come ogni rivista che si rispetti anche la nostra proporrà dei numeri · 2018-12-07 · auguriamo...

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Caro studente o sconosciuto internauta,

Come ogni rivista che si rispetti anche la nostra proporrà dei numeri

speciali. Il loro contenuto non è farina del nostro sacco, ma come da

migliore tradizione corsara, esso è frutto del nostro saccheggio. Ci

auguriamo che il perdono di Dio e degli uomini per questa nostra azione

non tardi. Come sola giustificazione la nostra natura di corsari-

gentiluomini, che ci impedisce di trarre ogni lucro da quanto fatto.

Questo primo special è dedicato alle memorie dei Santi Pietro e

Paolo custodite nella Città di Roma. Come Roma ha reso

grande il mondo antico, così il cristianesimo, attraverso la presenza di

Pietro e Paolo, ne ha suggellato il titolo di Città Eterna

Venite post nobis

La mostra dedicata agli apostoli Pietro e Paolo, nell'anno giubilare che segna l'inizio del terzo millennio cristiano, intende puntare l'attenzione alle origini della storia che segna la centralità della chiesa di Roma. A essa, sin dagli inizi, le comunità cristiane hanno guardato come al proprio punto di riferimento, perché in essa avevano dato la testimonianza del sangue gli apostoli Pietro e Paolo. L'uno per aver ricevuto il mandato da Cristo risorto (Mt. 16, 19); l'altro per essere l'Apostolo delle Genti, costituiscono "le colonne" della Chiesa, ne attestano l'unico fondamento, che è Cristo, ne indicano l'universalità. I luoghi della memoria vennero segnalati sin dalle prime generazioni cristiane come

patrimonio di riferimento e di irradiazione per la vita di tutta la Chiesa; il pellegrinare presso quei luoghi venne vissuto come evento privilegiato di un rapporto vivo ed efficace con coloro che più da vicino avevano seguito e testimoniato Cristo. Nel rapporto familiare con gli apostoli, il popolo cristiano ha cercato, conservato, custodito segni e tradizioni il cui significato possiamo comprendere attraverso i resti materiali e le fonti scritte, nel loro inesauribile intreccio di immagini e richiami. A Roma, per la percezione della continuità viva del ministero di Pietro attraverso il suo successore, è continuato attraverso tutti i secoli l'itinerario della fede e della conversione.

Sin dalla metà del I secolo a.c. si hanno testimonianze sulla consistenza della comunità giudaica presente a Roma: Cicerone allude a una "moltitudine di Giudei" (Pro Flacco 28). Frequenti legazioni inviate dalla Giudea a Roma e attività commerciali ne determinarono l'origine e lo sviluppo. Vi si aggiunsero i prigionieri tratti a Roma dalle campagne militari e certamente vi affluirono, da varie provenienze, ebrei della diaspora. Dalle iscrizioni ritrovate in diversi cimiteri romani, si ha notizia di ben tredici sinagoghe e si ha ragione di pensare che il termine indicasse, più che il luogo di culto, diverse comunità che si riconoscevano dal nome del loro protettore. Giulio Cesare fu amico dei giudei e lo furono personaggi della famiglia di Augusto, nonché Poppea, potente alla corte di Nerone e poi sua moglie. Ma al tempo di questo imperatore (54-68), il filosofo Seneca -critico severo della vita di corte -scriveva con poca simpatia delle osservanze giudaiche, soprattutto di quella del sabato (De superstitione, di cui parla Agostino nel libro VI della Città di Dio). Intorno alla metà del I secolo si calcola che i giudei residenti in Italia, ma concentrati principalmente a Roma, potessero essere tra trentamila e sessanta mila .

Gli imperatori Tiberio e Claudio furono loro tutt’altro che favorevoli, secondo le notizie che abbiamo dallo storico Svetonio, Quest’ultimo, in particolare, narra nella sua Vita dell’Imperatore Claudio (25,4), che nell’anno 49 il sovrano espulse da Roma i Giudei a causa di agitazioni venutesi a creare nel loro ambiente. Aggiunge inoltre che si trattava di disordini nati a causa di un personaggio di nome Chrestos. Interpretando questo nome come una deformazione di Christos, la notizia è stata considerata spesso come l'indicazione più antica della diffusione a Roma del messaggio cristiano, per mezzo di comunicazione spontanea, inizialmente, nell'ambiente della comunità giudaica. Interpretazioni diversificate del messaggio evangelico avrebbero generato divergenze e conseguenti disordini. Ma, in assenza di altri riscontri, questa particolare notizia è da considerare generica. In testi da non intendere come cronache, ma tuttavia indicativi dell'universalità del messaggio cristiano, si possono rintracciare alcuni indizi riguardo alle prime adesioni al Vangelo: tra i giudei e proseliti provenienti da molte regioni dell'impero e presen ti a Gerusalemme il giorno di Pentecoste,

quando Pietro pronunciò il suo discorso e si ebbero le prime conversioni, gli Atti degli Apostoli segnalano anche "forestieri romani" (Atti 2, 10). Si può intravedere l'avvio della prima diffusione del cristianesimo: attraverso la mobilità tra le province e la capitale, i primi recettori dell'annuncio evangelico ne divennero i comunicatori, anche se in forma incipiente, nell'ambiente dei giudei e dei proseliti. Dagli Atti degli Apostoli conosciamo inoltre Aquila, un giudeo giunto a Corinto dall'Italia, con sua moglie Priscilla, in seguito al decreto di espulsione dei giudei da Roma emanato dall'imperatore Claudio (49). Presso di loro, a Corinto, abitò e lavorò Paolo (Atti 18,2-3). Si può pensare a un loro successivo ritorno a Roma e alla loro testimonianza come cristiani nella capitale (cfr. Rom. 16,3). Nel Nuovo Testamento, d'altra parte, non mancano indizi di adesione a Cristo anche da parte di personaggi chiaramente provenienti dal paganesimo e protagonisti di mobilità tra le province e Roma, in ragione del loro lavoro: si pensi a episodi, di carattere emblematico, come quello del centurione che, dopo avere assistito ai momenti drammatici della morte di Gesù in croce, esclamò: "Veramente quest'uomo era il Figlio di Dio!" (Mc. 15, 39); e al racconto degli Atti degli Apostoli riguardo al centurione Cornelio, della coorte italica di stanza a Cesarea di Palestina: egli, "uomo giusto e timorato di Dio", si rivolge a Pietro per essere istruito insieme ai suoi familiari e ai suoi amici, e dall'apostolo riceve il battesimo (Atti 10, 1-48). l cristiani a Roma intorno al 56 "La fama della vostra fede si espande in tutto il mondo" Con queste parole, all'inizio della Lettera ai. Romani O, 8), l'apostolo Paolo si rivolge ai cristiani di Roma verso il 56-57 ed esprime il desiderio -che più volte gli è stato difficile realizzare -di recarsi presso di loro per comunicare i doni spirituali

ricevuti, per la reciproca edificazione nella fede e per estendere l'annuncio del Vangelo (Rom. 1,10-14). La comunità cristiana di Roma, a quella data, è pertanto già consistente e viva anche se bisognosa di essere fortificata dall' insegnamento dell'apostolo (cfr. Rom. 1,11). Paolo, tuttavia, non riuscì ancora a realizzare il suo desiderio. A Roma egli giunse solo durante la primavera del 61, nella condizione di prigioniero, condottovi dopo l'arresto avendo egli chiesto di avvalersi del diritto di essere giudicato nella capitale in qualità di cittadino romano (cfr. Atti 28, 19). A Roma la comunità giudaica, dopo l'espulsione del 49, si era ricostituita rapidamente, e sono i giudei coloro a cui per primi si rivolge Paolo, così come aveva sempre fatto in ogni tappa delle sue missioni. Dopo appena tre giorni dal suo arrivo nella capitale, l'apostolo -in condizione di "arresti domiciliari" e in attesa di giudizio -convocò i più in vista tra i giudei (Atti 28, l7): "Fissatogli un giorno, vennero in molti da lui nel suo alloggio; egli dal mattino alla sera espose loro accuratamente, rendendo la sua testimonianza, il regno di Dio, cercando di convincerli riguardo a Gesù, in base alla Legge di Mosè e ai Profeti. Alcuni aderirono alle cose da lui dette, ma altri non vollero credere e se ne andavano discordi tra loro" (Atti 28, 23-25).

Apostolo San Pietro, dittico di Pietro e Paolo, legno dipinto, III-IV sec d.c., da San Giovanni in Laterano, Cappella del Sancta Sanctorum, Roma,

Fronte di sarcofago con vittorie, geni stagionali e “menorah” Fine del III-inizi IV secolo. Marmo bianco 69x126x6 cm Roma, Museo Nazionale Romano

Vetro dorato

con decorazione giudaica IV

secolo Vetro (fondo

verdastro, piede incolore) e

foglia d'oro, h 0,5 cm (max), Ø

11 cm max) Città del

Vaticano, Musei Vaticani

Lapide sepolcrale di "Calevius" 400, Marmo grigio venato a grana fine, 24,7 x 25 x 3 cm Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, Museo Lapidario

L'arrivo di Paolo a Roma Gli Atti degli Apostoli ci narrano in dettaglio il viaggio di Paolo da Cesarea di Palestina a Roma (capp. 27-28). L'ultima tappa si compie da Pozzuoli alla capitale; prima di giungervi, egli riceve una duplice gradita accoglienza: "l fratelli di Roma, avendo avuto notizie di noi, ci vennero incontro fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne. Paolo, al vederli, rese grazie a Dio e prese coraggio. Arrivati a Roma, fu concesso a Paolo di abitare per suo conto con un soldato di guardia" (Atti 28,15-16). Le località nominate lungo il percorso della via Appia sono di difficile localizzazione. L'ingresso a Roma avvenne attraverso la Porta Capena, oggi San Sebastiano. Paolo ai cristiani di Roma perché non vi sia alcuna divisione nella Chiesa "Ciascuno di noi cerchi di compiacere il prossimo nel bene, per edificarlo. Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso... Ora, tutto ciò che è stato scritto prima dì noi, è stato scritto

per nostra istruzione perché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la nostra speranza. E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti ad esempio di Cristo Gesù, perché con un solo animo e una voce sola rendiate gloria a Dio Padre del Signore nostro Gesù Cristo. Accoglietevi perciò gli uni gli altri come Cristo accolse voi, per la gloria di Dio. Dico infatti che Cristo si è fatto servitore dei circoncisi in favore della veracità di Dio, per compiere le promesse dei padri; le nazioni pagane invece glorificano Dio per la sua misericordia, come sta scritto: 'Per questo ti celebrerò tra le nazioni pagane e canterò inni al tuo nome' [salmo 18, 50]. E ancora: ‘Rallegratevi, o nazioni, insieme al suo popolo’ [Deuteron. 1. 32,43]; (Rom. 15, 2-10)

In quest'epoca cambia la religiosità tradizionale pagana, sentita come insufficiente a rispondere alle domande religiose ed esistenziali dei fedeli. Parallelamente allo scetticismo filosofico delle classi alte si diffondono i culti misterici, cioè praticati da iniziati, spesso di provenienza orientale, come per esempio il culto di Iside e di Serapide dall'Egitto, quello di Cibele dall'Asia Minore, quello del Sole Invitto dalla Siria, quello di Mitra con radici persiane. Si assiste a una sorta di sperimentalismo religioso che tende a unire divinità differenti in una stessa figura, a conferire a una divinità titoli e attributi caratteristici di altre, ad associare culti originariamente senza rapporto. In termini tecnici tutto ciò si definisce "sincretismo". Questa spiritualità viene anche teorizzata: alla fine del IV secolo Simmaco, leader dei senatori pagani, sostiene che la ragione non può riconoscere il vero Dio e che quindi "non si può giungere per una soIa via a un così profondo mistero". È un'implicita polemica con i cristiani, che si richiamano invece alla Rivelazione e che considerano Cristo unica via (Gv. 14,6). A

livello più popolare, l'inquietudine spirituale si mostra anche nella maggiore frequenza del ricorso agli amuleti, che talvolta uniscono al repertorio simbolico pagano anche elementi di origine ebraica o cristiana. Nello stesso periodo nasce una letteratura che, partendo da personaggi storici, come Apollonio di Thyana e Apuleio, li trasforma in personaggi mitici, in maghi-filosofi e in "santoni" pagani autori di miracoli, talvolta in contrapposizione con Cristo. Anche nell'arte funeraria si colgono riflessi di queste tendenze: guadagnano fortuna i sarcofagi che rappresentano il defunto tra filosofi e muse in un contesto idilliaco: una sorta di "Arcadia" ante litteram. Anche i fanciulli si trovano raffigurati come filosofi, in quanto la sapienza è ormai un'illuminazione donata dall'alto, più che il risultato di un esercizio intellettuale. Queste tendenze artistiche saranno reinterpretate dai cristiani, che utilizzeranno il paesaggio bucolico per alludere al Paradiso e l'immagine del sapiente illuminato e carismatico per sviluppare le iconografie del Cristo e dei santi.

Bustino di Giove Sabazia II-IlI secolo Bronzo, realizzato per fusione, h 25 cm Città del Vaticano. Musei Vaticani. Antiquarium del Museo Gregoriano Etrusco

Gemma Corniola, 2,1 x 1,5 x 0,5 cm Roma, Anriquariuln Comunale

Frammento di sarcofago con il mito di Prometeo Prima metà del III secolo Marmo pario, 35 x 42 x 7/9 cm Città del Vaticano, Pontificia Commissione di Archeologia Sacra

«Miracolo della pioggia»: Rilievo dalla Colonna Antonlino Fine del Il secolo Calco in gesso alabastrino, 140 x 210 x 40 cm Roma, Museo della Civiltà Romana

Il "Miracolo della pioggia" La scena rappresenta un episodio avvenuto tra il 172 e il 173, durante le campagne di Marco Aurelio contro i Quadi: un'abbondante pioggia improvvisa (qui personificata) salva i soldati romani assetati e accerchiati. È la prima volta che un evento miracoloso compare nell'arte romana. Il primo a parlare di questo episodio è Tertulliano (197), che l'attribuisce alle preghiere dei soldati cristiani presenti nell'esercito, seguito da altri autori cristiani. Tra i pagani, invece, Cassio Dione (inizi del III secolo) riferisce che Marco Aurelio avrebbe attribuito il prodigio genericamente agli dei -in accordo con la visione stoica di quest'imperatore -mentre altri ne davano il merito al mago egiziano Arnoufis, che avrebbe pregato "l'Hermes dell'aria"; forse il dio egiziano Thot in vesti ellenizzate. Più tardi

il retore Temistio (381) attribuisce il miracolo alle preghiere dello stesso Marco Aurelio e infine il poeta Claudiano (403-404) chiama in causa le arti magiche del mago caldeo Giuliano il Teurgo. Benché si Tratti di una vicenda minore, è interessante in quanto mostra le interpretazioni che cristiani e pagani danno della storia a partire da diverse prospettive teologiche. In ambito pagano, inoltre, convivono spiegazioni parallele che ricordano il discorso già citato del senatore Simmaco sulle molte vie necessarie per giungere alla divinità. È evidente, la ricerca del meraviglioso e l'interesse per figure di maghi o comunque di personaggi che partecipano del soprannaturale.

Un anno cruciale: il 64 Lo storico Tacito, che descrive a tinte fosche la personalità dell'imperatore Nerone, narra che questi, nel 64, preso da istrionica follia fece incendiare Roma e poi, per distogliere da sé l'odio del popolo, incolpò i cristiani, sui quali peraltro già circolavano pregiudizi e dicerie infamanti. Fu così che, secondo questa fonte: "Si cominciò a colpire coloro che confessavano la loro fede e poi, sempre dietro la loro confessione, molti altri che furono incolpati non del crimine dell'incendio, ma di odio contro il genere umano. Non ci si accontentava di farli perire: se ne fece un trastullo

vestendoli di pelli di bestie perché fossero sbranati dai cani oppure furono legati a croci o pali di materie infiammabili e, a sera, rischiaravano le tenebre come torce. Nerone aveva offerto i suoi giardini per questo spettacolo e dava giochi nel circo, dove a volte vestito da cocchiere si mescolava alla folla, altre volte partecipava alla corsa sul suo cocchio. Così, quantunque questa gente fosse colpevole e degna di grandi castighi, si aveva pietà di loro perché si sapeva che non per interesse pubblico, ma per crudeltà di uno solo li si faceva sparire» (Tacito, Annali 15,44)

Negazione di Pietro V o VI secolo Avorio, 17,7 h X 4,6 X 0,6 cm (h max) Parigi, Musée du Louvre, Département des Objets d'Art

Alla fine del I secolo Intorno all'anno 95, con un testo per molti aspetti importante in relazione alla comunità cristiana di Roma, Clemente, terzo nella lista dei successori degli apostoli nella capitale, si riferisce all'esempio di coloro che hanno subito persecuzioni in tempi a lui vicinissimi e nell'arco della sua generazione. In particolare, con solennità, fa memoria di coloro che egli indica come le "colonne più grandi e più giuste", e che "furono perseguitate e lottarono sino alla morte": "Veniamo agli atleti vicinissimi a noi. Prendiamo i nobili esempi della nostra generazione. Per gelosia e invidia le più grandi e le più giuste colonne furono perseguitate e lottarono fino alla morte. Mettiamoci dinanzi agli occhi i buoni Apostoli: Pietro, che per un'ingiusta gelosia sopportò non una o due, ma molte sofferenze e così, resa testimonianza, raggiunse il posto a lui dovuto della gloria. A causa di gelosia e discordia Paolo mostrò come si consegua il premio della pazienza. Sette volte caricato di catene, esiliato, lapidato, fattosi araldo in Oriente e in Occidente, ottenne l'eccellente fama della sua fede. Dopo avere insegnato la giustizia a tutto il mondo, giunto ai confini dell'Occidente, resa testimonianza dinanzi ai governanti, lasciò così il mondo e raggiunse il luogo santo, divenendo un grandissimo modello di pazienza. A questi uomini che vissero santamente, si aggiunse una grande moltitudine di eletti i

quali, soffrendo per gelosia molti oltraggi e tormenti, furono un esempio veramente splendido fra noi" (Clemente Romano, Lettera ai cristiani di Corinto, 5, l -6, 1). Le situazioni di grande sofferenza per i cristiani a cui allude Clemente sono da riferire sia a episodi recenti, sotto l'imperatore Domiziano a lui contemporaneo, sia e soprattutto a quelle -ormai emblematiche -della persecuzione neroniana, ancora vive come eventi che hanno segnato la sua generazione. Clemente indica come elementi scatenanti della persecuzione il falso zelo, la gelosia e l'invidia anche perché intende porre in guardia i cristiani da discordie e divisioni. A quali problemi allude circa la situazione di questi nel loro ambiente di origine e all'interno della comunità? Sono possibili interpretazioni e ipotesi diverse: denunce e delazioni originate da contrasti tra giudei e cristiani? Tra pagani e cristiani? Diversi orientamenti all'interno delle prime generazioni cristiane? Ma chiaro è il riferimento all'estrema testimonianza degli apostoli Pietro e Paolo e a quella di numerosi altri cristiani.

Apostolo San Paolo, dittico di Pietro e Paolo, legno dipinto, III-

IV sec d.c., da San Giovanni in Laterano, Cappella del Sancta Sanctorum, Roma, Biblioteca

Apostolica Vaticana

Roma sede della tradizione degli apostoli Pietro e Paolo Negli ultimi due decenni del II secolo, Ireneo fu vescovo di Lione, in Gallia. Egli era asiatico, ma era venuto in Occidente e, nel 177, a Roma presso il papa Eleutero, inviato dalla chiesa di Lione. Nella sua importante opera Contro le eresie, egli fissa il criterio, già individuato prima di lui, per stabilire la retta fede. Questo consiste nella tradizione che, attraverso la successione dei vescovi, è in grado di risalire agli apostoli. Egli riprende così un elenco della successione apostolica a Roma, elaborato già prima di lui e lo prolunga fino al180 circa: “Poiché sarebbe troppo lungo enumerare le successioni di tutte le chiese, prenderemo la chiesa grandissima e antichissima e a tutti nota, la chiesa fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo. ...Dopo aver fondato ed edificato la chiesa, i beati apostoli affidarono a Lino il servizio dell' episcopato ... A lui succede Anacleto. Dopo di lui, al terzo posto a partire dagli apostoli, riceve in sorte l'episcopato Clemente, il quale aveva visto gli apostoli stessi e si era incontrato con loro ed aveva ancora nelle orecchie la loro predicazione e negli orecchi e davanti agli occhi la loro tradizione. E non era il solo, perché allora restavano ancora molti che erano stati ammaestrati dagli apostoli” Ireneo prosegue nell'elenco della successione con i nomi di Evaristo, Alessandro, Sisto, Telesforo (martire), Igino, Pio, Aniceto, Sotere, Eleutero. Quindi conclude:

"Con quest'ordine e queste successioni è giunta fino a noi la tradizione che è nella chiesa a partire dagli apostoli , e la predicazione della verità. E questa è la prova più completa che è una e la medesima la fede vivificante degli apostoli, conservata e trasmessa nella verità" (Ireneo di Lione, Contro le eresie III, 3, 2-3). L'immagine del pastore tracciata in nome di Pietro "Esorto i presbiteri che sono tra voi come presbitero anch'io, testimone delle sofferenze di Cristo e anche partecipe della gloria che sarà manifestata: pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge. E quando apparirà il Pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce" (I Lettera di Pietro, 5,1-4).

Lampada con Pietro nel miracolo della fonte

Fine del IV secolo Bronzo, 17,5 X 15 cm Firenze, Museo

Archeologico Nazionale

Due frammenti di sarcofago "ad alberi" Secondo terzo del IV secolo Marmo, 61 x 46 cm (primo frammento), 24 x 41 cm (secondo frammento ) Roma, catacombe di San Sebastiano, Museo delle sculture

Placchetta con Pietro e Paolo V secolo (?) Avorio, 6,5 x 5 x 0,9 cm Arcidiocesi di Sorrento Castellammare di Stabia, Antiquarium Stabia no

I volti e le idee Eusebio di Cesarea ricorda che, in antico, in certi luoghi dell'Oriente cristiano circolavano delle icone del Cristo, di Pietro e Paolo (Hist. Eccl. 20). In realtà le prime immagini dei Principi degli Apostoli, che appaiono sin dal III secolo, hanno caratteri fisionomici estremamente anonimi. Soltanto in epoca costantiniana, nell'ambito delle scene che riproducono il collegio apostolico, Pietro e Paolo iniziano ad acquisire una connotazione ritrattistica. I ritratti dei Principi degli Apostoli sono rappresentazioni ideali, di pura ricostruzione, eppure nei tratti dei loro volti è facile indovinare il carattere dei due personaggi, il loro atteggiamento dottrinale, il loro pensiero. Il ritratto di Pietro si impronta a una grande solidità e a una potenza espressiva, dai tratti spesso marcati e decisi, con capigliatura ricca, aderente al capo, talora candida, la barba corta e mossa. Quello di Paolo proviene da una vera e propria contrapposizione con quello di Pietro e si propone con il volto di un ispirato filosofo, con la barba quasi incolta e appuntita. Questo ritratto si allinea perfettamente alla descrizione riportata dagli Atti apocrifi di Paolo e Tecla (Erbetta II, p. 259), in cui l'Apostolo delle Genti è ricordato "piccolo di statura, testa calva, gambe curve, corpo ben formato, sopracciglia congiunte, naso un po' sporgente, pieno di bontà. Talora sembrava un uomo, talaltra il volto di un angelo‘

La Legge e le chiavi Durante il IV secolo si fa strada una iconografia più complessa, che ricrea l'atmosfera della corte imperiale. In questo ambito, il Cristo è rappresentato come un imperatore e i Principi degli Apostoli assumono il ruolo di primi dignitari. La scena della Traditio Legis, che si ispira alla consegna della Legge a Mosè, vuole significare la continuità della Chiesa che dal Cristo passa direttamente a Pietro attraverso un rotolo svolto, dove è scritto: Dominus legem dat Un concetto simile esprime la scena della Traditio clavium che, però, si ispira a un preciso luogo evangelico: "A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cicli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli" (ML 16, 19).

Testa marmorea IV secolo Marmo Città del Vaticano, Museo del Collegio Teutonico

La concordia degli apostoli Alla fine del IV secolo nascono degli schemi iconografici con un significato politico-religioso, che si riferisce specialmente al concetto della concordia apostolorum. Pietro e Paolo vengono rappresentati simmetricamente, per esprimere la solidarietà e l'unità tra le chiese d'Oriente e d'Occidente, ma anche tra le due parti

dell'impero. In questo contesto nasce anche l'iconografia dell'abbraccio degli apostoli, che si ispira agli scritti apocrifi e che vede Pietro e Paolo uniti in un abbraccio alle porte di Roma, prima del martirio. Tale incontro ci paria della riunione di due vite condotte, sino a quel momento, separatamente e di una riconciliazione, dopo i contrasti ideologici che si evincono dalla Lettera ai Galati 2, 7-14.

Statuina di bronzo di Paolo IV-V secolo Bronzo, h 9,4 cm Cagliari, Soprintendenza Archeologica di Cagliari

Lampada a forma di nave con Pietro e Paolo Fine del IV -inizi del V secolo Bronzo. 22,4 X 22.3 X 17 cm Firenze, Museo Archeologico Nazionale

Vetro dorato con Pietro, Paolo, Agnese

IV secolo Vetro (fondo verdastro, piede incolore) e foglia

d'oro, Ø 8,6 cm (max) Città del Vaticano,

Monumenti Musei e Gallerie Pontificie, Museo

Sacro

Lastra di chiusura di loculo di Asellus con raffigurazione di S.Pietro e S.Paolo, marmo, IV sec d.c., dalla catacomba di Sant'Ippolito, Roma, Musei Vaticani

Vaso di Emesa Fine del VI secolo argento, h 45 cm, Ø27 cm (max) Parigi, Musée du Louvre, Département des Antiquités Grecques, Romaines et Etrusques

Tavola eburnea con apostolo Roma,

primo terzo del V secolo Avorio, 12 (h

max) x 7 x 0,9 cm Parigi, Musée du

Louvre, Département des

Objets d'Art

Il culto dei due apostoli a Roma Il culto di Pietro e Paolo assume a Roma un significato e un rilievo del tutto particolare. L'erudito cristiano Gaio verso il 200 ricorda "i trofei di coloro che fondarono questa chiesa" (in Eusebio, Hist. Eccl. II, 25, 7). L'importanza di questa fonte per la "preistoria" delle due basiliche di San Pietro in Vaticano e di San Paolo sulla via Ostiense è chiara. Dal discorso di Gaio si ricava con chiarezza anche un'idea accettata già in quell'epoca senza discussione: la coscienza che la Chiesa di Roma si fonda sulla testimonianza e sul martirio dei due apostoli. I luoghi romani legati alla memoria e al culto di Pietro e Paolo sono numerosi e in molti casi legati alle narrazioni agiografiche sugli apostoli. Per cogliere l'essenziale ci si limiterà ai luoghi fondamentali dove la tradizione può vantare

una maggiore antichità. Questa sezione della mostra si concentra perciò sulle due basiliche sorte sui luoghi di cui parla Gaio. A esse ne va aggiunta una terza che, benché non abbia restituito traccia di tombe che possano aver accolto i resti dei due apostoli, pure sorge su un luogo di culto di grande antichità, nel quale fin dall'inizio Pietro e Paolo furono venerati congiuntamente. Si tratta della Basilica Apostolorum sulla via Appia, oggi meglio nota con il nome di San Sebastiano, al di sotto della quale gli scavi hanno mostrato tracce di un culto risalente alla metà del III secolo. Confrontare la storia e l'architettura di queste tre basiliche permette di comprendere meglio l'importanza che la chiesa di Roma dei primi secoli attribuiva ai suoi patroni, ma anche di afferrare qualcosa del significato e del ruolo fondamentale che i due martiri rivestono nella riflessione cristiana in rapporto alla Chiesa universale.

Placchetta votiva rappresentante due occhi e una croce VI-VII secolo Lamina d'oro sbalzata e incisa, peso 6,5 gr circa, 4 x 6,1 cm Città del Vaticano, Fabbrica di San Pietro

Frammenti di intonaco con graffiti dalla "triclia" di San Sebastiano Seconda metà del III -primi decenni del IV secolo Roma, catacomba di San

Sebastiano

Iscrizione frammentaria

V secolo Lastra calcarea,

48x41x8cm Cartagine, Musée de Carthage

Il trofeo di Gaio Al tempo del papa Zefirino (199-217), un presbitero romano di nome Gaio indica la presenza a Roma della memoria del martirio degli apostoli Pietro e Paolo come criterio-guida per i individuare la linea della retta tradizione. Ce lo riferisce lo storico Eusebio di Cesarea, che scrive tra il 315 e il 325 circa (Hist. Eccl. 25. 4-7): "Leggete le vostre memorie. Vi troverete che per primo Nerone perseguitò i cristiani ... e spinse la presunzione fino ad assassinare gli apostoli. Narrano che a Roma, sotto il suo regno, a Paolo fu tagliata la testa e similmente Pietro fu crocifisso. La narrazione confermata dal fatto che tuttora i nomi di Pietro e di Paolo si trovano nei cimiteri di questa città. Ciò afferma un ecclesiastico di nome Gaio, che visse al tempo di Zefirino, vescovo dei romani. Egli dichiara espressamente: 'Io ti posso mostrare i trofei degli apostoli . Se vorrai recarti sul Vaticano o sulla via Ostiense, troverai i trofei di coloro che fondarono questa chiesa.'" Con "Trofeo" Gaio intende un monumento che ricorda la vittoria sulla morte ottenuta dagli apostoli con il loro martirio. Troppo poco si sa del trofeo sulla tomba di Paolo, mentre gli scavi condotti sotto la basilica di San Pietro nel 1940-1949 hanno rimesso in

luce un monumento. datato da alcuni mattoni bollati degli anni 146-161 che viene unanimemente identificato con il trofeo di Pietro di cui parla Gaio. Nella fase originaria esso è costituito da un muro coperto di intonaco rosso, in cui è un a nicchia, tagliata a metà altezza da una lastra marmorea sorretta da due colonnine le demolizioni successive impediscono di conoscere esattamente l'aspetto di coronamento: quello proposto nel plastico ricostruttivo è solo indicativo e ipotetico L'edicola costituisce la monumentalizzazione della tomba di Pietro e allo stesso tempo è il più antico esempio di culto di un martire cristiano. Gli scavi hanno dato origine a diverse interpretazioni e ipotesi su cui il dibattito è ancora aperto. Resta un dato che non può essere sottovalutato, che cioè il monumento in questione veniva considerato dalla Chiesa di Roma testimonianza della sepoltura dell'apostolo solo un secolo dopo la morte di questi, un periodo di tempo di tre generazioni in cui un ricordo può essere trasmesso con un solo passaggio da nonno a nipote.

Modello del Trofeo di Gaio

La capsella di Samagher La cassetta reliquiario in avo rio fu rinvenuta a Samagher (Pola, Croazia ) sotto l'altare della chiesa di Sant'Ermagora nel 1906. Essa risa le al 440-450 ed è un documento di straordinario valore, ma di complessa lettura. Sul coperchio è una Traditio Legis: Cristo affida a Pietro un rotolo aperto contenente la Legge, mentre a sinistra Paolo alza il braccio in atto di acclamazione. Sotto gli apostoli, le pecore che uscivano dalle porte di due città simboleggiano i fedeli provenienti dalla Chiesa ex circumcisione (dal popolo ebreo) e da quella ex gentibus (dal paganesimo), raddoppiando così il messaggio già implicito in Pietro e Paolo. L'immagine probabilmente riproduce il mosaico nell'abside della basilica di San Pietro, dedicato da Costanzo II (352-361), figlio di Costantino. Sul lato posteriore è la memoria di San Pietro il monumento costantiniano sulla tomba dell'apostolo -ricostruibile anche grazie agli scavi degli anni 1940-1949. Si riconosce il baldacchino su colonne tortili che coronava la memoria, verso la quale si dirige una coppia di

fedeli. Il lato frontale raffigura l’etimasia, il trono vuoto -immagine della presenza di Dio -Sotto cui è l'agnello, immagine apocalittica di Cristo, mentre ai lati sono sei apostoli, forma abbreviata per alludere all'intero collegio apostolico con Pietro (a destra) e Paolo (a sinistra) in prima fila. Sul lato minore di destra è una sorta di baldacchino poligonale; sul lato opposto si vede un passaggio a tre archi con il varco centrale chiuso da un cancello. Queste tre scene sono di discussa identificazione: si è proposto di riconoscervi elementi di alcune delle principali basiliche romane (Santa Croce, San Giovanni, San Paolo). L’interpretazione più verosimile riconosce nella coppia al centro delle varie scene due sposi: essi visitano la tomba di Pietro per chiedere la grazia di un figli e, ottenutala, portano il bimbo al battesimo o a un pellegrinaggio in luoghi santi. Al ritorno la stessa coppia avrebbe donato la cassetta, come contenitore di reliquie ottenute a Roma.

Capsella di Samagher Circa 440-450 Avorio intagliato, accessori d'argento, 18,5 h x 20,S x 16,1 cm (h con pieducci e coperchio) Venezia, Museo Archeologico Nazionale

San Pietro L'attuale basilica di San Pietro è stata completamente ricostruita nel corso del Rinascimento e non conserva più nulla delle strutture paleocristiane e medievali. Il plastico presenta una ricostruzione della prima basilica verso la metà del V secolo. Essa si alzava su un alto podio, reso necessario dalla pendenza del colle. Fu costruita negli anni venti del IV secolo per volere dell'imperatore Costantino sull' arco di una necropoli pagana in cui era stato sepolto l'apostolo Pietro. La tomba di quest'ultimo si trovava al centro dell'abside e aveva condizionato posizione e orientamento della chiesa. La basilica era composta da cinque navate e un transetto preceduti da un atrio quadrato circondato da portici. Sul fianco destro si trovava l'obelisco che ornava la spina del circo di Caligola e di Nerone. Il circo era stato sepolto già verso la fine del II secolo, ma l'obelisco rimase al suo posto fino al

1586, quando fu trasferito nell'attuale posizione per ordine di Sisto V. Scavi alla base dell'obelisco hanno mostrato che il circo era già stato invaso da tombe pagane nella seconda metà del II secolo. All'inizio del III fu costruito un grande sepolcro circolare, quello immediatamente dietro all'obelisco, che all'inizio del VI secolo fu trasformato da papa Simmaco in un ingresso laterale della basilica e dedicato all'apostolo Andrea, fratello di Pietro. All'inizio del V secolo fu costruita la seconda rotonda, in asse con il transetto, come tomba imperiale in cui furono sepolti l'imperatore Onorio (morto nel 423) e sua moglie Maria (morta nel 407-408). Nel 755 questa rotonda fu dedicata il Santa Petronilla, che -secondo una leggenda -sarebbe stata la figlia di Pietro. All'angolo del quadriportico d'ingresso, infine, si trovava la sagrestia, utilizzata anche come luogo di sepolture pontificie a partire da Leone Magno (morto nel 461).

San Paolo Fuori le Mura La prima basilica, di dimensioni modeste, fu costruita dall'imperatore Costantino lungo la via Ostiense, al di sopra di una necropoli pagana nella quale era stato sepolto l'apostolo Paolo. Di queste sepolture e della basilica si conoscono solo pochissime tracce, viste durante lavori condotti nell'Ottocento (nuovi sondaggi sono stati condotti e hanno dato luogo a nuove scoperte pubblicate in occasione dell’anno paolino di cui quest’articolo non tiene conto). Per volere degli imperatori Valentiniano II, Teodosio e Arcadio, l'edificio fu ricostruito completamente a partire dal 384 o ,386. Mantenendo il luogo dell'altare al di sopra della tomba dell'apostolo, fu capovolto

l'orientamento per disporre di maggiore spazio. La seconda basilica si ispirava quella di San Pietro sia per le dimensioni, sia per la struttura (cinque navate con transetto e atrio porticato antistante). Questa forma architettonica non era più stata utilizzata per nessun'altra basilica nei circa settant'anni che separano le due chiese. La ricostruzione si deve alla modestia del primo edificio, che non sembrava degno dell'importanza che veniva attribuita all'apostolo Paolo, la cui figura era sentita come complementare a quella di Pietro e di pari importanza. La basilica paleocristiana si conservò con poche modifiche importanti fino al disastroso incendio del 1823. L'attuale ricostruzione riproduce sostanzialmente le forme antiche, documentate da rilievi e vedute anteriori alla distruzione.

La "Basilica Apostolorum" (San Sebastiano) Al terzo miglio della via Appia si estendono le catacombe di San Sebastiano, al di sopra delle quali si trova la basilica paleocristiana, mascherata oggi dalla chiesa seicentesca che ne riutilizza la navata centrale. Essa porta oggi il nome medioevale di San Sebastiano, ma originariamente era nota come Basilica Apostolorum. Nel I secolo a.c. in questo punto era un avvallamento con cave di pozzolana, definito con termine derivato dal greco ad catacumbas. A metà circa del II secolo tutta l'area fu interrata per realizzare la cosiddetta "piazzola", destinata a sepolture. In questa fase appaiono i primi segni del cristianesimo. Intorno alla metà del III secolo la piazzola, subì un ulteriore interro di sei metri, su cui venne costruita la cosiddetta triclia: un complesso formato da un cortile con un portico e un secondo cortile a un livello inferiore. La struttura doveva servire per i refrigeria, i rituali "pic-nic" funerari che si svolgevano in onore di Pietro e Paolo, nell'anniversario del loro martirio, il 29 giugno, cosicché il complesso fu definito anche Memoria Apostolorum. Questo culto popolare fu istituzionalizzato presumibilmente nel 258, stando alla data che appare nella depositio martyrum della

prima metà del IV secolo, nel catalogo liberiano e nel martirologio geronimiano. Del culto sono testimoni le centinaia di graffiti, con invocazioni ai due apostoli, lasciati sulle pareti della triclia dai pellegrini. Costantino, o al più tardi i suoi figli, seppellirono la triclia per costruire, in corrispondenza della memoria, una basilica circiforme, ovvero uno di quei particolari monumenti che oscillano -in quanto alla funzione -tra l'edificio di culto, il contenitore funerario e la sede di una venerazione martiriale. Si tratta quindi di una "basilica-cimitero", con tombe multiple dislocate su tutto il pavimento e lungo le pareti e con mausolei addossati lungo il perimetro esterno, come è illustrato dal plastico ricostruttivo. Papa Damaso (366-384) pose nella basilica l'iscrizione contenente uno dei suoi epigrammi dedicato ai Principi degli Apostoli: "Tu che vai cercando i nomi di Pietro e Paolo, devi sapere che i santi dimorarono qui in passato. Questi apostoli ce li mandò l'Oriente, volentieri lo riconosciamo; ma in virtù del martirio (seguendo Cristo, su per le stelle, giunsero nelle regioni celesti e nel regno dei giusti), Roma ebbe il privilegio di rivendicarli suoi cittadini. Questo voleva dire Damaso in vostra lode, o nuove stelle"

Basilica di S. Sebastiano (SS. Apostolorum), di età costantiniana. Veduta del deambulatorio absidale e delle arcate su pilastri della navata centrale

«Petros eni» di Lorenzo Bianchi Quando l’imperatore Costantino, verso il 320, decise di edificare una basilica ad corpus sul luogo della tomba di Pietro, sepolto immediatamente al di fuori del circo che segnava il limite settentrionale degli horti di Nerone (i giardini dove era avvenuto, a seguito dell’incendio di Roma dell’anno 64, il martirio dei primi cristiani di Roma e dello stesso Pietro), non sfruttò, come sarebbe stato più ovvio e più sicuro per la solidità della nuova costruzione, lo spazio piano tra Gianicolo e Vaticano che era stato occupato dal circo, ma volle fare corrispondere il punto centrale della Basilica, all’intersezione tra navata centrale e transetto, con la sepoltura dell’apostolo; e con un grandioso lavoro ingegneristico realizzò una vasta piattaforma artificiale, da un lato tagliando le pendici del colle Vaticano, dall’altro seppellendo e utilizzando come fondamenta le strutture della necropoli sviluppatasi lungo il lato settentrionale del circo tra I e IV secolo. Anche l’asse dell’edificio costantiniano non tiene conto, come sarebbe stato più facile, di quello che corre grosso modo nella stessa direzione della necropoli e del circo, ma se ne distanzia, sia pur di poco, perché fu determinato con assoluta esattezza dalla tomba di Pietro, e più precisamente dal monumento che Costantino vi aveva fatto costruire sopra. Il sepolcro dell’apostolo è infatti, oltre che il punto di attrazione, anche l’esatto fulcro topografico di tutto ciò che nel corso dei secoli gli si è sviluppato attorno, dalle sepolture dei primi fedeli cristiani, alle installazioni per i pellegrini nel primo

Medioevo, alle strade, alle mura della civitas Leoniana edificate dopo il sacco dei Saraceni dell’846, fino al moderno quartiere di Borgo. Anche la costruzione della nuova Basilica, fondata da papa Giulio II il 18 aprile 1506, pur se comportò la demolizione di quella costantiniana e delle sue aggiunte medievali, tuttavia rispettò rigorosamente la centralità del sepolcro di Pietro: l’attuale altare maggiore, che risale a papa Clemente VIII (1594), si trova esattamente sopra a quello medievale di papa Callisto II (1123), che a sua volta ingloba il primo altare di papa Greogrio Magno (590 circa), costruito sul monumento costantiniano che custodisce la tomba di Pietro. E il culmine della cupola di Michelangelo si trova esattamente a perpendicolo sopra di essa. «Petros eni», «Pietro è qui». Titolo della mostra tenutasi tra il 2006 e il 2007, richiama il testo greco del famosissimo frammento di intonaco rosso graffito rinvenuto nei pressi della tomba dell’apostolo, custodito ora dalla Fabbrica di San Pietro. Un piccolissimo frammento delle dimensioni di cm 3,2 x 5,8, ma importantissimo, poiché nelle due righe in cui si leggono le lettere PETROS ENI appare il nome di Pietro, presente proprio nel luogo che la tradizione da sempre conosce come quello della sua sepoltura. La storia di questo graffito è singolare. Di esso non si fa menzione nella pubblicazione ufficiale preparata dai quattro curatori degli scavi archeologici voluti da papa Pio XII e svoltisi tra il 1939 e il

Affresco dalla Basilica Vaticana raffigurante

l'Apostolo Pietro

1949 sotto la direzione di monsignor Ludwig Kaas, segretario della Reverenda Fabbrica di San Pietro (M. Apollonj Ghetti, A. Ferrua, E. Josi, E. Kirschbaum, Esplorazioni sotto la Confessione di San Pietro in Vaticano, voll. I-II, Città del Vaticano 1951). Scavi che, confermando la tradizione unanime, riportarono alla luce la tomba dell’apostolo. Fu inizialmente rinvenuto il monumento che Costantino aveva eretto a protezione della sepoltura, sigillandola all’interno di un parallelepipedo alto circa tre metri, fasciato di marmo pavonazzetto e porfido. È quello di cui ci parla Eusebio di Cesarea, che di Costantino era contemporaneo, descrivendolo così: «Uno splendido sepolcro davanti alla città, al quale accorrono, come a un grande santuario e tempio di Dio, innumerevoli schiere da ogni parte dell’Impero romano» (Eusebio, Teophania 47). Il lato anteriore del monumento costantiniano aveva un’apertura che corrisponde all’attuale Nicchia dei Palli, nelle Grotte Vaticane; quello posteriore, rimesso parzialmente in luce, è tuttora visibile dietro l’altare della Cappella Clementina. Scavando lungo i lati del monumento costantiniano, al di sotto di esso si giunse a rinvenire la tomba di Pietro. Apparve una piccola edicola, appoggiata a un muro intonacato e dipinto in rosso (il cosiddetto “muro rosso”), formata da una mensa sorretta da due colonnine di marmo con una nicchia in corrispondenza dello spazio fra le due colonnine; sul pavimento, al di sotto di un chiusino, una tomba nella nuda terra. L’edicola, databile al II secolo, venne da subito identificata dagli scavatori con il “Trofeo di Gaio”, noto da un passo di Eusebio di Cesarea che riporta le parole del presbitero romano Gaio, pronunciate alla fine del II secolo o all’inizio del III (per la precisione, negli anni del pontificato di papa Zefirino, tra il 198 e il 217) in risposta all’eretico Proclo

che, seguace del frigio Montano, vantava la presenza a Ierapoli di Frigia della tomba dell’apostolo Filippo. Dice dunque Gaio: «Io posso mostrarti i trofei [tà trópaia] degli apostoli [Pietro e Paolo]. Se vorrai recarti nel Vaticano o sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che fondarono questa Chiesa [di Roma]» (Eusebio, Historia ecclesiastica II, 25, 7). La parola trópaion, che indica il “trofeo della vittoria”, fa allusione alla reale presenza delle spoglie di Pietro: poiché si riferisce propriamente al corpo del martire in cui si è manifestata la grazia di Gesù Cristo e non al solo monumento che lo contiene. Ma la tomba che gli scavatori rinvennero si rivelò vuota. Fu lo stesso papa Pio XII a dare l’annuncio del ritrovamento della tomba, a conclusione del Giubileo del 1950: «Nei sotterranei della Basilica Vaticana ci sono i fondamenti della nostra fede? La conclusione finale dei lavori e degli studi risponde un chiarissimo sì: la tomba del Principe degli apostoli è stata ritrovata» (Pio XII, Discorsi e radiomessaggi, Milano 1961, XII, p. 379). E qui comincia, dopo la fine degli scavi, una seconda fase delle indagini. Il monumento costantiniano aveva inglobato anche un’altra struttura, un muro perpendicolare al “muro rosso”; la sua costruzione, avvenuta probabilmente nel corso del III secolo e comunque posteriormente all’edicola, aveva comportato lo spostamento della colonnina di destra. Questo muro presentava sulla parete opposta all’edicola numerosissimi graffiti sovrapposti l’uno all’altro, e per questa caratteristica aveva ricevuto dagli scavatori il nome di “muro g”, cioè muro dei graffiti. Sulla parete coperta dai graffiti si notavano ancora segni di pittura, e dunque essa doveva essere originariamente appartenuta a un ambiente interno. Dentro il muro era stato ricavato in antico, sicuramente dopo l’apposizione dei graffiti e prima della definitiva sistemazione del monumento

Una delle colonnine del Trofeo di Gaio Il muro rosso

Il muro dei graffiti (muro G)

costantiniano, un ripostiglio parallelepipedo foderato di marmo sul fondo e, fino ad una certa altezza, sui quattro lati, uno dei quali, quello occidentale, andava a terminare sul “muro rosso”. Il ripostiglio venne scoperto dagli scavatori prima della tomba terragna sottostante: si era nel novembre del 1941. Dalle testimonianze di chi scavò non è chiaro se all’interno di esso sia stata fatta una immediata ricognizione, oppure questa sia avvenuta successivamente, quando esso era forse già stato svuotato – la sera stessa della sua scoperta – di parte del materiale che conteneva, come ricostruì in seguito Margherita Guarducci con la testimonianza diretta del sampietrino che aveva eseguito l’operazione. Il padre Antonio Ferrua affermerà di aver visto, il giorno seguente alla scoperta, il ripostiglio vuoto. Certo è che, come si seppe vari anni dopo il completamento e la pubblicazione degli scavi, proprio da lì proveniva il frammento con il graffito PETROS ENI, inciso sulla parete del “muro rosso” al di sopra della lastrina marmorea che copriva il lato occidentale del ripostiglio. Come detto, del frammento graffito non si fa menzione nella pubblicazione ufficiale degli scavi. Secondo quanto in seguito scrisse il padre Engelbert Kirschbaum, esso fu sicuramente visto durante gli scavi ancora al suo posto originario, sul “muro rosso”, ma non si riuscì a decifrarlo. Il frammento sarebbe stato trovato da Ferrua dopo la pubblicazione degli scavi (quindi dopo il novembre 1951), già distaccato dal “muro rosso” (E. Kirschbaum, Die Gräber der Apostelfürsten, Frankfurt am Main 1957, p. 68). Ma è lo stesso Ferrua che parla delle circostanze del suo ritrovamento, e lo data precisamente al 2 agosto 1951, dichiarando di averlo raccolto con le sue mani nel ripostiglio all’interno del “muro g”: «Com’è che si trovava là quel frammento?

Qualcuno, alcuni giorni prima, aveva voluto esplorare la natura dei muri che circondano la cassetta a sud e a ovest, e lavorando con lungo scalpello su quello di ovest, il famoso muro rosso, ne staccò quanto poté del caratteristico intonaco, che per lui aveva l’unico torto di celargli la struttura viva di un muro così importante, in un punto così delicato. Trovai dunque un bel mucchietto di frantumi dentro la cassetta e senza tanto pensarci ne raccolsi il pezzo maggiore per esaminarne la natura [...]. Con cura ravvolsi in uno straccio il frammento e me lo portai a casa dove lo pulii per bene, lo esaminai accuratamente e fotografai» (A. Ferrua, Memorie dei SS. Pietro e Paolo nell’epigrafia, in Saecularia Petri et Pauli [Studi di antichità cristiana, 28], Città del Vaticano 1969, pp. 131-132). Lo stesso Ferrua pubblicò per la prima volta la trascrizione del frammento sul quotidiano Il Messaggero del 16 gennaio 1952 (e subito dopo in La Civiltà Cattolica, 103, 1952, I, p. 25, fig. 3), disegnandolo sulla destra dell’edicola identificata con il “trofeo di Gaio”, nel punto dove originariamente si trovava. Lo presentò poi per la prima volta in fotografia al Congresso internazionale di Archeologia cristiana di Aix en Provence nel 1954, per restituirlo infine verso la metà dell’anno seguente a monsignor Pietro Principi, nuovo segretario della Reverenda Fabbrica di San Pietro (monsignor Kaas era morto il 15 agosto 1952). Dal momento della sua prima pubblicazione, cominciò ad occuparsi del frammento, che testimoniava senza possibilità di equivoco il nome di Pietro proprio accanto alla sua sepoltura, Margherita Guarducci: a lei si deve la traduzione delle sette lettere graffite con “Pietro è qui”, grazie all’interpretazione di ENI come forma abbreviata del verbo ENESTI. Ella datò inizialmente il graffito al II secolo, per poi ricredersi e attribuirlo all’epoca di Costantino, al momento cioè della

Il frammento del muro rosso con l’iscrizione PETROS ENI

costruzione del ripostiglio nel “muro g”, prima della realizzazione del monumento costantiniano e della sigillatura dentro di questo della tomba di Pietro. E solo vari anni dopo la conclusione degli scavi i suoi studi, compiuti tra il 1952 e il 1965, sui graffiti del “muro g” decifrati come invocazioni a Cristo, Maria e Pietro, portarono anche, dopo complesse e articolate ricerche condotte con rigore scientifico, al riconoscimento di quanto era stato contenuto nel ripostiglio, cioè le reliquie di Pietro, lì trasferite dalla prima tomba terragna sottostante (tra le numerosissime pubblicazioni in proposito si vedano in particolare M. Guarducci, Le reliquie di Pietro sotto la Confessione della Basilica Vaticana, Città del Vaticano 1965; Ead., Le reliquie di Pietro sotto la Confessione della Basilica Vaticana: una messa a punto, Roma 1967; Ead., Le reliquie di Pietro in Vaticano, Roma 1995). Rinvenute in una cassetta nei locali delle Grotte Vaticane, dove erano state deposte da chi le aveva estratte dal ripostiglio, le reliquie, dopo essere state analizzate, risultarono pertinenti a un solo uomo, di corporatura robusta, morto in età avanzata. Erano incrostate di terra e mostravano di essere state avvolte in un panno di lana colorato di porpora e intessuto d’oro; rappresentavano frammenti di tutte le ossa del corpo a esclusione del sia pur minimo frammento di quelle dei piedi. Particolare, questo, veramente singolare, che non può non richiamare alla mente la circostanza (e gli esiti sul corpo, cioè il distacco dei piedi) della crocifissione inverso capite (a testa in giù), attestataci da un’antica tradizione a significare l’umiltà di Pietro; una circostanza, questa, perfettamente rispondente a quanto storicamente ben noto: l’usanza romana, cioè, di rendere

spettacolari, per la soddisfazione del popolo, le esecuzioni capitali dei condannati a morte. Il loro cadavere, privato del diritto di sepoltura, veniva lasciato giacere sul luogo del supplizio. Così avvenne per Pietro, messo a morte confuso fra tanti altri e sepolto nell’umile terra – probabilmente in fretta, nel luogo più vicino in cui fu possibile – quando si poté recuperarne il corpo. Le reliquie identificate da Margherita Guarducci come quelle di Pietro furono riconosciute come tali da papa Paolo VI che il 26 giugno 1968, ricollegandosi alle parole pronunciate nel 1950 da papa Pio XII, diede l’annuncio durante l’udienza pubblica nella Basilica Vaticana: «Nuove indagini pazientissime e accuratissime furono in seguito eseguite con risultato che noi, confortati dal giudizio di valenti e prudenti persone competenti, crediamo positivo: anche le reliquie di san Pietro sono state identificate in modo che possiamo ritenere convincente, e ne diamo lode a chi vi ha impiegato attentissimo studio e lunga e grande fatica. Non saranno esaurite con ciò le ricerche, le verifiche, le discussioni e le polemiche. Ma da parte nostra ci sembra doveroso, allo stato presente delle conclusioni archeologiche e scientifiche, dare a voi e alla Chiesa questo annuncio felice, obbligati come siamo a onorare le sacre reliquie, suffragate da una seria prova della loro autenticità [...] e nel caso presente tanto più solleciti ed esultanti noi dobbiamo essere, quando abbiamo ragione di ritenere che siano stati rintracciati i pochi, ma sacrosanti, resti mortali del Principe degli apostoli» (Paolo VI, Insegnamenti, VI, Città del Vaticano 1969, pp. 281-282). Fatte ricollocare il giorno successivo all’interno del ripostiglio del “muro g”, le reliquie da pochi anni sono state rese nuovamente visibili ai fedeli.

Paolo è qui Di Giovanni RICCIARDI Storia della Basilica ostiense. Fin dai giorni successivi al martirio dell’Apostolo il luogo in cui sorge fu oggetto di particolare venerazione A Roma, lungo la via Ostiense, due miglia fuori dalla cinta delle Mura Aureliane, sorge la Basilica di San Paolo. È qui che, secondo una ininterrotta tradizione, riposano le spoglie dell’Apostolo delle genti. Paolo, come è noto, trovò il martirio a Roma quasi certamente nell’anno 67. Secondo la tradizione attestata in numerosi martirologi e atti apocrifi, la notte seguente la sua decapitazione, alcune donne, tra cui una certa Lucina, presero il suo corpo per dargli sepoltura in un podere di proprietà della stessa Lucina (“praedium Lucinae”). Effettivamente, sul tratto della via Ostiense che fiancheggia la Basilica è stato trovato un complesso cimiteriale, i cui resti sono venuti alla luce a più riprese. «Le prime scoperte di cui si abbia notizia» scrive Paolo Liverani, topografo di Roma antica «si verificarono già nel 1707 nella vigna posta di fronte al monastero, sul lato opposto della via, seguite dai rinvenimenti, purtroppo scarsamente documentati, avvenuti durante i lavori del 1838 e del 1850 sotto alla "Confessione" della Basilica». Questi ultimi lavori si erano resi necessari per il rovinoso incendio che distrusse parte della Basilica il 26 luglio del 1823, ma che comunque non intaccò il sepolcro di Paolo. Accanto al quale, e in tutta l’area occupata dalla Basilica, furono rinvenute altre tombe. Il sepolcro di Paolo dunque doveva trovarsi all’interno di una vasta necropoli, sviluppatasi tra il I secolo a.C. e il IV d.C. Nel corso di questo periodo, anche per effetto della diffusione del cristianesimo, si passò dalla sepoltura per incinerazione –i resti del defunto venivano custoditi in piccole urne disposte in nicchie lungo le pareti dei “columbaria”– all’inumazione

in fosse. Entrambe le tipologie funerarie sono presenti nel cimitero ostiense. Era una necropoli per persone di bassa condizione sociale, a quanto si ricava dalle iscrizioni funerarie rinvenute: schiavi, liberti, militari. Il dato archeologico concorda perciò senza difficoltà con la tradizione. Fra l’altro molti cristiani, come era uso nei primi tempi della Chiesa, si facevano seppellire vicino alle tombe dei martiri, cosa che a maggior ragione può essere avvenuta intorno alla tomba di Paolo. La «memoria» paolina e la Basilica costantiniana Fin dai giorni immediatamente successivi al martirio, il luogo fu certamente oggetto di una particolare devozione da parte dei cristiani di Roma, che eressero un piccolo monumento sepolcrale (“cella memoriae”) per favorire la venerazione dell’Apostolo. È di questa «edicola» che parla Gaio quando invitava a visitare il «trofeo» di Paolo «sulla via di Ostia». Dopo l’editto di tolleranza del 313, l’imperatore Costantino comandò che venisse eretta una Basilica per meglio custodire e venerare le spoglie di Paolo. La Basilica costantiniana, costruita in pochi anni, non corrisponde però a quella attuale. Durante gli scavi compiuti nel 1850 per fondare le colonne del nuovo ciborio donate a Gregorio XVI dal viceré d’Egitto, l’architetto Paolo Belloni rinvenne un frammento di muro che credette di poter identificare come parte dell’abside di questa primitiva Basilica, orientata in maniera contraria all’attuale. La sua facciata sarebbe stata dunque disposta, contrariamente alla Basilica odierna, sulla via Ostiense, il cui tracciato coincideva grosso modo con quello attuale. La strada e le colline antistanti costituiscono un limite oggettivo all’ampiezza dell’edificio, perché il suo punto focale e la sua stessa ragion d’essere, la tomba di Paolo, è situato a poca distanza dalla strada stessa. Per questo motivo la Basilica

costantiniana avrebbe avuto dimensioni piuttosto limitate. Ma il problema della reale consistenza della prima Basilica è ancora da risolvere. La Basilica dei tre imperatori Sul finire del IV secolo, gli imperatori Valentiniano II, Teodosio e Arcadio decisero di riedificare la Basilica, rendendola più ampia e grandiosa. Ci è stata conservata la lettera con cui si dispone l’inizio dei lavori. Indirizzata al “praefectus urbis”, Sallustio, è databile tra il 383 e il 386. La nuova costruzione si estese con l’abside verso la via Ostiense e il fronte in direzione del Tevere. Per avere un’idea del rapporto di proporzione fra le due chiese (se si accetta l’ipotesi del Belloni), basti pensare che la lunghezza della Basilica costantiniana corrisponderebbe grosso modo alla larghezza del transetto della nuova. Ma il cuore della nuova Basilica dei tre imperatori, intoccabile e intatto fin da Costantino, non poteva non rimanere lo stesso di quella precedente: l’altare della "Confessione", sotto il quale si trovava il monumento che custodiva il corpo dell’Apostolo. La sua ubicazione costituì il solo elemento preesistente immutabile per gli architetti della nuova Basilica. Scrive a proposito l’architetto (e archeologo) Bruno Maria Apollonj Ghetti: «Nella Basilica dei tre imperatori c’è un’anomalia che balza subito alla vista e cioè la posizione dell’altare. Questo è decisamente fuori posto. Sappiamo infatti che nelle nostre basiliche paleocristiane l’altare era collocato immediatamente fuori della proiezione dell’arco absidale. Nella Basilica dei tre imperatori l’altare sta invece sul ciglio del presbiterio e questo perché, come si conviene ad una basilica cimiteriale “ad corpus”, fu conservato sempre sul luogo della tomba». La tomba di Paolo Come era fatta la tomba di Paolo? Del monumento sepolcrale parla il “Liber pontificalis” (l’antica raccolta delle biografie dei vescovi di Roma), in un brano la cui redazione risale al VI secolo.

Secondo questa fonte, Costantino edificò la chiesa su richiesta di papa Silvestro (“eodem tempore fecit Constantinus Basilicam Beato Apostolo ex suggestione Silvestri episcopi”), e fece chiudere il corpo di Paolo in una cassa di bronzo (“cuius corpus ita recondit in aere”) di forma cubica che misurava cinque piedi romani per lato, corrispondenti all’incirca ad 1,48 metri. Questa cassa dovrebbe dunque trovarsi in un’area posta al di sotto del pavimento della Basilica costantiniana, a sua volta più basso rispetto al livello di quella dei tre imperatori. La cassa bronzea era contenuta e protetta da un ambiente murato, sopra il quale poggiava un secondo vano, che il “Liber pontificalis” denomina “domus regalis”. Qui era posta una grande croce d’oro del peso di 150 libbre “in mensurae locus” –così dice il testo– cioè della stessa misura della camera sepolcrale sottostante. La croce portava pure un’iscrizione in lettere di colore nero (“ex litteris nigellis”). Sopra questo vano, detto pure arca della "Confessione", poggiava l’altare. La sistemazione della "Confessione" paolina non fu mai modificata nel corso dei secoli, se non marginalmente, quando papa Gregorio Magno, alla fine del VI secolo, fece sollevare il pavimento del presbiterio e vi fece scavare sotto una cripta che giungeva a ridosso di uno dei muri della camera sepolcrale; addossato a questo muro aveva fatto costruire un altare. La cripta andò poi distrutta in epoca moderna. Ma la "memoria" paolina è rimasta intatta fino ai giorni nostri senza che nessuno l’abbia mai toccata. Neppure il rovinoso incendio del 1823 arrivò a minacciare l’altare della "Confessione" e quanto si trova sotto di esso. Mentre la Basilica veniva ricostruita sul modello della precedente, furono eseguiti scavi nell’area della "Confessione", ma non si poté esaminare a fondo la tomba dell’Apostolo, per esplicito divieto del papa Gregorio XVI. Solo l’architetto Virginio Vespignani, colui che curò la riedificazione della Basilica nella forma che oggi vediamo, poté osservare da vicino ciò che era rimasto precluso agli occhi di tutti per secoli,

durante gli scavi del gennaio 1838, prima che il procedere dei lavori richiudesse la zona sepolcrale una seconda volta, e farne dei disegni. «Si tratta di schizzi» scrive Margherita Cecchelli «con qualche appunto e alcune misurazioni, raccolti poi in un taccuino e in un album della collezione di Rodolfo Lanciani [il maggior topografo di Roma antica, n.d.r.], conservata nella biblioteca di Palazzo Venezia. I dati offerti da questo materiale, peraltro noto solo in parte, non sono spesso chiaramente decifrabili, per cui abbisognerebbe rivederlo e pubblicarlo integralmente. […] Infatti, a tutt’oggi, una definizione dello ‘status’ originario della tomba dell’Apostolo non si riesce a focalizzare». Da allora, nessuno scavo è stato mai tentato per chiarire integralmente la storia di uno dei monumenti più cari alla memoria della Chiesa. La devozione delle reliquie "per contatto" La memoria paolina per tutto il Medioevo fu oggetto di una inesauribile devozione, come dimostra la lastra marmorea che ancora oggi chiude l’arca e funge da base per l’altare . Nell’iscrizione incisa su di essa si legge: PAULO APOSTOLO MART («a Paolo apostolo e martire»). La forma delle lettere, l’assenza delle parole SANCTO o BEATO che appaiono regolarmente nelle epigrafi cristiane dalla seconda metà del IV secolo in poi, la posizione dell’attributo dopo il nome –tipica dell’età immediatamente successiva alle persecuzioni– convinsero lo storico gesuita Hartmann Grisar, colui che forse più puntualmente ha studiato, alla fine del secolo scorso, le testimonianze sul sepolcro paolino,

che doveva trattarsi di una iscrizione di epoca costantiniana, contemporanea alla costruzione della primitiva Basilica. Studiosi più recenti la datano invece al V secolo. Il Grisar studiò analiticamente la lastra e chiarì il significato dei tre fori, uno circolare e due rettangolari, che la attraversano. Ad essi corrispondevano tre pozzetti comunicanti tra di loro, usati per tutto il Medioevo per ottenere reliquie "per contatto". Calando degli oggetti attraverso i pozzetti li si metteva cioè a contatto diretto con il sepolcro dell’Apostolo. Di questo uso, attestato anche sulla tomba di Pietro, esistono infatti molteplici testimonianze documentarie. Una delle più antiche è contenuta in una lettera a papa Ormisda del 519, in cui i legati dell’imperatore Giustiniano chiedono reliquie degli apostoli Pietro e Paolo da portare a Costantinopoli per una nuova chiesa voluta dal sovrano. Nella lettera si chiede che gli oggetti siano calati «ad secundam cataractam», cioè nel pozzetto più profondo, perché arrivassero il più possibile a contatto con il sacro corpo dell’Apostolo. Nel 394 un’analoga richiesta di reliquie degli apostoli per la costruzione di una chiesa a Calcedonia deve essere intesa probabilmente nel medesimo senso: reliquie "per contatto". Dal lavoro del Grisar in poi, altri studiosi, nel nostro secolo, si sono occupati della memoria apostolica di Paolo. Ma nessuno di loro ha potuto aggiungere novità di grande rilievo per l’impossibilità di effettuare scavi e indagini sistematiche e mirate. Il "trofeo" che l’imperatore amico dei cristiani volle per l’Apostolo dei pagani forse è ancora intatto, come lui l’aveva voluto.

Jean Barbault, Veduta della

Basilica di S. Paolo fuori delle mura,

1748

Nota sul Sarcofago di San Paolo dell’archeologo Giorgio Filippi La basilica sorge sul sepolcro dell’Apostolo nella via Ostiense, ove alla fine del II secolo il presbitero romano Gaio, nella citazione di Eusebio, segnalava l’esistenza del tropaion eretto a testimonianza del martirio di Paolo. Nel luogo si avvicendarono, nel corso del IV secolo, due edifici, quello "costantiniano" e quello "dei tre imperatori", legati al pellegrinaggio devozionale alla tomba dell’Apostolo e utilizzati per scopi cimiteriali e liturgici. L’unica documentazione riferibile alla situazione archeologica del monumento consiste in pochi disegni e schizzi con misure, di interpretazione talvolta enigmatica, redatti dagli architetti Virginio Vespignani (1808-1882) e Paolo Belloni (1815-1889), dopo l’incendio del 1823, durante gli scavi per la nuova confessione (1838) e la posa delle fondamenta del baldacchino di Pio IX (1850). I resti archeologici allora rinvenuti non furono più visibili successivamente perché in parte distrutti e in parte obliterati dall’attuale Confessione. Che la Basilica di S. Paolo fosse sorta sulla tomba dell’Apostolo è un dato incontrovertibile nella tradizione storica, mentre l’identificazione del sepolcro originario è una questione rimasta aperta. La Cronaca del Monastero parla di un grande sarcofago marmoreo rinvenuto durante i lavori di ricostruzione della basilica dopo l’incendio del 1823, nell’area della Confessione, sotto le due lastre iscritte PAVLO APOSTOLO MART[YRI], di cui però non esiste traccia nella documentazione di scavo, a differenza degli altri sarcofagi che furono

scoperti e rilevati nella stessa occasione, tra cui il famoso "dogmatico" oggi conservato nei Musei Vaticani. Le indagini archeologiche nell’area tradizionalmente considerata il luogo di sepoltura dell’Apostolo, iniziate nel 2002 e terminate il 22 settembre 2006, hanno permesso di riportare alla luce un importante contesto stratificato, formato dall’abside della basilica costantiniana, inglobata nel transetto dell’edificio dei Tre Imperatori: sul pavimento di quest’ultimo, sotto l’altare papale, è stato riscoperto quel grande sarcofago del quale si erano perse le tracce e che veniva considerato fin dall’epoca teodosiana la Tomba di S. Paolo. Tali esplorazioni avevano il fine di verificare la consistenza e lo stato di conservazione dei resti della basilica costantiniana e teodosiana sopravvissuti alla ricostruzione dopo l’incendio e di proporne la valorizzazione a fini devozionali. Dal 2 maggio al 17 novembre di quest’anno si è ultimato, nell’area della Confessione, il Progetto di accessibilità alla Tomba di S. Paolo. Dopo aver smontato l’Altare di S. Timoteo si è scavata l’area sottostante per riportare alla luce, sull’intera superficie di circa 5 mq, l’abside della basilica costantiniana. Per raggiungere i resti del IV secolo si è scavato materialmente dentro il nucleo murario della moderna platea di fondazione che aderisce perfettamente alle strutture antiche, sia in fondazione che in elevato, fino a raggiungere il punto di distacco tra la parte antica e quella moderna rilevabile dal differente colore della malta, rosata quella del XIX secolo e grigia quella del IV secolo.

Poiché la quota del transetto dei Tre Imperatori, sul quale giace il sarcofago di S. Paolo, è più alta rispetto al piano dell’attuale Confessione, è evidente che qui il piano è stato demolito in occasione dei lavori del XIX secolo. Il massetto invece si conserva, resecato a forma di gradino, dietro l’altare di Timoteo, dove è strutturalmente incorporato nel muro moderno che delimita il lato est della Confessione. Al momento dei lavori del XIX secolo, poiché la cresta dell’abside presentava probabilmente alcune parti instabili, queste furono rimosse avendo prodotto l’effetto di un gradino nell’emplecton, di circa 10 cm. di altezza e pari a due file di mattoni, che inizia sul bordo interno dell’abside della quale ricalca l’andamento curvilineo. Sulla fronte del gradino si vedono le impronte lasciate nell’opera cementizia dai mattoni da cortina rimossi. Per raggiungere la quota pavimentale costantiniana si è rimossa la metà sud del settore absidale. Nello scavo non si sono rinvenuti altri reperti archeologici se non resti di murature. Per aumentare la visuale sul sarcofago di S. Paolo si è allargato fino a m. 0,70 il vano attraverso la muratura del XIX secolo già aperto durante i lavori del 2002-2003. È stato possibile rilevare le dimensioni del sarcofago: cassa lunga circa m. 2,55, larga circa m. 1,25 e alta m. 0,97; coperchio alto circa m. 0,30 e spesso nel bordo anteriore m. 0,12. La porzione dell’abside scoperta costituisce l’unica testimonianza visibile della Basilica attribuita comunemente a Costantino. Rimane aperto il problema topografico del rapporto tra la basilica e il pavimento stradale rinvenuto nel 1850 immediatamente ad ovest dell’abside costantiniana. Il Belloni vi

riconobbe l’antica via Ostiense, che sarebbe stata trasferita nella sede attuale per ordine dei Tre Imperatori, ma non rilevò la quota di quel selciato. A questo riguardo risulta di particolare interesse la scoperta, all’interno dell’abside costantiniana, di alcuni grandi blocchi di basalto reimpiegati come materiale da costruzione nelle fondazioni della basilica dei Tre Imperatori. Per quanto riguarda la pianta della basilica costantiniana, poiché non abbiamo altri elementi al di fuori delle nuove misurazioni dell’abside, è prematuro fare nuove ipotesi, salvo che confermare le modeste dimensioni dell’edificio. Il piano di cocciopisto scoperto sopra la quota di rasura dell’abside costantiniana corrisponde al transetto dei Tre Imperatori (390 d.C.) sul quale poggia il grande sarcofago che segnalava la Tomba dell’Apostolo all’epoca della costruzione della nuova grande basilica, ed era delimitato da un podio presbiteriale monumentale, come lascerebbe supporre la poderosa platea di fondazione spessa m. 1,66, che grava direttamente sul pavimento dell’abside costantiniana. Non è escluso che all’interno di tale fondazione possano esservi i resti del tropaion eretto sulla tomba dell’Apostolo Paolo. Si può ritenere che tra il 1838 e il 1840 nell’area della Confessione sia stato rimosso o demolito tutto ciò che poggiava sul pavimento dei Tre Imperatori. Per gettare le fondazioni del nuovo presbiterio e dell’altare papale fu persino spostato il sarcofago di S. Paolo. Nell’area indagata non sono stati finora rinvenuti, tra il livello pavimentale del 390 e la fondazione del 1840 resti di strutture riferibili ad altre epoche.

Basilica di S. Sebastiano (SS. Apostolorum), di età costantiniana. Veduta dall’abside verso ovest

"È certo, come lo è sempre stato, che la vita è un dono di Dio immensamente prezioso e immensamente apprezzato, e chiunque può averne la prova puntando una pistola contro la tempia di un pessimista.

Solo certi nostri contemporanei non vogliono che gli si punti contro nessuno problema ed evitano le semplici domande quasi fossero

pistolettate". (G.K. Chesterton, La mia fede)

……………..................... Prof. Andrea Monda

…………………………………….… Prof. Mario Sissa