corso integrato di biochimica · 2014-03-18 · importanza che tutto il lavoro pratico venga svolto...

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CORSO DI LAUREA IN BIOTECNOLOGIE ANNO ACCADEMICO 2013-2014 CORSO INTEGRATO DI BIOCHIMICA MANUALE PRATICO DI LABORATORIO

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CORSO DI LAUREA IN BIOTECNOLOGIE

ANNO ACCADEMICO 2013-2014

CORSO INTEGRATO DI BIOCHIMICA

MANUALE PRATICO DI

LABORATORIO

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INDICE

1. SICUREZZA E NORME DI COMPORTAMENTO IN LABORATORIO pag. 4

1.1 Simboli e indicazioni di pericolo pag. 5

2. L’APPROCCIO SPERIMENTALE:

COME SI PROGETTA ED ESEGUE UN ESPERIMENTO pag. 7

2.1 Schema sintetico per progettare ed eseguire un esperimento pag. 7

2.2 L’uso di Internet nella ricerca biochimica pag. 8

2.3 Come effettuare una ricerca bibliografica pag. 8

3. PREPARAZIONE ED UTILIZZO DI SOLUZIONI pag. 10

3.1 Strumenti per lavorare con i liquidi pag. 10

3.2 Preparazione delle soluzioni pag. 14

3.3 Soluzioni “stock” e diluizioni pag. 16

3.4 Uso delle bilance pag. 16

3.5 Riscaldamento e raffreddamento dei campioni pag. 17

4. ESERCITAZIONI pag. 18

4.1 USO DEI MODELLI MOLECOLARI pag. 19

4.2 CROMATOGRAFIA DI RIPARTIZIONE SU STRATO SOTTILE pag. 23

4.3 PURIFICAZIONE DELLA SERINA IDROSSIMETILTRASFERASI pag. 25

4.3.1 Lisi dei batteri, frazionamento con solfato di ammonio e dialisi pag. 25

4.3.2 Cromatografia a scambio cationico pag. 30

4.3.3 Determinazione quantitativa delle proteine pag. 34

4.3.4 Analisi elettroforetica delle proteine pag. 39

4.3.5 Saggi di attività enzimatica pag. 42

4.3.6 Tabella riassuntiva della purificazione pag 44

RINGRAZIAMENTI pag. 45

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INTRODUZIONE

Questo manuale non è stato pensato come un’alternativa ai libri di testo o come una ripetizione

dei concetti già spiegati a lezione, piuttosto come una loro integrazione che ha lo scopo di preparare

alle esercitazioni, in modo da trarre da queste il massimo beneficio. Le esperienze di laboratorio

serviranno ad illustrare alcune delle metodologie biochimiche fondamentali trattate durante le

lezioni e ad introdurre gli studenti al lavoro sperimentale. Per questo, il manuale si propone di dare

anche alcune informazioni essenziali a chi si avvicina per la prima volta alla ricerca biochimica,

quali quelle riguardanti le comuni pratiche di laboratorio e le norme di sicurezza, i principi della

corretta sperimentazione scientifica, l’utilizzo di Internet. Nei capitoli che riguardano ogni singola

esperienza di laboratorio sono forniti brevi richiami teorici sulle tecniche utilizzate ed un dettagliato

protocollo sperimentale. Gli studenti sono invitati a leggere il manuale prima di affrontare le prove

pratiche, in modo da essere preparati a quello che succederà in laboratorio e ben consapevoli dello

scopo dell’esercitazione. Questo non esclude che in caso di difficoltà, sia teorica che pratica, gli

studenti possano rivolgersi ai docenti presenti alle esercitazioni. È importante però che essi facciano

un tentativo autonomo per capire lo scopo dell’esperimento, i principi fisici e chimici che sono alla

base delle procedure usate, il significato dei risultati ottenuti. Queste semplici regole dovrebbero

essere sempre seguite per rendere utile il tempo impiegato negli esperimenti.

Roberto Contestabile

Dipartimento di Scienze Biochimiche

Università La Sapienza

Via degli Apuli, 9

00185 Roma, Italy

Tel: +39 06 49917569

Fax: +39 06 49917566

E-mail: [email protected]

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1. SICUREZZA E NORME DI COMPORTAMENTO IN LABORATORIO

Lavorare in laboratorio può essere pericoloso a causa dell’utilizzo di sostanze chimiche nocive o tossiche, di vetreria o oggetti taglienti, fiamme libere, solventi infiammabili, apparecchiature elettriche etc. Le sostanze chimiche sono pericolose solo se assorbite dall’organismo attraverso la

cute, il sistema respiratorio e l’apparato digerente (Fig 1). Di solito, la cute rappresenta una barriera relativamente impermeabile. Tuttavia, essa in alcuni punti può non essere integra e comunque esistono zone della superficie del nostro corpo che possono permettere facilmente l’ingresso di sostanze nocive, come i dotti sudoripari, i follicoli piliferi, gli occhi. Attraverso il sistema respiratorio invece passano gas, vapori e polveri, mentre è possibile l’assorbimento di sostanze chimiche attraverso l’apparato digerente per cause accidentali, come la deglutizione di saliva inquinata (mani sporche in bocca o introduzione nella bocca di polveri). E’ quindi di fondamentale importanza che tutto il lavoro pratico venga svolto seguendo le norme di sicurezza ideate allo scopo di minimizzare il rischio di danno a se stessi e agli altri. La sicurezza in laboratorio dipende

soprattutto dalla consapevolezza e dal senso di responsabilità di tutte le persone che vi lavorano. L’osservanza di semplici regole pratiche può minimizzare ogni rischio:

• non fumate, non mangiate, non bevete in laboratorio;

• indossate un camice (abbottonato!) e scarpe chiuse nell’ambiente di lavoro;

• proteggete le mani con guanti monouso quando maneggiate sostanze tossiche, corrosive o

irritanti e ricordatevi che i guanti sono una fonte di contaminazione (non uscite dal

laboratorio indossando i guanti). Quindi non toccate la faccia con i guanti né maniglie di

porte o altri arredi (scrivanie, PC, etc.);

• indossate occhiali o visiere di sicurezza quando eseguite operazioni potenzialmente

pericolose per gli occhi;

• indossate un’opportuna mascherina che copra naso e bocca quando maneggiate delle

polveri;

• non pipettate liquidi dannosi con la bocca, usate dei pipettatori;

• fate attenzione quando usate la vetreria;

• lavorate sotto una cappa aspirante se state usando solventi o composti che hanno un cattivo

odore;

• usate con prudenza strumenti quali centrifughe ed alimentatori per elettroforesi che possono

provocare incidenti potenzialmente gravi;

• pulite subito qualunque liquido rovesciato sul bancone o sul pavimento;

Inalazione

Ingestione

Inoculazione Assorbimento

Fig. 1

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• marcate in modo chiaro i campioni, le bottiglie dei reagenti e le soluzioni preparate con

l’identità chimica dei contenuti, la data di preparazione e il vostro nome;

• leggete attentamente le etichette dei reagenti chimici, le quali presentano dei simboli che

indicano gli eventuali pericoli di natura chimica o fisica, prima di usarli (vedi § 1.1);

• eliminate correttamente i reagenti chimici: i prodotti corrosivi come acidi e basi devono

essere neutralizzati prima dello scarico nel lavandino; tutti i solventi organici devono essere

immagazzinati in fusti metallici, stoccando separatamente i solventi clorurati; tutti i tessuti,

cellule o colture microbiche utilizzati o contaminati devono essere sterilizzati in autoclave

prima dell’eliminazione. Esistono apposite ditte che si occupano dello smaltimento dei

rifiuti prodotti in laboratorio, con particolare attenzione a quelli radioattivi;

• fate attenzione alle fiamme libere quando lavorate con sostanze infiammabili;

• durante le esercitazioni non procedete ad esperienze non autorizzate;

• lavorate in modo ordinato e alla fine del lavoro pulite il bancone e lavatevi accuratamente le

mani. Toglietevi il camice, i guanti e qualsiasi altro indumento protettivo prima di uscire dal

laboratorio: possono essere fonte di contaminazione esterna.

1.1 Simboli e indicazioni di pericolo: Pericoli di natura fisica:

Esplosivo: che può esplodere per effetto di una fiamma o che è sensibile agli attriti. Comburente: che a contatto con altre sostanze, soprattutto se infiammabili, provoca una forte reazione esotermica. Facilmente infiammabile: che può facilmente infiammarsi per la rapida azione di una sorgente di accensione o che a contatto con l’aria, a temperatura ambiente e senza ulteriore apporto di energia, può riscaldarsi ed infiammarsi.

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Pericoli di natura chimica:

Corrosivo: che a contatto con i tessuti vivi, può esercitare su di essi un’azione distruttiva. Irritante o nocivo: che, pur non essendo corrosivo, può produrre al contatto immediato, prolungato o ripetuto con la pelle e le mucose una reazione infiammatoria. Per inalazione, ingestione o penetrazione cutanea, può comportare rischi di gravità limitata. Tossico: che per inalazione, ingestione o penetrazione cutanea può comportare rischi gravi, acuti o cronici, e anche la morte.

Radioattivo: che produce radiazioni ionizzanti le quali, assorbite dall’organismo, provocano mutazioni del DNA. Le sostanze marcate con isotopi radioattivi possono essere usate solo all’interno di zone sorvegliate e solo da personale autorizzato.

Pericoli di natura biologica:

Pericolo biologico (Biohazard): che può essere pericoloso in quanto costituito da sangue, tessuti e cellule di origine umana, oppure da microrganismi geneticamente modificati.

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2. L’APPROCCIO SPERIMENTALE: COME SI PROGETTA ED ESEGUE UN ESPERIMENTO

La scienza è un insieme di conoscenze derivate da ipotesi teoriche ed esperimenti. Le ipotesi

sono gli strumenti del metodo scientifico. Esse solitamente nascono per spiegare le osservazioni sperimentali (metodo deduttivo) ma possono anche essere prima formulate e quindi verificate tramite la sperimentazione (metodo induttivo). Un’ipotesi, quindi, nasce ed è continuamente sottoposta a verifica, modificata o scartata in base ai risultati sperimentali. Si può dimostrare che un’ipotesi è sbagliata, ma non è possibile dimostrare con certezza assoluta che sia corretta, si può solo sostenere che è in accordo con i dati sperimentali. Nella pratica della ricerca scientifica, entrambi i metodi deduttivo ed induttivo vengono utilizzati: essi sono come “un cane che si morde la coda”. Un difetto, del tutto umano, del metodo scientifico è che ipotesi alternative ad una teoria generalmente accettata o alla quale si è “affezionati” tendono ad essere ignorate. La ricerca scientifica invece si prefigge lo scopo di comprendere il mondo che ci circonda cercando di scoprire la verità e non di sostenere nozioni preconcette. Un altro difetto del metodo scientifico è che il disegno dell’esperimento e la scelta del metodo di misurazione possono influenzare il risultato. E’ quindi importante considerare i risultati attesi, in senso qualitativo e quantitativo, al fine di progettare in modo adeguato l’esperimento ed essere in grado di interpretarne i risultati senza ambiguità. A tale scopo è necessario isolare o eliminare alcune variabili, ovvero l’esperimento deve essere controllato. Un buon esperimento deve prevedere un controllo negativo ed uno positivo. Nel controllo negativo si omette intenzionalmente il componente del sistema le cui proprietà vogliono essere misurate. Ad esempio, in un saggio di attività enzimatica si omette l’enzima. In questo modo si potrà misurare la conversione spontanea dei reagenti nei prodotti, che poi dovrà essere sottratta all’attività misurata in presenza dell’enzima. Il controllo positivo viene effettuato per verificare il corretto funzionamento del metodo di misura. Tornando all’esempio del saggio di attività enzimatica, un controllo positivo consiste nell’utilizzo di un campione d’enzima ad attività nota. A volte è impossibile eliminare o isolare alcune variabili. Per questo è desiderabile escogitare un metodo indipendente per realizzare lo stesso esperimento e confrontare i risultati. In generale, tanto più un esperimento è facile, quanto più questo sarà interpretabile senza ambiguità e sarà facilmente ripetibile, consentendo una buona analisi statistica delle misurazioni. Il ricercatore di successo è un abile osservatore. La ricerca non si svolge sempre come era stato pianificato ed i risultati inattesi possono essere forieri di nuove ed importanti informazioni. 2.1 Schema sintetico per progettare ed eseguire un esperimento Preliminari:

• Leggere tutta la letteratura scientifica riguardante l’argomento di interesse;

• formulare una semplice ipotesi da verificare;

• decidere quali parametri misurare e con quale metodo;

• pensare ai controlli negativi e positivi da inserire;

• pianificare l’analisi (anche statistica) dei risultati;

• valutare le eventuali restrizioni all’esecuzione dell’esperimento: costi e disponibilità dei

materiali, spazio, tempo e attrezzature necessarie all’esecuzione.

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Esecuzione:

• Scrivere il protocollo dell’esperimento;

• registrare i risultati ottenuti;

• ripetere l’esperimento.

Analisi:

• Eseguire le analisi statistiche pianificate;

• mettere i dati in grafico e, se previsto dall’esperimento, confrontarli con curve teoriche;

• trarre le conclusioni dell’esperimento e, se necessario, formulare nuove ipotesi.

Lo schema descritto può, in alcuni casi, essere ciclico. Ad esempio, quando l’esecuzione di un esperimento porta alla formulazione di nuove ipotesi, queste andranno poi verificate sperimentalmente. 2.2 L’uso di Internet nella ricerca biochimica

Negli ultimi anni si è assistito al rapido sviluppo di un settore dell’informatica che si occupa del trattamento e dell’analisi dei dati biologici: la bioinformatica. L’esplosione di questa disciplina scientifica che è ormai divenuta uno strumento essenziale in qualsiasi laboratorio di ricerca, è dovuta al rapido accumularsi di enormi quantità di dati biologici (basti pensare al recente sequenziamento di interi genomi, tra cui quello umano) ed al concomitante sviluppo dei mezzi informatici e di telecomunicazione. Le problematiche classiche di cui si occupa la bioinformatica sono la gestione e la consultazione delle banche dati (collezioni di dati biologici relativi alla sequenza, struttura e funzione di macromolecole, organizzati in modo da facilitarne l’accesso e la ricerca), l’allineamento delle sequenze e lo studio dell’evoluzione molecolare, la predizione della struttura tridimensionale delle proteine. Le principali banche dati e numerosissimi software applicativi sono ormai alla portata di ogni laboratorio tramite la World Wide Web (WWW) e vengono utilizzati quotidianamente da migliaia di ricercatori in tutto il mondo. Internet è uno strumento eccezionale in quanto offre ai ricercatori la possibilità di comunicare tra loro in tempo reale e di disporre di informazioni sempre aggiornate. Oltre che alle collezioni di dati biologici è infatti possibile accedere a banche dati gratuite che contengono praticamente tutta la letteratura scientifica pubblicata negli ultimi venti-trenta anni e che consentono di operare ricerche in base a parole chiave. 2.3 Come effettuare una ricerca bibliografica Se è ancora vero che molte delle idee che si trasformano in progetti di ricerca nascono dalla consultazione della letteratura scientifica non è più vero che le ricerche bibliografiche si fanno in biblioteca. Il facile accesso ad Internet ha infatti modificato irreversibilmente il modo di effettuare una ricerca bibliografica. Riassunti e intere pubblicazioni di ricerca sono ottenibili consultando uno dei motori di ricerca più utilizzati allo scopo, PubMed, disponibile liberamente all’interno di un sito curato dal National Center for Biotechnology Information (NCBI). L’indirizzo di questo sito è http://www.ncbi.nlm.nih.gov/PubMed/. La pagina iniziale è costituita da una finestra al cui interno vanno inseriti i parametri di ricerca quali una o più parole chiave, il nome di uno o più

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autori, la rivista o una combinazione di questi parametri. Per evitare di ottenere dalla ricerca una grande quantità di articoli scientifici, è bene impostare degli opportuni limiti nella pagina che compare “cliccando” su “Limits”. In questo modo la ricerca può essere ristretta al titolo, al riassunto o al testo delle pubblicazioni, ad una determinata rivista, ad un determinato periodo riguardante la data di pubblicazione, ad un tipo particolare di pubblicazione (articolo di rivista, articolo originale, sperimentazione clinica) etc. Il risultato della ricerca consisterà in un elenco di articoli, in ordine cronologico a partire dalla pubblicazione più recente, indicante solo titolo, autori e riferimenti bibliografici. Per approfondire il campo della ricerca è possibile “cliccare” sul titolo della pubblicazione e si accederà al riassunto della pubblicazione o, se si è sottoscritto un abbonamento, all’intera pubblicazione. Alcune riviste sono disponibili gratuitamente a tutti. Se potete disporre di un computer collegato ad Internet, provate ad eseguire voi stessi una ricerca bibliografica su un argomento di vostro interesse o di cui avete sentito parlare a lezione. Imparare ad usare un motore di ricerca come PubMed può essere estremamente utile.

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3. PREPARAZIONE ED UTILIZZO DI SOLUZIONI 3.1 Strumenti per lavorare con i liquidi

Esistono una varietà di contenitori e strumenti che servono per conservare, prelevare e misurare i liquidi. La forma ed il materiale di tali oggetti sono stati ideati per assolvere ad una determinata funzione. E’ quindi indispensabile conoscere ed imparare ad usare al meglio questi strumenti per poter lavorare agevolmente e con accuratezza in laboratorio. Essi possono essere di vetro o di plastica; importanti sono le differenze tra i due materiali. I recipienti in plastica, infatti, presentano con il tempo una tendenza alla deformazione e questo può comportare misure non accurate dei volumi; inoltre la plastica si distorce a temperature relativamente basse, può essere infiammabile e si può sciogliere a contatto con determinati solventi organici. A volte però può essere conveniente utilizzare oggetti di plastica perché sono infrangibili e generalmente poco costosi. I recipienti in vetro, invece, devono essere utilizzati con molta cautela essendo fragili e, una volta rotti, molto taglienti. Il vetro Pyrex è molto utilizzato in laboratorio perché è più forte del vetro comune e può resistere a temperature fino a 500°C. Naturalmente un adeguato utilizzo della strumentazione comporta anche un’accurata pulizia degli strumenti per evitare il rischio di contaminazione dovuto all’utilizzo precedente. Di seguito vengono elencati alcuni strumenti utilizzati per lavorare con i liquidi (Fig. 2). Contenitori per liquidi - Le soluzioni possono essere conservate utilizzando diversi contenitori quali:

• Provette: sono utili ad esempio per reazioni su piccola scala, per la raccolta di frazioni provenienti da una separazione cromatografia, per la conservazioni di piccoli volumi di liquido;

• Beaker: si usano per scopi quali la preparazione di soluzioni (anche con riscaldamento) o

tamponi (e quindi anche per portare a pH le soluzioni), l’esecuzione di una titolazione, etc. Possono convenientemente contenere delle barrette magnetiche che servono per il mescolamento (vedi dopo). Solitamente presentano una scala graduata su un lato, che però è poco accurata e non può essere usata per misure di volume;

• Beute: sono utili per la conservazione delle soluzioni data la loro forma slargata in basso e

con una piccola apertura facilmente sigillabile che diminuisce il rischio di evaporazione. Vengono anche usate per la crescita di colture cellulari;

• Bottiglie e flaconi: si usano per mantenere le soluzioni sterili e sigillate; sono dotate di

tappo a vite che impedisce sia l’evaporazione che la contaminazione. Strumenti usati per il prelievo e/o la misurazione del volume dei liquidi:

• Pipette Pasteur: pipette di vetro che ad un’estremità sono assottigliate a formare un capillare. Ne esistono in una versione con capillare corto ed una con capillare lungo. Vanno utilizzate tramite un bulbo di gomma (tettarella), che serve per aspirare e rilasciare il liquido. Il giusto modo di mantenere una pipetta consiste nell’afferrarla con il dito medio mantenendola in posizione verticale ed erogare il liquido premendo il bulbo con il pollice e l’indice. Una pressione più tenue permetterà la fuoriuscita del liquido a gocce. È importante ricordare di non mettere mai la pipetta sul fianco in modo da evitare qualsiasi risalita del liquido fino al bulbo.

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Fig. 2

a) Beaker b) Beute c) Bottiglie e flaconi d) Pipetta Pasteur e) Cilindri f) Palloni volumetrici g) Burette h) Pipette graduate i) Pipette a bulbo

a) b) c)

d) e) f)

g)

h)

i)

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• Cilindri: sono dei contenitori cilindrici graduati che esistono in vari formati e servono a misurare con accuratezza il volume dei liquidi. E’ importante utilizzare il formato opportuno per ottenere la massima accuratezza nella misura. Il liquido viene introdotto all’interno di questi contenitori fin quasi al livello desiderato. A questo punto si procede con piccole aggiunte, o attraverso l’uso di una pipetta Pasteur, facendo scorrere il liquido lungo le pareti del recipiente fin quando il menisco non avrà raggiunto il livello desiderato. È necessario lavorare su di una superficie ben livellata durante queste operazioni in modo da non avere misure falsate.

• Palloni volumetrici: sono dei contenitori di vetro con una forma simile ad un fiasco,

costituiti da una base allargata ed un collo stretto e lungo, sul quale è presente una tacca che indica il volume. Vengono usati per portare a volume e conservare le soluzioni.

• Burette: sono colonne di vetro graduate montate verticalmente su un supporto con pinza

e dotate di un rubinetto mediante il quale è possibile regolare la fuoriuscita del liquido. Il loro utilizzo consiste nel riempire la colonna con il liquido e osservare l’altezza del menisco. A questo punto si procede aprendo il rubinetto e erogando il liquido fin quando necessario e misurando il nuovo livello del menisco. La differenza tra i due volumi osservati rappresenterà il volume erogato. Vengono usate soprattutto nelle titolazioni.

• Pipette: si dividono in pipette graduate e pipette a bulbo. Le prime corrispondono a

pipette in plastica o in vetro graduate da zero al volume massimo e dal volume massimo a zero, mentre le seconde mostrano il volume totale sul bulbo. Prima di procedere al prelevamento è importante quindi fare attenzione alla scala graduata dello strumento. È inoltre buona norma non pipettare con la bocca per ragioni di sicurezza ed utilizzare invece appositi strumenti (pompette aspiranti) che permettono di prelevare ed erogare il volume di liquido desiderato.

• Micropipettatori: servono per prelevare e dispensare piccoli volumi di liquido. Ne

esistono di varie marche e modelli, più o meno accurati e costosi. Per garantire la massima accuratezza sono disponibili micropipettatori che operano in intervalli di volume diversi. In laboratorio bisogna quindi disporre di una serie di micropipettatori. Il volume massimo prelevabile dallo strumento è indicato sul bottone all’estremità dello stantuffo (Fig. 3), da cui prende il nome il modello: ad esempio una serie completa è costituita dai modelli SL2, SL10, SL20, SL200, SL1000, SL5000. Per ogni modello esiste anche un volume minimo prelevabile con un’accuratezza accettabile. Ad esempio, per il modello SL 200 questo volume corrisponde a circa 20 microlitri. Se si devono prelevare15 microlitri si userà il modello SL20. Le operazioni che devono essere eseguite per usare un micropipettatore sono: Taratura: per impostare il volume che si vuole prelevare, si utilizza la ghiera di regolazione. Ruotando questo anello è possibile cambiare i tre numeri della scala, o volumetro, che letti dall’alto al basso indicano il volume desiderato. Per una corretta lettura dei numeri del volumetro considerate il pipettatore che state usando; ad esempio la lettura 100 su una SL200 indica un volume di 100 µl; la lettura 100 su una SL1000 indica invece un volume di 1000 µl! Aspirazione: si inserisce un puntale in polipropilene monouso all’estremità della canna premendo su di esso con un leggero movimento di torsione; è necessario infatti assicurarsi che il puntale sia inserito correttamente per evitare eventuali fuoriuscite di liquido dalla punta o il distacco del puntale. Esistono puntali diversi per i vari modelli di micropipettatori; in particolare si distinguono puntali per SL2 e SL10 (di colore bianco) per SL20, SL100 e SL200 (di colore giallo) e per la SL1000 (di colore blu). Vengono forniti in buste o in scatole; possono essere sterilizzati in autoclave.

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Fig. 3

Tenendo il pipettatore verticale, si preme con il pollice il bottone dello stantuffo fino a incontrare una prima resistenza (stop a molla), quindi si inserisce (non troppo) l’estremità del puntale nel liquido da prelevare e si rilascia lentamente lo stantuffo. Osservate il liquido che sale nel puntale e controllate che non ci siano bolle d’aria. Attendete un paio di secondi per confermare che il liquido è stato aspirato quindi ritirate il puntale dal liquido. Fate poi un rapido controllo visivo del liquido nel puntale: ad esempio un volume di 100 µl dovrebbe occupare approssimativamente metà del volume di un puntale giallo. Se il liquido da prelevare è molto viscoso si possono incontrare problemi nella fase di aspirazione (è molto lenta, bisogna perciò rilasciare lo stantuffo molto dolcemente) e nel fatto che, dopo aver estratto il puntale dal liquido, resterà una goccia di liquido sull’estremità del puntale. E’ importante asciugare questa goccia per evitare che il volume dispensato sia maggiore di quello desiderato. Erogazione: mettete l’estremità del puntale contro la parete del recipiente con un piccolo angolo di inclinazione (10-20°) e premete lo stantuffo lentamente questa volta oltre la prima resistenza fino allo stop finale facendo uscire tutto il liquido. Rimuovete il puntale dal recipiente con lo stantuffo ancora premuto. Espellete il puntale premendo l’apposito pulsante per l’espulsione; i puntali vanno scartati in opportuni contenitori di raccolta.

• Siringhe: si usano immergendo la punta dell’ago nella soluzione e sollevando

lentamente lo stantuffo fino al punto desiderato sulla scala graduata. Assicurarsi di non aver aspirato bolle d’aria. Le microsiringhe devo essere pulite prima e dopo l’uso aspirando ed espellendo ripetutamente solvente puro.

Bottone dello stantuffo

Ghiera per la regolazione del volume

Pulsante per l’espulsione del puntale

Indicatore del volume

Espulsore del puntale

Puntale in polipropilene

Canna

Bottone dello stantuffo

Ghiera per la regolazione del volume

Pulsante per l’espulsione del puntale

Indicatore del volume

Espulsore del puntale

Puntale in polipropilene

Canna

1

0

0

Se questi sono i numerisegnati dal volumetro, il

volume prelevato sarà 10,0 µlnel caso di un modello SL20,100 µl se usiamo un SL200 o

1000 µl nel caso di un SL1000

Bottone dello stantuffo

Ghiera per la regolazione del volume

Pulsante per l’espulsione del puntale

Indicatore del volume

Espulsore del puntale

Puntale in polipropilene

Canna

Bottone dello stantuffo

Ghiera per la regolazione del volume

Pulsante per l’espulsione del puntale

Indicatore del volume

Espulsore del puntale

Puntale in polipropilene

Canna

1

0

0

1

0

0

Se questi sono i numerisegnati dal volumetro, il

volume prelevato sarà 10,0 µlnel caso di un modello SL20,100 µl se usiamo un SL200 o

1000 µl nel caso di un SL1000

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3.2 Preparazione delle soluzioni

Aver chiaro il concetto di concentrazione è di estrema importanza nella preparazione delle soluzioni. Per concentrazione si intende di solito la quantità di una determinata sostanza disciolta in un’unità di volume. La quantità viene comunemente espressa in moli o in unità di massa. Nel primo caso, la concentrazione ha le dimensioni di moli/L e viene detta concentrazione molare (o molarità, che viene abbreviata con M). Nel secondo caso la concentrazione ha le dimensioni di g/L. Si usano anche altre unità di misura della concentrazione, quali la percentuale di peso/volume, peso/peso o volume/volume. La % peso/volume si riferisce ai grammi di soluto disciolti in 100 ml di soluzione; la % peso/peso ai grammi di soluto disciolti in 100 g di soluzione; la % volume/volume, che si usa per miscele di liquidi, indica gli ml di un liquido disciolti in 100 ml di soluzione (ad esempio una soluzione di etanolo in acqua al 30% è costituita da 30 ml di etanolo e 70 ml di acqua). Nella preparazione di una soluzione acquosa il primo aspetto da tener presente è il tipo di acqua da utilizzare, ovvero il grado di purezza dell’acqua necessario. L’acqua che proviene dalla rete idrica normalmente contiene alte concentrazioni di sali (carbonato di calcio) e quindi non può essere usata per preparare soluzioni a composizione controllata. Normalmente viene utilizzata acqua distillata o deionizzata (acqua dalla quale sono stati eliminati la maggior parte degli ioni disciolti, tramite il passaggio attraverso colonne cromatografiche a scambio ionico). Nei casi in cui si renda necessario un grado di purezza maggiore, si può usare acqua bidistillata o acqua che proviene da sistemi di purificazione molto efficienti che si trovano in commercio. Nel momento in cui si scioglie un composto in un liquido è necessario assicurarsi che questo si sia completamente disciolto. Si possono usare diversi dispositivi:

• L’agitatore magnetico (Fig. 4) è il mezzo più conveniente per ottenere soluzioni omogenee. Questo apparecchio è costituito da una piastra sotto la quale un motorino elettrico fa girare un magnete, con velocità che può essere regolata. Esistono versioni di questo apparecchio in cui la piastra, di metallo, contiene una resistenza elettrica che può fornire calore. Alcuni soluti infatti si sciolgono meglio se il solvente è caldo. Il soluto che deve esser disciolto viene versato all’interno di un beaker, in cui si inserisce anche una barretta magnetica; il contenitore viene quindi posto al centro del piatto agitante e si aumenta gradualmente la velocità di agitazione. Quando il composto da sciogliere mostra resistenza è necessario unire all’agitazione la somministrazione di calore. Si deve però deve tener conto della natura della soluzione, che potrebbe danneggiarsi ad alte temperature. Al termine del procedimento spegnere l’agitatore e prelevare il magnete utilizzando un altro magnete, facendo molta attenzione a non contaminare la soluzione. Infine sciacquare i magneti con acqua distillata.

• I mescolatori a vortice (vortex; Fig. 5) consentono un mescolamento vigoroso di piccoli

volumi di soluzione. Il soluto ed il solvente vengono posti in un tubo che va poi appoggiato su un apposito alloggiamento di gomma. I vortex posseggono un interruttore che ha tre posizioni: in una lo strumento è spento, nella seconda è acceso ma l’alloggiamento di gomma incomincia a ruotare solo in seguito ad una pressione decisa esercitata sul tubo, nella terza l’alloggiamento di gomma è in continuo movimento. L’uso di questo strumento prevede una regolazione attenta della velocità di vibrazione per evitare che la soluzione esca dal tubo.

• I bagni agitanti sono delle vasche d’acqua termostatata che consentono un mescolamento

controllato della soluzione ad una data temperatura.

Nota Bene. Alcune macromolecole biologiche, come proteine o lunghe molecole di DNA, sotto agitazione, vibrazione o riscaldamento possono essere danneggiate. Durante la preparazione di una soluzione ricordate inoltre di etichettare le vostre provette con il nome dei soluti, la loro

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concentrazione e il pH misurato, la data di preparazione, il vostro nome ed eventuali note sulla pericolosità del prodotto. Una volta disciolti i soluti nel beaker (avendo utilizzato un volume di solvente inferiore al volume finale della soluzione che si vuole preparare), se necessario si porta a pH la soluzione aggiungendo un acido o una base e misurando il pH tramite un pHmetro (vedi dopo), quindi la si trasferisce in un cilindro e si aggiunge ancora solvente fino a raggiungere il volume desiderato.

• Un pHmetro (Fig. 6) è uno strumento costituito da un elettrodo da pH accoppiato ad un potenziometro. L’elettrodo da pH è in realtà formato da due sistemi separati: un elettrodo di vetro sensibile ai protoni ed un elettrodo di riferimento insensibile ai protoni. Immergendo l’elettrodo da pH in una soluzione si può misurare la differenza di potenziale tra i due elettrodi, la quale dipende dalla concentrazione di protoni e quindi consente di risalire, tarando opportunamente lo strumento, al pH. I pHmetri moderni convertono automaticamente la differenza di potenziale in pH e mostrano tale valore su un apposito schermo. Se si usa un pHmetro per la prima volta è molto importante leggere il manuale dello strumento per conoscere il modo in cui va usato, al fine di ottenere delle misure accurate e evitare di danneggiare l’elettrodo. Quest’ultimo va mantenuto in un’apposita soluzione e va lavato con acqua distillata prima e dopo ogni immersione nelle soluzioni. Quando si vuole misurare il pH di una soluzione bisogna tener conto della concentrazione dei sali in essa contenuti. Se tale concentrazione è molto elevata l’utilizzo di un pHmetro non sarà possibile in quanto i sali interferiranno con la misura della differenza di potenziale dovuta solo ai protoni. Prima di utilizzare un pHmetro si deve calibrare lo strumento. Molti pHmetri correggono automaticamente l’effetto della temperatura sul pH. In questi strumenti bisogna regolare un’apposita manopola sulla temperatura della soluzione. Quindi si immerge l’elettrodo in una soluzione di riferimento a pH 7 e si regola il controllo di calibrazione fino a che sullo schermo non viene mostrato il valore corrispondente. Questa è una calibrazione “a singolo punto”. Molti strumenti consentono di effettuare calibrazioni a doppio punto, utilizzando oltre che una soluzione di riferimento a pH 7 anche una seconda a pH 4 o 9, a seconda dell’intervallo di pH in cui lo strumento dovrà operare.

Fig. 4 Agitatore magnetico

Fig. 5 Vortex

Fig. 6 pHmetro

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3.3 Soluzioni “stock” e diluizioni

Quando si ha la necessità di preparare spesso una soluzione dello stesso composto (a volte anche a concentrazioni differenti) è utile partire da una soluzione “stock”, cioè una soluzione più concentrata di quelle da preparare. Normalmente le soluzioni “stock” vengono preparate in volumi sufficienti per molte diluizioni, come nel caso delle soluzioni tampone, utilizzando palloni volumetrici per raggiungere l’esatto volume (assicurandosi che il menisco della soluzione sia a livello del segno di calibrazione del pallone) e agitatori magnetici per disciogliere il soluto. Una soluzione così concentrata viene utilizzata effettuando delle diluizioni. Supponiamo di avere una soluzione di NaCl 3M come soluzione “stock” e di voler preparare 50 ml di una soluzione di NaCl 0,1M. Il calcolo da fare si basa sulla proporzione V1 x C1=V2 x C2, in cui V1 è il volume da prelevare dalla soluzione stock e rappresenta nel nostro caso l’incognita di questa equazione, C1 è il valore della concentrazione della soluzione stock, V2 è il volume di soluzione che intendiamo preparare e C2 è il valore della sua concentrazione. Nel caso del nostro esempio, V1 x 3M=50mL x 0,1M. Si ottiene così che il volume da prelevare dalla soluzione stock è di 1,7 ml. Bisogna infine portare la soluzione al volume stabilito, che è di 50 ml, aggiungendo 48,3mL (50mL – 1,7mL = 48,3mL) di acqua distillata. In alcuni casi è necessario preparare una serie di soluzioni dello stesso soluto a concentrazione diversa. In questo caso è utile, al fine di garantire la massima accuratezza, effettuare delle diluizioni seriali. Le diluizioni seriali prevedono la preparazione di soluzioni a concentrazione decrescente e separate da un rapporto di diluizione costante a partire da un'unica soluzione “stock”. Il valore del rapporto di diluizione si ottiene facilmente dal rapporto C2 / C1. Per esempio, se dobbiamo preparare 50 ml di una soluzione 10mM a partire da una soluzione 100mM il rapporto di diluizione sarà 0.1, cioè di 1 a 10. Quindi preleveremo 5 ml dalla soluzione stock (50mL x 0.1) portando a volume con 45 ml di acqua distillata. Se vogliamo diluire di dieci volte la soluzione appena preparata dobbiamo usare lo stesso procedimento, prelevando 5 ml e aggiungendo 45 ml di acqua distillata. In questo modo è possibile arrivare a diluizioni molto grandi mantenendo un’accuratezza molto elevata. 3.4 Uso delle bilance

Le bilance ormai in uso in tutti i laboratori sono a lettura digitale, offrendo il vantaggio di una facile lettura dei valori e la possibilità di effettuare la tara automaticamente. Di solito in un laboratorio ben attrezzato sono presenti sia una bilancia analitica che una bilancia tecnica. Il primo tipo di bilancia offre un’accuratezza di circa un milligrammo in un intervallo che va fino a 100 g. Una bilancia tecnica è accurata al decimo di grammo e può pesare fino a 3 Kg. Per un corretto uso della bilancia occorre:

• controllare che la bilancia sia in piano e non esposta a correnti d’aria; • porre un recipiente vuoto sulla bilancia (se si usa una bilancia analitica usare un foglio di

carta o alluminio e comunque evitare di usare recipienti pesanti più di pochi grammi) e lasciare che la lettura si stabilizzi. Per portare la lettura a zero premere il tasto della tara;

• deporre nel recipiente la sostanza da pesare utilizzando una spatola pulita di dimensioni adatte, facendo molta attenzione a non lasciar cadere parti al di fuori del recipiente;

• lasciare che la lettura si stabilizzi per prendere nota del valore. Se il prodotto aggiunto è in eccesso prestare molta cura nel rimuoverlo;

• evitare di urtare in qualsiasi modo il piatto della bilancia; • al termine della misura spegnere lo strumento e pulire eventuale materiale versato

accidentalmente sul piatto della bilancia.

Un uso errato della bilancia può compromettere la riuscita della preparazione di una soluzione.

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3.5 Riscaldamento e raffreddamento dei campioni

Quando si rende necessario riscaldare dei materiali organici bisogna prestare molta attenzione al pericolo di incendio o di ustioni dovuto a liquidi riscaldati o vetri incandescenti. Il riscaldamento di un campione può avvenire mediante un blocchetto elettrico riscaldante termostato oppure con un becco Bunsen. L’uso del Bunsen richiede molta attenzione: bisogna stare lontano dalla fiamma, legare eventuali capelli lunghi sulla nuca e spegnerlo sempre quando non serve. Per accendere il Bunsen bisogna chiudere il foro dell’aria e avvicinare un accendino acceso al becco, per regolare la fiamma utilizzare la manopola d’apertura del foro dell’aria. I frigoriferi e i congelatori consentono di conservare soluzioni stock e sostanze che si degraderebbero o verrebbero contaminate a temperatura ambiente. Le temperature normali dei frigoriferi e congelatori sono rispettivamente circa 4 °C e –15 °C (-20 °C). Con un congelatore a –70 °C si possono conservare campioni a lungo termine. Alcuni campioni biologici possono essere conservati in azoto liquido alla temperatura di circa –150 °C. Durante l’esecuzione di un esperimento può capitare di dover conservare sul bancone dei campioni a basse temperature. Allo scopo si può usare un bagno di acqua e ghiaccio che consente di mantenere la temperatura dei campioni vicino a 0 °C o anche un bagno di etanolo e ghiaccio secco.

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4. ESERCITAZIONI

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4.1 USO DEI MODELLI MOLECOLARI

Modello a pallina e bastoncino Modello spaziale La costruzione e l’analisi di modelli in scala di strutture molecolari risulta un approccio sperimentale molto utile all’analisi delle relazioni tra struttura e funzione di composti organici di interesse biologico. Lo scopo di questa esercitazione è quello di:

• conoscere le principali strategie per la costruzione di modelli molecolari, mediante la realizzazione di modelli di aminoacidi e peptidi;

• analizzare i concetti di stereoisomeria ed effettuare considerazioni sulla configurazione degli

aminoacidi e dei peptidi, ricorrendo a modelli molecolari tridimensionali;

• analizzare gli aspetti conformazionali di catene polipeptidiche ed effettuare considerazioni sulla correlazione struttura-funzione.

PRIMA PARTE: “Costruzione dei modelli molecolari degli aminoacidi Glicina, Alanina, Prolina,

Treonina, Cisteina ed Istidina”. Si consiglia di procedere nel seguente modo:

1. calcolare le lunghezze dei legami presenti nelle strutture degli aminoacidi da costruire nella nuova scala 1 : 2 x 108 (vedi allegato n.1);

2. definire il tipo e il numero delle "palline" e "bastoncini" da utilizzare per una reale

rappresentazione in scala 2 x 108 della struttura degli aminoacidi richiesti (allegato n.1);

3. costruire i modelli molecolari richiesti. N.B. prima di procedere, far verificare i modelli ai docenti coordinatori;

4. infine utilizzare i modelli molecolari costruiti per rispondere alle domande proposte in

allegato n. 3. N.B. far verificare le risposte ai docenti coordinatori.

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SECONDA PARTE: “Costruzione dei modelli molecolari di un esapeptide di composizione LGly, LAla, LPro, LCys, LThr, LHis”

Si consiglia di procedere nel seguente modo: 1. dopo aver effettuato e concluso la prima parte, costruire l’esapeptide, per “allungamento”

della catena polipeptidica dall’N-terminale al C-terminale. 2. infine, utilizzare il modello molecolare costruito per rispondere alle domande proposte in

allegato n.4. N.B. far verificare le risposte ai docenti coordinatori.

ALLEGATO N.1

legame (---) lunghezza reale (in Å) lunghezza (in cm) nel

modello in scala 1:2x108

Csp3 --- Csp3 1.54 Csp3 --- O 1.43

Csp3 --- Nsp3 1.47 Csp3 --- S 1.82 Csp3 --- H 1.07 Nsp3 --- H 0.99

O --- H 0.97 S --- H 1.03

Csp2 --- Csp2 1.33 Csp2 --- O (legame peptidico) 1.22 Csp2--- O (gruppo carbossile) 1.25

Csp2 --- H 1.08 Csp2 --- Nsp2 (legame peptidico) 1.32

Csp3 --- Csp2 1.50

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ALLEGATO N.2

Nome Abbr. Struttura lineare

Glicina gly, G NH2-CH2-COOH

Alanina ala, A CH3-CH(NH2)-COOH

Treonina thr, T CH3-CH(OH)-CH(NH2)-COOH

Prolina pro, P NH-(CH2)3-CH-COOH |_________|

Istidina his, H N=C-NH-C=C-CH2-CH(NH2)-COOH |_________|

Cisteina cys, C HS-CH2-CH(NH2)-COOH

ALLEGATO N.3

1. Quanti centri chirali ci sono nella struttura degli aminoacidi costruiti?

Glicina

Alanina

Treonina

Istidina

Cisteina

Prolina

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Dopo aver attentamente verificato la stereoisomeria dei modelli molecolari costruiti, indicare la configurazione, secondo il sistema RS, dei carboni chirali.

Carbonio alfa Carbonio beta

Glicina

Alanina

Treonina

Istidina

Cisteina

Prolina

2. Un legame peptidico si forma per condensazione del gruppo aminico di un aminoacido e il gruppo carbossilico di un secondo aminoacido, con perdita di una molecola di acqua. Costruire, sulla base di questa informazione, il modello molecolare di un dipeptide utilizzando due dei sei aminoacidi costruiti.

3. L’analisi di strutture di cristalli di molecole contenenti 1 o più legami peptidici ha rilevato che la distanza tra gli atomi dell’N e del C di un legame peptidico risulta 0.15 Å (10%) più breve del legame azoto-carbonio alfa (N-Calfa) e 0.7 Å più lungo di un normale legame carbonio carbonilico-azoto (C=N).

Questo è stato interpretato considerando il legame peptidico un ibrido di risonanza tra un legame singolo ed un legame doppio. A causa di questo parziale carattere di doppio legame, il legame peptidico è planare. Utilizzando questa informazione, imporre la planarità al legame peptidico costruito, chiedendo ai docenti gli appositi dispositivi previsti dalla modellistica in uso.

4. Osservando il dipeptide costruito e così perfezionato, indicare quale dei due stereoisomeri geometrici è stato costruito.

5. Effettuare considerazioni sulle interazioni steriche dell’Ossigeno carbonilico, dell’Idrogeno e delle catene laterali, che influenzano la stabilità delle diverse configurazioni del dipeptide realizzato.

ALLEGATO N.4

1. Indicare la sequenza aminoacidica del peptide costruito

2. Far adottare all’esapeptide un andamento ad alfa-elica, richiedendo ai docenti gli appositi

dispositivi previsti dalla modellistica in uso per imporre un legame idrogeno.

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4. 2 CROMATOGRAFIA DI RIPARTIZIONE SU STRATO SOTTILE Breve introduzione teorica La cromatografia è una metodologia basata sulla separazione di molecole in base alle loro specifiche proprietà chimiche e fisiche come ad esempio la capacità di formare legami deboli, la massa molecolare, la carica o la solubilità. Questa tecnica richiede l’uso di due componenti:

1. un supporto solido, un gel o un liquido che costituisce la fase stazionaria; 2. una fase mobile, ovvero un liquido o un gas in cui sono disciolti i composti che si vogliono

separare e che si fa passare attraverso la fase stazionaria.

In questo modo le molecole disciolte nella fase mobile saranno ripartite in modo differenziale tra le due fasi e quindi separate durante la corsa cromatografica in base alle loro proprietà chimiche e fisiche. Nella cromatografia su strato sottile, la fase stazionaria è costituita da una pellicola d’acqua adsorbita su uno strato di gel di silice o di cellulosa, il quale viene deposto su una lastra di vetro o di alluminio. Il campione (una piccola aliquota) viene applicato in prossimità dell’estremità inferiore della lastra, ad una distanza opportuna (Fig. 7). A questo punto, la lastra viene trasferita in un recipiente chiuso contenente la fase mobile, cioè una opportuna miscela di solventi, compresa dell’acqua, e fatta eluire. Lo strato di silice, per capillarità, aspirerà la miscela verso l’alto con la contemporanea stratificazione della pellicola d’acqua e la separazione delle diverse componenti del campione. I composti polari migreranno più lentamente di quelli apolari. Una volta che il solvente ha raggiunto circa l’80% della lunghezza della lastra, questa può essere rimossa, asciugata e i composti separati possono essere rivelati con vari sistemi. I valori della mobilità relativa dei diversi composti possono essere determinati in base al rapporto

solvente dal percorsa distanzasostanza dalla percorsa distanza=fR

Questo valore è per ciascun composto una costante e dipende strettamente dal suo coefficiente di distribuzione tra fase stazionaria e fase mobile, ovvero dal rapporto delle concentrazioni del composto in queste due fasi.

Fig.7 Componenti di un sistema di cromatografia su strato sottile

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Protocollo Scopo dell’esercitazione è quello di separare una miscela di aminoacidi a composizione ignota ed identificarne le componenti per confronto con degli aminoacidi standard.

1. Si prende la lastrina di gel di silice e si traccia una riga con la matita (senza pigiare troppo per evitare di scrostare lo strato sottile) ad 1 cm dal bordo inferiore. Quindi si depongono con un capillare 2-3 µl dei campioni standard (alanina 2 mM, istidina 2 mM, leucina 2 mM) e 2-3 µl della miscela a composizione ignota. Prima contrassegnare con una matita il punto di applicazione di ciascun campione. Si lasciano asciugare i campioni.

2. Si mette poi la lastrina nella vaschetta cromatografica (in cui sono stati versati 100 ml di una

miscela di butanolo : acqua : acido acetico 3:1:1), immergendola dal lato dove sono stati deposti i campioni. Il solvente sale per capillarità; quando è arrivato a circa 1 cm dal bordo superiore, si estrae la lastrina, si segna con la matita la posizione del fronte del solvente e si asciuga molto bene con aria calda.

3. Si spruzza quindi la lastrina con una soluzione di ninidrina 0,5% (p/v) in acetone e si

asciuga immediatamente con aria calda.

4. Una volta rivelati gli aminoacidi, si calcola per ognuno il valore di Rf. Si procede alla identificazione dei componenti della miscela tramite il confronto dei valori di mobilità relativa (Fig. 8).

Fig. 8 In questo esempio, i campioni 1, 2 e 3 rappresentano gli aminoacidi standard ed il MIX è una

loro miscela. Si intuisce dalla figura come la composizione della miscela possa essere identificata tramite il confronto con gli aminoacidi standard. I valori di Rf si calcolano facendo i rapporti B1/A, B2/A e B3/A.

Linea di deposizione dei campioniB3

B2

B1

A

Fronte

1 2 3 MIXLinea di deposizione dei campioni

B3

B2

B1

A

Fronte

1 2 3 MIX

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4. 3 PURIFICAZIONE DELLA SERINA IDROSSIMETILTRASFERASI (SHMT) 4.3.1 Lisi dei batteri, frazionamento con solfato di ammonio e dialisi Breve introduzione teorica

Lo studio delle molecole biologiche richiede innanzi tutto la loro separazione dal materiale di partenza (cellule e tessuti) mediante tecniche di distruzione cellulare. La difficoltà di questo processo di separazione dipende dalla complessità del sistema cellulare con il quale si sta operando. I batteri ad esempio sono circondati da una parete cellulare rigida mentre le cellule animali possono essere distrutte con tecniche più blande, non essendo circondate da alcuna parete. La rottura delle cellule deve avvenire in una soluzione tampone che mantenga l’integrità delle macromolecole biologiche rilasciate e che quindi, oltre ad avere un opportuno pH ed una forza ionica adeguata, contenga almeno un antiossidante, un agente chelante per evitare la formazione di mercapturi e, se si vuole purificare una proteina, degli inibitori delle proteasi. Le tecniche di distruzione di tessuti e cellule possono avvalersi di metodi meccanici e non meccanici. Metodi non meccanici:

• congelamento e scongelamento in cui la membrana cellulare o la parete cellulare vengono danneggiate con il rilascio dei componenti intracellulari nell’ambiente;

• uso di enzimi litici che degradano la parete cellulare o le membrane cellulari facilitando la rottura delle cellule per shock osmotico o mediante trattamenti meccanici blandi;

• shock osmotico in cui le cellule vengono poste inizialmente in una soluzione ipertonica con conseguente fuoriuscita di acqua dalla cellula e in un secondo momento in una soluzione ipotonica, ad esempio mediante diluizione della stessa soluzione, permettendo l’ingresso dell’acqua nella cellula fino a farla scoppiare.

Metodi meccanici:

• mulino a sfere: utilizzato per batteri e funghi, è uno strumento costituito da sfere di vetro che per vibrazione collidono con le cellule e le distruggono;

• omogenizzatori: sono costituiti da 2 componenti, un pestello di vetro smerigliato e un tubo di vetro (Fig. 9). Durante la rotazione in modo alternato del pestello le cellule vengono spinte sulle pareti del tubo e a causa della forza loro impressa sono costrette a rilasciare il loro contenuto. In alcuni casi l’omogeneizzazione viene ottenuta tramite l’utilizzo di speciali frullatori;

• sonicatori: sfruttano l’azione di onde ultrasoniche prodotte mediante l’uso di una sonda metallica immersa in una soluzione acquosa di cellule.

I metodi meccanici comportano accorgimenti particolari a causa della contemporanea produzione di calore che potrebbe denaturare le proteine e che quindi deve essere dissipato facendo in modo che sia il materiale di partenza che il mezzo di omogeneizzazione siano raffreddati, ad esempio mediante l’uso di ghiaccio o direttamente in camera fredda. Una volta ottenuta la rottura delle cellule, le proteine possono essere precipitate mediante aggiunta di sali, attraverso un fenomeno detto “salting out”. Questo è dovuto al fatto che gli ioni di alcuni sali, aggiunti alla soluzione, sono causa di una riduzione delle interazioni tra le proteine ed il

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solvente e quindi favoriscono l‘aggregazione e la precipitazione. Inoltre, differenti proteine precipitano a concentrazioni diverse di sali e quindi la tecnica può essere utilizzata per frazionare una miscela proteica. Uno dei sali più utilizzati per via della sua elevata solubilità è il solfato di ammonio (NH4)2SO4. Le proteine precipitate vengono poi sedimentate tramite centrifugazione, ridisciolte in un opportuno tampone e quindi dializzate per eliminare il sale (Fig. 10).

Fig. 9 Vari modelli di omogenizzatore. Fig. 10 Funzionamento della dialisi. Il sacchetto da dialisi è costituito da un materiale permeabile

agli ioni (molecole piccole) ma non alle proteine (molecole grandi). Una volta stabilito l’equilibrio tra l’interno e l’esterno del sacchetto, la concentrazione del sale si è ridotta in misura del rapporto tra volume del sacchetto e volume del recipiente. Si può quindi trasferire il sacchetto in un tampone nuovo e ripetere la dialisi per ridurre ulteriormente la concentrazione del sale.

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Protocollo Materiale a disposizione: 1 portatubi; 3 tubi graduati da 50 ml con tappo a vite marcati con il numero del gruppo di lavoro; 1 tubo da 50 ml contenente tampone potassio fosfato (KPi) 20 mM, pH 6,8; 1 tubo da 1,5 ml marcato con il numero del gruppo di lavoro; 1 tubo contenente 2 ml di una soluzione di streptomicina al 21% p/v; 2 pipette di plastica; 1 tratto di tubo da dialisi; 1 calcolatrice.

1) Lisi batterica (già effettuata dagli esercitatori).

La cellule batteriche sono state accresciute in un terreno di coltura Luria-Bertani. In fase di crescita esponenziale l’espressione della proteina ricombinante è stata indotta tramite aggiunta di IPTG (isopropiltiogalattopiranoside). Le cellule sono state sedimentate tramite centrifugazione e poi sospese in un tampone Tris-HCl 50 mM pH 7,5, contenente EDTA. Alla sospensione cellulare è stato aggiunto il lisozima e dopo 30 minuti il campione è stato congelato. Dopo lo scongelamento la lisi cellulare appare evidente dalla viscosità del campione, dovuta ai lunghi filamenti di DNA.

2) Precipitazione del DNA con streptomicina.

Ad ogni gruppo vengono dati 20 ml di lisato batterico in un tubo graduato da 50 ml. Aggiungere 1 ml della soluzione di streptomicina (l’intero contenuto del tubo in dotazione). La concentrazione finale della streptomicina sarà pari all’1% p/v. Tappare il tubo e mescolare ripetutamente e delicatamente per inversione. Attendere 10 minuti continuando a mescolare di tanto in tanto. Si osserverà una diminuzione di viscosità e l’eventuale formazione di grumi biancastri, dovute alla precipitazione del DNA. Centrifugare il campione per 10 minuti a 9000 g per eliminare i detriti cellulari ed il DNA precipitato. Durante la centrifugazione, pesare il solfato di ammonio necessario al passaggio successivo (punto 3) in un tubo da 50 ml pulito. Trasferire 15 ml del supernatante in un tubo pulito. Prelevare inoltre 1-1,5 ml di supernatante e deporlo nella provetta da 1,5 ml marcata con il numero del gruppo di lavoro. Questo campione verrà conservato ed utilizzato successivamente per l’analisi elettroforetica ed i saggi di attività enzimatica.

3) Frazionamenti con solfato di ammonio

Aggiungere al campione di 15 ml una quantità di solfato di ammonio tale da raggiungere il 25% di saturazione (vedi tabella). Tappare ed agitare delicatamente fino a che il sale è completamente disciolto. La soluzione, precedentemente limpida, diventerà torbida, dato che una frazione delle proteine è precipitata. Questa frazione viene rimossa mediante una centrifugazione di 10 minuti a 9000 g. Trasferire 15 ml del supernatante in un tubo pulito utilizzando una pipetta e facendo attenzione a non toccare il precipitato.

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Aggiungere al campione di 15 ml una quantità di solfato di ammonio tale da raggiungere il 60% di saturazione, utilizzando sempre la tabella per fare i calcoli e ricordando che la soluzione è già al 25% di saturazione. Agitare delicatamente fino a che il sale è completamente disciolto. Ancora una volta la soluzione diventerà torbida a causa della precipitazione di un’altra frazione di proteine, tra cui l’SHMT. Centrifugare per 10 minuti a 9000 rpm.

Rimuovere il supernatante aiutandosi con una pipetta. Il precipitato così ottenuto rappresenta

la frazione di proteine che sono solubili in solfato di ammonio al 25% ma non al 60%. Sciogliere delicatamente con una pipetta il precipitato utilizzando 10 ml di tampone KPi 20mM pH 6,8.

4) Dialisi

Il materiale ottenuto contiene SHMT in concentrazione maggiore rispetto alla miscela proteica di partenza e potrà essere utilizzato per il successivo passaggio di purificazione (cromatografia a scambio cationico). Tuttavia esso contiene un’elevata concentrazione di sale (il solfato di ammonio utilizzato per i frazionamenti) che va rimossa. La soluzione viene quindi dializzata in un sacchetto costituito da una membrana permeabile ai sali ma non alle proteine. Prendere un tratto di tubo da dialisi e chiuderne un’estremità mediante un paio di nodi. Trasferire la soluzione proteica nel sacchetto così ottenuto mediante una pipetta e quindi chiuderlo con un paio di nodi. Il sacchetto viene messo in 5 litri di tampone KPi 20 mM pH 6,8. In questo modo i sali presenti nella soluzione proteica tenderanno ad uscire dal sacchetto fino a raggiungere l’equilibrio. Quindi, la dialisi viene ripetuta in alri 5 litri di tampone, in modo da diluire ulteriormente il solfato di ammonio. Il tampone di dialisi è lo stesso con cui verrà equilibrata la colonna cromatografia a scambio cationico.

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Tabella. Relazione tra grammi di solfato di ammonio aggiunti a una soluzione e percentuale di saturazione a 25 ºC.

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4.3 PUFICAZIONE DELLA SERINA IDROSSIMETILTRASFERASI (SHMT) 4.3.2 Cromatografia a scambio cationico Breve introduzione teorica

La cromatografia a scambio ionico, che viene di solito eseguita su colonna, sfrutta le interazioni elettrostatiche tra molecole con carica opposta presenti nella fase mobile e nella fase stazionaria. Quest’ultima è costituita da una matrice solida di varia natura (cellulosa o altri polisaccaridi, polistirene) alla quale sono legati covalentemente degli scambiatori ionici (Fig. 11), ovvero dei gruppi ionizzabili in grado di scambiare cationi o anioni in base alla loro carica positiva o negativa. Per questo è possibile distinguere una cromatografia a scambio anionico in cui la fase solida ha una carica positiva e lo ione scambiabile è un anione e una cromatografia a cambio cationico in cui la fase stazionaria ha una carica negativa e lo ione scambiabile è un catione. Un’accortezza particolare deve essere rivolta alla scelta del tampone che si usa per equilibrare la colonna cromatografica, che poi è lo stesso in cui deve essere disciolta la miscela proteica che si vuole separare, e che deve inizialmente avere un pH ed una forza ionica tali da permettere il legame delle molecole di interesse allo scambiatore. Nell’eluizione bisognerà invece permettere il distacco dalla colonna delle molecole precedentemente legate e ciò è possibile cambiando il pH o aumentando la concentrazione del controione che si lega allo scambiatore ionico (tramite la formazione di un gradiente; Fig. 12). Se si varia il pH in modo da far cambiare la carica netta delle proteine, queste si staccheranno dalla fase stazionaria in modo frazionato. Il controione invece compete con le proteine per legarsi allo scambiatore ionico della fase stazionaria e quindi aumentanto la sua concentrazione si determina l’eluizione delle proteine.

Fig. 11

R+ è uno scambiatore di ANIONI (B-)

Le proteine (polielettroliti) si legano a scambiatori anionici o cationici, a seconda della loro carica netta. La forza del legame dipende: • dalle caratteristiche strutturali delle proteine • dal pH • dalla concentrazione di altri ioni che competono per il legame

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Fig. 12 Schema rappresentante un formatore di gradiente e la relazione lineare tra concentrazione e volume della soluzione che giunge alla colonna cromatografica.

Protocollo Materiale a disposizione: 1 portatubi; 1 portaprovette; 1 colonna cromatografica; 1 tubo da 50 ml contenente 30 mL di tampone KPi 20 mM pH 6,8; 1 tubo da 50 ml contenente 30 mL di tampone KPi 300 mM pH 7,2; 3 tubi graduati da 50 ml marcati con il numero del gruppo di lavoro; 1 tubo da 1,5 ml marcato con il numero del gruppo di lavoro; 10 provette di plastica; 2 pipette di plastica; 1 beaker contenente 20 mL di carbossimetil (CM) -sefarosio in KPi 20 mM pH 6,8; 1 beaker vuoto; 1 pennarello; 1 matita; 1 foglio di carta millimetrata.

1) Preparazione della colonna cromatografica

In questa esercitazione verrà impiegata per la cromatografia a scambio cationico una matrice di sefarosio, un polisaccaride insolubile, modificata chimicamente con dei gruppi carbossimetilici (CM-sefarosio). Per eseguire la separazione cromatografica il CM-sefarosio, precedentemente equilibrato con tampone KPi 20 mM pH 6,8, deve essere messo nella colonna cromatografica.

Chiudere il rubinetto in uscita della colonna cromatografica e con una pipetta di plastica

riempire la colonna con la sospensione di CM-sefarosio (prima di prelevare la resina sospenderla bene agitando il beaker in cui vi è stata fornita). Aprire il rubinetto e far fluire il tampone nel beaker vuoto, continuando ad aggiungere la sospensione fino a quando il CM-sefarosio sedimentato nella colonna ha raggiunto un volume di circa 10-15 ml. Chiudere il rubinetto quando il livello del tampone nella colonna è di poco superiore a quello del CM-sefarosio sedimentato.

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2) Preparazione del campione

Il materiale risultante dalla precedente esercitazione può presentare una certa torbidità dovuta alla presenza di proteine precipitate. Queste possono essere rimosse mediante centrifugazione.

Aprire il sacchetto della dialisi con un paio di forbici e versarne il contenuto in un tubo da 50 ml. Centrifugare il campione per 10 minuti a 9000 g. Prelevare e porre in una provetta da 1,5 ml una aliquota di 1-1,5 ml del supernatante, che verrà utilizzata successivamente per l’analisi elettroforetica e per i saggi di attività enzimatica.

3) Cromatografia

Aprire la colonna. Far defluire il tampone fino a quando la superficie del CM-sefarosio è esposta all’aria. Chiudere la colonna, quindi caricare il campione stratificandolo delicatamente sulla superficie del CM-sefarosio; aprire la colonna e continuare a caricare il campione. Una volta che si è caricato tutto il campione, aspettare che la superficie della resina sia nuovamente esposta all’aria. Chiudere la colonna e stratificare sopra la superficie della resina del tampone 20 mM KPi pH 6,8. Aprire la colonna e continuare ad aggiungere tampone, raccogliendo la soluzione che esce nel beaker vuoto, fino ad utilizzare tutto il tampone a disposizione. Chiudere la colonna quando la superficie è esposta all’aria.

Le proteine che nel tampone KPi 20 mM pH 6,8 presentano una carica positiva, tra cui l’SHMT, si sono legate ai gruppi carichi negativamente del CM-sefarosio e sono ancora presenti nella colonna. Le proteine con carica netta neutra o negativa sono state lavate via.

Stratificare sulla superficie del CM-sefarosio il tampone 300 mM KPi pH 7,2. Aprire la

colonna e continuare ad aggiungere il tampone, raccogliendo l’eluato nelle provette, in misura di circa 2,5 ml per frazione. Il tampone a forza ionica elevata e pH più alto fa staccare dai gruppi carbossimetile l’SHMT (insieme a poche altre proteine). La presenza dell’SHMT nelle frazioni raccolte può essere verificata misurando l’assorbimento della luce a 280 nm e 420 nm. L’assorbimento a 280 nm è dovuto alla presenza di residui aminoacidici contenenti gruppi aromatici (triptofano, fenilanina e tirosina), mentre quello a 420 nm è dovuto alla presenza del cofattore dell’SHMT, il piridossale 5’-fosfato.

Misurare l’assorbanza a 280 nm e 420 nm delle varie frazioni raccolte utilizzando lo spettrofotometro. Segnare i valori dell’assorbanza nell’apposita tabella (vedi pagina successiva) e quindi costruire un profilo di eluizione utilizzando la carta millimetrata; individuare l’intervallo di frazioni che comprende un massimo dell’assorbanza a 280 nm coincidente con il massimo dell’assorbanza a 420 nm.

Riunire il contenuto delle frazioni scelte in un tubo da 50 ml. Per avere una stima approssimativa della concentrazione proteica misurare l’assorbanza a 280 nm della soluzione assumendo un coefficiente di estinzione di 1 OD per una soluzione 1 mg/ml.

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Frazione n° A280 A420

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4.3 PURIFICAZIONE DELLA SERINA IDROSSIMETILTRASFERASI (SHMT) 4.3.3 Determinazione quantitativa delle proteine Breve introduzione teorica

Durante la purificazione di una proteina è molto importante conoscere la concentrazione proteica dei campioni che da questa derivano. I metodi colorimetrici e spettrofotometrici rappresentano le tecniche più utilizzate per stimare la concentrazione delle proteine. Questi metodi sfruttano l’assorbimento della luce da parte delle proteine o di complessi che queste formano con dei cromofori. L’assorbanza è definita come:

II

A 0log= , dove I0 è l’intensità della luce incidente sul campione ed I l’intensità della luce

trasmessa dal campione. L’assorbimento della luce è proporzionale alla lunghezza percorsa da questa attraverso il campione (cammino ottico) ed alla concentrazione del cromoforo assorbente, secondo la legge di Lambert-Beer:

lCA ε= , in cui ε è il coefficiente di estinzione molare ed è una costante per la sostanza assorbente, l è la lunghezza del cammino ottico espressa in cm (di solito pari ad 1 cm) e C è la concentrazione misurata di solito in moli per litro. Lo strumento mediante il quale è possibile effettuare misurazioni dell’assorbanza si chiama spettrofotometro (fig. 13) ed è costituito da:

Fig.13

• una sorgente luminosa; • un’apparecchiatura (monocromatore) che selezione lunghezze d’onda specifiche; • una camera che contiene il campione da analizzare (cuvetta); • un rivelatore di luce;

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• un sistema di lettura.

Il monocromatore può essere costituito o da una griglia o da un prisma che vengono fatti ruotare in modo da selezionare la lunghezza d’onda desiderata facendola uscire da una piccola fessura mentre tutte le altre vengono bloccate e non raggiungono il campione. Gli spettrofotometri possono essere distinti in spettrofotometri a singolo o a doppio raggio. I primi sono costituiti in modo tale che sia presente un singolo percorso luminoso e in cui la taratura dello strumento viene effettuata utilizzando una soluzione standard che fa da riferimento o “bianco”. I secondi invece sono costituiti da due raggi separati di cui uno attraversa la soluzione che fa da riferimento e l’altro la soluzione da testare. L’assorbanza viene poi misurata dallo stesso strumento mediante un confronto tra i due valori registrati. Saggio di Bradford

Se si dispone di un campione proteico puro e se ne conosce la sequenza o la composizione aminoacidica è possibile un calcolo teorico del coefficiente di estinzione molare a 280 nm che, tramite la misura dell’assorbanza, consente di risalire applicando la legge di Lambert-Beer alla concentrazione. Molto spesso però non si dispone di un campione puro e quindi questo metodo non è applicabile. Si usano allora dei metodi colorimetrici. In questa esercitazione useremo il metodo di Bradford. Questo metodo sfrutta la capacità del colorante blu di Coomassie (G-250) di legarsi in modo specifico ai residui di arginina, triptofano, tirosina, fenilalanina e istidina delle proteine.

Comassie brilliant blue (G250)

Il colorante libero in soluzione esiste in due forme, una cationica che ha un massimo di assorbimento a 470 nm (colore rosso) ed una anionica, in grado di legarsi alle proteine, che ha invece un massimo di assorbimento a 595 nm (colore blu). Il legame con le proteine fa quindi aumentare la concentrazione della forma che assorbe nel blu, determinando una variazione di colore. Gli spettri di assorbimento delle due forme si sovrappongono nella regione in cui si misura l’assorbanza nel saggio (595 nm) e questo determina una mancanza di linearità tra assorbanza e concentrazione proteica, molto marcata a concentrazioni basse di proteina. Per superare questo problema, si utilizzano quantità note di una proteina standard, come l’albumina, per generare una curva di taratura. Il campione da saggiare viene quindi fatto reagire con il colorante di Bradford e la sua concentrazione proteica estrapolata dall’assorbanza a 595 nm utilizzando la curva di taratura. Dato che il colorante si lega con maggiore affinità ai residui di arginina (otto volte maggiore rispetto agli altri residui) è importante la scelta della proteina standard, che deve contenere una composizione in residui di arginina simile a quella della proteina da saggiare.

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38

Protocollo Materiale a disposizione: 1 portaprovette; 21 provette di plastica; 2 tubi contenenti ognuno 40 ml di reagente di Bradford; 1 tubo da 50 ml contenente 20 mL di tampone KPi 300 mM pH 7,2; 1 provetta contenente 7 ml della soluzione standard di albumina (1 mg/ml); 1 propipetta di gomma; 2 pipette graduate da 1 ml; 2 pipette graduate da 5 ml; 1 pipettatore automatico da 200 µl; 8 puntali gialli per il pipettatore automatico; 1 foglio di carta millimetrata; 1 pennarello; 1 matita; 1 calcolatrice; campioni relativi alle precedenti esercitazioni:

A lisato batterico dopo precipitazione del DNA con streptomicina; B campione dopo frazionamento con solfato di ammonio e dialisi; C frazioni riunite dalla cromatografia su CM-sefarosio.

Procedimento:

I campioni relativi alla purificazione non possono essere usati come tali per la colorazione con il reagente di Bradford, ma devono essere diluiti con del tampone. Allo stesso modo devono essere preparate delle soluzioni di albumina a varie concentrazioni, partendo dalla soluzione di cui si dispone. Le diluizioni che devono essere effettuate sono riportate in tabella; si utilizzano a tale scopo delle provette vuote, che si marcano con il pennarello. La colorazione con il reagente di Bradford viene condotta in duplicato per ogni campione. Si prelevano quindi 100 µl di ogni campione, si depongono in duplicato in provette vuote, su cui si scrive il nome del campione; solo quando sono stati preparati tutti i campioni (compresi quelli per la curva di calibrazione), vengono aggiunti 5 ml del colorante di Bradford ad ogni provetta contenente le aliquote di 100 µl. I campioni così preparati vengono mescolati con un vortex. Dopo 2 minuti, l’assorbanza a 595 nm dei campioni viene letta allo spettrofotometro, contro il bianco che è stato appositamente preparato, e segnata nell’apposita tabella. I valori registrati in duplicato vengono mediati. Si riportano su carta millimetrata (asse Y = assorbanza a 595 nm, asse X = quantità di proteina) i valori medi di assorbanza dei campioni standard e si traccia la curva di calibrazione che deve passare per l’origine (0,0) e approssimare il più possibile i vari punti di misura.

Si calcola quindi la concentrazione delle proteine presenti in ciascun campione relativo alla purificazione in base all’assorbanza a 595 nm e alla curva di calibrazione. La quantità di proteine presenti nelle tre frazioni (A, B e C) si ottiene tenendo presente le diluizioni impiegate nella preparazione dei campioni usati per la colorazione ed i volumi originari delle tre frazioni (A, 15 ml; B, 10 ml; C, da misurare) .

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CURVA DI CALIBRAZIONE

Campione

Albumina (1 mg/ml)

Tampone KPi 300 mM Ph 7,2

Colorazione

con Bradford

A595

BIANCO

-

-

100 µl tampone + 5 ml Bradford

0

Albumina (1 mg/ml) - -

100 µl campione + 5 ml Bradford

(× 2)

………………..

……………….

media………..……

Albumina

(0,75 mg/ml) 3 ml 1 ml

100 µl campione + 5 ml Bradford

(× 2)

………………..

……………….

media………..……

Albumina (0,5 mg/ml) 2 ml 2 ml

100 µl campione + 5 ml Bradford

(× 2)

………………..

……………….

media………..……

Albumina 0,25 mg/ml) 1 ml 3 ml

100 µl campione + 5 ml Bradford

(× 2)

………………..

……………….

media………..……

40

ANALISI DEI CAMPIONI

Campione

Preparazione

Colorazione

con Bradford

A595

Concentr. proteine (mg/ml)

Quantità

Proteine * (mg)

A (diluito

1:10)

0,9 ml tampone 100 µl

campione

100 µl campione

+ 5 ml Bradford

(× 2)

………..

……….

media……….

……….…

……….…

B (diluito

1:10)

0,9 ml tampone 100 µl

campione

100 µl campione

+ 5 ml Bradford

(× 2)

………..

……….

media..……

……….…

……….…

C (diluito 1:5)

0,8 ml tampone 200 µl

campione

100 µl campione

+ 5 ml Bradford

(× 2)

………..

……….

media..……

………….

………….

*(la quantità proteica si calcola moltiplicando la concentrazione osservata per il volume di partenza)

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4. 3 PURIFICAZIONE DELLA SERINA IDROSSIMETILTRASFERASI (SHMT) 4.3.4 Analisi elettroforetica delle proteine

Lo scopo di questa esercitazione è quello di analizzare la composizione proteica dei campioni relativi ai passaggi di purificazione effettuati nelle esercitazioni precedenti, mediante elettroforesi su gel di poliacrilamide in presenza di sodio dodecil-solfato (SDS-PAGE). Brevi cenni teorici

L’elettroforesi è la tecnica mediante la quale è possibile ottenere la separazione di molecole in un campo elettrico in base alla loro mobilità. Quest’ultima è influenzata da:

• Forza del campo elettrico che promuove il movimento ionico; • carica netta della molecola per cui molecole cariche positivamente migrano verso l’anodo

mentre quelle cariche negativamente verso il catodo; • l’attrito generato dal mezzo di supporto; • la struttura della molecola.

Una delle tecniche che meglio si adattano ad una rapida valutazione dello stato di purezza di una preparazione proteica è l'elettroforesi su gel di poliacrilamide (PAGE). In questo tipo di elettroforesi, le proteine migrano attraverso le maglie del polimero, ottenuto dalla copolimerizzazione di acrilamide e N,N'-metilen-bis-acrilamide, quest'ultima utilizzata come reticolante della catene lineari. La reazione di polimerizzazione è una addizione vinilica di tipo radicalico. L'anione persolfato, o meglio il radicale libero che da questo si forma per via della sua decomposizione spontanea, viene utilizzato come "iniziatore della reazione a catena". Della N,N'-tetrametiletilendiamina (TEMED) viene aggiunta alla miscela di reazione in quanto agisce come stabilizzatore di radicali liberi. Catene polimeriche lineari sono legate trasversalmente da molecole di bis-acrilamide; le maglie formatesi in tal modo sono caratterizzate da una porosità dipendente dalla concentrazione del monomero, dal rapporto monomero-reticolante e dalle condizioni di reazione. La corsa elettroforetica che utilizza come supporto un gel di poliacrilammide può sfruttare condizioni denaturanti in cui mediante l’uso di un detergente anionico, come il sodio dodecil solfato (Na+ CH3-(CH2)10-CH2-O-SO3

-; SDS).), si ottiene la separazione delle proteine nelle loro catene polipeptidiche. Il campione proteico a cui è stato aggiunto SDS e 2-mercaptoetanolo viene riscaldato fino ad una temperatura di 100 °C e quindi sottoposto ad elettroforesi. In presenza di un campo elettrico, le proteine, precedentemente denaturate e solubilizzate in SDS, sono in grado di migrare attraverso le maglie del polimero di poliacrilamide in base alla loro massa. Ciò è possibile in quanto l’SDS si lega alle proteine denaturate secondo una stechiometria fissa, ricoprendole di uno strato di cariche negative e conferendogli una forma simile. Le proteine ricoperte dall’SDS hanno tutte lo stesso rapporto tra carica e massa e quindi nell’elettroforesi su gel di poliacrilammide si separano in base alle loro dimensioni. Una versione dell'SDS-PAGE con elevato potere di risoluzione, e quindi di generale applicazione nell'ambito delle proteine, è rappresentato da un sistema di tipo discontinuo (Fig. 14), con un gel di focalizzazione approssimativamente al 5% di acrilamide (pH 6,8) ed un gel di sviluppo di percentuale opportuna (10-20%; pH 8,8), in dipendenza dei pesi molecolari delle proteine da separare. Al termine dell'elettroforesi, che viene condotta in tampone a pH 8,3 contenente glicina, le proteine vengono innanzitutto denaturate e "fissate", per evitarne la diffusione nel gel, per precipitazione in acido acetico. La loro presenza all'interno della matrice porosa è messa in

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evidenza mediante delle reazioni colorimetriche. L'intensità di queste "bande" puo' essere utilizzata per una stima approssimata della quantità di proteina caricata sul gel. Uno dei coloranti più utilizzati è rappresentato da una soluzione di Coomassie Brilliant Blue. Questo reagente è in grado di legarsi alle catene proteiche mediante i gruppi cationici presenti sulla loro superficie. Eventuali catene oligosaccaridiche possono interferire, diminuendo la resa colorimetrica. Il colorante in eccesso viene infine rimosso mediante numerosi lavaggi del gel con soluzioni acide (Fig. 15).

Fig. 14

Fig. 15 Fotografia di un gel ottenuto tramite SDS PAGE a pH discontinuo e

successiva colorazione con Coomassie Brilliant Blue.

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Protocollo

1. Con un micropipettatore prelevare 15 µl di ogni campione (lisato batterico, campione dopo frazionamento con (NH4)2SO4 e dialisi, frazioni riunite della cromatografia su CM-sefarosio) e trasferirli in una provetta da 1,5 ml. Aggiungere 15 µl del tampone di solubilizzazione (allegato n.1). Chiudere la provetta , vorticare e bollire per due minuti circa.

2. Trasferire l'apparato elettroforetico nella camera elettroforetica. Aggiungere il tampone di

elettroforesi fino a copertura degli elettrodi.

3. Con un micropipettatore caricare il campione nel pozzetto preformato nel gel dell'elettroforesi, facendo attenzione a non trasbordare nel pozzetto successivo.

4. Chiudere l'apparato e attaccare i morsetti all'apparato elettroforetico facendo attenzione ai

poli. Attaccare l'altra estremità dei morsetti all'alimentatore e impostare il voltaggio a 200 mV. Attivare il potenziale elettrico e attendere lo sviluppo dell'elettroforesi fino a quando il marcatore colorato non abbia raggiunto l'estremità della lastra di poliacrilamide.

5. Spegnere l'alimentatore. Disassemblare l'apparato di elettroforesi e staccare il gel di

poliacrilamide dalle due lastre di vetro. Immergere il gel nel colorante e attendere circa 20 min. Trasferire il gel nel decolorante e attendere lo sviluppo del gel.

Allegato n.1 L'elettroforesi sarà realizzata utilizzando "minigel", ovvero gel preformati tra due lastre di vetro da 8 x 8 cm, con uno spaziatore di 0,75 mm, utilizzando tipici apparati elettroforetici (BioRad, mod. Protean II). Il gel di focalizzazione (gel superiore) è costituito da acrilamide al 5% in tampone Tris-HCl 125 mM, pH 6,8 e contenente SDS 0,1% (p/v). Il gel di sviluppo (gel inferiore) è costituito da acrilamide al 15% in tampone Tris-HCl 375 mM, pH 8,8 e contenente SDS 0,1% (p/v). La polimerizzazione dei gel è ottenuta chimicamente in presenza di persolfato di ammonio (0,08% p/v finale) e TEMED (0,1% finale). Circa 4 µg di campione proteico sono sciolte in un tampone Tris-HCl 25 mM, pH 6,8, contenente SDS 2% (w/v), 2-mercaptoetanolo 5%, glicerolo 10%, e Blue di bromofenolo (Serva) 0,05% (w/v) come marcatore colorato. La solubilizzazione viene completata bollendo il campione a circa 100 °C per pochi minuti. Le soluzioni proteiche sono quindi deposte in pozzetti preformati nel gel superiore. L'apparato elettroforetico così allestito è immerso in una soluzione elettrolitica contenente Tris-HCl 25 mM, pH 8,6, Glicina 192 mM e SDS 0,1% (w/v). Infine l'elettroforesi viene sviluppata a 200 V per circa 30 min. Alla fine della elettroforesi il gel viene rimosso dalla lastra di vetro e immerso in una soluzione di Blue Coomassie R 250 (Merk) 0,25% (w/v) in metanolo 50% e acido acetico 10%. Dopo circa 20 minuti di incubazione il colorante in eccesso viene allontanato dal gel per successivi lavaggi in una soluzione di metanolo 25% e acido acetico 7%. Tutti i reagenti utilizzati sono del tipo "electrophoresis grade" (BioRad).

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4. 3 PURIFICAZIONE DELLA SERINA IDROSSIMETILTRASFERASI (SHMT)

4.3.5 Saggi di attività enzimatica. Brevi cenni teorici

La serina idrossimetiltrasferasi (SHMT) catalizza il trasferimento del Cβ della serina al tetraidrofolato per formare glicina e 5,10-metilen tetraidrofolato. Questa reazione costituisce, in molti organismi, la fonte principale di unità monocarboniose. In vitro, in assenza di tetraidrofolato, l’enzima è tuttavia in grado di catalizzare anche reazioni di decarbossilazione, transaminazione, taglio retroaldolico e racemizzazione. In questa esercitazione sfrutteremo la capacità dell’SHMT di catalizzare la scissione dell’L-allo-treonina in glicina e acetaldeide. La velocità di formazione dei prodotti può essere misurata accoppiando questa reazione alla riduzione dell’acetaldeide ad alcol etilico da parte del NADH, catalizzata dall’alcol deidrogenasi (Fig. 16). Lo spettro di assorbimento del NADH presenta una banda con un massimo a 340 nm, assente nel NAD+ (Fig. 17). La velocità della reazione viene quindi calcolata in base alla variazione dell’assorbanza a 340 nm nel tempo, utilizzando il coefficiente di estinzione molare dell’NADH a 340 nm, pari a 6220 cm ‾ ¹· M ‾ ¹.

Figura 16. Reazioni accoppiate nel saggio di attività dell’SHMT.

Figura 17. Spettri di assorbimento del NAD+ e del NADH.

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Protocollo sperimentale Materiale a disposizione 6 cuvette “UV grade” per misure nell’ultravioletto; 1 pipetta da 1 ml; 1 propipetta di gomma; 1 provetta contenente la miscela di reazione per il saggio di attività: 1 calcolatrice; 1 matita. Procedimento:

Deporre 1 ml della miscela di reazione (contenente L-allo-treonina 12 mM, alcol deidrogenasi 0,06 mg/ml, NADH 0,12 mg/ml) in ogni cuvetta, utilizzando la pipetta e la propipetta. Andare allo spettrofotometro. Aggiungere 50 µl di campione A alla soluzione contenuta nella cuvetta; tappare la cuvetta con del parafilm, agitare per inversione ed avviare la misura; per i campioni B e C aggiungere 100 µl e procedere come per il campione A. Ogni misura viene effettuata in duplicato. Appuntare sulla tabella le velocità iniziali misurate in variazione di assorbenza a 340 nm al minuto. Convertire questa velocità in µM min-1 utilizzando il coefficiente di estinzione molare del NADH (coefficiente estinzione molare ε= 6220 M-1 cm-1

Campione Velocità iniziale (ΔA340 min-1) Velocità iniziale (µM min-1)

Per trasformare la Velocità iniziale da A340/min in µM/min utilizziamo la Legge di Lambert Beer:

A340/min = ε * [C]/min * 1 cm [C]/min = A340/min * 1/ε * cm-1 (il valore sarà espresso il M/min quindi per trasformarlo in µM/min moltiplicarlo per 106)