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CO ARS M news numero tre giugno 2013 Il chicco di grano... Entro la dura zolla che li serra Fradici i grani s’aprono sotterra; Ma l’uomo aspetta la stagion ventura: Sa che frutto non è senza dolore, Pensa che non risorge chi non muore, Vede ondeggiar la messe a mietitura Giulio Salvadori

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Il chicco di grano...Entro la dura zolla che li serraFradici i grani s’aprono sotterra;Ma l’uomo aspetta la stagion ventura:Sa che frutto non è senza dolore,Pensa che non risorge chi non muore, Vede ondeggiar la messe a mietitura

Giulio Salvadori

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Sommario

Editoriale: Il chicco di grano... 3

Conversazione con Fabio Palmieri: “Protagonisti del nostro lavoro” 4

Un grande scrittore descrive le nostre mense 6

Le regole di Rolando 8

Il mal d’Africa di Sandro 10

Educatore-tornitore 12

Una strada di nome “Giuliana” 13

La nuova barca di Gisella e Fabio 16

Con-prendimi 21

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Edito

rial

eCari amici,questo numero è dedicato al lavoro: certamente il lavoro possibile, il lavoro che resiste, il lavoro che manca, quello che resta, quello sconosciuto, quello quotidiano come il pane, quello di vivere all’altezza del desiderio.Cercavo il solito esergo del Salvadori per congedare questo numero. In partenza da Monte San Savino ricevo da Fabrizio, che ho visto per la prima volta ad una cena, un regalo assolutamente imprevedibile: una raccolta delle lettere del Nostro dal 1878 al 1928 e una piccola silloge di poesie scelte e commentate dal cardinale Giovanni Colombo.Tornando verso casa, a Porto Garibaldi c’è la solita coda di un’ora per via dei lidi: ne approfitto per farmi leggere da mia moglie qualche poesia e ci soffermiamo su “Il chicco di grano” che parla di quel lavoro invisibile che avviene entro la dura zolla.Mi viene alla mente il nostro piccolo seme, quello più semplice e oscuro, il lavoro con i bambini, i più piccoli, i più deboli, il seme di Giuliana seminato sotterra a Monte San Savino. Giulio ci ricorda che non v’è frutto senza dolore, che non risorge chi non muore. L’immagine finale della poesia, che andrebbe imparata a memoria nelle scuole non solo di Monte San Savino, è quella del compimento: la visione della festa, l’ondeggiar della messe portata a mietitura. Ecco, mi son detto, questi versi descrivono il nostro lavoro e sono giusti per questo numero nuovo di giugno, questo è anche il nostro programma. Se il chicco di grano non muore non può portare frutto. Per questo il chicco di grano è per noi l’immagine della vita che rinasce dalla terra, come nella formidabile deposizione caravaggesca la pianta del tasso barbasso che, appena sfiorata dal lenzuolo-sudario di Cristo, prende vita anche se si trova ancora sotto la lastra di marmo tombale. Perché il lavoro, ogni lavoro umano, è per la resurrezione.

Piergiorgio

Il chicco di grano...

Entro la dura zolla che li serraFradici i grani s’aprono sotterra;

Ma l’uomo aspetta la stagion ventura:Sa che frutto non è senza dolore,

Pensa che non risorge chi non muore, Vede ondeggiar la messe a mietitura

Giulio Salvadori

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Non una tecnicaci salveràma un io che si muove e che può esseresostenuto in unacompagnia vera,al di là di tutte le difficoltà non solo nel lavoro ma anche nella vita.

Conversazione con Fabio Palmieri: “Protagonisti del nostro lavoro” (Fabio Palmieri è presidente dell’Arca1 onlus che dà lavoro a circa 150 persone)

Perché volete parlare del lavoro nell’annuale festa dell’Arca?

L’idea di porre questa tematica per la nostra annuale festa dell’Arca nasce da una chiacchierata. Parlando con operatori nostri, è emersa una posizione rispetto alla propria condizione di lavoratori, e nei confronti della cooperativa.Spesso è una posizione passiva, senza la coscienza che anche nei lavori più semplici si gioca tutta la nostra umanità, il nostro io. Nella nostra attività rivolta alle

persone si può facilmente perdere la coscienza di essere protagonisti del proprio lavoro. Così scatta una sorta di delega, come si fosse al traino di qualcuno. Così s’è pensato che si potesse fare del momento della Festa dell’Arca un utile momento per ridire, prima di tutto a noi stessi, ciò che per noi è importante per vivere il proprio lavoro.

Con tutto quello che sta capitando nel mondo del lavoro che cosa vuol dire ripartire dal lavoro?

Non una tecnica ci salverà ma un io che si muove e che può essere sostenuto in una compagnia vera, al di là di tutte le difficoltà non solo nel lavoro ma anche nella vita. Molti chiedono colloqui per parlare di sé e raccontare i propri problemi, ma guai se nelle difficoltà della nostra vita personale e familiare non c’è una possibilità di rinnovare e riprendere un punto elementare di coscienza. La festa può rimettere a fuoco un posizione del genere, è un desiderio che personalmente mi sento di portare di fronte ai

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miei amici: le criticità magari non le superiamo, ma proviamo a starci da uomini, dentro alcune regole che ci siamo dati per aiutarci.

Che cosa allora è necessario in questo momento, quale è l’accento per affrontare i difficili tempi che stiamo vivendo?

La necessita più grande è un luogo dove potere prendere coscienza di ciascuno di noi e di chi lavora con noi. A me talora viene da dichiarare:“Non siete qui per caso, non è che al posto vostro potrebbero esserci altri. Ognuno porta qualcosa di positivo, di originale e irripetibile”.

Talvolta tutto questo è tradotto in formule, ma al fondo c’è il desiderio che quello che ciascuno fa sia importante. Allora occorre acquisire l’esperienza di ciò che uno fa, la consapevolezza

di ciò che si fa, e chi si è mentre si fa. Confrontandomi con loro condivido questa coscienza e solo così posso sostenerli. Loro mi si affidano in questo combattimento per mantenere desto quel punto di coscienza. Mi sento di dire che nel mio lavoro non può essere che ci si riduca al solo aspetto economico organizzativo, legato alle nostre capacità.

Ma voi siete a tutti gli effetti dei datori di lavoro, dove sta la differenza?

Dentro questo ci sta tutto il rapporto tra un datore di lavoro e un lavoratore. Ma quale è la differenza? Che cosa porto io? Il rapporto primario è con i nostri soci ... ma io sono chiamato ad andare oltre la risposta a un bisogno che non potrò mai esaurire. Cioè il nostro bisogno è più grande. Anche chi è andato via dalla nostra cooperativa di lavoro ha mantenuto una stima, ci ha riconosciuti come persone serie. E questo non è scontato.

C’è gente che è tornata perché la correttezza nei rapporti e la trasparenza sono stati elementi di differenza. C’è gente che se ne è andata dall’oggi al domani, ma poi è tornata a chiedere aiuto. Il rapporto che si cerca di instaurare con i soci è sempre teso a diventare, nel tempo, un rapporto umano.

Che momento state passando come gruppo?

Stiamo sostenendo senz’altro anche noi situazioni familiari di estrema fragilità, ma da noi non c’è più crisi che in altri settori. Occorre tuttavia tenerci al lavoro ed essere ancora più precisi e bravi, per dimostrare che val la pena lavorare con noi in questi servizi importanti per la persona. Si tratta di servizi che hanno a che fare con aspetti emotivi di sé da conoscere per vivere al meglio.Prima della festa faremo vari passaggi con i nostri collaboratori in modo che la festa possa essere dentro un percorso e ci si possa arrivare con una domanda aperta.

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Un grande scrittore descrive le nostre mense In quest’ultimo passaggio a Mon-te San Savino sono stato ospite delle mense di Bandallegra, di San Martino ed ho finito con una cena tra alcuni amici e Barbara, un’amica che ci ha aiutati a stare davanti al difficile momento socio economico del nostro paese …Pensavo che molte cose avven-gono a mensa: molte conoscen-ze, rapporti, l’educazione stes-sa, come ho potuto constatare quest’anno frequentando la pic-cola mensa dell’opera della mia città. Nel momento della mensa può passare un’attenzione particolare

alla persona: il grafico del posto che ti dice che ti stavano aspettan-do, l’ordine semplice delle stovi-glie, il colore del tovagliame, la pasta bianca piuttosto che rossa, l’aspettarsi reciprocamente prima di iniziare, la preghiera per ringra-ziare, il racconto di qualcuno che parla di sé, lo sparecchio agile e solerte con il contributo di tutti, il saluto finale. In un mondo che sta spazzando viva via molti utili riti, questo gioioso rito permane inal-terato e ancor più valorizzato nelle nostre comunità. La nostra è una storia che nasce a mensa, davanti a grasse vivande,

per questo m’è venuto alla mente il brano gustosissimo di uno scrit-tore: si tratta diGiovanni Papini,dimenticato quasi quanto il Sal-vadori, con il quale a mio avviso condivide la poetica delle cose semplici e grandi. Ho voluto com-mentare le foto di Gisella, cuoca di San Martino e Gianluca cuoco di Bandallegra trascrivendo, al-meno in parte, lo splendido testo tratto da ”La seconda nascita”.

“Due volte al giorno, colla scusa di contentar l’appetito, ricomponiamo il cerchio del nostro affetto; ritroviamo gli amati visi coll’agio necessario per confrontarli ai ricordi, per riconoscervi le tracce del sole, della fatica, della contentezza. Ai tempi di prima, mangiare in famiglia era per me un fastidio umiliante, quasi un supplizio. Le cosiddette necessità corporali sembravano una vergogna al mio idealismo grossolano che non sapeva ancora vedere, nel cuore stesso della materia, il mistico nido dello spirito. Oggi la tavola apparecchiata di

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bianco, colla pacata lucentezza dei piatti, lo scintillamento discreto dei bicchieri, la pulita solidità delle posate, l’onestà del buon pane, mi raffigura il quotidiano affratellarsi dell’uomo colla terra di cui è formato, il cielo cui è destinato... Anche al più semplice pasto del povero hanno dunque messo mano cielo e terra; e se appena la tavola si rallegra di qualche umile ricchezza tutte le parti del mondo ci mandano, come a Salomone, i loro tributi. Beati coloro che sanno immaginare l’invisibile e avvicinare le lontananze! Una tavola apparecchiata può divenire, come un testo sacro, un sistema di corrispondenze e d’allegorie. Posata in coppie di opposti si offre all’intelligenza una doppia trinità di simboli. L’acqua e il vino, l’olio e l’aceto, il sale e il pepe.

Compagni consueti eppur di natura contraria. L’acqua è la vena delle alture, il ricordo del battesimo degli innocenti; il vino il sangue di Cristo, il lusso delle colline, il delirio dei violenti. L’olio, limpido e amaro come le gioie dei santi, ci richiama la notte: le veglie dello studio e delle agonie, la lampada che risplende davanti agli altari nelle chiese taciturne e serrate. L’aceto è una corruzione stizzosa del vino e fu data ai labbri di Colui che aveva donato il puro vino delle sue vene, ma servì anche a curare le ferite del samaritano. Il sale è la luce mediterranea, il sapore degli oceani, la sacra ospitalità delle antiche famiglie. Il pepe, invece, ci porta i cattivi ardori dell’Asia, le polveri stimolanti dei deserti, il colore delle vipere. Queste sei sostanze si trasfigurano in uno ‘speculum mundi’ e la faccia della terra, l’abisso del mare, le opere e i lavori dell’uomo appaiono nell’umiltà di provveditori di questa gioia familiare e giornaliera...”

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Le regole di Rolando

“San Martino è luogo di storie di cambiamenti possibili sia per noi educatori, che per le famiglie che ci frequentano, e ovviamente per i ragazzi accolti … Storie di amicizia tra famiglie che si aprono all’accoglienza e diventano supporti per questi bambini e ragazzi.” Anche qui a tavola, mentre mangiamo con loro, si vive un momento importante di lavoro: c’è chi parla di sé, dei compiti di scuola, si condividono i crucci, le amicizie, le novità, ci si conosce in una dimensione più vera, più umana e gustosa.

“Cos’è San Martino? Un luogo dove diventare amici, dove la vita viene rilanciata e lo si vede dagli occhi. Io sto cominciando a capire che cosa vuol dire che l’altro è un bene, nella sua diversità da me, e questa è una esperienza elementare.

Chi siamo, quale è il nostro

bisogno, cosa ci rende felici? San Martino è un luogo di libertà nel senso più pieno e vero del termine, perché ciò che resta è sempre questa cosa misteriosa che è la libertà dell’altro e l’educazione comporta sempre un rischio, anche per questi ragazzi feriti. Anche per loro non è questione di regole, che pur ci sono e debbono esserci in una comunità, ma di una possibilità di ricominciare sempre, anche dopo gli errori: un posto dove tornare sempre perché c’è qualcuno che ti abbraccia, sempre …” Rolando cita un importante momento della formazione di quest’anno, l’incontro con il professor Mario Dupuis che a Padova ha dato vita, assieme ad alcune famiglie amiche, ad una comunità di accoglienza. “Mario ci ha ricordato che ciò che ci fa paura, perché ci sfida di più,

è la loro libertà: “Ma come, mi

ha detto di sì fino a ieri e oggi mi dice di no! Mi ha detto talmente di sì che neanche mi accorgevo che c’era, e adesso mi dice di no!”. E all’improvviso uno si accorge che ha davanti un altro, “altro da sé”. Perché la libertà è proprio andare in mare aperto. Per perdonare la trasgressione basta un grande amore, per stare davanti alla libertà non basta l’amore. Ci vuole, anche qui, tutta l’ampiezza dell’uso della ragione. Infatti, che cosa spiega la libertà? Perché siamo liberi? Perché l’altro è libertà? Questo non si può spiegare in altri modi se non con il riconoscimento di questa natura di cui l’uomo è fatto:l’uomo è fatto per vivere intensamente la verità della sua esistenza, ciò che gli corrisponde, ma questo passa attraverso

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una cosa misteriosa che è la sua libertà.”.Mi pare formidabile questa intuizione sia che si tratti di ragazzi che vivono in famiglia sia che si tratti di ragazzi che vivono in comunità, educatori e genitori. “A chi educa tocca l’imitazione di Dio: Lui ci lascia liberi, vuole il nostro amore incondizionato. L’energia educativa ci verrà allora dalla gratitudine per la pazienza che Dio ha avuto per me. Se uno si rende conto che Dio l’ha atteso per tutta la vita, non sarà impaziente nell’attendere l’altro. Occorre insegnare il bene che ci vuole Dio: qui si decide se uno è padre o padrone.”Non il livello delle regole “si può – non si può” ma il livello della coscienza che si ha di sé, che si ha delle persone. È un cammino lungo, faticoso, che passa attraverso fallimenti, apparenti

fallimenti. Senza il paragone con il cuore, la libertà è ridotta al potere di dire di sì o di no; invece, la maturità della libertà è dire “sì” a ciò che corrisponde al cuore... Finché non si usa il cuore la libertà è dire sì o no, mentre la libertà non ammette il no, ammette solo il “sì”.Noi abbiamo bisogno sempre di qualcuno che ci guarda in un modo più vero di quanto noi sappiamo guardare a noi stessi. È così che si libera di nuovo l’energia del cambiamento: è di fronte allo stupore di qualcuno che ti tratta non per quello che appari, che cominci ad usare la ragione di nuovo; e di fronte all’apparenza vai dentro, vuoi scoprire il tesoro nascosto, rimetti in moto la ragione, accetti la sfida della libertà, valorizzi

tutte le autorità e le situazioni che aiutano la persona a fiorire”.Mentre mangiamo assieme a questi ragazzi di diverse età, di diverse provenienze, li guardo in volto ad uno ad uno e penso al mistero della loro, della nostra libertà, di fronte al nostro comune destino … Sì, Rolando, anche a San Martino la regola non può che essere quella della libertà dei figli di Dio!

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Il mal d’Africadi Sandro“Lavoro con loro da sempre, da quando esiste la cooperativa, da oltre vent’anni.” Così esordisce Sandro, un attempato lavoratore che Adriano mi presenta quest’oggi per costru-ire la storia del lavoro in Comars con la cooperati-va di tipo “B“ COLAP.“Mi sono di-plomato perito agrario e poi feci una eserci-tazione in agri-coltura tropicale: piante non nostra-ne, piantagioni.Dopo il diploma andai in Somalia in una azienda di coltivazione delle banane. Fu il mio primo contatto con la povertà, ma lì ho comincia-to a riflettere sull’importanza dei rapporti umani. Rimasi là alcuni anni fino al colpo di stato nel ‘69 e poi tre anni ancora fino a sette anni complessivi. Rientrai come profugo, avrei potuto avere qual-che agevolazione, ma alla prima occasione sono ripartito per lo Zaire, attuale Congo. Ho visitato molti villaggi e ho visto in faccia la fame. Poi ancora fui alle Como-re isole francesi con un progetto della comunità europea. Il degra-

do del terreno era spaventoso, la-voravamo su pendenze incredibili su di una terra che franava verso il mare. C’era gente che si legava agli alberi per zappare la terra. La situazione sociale

era molto difficile: c’era il predominio di certe famiglie, la-tifondisti, e il popolo invece non aveva niente. La difesa del terre-no, del territorio era la possibilità per queste persone di sfamarsi. Sarebbe stato anche un paese ric-co perché provvisto di piante da essenza sfruttate dai francesi per la profumeria. Così rimasi fuori della mia nazione dal ‘65 al ‘78, in me prevaleva la curiosità, la vo-glia di sapere e di conoscere per-sone e territori. Lì ho appreso il valore delle piccole cose e dell’u-mana solidarietà: con la mia mac-china portavo all’ospedale donne

partorienti o feriti. E in questo servizio volontario che incrociava il mio lavoro ebbi davvero tanta soddisfazione. Sono rientrato che

ero 38 chili: avevo la malaria, la dissen-teria e il tifo. Mi ci vollero ben due anni per riprendermi. Mi sono sposato laggiù con una persona del Madagascar. Tornato in Italia ho cercato lavo-ro, mi sono ap-passionato alla salvaguardia dei nostri boschi e ho fondato un’ associazione di volontari an-tincendio ...”

Nell’‘88 incontra Fa-bio Valocchia, facendo volonta-riato e viene catturato dalla loro proposta e dal loro modo di af-frontare le difficoltà delle persone. Si trattava di costruire un gruppo capace di offrire lavoro a persone che diversamente non lo avrebbe-ro trovato. Il contatto con la realtà di queste persone svantaggiate non si capi-sce se non nel campo: si cominciarono esperienze di lavori semplici come pulizia, giardinag-gio, produzione di cabine doccia. Ci si rivolgeva a persone dai di-versi livelli intellettuali, persone dipendenti da alcool e droga.

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“Ci lavoro assieme, ci vuole molta pazienza, alla sera sono fuso a forza di ripetere le cose, ma c’è davvero tanta soddisfazione e somiglia senz’altro al lavoro che facevo prima.Anche qui si tratta di persone sem-plici, non subordinate al consumi-smo. Io cerco di non far pesare il fattore età, cerco di dare uno spiri-to giovanile in modo che mi consi-derino un coetaneo, un compagno di lavoro. Se posso li gratifico: “È andata bene dico loro, oppure hai perso la concentrazione, occorre che tu ritorni con la testa”.” Sandro ha imparato sul campo che cosa vuol dire lavorare assieme agli altri, correggendo (che vuol dire reggersi reciprocamente), sot-tolineando i successi precedenti, il positivo che sta sempre dietro ogni errore. È una figura autore-vole quella di cui hanno bisogno

questi ragazzi, ma accettare una autorità è difficile se non è un compagno, uno che ti sta a fianco e sperimenta assieme a te fatica e speranze. La chiusura del dialogo con San-dro mi stupisce: un colpo d’ala, una strambata, si direbbe in gergo marinaresco, che non ti aspettere-sti ma che dice dell’uomo e della compagnia in cui ha accettato di vivere. In tempi in cui tutti tirano i remi in barca e pensano di resta-re in porto con le vele ripiegate, quest’uomo sfida ancora il mare aperto, si augura le vele gonfie di vento, brama una meta lontana ma non irraggiungibile …“Nonostante i miei 71 anni mi sento utile e spiritualmente sarei pronto a ripartire per l’Africa, an-che domani!”

“Nonostante i miei 71 anni mi sento utile e spiritualmente sarei pronto a ripartire per l’Africa, anche domani!”

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Educatore-tornitoreLucio ha studiato per fare il tornitore, poi ha dovuto la-sciare per ragioni di salute ed è uscito dal mercato del lavoro per invalidità.

“Sono di Monte San Savino e co-noscevo Matteo. Mi ha chiamato a lavorare qui e mi ha rimesso in gioco quando oramai disperavo di essere ancora un lavoratore attivo. A 18 anni ho cominciato a lavora-re in una falegnameria, poi lavo-rai l’argento, feci il postino, il ba-rista, un paio di anni in vetreria, il tornitore per 12 anni, infine anche il ristoratore ...Poi più nulla e questa sentenza di una invalidità al cento per cento. Invece oggi sono qui e mi sento un uomo vivo. Il mio lavoro, qui alla comunità educativa di San Martino, consiste nel portare alcuni ragazzi a scuola,

a Camucia. Insomma faccio l’au-tista, poi vado a fare le spese, poi mangiamo assieme. Qui è diver-so da tutti gli altri ambienti. Alla mattina non ho più l’ansia di do-ver mettermi a cercare se c’è an-cora un lavoro adatto a me e sono più in pace con me stesso. Io non sono un educatore, ma capisco che devo prestare attenzione a questi ragazzi, ai loro comportamenti, ai loro umori.Sono agitati alla mattina in fur-gone e io tento di calmarli, cerco di rubare con gli occhi quello che fanno gli educatori e mi comporto di conseguenza.Marna e Rolando io li guardo: tre mesi che sono qui, per il poco che ci son stato, ho capito qualcosa e cerco di essere utile in quello che riesco ancora a fare.

Ho 46 anni non sono un bambino, ci sto bene qui dentro.Sono tranquillo, mi sono stabiliz-zato, mi è passata quell’agitazio-ne che mi corrodeva dentro. Sono sposato, ho due bambini Cristiano di 9 anni e Michele di 4 e mezzo. Monica, mia moglie, lavora in uno studio commerciale.Lei è contenta di come io sono ora: una armonia nuova.Ho fatto tesoro di quanto ho rea-lizzato in questi anni: è come se in questa esperienza ultima di lavoro si compendiasse tutto il mio pas-sato, tutte le piccole grandi espe-rienze di lavoro precedenti. È un bagaglio che mi porto ap-presso nella mia esperienza qui con voi, come se tutta la vita pre-cedente mi avesse formato per fare quello che faccio ora…”

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Una strada di nome “Giuliana”… La strada che porta alla nuova struttura educativa avrà il nome di una donna: Giuliana Ciuffoni Stan-ghini …La sua casa è al limitare di Monte San Savino, su-bito fuori le mura, come a custodia della città. È una bella casa con qualche ricercatezza nella co-struzione e alcuni particolari proprio pensati, come lo slargo di vetrata verso il cielo. Appena entrato mi colpisce una piccola nicchia illuminata a custo-dire il quadro di una azzurra Madonnina di Lourdes che deve avere una lunga storia. Nella sala, in cui prendiamo posto, campeggia un grande quadro fo-tografico: nonno Lino, presso un pozzo, centrale come una quercia, con tanti bambini appesi alle sue braccia. Mi pare che Lino possa portarne il peso, perché quei bambini (Tommaso, Giacomo, Pietro, Irene, Riccardo , Anna , Costanza, Rebecca) sono le sue fronde! Siamo a casa sua per parlare di lei, sua moglie Giuliana. Lui allarga il tavolo aggiungen-do una prolunga che ci consente di prendere posto tutti: i bei tavoli di un tempo s’allargano, se serve, perché la mensa sia senza confini, come il cuore … Dopo un po’ entrano due figli, Giorgio e Corrado, un pezzo d’uomo che Lino chiama cucciolo (mi vien da pensare che davvero per i genitori il tempo non passa mai ...). I figli guardano il babbo raccon-tare la vita di Giuliana con una dovizia di partico-lari che deve essere loro assolutamente nota, ma è come ascoltassero per la prima volta. È sempre così quando un racconto diventa memoria viva.Giuliana si era formata nell’Azione Cattolica, quel-la del “Bianco Padre che da Roma ci sei mèta luce e guida” che canticchiamo insieme. Da ragazza Giu-liana si dedica alla crescita spirituale delle bambine più piccole, mentre Lino seguiva i ragazzi.È schietta, capace di relazione, dedi-ta all’educazione e all’assistenza: di-venta subito il grande amore di Lino, l’amore dei vent’anni...quello dell’in-tera vita!

“Questa giovane ragazzatraduceva per me la grande spiritualità ricevuta nella nostra associazione. Mi ci vorrebbe una vita intera a descrivere la vita mia con Giuliana.”

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Io frequentavo ormai i cantieri e non potevo avere la sua stessa formazione. Lei frequentava non solo l’A.C., ma faceva assistenza agli anziani, Croce Rossa, San Vincenzo de Paoli e scuola per infer-mieri...” “Tra i nostri maestri di quell’epoca spicca un sacer-dote: siamo nel ‘49, io avevo 14 anni. Don Silvano ci vedeva tutte le settimane 2 o 3 volte, aveva una vocazione missionaria e tra le ragazze seguite c’era Giuliana. Ci seguì passo a passo nelle nostre scelte di vita e ci condusse fino al matrimonio. Certamente era deciso nei suoi consigli ma come lo abbiamo ringraziato! Cominciava l’epoca del consumismo e si consumavano gli oggetti, ma anche le idee e le persone si consumavano …Giuliana mi aiutò a superare anche la dura prova del servizio militare. Certo ci furono difficoltà perché lei era giovane e suo padre, che gestiva in paese un “Tabacchi” che vendeva un po’ di tutto, era molto possessivo con lei. Lui era partito militare nel ’39,

fu fatto prigioniero a Tobruk e fece ritorno nel ‘46. Giuliana era del ‘37 e aveva 9 anni quando il padre tornò. Presto i mio rapporto con i suoceri divenne un rapporto di grande fiducia e stima reciproca. A Giuliana piaceva lo studio del-la pedagogia e aveva cominciato a insegnare dalle suore Teresiane di Sant’Agostino. Con il primo stipendio mi regalò una cravatta bellissima che non so più dove sia finita ...Ci sposammo nel ’62, il 14 luglio, data della pre-sa della Bastiglia. Non manca un dolore all’inizio della nostra vita familiare: cadendo Giuliana perse il nostro primo figlio che portava ancora in grem-bo. Ne avemmo poi uno nel ‘64, nel ‘66 e l’ultimo nel ‘68: Giorgio, Maria Cristina e Corrado. Giorgio prende il nome da un mio maestro ingegnere che mi incoraggiò molto agli inizi del lavoro e aveva lavorato con il grande Nervi.

Nell’ ‘82 stava nascendo l’Arca, io seguivo la pal-lavolo poiché c’erano i nostri ragazzi, la polispor-tiva, i giochi della gioventù, dove ottenemmo la medaglia d’oro e la contentezza della mamma fu grande.” Sono storie di educazione e di vittorie educative quelle che racconta Lino con una precisione di memoria talvolta sorretta da quella dei figli, ma sempre impetuosa come un torrente in piena.

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“La passione di stare con i ragazzi mi fece rinfor-zare il nostro rapporto. Erano tempi difficili, co-minciavano anche qui ad Arezzo alcune devianze, in particolare la droga … Il primo ad essere educato sono stato io da lei, ma senza discorsi, testa bassa e via avanti...Cominciò con Don Severino, “sotto il chiostro”, un momento di caritativa ed alcuni giovani, (Gra-zia, Giuliana M., Andrea, Lucia e altri) iniziarono quell’attenzione ai disabili che poco dopo assunse una forma più stabile: si unirono altri giovani coe-tanei per aiutarli nelle attività. “ E qui è una corona di nomi che il vostro cronista non riesce ad anno-tare tutti. Questo momento di aiuto e sostegno edu-cativo divenne una cosa grande, sempre più coin-volgente, fu allora che si pensò a un’associazione, “l’Arca” e Giuliana ne divenne il primo presidente. Era una persona di grande realismo, impegnata anche nella Democrazia Cristiana, consigliere comunale e ca-pogruppo negli anni 75/80.Combatté allora una strenua battaglia contro quella tendenza dissacrante che aveva cominciato ad en-trare anche nel sistema educativo. I giudizi che dava erano molto pertinenti, una continua difesa della realtà e della positività. Combattente per la dignità degli studenti perché tutti potessero avere pari di-gnità e diritti. “Poi insieme alla Cinzia iniziò il doposcuola, e i ragazzi venivano anche qui a casa perché furono rifiutate le strutture scolastiche. Si cominciò ad affrontare e combattere il disagio scolastico...L’ultimo anno dell’insegnamento Giuliana fu operata alle valvole cardiache; appena si sentì forte tornò a scuola e chiuse con la quinta nel ‘91.

Nel ‘92 iniziarono a sposarsi i figli e poi, dal ‘93, cominciarono a nascere i nipoti: lei si diede da fare molto per loro ed anche con i miei vecchi genitori. Il 14 luglio del 2000, giorno del nostro anniversario, dovevo andare a Milano per lavoro e lei venne con me come per una breve vacanza, ma voleva tornare a casa presto per i figli, per i nipoti, aveva sempre qualcosa da fare, da preparare …La ricordo con la sua zappetta a sistemare il giardino perché aveva una grande cura dei particolari, delle piccole cose, delle creature … Anche quel giorno era uscita in giardino: “ Vado a pigliare un po’ d’aria. Non è niente. Mi passa, mi passa.”. Quando la raggiunsi in ospedale disse due parole: “Va bene, ora...”. Tuttora trovo il suo materiale di lavoro, le sue tracce, le sue interviste ai ragazzi che manifestano un’attenzione stupita alle loro vite, le filmine da far vedere, un patrimonio di umanità di una persona che aveva una coscienza piena di quell’Avvenimento che aveva preso la sua vita.Il nostro non è stato un ambiente socialmente e politicamente facile: non si riusciva neppur ad uscire con la processione alle Vertighe perché … era strada comunale! Ma la croce non la si può eliminare, la croce è anche quella in terra (e indica un interstizio tra le piastrelle). Cancellala se ci riesci!”No, Lino, la croce non si può più cancellare neppure a Monte San Savino, perché “i muri sono appesi alla croce …”.

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La nuova barca di Gi-sella e FabioCon Gisella e Fabio ci troviamo in un ufficio della vecchia storica sede di Monte San Savino a par-lare di progetti prossimi venturi e in particolare di uno che sta cre-scendo, anche visivamente, nella spianata sotto il monte. Si tratta di una palazzina con un ampio porti-cato d’ingresso, come due braccia aperte ad accogliere nella sua sti-va, ormai arrivata agli impianti e che potrà essere inaugurata dopo

le vacanze estive. Siamo andati a vedere con Adria-no che ci ha spiegato ad occhi chiusi, come fa il maestro d’ascia quando racconta la fine dei lavori sulla barca, immaginando al loro posto tutti i membri dell’equipag-gio già in navigazione. Ho catturato alcune immagini, come quadri incorniciati dalla pie-tra serena dei davanzali, in cui si vede la strada tra il verde che prenderà il nome di Giuliana. Gisella e Fabio mi raccontano il lavoro di questi ultimi trepidan-ti mesi, il progetto, le difficoltà e gli avanzamenti. “Che accoppia-ta questi due!” penso, mentre mi parlano con uno stile che devono aver affinato nella lunga convi-venza coniugale: Fabio, irruento, fantasioso, un po’ ciclonico, con il pensiero che anticipa e soverchia la parola, lei paziente tessitrice, ri-prende e ricuce, finalizza gli assist del marito, sa attendere, coglie le sfumature. Si parla del pian terreno che avrà una destinazione diurna per 25 posti destinati ai ragazzi di Ban-dallegra, della cucina ampia e fun-zionale. Me ne parlano come fosse casa loro, una casa comune dove si svolgerà la loro vita. Mi dicono anche lo stile con cui hanno seguito passo passo la na-

scita della creatura, la cura dei particolari, seguendo ogni cosa con amore, valutandone la spesa, l’utilità e la bellezza. Per questo ci voleva l’occhio vigile di una donna, della Gisella appunto, che ha lavorato a stretto contatto con il geometra che ha progettato la palazzina. Avverto, nel modo in cui ne parlano, che questa palazzina sarà ben di più che il loro luogo di lavoro; mi viene alla mente il modo di considerare il lavoro di una volta, dei cantieri di barche del mio paese o dello studio di mio padre in cui passava ore a leggere

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e scrivere, a sentire musica e vedere dalla finestra i cambiamenti del tempo … Poi c’è il primo piano che sarà diviso con pareti attrezzate che consentiranno di assegnare un ambiente di lavoro a ciascuno. Il geometra Franco deve essere un bel tipo se ha avuto la pazienza di capire e camminare con loro che non sono decisamente un soggetto semplice (e qui Gisella sorride), ma li conosceva già per aver ristrutturato altri ambienti del loro gruppo. Non hanno scelto la strada del “chiavi in mano” che sarebbe venuta a costare di più e li avrebbe tenuti fuori dal progres-sivo crescere del manufatto. “È il compimento del nostro desiderio di avere finalmente una casa no-stra, dopo decenni di lavoro e di precarietà. Gli affitti da noi a quei

tempi erano carissimi e l’acqui-sto si manifestava impossibile. Poi c’è stata l’occasione di questo terreno destinato a strutture socio assistenziali e lo si è preso. Nel tempo questo passo ci ha dato ra-gione. Volevamo avere qualcosa di nostro che facesse riferimento all’associazione dell’Arca, una visibilità, una casa insomma dove riconoscere il volto di una fami-glia che ha camminato e continua a camminare. Un’impresa così nasce dalla condivisone con tan-ti, ma principalmente con Anna e

con Aldo. Non era facile arrivare a questa scelta sofferta, anche sul-le finalità di questa struttura c’è stato tra noi un dibattito, ma poi è stata la realtà che ha parlato e ci ha condotto alla decisione.Ci sono stati anche degli amici sacerdoti in questa avventura dell’Arca: Don Severino che era nel consiglio fino a qualche anno fa, Don Valtere che gli è succeduto. Tutto questo è nato dentro una stima e un sano realismo: siamo noi esposti, Gisella è la geometra aggiunta, ma è una cosa condivisa con molti. Ci sarà poi soprattutto una grande e bella sala riunioni, un luogo per tutti, per i momenti dei nostri incontri, per aprire ancora di più alla nostra città il tesoro incontrato in questi anni.

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Resistenze emotive a lasciare il centro del paese ce ne sono e sono comprensibili. Alla gente dispiace che noi si lasci la nostra sede storica, affettivamente ci può essere difficoltà a scendere dal Monte perche quassù stavamo bene e abbiamo condiviso un pezzo di storia di questo paese. A Giugno c’è il desiderio di fare questa festa sul lavo-ro che è quella dimensione che ci prende di più come persona, il che vuol dire che vogliamo mettere a tema noi stessi, come abbiamo già fatto nella nostra gita a Siena. Lì davanti al “Buon Governo”, il capolavoro del Lorenzetti, abbiamo intuito che si può essere lieti anche nel lavoro, che lo si può vivere insomma non come dannazione ma come spazio di realizzazione del tuo io nella convivenza con altri uomini. Non vogliamo fare un momento di analisi socio-politiche

come fanno troppi in questo momento storico, ma un momento di testimonianza in cui raccontare, come saremo capaci, la nostra modalità di affronto quoti-diano del lavoro, coinvolgendo in questo sguardo chi sta con noi. Un momento insomma in cui dire di sé, raccontare quest’opera delle nostre mani e del nostro cuore. In questo tutti, anche i più semplici tra noi sa-ranno chiamati, secondo la propria espressività a rac-contarsi. È giusto che tutti possano restituire quanto di bello, di giusto, di buono è capitato alla loro vita.” La barca dunque sta per essere terminata, il varo è ormai prossimo, ma già ora, basta guardare con l’oc-chio giusto, la si vede in mare aperto, si avverte il vento tra i capelli, il cigolio dell’albero in tensione, lo sciacquio dell’acqua sullo scafo forte.

Buon vento, amici!

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Con-prendimiSta giungendo a conclusione, per il secondo anno consecutivo, l’a-zione psicopedagogica degli ope-ratori della Cooperativa sociale “L’Approdo” (Chioggia-Venezia), nelle scuole dell’infanzia dell’Isti-tuto Comprensivo di Monte San Savino: Fantasia, Pinocchio, Il Laboratorio. Il percorso, messo a punto e facilitato nei rapporti ter-ritoriali grazie alla collaborazione di Comars, ha coinvolto i bambini dell’ultimo anno pronti ad entra-re, a settembre, nella prima classe della scuola primaria. Si è svolta lungo tutto l’anno un’azione inte-grata che ha portato, mediante la somministrazione di questionari osservativi da parte delle inse-gnanti e approfondimenti specifi-ci da parte dell’équipe de “L’Ap-prodo”, ad individuare difficoltà nell’acquisizione di prerequisiti

dell’apprendimento, indispensa-bili per affrontare serenamente gli apprendimenti di base nel succes-sivo anno scolastico. L’importante lavoro di potenziamento attuato dalle insegnanti con la supervisio-ne degli esperti della cooperativa, ha permesso di rafforzare i prere-quisiti di lettura, scrittura, calcolo, attraverso attività mirate, pensate e costruite ad hoc, per risponde-re alle esigenze di ciascuno. At-traverso giochi fonologici, meta fonologici, riflessioni e confronti quantitativi, narrazione ed espo-sizione, attività di coordinazio-ne oculo-manuale, le insegnanti hanno potuto far fronte alle prime difficoltà incontrate dai bambini rinforzando, adeguatamente, i pre-requisiti, nell’ottica di un’azione preventiva di possibili difficoltà di apprendimento. Le insegnanti

hanno accolto con entusiasmo il percorso proposto, in quanto ne hanno riconosciuto la validità e l’efficacia. I bambini, hanno vis-suto serenamente e da protagonisti questo percorso, dando il meglio di sé, pronti a rispondere e a dimo-strare tutte le loro competenze con orgoglio ed entusiasmo. Ringraziamo tutte le insegnan-ti coinvolte nel percorso, in pri-mis la referente, Signora Stefania Meucci, per la disponibilità, la fiducia accordataci e la prontezza nel rispondere alle esigenze orga-nizzative. Un ringraziamento ai piccoli bim-bi toscani, che tra una battuta, una “c” aspirata e 100 domande, ci hanno accolto con grande familia-rità.

Dottoressa Silvia Girardi

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HOTEL LOGGE DEI MERCANTICorso Sangallo 40/4252048 Monte San Savino (AR)Tel: 0575/810710 Fax: 0575/[email protected]

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L’hotel Logge dei Mercanti è un antico palazzo del Milleseicento che un tempo costituì la vec-chia farmacia del borgo. Le 13 camere, una diversa dall’altra per decori e rifiniture, con travi a vista oppure impreziosite da antichi affreschi, propongono un’atmosfera di grande pregio ed eleganza grazie all’arredamento d’epoca che si sposa con elementi moderni e funzionali. La sala delle colazioni si trova sotto il livello stradale in un suggestivo contesto medievale.

Rivivi la magica atmosfera medievale della Giostra del Saracino ad Arezzo

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Il Centro diurno “L’Arca”, gestito dalla Coope-rativa Sociale “L’Arca1”, con oltre vent’anni di esperienza, accoglie persone diversamente abili. Ogni ragazzo viene seguito da un’équipe di edu-catori che propongono interventi educativi indi-viduali, tesi a mantenere, aumentare o far nascere ex novo capacità ed autonomie importanti.Di particolare rilevanza è l’attività teatrale che, attiva ormai da più di dieci anni, ha portato alla costituzione di una compagnia di teatro stabile chiamata “StrAbilia”, formata dai nostri ospi-ti uniti ad altri soggetti diversamente abili del territorio aretino, a bambini e ragazzi di “Bandal-legra” e “Bandamedie” (servizi gestiti dall’Asso-ciazione “L’Arca”). Altra importante attività del Centro è quella ar-tigianale con svariati lavori di decoupage e carta riciclata. Nell’ultimo anno è iniziata la produzio-ne di quadri con materiale di riciclo.

San Martino accoglie fino ad un massimo di 12 minori di entrambi i sessi temporaneamente impossibilitati a permanere nel nucleo familiare. L’affidamento dei minori alla comunità avviene attraverso il Tribunale per i Minori e i Servizi Sociali dei Comuni di appartenenza.La Comunità è nata nel 2006 (14 luglio)Responsabile: Rolando [email protected]

tel / fax 057597494

5x1000“L’Arca è un’Associazione ONLUS (organiz-zazione non lucrativa di utilità sociale) e per questo può usufruire del 5 per mille. È una pro-cedura molto semplice: in sede di dichiarazio-ne dei redditi (qualsiasi sia il modello che usa-te) potete mettere la vostra firma e il nostro codice fiscale 01003500517 nello spazio dedicato al 5 per mille.Una piccola parte delle tasse che pagate an-dranno - direttamente! - all’Arca. Vi sembrapoco? No, per noi è tantissimo, perché tante gocce formano il mare e noi abbiamo un ocea-

no di bisogni! È importante far sapere di questa possibilità anche a parenti e amici, date loro il nostro codice fiscale. Il meccanismo del 5 per mille funziona esattamente come l’8 per mille: insomma potete firmare sia per l’uno che per l’altro senza problemi.Ecco un modo semplice, bello e gratuito, per aiutarci. Attraverso il 5x1000 sosteniamo le nostre opere come “Bandallegra”, il Centro Diurno per i ragazzi disabili e la Comunità Educativa San Martino che accoglie bambini e ragazzi in difficoltà.

L’Arca

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IL CENTRO POLIFUNZIONALER.A. “G. CIAPI” Il Centro Polifunzionale è ubicato a Monte San Savino, in via Ciapi n.11. I posti complessivi sono 25, destinati esclusivamente ad anziani ed inabili autosufficienti, oltre a 6 posti autorizzati per il Centro Diurno. Il Centro Polifunzionale è gestito dal mese di luglio del 2011 e fino a giugno 2016, dal Consorzio Sociale COMARS onlus di Monte San Savino. L’équipe di lavoro è così composta:1 Responsabile di Struttura, 1 Infermiere Professionale, 1 Terapista della Riabilitazione,1 Animatore, 5 Addetti all’Assistenza di base, 2 Cuoche, 4 Addetti ai Servizi Generali.

Centro Polifunzionale CiapiVia Ciapi n. 1152048 Monte San Savino (AR)Tel. e fax 0575/844893

Per reclami e suggerimenti -Ufficio QualitàConsorzio Sociale COMARS onlusVia Sansovino, 28 - 52048 Monte San Savino (AR)Tel. 0575/844161 0575/844364 fax 0575/844550Rif. Adriano Di Sisto - e.mail: [email protected]

RESIDENZA PSICHIATRICA VILLANOVALa residenza pschiatrica Villanova è gestita dal Comars dal 1° luglio 2000, può ospitare in regime residenziale 14 persone di entrambi i sessi. Fino ad oggi ha ospitato 55 persone, quasi tutte con disturbi psicotici gravi e qualche ragazzo/a con disturbi di personalità. Attualmente conta 13 ospiti (2 donne e 11uomini di età media 40/50 anni) quasi tutti seguiti da servizi delle USL umbre. Il Coordinatore è Stefano Tusino

[email protected] - 3289555749 tel. e fax di Villanova 0758757003.

 

CO.LA.P.CooperativaSociale Tipo B

CO.LA.P.La cooperativa sociale CO.LA.P Onlus è una cooperativa di tipo B impegnata da più di 15 anni nell’ inserimento lavorativo di persone in difficoltà. Nasce per rispondere al bisogno di integrazione sociale e lavorativa di persone in situazione di disagio e per offrire opportunità di lavoro stabile per i propri soci. COLAP collabora con aziende pubbliche e private occupandosi di pulizie civili ed industriali, piccole manutenzioni, giardinaggio, trasporti sociali e di ogni altra attività utile allo scopo di proporre percorsi di inserimento e offrire occupazione ai propri soci. Tra queste ultime la recente scommessa riguarda la gestione dell’HOTEL LOGGE DEI MERCANTI in Monte San Savino. Riferimento: Matteo Valocchia Sede: Via Sansovino, 28 – 52048 Monte San SavinoE-mail: [email protected] Sito web: www.comars.org Tel. 0575/844364 – Fax 0575/844550

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CO ARSM

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Telefono 0575844364 - 0575844161Fax 0575844550E-mail [email protected]

Consorzio Sociale