunicazione con il mondo di parlanti le lingue vocali e per l’apprendimento della letto-scrittura.1

Negli anni ottanta è stata messa a punto una tecnica chirurgica che permette di posizionare nella coclea di un bambino affetto da sordità neurosensoriale un dispositivo elettronico che simula il funzionamen-to dell’orecchio interno. Si tratta di un sistema che decodifica i suoni del linguaggio identificando formanti e transizioni delle formanti che caratterizzano le vocali e le consonanti. Queste informazioni vengono inviate via radio a un sistema di ricezione che comanda un elettrodo multicanale disposto all’interno della coclea. Per ogni suono del lin-guaggio il sistema riconosce le formanti caratteristiche e produce una stimolazione a livello della membrana basilare normalmente eccitata dal suono in questione. Viene così ricostruito il funzionamento dell’o-recchio interno con un sistema bionico.

Il successo di questa tecnica è stato notevole nei soggetti (bambini e adulti) che erano diventati sordi dopo aver appreso il linguaggio. Il dispositivo elettronico permetteva, dopo un opportuno addestra-mento logopedico, di riconoscere con facilità i suoni del linguaggio. Anche nella sordità prelinguale, quando il dispositivo viene applicato precocemente (18-36 mesi), l’acquisizione del linguaggio è spesso pa-ragonabile a quella dei bambini normoudenti.2 Allo stato attuale non vi sono ragioni scientifiche per ritenere che i bambini con impianto cocleare non possano acquisire due o più lingue.

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Note

1. Il linguaggio come funzione del cervello1 – Caplan, 1996; Fabbro, 1996.2 – Fabbro, 2001b; Caplan, 2002a.

2. Metodi per studiare l’organizzazione del linguaggio nel cervello1 – Caplan, 2002a.2 – Fabbro, 1996; 2001a; Denes e Pizzamiglio, 1996; Caplan, 2002b. 3 – Gazzaniga et al., 2002.4 – Neville et al., 1992; Neville, 1995; Denes e Pizzamiglio, 1996; Caplan, 2002a; Fabbro, 2004a.5 – Fabbro, 1996; Crescentini et al., 2008.6 – Caplan, 2002a.

3. Acquisizione della prima lingua1 – Tager-Flusberg, 2002.2 – Lentin, 1979; Karmiloff e Karmiloff-Smith, 2002; Fabbro, 2004a.3 – Locke, 1995; Fabbro, 2004a.4 – Fabbro, 2004a.

4. Il ruolo della memoria nell’acquisizione delle lingue1 – Baddeley, 1992; Squire e Kandel, 2000.2 – Fabbro, 1996; Fabbro, 2004a.

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3 – Miller, 1956; Atkinson e Shiffrin, 1968.4 – Schacter e Moscovith, 1984; Rovee-Collier et al., 2000.5 – Fabbro, 2004a.6 – Zanini et al., 2004; 2010.7 – Tulving, 1972; 2002.8 – Baddeley, 2000.9 – Gathercole, 1998; Leonard, 1998.

5. Il cervello bilingue dei bambini1 – Fabbro, 1996; Marini e Fabbro, 2007.2 – Vaid, 2002.

6. Acquisizione o apprendimento della seconda lingua nel bambino1 – Fabbro, 1996; Fabbro, 2004a.2 – Fabbro, 1996.3 – Bialystok, Craik, Green e Gollan, 2009; Bialystok, Luk, Peets e Yang, 2010; Pertot, 2011.4 – Deuchar e Quay, 2000; Vihman, 2002.5 – Bialystok, Craik, Green e Gollan, 2009.6 – Fabbro, 2004a.

7. Periodi critici nell’acquisizione delle lingue1 – Fabbro, 2004a.2 – Fabbro e Paradis, 1995.3 – Fabbro, 2004a; Urgesi e Fabbro, 2009.4 – Flege et al., 1995; Weber-Fox e Neville, 1996; Wartenburger et al., 2003.5 – Perani et al., 1998.6 – Neville et al., 1992; Fabbro, 2004a.7 – Kim et al., 1997; Chee et al., 1999.8 – Wartenburger et al., 2003.9 – Fabbro, 2004a.

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8. Età di acquisizione e livello di competenza della seconda lingua1 – Fabbro, 2004a.2 – Johnson e Newport, 1989; Long, 1990.3 – Epstein et al., 1996.4 – Flege, 1991; Flege e Fletcher, 1992.5 – Flege et al., 1995.6 – Fabbro, 2004a.

9. Essere bilingui o plurilingui produce benefici intellettivi o contribuisce a causare altri disturbi?1 – Fabbro, 2004a.2 – Peal e Lambert, 1962.3 – Bialystok e Craik, 2010.4 – Cummins, 1978; Bialystok e Hakuta, 1994.5 – Kovács e Mehler, 2009a; 2009b; Byers-Heinlein, Burns e Werker, 2010.6 – Emmorey, Luk, Pyers e Bialystok, 2008; Bialystok e Craik, 2010; Barac e Bialystok, 2012.7 – Bialystok, Craik e Freedman, 2007; Bialystok e Craik, 2010.

10. Quando iniziare l’educazione bilingue e che cosa ne determina il successo in età prescolare?1 – Fabbro, 2004a.2 – Taeschner, 2003.

11. Disturbi del linguaggio nei bambini bilingui1 – Fabbro, 1996; 1999; 2004b. 2 – Kay-Raining Bird et al., 2005.3 – Bishop, 1997; Leonard, 1998.4 – Merzenich et al., 1996.5 – Lai et al., 2003.

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6 – Fabbro e Marini, 2010; Paradis et al., 2011, pp. 199-231.7 – Zoccolotti et al., 2005; Vicari e Caselli, 2010.8 – Dehane, 2009.9 – Paradis et al., 2011, pp. 233-259.

12. Fenomeni di mescolamento e commutazione delle lingue1 – Fabbro et al., 2000.2 – Fabbro, 1996; 1999.3 – Paradis et al., 2011, p. 97.

13. Sordità e bilinguismo1 – Sacks, 1990; Pizzuto e Volterra, 1999. 2 – Peterson et al., 2010.

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Gli Autori

Cristiano CRESCENTINIPrincipali Esperienze professionali e didattiche

- Da gennaio 2012

Ricercatore Post-Doc presso il Dipartimento di Scienze Umane, Università di Udine e il Dipartimento di Psicologia, Università di Roma, “La Sapienza”

- Dal 2011

Docente di Psicobiologia e psicologia fisiologica e di Psicologia dello Sviluppo presso i Corsi di Laurea in Scienza dello Sport e Scienze Motorie, Università di Udine.

- Dal 2004 al 2011

Dottorato in Neuroscienze (2004-2008) e Ricercatore Post-Doc (2009-2011) presso la SISSA di Trieste, l’Ospedale SM Misericordia di Udine, l’IRCCS Fondazione Santa Lucia di Roma e il Birkbeck College di Londra.

- Luglio 2004: Laurea in Psicologia, Università di Firenze.

Selezione delle pubblicazioni internazionali:

Crescentini, C. et al. (2013). Mental transformation of objects and bodies. Different developmental trajectories in children from 7 to 11 years old. In stampa. Developmental Psychology.

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Franco FABBRO Principali Esperienze professionali e didattiche

- Dal 2006: Professore ordinario di Neuropsichiatria infantile, Dipartimento di Scienze Umane, Università di Udine.

- Dal 2003 al 2009: Preside della Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Udine.

- Dal 2001 al 2006: Professore ordinario di Fisiologia presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Udine.

- Dal 2000: Referente Scientifico presso l’IRCCS “E.Medea” (Associazione la Nostra Famiglia) di San Vito al Tagliamento (PN).

- Dal 1991 al 1999: Ricercatore universitario in Fisiologia Umana alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Trieste.

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- Dal 1988 al 1991: Assistente Ospedaliero nella divisione di Neuropsichiatria Infantile dell’IRCCS “Burlo Garofolo” di Trieste.

- Novembre 1986: Specializzazione in Neurologia, Università di Verona.

- Ottobre 1982: Laurea in Medicina e Chirurgia, Università di Padova.

Produzione Scientifica:

È autore di oltre 200 pubblicazioni fra capitoli di libri, articoli scientifici su riviste internazionali e libri fra cui:

Fabbro, F. (1996). Il cervello bilingue. Neurolinguistica e poliglossia. Roma: Astrolabio.

Fabbro, F. (1999). The Neurolinguistics of Bilingualism. Hove: Psychology Press (seconda edizione nel 2003).

Fabbro, F. (2004). Neuropedagogia delle lingue. Roma: Astrolabio.

Fabbro, F. (2010). Neuropsicologia dell’esperienza religiosa. Roma: Astrolabio.

Fabbro, F. (2012). Manuale di Neuropsichiatria infantile. Roma: Carocci.

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Neuropsicologia del bilinguismo nei bambini

Cristiano Crescentini e Franco Fabbro

Neuropsicologia del bilinguismo nei bambini

Editore

Associazione Temporanea di Scopo – Ciljno začasno združenje Jezik-Lingua

Traduzione dall’italiano allo sloveno

Ravel Kodrič

Progetto grafico e revisione editoriale

Mladika Scarl

Stampa

Grafica Goriziana

Tiratura

500 copie

Trieste, 2014

La presente pubblicazione è reperibile in formato elettronico all’indirizzo www.jezik-lingua.eu.

Pubblicazione finanziata nell’ambito del Programma per la Cooperazione Transfrontaliera Italia – Slovenia

2007-2013, dal Fondo europeo di sviluppo regionale e dai fondi nazionali.

Il contenuto della presente pubblicazione non rispecchia necessariamente le posizioni ufficiali dell’Unione

Europea. La responsabilità del contenuto della pubblicazione appartiene all’Ats – Czz JEZIK-LINGUA.

ISBN 978-88-7342-209-9

Cristiano Crescentini in

Franco Fabbro

Nevropsihologija dvojezičnosti

pri otrocih

Cristiano Crescentini e

Franco Fabbro

Neuropsicologia del bilinguismo

nei bambini

ISBN 978-88-7342-209-9

BREZPLAČNI IZVOD COPIA GRATUITA

ISBN 978-88-7342-209-9

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