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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO BICOCCA Facoltà di Scienze della Formazione Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione COME I BAMBINI COSTRUISCONO LE CONOSCENZE SULL’EVOLUZIONE A SCUOLA: UN’ESPERIENZA IN CLASSE Relatore: Prof. Dietelmo Pievani Correlatore: Dott. Marcello Sala Tesi di laurea di: Francesca Mazzocchi Matricola 076568

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO BICOCCA

Facoltà di Scienze della Formazione

Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione

COME I BAMBINI COSTRUISCONO

LE CONOSCENZE SULL’EVOLUZIONE

A SCUOLA: UN’ESPERIENZA IN CLASSE

Relatore:

Prof. Dietelmo Pievani

Correlatore:

Dott. Marcello Sala

Tesi di laurea di:

Francesca Mazzocchi Matricola 076568

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A.A. 2008/2009

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INDICE

1. INTRODUZIONE ..........................................................................................pag. 3

2. SFONDI CULTURALI. ....................................................................................... 6

2.1 Sfondo filosofico-pedagogico ..................................................................... 6

2.1.1 Costruttivismo: un quadro generale .................................................. 6

2.1.2 Piaget: animismo e finalismo ........................................................... 8

2.1.3 La formazione delle conoscenze secondo Piaget............................... 9

2.1.4 L’autopoiesi di Maturana e Varela come ipotesi pedagogica .......... 11

2.1.5 I “giochi linguistici” di Wittgenstein .............................................. 12

2.1.6 Vygotskij: conoscenza come interiorizzazione

dell’interazione sociale................................................................... 14

2.1.7 Il ruolo dell’adulto e la “zona di sviluppo prossimale”

di Vygotskij ................................................................................... 16

2.1.8 Bruner: il contesto culturale e il registro narrativo .......................... 17

2.1.9 Pontecorvo: la conversazione a scuola come luogo

di costruzione della conoscenza...................................................... 20

2.2 Sfondo epistemologico ............................................................................. 22

2.2.1 Perché l’evoluzione? ...................................................................... 22

2.2.2 Nodi epistemologici della teoria dell’evoluzione ............................ 23

3 LA RICERCA..................................................................................................... 31

3.1 Scelte metodologiche................................................................................ 31

3.1.1 Una ricerca qualitativa e “micropedagogica”................................. 31

3.1.2 Strategie di osservazione: l’ascolto................................................. 32

3.1.3 Il setting ......................................................................................... 34

3.1.4 Trascrizione della conversazione e commenti................................. 36

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3.2 Realizzazione e risultati ........................................................................... 36

3.2.1 La scuola e la classe ....................................................................... 36

3.2.2 La conversazione ........................................................................... 37

3.2.3 I temi evoluzionistici emersi dalla conversazione ........................... 72

3.2.4 Le dinamiche di interazione con l’adulto in rapporto

alla costruzione di conoscenza da parte dei bambini ....................... 86

4 CONCLUSIONI ................................................................................................. 96

5 BIBLIOGRAFIA ................................................................................................ 99

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1. INTRODUZIONE

Con questa ricerca mi sono proposta di rispondere a domande relative al tipo di dinami-

ca messa in atto dai bambini per costruire conoscenze su uno specifico argomento quale

quello dell’evoluzione dei viventi. Come sfondo di riferimento c’è l’idea costruttivista

che la conoscenza non rappresenta in modo fedele un ordine esterno indipendente

dall’osservatore ma è costruita come relazione tra soggetto e oggetto.

In campo pedagogico ho assunto come riferimento le idee espresse nei loro lavori da

studiosi quali Piaget, Vygotskij e Bruner e in recenti ricerche realizzate da Pontecorvo e

Sala, per indagare su come le interazioni fra i bambini stessi e fra i bambini e gli adulti

possano influire sui processi di costruzione di significato e di apprendimento in un con-

testo scolastico, processi in cui il contesto culturale e di comunicazione sociale influisce

sulle modalità e sui contenuti della conoscenza.

La prospettiva con la quale è stata realizzata questa ricerca è di tipo epistemologico ge-

netico: si propone di studiare le caratteristiche dei processi di conoscenza scientifica non

all’interno della prassi della comunità scientifica, ma come si manifestano nel corso del-

lo sviluppo mentale dei bambini che è anche inserimento nella cultura, avendo sempre

presente quindi le “abitudini” epistemologiche insite nel nostro sistema culturale.

La ricerca è stata realizzata analizzando una conversazione in una classe quinta elemen-

tare; lo scopo era comprendere come i bambini interagendo in un contesto di comunica-

zione riuscissero a costruire conoscenza attorno all’argomento proposto: l’evoluzione

degli esseri viventi. Questa scelta del focus della ricerca è dovuta all’influenza che la

teoria dell’evoluzione riveste tutt’ora sia in campo scientifico, sia nella vita quotidiana;

le idee evoluzioniste risultano però di difficile comprensione alla maggior parte delle

persone ed è quindi interessante proporle ai bambini, soggetti profondamente coinvolti

nei processi di acquisizione della cultura e di costruzione delle conoscenze.

Le ipotesi che hanno guidato questa ricerca per quanto concerne l’apprendimento dei

bambini e l’interazione con l’adulto sono:

- il processo che conduce i bambini alla costruzione di nuove conoscenze è un

processo sociale, che si fonda su uno sfondo culturale di riferimento comune;

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- per comprendere questo processo è necessario partire da ciò che i bambini stessi

propongono e domandano, in un contesto di interazione;

- è possibile che i bambini apprendano un argomento anche complesso non rima-

nendo passivi davanti ad esso, ma al contrario essendo stimolati al confronto e

alla cooperazione.

Nel contesto della ricerca sono sorte domande a cui ho cercato risposta:

- Che funzioni svolge l’adulto nel ruolo di conduttore di un gruppo classe durante

l’esplorazione di un determinato argomento? Che strumenti utilizza e come si ri-

velano utili tali strumenti?

- Qual è la strategia migliore per comprendere i bambini e farsi comprendere?

- Quali sono le strategie efficaci per stimolare e sostenere il gruppo?

- Attraverso quali modalità di interazione e organizzazione i bambini riescono a

dare risposta alle domande?

- Come influisce il contesto culturale sociale sul processo conoscitivo?

Per quanto concerne più strettamente l’apprendimento della teoria dell’evoluzione, esi-

stono ricerche (Toneatti, 2008) che si interrogano sull’origine di misconcezioni ampia-

mente diffuse, confutano l’ipotesi che esistano fasi di sviluppo delle idee

sull’evoluzione (creazionismo – lamarckismo - darwinismo) legate all’età e sostengono

invece che determinanti siano le esperienze e i contesti di apprendimento, ricavandone

anche progetti di sperimentazione scolastica specifica. A partire da queste acquisizioni,

le domande a cui mi interessa rispondere sono diverse e presuppongono una ricerca di

tipo qualitativo, che abbia come focus il gruppo in situazione di co-costruzione di cono-

scenza:

- È possibile affrontare un tema complesso come quello evoluzionistico con dei

bambini?

- Quali dei molti nodi di rilevanza epistemologica della teoria dell’evoluzione ver-

ranno affrontati dai bambini? Quali saranno considerati i più importanti? Verso

quali i bambini si mostreranno più curiosi?

- Quali conoscenze i bambini possiedono già sull’argomento? quali concezioni

esprimono?

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- Partendo dalle loro idee, è possibile rinegoziare i significati giungendo a delle

teorie più adeguate scientificamente?

Le strategie di interpretazione della conversazione sono fondamentali per rispondere a

queste domande e una “pedagogia dell’ascolto” appare la modalità più adatta a cogliere

tutta la ricchezza di ciò che i bambini hanno costruito in questa interazione.

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2. SFONDI CULTURALI

Il presente lavoro poggia sullo sfondo di ricerche e teorie formulate da illustri pedagogi-

sti, psicologi, biologi e ricercatori e su un confronto con i nodi epistemologici fonda-

mentali della teoria dell’evoluzione.

In questo capitolo non intendo esporre, riassumendole, queste teorie, ma riportarne que-

gli elementi che mi sono serviti come strumenti per la presente ricerca, per interpretare e

dare un significato alle mie osservazioni dirette.

2.1 SFONDO FILOSOFICO-PEDAGOGICO

2.1.1 COSTRUTTIVISMO: UN QUADRO GENERALE

“La più singolare caratteristica umana è l'attitudine ad apprendere. L'apprendere è co-

si profondamente insito nell'uomo, da essere quasi involontario, ed alcuni studiosi del

comportamento umano hanno perfino sostenuto che la peculiarità della nostra specie è

una particolare attitudine ad apprendere […]” (Bruner 1966, pag.177)

La maggior parte degli autori a cui farò riferimento possono essere considerati costrutti-

visti.

Questo quadro teorico nasce gradualmente nel corso degli anni ’80 e scaturisce dal crol-

lo dell’idea che la conoscenza possa essere oggettivamente appresa. Nasce soprattutto

come esigenza di abbandonare un cognitivismo H.I.P. (Human Information Processing)

che non ha mai del tutto rinunciato ad alcune componenti meccanicistiche proprie del

comportamentismo.

Sono tre i concetti principali che caratterizzano l'attuale costruttivismo: il primo è che la

conoscenza è prodotto di una costruzione attiva del soggetto; il secondo è che ha carat-

tere “situato”, ancorato nel contesto concreto; e infine il terzo è il fatto che si svolge at-

traverso particolari forme di collaborazione e negoziazione sociale.

In primo piano viene posta la “costruzione del significato” sottolineando il carattere at-

tivo, polisemico, non predeterminabile di tale attività.

Il costruttivismo recupera alcuni concetti, che risalgono agli inizi del secolo ed hanno

seguito la progressiva crisi del positivismo e del neopositivismo. La conoscenza come

costruzione attiva del soggetto è un concetto presente in gran parte della ricerca psico-

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pedagogica di questo secolo: Piaget, Vygotskij e Bruner, in questo senso possono essere

considerati costruttivisti.

Il costruttivismo pone il soggetto che apprende al centro del processo formativo, in al-

ternativa ad un approccio educativo basato sulla centralità dell'insegnante, unico e indi-

scusso detentore di un sapere universale, astratto e indipendente dal contesto di riferi-

mento.

Perciò, la conoscenza è intesa come il prodotto di una costruzione attiva da parte del

soggetto ed è strettamente collegata alla situazione concreta in cui avviene l'apprendi-

mento; essa nasce dalla collaborazione sociale e dalla comunicazione interpersonale.

Secondo Bruner (Bruner, 1990), infatti, la conoscenza è un "fare il significato", è un'o-

perazione d'interpretazione creativa che lo stesso soggetto attiva tutte le volte che vuole

comprendere la realtà che lo circonda ed è per questo che non esistono conoscenze "giu-

ste" e conoscenze "sbagliate", come non esistono stili e ritmi di apprendimento ottimali.

Uno degli scopi fondamentali del costruttivismo è accettare e promuovere il confronto

derivante da più prospettive individuali.

L'apprendimento non è visto solo come un'attività personale, ma come il risultato di

una dimensione collettiva d'interpretazione della realtà. La nuova conoscenza si costrui-

sce non solo in base a ciò che è stato acquisito in passate esperienze ma anche e soprat-

tutto attraverso la condivisione e negoziazione di significati espressi da una "comunità

di interpreti".

Nel costruttivismo si assume che la formazione sia un'esperienza situata in uno specifi-

co contesto: il soggetto, spinto dai propri interessi, costruisce attivamente una propria

concezione della realtà attraverso un processo di integrazione di molteplici prospettive

offerte.

Oggi il costruttivismo è parte essenziale della cultura filosofica contemporanea,

persuasiva e stimolante per molti, discutibile per altri:

• come teoria della conoscenza risponde a domande del tipo: cosa significa co-

noscere? come avviene il processo della conoscenza? quale rapporto c'è fra cono-

scenza e realtà? • come teoria dell'apprendimento diffusa presso psicologi e pedagogisti rispon-

de a domande del tipo: come funziona la nostra mente? come apprendiamo?

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• infine come metodologia didattica, per ora ancora in via di definizione, cerca di

rispondere a domande del tipo: quali sono le caratteristiche di un insegnamento efficace

nel promuovere apprendimento? Si ritiene necessario mettere in primo piano i soggetti

per “sapere quello che sanno”, utilizzando il contesto della comunicazione didattica co-

me situazione “ecologica” per lo studio dello sviluppo.

2.1.2 PIAGET: ANIMISMO, FINALISMO

Grazie alle sue ricerche, Piaget individua un elemento presente in ogni bambino:

l’animismo diffuso; tale termine indica la tendenza a considerare i corpi come vivi e do-

tati di intenzioni. L’incapacità del bambino di motivare i suoi giudizi lo porta a usare

tale tendenza come un vero e proprio schema di spiegazione.

Il pensiero del bambino, secondo Piaget, parte da un’incapacità nel distinguere tra corpi

viventi e corpi inerti, o meglio tra chi crea moto e chi lo subisce. Egli riporta un esem-

pio chiarificatore:

“talvolta […] un fanciullo ha detto che le piante ‘crescono’, ma questo era per lui un

modo di concepire il fatto che sono animate da un movimento proprio: il moto della

crescita era messo sullo stesso piano del moto delle nuvole o degli astri.” (Piaget 1926,

pag. 183). Per i bambini infatti quasi tutti i corpi nascono e crescono: il loro pensiero parte

dall’idea di una vita universale. Piaget fa notare come la distinzione fra azioni intenzio-

nali e movimenti meccanici non sia innata e anzi presuppone una riflessione molto evo-

luta:

“Nessuna esperienza positiva può infatti costringere uno spirito ad ammettere che le

cose non sono né per noi né contro di noi, e che il caso e l’inerzia regnano nella natu-

ra.” (Piaget 1926, pag.185). Quando un bambino cercherà di spiegarsi il comportamento imprevisto di un oggetto,

gli attribuirà intenzionalità. L’animismo gli serve per spiegarsi l’obbedienza delle cose

all’uomo che egli crede onnipotente.

All’interno dell’innatismo diffuso, Piaget colloca il “finalismo infantile”, un atteggia-

mento che viene usato dai bambini per spiegare quasi tutto: la regolarità della natura, la

fisica…

“Un tale orientamento mostra abbastanza chiaramente quanto l’universo infantile sia

permeato, nelle grandi linee come nei minuti particolari, di intenzionalità.” (Piaget

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1926, pag. 186). Ancora scrive Piaget,

“La causa con cui il bambino cerca di spiegare i fenomeni, è un’intenzione creatrice e

questo spiega anche l’universale intenzionalità attribuita dal fanciullo alla natura.” (i-

bidem) Tutti questi atteggiamenti (in particolare l’animismo) sono spiegati da Piaget anche in

termini linguistici: se il bambino non riesce a esprimere con sufficiente precisione il suo

pensiero, lo forzerà:

“Questo continuo disaccordo fra pensiero parlato e pensiero implicito fa sì che un fan-

ciullo appaia all’interrogatorio ora più ora meno animista di quel che realmente è.”

(Piaget 1926, pag. 195)

2.1.3 LA FORMAZIONE DELLE CONOSCENZE SECONDO PIAGET

Piaget si propone di rispondere a diversi interrogativi sulla formazione dell’intelligenza

nel bambino, sulla sua eventuale presenza fin dalla nascita, sulla possibilità che sia il

frutto dell’accumularsi di molteplici esperienze o che sia il risultato dell’interazione

dell’organismo con l’ambiente. Scegliendo quest’ultima ipotesi, Piaget spiega

l’intelligenza come mezzo efficace di cui l’uomo dispone per agire sulla realtà circo-

stante, ampliando così la portata del suo adattamento biologico, attraverso i processi di

assimilazione e di accomodamento (Piaget, 1937).

Lo sviluppo dell’intelligenza è quindi caratterizzato da un equilibrio dinamico fluttuante

(omeostasi): quando una nuova informazione non risulta immediatamente interpretabile

in base agli schemi esistenti il soggetto entra in uno stato di disequilibrio e cerca di tro-

vare un nuovo equilibrio modificando i suoi schemi cognitivi incorporandovi le nuove

conoscenze acquisite. Questo equilibrio si realizza fra un processo di assimilazione dei

dati dell’esperienza a schemi mentali (inizialmente di ordine percettivo motorio e suc-

cessivamente predicativi) già presenti nell’individuo, e un processo di accomodamento

cioè di modificazione degli schemi in funzione della realtà assimilata, quando

l’esperienza è eccessivamente nuova e non si può adattare ad essi. Queste due funzioni

complementari, garantendo un equilibrio tra continuità e cambiamento, guidano gli

scambi tra organismo e ambiente e determinano l’adattamento e l’accrescersi del patri-

monio dell’individuo, che rende possibili successivi e sempre più avanzati adattamenti.

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L’adattamento come accordo del pensiero con le cose, costituisce la “prima invariante

funzionale” a cui si affianca l’organizzazione come accordo del pensiero con se stesso,

costituendo la “seconda invariante funzionale”. Infatti qualsiasi comportamento intelli-

gente presuppone un’organizzazione che rappresenta la tendenza del funzionamento co-

gnitivo a costruire delle strutture/sistemi che essendo totalità organiche presentano leggi

e proprietà peculiari. In un sistema il tutto non è soltanto la somma delle parti, ma

l’agire di ciascun elemento è strettamente correlato agli altri e ciascuna trasformazione

che si realizza interessa il sistema organizzato nel suo insieme. Lo sviluppo cognitivo

appare come un processo orientato al raggiungimento di stati di equilibrio sempre mag-

giori, attestando un elevato grado di coerenza nello sviluppo raggiunto da un bambino

in un preciso momento relativamente a differenti competenze e abilità. Il soggetto non

può quindi compiere consistenti progressi senza che ciò abbia comportato una modifi-

cazione di tutta la struttura. Essendo una invariante funzionale, l’organizzazione è atte-

stata a tutte le età, seppur muti progressivamente le sue forme di organizzazione.

Un esempio chiaro dell'azione di questi processi si trova nello sviluppo del linguaggio

verbale dove vi è un vivace alternarsi di processi di assimilazione e di accomodamento.

È questa interazione fra i due processi che permette il progressivo adattamento del lin-

guaggio personale al linguaggio socializzato, e quindi alla realtà che quest'ultimo serve

a descrivere.

I concetti di assimilazione e accomodamento non sembrano essere sufficienti a spiegare

quello che succede nella comprensione e nell’uso delle rappresentazioni culturali relati-

ve all’evoluzione.

Piaget è certamente uno dei più grandi pedagogisti e un riferimento alle sue teorie è im-

prescindibile in qualsiasi ricerca di sfondo pedagogico. Piaget descrive lo sviluppo del

pensiero del bambino a seconda delle età, ma non si occupa degli aspetti culturali e so-

ciali che possono influenzare il comportamento e l’apprendimento dei bambini. Per

questo farò riferimento ad altre teorie.

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2.1.4 L’AUTOPOIESI DI MATURANA E VARELA COME IPOTESI PEDA-

GOGICA

Humberto Maturana e Francisco Varela, biologi cileni, elaborano il concetto di auto-

poiesi (Maturana - Varela, 1980), termine coniato unendo le parole greche autos (se

stesso) e poiesis (creazione, produzione). La domanda di partenza per questi due autori

è la seguente: “Che cosa è comune a tutti i sistemi viventi, per cui noi li qualifichiamo

come viventi?” o più semplicemente “che cos’è un vivente?”. La risposta è la constata-

zione che gli organismi viventi differiscono dalle macchine in quanto producono se

stessi.

Un organismo vivente cercherà di rigenerarsi mantenendo inalterata la propria organiz-

zazione, ovvero le relazioni che connettono le diverse componenti del sistema. Un vi-

vente si identifica con la sua attività di auto-produzione e questa stessa è la sua specifi-

cità: Maturana e Varela la chiamano “unità autopoietica”. Fondamentale è che i sistemi

autopoietici subordinano tutti i cambiamenti al mantenimento della propria organizza-

zione. Come scrive Marcello Sala:

“Un sistema autopoietico, diciamo un passero, non può non mantenere la propria or-

ganizzazione, perché è ciò per cui è un passero […]. Per mantenere la propria organiz-

zazione, per restare passero, il passero, di fronte a delle perturbazioni che possono

giungere dall’esterno, può andare incontro a dei cambiamenti, può cambiare la propria

struttura, vale a dire ciò che in questo momento materialmente e individualmente costi-

tuisce la sua organizzazione ‘da passero’ […], in altre parole può apprendere.” (Sala,

2007, p.26). Un altro termine utilizzato da Maturana e Varela è “accoppiamento strutturale”: indica

il processo continuo di reciproche perturbazioni tra organismo e ambiente. Questo si

realizza nel caso in cui le influenze reciproche innescano ristrutturazioni che non di-

struggono l’organizzazione del sistema. In queste reciproche interazioni, la struttura

dell’ambiente non determina i cambiamenti nell’essere vivente, ma è l’essere vivente a

determinare la forma, la direzione e la modalità del suo stesso cambiamento, imprescin-

dibilmente dalla propria struttura.

“Dunque l’ambiente innesca solamente i cambiamenti strutturali. Il senso del cambia-

mento è quello del mantenimento dell’identità dell’essere vivente” (Sala 2007, p. 27).

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Poiché la distinzione tra organismo e ambiente dipende dal dominio cognitivo

dell’osservatore, questo discorso può valere per ogni organismo e quindi

l’accoppiamento strutturale è la base per una co-evoluzione tra organismi.

Marcello Sala, sulla base di questa teoria, suggerisce tre ipotesi pedagogiche:

“La prima nasce dal considerare che l’autoorganizzazione è generatrice di senso; la

perturbazione in sé non porta alcun significato: innesca ma non determina il cambia-

mento strutturale; ciò equivale a dire, in contesto educativo, che il contenuto

dell’apprendimento non sta nell’insegnamento, ma nell’esito del processo di modifica-

zione dell’identità cognitiva del soggetto […], che esso è capace di mettere in moto, e la

forma di questo processo dipende dalla storia del soggetto.

La seconda idea è che questo senso, ovvero la forma dell’apprendimento, appare nella

descrizione di un osservatore niente affatto passivo; in campo educativo questo osser-

vatore è un insegnante che modifica ‘strategicamente’ il proprio intervento in base alle

informazioni che ricava dall’osservazione ma, se l’insegnante modifica il proprio com-

portamento significa che non è solo osservatore: è contemporaneamente attore, ovvero

interagisce con i suoi allievi. E allora ecco la terza idea: l’apprendimento dipende dal

mantenimento dell’accoppiamento strutturale tra insegnante e allievi, la possibilità cioè

di essere reciprocamente fonte di perturbazioni che innescano cambiamenti.” (Sala,

2007, p.32)

2.1.5 I “GIOCHI LINGUISTICI” DI WITTEGENSTEIN

Quella dei “giochi linguistici” è una teoria proposta da Ludwig Wittgenstein nelle Ri-

cerche filosofiche (Wittgenstein, 1953), e questo modo di definire i contesti comunicati-

vi socialmente condivisi mi sembra il più aderente al ruolo che svolgono nelle conver-

sazioni oggetto di questa ricerca.

La teoria dei giochi linguistici vuole sostituire a una visione del linguaggio, "specchio

del mondo", "immagine della realtà", una in cui il carattere denotativo del linguaggio è

solo una delle tante sue funzioni, dei suoi impieghi. Wittgenstein rivede anche la sua

concezione di significato che così definisce:

“il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio” (Wittgenstein, 1953,

par. 43)

Ma l'uso non è una regola che si possa imporre al linguaggio, è la consuetudine delle

sue tecniche. Cade così anche l'aspirazione a ricercare un linguaggio perfetto, d'altra

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parte dove c'è un senso c'è anche ordine perfetto, anche nella più vaga delle proposizio-

ni.

Non ha quindi senso studiare i fenomeni linguistici in modo generale e generalizzante

prescindendo dagli infiniti usi possibili delle parole e considerando solo i nomi, come

aveva fatto Agostino "pensando che il resto si aggiusterà in qualche modo".

Al principio delle Ricerche filosofiche, Wittgenstein asserisce che quasi mai le parole

funzionano come nomi, ovvero come etichette che incolliamo in modo rigido ed univo-

co sugli oggetti. Se le cose stessero sempre in questi termini, i problemi della definizio-

ne e della comunicazione espressiva risulterebbero molto più difficili: ma le cose non

stanno così. Sia nel linguaggio scientifico sia (e in misura ancora maggiore) in quello

ordinario, le parole si configurano piuttosto come mobili costrutti, come fluidi strumenti

il cui significato muta in rapporto alle funzioni specifiche cui sono destinati. Ed è pro-

prio la funzione, la funzione pratica del linguaggio, che deve essere concepita in manie-

ra totalmente innovativa: una maniera non più univoca, ma pluralistica. In effetti, come

sottolinea con particolare energia Wittgenstein, lo scopo degli enunciati linguistici non è

solo quello di raffigurare il mondo o di descriverlo:

"Si pensa che l'apprendere il linguaggio consista nel denominare oggetti. E cioè: uomi-

ni, forme, colori, dolori, stati d'animo, numeri, ecc. Come s'è detto, il denominare è si-

mile all'attaccare a una cosa un cartellino con un nome. Si può dire che questa è una

preparazione all'uso della parola. Ma a che cosa ci prepara? " (Wittgenstein, 1953,

par. 26)

La definizione di “giochi linguistici” sottolinea che il linguaggio è un'attività: creare

nuovi linguaggi equivale a creare nuove "forme di vita":

“la parola ‘gioco linguistico’ è destinata a mettere in evidenza il fatto che parlare un

linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita” (Wittgenstein, 1953, par. 23) Con tale denominazione egli intendeva probabilmente evidenziare, da un lato, il caratte-

re sociale e artificiale (nel senso, non negativo, di non-naturale, di elaborato cultural-

mente dall'uomo) dell'agire linguistico, e dall'altro lato il fatto che questo agire, nono-

stante la sua apparente gratuità e la sua relativa imprevedibilità, ha determinati fini ad

esso immanenti, e soprattutto rispetta (come tutti i giochi) determinate regole. Ed è pro-

prio laddove impiega la nuova definizione del fatto linguistico come gioco che Wittgen-

stein torna a sottolineare in modo molto efficace il fondamentale principio della plurali-

tà delle funzioni linguistiche e degli asserti proposizionali. Wittgenstein stesso indica

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alcuni esempi di giochi linguistici: dare ordini, eseguirli, descrivere un oggetto, riporta-

re un evento, riflettere su un evento, recitare cantare, fare uno scherzo o raccontarlo,

tradurre da una lingua all'altra, chiedere, ringraziare, augurare, pregare... Anche la ma-

tematica rientra nei giochi linguistici perché essa implica l'agire secondo determinate

regole. La varietà dei giochi linguistici è tale che essi non possono essere ricondotti a un

concetto comune: essi hanno fra loro somiglianze e relazioni diverse

"con le nostre proposizioni noi facciamo le cose più diverse" (Wittgenstein 1953, par.

27). Un celebre esempio addotto nelle Ricerche filosofiche (par. 27) riguarda il linguaggio

esclamativo. Wittgenstein menziona le seguenti esclamazioni: "acqua! Via! Ahi! Aiuto!

Bello! No!". È evidente che queste locuzioni adempiono a compiti espressivi che nulla

hanno a che fare con la funzione denominativa: le prime di esse esprimono un'invoca-

zione, le seconde un ordine (o una "preghiera"), la terza un lamento, e così via. Il che

dimostra, appunto, per riprendere un'espressione di Wittgenstein poc'anzi citata, che col

linguaggio noi letteralmente "facciamo le cose più diverse".

2.1.6 VYGOTKSIJ: CONOSCENZA COME INTERIORIZZAZIONE

DELL’INTERAZIONE SOCIALE

Il pensiero di Lev Semenovich Vygotskij si sviluppa nei primi decenni del Novecento,

ma viene scoperto dalla comunità scientifica occidentale con trent’anni di ritardo. No-

nostante ciò la sua attualità non smette di stupire. Vygotskij parte dagli assunti della fi-

losofia marxista per articolare, parallelamente ad essa, una teoria storico-sociale dello

sviluppo ontogenetico dell’uomo nel contesto culturale moderno.

Nella teoria vygotskijana, pensiero e linguaggio non si sviluppano parallelamente, né

dal punto di vista ontogenetico, né da quello filogenetico. Questi due livelli evolutivi

però si intersecano più volte nel loro cammino, e così facendo permettono all’organismo

in evoluzione (al bambino) di integrare processi complessi all’interno di un sé in costru-

zione.

Ogni funzione, nello sviluppo culturale, appare due volte, prima a livello interpersonale

(nel linguaggio) e poi a livello intrapersonale (nel pensiero). È questa funzione di me-

diazione tra mondo esterno e pensiero che l’autore ritiene specifico compito del lin-

guaggio egocentrico prima, e del linguaggio in generale poi. Egli prospetta tre stadi del-

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lo sviluppo linguistico: linguaggio esteriore, linguaggio egocentrico e linguaggio inte-

riore. Il primo momento consiste in un apprendimento di tipo imitativo; nel secondo il

bambino utilizza la sua capacità linguistica per interiorizzare gradualmente il linguag-

gio, fino a farlo diventare mentale e quindi autonomo. A questo punto il linguaggio di-

venta uno strumento del pensiero.

Secondo Vygotskij lo sviluppo dell’essere umano è un processo sociale, cioè avviene

grazie e attraverso lo scambio relazionale del bambino con le altre persone interagenti

nella sua quotidianità. In questo scambio il bambino partecipa come soggetto attivo, do-

tato di intenzioni e di iniziative che si manifestano nella sua esperienza concreta. Questo

processo è eminentemente culturale, cioè avviene in un contesto storico ben definito, a

livello sociale, relazionale e di condivisione di significato. In questo “cammino” il bam-

bino fa uso degli strumenti, o artefatti, che si sono sviluppati durante l’evoluzione filo-

genetica della società a cui appartiene. Questi strumenti possono essere tecnici oppure

psicologici (simbolici). Di questi ultimi fa parte il linguaggio. La mente, il cui sviluppo

consiste nel padroneggiare le strutture simboliche, diviene quindi uno strumento di me-

diazione tra il mondo esterno e quello interno, in continua comunicazione. Questa me-

diazione permette al soggetto di attribuire un significato all’esperienza e di contribuire

con la sua acquisizione al proprio sviluppo.

Vygotskij colloca quindi il linguaggio al centro della “linea sociale di sviluppo” (stori-

ca), e fa interagire questa con la “linea naturale di sviluppo” (genetica) tramite la “me-

diazione semiotica”. Quest’ultima viene articolata dall’individuo tramite l’uso di deter-

minati strumenti, che l’autore chiama “artefatti”, per evidenziare che si sono formati

storicamente attraverso le modifiche che l’uomo ha apportato all’ambiente nella sua e-

voluzione, e si sono accumulati nel bagaglio culturale di ogni specifico gruppo sociale.

La cultura è il medium speciespecifico dell’essere umano, e il linguaggio è il suo stru-

mento prediletto.

Anche i meccanismi centrali di regolazione si sviluppano dall’esterno all’interno: fon-

damentale è perciò ancora la relazione con adulti e pari. Il bambino diventa autonomo

prendendosi progressivamente carico delle varie funzioni meta-cognitive necessarie al

proprio apprendimento. L’origine di queste funzioni si situa nelle interazioni sociali:

all’inizio un esperto o un pari stimola l’attività sociale e progressivamente, interagendo,

si arriva ad una condivisione delle funzioni che permettono di risolvere i problemi.

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Vygotskij tratta anche la specificità della costruzione delle conoscenze riguardo a pro-

blemi scientifici. In merito egli osserva che i bambini sono più capaci di completare fra-

si causali e avversative quando sono in gioco concetti scientifici rispetto a quando si

tratta di nozioni della vita quotidiana. I concetti scientifici possono svilupparsi nei bam-

bini sulla base di generalizzazioni elementari. Lo studioso coglie il rapporto che lega le

conoscenze spontanee ai sistemi di conoscenze che sono trasmessi dalla scuola.

L’interdipendenza reciproca tra queste due, segnala la necessità che

“mentre questi ultimi si devono stanziare della ricca esperienza personale che caratte-

rizza i primi, questi per converso hanno bisogno di arrivare a una presa di coscienza

del sistema di relazioni logiche in cui possono essere inseriti” (Pontecorvo, 1991,

pag.174)

2.1.7 IL RUOLO DELL’ADULTO E LA “ZONA DI SVILUPPO PROSSIMALE”

Per Lev Vygotskij le funzioni psicologiche che richiedono controllo consapevole devo-

no prima essere usate e praticate inconsciamente nello scambio sociale, per poi essere

“interiorizzate”. In ogni momento dello sviluppo di un soggetto vi sono funzioni psico-

logiche in maturazione che non operano ancora da sole, ma possono farlo se sostenute e

attivate da forme di interazione e di regolazione offerte da un altra persona.

L’acquisizione di una determinata funzione o capacità non avviene secondo un modello

“tutto-o-niente”. Tra l’incapacità di fare qualcosa e la capacità di eseguirla in maniera

autonoma vi è un passaggio intermedio, un’area di negoziazione sociale dei significati

che l’autore chiama “zona di sviluppo prossimale” ovvero

“la distanza tra il livello effettivo di sviluppo, così com’è determinato da problem-

solving autonomo, e il livello di sviluppo potenziale, così com’è determinato attraverso

il problem-solving sotto la guida di un adulto o in collaborazione con i propri pari più

capaci” (Vygotskij, 1934). In questa posizione il bambino è in grado di risolvere un problema con l’aiuto/sostegno

di un altro individuo socialmente più competente (un adulto o un bambino più grande).

La zona di sviluppo prossimale definisce quelle funzioni che non sono ancora mature

nel bambino ma che sono alla portata del suo processo di maturazione. Il livello effetti-

vo di sviluppo invece definisce le funzioni che sono già maturate (competenze indivi-

duali).

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Lo sviluppo della conoscenza, secondo Vygotskij, avviene in modo disomogeneo: si

sviluppano di più certi settori e meno altri; tale sviluppo permette di comprendere me-

glio i vari tipi di intelligenza e le varie propensioni stilistiche. Nella pratica educativa, il

soggetto educante dovrebbe spostare la propria attenzione da quello che il bambino è in

grado di fare da solo a quello che potrebbe fare se aiutato dall’insegnante o dai compa-

gni. Mirare la proposta didattica nella zona di sviluppo prossimale e organizzare in mo-

do efficace gli aiuti e la riflessione meta-cognitiva, diventa uno degli aspetti cruciali

dell’apprendimento. È dunque efficace quel processo di insegnamento-apprendimento

che precede e trascina lo sviluppo, ma allo stesso tempo è possibile insegnare al bambi-

no solo ciò che egli è già capace di apprendere.

Clotilde Pontecorvo ha documentato questa dinamica ad esempio nel caso della argo-

mentazione, che nasce come strategia efficace nella risoluzione di conflitti tra soggetti e

diventa, per il soggetto, il nucleo di sviluppo del ragionamento.

2.1.8 BRUNER: IL REGISTRO NARRATIVO E IL CONTESTO CULTURALE

Bruner nei suoi scritti affronta due temi chiave per la presente ricerca e in particolare

per l’analisi della conversazione: le caratteristiche del registro narrativo e l’importanza

dello sfondo culturale di riferimento.

Lo studioso sostiene che una delle forme di discorso più diffuse e più potenti nella co-

municazione sia appunto quella della narrazione. Tale struttura è insita nell’interazione

sociale ed è anche ciò che spinge il bambino ad assimilare le forme grammaticali e che

di conseguenza ne determina la priorità. Bruner identifica quattro componenti gramma-

ticali fondamentali alla base dell’efficacia della narrazione:

“richiede in primo luogo un mezzo per mettere in rilievo l’azione umana […]. In secon-

do luogo, richiede che sia stabilito e mantenuto un ordine sequenziale […]. In terzo

luogo, la narrazione richiede anche sensibilità verso ciò che è canonico, e verso ciò che

viola i canoni, nell’interazione umana. Infine, richiede qualcosa di simile alla prospet-

tiva del narratore […].” (Bruner, 1992, pagg. 82-82). Lo studioso approfondisce il primo punto spiegando come il principale interesse lingui-

stico di un bambino si focalizza sull’azione umana e in particolare sull’interazione uma-

na. Il “rendere lineare” è insito in tutte le strutture grammaticali: i bambini iniziano pre-

sto a padroneggiare le forme grammaticali e lessicali proprio per collegare le sequenze

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che articolano. Il terzo requisito consiste nell’attitudine che i bambini mostrano nel con-

centrare l’attenzione su ciò che è inusuale, tralasciando l’usuale: sono molto attenti

all’insolito. Egli cita anche degli studi nei quali è stato dimostrato che le preposizioni

logiche vengono comprese più facilmente dal bambino se sono inserite in una storia:

“La mia ipotesi, […] è che oltre a possedere una predisposizione ‘innata’ e primitiva

per l’organizzazione narrativa, che ci permette di comprenderla e di usarla velocemen-

te e facilmente, la cultura non tarda a fornirci nuove capacità di narrazione […]”

(Bruner, 1990, pag. 84).

C’è un altro elemento che negli scritti di Bruner ha un ruolo fondamentale, la cultura:

“[…] la mente non potrebbe esistere senza la cultura” (Bruner, 1996, pag. 17) Infatti, spiega, l’evoluzione della nostra mente è legata allo sviluppo di un modo di vi-

vere in cui la “realtà” è rappresentata tramite un sistema simbolico condiviso con la co-

munità culturale. La cultura modella la mente dei singoli individui, prosegue Bruner, la

sua espressione è infatti legata all’attribuzione di significati alle cose a seconda delle

situazioni: tali significati sono nella mente e hanno origine e rilevanza nella cultura in

cui sono stati creati. Un individuo non può operare da solo nella ricerca dei significati

perché occorre sempre l’ausilio dei sistemi simbolici della propria cultura:

“Da questo punto di vista l’apprendimento e il pensiero sono sempre situati in un con-

testo culturale e dipendono sempre dall’utilizzazione di risorse culturali.” (Ibidem) Il significato non è mai dato; è sempre un’operazione interpretativa, ricca di ambiguità,

sensibile al contesto, un “fare significato”. Bruner fa un esempio molto significativo a

riguardo:

“Nell’interpretazione di un testo, il significato di una parte dipende da un’ipotesi sui

significati del tutto, il cui significato a sua volta scaturisce dalla valutazione del signifi-

cato delle parti che lo compongono.” (Bruner, 1996, pag. 20) La realtà esterna può essere conosciuta solo attraverso l’intersoggettività, che è la com-

prensione della mente altrui, dei sistemi simbolici a cui quest’ultima fa riferimento. Non

bisogna inoltre dimenticare il ruolo che le emozioni e i sentimenti rivestono nel proces-

so del fare significato e nell’interpretazione della realtà.

Cosa comporta la presenza di uno sfondo culturale durante un processo educativo?

“[…] l’educazione è una delle principali espressioni dello stile di vita di una cultura, e

non semplicemente una preparazione a esso.” (Bruner 1996, pag. 27)

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Secondo Bruner, ci sono due versanti da tenere in considerazione: su quello “macro”

bisogna guardare alla cultura come sistema di valori, di diritti, di scambi, di obblighi, di

opportunità e di potere mentre su quello “micro” bisogna tenere in considerazione come

le richieste di un sistema culturale possono influenzare coloro che operano al suo inter-

no e quindi concentrarsi sul modo in cui gli individui costruiscono i significati che per-

mettono loro di adattarsi al sistema, con costi personali e aspettative.

Bruner indica quattro principi che riguardano il modo in cui la cultura entra a far parte

della realtà quotidiana.

Il primo principio, è quello della prospettiva. Le interpretazioni del significato rifletto-

no le storie degli individui e le forme canoniche in cui la cultura ricostruisce la realtà:

niente è quindi libero da influenze culturali ma allo stesso tempo gli individui non sono

semplicemente specchi della loro cultura.

“La vita in una cultura, dunque, è un’interazione fra le versioni del mondo che le per-

sone si vanno formando sotto l’influsso del clima istituzionale dominante e le versioni

che sono il prodotto delle loro storie individuali.” (Bruner 1996, pag. 28). Il secondo principio è quello delle limitazioni. Lo studioso ne indica due tipi: una è re-

lativa alla natura stessa del funzionamento della mente umana e l’altra è dovuta ai si-

stemi simbolici accessibili alla mente umana e soprattutto al linguaggio e alle nozioni

proprie di una specifica cultura. La prima riguarda il modo in cui si è sviluppata la no-

stra capacità di conoscere, pensare, sentire e percepire:

“Per quanti sforzi di immaginazione facciamo, non possiamo costruirci un concetto di

sé che non individui una certa influenza causale degli stati precedenti su quelli succes-

sivi […], ci dobbiamo concepire come dei ‘soggetti’, spinti da intenzioni che hanno ori-

gine da noi stessi.” (Bruner 1996, pag. 29). La seconda limitazione è relativa ai sistemi simbolici, al linguaggio e ai sistemi di nota-

zioni specifici di una determinata cultura:

“il pensiero prende forma dal linguaggio in cui viene formulato o espresso.” (Bruner

1996, pag. 32) Il principio del costruttivismo è espresso magnificamente dalla frase

“la realtà si crea, non si trova” (Bruner 1996, pag. 33);

ciò significa che la costruzione della realtà è il prodotto del fare significato.

L’ultimo principio è quello dell’interazione:

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“È soprattutto attraverso l’interazione con gli altri che i bambini scoprono cos’è la cul-

tura e come concepire il mondo.” (Ibidem). L’essere umano è l’unica specie che insegna deliberatamente ai suoi simili. Fondamen-

tale è anche la predisposizione all’intersoggettività: questa è possibile grazie al linguag-

gio e grazie alla nostra capacità di capire il significato del contesto in cui vengono pro-

nunciate le parole e vengono compiute le azioni.

2.1.9 PONTECORVO: LA CONVERSAZIONE A SCUOLA COME LUOGO DI

COSTRUZIONE DELLA CONOSCENZA

Il riferimento alle ricerche di Clotilde Pontecorvo e del suo gruppo è dovuto al suo inte-

resse a come si costruisce la conoscenza nel contesto sociale della scuola.

La studiosa descrive la scuola come contesto sociale “naturale”, opponendosi al sistema

didattico attuale fondato sull’ipotesi ingenua che apprendimento coincida con la tra-

smissione di sapere da un insegnante onnisciente ad un alunno che passivamente assor-

be. Una critica molto dura viene rivolta all’idea che l’apprendimento sia il risultato e-

sclusivo di un’attività individuale, un processo “che non si vede”, che avviene

all’interno di ciascuno studente e che quindi non può essere esplicitamente attivato in

classe.

La prospettiva con cui la Pontecorvo considera la scuola è quella dell’apprendimento

mediato dall’interazione sociale; una particolare attenzione è rivolta infatti agli aspetti

che possono essere oggetto di negoziazione tra insegnante e allievo e tra allievi stessi e

“che si manifestano nell’interazione sociale così come essa si svolge nei contesti scola-

stici.” (Pontecorvo 1991, pag. 15) La ricercatrice parla dell’interazione in classe come un tipo di conversazione che segue

le regole generali di una qualsiasi conversazione e tratta la comunicazione sociale e il

lavoro di gruppo come il più importante potenziale educativo: l’interazione dev’essere

dunque caratterizzata dalla discussione, dal confronto delle opinioni e dalla produzione

di argomentazioni.

Pontecorvo basa tale teoria in primo luogo sull’idea che lo sviluppo sia in stretta interre-

lazione con l’educazione e che tale interrelazione si esplichi nella centralità del rapporto

tra sociale e individuale; in secondo luogo, sull’idea che lo sviluppo cognitivo sia sem-

pre sostenuto e mediato da strumenti culturali: sistemi di segni, simbolici, strumenti cul-

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turali, uso della lingua scritta. Lo sviluppo, secondo Pontecorvo, che si rifà a Bruner,

avviene quindi nel contesto di una cultura e attraverso la comunicazione e lo scambio

con gli altri.

Secondo Pontecorvo

“il progredire verso una più complessa organizzazione cognitiva dipende da ciò che il

soggetto già sa e dalle possibilità che gli sono offerte di confrontare questa conoscenza,

sia con i fenomeni […] sia con gli altri bambini e con l’insegnante.” (Pontecorvo 1991,

pag. 181). L’attenzione è diretta verso la specificità dei discorsi che è determinata dall’insieme del-

le condizioni di contorno in cui si svolge la conversazione ed è ciò che dà luogo alle di-

verse pratiche sociali di tipo discorsivo. Si osserva la sorprendente permeabilità di cia-

scuno e la conseguente possibilità di un pensiero costruito collettivamente: un esempio

tipico è la ripresa (più o meno esplicita) di un tema introdotto da un altro bambino allo

scopo di apportarvi piccole modifiche, integrazioni.

Ovviamente non è da tralasciare il patrimonio di conoscenze di ognuno, che fonda la

base sul quale i bambini elaborano e discutono le loro ipotesi, ma ciò non significa valu-

tare il singolo componente del gruppo sulla base delle idee che egli riporta:

“il patrimonio di conoscenze spontanee o quotidiane del bambino costituisce una base

per la costruzione di nuove e più sistematiche conoscenze.” (Pontecorvo, 1991, pag.

175) L’ipotesi generale è che l’apprendimento può avvenire nel contesto sociale della scuola

solo nel momento in cui si assume come centrale il rapporto tra le conoscenze preesi-

stenti dei bambini e i nuovi sistemi di conoscenza apportati dall’esperto che ha quindi il

compito di aiutare i bambini a generalizzare, a distaccarsi dalla singola situazione. Que-

sto ovviamente implica una comprensione reciproca che si basa sulla condivisione della

cultura di riferimento:

“Il presupposto […] è che le abilità di ragionamento informale che i bambini utilizzano

negli scambi tra loro possono operare come un legame tra il senso comune […] e una

conoscenza che tende a diventare più scientifica” (Pontecorvo 1991, pag. 177)

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2.2 SFONDO EPISTEMOLOGICO

2.2.1 PERCHÈ L’EVOLUZIONE?

Le motivazioni che hanno portato alla scelta di tale tema sono molte. Prima di tutto va

ricordato che la teoria dell’evoluzione non è solo una teoria che investe il campo biolo-

gico, ma ha influenzato profondamente il modo di concepire l’esistenza di ognuno. Per

esprimere l’importanza di tale pensiero riprendo il bellissimo libro “Un lungo ragiona-

mento” con cui Ernst Mayr rende omaggio a Darwin; egli scrive:

“La forza d’urto del darwinismo sulle nostre opinioni è stata così grande che è quasi

impossibile per un uomo moderno […] ricostruire il modo di pensare di quel periodo

predarwiniano.” (Mayr, 1991, pag. 13) e ancora:

“La rivoluzione intellettuale compiuta da Darwin andò ben al di là dei confini della

biologia, provocando il crollo di convinzioni profondamente radicate nella coscienza

degli uomini del suo tempo.” (Ibidem). Darwin ha influenzato la nostra visione del mondo perché, grazie alla forza delle sue

intuizioni,

“egli ha posto domande cruciali sulle nostre origini e, con le sue rivoluzionarie teorie,

ha fornito risposte illuminanti, spesso capaci di scuotere il mondo.” (Mayr, 1991, pag.

9). Grazie alla riscoperta dei taccuini scritti da Darwin, si può seguire passo per passo come

lo scienziato arrivò alla formulazione della teoria dell’evoluzione. Egli si pose moltis-

sime domande cruciali e proprio questa capacità di formulare tali domande e la sua te-

nacia nel cercare risposte sono alla base della sua grandezza scientifica. Darwin inoltre,

“era instancabile nel formulare nuove ipotesi sui problemi che di volta in volta erano

oggetto della sua indagine” (Mayr, 1991, pag. 21); infatti procedette formulando e poi rifiutando una teoria dopo l’altra finché ebbe

“l’illuminazione decisiva”; Darwin stesso scrisse:

“Quindici mesi dopo l’inizio della mia ricerca sistematica, lessi per diletto il libro di

Malthus sulla popolazione e poiché, date le mie lunghe osservazioni sulle abitudini de-

gli animali e delle piante, mi trovavo nella buona disposizione mentale per valutare la

lotta per l’esistenza cui ogni essere è sottoposto, fui subito colpito dall’idea che, in tali

condizioni, le variazioni vantaggiose tendessero a essere conservate, e quelle sfavore-

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voli ad essere distrutte. Il risultato poteva essere la formazione di specie nuove. Avevo

dunque ormai una teoria su cui lavorare.” (citato in Mayr, 1991, p.84) Un’altra particolarità della teoria dell’evoluzione è la sua difficile accettazione da parte

sia del mondo scientifico che della gente comune: fra i biologi, scrive Mayr, ci sono vo-

lute quasi tre generazioni perché venisse accettato senza riserve, mentre fra i non-

biologi l’idea è tuttora impopolare:

“E qui si pone un’importante interrogativo: in che modo Darwin poté arrivare a

un’idea che non solo era totalmente in contrasto con il pensiero della sua epoca, ma

era anche così complessa che ancora oggi, dopo un secolo e mezzo, è largamente frain-

tesa” (Mayr, 1991, pag. 85). L’interesse di queste riflessioni per la presente ricerca sta nella possibilità di istituire un

parallelismo tra il procedere dei bambini e quello di Darwin e degli altri scienziati che

lo seguirono nella formulazione della teoria dell’evoluzione: porsi domande cruciali,

mettere in campo le conoscenze culturali di ognuno, gli studi fatti, le osservazioni pro-

venienti dalla propria vita quotidiana, formulare ipotesi e rifiutarle al fine di trovarne

una che risponda alle domande e che sia a prova di confutazione.

La teoria dell’evoluzione è un esempio significativo del procedere dello scienziato nel

processo della scoperta-invenzione: è questo infatti che accomuna bambini e scienziati

di fronte a cose non ancora note.

2.2.2 NODI EPISTEMOLOGICI DELLA TEORIA DELL’EVOLUZIONE

In una conversazione con i bambini non è possibile affrontare tutti gli elementi cardine

della teoria dell’evoluzione e si è quindi scelto di non proporre temi specifici al gruppo,

ma di cogliere sul momento quanto emergesse.

Questa scelta è basata sulla convinzione che non sempre i bambini sono pronti a costrui-

re conoscenza su un certo argomento (vedi “zona di sviluppo prossimale” di Vygotskij)

e che l’interesse sarebbe stato sicuramente maggiore se le tematiche trattate fossero

quelle suscitate dalle domande o dalle idee espresse dai bambini stessi. Il conduttore del

gruppo ha avuto quindi il compito di ricollegare quanto emergeva dal gruppo a temi ri-

guardanti la teoria dell’evoluzione e questo ha permesso al gruppo di “fare scoperte”,

ma è anche accaduto che il gruppo non comprendesse alcune domande che gli sono state

proposte. Come vedremo è significativo notare come i bambini hanno sempre cercato di

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formulare ipotesi per rispondere alle domande o alle osservazioni poste, tranne nel mo-

mento in cui la domanda non risultava chiara.

Vediamo in sintesi i nodi epistemologici che sono stati toccati, riferendoci al libro “La

teoria dell’evoluzione” (Pievani, 1996).

L’EVOLUZIONE DELLA TERRA

“L’evoluzione degli esseri viventi affonda le proprie radici nella storia fisica del nostro

pianeta […]” (Pievani, 2006, pag 17). Molti cambiamenti hanno interessato la struttura fisica della Terra dalla sua nascita: il

tempo di rotazione dell’asse terrestre è diminuito, la disposizione delle terre emerse si è

modificata, nuove rocce si sono formate grazie alle eruzioni vulcaniche, gli agenti atmo-

sferici hanno modificato per un tempo lunghissimo le terre emerse. La superficie della

Terra è attualmente in continuo movimento, generando terremoti o eruzioni. La veste

attuale con cui si mostra il nostro pianeta è quindi frutto di incessanti trasformazioni

iniziate circa 4,5 miliardi di anni fa. Già prima di Darwin i geologi avevano capito che

era necessario un lungo lasso di tempo perché si realizzassero tali cambiamenti; Darwin

stesso confidava in una simile antichità perché

“aveva bisogno di una grande quantità di tempo evolutivo per giustificare la lenta di-

versificazione delle specie.” (Ibidem). Pievani sottolinea la co-evoluzione fra esseri viventi e pianeta tramite l’esempio della

“crisi dell’ossigeno”, ovvero il momento in cui la fotosintesi cambiò le regole del gioco:

da una vita solo marina iniziarono a comparire le prime forme di vita aerobiche mentre

molti altri organismi morirono. Questo esempio

“mostra in modo evidente che la struttura fisica della Terra ha sì condizionato fin

dall’inizio la vita, ma che l’evoluzione degli organismi a sua volta ha trasformato i pa-

rametri fisici fondamentali del pianeta, modificando la composizione chimica

dell’atmosfera […].” (Pievani, 2006, pag. 24).

L’ADATTAMENTO

Inizierei col ricordare che nella teoria darwiniana dell’evoluzione l’adattamento è legato

alla selezione naturale, concetto che però non è stato affrontato durante la conversazio-

ne, ad esclusione di una parentesi finale su mutazioni vantaggiose o svantaggiose.

Il termine adattamento porta con se un’implicazione molto importante:

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“nel corso dell’evoluzione gli organismi non sono soggetti passivi plasmabili a piaci-

mento e […] la selezione non agisce quasi mai come un supremo ingegnere che punta

all’ottimalità standard.” (Pievani, 2006, pag. 73).

Un altro punto fondamentale su cui Pievani si sofferma è appunto il fatto che il termine

“adattamento” non corrisponde al termine “perfezione” e questo per vari motivi: prima

di tutto

“è un processo e prodotto sempre incompiuto, provvisorio, contingente rispetto ai cam-

biamenti ambientali che possono rimettere in moto il meccanismo selettivo a favore di

altri adattamenti.” (Ibidem); per secondo, bisogna considerare che

“un carattere adattativo per una specie può non esserlo per un’altra” (Pievani, 2006,

pag. 74). Del resto, scrive Pievani, nemmeno l’ambiente si presenta come un tutto lineare e sem-

plice da risolvere:

“le pressioni selettive sono spesso multiple e interdipendenti.” (Ibidem). Infine gli stessi esservi viventi non sono completamente liberi di adottare qualsiasi stra-

tegia adattativa bensì sono vincolati da costrizioni fisiche e da vincoli strutturali eredita-

ti.

EXAPTATION

Questo concetto (traducibile con “cooptazione funzionale”) è la risposta alla domanda:

come può la selezione naturale dare origine a organi che ancora non esistono? Come è

possibile che abbia originato un organo complesso come l’occhio o come le ali?

Normalmente, per originare un cambiamento, bastano i meccanismi di accumulo di pic-

coli miglioramenti dovuti alla selezione naturale: vengono privilegiati quegli aggiusta-

menti che arrecano un vantaggio differenziale agli organismi che li possiedono.

In altri casi invece entra in azione un vero e proprio cambiamento di funzione: Pievani

riporta l’esempio delle penne che inizialmente sarebbero state adibite a funzioni di ter-

moregolazione e poi essere cooptate per il volo. Perché vi sia la possibilità di tale coop-

tazione di funzione bisogna ipotizzare che in natura ci siano più organi che possano as-

solvere una stessa funzione e, viceversa, che un organo possa assolvere più funzioni,

aggiungendone di nuove a quelle già esistenti.

“il fenomeno dell’exaptation evidenzia come ogni tratto possa essere adattativo per una

certa funzione presente, ma irradiare al contempo una gamma di effetti potenziali pos-

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sibili, alcuni dei quali con conseguenze benefiche che la selezione naturale potrebbe

prima o poi vedere e cooptare.” (Pievani, 2006, pag. 78). Pievani ci mostra un’accezione più radicale di tale concetto, introdotta da Gould e Vrba

(Gould- Vrba, 1982), con la quale s’includono anche quei casi in cui vengono cooptate

strutture originariamente sviluppatesi senza alcuna ragione adattativa. Questa accezione

porta con se l’ipotesi che esista un “pool exattativo” a cui la selezione naturale può far

riferimento per far fronte a nuove necessità ambientali.

“Il fenomeno dell’exaptation, […] ci mostra come nell’evoluzione difficilmente un adat-

tamento è stato fin dall’inizio costruito ‘per’ assolvere alla funzione corrente […]. In-

somma: non tutto in natura serve a qualcosa, ma tutto può sempre tornare utile.” (Pie-

vani 2006, pag. 77-79)

IL SOGGETTO DELL’EVOLUZIONE: INDIVIDUO, POPOLAZIONE

Prima di rispondere a questa domanda, occorre cercare di definire il termine “evoluzio-

ne”:

“Per evoluzione intendiamo il cambiamento […] degli organismi nel corso delle gene-

razioni.” (Pievani, 2006, pag. 13) Nell’epoca predarwiniana tale termine era invece riferito allo sviluppo individuale nel

corso della vita; come ci ricorda Pievani, questa distinzione è fondamentale perché sono

due concetti molto diversi: una cosa è lo sviluppo del singolo organismo nel corso della

vita (ontogenesi), un’altra è la trasformazione delle specie attraverso le generazioni (fi-

logenesi).

Oggi quando si parla di evoluzione si parla sempre di popolazioni di organismi,

“cioè una serie di popolazioni che si succedono l’un l’altra accumulando modificazio-

ni.” (Ibidem) intendendo per “popolazione” un gruppo locale di organismi della stessa specie, che si

incrociano tra loro e condividono il medesimo patrimonio di caratteristiche genetiche.

SPECIAZIONE

Il termine “speciazione” viene usato per indicare la nascita di una nuova specie. Occorre

dunque chiarire cosa significa “specie”:

“Sembra paradossale, ma l’oggetto principale di studio degli evoluzionisti, le specie,

sfugge ancora a una definizione univoca.” (Pievani, 2006, pag. 87).

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Nel 1942 Mayr connesse l’isolamento geografico all’isolamento riproduttivo e propose

queste nozione di specie:

“Una specie è una comunità riproduttivamente chiusa, cioè una popolazione di organi-

smi che si incrociano e si scambiano geni solo fra loro e non con popolazioni imparen-

tate.” (citato in Pievani, 2006, pag. 89). Tale definizione è la più usata, ma presenta anch’essa delle eccezioni o dei “casi irrisol-

ti”: esistono oggi differenti nozioni di specie.

Ma dove ha origine una nuova specie?

Mayr intuì che il processo di speciazione ha luogo nel momento in cui si interrompe il

flusso genico fra due popolazioni (a causa di una barriera di tipo geografico o di una

migrazione) finché diventano reciprocamente infeconde. La barriera geografica si tra-

sforma dunque in barriera riproduttiva e ciò ha come conseguenza la nascita di una nuo-

va specie.

CONTINGENZA

Quando si parla di mutazioni, spesso viene usato l’aggettivo “casuali”, ma questo può

risultare fuorviante. Pievani (Pievani, 2006), specifica come “casuali” non significhi che

non hanno cause ma che raramente queste sono individuabili e che comunque non esi-

stono schemi ripetuti o correlazioni riconoscibili. Con questo aggettivo si vuole soprat-

tutto indicare l’indipendenza tra mutazioni e potenziale effetto positivo o neutro che es-

se avranno sul portatore all’interno della popolazione. Ciò implica che le mutazioni non

possono né essere orientate secondo il contesto ambientale né prevedere cambiamenti

futuri.

“sarebbe forse preferibile definire le mutazioni “contingenti” rispetto al contesto di e-

voluzione e di sviluppo, piuttosto che casuali” (Pievani 2006, pag. 52). Le ragioni per cui alcune specie si estinguono e altre sopravvivono contengono elementi

di contingenza rispetto all’aspetto ecologico.

Questo aggettivo può essere usato, segnala lo studioso, anche per il fenomeno della de-

riva genetica e degli eventi storici accidentali che rendono imprevedibile il corso della

storia naturale.

“L’adattamento è sempre locale, incompiuto e contingente.” (Pievani, 2006, pag. 117).

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GRADUALISMO

Fu probabilmente grazie ai ‘tordi beffeggiatori’ che Darwin concepì tale teoria. Egli ini-

zialmente non pensava che l’evoluzione fosse un processo graduale bensì il risultato di

un salto mutazionale. Queste tre diverse specie di uccelli, presenti su diverse isole delle

Galapagos, avevano suggerito allo scienziato che le specie sfumano l’una nell’altra, in

modo lento, continuo e graduale. (Mayr, 1991).

L’introduzione di questa nuova ipotesi è da legare al definitivo rifiuto

dell’essenzialismo da parte di Darwin. Infatti l’evoluzione per salti mutazionali è una

conseguenza necessaria dell’essenzialismo:

“Se si crede sia nell’evoluzione sia nell’invariabilità dei tipi, si può vedere il cambia-

mento evolutivo solo come una produzione improvvisa di tipi nuovi.” (Mayr 1991, pag.

55). Darwin introdusse invece un concetto di evoluzione del tutto nuovo: in ogni generazio-

ne si producono variazioni, e l’evoluzione dipende dalla sopravvivenza di tali individui

fino al momento della riproduzione. Egli era inizialmente convinto che i mutamenti fos-

sero prodotti direttamente come risposta ai cambiamenti dell’ambiente:

“I cambiamenti che avvengono nelle specie devono essere molto lenti, dato che i cam-

biamenti fisici sono lenti” (Citato in Mayr 1991, pag. 57). A chi obietta che i cambiamenti dovrebbero essere osservabili, egli risponde:

“La selezione naturale, poiché agisce solo accumulando una dopo l’altra tante piccole

variazioni favorevoli, non può mai produrre modificazioni grandi e improvvise; può a-

gire soltanto con passi piccolissimi e lenti” (Citato in Mayr 1991, pag. 58). Questa teoria si è mostrata adeguata scientificamente se pensata in un ottica popolazio-

nale e se non confusa con il ritmo dell’evoluzione. Darwin era consapevole che questa,

talvolta procede rapidamente e talvolta comprende periodi di stasi completa: egli infatti

non ha mai detto niente sulla velocità con cui tale cambiamento si verifica. Questo ar-

gomento verrà affrontato da Gould e Eldredge nel 1972 con la formulazione della teoria

degli “equilibri punteggiati”.

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L’EREDITARIETA’

L’ereditarietà è alla basa della teoria dell’evoluzione: senza questa non potrebbe esistere

la selezione naturale. Che qualcosa si eredita è nella nostra cultura, è intuitivo, lo si può

vedere nella vita di ogni giorno (come fa notare chiaramente il gruppo dei bambini); ma

che cosa si eredita?

Lamarck sosteneva che ad essere ereditati erano i caratteri degli organi che venivano

utilizzati maggiormente, mentre non venivano ereditati quelli che non venivano utilizza-

ti. Questa concezione è rimasta anche dopo che il mondo scientifico ha smentito tale

teoria e sussiste tutt’ora nella nostra cultura. Come ci ricorda Pievani, lo stesso Darwin

non escludeva che la dinamica dell’uso e del disuso si potesse integrare con il meccani-

smo della selezione naturale, facendo ereditare i caratteri acquisiti.

Oggi, grazie alla genetica mendeliana si sa che non è così: ci sono caratteri che si eredi-

tano con maggiore frequenza e altri con minore, ma si tratta sempre di caratteri innati e

non acquisiti.

La variazione ereditaria è descritta da Pievani come il primo motore dell’evoluzione.

Darwin ne ricavò l’idea da tre constatazioni empiriche: gli organismi si riproducono e ci

sono dei caratteri individuali che variano all’interno della popolazione; la prole eredita

alcuni tratti dei genitori, variazioni comprese; tali variazioni sono spontanee e non dire-

zionate.

“Oggi noi diciamo che in una popolazione alcuni organismi nascono con mutazioni e-

reditabili che permettono loro di sopravvivere meglio e quindi di riprodursi con più

frequenza e facilità […]. Più alta è l’ereditabilità di un tratto, maggiore sarà la sua ‘ri-

sposta alla selezione’.” (Pievani, 2006, pag. 58). Durante la conversazione si è cercato di ragionare anche sull’idea che un carattere che si

rivela adattativo è l’effetto contingente della relazione con l’ambiente e non la causa

(finale) della selezione e che perciò, cambiando il contesto ambientale si possono rivela-

re adattativi caratteri che nel contesto precedente erano disadattativi (malformazioni).

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GENI E PANGENESI

La base fisica della trasmissione dei caratteri ereditari era ignota a Darwin che ipotizzò

l’esistenza di “gemmule” presenti nel sangue che in qualche modo registrassero i cam-

biamenti intervenuti nel corpo dell’organismo e ne trasmettessero l’informazione attra-

verso il sangue alla generazione successiva. In questo senso Darwin aderì alla teoria la-

marckiana dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti.

Oggi sappiamo che le basi materiali della trasmissione ereditaria si trovano nei geni.

Nei gameti dei genitori, gli alleli (le diverse versioni dei geni che incidono sul fenotipo)

si separano per poi ricongiungersi casualmente nella prole, rimescolandosi di genera-

zione in generazione. Il gene, nella genetica mendeliana, è considerato un’entità discreta

che si trasmette ricombinandosi in diversi genotipi, ma mantenendo la propria integrità.

Il codice genetico è universale.

“Al cuore di questa universalità dei meccanismi di funzionamento della vita eucaristica

sta il fatto che la base fisica dell’ereditarietà, impacchettata nel nucleo cellulare, è fon-

damentalmente la stessa in tutti gli organismi.” (Pievani 2006, pag. 32).

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3. LA RICERCA

3.1 LE SCELTE METODOLOGICHE

3.1.1 UNA RICERCA QUALITATIVA E “MICROPEDAGOGICA”

La presente ricerca può essere considerata di tipo qualitativo e “micropedagogico”.

Secondo la pedagogista Susanna Mantovani (Mantovani, 1995), nella maggior parte

delle situazioni indagabili in ambito scolastico l’approccio sperimentale si rivela spesso

inadeguato o riduttivo, mentre l’approccio qualitativo, fondato sull’osservazione e la

descrizione, risulta confacente alla complessità dei rapporti educativi e alla soggettività

che li caratterizza.

Il rapporto educativo può essere indagato in modo scientifico senza limitarsi a strumenti

di analisi soggettiva, ma ricorrendo a metodi e strumenti qualitativi o clinico-

sperimentali che siano, da una parte, abbastanza descrittivi da non perdere la complessi-

tà delle situazioni educative e dall’altra, sufficientemente rigorosi da permettere il con-

trollo intersoggettivo. L’autrice ritiene infatti che non si possono considerare irrilevanti

o non scientifiche quelle ricerche che, indagando su contesti specifici, non si avvalgano

di campioni significativi, di gruppi di controllo o di calcoli statistici, e che quindi non

percorrano tutte le tappe del metodo sperimentale.

In questi tipi di ricerche è fondamentale che la figura del ricercatore abbia determinate

caratteristiche: saper ascoltare, assumere un atteggiamento non valutativo, mantenere la

congruenza fra ciò che si dice e ciò che si pensa.

Anche la “micropedagogia” (Demetrio, 1992) si preoccupa di spiegare l’importanza di

una ricerca di tipo qualitativo; micropedagogico è infatti uno spazio/tempo determinato

entro cui si realizza un intervento formativo, luogo in cui gli individui realizzano espe-

rienze di apprendimento che ne modificano caratteristiche iniziali. La micropedagogia è

pedagogia di ciò che è direttamente osservabile e frazionabile, i cui obiettivi sono di in-

grandire il frammento, di entrare in contatto con l’osservato, di scoprire le relazioni tra

le parti, per accrescere la conoscenza di una fenomenologia formativa che si svolge per

ingrandimenti e focalizzazioni. Gli ingrandimenti forniscono le miniature, rappresenta-

zioni uniche di situazioni studiate. Le miniature esperienziali dove l’educazione è lo

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svolgimento dentro e mediante l’esperienza, come narrazioni di quanto è accaduto nel

corso dell’evento di formazione.

La micropedagogia è l’intersezione di specifici paradigmi che focalizzano l’esperienza

di formazione: il pragmatismo che pone l’accento sulle esperienze sociali del soggetto;

lo storicismo che si propone di scoprire il modo di pensare del soggetto; la teoria della

gestalt che ritiene l’ambiente importante per la comprensione del comportamento del

soggetto; il paradigma costruttivista che sottolinea il ruolo del soggetto nella formazione

di sé, ritenendo che l’organizzazione dei processi conoscitivi e di apprendimento sia

soggettiva. Le situazioni micropedagogiche possono essere indagate solo con la ricerca

qualitativa che ha per fine la comprensione dei fenomeni sociali, individuali e situazio-

nali dei fatti umani, attraverso l’attenzione per il particolare. L’oggetto della ricerca

qualitativa è la fenomenologia dei processi formativi, ossia eventi che generano cam-

biamento. La ricerca individua le componenti del sistema, mediante ingrandimenti e a-

nalizzando i cambiamenti relazionali e attribuzionali che le azioni provocano nei sog-

getti.

3.1.2 STRATEGIE DI OSSERVAZIONE: L’ ”ASCOLTO”

La ricerca si propone di osservare come si costruiscono le conoscenze in un contesto

sociale interattivo, senza testare le conoscenze pre-gresse, le misconcezioni ecc.

Cambia l’atteggiamento con cui si osserva il discorso: ponendo attenzione alla situazio-

ne, lo si considera in funzione del contesto in cui è prodotto, come esito delle domande

che sono state poste e delle azioni sociali che sono state realizzate attraverso il dialogo.

Si cerca di capire in che modo il contenuto del discorso è determinato dal contesto so-

ciale nel quale si svolge; si studia quindi come i partecipanti considerano il pensiero, il

ricordo, la comprensione altrui nello specifico contesto in cui queste attività cognitive

vengono socialmente sollecitate, negoziate e talvolta, ridefinite.

In coerenza con quanto detto finora non si utilizzano categorie prefissate per interpreta-

re.

Il dialogo

“è un luogo dove si elaborano conoscenze; […] un luogo dove si costruiscono teorie”

(Sala, 2004, pag. 55),

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pertanto l’ascolto della registrazione richiede un’attenzione pronta a lasciarsi colpire,

che ritorna più volte su uno stesso passaggio, che scova stereotipi e pregiudizi. Si cerca

di cogliere l’individualità di ogni personaggio e l’apporto che questo ha dato al gruppo.

L’ “ascolto”, ovvero il tentativo da parte dell’adulto di comprendere e non di spiegare

ciò che i bambini dicono, diventa dispositivo pedagogico.

Sala chiarisce che in questo caso l’ascolto è una strategia d’osservazione, ma (quasi pa-

radossalmente) grazie all’udito, col quale viene esercitata: è meno selettiva, più aperta,

ricettiva che non quella che si esercita con la vista. Si tratta di ricevere tutto nei dettagli

senza selezionare nulla in partenza, anche a rischio di non comprendere:

“riconoscere è tranquillizzante ma non sempre è ‘vero’, cioè adeguato alla relazione

con quel bambino, con quella bambina, quella classe.” (Sala, 2007, pag. 115) È stata da subito scartata l’idea di una ‘griglia’ di osservazione; questo strumento è utile

e prezioso nel momento in cui ci sia la necessità di verificare una specifica ipotesi, sco-

prire determinati elementi legati a precise circostanze; funge da filtro. Ma questo accade

solo nel momento in cui, per l’appunto, ci siano ipotesi ed elementi precisi, predetermi-

nati, predefiniti. In caso contrario tale griglia rischia di focalizzare l’attenzione solo su

alcuni elementi, e di tralasciarne altri o di nascondere lo sfondo. Inoltre il contesto della

conversazione è dinamico, ricco di relazioni: separando i singoli elementi, si perde il

senso del tutto, lo sfondo di senso.

La scelta è stata quindi quella di tenere uno sguardo aperto, di lasciarsi colpire, stupire,

rimanendo consapevoli delle proprie idee, emozioni, reazioni, ‘lenti culturali’ e

dell’influenza che queste possono avere sull’osservazione. Queste non sono eliminabili

in quanto sono un medium inevitabile per la nostra percezione:

“non possiamo osservare la realtà se non dalle premesse incorporate nella nostra iden-

tità, premesse biografiche, caratteriali, soprattutto culturali;” (Sala, 2007, pag. 39). Si tratta dunque di un’osservazione critica, realizzata soprattutto a posteriori.

L’influenza dell’osservatore nel contesto della conversazione non è eliminabile. Occorre

dunque che venga presentata ed accettata dal gruppo e, così facendo, rimanga al di sotto

del ‘livello di attenzione’.

Tutto ciò, come segnala Sala, corrisponde all’idea della teoria dell’autopoiesi che

l’osservatore è consapevole di far parte del sistema che osserva,

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“ma che sa distinguere il dominio dei cambiamenti strutturali interni al sistema dal

dominio delle interazioni tra sistema e il suo ambiente, sa metterli in relazione, perché

li vede contemporaneamente” (Sala, 2007, pag.40);

tali corrispondenze sono da attribuire, all’attività cognitiva dell’osservatore alla quale

dunque si devono riferire anche i significati dati.

3.1.3 IL SETTING

La richiesta di una ricerca in classe è stata consegnata alla scuola circa due settimane

prima dell’intervento; la classe di conseguenza sapeva che sarebbero arrivati dei ricerca-

tori a porre domande su argomenti di tipo scientifico, ma non conosceva nello specifico

il tema che si sarebbe trattato e neanche che modalità d’interazione ci sarebbe stata.

La conversazione si è tenuta in un aula diversa da quella in cui la classe segue abitual-

mente le lezioni. L’aula era stata preparata mettendo le sedie in modo circolare e dispo-

nendo alla base di ognuna un numero identificativo: la scelta della disposizione delle

sedie è significativa perché permette a tutti i componenti del gruppo di guardarsi reci-

procamente e, allo stesso tempo, permette ad ogni bambino di avere attenzione e “im-

portanza” nello spazio di interazione; il numero identificativo serviva ai ricercatori per

una più facile trascrizione della conversazione. All’interno del cerchio era posto un ce-

stino di vimini con all’interno l’apparecchio per l’audio-registrazione. La scelta del ce-

stino rispondeva anche all’esigenza pratica di sottrarre il registratore all’attenzione dei

bambini, riducendone il possibile effetto di condizionamento sulla spontaneità della

conversazione.

Un altro registratore era posto di fianco alla ricercatrice, posizionata dietro ai bambini,

seduta su dei tavoli ed equipaggiata di blocco e penna al fine di segnare gli autori dei

vari interventi per poi poterli riconoscere nella fase di ‘sbobinamento’ del nastro.

Il gruppo sapeva di essere audio-registrato ma ha dimostrato di disinteressarsene velo-

cemente. Il “bastone della parola” (un bastoncino di legno contorto e levigato) veniva

passato da un bambino al suo vicino in senso orario con la funzione di indicare chi solo

poteva intervenire in quel momento.

Era un giovedì pomeriggio e il tempo a disposizione era di circa due ore.

L’insegnante era presente durante la conversazione, ma non è mai intervenuta nel meri-

to se non per riprendere qualche comportamento inadeguato al contesto scolastico o

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comunque disturbante nei confronti del gruppo; in alcuni casi ha anche condotto fuori

dall’aula i soggetti in questione per brevi periodi di tempo.

Prima di realizzare questa ricerca in classe, è stata discussa la scelta di come strutturare

(o non strutturare) l’intervento e di quali tematiche (pertinenti alla teoria

dell’evoluzione) affrontare. La scelta è stata quella di seguire gli sviluppi della conver-

sazione senza imporre una linea guida e senza forzare gli alunni verso specifiche tema-

tiche: questo per permettere ai bambini di co-costruire una conoscenza sulla teoria

dell’evoluzione nella “zona di sviluppo prossimale” restando in un contesto di ricerca e

non in uno di “lezione didattica” o di “interrogazione”.

La persona che ha condotto la conversazione si è presentata come un esperto di temi

scientifici e ha chiarito subito lo scopo dell’intervento:

“Quello che vorrei fare con voi è una conversazione su temi scientifici.” (tratto dalla

registrazione). Con questa presentazione ha determinato uno specifico contesto d’interazione basato

sulla ricerca, che si differenzia da quello di una quotidiana lezione didattica. L’esperto

ha condotto la conversazione stando spesso all’interno del gruppo talvolta in piedi, tal-

volta rannicchiato.

All’inizio della conversazione ha dato le ‘regole del gioco’; la scelta di quest’ultime in-

tendeva facilitare la comunicazione all’interno del gruppo e lasciare la possibilità ad o-

gnuno di esprimere il suo punto di vista: dopo che un bambino ha parlato deve aspettare

un intero giro prima che “il bastone della parola” torni nelle sue mani e che quindi possa

esprimere nuovamente la sua opinione; questo può portare a due conseguenze, una posi-

tiva e una negativa, per lo sviluppo della conversazione: il bambino non dice la prima

cosa che gli viene in mente, ma prepara il suo intervento per l’intera durata del giro; tut-

tavia questo può indurre il bambino a mantenersi concentrato su quello che sta pensando

e a disinteressarsi di quanto dicono gli altri. Come scrive M. Sala:

“Cerco di costruire una situazione stimolante che li coinvolga, li provochi, e poi, quan-

to l’ambiente è caldo e la voglia di dire la propria è divenuta incontenibile, propongo

loro di mettersi in circolo seduti a terra. Si può intervenire soltanto quando giunge il

proprio turno seguendo il circolo: ognuno può decidere se intervenire o meno, ma chi

segue non può parlare finché non gli è stata esplicitamente passata la parola.” In que-

sti dialoghi emerge tutta l’importanza della circolarità come dimensione simbolica,

democratica, di ascolto: “ gli sguardi di tutti si incontrano”.” (Sala, 2004, p. 53).

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A livello strumentale, questo sistema, impedendo il sovrapporsi delle voci, facilita la

trascrizione della conversazione e la successiva analisi del discorso.

3.1.4 TRASCRIZIONE DELLA CONVERSAZIONE E COMMENTI

La conversazione è stata audio-registrata e l’alternarsi dei turni di parola sono stati an-

notati sul momento dalla ricercatrice.

Con i numeri vengono identificati i singoli bambini, con M. l’esperto che ha il compito

di condurre la conversazione e con F. l’osservatrice. Quando dall’ascolto della registra-

zione non è possibile riconoscere l’autore di un intervento si è usato il segno -.

I puntini ... indicano pause (a volte seguite da un nuovo inizio di frase con diversa strut-

tura).

Il segno [...] indica invece una parte di discorso che è risultata non intellegibile in fase

di ascolto della registrazione.

Il testo restituisce integralmente il contenuto della registrazione. Ho limitato gli inter-

venti redazionali allo stretto necessario a rendere comprensibile la comunicazione, cer-

cando di non sovrapporre mie interpretazioni a quanto dicono i bambini.

Al testo della conversazione sono interpolati, in carattere corsivo, interventi di commen-

to “locali”, che si riferiscono a dettagli significativi, mentre i commenti che suggerisco-

no ipotesi interpretative su processi di conoscenza o dinamiche complessive sono collo-

cate nei capitoli successivi.

3.2 REALIZZAZIONE E RISULTATI

3.2 1 LA SCUOLA E LA CLASSE

La ricerca è stata svolta nella Scuola Elementare Rodari di Bareggio, un paese di circa

sedicimila abitanti in provincia di Milano.

Difficile è stata la scelta della classe con cui svolgere la conversazione: il dubbio era se

scegliere una classe prima o seconda, nella quale di evoluzione non si era parlato, oppu-

re una classe dei restanti anni, in cui l’evoluzione fosse stata affrontata o trattata come

argomento di studio. Si è deciso di scegliere una quinta in modo che le conoscenze di-

dattiche non influenzassero troppo il pensiero dei bambini (essendo stata trattata in terza

non era un ricordo così ‘fresco’) e si potesse avere una conversazione molto attiva e par-

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tecipata che con le prime classi sarebbe stata più difficile (a causa dell’età dei bambini)

e probabilmente sarebbe occorso un tempo maggiore di due ore.

3.2.2 LA CONVERSAZIONE

[M. è l’esperto, F. l’osservatrice, i bambini sono identificati con numeri]

M: Quello che vorrei fare con voi è una conversazione su temi scientifici. Prima però le

regole del gioco...

“Regole del gioco” nel senso che ci sono delle regole. Le regole sono: parla soltanto

chi ha in mano il bastone della parola che è questo [mostra un piccolo ramo di legno

levigato]; seconda regola: il bastone della parola gira, quindi, lui lo passa a lui…

quando lo avete in mano potete parlare o non parlare, però poi lo dovete passare e,

per parlare, dovete aspettare che ritorni; quindi pensateci prima a quello che volete

dire.

L’argomento che volevo proporvi è quello dell’evoluzione...

7: Quale evoluzione? dell’uomo?

M: Ah, aspetta, direi prima una cosa importante: io non sono un insegnante, quindi non

mi interessa assolutamente se rispondete giusto o no alle domande, perché sono do-

mande che non hanno una risposta giusta; a me interessa sapere cosa pensate, quindi

ognuno è libero di dire quello che pensa. Vi accorgerete dalle domande che non è un

quiz: non vincete niente se rispondete giusto, semplicemente perché non c’è una ri-

sposta giusta… è una specie di intervista che vi faccio, per capire cosa ne sapete di

certe cose, ma anche cosa ne pensate; io non so cosa sapete già e cosa invece vi met-

tete a pensare adesso, quindi boh…

Va bene, allora l’argomento è l’evoluzione, quindi la prima domanda è: ne sapete

qualcosa? Ognuno di voi adesso dice che cosa ne sa sull’evoluzione, se ha un idea, se

ne ha sentito parlare, cosa pensa che sia…

Fondamentale in queste conversazioni è costruire una cornice di senso condivisa, ovve-

ro esplicitare regole specifiche di un certo contesto sociale di interazione, definire i

ruoli dell’adulto o dell’esperto, indirizzare il comportamento verbale degli interlocuto-

ri, fornire uno sfondo comune. Citando C. Pontecorvo:

“ […] le specificità dei discorsi sono determinate dai contesti e dall’insieme delle con-

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dizioni al contorno in cui si svolgono e danno luogo di conseguenza e diverse pratiche

sociali di tipo discorsivo.” (Pontecorvo 1991, p. 68)

22: Boh!.

1: Io non l’ho mai sentita

2: Mah, che ne so?

F: Ma non a livello scolastico! Se qualcuno vi dice “evoluzione”, a voi cosa vi viene in

mente?

F. ribadisce il contesto della conversazione.

1: L’evoluzione degli uomini!!

Può essere che per i bambini sia più facile pensare a qualcosa che li riguarda da vicino

(di qui forme di antropocentrismo), oppure a qualcosa, come poi specificheranno, che

ha più probabilità di essere una risposta adeguata a una “interrogazione” ovvero a

una situazione in cui si deve mostrare quello che si è imparato a scuola.

F: Eh, vedi che ce l’hai fatta!

L’ambiente iniziale è molto freddo, c’è una parvenza di disinteressamento, c’è un clima

di tensione, o anche solo di attesa, di sospensione, probabilmente dovuta anche al con-

testo didattico, a un “gioco linguistico” (nel senso che al termine dà Wittgenstein; Wit-

tgenstein, 1953) non ancora chiarito.

7: l’evoluzione dell’uomo! Nasce… cresce… e poi muore.

[Evidenzio in grassetto ciò che viene ripreso tra un intervento e l’altro].

Da subito si confonde evoluzione di specie con sviluppo individuale: uno dei nodi epi-

stemologici fondamentali nella comprensione della teoria dell’evoluzione.

8: Io in storia ho sentito parlare dei dinosauri… che prima c’erano i dinosauri poi le

scimmie e poi sono diventate uomini…

M: In storia?

8: Sì.

M: Non in scienze?

10: Io ho sentito parlare dell’evoluzione dell’uomo in storia… l’uomo nasce, cresce e

poi… muore.

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11: Noi in storia abbiamo fatto l’evoluzione dell’uomo, ma anche l’evoluzione del

mondo e… va beh: che l’uomo nasce, cresce…

Il riferimento alle “materie” sembra confermare l’ipotesi che i bambini si percepiscano

in un contesto scolastico, che siano immersi nel “gioco linguistico” della interrogazio-

ne.

M: Sì, ma quella del mondo...?

11: Ah: che nascono i vegetali, poi iniziano a nascere gli animali, poi le scimmie poi ci

evolviamo noi, l’uomo.

Qui si tocca un altro nodo epistemologico fondamentale della teoria dell’evoluzione,

come visto in precedenza, quello della evoluzione “ad albero” delle specie viventi, che

si “scontra” con quanto afferma 11, probabilmente perché lo ha appreso, ovvero che

l’evoluzione ha seguito un “percorso” lineare e progressivo.

M: Mmm... quello che ha detto lei [11]… adesso, man mano che mi date le risposte,

cambio le domande... allora aspetta, perché a questo punto hanno detto due cose diver-

se: prima si è parlato dell’evoluzione dell’uomo e s’è detto “nasce, cresce e muore…”

lei [11] invece ha detto che ha sentito parlare dell’evoluzione del mondo; allora però

non è “nasce, cresce, muore” il mondo… ha detto una cosa diversa, avete sentito?

È sempre riportato un qualcosa che si è studiato a scuola, non ci sono esempi concreti,

di esperienze personali come ci saranno più avanti nella conversazione: il contesto è

momentaneamente ancora incentrato sulla didattica e sull’esposizione (come in un con-

testo di verifica).

M: Prima ci sono dei tipi di… diversi… Adesso andiamo avanti.

12: Io ho sentito parlare dell’evoluzione dell’uomo, che nasce scimmia e poi diviene

uomo primitivo e infine uomo di adesso.

È il primo intervento che riguarda l’evoluzione di una singola specie (anche se il lin-

guaggio usato è ambiguo, 12 sembra riferirsi alla specie), in particolare della specie

dell’uomo e dei cambiamenti che si sono succeduti dall’antenato comune con le scim-

mie ad oggi.

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14: Anch’io ho sentito parlare dell’evoluzione dell’uomo, che secondo me è scimmia,

uomo primitivo, uomo moderno e ha sviluppato le capacità utensili, ha iniziato a fare

i templi…

Contesta la precedente specificazione e cerca di fornirne una ancora più specifica e

corretta. Anche qui emergono informazioni di fonte scolastica

17: Io ho sentito parlare anche dell’evoluzione del bruco, che prima era un bruco e poi

una larva e alla fine diventa farfalla.

Un primo esempio (anche se scorretto rispetto all’evoluzione) legato a un’esperienza

verificabile nel quotidiano, forse anche frutto di un osservazione personale.

19: Io ho sentito anche in storia l’evoluzione dell’uomo e poi anche in storia

l’evoluzione della posizione della Terra nel mondo... poi…

Prosegue in questi interventi quella che pare essere un’esibizione di tutto ciò che i

bambini hanno imparato a scuola: c’è chi porta osservazioni legate all’esperienza, c’è

chi associa l’evoluzione al solo genere umano e chi invece generalizza a tutti gli esseri

viventi e perfino non viventi, in un ampliamento di prospettiva sempre maggiore.

M: No: non ho capito… la posizione della Terra nel mondo in che senso?

19: Che prima era tutta attaccata e poi si è iniziata a staccare…

M: Allora quelle due cose che hanno detto loro sono due cose diverse: in un caso ha det-

to: l’evoluzione dell’uomo è “nasce, cresce, muore”; invece per l’evoluzione della

Terra avete tirato in ballo altre cose, lei [11] diceva il fatto che prima c’erano le pian-

te… lui [19] si è ricordato che l’evoluzione della terra è il fatto che le terre, i conti-

nenti, prima erano attaccati, poi si sono staccati… è una cosa diversa…

Qui M. interviene “rispecchiando” e riformulando un atto linguistico oscuro, al fine di

chiarirlo. Questo, come afferma C. Pontecorvo, ha un effetto positivo nel favorire la

partecipazione e nel rendere più chiaro e più utilizzabile l’intervento successivo. Que-

sta strategia è ricorrente in questa conversazione (Pontecorvo, 1991).

1: La Pangea…

M: Ma, in conclusione, l’evoluzione qual è fra queste?... Ah no! Sono quattro cose, mi

sono dimenticato: una è “nasce, cresce, muore”, l’altra era “scimmia, uomo primiti-

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vo, uomo moderno”, poi il fatto che “sulla terra c’erano alcune forme di vita, poi al-

tre…” e poi “la terra che cambia la posizione dei continenti sul globo”.

20: Io invece mi ricordo delle scimmie, ma non mi ricordo invece più come si chiama-

no.

M: Va beh…

M. riassume al fine di chiarificare e focalizzare il discorso: nel momento in cui

l’intervento successivo rivela di non aver colto il focus della domanda, M. sminuisce

l’importanza dell’intervento al fine di riportare l’attenzione sulla precedente domanda.

21: Eh sì... e l’evoluzione penso sia che prima erano delle normali scimmie e poi si so-

no evolute per adattarsi all’ambiente…

L’idea è che evoluzione delle scimmie ancestrali (verso l’uomo) inizia da una diversità:

effettivamente, sul piano scientifico, la selezione naturale ha agito sulla variazione, e

quindi su scimmie che differivano dalla norma (si veda 3.2.3).

Compare questa nuova parola “adattamento” che entra nel lessico del gruppo e verrà

utilizzata successivamente più volte.

M: Questa è una parola nuova… A questo punto la domanda è: di quale, delle quattro

cose che abbiamo detto, parliamo? perché, al di là che le cose si chiamino “evoluzio-

ne”, “adattamento” ecc., di quale vogliamo parlare… La cosa che mi interessa di più

capire di quello che avete detto è… la faccenda dell’uomo, la scimmia… quando voi

dite che cambia… ditemi bene come avete detto... chi l’ha detto?

10: Nasce, cresce, muore?

M: No… com’è che hai detto esattamente?

8: Che c’erano i dinosauri, poi c’erano le scimmie che poi sono diventate uomini.

M. problematizza una definizione, cercando di comprendere e far comprendere real-

mente cosa possa significare tale parola: questo è fondamentale giacché le categorie di

pensiero attraverso le quali impariamo a descrivere il mondo, sono quelle del linguag-

gio che impariamo a usare e tali rappresentazioni influenzano a loro volta la compren-

sione.

M: Bene, fermo lì! quando lui [8] dice che sono diventati uomini, cosa sta dicendo ve-

ramente?... Preciso la domanda: “c’era una scimmia, e quella scimmia lì si è trasfor-

mata in uomo”: è questo che noi stiamo dicendo?

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Ritorna il nodo epistemologico della differenza tra evoluzione di specie e crescita

dell’individuo.

[confusione]

F: La domanda è: una mattina la scimmia si sveglia e si ritrova uomo?... è andata così?

In questo intervento, F. cerca di semplificare la domanda sia su un piano linguistico

che su un piano epistemologico riferendosi a una situazione più concreta.

[confusione]

M: Il punto importante della domanda è se quell’animale lì prima era una scimmia e poi

si è trasformato in uomo, quindi non c’è più la scimmia ma c’è l’uomo… Vorrei ca-

pire come pensate che succede che una scimmia diventa uomo… io non ho mai visto

una scimmia diventare uomo… può darsi che non l’abbia vista io oppure che forse…

M., cerca a sua volta di spostare il discorso in un ambito più esperienziale; ora

l’obiettivo è partire da un caso particolare che sia significativo di qualcosa di generale.

1: Sì, ma perché mangiano cose diverse!

Sembra ipotizzare che diverse tendenze alimentari possano essere la base per l’origine

di diverse specie. Se si tratta di tendenze ereditarie è un’idea corretta per la teoria evo-

lutiva-genetica classica. Oggi addirittura ci sono evidenze scientifiche che le abitudini

alimentari possano essere ereditate con meccanismi epigenetici, cioè in qualche modo

lamarckiani (Jablonka – Lamb, 2005).

2: Le scimmie si sono evolute.

M: Sì, ma come?

2: Hanno una crescita, diventano più intelligenti! E il cranio…

M: Sì, tu stai usando il plurale “le scimmie”…

M. cerca di indirizzare sul focus della domanda, ignorando il resto dell’intervento di 2.

E’ un esempio di quello che Sala chiama “contenimento cognitivo” (Sala, 2007).

2: Le scimmie.

M: Invece lui [12] diceva “la scimmia”… allora stiamo parlando di una? di tutte? di un

gruppo?

È la stessa domanda fatta prima, solo proposta con parole diverse e con un esempio

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concreto: questa strategia di interazione può essere interpretata come un avvicinamen-

to alla “zona di sviluppo prossimale” (Vygotskij, 1960).

1: Di una.

Altri: Di tutte.

M: Chiarisco bene la domanda: ciascuna scimmia è diventata uomo e questo è capitato

solo alle scimmie?

1: Noooo!

M: Ah, vedi che dobbiamo capirci bene!

1: Quella di oggi non si è trasformata.

Riporta a un esempio più delimitato e quindi più concreto, che pone una indiscutibile

verità, l’enunciazione più generale di M.. In questo momento la parola “diventare” u-

sata prima, si scontra con un’evidenza empirica; alla modifica del termine (“trasfor-

marsi”) si associa un chiarimento dell’idea (“non si è trasformata”).

M: Allora: a chi è capitata questa cosa di diventare, da scimmia, uomo?

2: Eh, a delle scimmie sì e a delle scimmie no…

È la spiegazione più logica e intuitiva ma, come si vedrà più avanti, difficilmente moti-

vabile.

M: Ah bene, vedi, pian piano… va bene…

3: Io penso che la scimmia, prima era una scimmia normale poi pian piano ha comin-

ciato a crescere… è diventato un pochino più intelligente scoprendo le altre cose

nuove e così piano piano con gli anni è diventato una persona…

Difficile dire se 3 ha colto le parole di M. “pian piano” come un suggerimento; qui vie-

ne esplicitato un altro nodo epistemologico della teoria dell’evoluzione: la teoria del

gradualismo.

M: Stai parlando della vita di una scimmia?

M. ancora una volta sceglie di riportare il focus del discorso sul precedente nodo epi-

stemologico.

3: Sì.

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M: Bene, dei cambiamenti che sono avvenuti… lui [3] ha descritto in maniera dettaglia-

ta dei cambiamenti che sono avvenuti nella vita di una scimmia. Sei d’accordo che

questo è capitato ad alcune scimmie e ad altre no?

3: Ad alcune sì e ad altre no.

4: Allora, io penso che prima hanno imparato a camminare pian piano nella savana poi

hanno iniziato un po’ a… a… alla caccia…

M: Questi cambiamenti succedono nella vita di una scimmia?

4: No anche di altre.

Evidentemente il linguaggio utilizzato non è chiaro; la domanda fatta da M. può essere

interpretata in più modi: stiamo parlando della vita di una determinata scimmia? o di

un branco di scimmie? o di generazioni di scimmie?

M: Di tante scimmie?… cioè: nella loro vita... nascono scimmie… poi man mano che

vivono cambiano... è così?

4: Quando anche stavano nella savana… e camminano e cacciano…

M: Sì, ma quindi questo succede da quando nascono a quando muoiono?

Adesso la domanda è stata resa più precisa.

4: Sì.

M: Va bene: ho capito.

5: Per me la scimmia si è evoluta… cioè… ha imparato delle cose…

M: Ma pensi anche tu che questo è avvenuto da quando è nata a quand’è morta? Duran-

te la vita insomma?

5: Mmm... sì.

6: Per me la scimmia si è evoluta, ma solo alcune scimmie, non tutte, e si è evoluta per-

ché prima la scimmia camminava su quattro zampe e poi pian piano su due.

M: Anche tu pensi “durante la vita”?

6: Sì.

Probabilmente i bambini non rispondono direttamente alla domanda di M. perché non

l’hanno compresa o perché non conoscono una risposta; esprimono comunque delle

loro idee, come se esplorassero il campo.

7: La scimmia ha imparato delle cose nuove, è diventata più intelligente, poi magari ha

fatto i figli che sono nati come lei… e così man mano…

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M: Aspetta, perché riguardo questa cosa qua… va beh, finiamo il giro poi ci ritorno

su…

Vi siete accorti cos’ha detto [7] di diverso dagli altri?

M. rimarca ciò che è stato detto al fine di far cogliere l’importanza di questa nuova i-

dea emersa.

12: Sì.

M: Cosa?

12: Ha detto che la scimmia quando si è evoluta ha fatto i figli e perciò si è …

[confusione]

8 : Io penso che non è possibile che da quando nascono a quando muoiono… cioè che

nascono scimmie e muoiono uomini… succede nel corso degli anni, non è che una

nasce scimmia e poi diventa uomo... si sono adattate all’ambiente nel corso degli an-

ni…

Da questo momento, tutti gli interventi che verranno terranno conto di questo nuovo

elemento: l’intervento di 8 mette in discussione la possibilità che il cambiamento av-

venga nella vita di una singola scimmia e sposta il focus della discussione sulla dimen-

sione temporale dell’evoluzione (quello che manca qui è l’idea del succedersi delle ge-

nerazioni che sembrava essere presente nell’intervento di 12). Tuttavia, benché 8 abbia

introdotto nel campo della discussione degli elementi pertinenti, non è ancora stata

formulata un ipotesi. È interessante notare come bambini diversi contribuiranno alla

costruzione di un pensiero collettivo partendo da idee diverse, ma tutte necessarie come

elementi da mettere in relazione per costruire conoscenza su questo argomento.

M: Ecco questo… diciamo… chi parla dopo tenga conto di quello che è stato detto a-

desso - è importante! - mentre loro dicevano che questo cambiamento da scimmia a

uomo avviene nell’arco di una vita, cioè praticamente, sentendo quello che dicono

loro, nasce scimmia poi pian piano comincia a camminare a due zampe ecc… e muo-

re uomo, cioè pian piano diventa uomo, nell’arco di una vita; loro invece hanno in-

cominciato a tirare in ballo i figli… la domanda a questo punto diventa: ma questo

cambiamento da scimmia a uomo avviene nell’arco della vita, quindi nasce scim-

mia... sì alcune, non tutte… alcune nascono scimmie e muoiono uomini perché

nell’arco della loro vita c’è stato questo cambiamento, oppure cosa centrano i figli...

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che lui [12] ha cominciato a nominare… per cui d’ora in poi... tenete conto di questa

novità.

11: Secondo me, sono d’accordo con G. [8], ma non è che... nascono scimmie e muoio-

no uomini perché... non tutte sono diventate uomini… non tutte sono arrivate

all’evoluzione.

Quella che viene espressa da 11 è l’idea che ad evolvere non è l’intera specie, ma solo

una parte (vedi 3.2.3).

M: Allora: voi conoscete qualcuno che è nato scimmia ed è morto uomo?

Ulteriore riferimento a un esperienza di vita, a ciò che concretamente si è potuto osser-

vare: il discorso passa da un piano completamente astratto a un piano concreto.

Molti: noooo!

M: E allora perché…? Va beh, ci arriviamo...

11: Allora, come avevano detto anche loro, solo alcuni gruppi di scimmie si evolvono e,

se non sbaglio, sono le scimmie antropomorfe… cioè, se io ero una scimmia e sono

diventata habilis… mio figlio si evolverà e andrà avanti con lo sviluppo.

Qui vengono ripresi i precedenti interventi di 8 e 12 e viene formulata un’ipotesi, cioè

che l’evoluzione sia un cambiamento attraverso le generazioni.

M: Ah: ecco allora cosa possono entrarci i figli! Cioè lei [11] dice: non è nell’arco di

una vita che uno nasce scimmia e diventa uomo, ma, se nasce scimmia può succedere

che comincia a cambiare un po’ e poi il figlio...

11: .... porta a termine la…

M: ... diciamo: parte da dove è arrivato il genitore...

11: ... il padre, sì...

M: ... e poi va avanti.

M. si mostra stupito, si fa “perturbare” dall’intervento della bambina e l’interazione

tra i due porta a una chiarificazione. Qui è presente quell’ “accoppiamento strutturale”

di cui parla la teoria dell’autopoiesi e che, secondo Sala, può essere attribuito, in chia-

ve pedagogica, alla possibilità che nel rapporto tra esperto e bambini intercorrano re-

ciproche perturbazioni che inneschino dei cambiamenti (Sala, 2007).

E quindi per avere tutto il cambiamento?

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11: ... e il nonno e il bisnonno…

M: Eh! E come si chiamano queste robe qua?

11: Cioè la famiglia, la…

M: La parola che usano gli scienziati è “generazione”…

Questa nozione non fa parte del sistema cognitivo dei bambini; nei precedenti interventi

essi si erano gradualmente avvicinati a tale nozione, tanto da permettere a M.

l’introduzione di un nuovo termine che possono assimilare grazie all’aiuto dell’adulto,

che lo introduce come se fosse un’ “etichetta” messa sopra un’idea appena espressa

dai bambini stessi: siamo di nuovo nella “zona di sviluppo prossimale” (Vygotskij,

1960).

12: Allora… perché le scimmie che vedo adesso non si evolvono in uomini? Magari

perché le scimmie antropomorfe non ci sono più… io non lo so questo.

La perturbazione reciproca continua finché quasi non s’invertono i ruoli: adesso è 12

che ha una domanda, delle perplessità, delle spiegazioni da cercare. Questo mostra

come il “gioco linguistico” attuale sia completamente diverso da quello iniziale: si è

infatti passati dall’ “interrogazione” alla “ricerca cooperativa”.

M: Ci sono ancora invece… Cioè lei [12] dice che, se le cose vanno come dice lei [11],

cioè che una scimmia cambia, poi fa e figli ecc…, le scimmie che ci sono adesso…

perché non cambiano?

M. opera uno spiazzamento: da questo suo intervento è evidente che la domanda è im-

portante e che la risposta più semplice che poteva esserci, quella che si dà 12, non è

soddisfacente.

14: Allora io sono d’accordo con tutti quelli che hanno detto dei figli… di come si evol-

ve la scimmia… e mi faccio la stessa domanda di C. [12]: perché le scimmie antro-

pomorfe non si evolvono più? Forse perché il Rift non si fa più… cioè… il Rift…

Questo intervento mostra come i bambini “si ascoltano” nel senso profondo di “si

comprendono” e portano avanti lo stesso processo collettivo di costruzione di cono-

scenza (Sala, 2004; Sala, 2007). 14 riprende la domanda precedente e cerca di dare

una risposta più soddisfacente: lo fa mettendo in relazione cause ambientali con

l’evoluzione: sarà qualcosa che aveva studiato? È possibile vedere come in questo

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“gioco” della ricerca, i bambini rimettono in gioco in modo pertinente le informazioni

ricevute dall’ambiente (Sala, 2007).

M: Cos’è il Rift?

Con questa richiesta di informazioni M. da una parte cerca ulteriori spiegazioni per sé

(si è fatto “perturbare” e continua l’ “accoppiamento strutturale” – vedi 2.1.4), da

un’altra fa in modo che l’argomento di discussione sia chiaro anche agli altri bambini,

da un’altra ancora verifica che il “gioco linguistico” non sia tornato quello iniziale

dell’interrogazione in cui si citano cose studiate per ottenere approvazione.

14: La spaccatura… cioè alcune scimmie nell’epoca… hanno deciso di stare nella sava-

na, invece altre si sono decise di andare nella foresta pluviale…

Da notare l’uso del termine “decidere” che suggerisce una intenzionalità; questa ter-

minologia è scorretta dal punto di vista scientifico ma gli stessi scienziati usano questo

linguaggio in senso metaforico. Il problema è se i bambini sono consapevoli che si tratti

di una metafora (Sala, 2008).

M: Sì, ma che cos’è il Rift?

14: Il Rift è la spaccatura del terreno che ha fatto... in Africa… che …

[confusione]

M: Aspetta: ferma un attimo!… quello che stai dicendo è che questa cosa è successa

perché ci sono state condizioni diverse tra quelli che erano al di qua o al di là della

spaccatura… ecco il perché... quando si diceva “alcune sì e alcune no”… è perché al-

cune avevano certe condizioni ed altre no...?

Altro nodo chiave della teoria dell’evoluzione: la speciazione su base geografica. (Pie-

vani, 2006)

17: Secondo me quello che ha detto S. [14] è giusto perché quando è avvenuta la spac-

catura nel terreno, il Rift, alcune scimmie hanno deciso di rimanere nel proprio

habitat e non lasciarlo, mentre altre hanno deciso di cercare altre foreste dove vive-

re… per questo adesso l’uomo deriva dalla scimmia; invece quelle che hanno deciso

di rimanere nelle foreste sono rimaste com’erano prima... e adesso noi possiamo es-

sere uomini grazie alla dinastia che ha permesso all’uomo di svilupparsi sempre di

più fino ad arrivare a noi.

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M: Mi sembra che questa cosa qua sia già stata detta… chi è che ha parlato di adatta-

mento prima? Ci sono diversi modi di adattarsi… cioè, se cambia l’ambiente, può es-

sere che uno si adatta… cambia adattandosi al nuovo ambiente, oppure può essere

che lascia il vecchio ambiente… migra... due cose che possono succedere... Quindi

una parte di quegli animali lì rimangono dove sono e, com’è cambiato l’ambiente,

cambieranno anche loro… se no non sopravvivono più, oppure possono decidere di

cercare un posto che sia come quello di prima e migrano.

Questo è un ulteriore esempio di uso della “zona di sviluppo prossimale”: M. parte dal-

la conoscenza che i bambini hanno costruito e integra con altre informazioni. È anche

un momento nel quale l’esperto (M.) entra nel “gioco linguistico” di insegnante.

19: Per me quello che ha detto S. [14] e C. [12] è giusto però… adesso non è che dob-

biamo aspettare il Rift… perché… mmm… Questo andamento... diciamo…

dell’evoluzione dell’uomo... ci sono voluti tanti anni per... per il cambio

dell’aspetto… e questo… in ognuno diciamo…

Questo intervento mostra un accordo con quanto stato detto in precedenza, ma anche

delle perplessità: sembra che non riesca a spiegarsi come un evento ambientale possa

produrre dei cambiamenti su un così lungo periodo di tempo oppure che, al contrario,

la difficoltà sia quella di pensare il cambiamento su un periodo così lungo che non si

riesce neppure a immaginare a partire dalla percezione diretta o dalla ricostruzione

che si può fare a partire da quella (le proprie foto di quando si era piccoli, la piantina

nel vaso di casa, il cane di famiglia...).

M: Quindi noi non lo vediamo perché non viviamo abbastanza anni… cioè, se aspettia-

mo un po’, lo vediamo qualche cambiamento?

19: Però non in noi perché noi ormai abbiamo già fatto il nostro cambiamento… adesso

dobbiamo aspettare i nostri figli...

Con questo intervento si esplicita l’idea che l’uomo è attualmente in evoluzione e che

questa si manifesta nei cambiamenti tra una generazione e l’altra.

Da notare che non era stato 19 a introdurre il discorso delle generazioni, ma 12 e 11:

è come se questo discorso fosse diventato patrimonio della conoscenza del gruppo.

Naturalmente potrebbe essere che 19 lo pensasse già da prima.

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M: Quindi sei d’accordo con lei [11] che noi facciamo un pezzettino di cambiamento e

poi il figlio continua…

20: C’è anche il fatto che la scimmia una volta aveva il pollice così [mima] …

M: Ma secondo te cosa centra… cioè perché citi il pollice così?

F: M., facciamo fare un altro giro, che vedo che ci sono tante mani alzate?

[Tutti i bambini hanno le mani alzate e chiedono di poter fare un altro giro per poter

dire la loro opinione: l’ambiente si è evidentemente scaldato.]

M: Sì… poi faccio una domanda nuova a proposito di quello che avete detto…

21: Allora, secondo me, invece le scimmie antropomorfe che ci sono ancora non si e-

volvono perché non ne hanno più bisogno perché…

Qui sembra esserci un’idea finalistica e “animista” di evoluzione ( si veda 2.1.2).

M: Aspetta! metto solo insieme quello che hanno detto alcuni di loro... insomma ve lo

ridico a modo mio e voi mi dite se ho capito bene; allora: certi cambiamenti succe-

dono perché succede qualcosa di grosso, per esempio si apre un Rift, e mica succede

tutte le volte, quindi capita una volta e poi non capita più. Lui stava parlando del fat-

to che c’è stato questo grosso cambiamento, ci vuole del tempo per adattarsi a questa

nuova situazione, poi, una volta adattati, basta - no?- perché si dovrebbe cambiare

ancora se non succede niente… Ho capito bene?... Bene!

La chiave di volta è la forza che mette in moto l’evoluzione: M. e i bambini sono su due

piani diversi; i bambini dicono: “se l’ambiente cambia, noi decidiamo di cambiare, al-

trimenti che motivo avremmo di farlo?”; M. invece dice: “si cambia perché l’ambiente

è cambiato”. Se la responsabilità del cambiamento è nel primo caso attribuita al volere

dell’uomo, nel secondo caso dipende dalle condizioni ambientali. Ancora una volta ciò

potrebbe essere attribuito all’ “animismo” infantile di cui parla Piaget (Piaget, 1926),

ovvero a una fase “naturale” di sviluppo del bambino, dall’altra alla esposizione dei

bambini a un ambiente culturale che comunica sull’evoluzione parlando un linguaggio

animista.

M: Sentiamo prima qualcuno su quello che abbiamo già detto, poi vi introduco altre

domande…

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2: … che poi le scimmie sono diventate più... dopo tutta la rivoluzione sono diventate

più responsabili, hanno scoperto il fuoco, poi ci sono anche delle... cioè hanno trova-

to delle caverne e li hanno messo dentro come casa per riscaldarsi, e che mangiava-

no…

M: Quindi mi stai dicendo che i cambiamenti non sono solo fisici, tipo il pollice, ma

sono anche dei cambiamenti nel modo di comportarsi…

M. cerca di riformulare, attraverso il “rispecchiamento”, una frase oscura e ambigua,

rendendola utilizzabile anche dagli altri bambini: ovviamente potrebbe in questo modo

travisare il significato che ad essa voleva dare il bambino.

3: Io penso che noi camminiamo su due piedi perché loro, quando crescevano... le brac-

cia non arrivavano più a terra e così hanno dovuto imparare a camminare soltanto

con due piedi.

Ha un’intuizione di un tema importante nell’evoluzione della teoria dell’evoluzione,

ovvero l’idea che non tutto nell’evoluzione si spiega come adattamento della forma alla

funzione (Gould – Vrba, 1982). M. però non coglie questo aspetto e sposta il fuoco del

discorso su un altro tema cruciale: il fatto che la variazione precede la selezione e

l’adattamento

M: Aspetta perché questa è una cosa nuova! Dimmi se ho capito bene: tu dici che prima

è successo che avevano le braccia più corte e allora a quel punto si trovano meglio a

camminare su due piedi… è così?

3: Sì.

M: Bene: è importante questa cosa nuova.

M. sottolinea l’importanza di questo nuovo elemento, ma i prossimi interventi sembrano

non coglierne l’importanza: potrebbe essere una valutazione sbagliata in termini di

“zona di sviluppo prossimale”. L’idea che il cambiamento casuale precede un possibile

processo di selezione e che l’adattamento sia la conseguenza di questo processo è trop-

po complessa e lontana dalle rappresentazioni culturali dominanti.

11: Allora io non ho capito il fatto, cioè il fatto del Rift; cioè ha detto che c’è la spacca-

tura, che c’è stata una volta e non ci sarà più... magari ci risarà, però non accadrà

niente.

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C’è qui un’idea di contingenza, e cioè che un evento possa essere individuato a poste-

riori come causa di una evoluzione, ma che non si tratti di una causa necessaria: in al-

tre circostanze potrebbero accadere cose diverse. (si veda 3.2.3)

[confusione]

11: E poi, secondo me, una cosa da dire è che c’è stata questa spaccatura e da un lato

non ci sono più state delle foreste e perciò… per procurarsi il cibo e anche per vivere

dovevano cacciare, cioè dovevano usare le mani.

Tutto il discorso adesso ha per focus l’adattamento, ovvero il rapporto tra forma dei

viventi e funzioni per la sopravvivenza: questo è un altro elemento fondamentale del

pensiero evoluzionista.

M: La domanda è questa, ed è una domanda importantissima: se succede prima che

cambia l’ambiente e poi gli animali cambiano per adattarsi all’ambiente oppure suc-

cede che qualcosa negli animali ha un cambiamento e quello li costringe a cambiare

abitudini? Lui diceva “se la scimmia ha le braccia corte cammina male, allora co-

mincia a camminare in piedi”; quindi prima è successo che è cambiato, dopo di che,

siccome cammina tutto in piedi e nella foresta si trova male, va nella savana… in-

somma prima c’è il cambiamento del corpo e dopo l’animale cambiato si trova un

ambiente adatto, oppure, al contrario, cambia l’ambiente e allora l’animale cambia

per vivere meglio nell’ambiente cambiato? Iniziamo il giro regolare… cosa ne pensa-

te di queste due cose? È chiara la domanda o no?

M. torna sulla sua idea precedente, ma forse si è reso conto che deve essere costruita

collettivamente dai bambini.

-: Io non l’ho capita

appunto!

F: Posso provare io?

M: Dai…

F: Allora… ci sono due soluzioni... facciamo l’esempio dell’alzarsi in piedi: l’uomo

prima andava a quattro zampe poi si è alzato in piedi: la domanda è: si è alzato in

piedi per raggiungere gli alberi più alti, o comunque per cacciare più velocemente,

oppure si è alzato in piedi perché le braccia si sono accorciate, faceva fatica a cam-

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minare a quattro zampe e si è alzato in piedi? Qua la differenza è che in uno dei due

casi l’obiettivo non era raggiungere i rami più alti, è stata una cosa di fatto: uno non

riusciva ad andare a quattro zampe, perché è veramente scomodo con le braccia cor-

te, e allora ha dovuto alzarsi e poi ha capito che poteva anche raggiungere le piante,

ma non era quello lo scopo… oppure lui ha fatto in modo di riuscire ad alzarsi in

piedi per raggiungere le piante? È più chiara la domanda?

F. cerca di riproporre la domanda precedentemente formulata da M., assumendo un

registro narrativo più vicino al pensiero dei bambini (si veda 2.1.8) senza però rendersi

conto che il problema è il non essere ancora nella “zona di sviluppo prossimale”

[confusione]

- : Io non ho ancora capito la domanda…

I bambini mostrano chiaramente che non siamo nella “zona di sviluppo prossimale”.

F: Magari seguendo il giro la capisci di più, però…

M: Vediamo se te la fanno capire meglio i tuoi compagni, perché… non è facile.

3: La scimmia… lei cresceva e invece le braccia non crescevano più perché una scim-

mia non è che cresce tanto tanto tanto e invece […] le gambe erano proprio più gran-

di delle mani e delle braccia e quindi c’è una differenza fra loro e ha dovuto cammi-

nare soltanto con i piedi… [sottolineatura mia]

In questo intervento si può notare il registro narrativo (forse incoraggiato

dall’intervento di F.); del resto corrisponde al “fare esempi” che è un modo efficace di

co-costruire conoscenza.

Da notare l’espressione “ha dovuto”: è la prima volta nella conversazione che viene

usato; al contrario dei termini “ha deciso” o “avere bisogno”, che sono ricorrenti, ri-

manda all’idea della scimmia-uomo che subisce un processo e non che lo agisce inten-

zionalmente. Verrà ripresa più avanti da altri bambini (sarà evidenziata con mie sotto-

lineature)

M: Perfetto! Ti faccio ancora una domanda... è chiarissimo quello che hai detto… prima

è successo che le gambe fossero più lunghe delle mani; a quel punto era scomodo

camminare per terra, quindi si è alzato in piedi e si è abituato a vivere in un altro mo-

do; la domanda a questo punto è: ma come mai a quella scimmia lì sono diventate le

braccia più corte delle gambe?…

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3: Perché ha cominciato ad andare… è andato a vedere delle nuove cose, così con i mesi

e con le settimane ha cominciato a mangiare meglio.

M: Questo dopo, ma io dicevo prima, quando si diceva...

F: No, forse sta dicendo che ha cambiato l’uso che faceva delle mani, avendole impe-

gnate per...

M: Sì, sì, però quello dopo; la mia domanda era: ma all’inizio, quando incomincia…

perché le braccia gli sono diventate più corte?

3: Perché piano piano ce le aveva impegnate, perché era un pochino più grande... perché

doveva…

M: Ma è qualcosa che era successo… prima…va beh...

Non siamo nella “zona di sviluppo prossimale”: 3 non riesce a dare una risposta a ciò

che chiede M.: si tratta di un’idea molto difficile da costruire e da reperire dal contesto

culturale.

4: Quello che ha detto lui [3], che le scimmie avevano le mani troppo piccole, per me

prima di tutto perché, quando crescevano, le mani diventavano... prima erano più

grandi, perché se erano piccole come facevano a… non c’era bisogno di avere le ma-

ni… quindi ogni volta che crescevano, le loro mani… diventavano un po’ più… pic-

cole.

M: Per chiarirvi un attimo la faccenda, facciamo che io sono una scimmia e cammino a

quattro zampe… [mima] per camminare a quattro zampe io devo avere la colonna

vertebrale piegata davanti... Supponiamo che io nasca con un difetto della colonna

vertebrale per cui non riesco a stare piegato… ce l’ho così, e non riesco più a stare

piegato – no?- a questo punto faccio fatica a camminare a quattro zampe… tutti i

miei antenati hanno sempre camminato a quattro zampe, hanno continuato a vivere

così… io però ho il problema che ho la schiena rigida, quindi faccio fatica. Allora a

questo punto o decido che non ce la faccio, non riesco a stare dietro agli altri, non

riesco a correre eccetera… mi metto da parte e muoio… oppure a questo punto dico:

beh, visto che sono così, che è un difetto... però adesso vi faccio vedere… con queste

zampe qui, bipede, perché non le adopero per prendere, per esempio, la frutta sui ra-

mi più in alto? Tutti i miei famigliari mangiano le cose che cadono per terra e non si

sono accorti che qui c’è della frutta da mangiare… capite cosa sto dicendo? Cioè sic-

come, per una malattia, ho la schiena più dritta, a questo punto mi metto a fare… mi

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adatto a una vita nuova… Questo era quello che cercavamo di spiegare prima. Oppu-

re invece c’è l’altra cosa, cioè: tutti camminano a quattro zampe e a un certo punto

cambia l’ambiente... il Rift, tutte queste cose qui… poi non c’è più niente da mangia-

re tranne la frutta in alto, allora a questo punto decido di alzarmi in piedi per prende-

re la frutta? Avete capito che... - no?- una cosa succede prima e una dopo.

Per tentare di affrontare l’evidente difficoltà della comprensione dell’idea M. adotta un

registro più teatrale che narrativo.

5: Prima camminavano a quattro zampe e crescevano quindi le braccia non arrivavano

più a terra e, alzandosi in piedi, arrivavano più agli alberi e avevano più da mangiare.

6: Per me si sono alzati perché […] magari per terra non trovavano più da mangiare.

M: Una dice un’ipotesi e l’altra quell’altra: uno a uno.

6: Sì.

8: Per me si sono alzati per l’adattamento della specie: comunque questi sono andati

nella savana e nella savana non ci sono piante a terra… quindi per me è

l’adattamento della specie e poi...

M: Va bene.

9: Per me è come ha detto...

M: Scusa… non è che dovete scegliere per forza per una delle due cose: se ve ne viene

in mente un’altra, va benissimo.

9: Per me è come ha detto M. [6] che non c’era più cibo per terra, per cui si sono dovuti

alzare. [sottolineatura mia]

È possibile che abbiano presente il celebre esempio della giraffa usato in modo presso-

ché universale nella comunicazione dell’evoluzione? Se è così si ribadisce l’importanza

della comunicazione sociale nello sviluppo della conoscenza dei bambini.

10: Per me siccome l’ambiente è cambiato loro hanno dovuto cambiare, adattarsi a que-

sto ambiente… siccome la... va beh... siccome si sono dovuti adattare e quindi sa-

pendo che nella savana non c’è tanta vegetazione per terra, non c’è vegetazione in

terra e hanno dovuto mangiare quello che trovavano sugli alberi; e infatti quelli lì, le

scimmie che sono andate nei territori della savana, si sono evoluti e invece quelle che

sono rimaste nei territori delle foreste sono rimaste scimmie. [sottolineatura mia]

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Questo è un pensiero elaborato, che sicuramente utilizza informazioni acquisite

dall’esterno, ma il linguaggio appare quello tipico dei bambini. Anche qui la forza mo-

trice, il focus della discussione, è l’adattamento.

M: Qua ci sono due modi di evolvere: un evoluzione è quella di cambiare per adattarsi

all’ambiente nuovo, l’altra evoluzione è di spostarsi per cercare un ambiente uguale a

quello di prima.

12: Io ho due domande…

M: Ferma un attimo! Gli scienziati sono quelli che si fanno le domande, non quelli che

danno… poi, se riescono a dare risposta, va bene… ma soprattutto si fanno le do-

mande… Vai!

Questo intervento meta-comunicativo ha la funzione di rinforzare il “gioco” della ri-

cerca.

12: Perché adesso le scimmie non si evolvono più? anche se ci sono le antropomorfe e

ho sentito del Rift… cioè, anche se adesso... cos’è che è cambiato... anche se c’è la

cultura… che sono andati nella foresta...

Già prima aveva fatto questa domanda. Evidentemente non essendo riuscito a trovare

una risposta, ha continuato a pensarci fino a questo momento, non seguendo il lineare

sviluppo del discorso del gruppo. L’intervento non lascia cadere una domanda che non

ha ancora avuto una risposta soddisfacente e che è cruciale per la comprensione

dell’evoluzione: se fosse vero che le scimmie antropomorfe non si sono evolute a partire

dall’antenato comune con l’uomo, sarebbe vero che l’evoluzione del mondo vivente è

finalizzata in modo lineare all’uomo (progresso). Il fatto che 12 problematizzi la cosa

aiuta a evitare una cattiva comprensione.

M: La tua domanda è “ma perché le scimmie antropomorfe si sono evolute e adesso non

si evolvono più?”. La risposta che ti hanno dato loro è che, siccome non è più cam-

biato l’ambiente in cui vivono, sono rimaste com’erano prima. Non ti convince?

12: Poi la seconda era che l’A. [11] ha detto che le scimmie adesso stanno bene come

sono e quindi non hanno più bisogno di evolversi, però anche un tempo magari le

scimmie stavano bene e allora perché si sono evolute, se stavano bene?

Incoraggiata dall’interazione, sembra trovare sicurezza rispetto all’intervento prece-

dente e formula meglio la domanda.

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M: La risposta è che se le scimmie stavano bene non ci pensavano a cambiare, ma sic-

come è successa questa cosa del Rift... che si dovevano spostare... è cambiato tutto,

come dire... hanno dovuto, in qualche modo, per sopravvivere, hanno dovuto cambia-

re. Questa è la risposta che ti danno loro.

14: Io sono con C. [12] e G. [8] perché le scimmie... anche in storia dicono che è cam-

biato il territorio, il Rift... c’era molta vegetazione, dovevano cacciare, quindi a quat-

tro zampe non potevano cacciare e prendere le frecce.

Non riuscendo a fornire una spiegazione sul suo accordo, cita gli studi scolastici.

15: Per me le scimmie hanno dovuto camminare sulle gambe perché le braccia erano

corte e non...

M: Allora qualcuno… la maggior parte di loro ha risposto che è cambiato l’ambiente e

l’animale si è adattato, però qualcuno pensa che prima è cambiato qualcosa

nell’animale e dopo quell’animale ha dovuto cambiare ambiente.

17: Secondo me l’uomo è riuscito ad alzarsi in piedi grazie all’evoluzione perché questa

storia [...] abbastanza il Rift, ha capito che stando in piedi poteva anche essere un

nuovo modo per cacciare meglio, per correre… per prendere [...]

Anche qui sembra tornare l’idea di evoluzione come progetto, un’ottica finalista.

L’adattamento, che è un elemento di fortissima rilevanza nelle formulazioni della teoria

dell’evoluzione, viene quasi sempre veicolato da un linguaggio finalistico “per adattar-

si a...”. Però si può notare che 17, pur con un linguaggio che suggerisce la consapevo-

lezza e la decisione (“ha capito che”), ha colto e accettato il capovolgimento: prima lo

stare in piedi e poi l’uso adattativo dello stare in piedi: è un capovolgimento difficile e

cruciale.

M: Questo… qua hai messo insieme un po’ le due cose.

18: [...] Non ha più trovato cibo per terra… e ha dovuto [...] [sottolineatura mia]

M: Tu sei per l’altra versione.

19: Beh, io penso che [...] perché certi un po’ crescevano però non [...] E poi quando la

G. [8] ha detto che [...] non c’è un Rift... magari sono solo più [...] adesso [...]

Molti: Non è vero…

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M: Va beh, non entriamo nei dettagli... quello che ha detto lui è che effettivamente una

cosa grossa di quel tipo lì [l’apertura del Rift] non è più capitata da milioni e milioni

di anni.

Se siete pronti, parto con un’altra domanda…

[confusione]

M: Allora… siccome fra un po’ andrò via mi interessa invece sapere una cosa importan-

te che avete tirato fuori prima… La cosa importante era rispetto ai figli; ricordate che

prima il discorso era che il cambiamento non è tutto nella vita di un animale (nasce

scimmia e muore uomo); abbiamo cominciato a fare questo discorso che nasce

scimmia, cambia un pochino poi nascono i figli, cambiano un altro pochino e dai e

dai e dai… magari ci vogliono migliaia di generazioni… ricordiamo anche che ci vo-

gliono migliaia di generazioni, non due o tre... Va bene, adesso la domanda sarà que-

sta: cosa succede tra i padri e i figli? Facciamo un esempio... mmm… supponete che

due... facciamo un esempio che riguarda gli uomini… persone, signorino e signorina,

vanno in palestra tutti i giorni, fanno tutti i giorni esercizi eccetera eccetera... nel giro

di un anno, due anni… gli succedono dei cambiamenti; per esempio cosa succederà?

- : [...] muscolacci.

M: Si fanno i muscolacci; da una parte si fanno i muscolacci, dall’altra magari...

- : i muscoletti?

[confusione]

M: Va bene, concentriamoci sui muscolacci, che è la cosa più evidente: gli vengono i

muscolacci; poi questi due decidono di sposarsi, fanno dei figli… secondo voi… la

domanda è questa: i loro figli nascono coi muscolacci o no?

Molti: Nooo!

[confusione]

22: Secondo me sì, perché anche quando siamo andati... l’abbiamo visto: quando siamo

andati in storia... una volta gli Spartani erano dei valorosi guerrieri, gli facevano fare

subito la ginnastica per fare i figli e già diventavano forti; quindi secondo me potreb-

bero comunque nascere…

Per spiegare fa riferimento a ciò che ha studiato utilizzando informazioni acquisite: la

scuola, l’insegnante, i libri, sono sempre un riferimento autorevole, perciò di solito li si

usa quando si vuole accreditare la propria opinione di fronte al gruppo; ciò conferma

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che la costruzione di conoscenza avviene sempre in un contesto sociale e che non è pos-

sibile valutare ciò che ciascuno dice solo in termini cognitivi astraendo dalla situazione

relazionale.

1: Secondo me no, perché le cellule sono sempre quelle e non possono cambiare aspetto

fisico… secondo me no.

Esplicita il disaccordo con l’affermazione precedente, fornendo una giustificazione da

“esperto”, una spiegazione impeccabile dal punto di vista logico e che implica cono-

scenze sofisticate (genetica), ma che dà anche per scontato conoscenze che forse non

sono condivise.

2: Secondo me sì, perché volevano arrampicarsi sugli alberi… volevano…

11: Abbiamo cambiato domanda!

2: Come?

M: Aspetta… adesso la domanda è nuova, è cambiata, adesso è: se due persone vanno

in palestra e si fanno i muscolacci, i loro figli nascono con i muscolacci o no? Ab-

biamo chi dice sì e chi dice no…

2: Per me... per me… forse…

Qui 2 stava evidentemente aspettando la fine del giro per poter esprimere la propria

opinione sulla domanda precedente, perdendosi tutti i progressi fatti.

3: No, forse lo sport ci sarà... da piccoli vorranno andare a fare sport, eccetera, così co-

me la mamma e il papà, però uno che nasce che ha già i muscoli no!… come uno che

è già da dieci anni in palestra no!

M: Aspetta però, facciamo… effettivamente la domanda fatta così è un po’… scusate: i

bambini appena nati hanno i muscolacci?

Tutti: Nooo!

M: Quindi la domanda è, diciamo... facciamola meglio… secondo voi i figli nascono,

non subito appena nati…

7: Arnold Schwarzenegger è nato così! M: Forse quando Schwarzenegger è nato aveva i muscolacci così, però quello che vo-

glio dire è se i figli che nascono, appena si sviluppano un po’… avranno i muscolacci

anche se non sono ancora andati in palestra? oppure dovranno andarci in palestra?

3: Io dico che… no.

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M: Rimani del tuo parere, bene... tu?

4: Dipende…

M: Da cosa?

4: Dipende… perché… dipende che papà… Per me non centra se è muscoloso o no…

però, quando cresce… noi ne abbiamo pochi di muscoli… nel senso che i bambini

crescono e dobbiamo aumentare i muscoli… ci alziamo…

Le idee espresse sono che i figli assomigliano ai genitori (“dipende che papà”), che

non si ereditano i caratteri acquisiti (“non c’entra se è muscoloso o no”) e che il con-

fronto con i genitori non può essere fatto nei primi anni di vita, perché ovviamente il

bambino deve ancora crescere.

M: Ma avrà bisogno di andare in palestra oppure avrà già i muscoli senza doverci anda-

re?

4: In palestra, se vuole che gli vengono un po’ di più, sì…

5: Per me quando è piccolo non nasce già muscoloso: deve andare in palestra.

6: Per me non nasce già muscoloso, però se vuole i muscoli da grande dovrà andare in

palestra…

M: Dovrà cominciare da capo?

6: Sì

M.: Non basta se ci sono già andati i genitori?

6: No

M: Va bene.

7: Io dico di sì perché quando si dice: “tu hai questi occhi, hai il naso di tua madre”…

anche il fisico può [...]

Riporta a un’esperienza concreta, personale, meno astratta. Tutta questa sequenza di-

mostra che, se una conoscenza la si costruisce attivamente attraverso un processo, ne

può venire fuori un’idea sicuramente meno “astratta”, che si pone cioè come una rap-

presentazione adeguata di una realtà e non solo come la memorizzazione di una verba-

lizzazione.

M: Gli scienziati direbbero: il tono muscolare è ereditario o… quello che dice lui – no?-

la somiglianza con i genitori... abbiamo delle cose che assomigliano ai genitori… al-

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lora anche la muscolatura si prende dai genitori perché ci assomigliamo… o deve ri-

cominciare a….

8: Secondo me non proprio nascono… non subito… non proprio con i muscolacci…

però che... neanche… cioè più forte di quello che ha la gente… non come se il padre

o la madre non fossero andati in palestra... per cui io direi che qualcosa hanno eredi-

tato cioè andando in palestra…

9: Secondo me non nascono… è come ha detto la M. [4] e il M. [5], quando diventerà

grande dovrà andare in palestra per farsi i muscoli…

M: Deve ricominciare da capo…

10: Per me non può nascere con i muscoli però magari può ereditare dal papà o dalla

mamma la voglia di fare sport…

- : Io l’ho ereditata dal papà.

La discussione sull’ereditarietà o meno dei caratteri acquisiti sembra approdare a

un’idea corretta, e cioè che si può ereditare una propensione, ma non direttamente un

carattere che dipende dallo sviluppo a dall’apprendimento; idea che non è stata fornita

dall’esperto, ma viene costruita sicuramente utilizzando informazioni che i bambini

hanno acquisito dall’esterno, ma che hanno sottoposto a discussione e a confronto con

l’esperienza. E le due cose sono integrate una all’altra.

11: Per me dipende: cioè se... uno non è che eredita tutto comunque… cioè eredita qual-

cosa... questo bambino che nascerà assomiglierà al papà… magari i capelli dicia-

mo… o proprio i muscoli.

M: Scusami… interrompo un attimo... perché – attenzione!- noi stiamo discutendo se i

figli ereditano i muscoli del papà fatti in palestra: questo stiamo discutendo... perché

diciamo: se la famiglia è sempre stata muscolosa da sempre, perché sono… quello è

un altro discorso… noi stiamo discutendo se i bambini possono ereditare dai genitori

i muscoli che si sono fatti in palestra... capito?

Ancora una volta è evidente come chi conduce non può mai dare per scontato che una

domanda chiara per lui lo sia anche per i bambini: dev’essere costantemente attento a

capire dalle reazioni se l’interpretazione data dai bambini corrisponde a quella che

l’esperto era intenzionato a passare.

11: Ah…

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M: Stiamo discutendo se si può ereditare una cosa che si è acquisita durante la vita... ad

esempio andando in palestra… Facciamo un altro esempio: un esperimento un po’

crudele che hanno fatto 100 anni fa. C’è stato un signore che ha preso un topo e gli

ha tagliato la coda… ha preso due topi… al topo femmina gli ha tagliato la coda, poi

gli ha fatti accoppiare… secondo voi i figli sono nati con la coda tagliata o con la co-

da lunga?

Molti: Lunga.

Molti: Tagliata.

11: Secondo me… nasce normale.

7: Magari nasce con una cosa in meno…

12: [...] oppure come ha detto S. [10] che magari nascono con la voglia di andare in pa-

lestra…

M: Nell’esempio della coda tagliata? Cosa ne pensi?

12: Anche se gli hanno tagliato la coda, non è cambiato niente… come ha detto S. [1] le

cellule rimangono quelle... nel senso che…

Stanno parlando dei geni e della loro trasmissione: un altro fondamento della moderna

teoria dell’evoluzione.

M: Quindi nascono con la coda lunga?

12: Sì… perché è come dire… la cellula… cioè la cellula che permette di fare la coda al

topo... ecco non è che, se tagli la coda, quando si sono accoppiati... la cellula va vi-

a…

M: Chiarissimo, va bene [...]

14: Secondo me può nascere con mezza coda… cioè eredita qualcosina dal padre e dalla

madre…

Dall’esperienza di vita quotidiana arriva un’idea che è della massima importanza an-

che a livello scientifico: i caratteri dei figli sono una ricombinazione di quelli dei geni-

tori; è la fonte più importante della variazione su cui si esercita il processo di selezione

naturale.

15: Secondo me magari avranno più voglia di fare sport ma non nascono con i musco-

li…

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M: Va bene: non si ereditano i muscoli direttamente, ma si potrebbe ereditare la predi-

sposizione allo sport…

[confusione]

M: Prendiamo l’esempio dei topi che è più facile – no?- tagliano la coda ai genitori... i

figli nascono con la coda o senza?

[confusione]

Ora, a seconda di come la pensate, come la mettete con quello che si diceva prima

che il cambiamento evolutivo?… non avviene solo nell’arco di una vita… semplice-

mente c’è un piccolo cambiamento, poi i figli partono da lì, fanno un altro piccolo

cambiamento e quindi questa cosa, nel giro di tante, tante, tante generazioni fa un bel

cambiamento. Ora provate a mettere insieme le due cose... – no?- centra col fatto dei

muscoli, della coda tagliata? Perché, se siete d’accordo che i figli nascono con la co-

da normale anche se i genitori avevano la coda tagliata, allora i cambiamenti che so-

no avvenuti nei genitori non passano nei figli... e allora come funziona quella cosa

che i figli continuano a cambiare partendo da dove erano arrivati i genitori? Questo è

difficile - eh?- molto difficile…

17: Secondo me non centra perché… se i genitori sono nati già con la coda tagliata,

quindi già ce l’hanno[...] il figlio ce l’avrà.

Evidenzia la differenza tra la trasmissione di caratteri acquisiti e di caratteri ereditari,

come sarebbe la coda tagliata se i genitori fossero nati già con la coda tagliata.

19: Per me invece no [...] se l’hanno tagliata a tutti e due i genitori, per me il figlio na-

sce con la coda tagliata.

M: Naturalmente chi risponde che i figli nascono con la coda tagliata non ha difficoltà a

spiegare quel meccanismo là, perché se i figli nascono con la coda tagliata, i figli dei

figli nasceranno con la coda un po’ più corta... e così via… Il problema è per chi ri-

sponde invece che i figli nascono normalmente con la coda lunga… allora quel cam-

biamento che avviene un pezzettino per volta di generazioni in generazioni com’è

che succede?

M. cerca di ricollegare l’esperimento concreto (topi, coda) al discorso generale dei

cambiamenti passati di generazione in generazione.

19: Una cosa: ma i figli dei genitori con la coda tagliata… i figli dei figli dei figli... io

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non credo… perché se l’hanno tagliata a lui [...] il bambino del topo non può avere su-

bito la coda…

Ha colto la relazione in questo modo: se tagliano la coda ai genitori, il figlio nascerà

con la coda un po’ più corta, il figlio del figlio ancora più corta e così via, fino a rag-

giungere la coda tagliata degli avi: come se il carattere del taglio della coda si potesse

trasmettere. È un’idea lamarckiana (l’acquisizione di caratteri acquisiti provoca

l’accumulo nelle generazioni successive), come ha suggerito M. nell’intervento prece-

dente.

M: Allora non ho capito… prima dicevi che nasceva con la coda tagliata...

19: Secondo me non nasce con la coda tagliata, i suoi figli invece nasceranno con la co-

da un po’ più corta...

M: Ah… naturalmente l’esempio della coda… allora pensate a una situazione di questo

tipo: può essere che i predatori dei topi, se i topi hanno la coda lunga, li prendano per

la coda; quindi per i topi avere la coda corta potrebbe essere anche un vantaggio –

no?- scappano più facilmente; quindi, se nascessero con la coda più corta, potrebbe

essere anche un cambiamento… un vantaggio di un adattamento... il problema è se

nascono o no con la coda più corta.

20: Secondo me però nascono con la coda intera perché se no tutti i topi di quella fami-

glia lì sono [...]

M: Quello che vi posso dire è che l’esperimento l’hanno fatto davvero… e i topi nasce-

vano con la coda lunga... e lui, questo signore, che era un po’ crudele devo dire, di

nuovo tagliava la coda ai figli e nascevano i nuovi figli e ogni volta nascevano con la

coda lunga.

M. opera uno spiazzamento, proponendo uno scenario nuovo e dal forte impatto emoti-

vo e lo fa utilizzando un registro narrativo.

Questo ve lo dico io, così adesso, tenendo conto di questo, come spiegate la faccen-

da?... dobbiamo sempre spiegare come mai ad ogni generazione c’è un pezzettino di

cambiamento in più, che è quello che dicevano loro della scimmia che diventa uomo

non in una volta, nell’arco di una vita, ma solo un po’ e poi un pochino lo fa il figlio

e poi il figlio ancora eccetera… Ma se succede che non si può ereditare la coda ta-

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gliata, com’è che funziona questa faccenda… com’è che a ogni generazione cambia

un pochino?

[confusione]

M: No, aspetta aspetta! avete ragione, la domanda è difficile e bisogna spiegarsi bene…

[confusione]

M: Qualcuno ha detto: “la scimmia diventa uomo” non vuol dire che una scimmia nasce

scimmia e muore uomo; quando si dice così si intende dire che una scimmia per ra-

gioni ambientali eccetera cambia un pochino... i figli di questa scimmia qui cambiano

un altro pochino e i loro figli un altro pochino... e dai e dai e dai, di generazione in

generazione, dopo mille anni… c’è un bel cambiamento, e dopo 10.000 anni, dopo

20.000, dopo un milione di anni; allora anche per diventare uomo si cambia un pez-

zettino per volta. La domanda è: se si cambia un pezzettino per volta, ma non si

cambia perché i figli ereditano la coda tagliata, com’è che i figli sono cambiati? per-

ché i figli sono cambiati?

Sembra che M. sia ampiamente fuori dalla “zona di sviluppo prossimale”, probabil-

mente si è fatto trascinare dal fatto che alcuni interventi dei bambini contengono intui-

zioni di elementi importanti della teoria dell’evoluzione e attribuisce a tutto il gruppo

questa competenza; finisce così per assumere, come misura della competenza, la pro-

pria. Può anche essere che M., che per molti anni è stato docente di scuola media, sia

scivolato nel “gioco” dell’insegnare.

F: avete capito la domanda adesso?

Qualcuno: Sì.

Qualcuno: No.

M: Perché i figli sono cambiati? è una domanda difficilissima…

F: Provo a spiegarla io perché loro non l’hanno ancora capita... però un po’ di silenzio

per favore!

Allora… poniamo... siamo andati dalla scimmia all’uomo.. su questo non c’è dub-

bio... però abbiamo appena detto che al topo, veniva tagliata la coda, ma il figlio del

topo nasceva con la coda lunga - bene?- Se diciamo che per arrivare alla posizione

eretta come prima cosa alla scimmia si sono accorciate le braccia... ma poi se il figlio

ritorna a nascere scimmia... capite che non c’è un passaggio? Cioè non è che il figlio

nasce già con le braccia più corte... perché anche il topo nasceva sempre con la coda

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lunga... quindi il figlio nascerà sempre scimmia... e quindi com’è possibile che ci sia

questo cambiamento? Capite? È come se... non parliamo di scimmie e uomo... par-

liamo di un topo con la coda lunga e di un topo con la coda corta... cioè senza coda…

come siamo passati dal topo con la coda lunga al topo senza coda? Se ogni volta glie-

la tagli e il figlio nasce con la coda lunga? Capite? Non può essere un passaggio per-

ché nasce sempre un topo con la coda lunga! Allora come funziona?

M: Guardate che la risposta è già stata data… da uno di voi… qualcuno ha detto una

cosa che potrebbe essere una risposta.

Anche qui, M. sembra considerare la risposta già data, che forse conteneva una intui-

zione, come significativa del livello raggiunto dalla co-costruzione di conoscenze ma a

quanto pare per i bambini non è così.

- : Le cellule?

F: Facciamo girare il bastone della parola?

21: Quella cosa lì che c’era il topo con la coda... che c’era il topo senza la coda lunga

anche se non gliel’hanno tagliata... il fatto che magari in un topo c’è stata questa mal-

formazione… e poi... magari si è accoppiato con uno normale ed è andata avanti que-

sta cosa con la coda corta visto che è un carattere ereditario…

Introduce la parola “malformazione” in cui il “mal“ generalizza una situazione relati-

va, ma è un’ottima spiegazione, perché la lega all’ereditarietà e antepone la variazione

all’adattamento

M: Mmm… avete sentito bene?

[confusione]

22: Per me… il fatto della coda lunga è perché nasce il topolino e c’ha la coda lunga…

perché il padre di un mio amico non c’ha un piede, però suo figlio è nato e aveva tutti

e due i piedi... quindi non vuol dire che se magari... siccome il padre del topo non

c’ha la coda il figlio non deve averla... magari ce l’avrà [...]

Spiega qualcosa di molto difficile facendo riferimento a un esempio tratto dal suo mon-

do esperienziale, ed è un esempio assolutamente pertinente; oltretutto esplicita la rela-

zione tra i due casi.

M: Avete capito? Lui [21] ha fatto un ipotesi… lui dice: potrebbe essere che quel topo

lì non ha la coda corta non perché gliel’hanno tagliata... può essere che sia nato co-

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sì… allora se è nato così forse è una cosa ereditaria… e allora può darsi anche che

suo figlio nasca così… e lui [22] dice… io però conosco qualcuno che ha un proble-

ma del genere però il figlio è nato normale… quindi il problema è: si ereditano o non

si ereditano delle cose di questo tipo?

F: Io ho una domanda: questo papà del tuo amico, che tu sappia, è nato senza un piede?

22: È nato senza.

F: È nato senza, grazie.

M: Avete capito la differenza? Perché un conto è dire che glielo taglio… gli taglio la

coda io durante la vita… un conto è dire che è lui che è nato già col piede… senza un

piede in questo caso…

7: Però quello che è nato senza un piede... se lui [...]

M: Appunto! lui dice: “quello che conosco io era senza un piede, ma i suoi figli sono

nati normali”.

7: Ma io dico: il padre di quello che è nato senza un piede… avrà avuto il piede o no?

Seguendo il filo del discorso 7 si pone una domanda pertinente sulla base di un ragio-

namento sofisticato: se il padre è nato senza un piede e se questo carattere è ereditario,

come fa il figlio a non averlo ereditato? Per verificare se è un carattere ereditario, oc-

corre sapere se anche il nonno lo aveva. È un esempio di come le idee dei bambini non

maturano spontaneamente seguendo fasi di uno sviluppo “naturale” e neppure vengano

semplicemente travasate nella loro mente dalla comunicazione sociale; le interazioni

sociali, e in particolare la conversazione, sono luoghi di co-costruzione di conoscenza..

[confusione]

1: Mio padre ha perso due dita perché gli sono caduti [...]

[confusione]

- : Ma chi se ne frega…

[confusione]

F: Chi ha il bastone? Prego…

M: [a 1] Vai avanti, vai avanti…

1: Io sono nato che le dita ce le ho ancora... quindi non è il fatto di coda o senza coda…

M: Bene, quindi il suo esempio, in realtà è simile a quello del topo… purtroppo a suo

padre gli è capitato un incidente, a quello del topo gli avevano tagliato la coda, però i

figli sono nati con le dita e con la coda, però lui [22] faceva un caso diverso - vi ri-

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cordate?- diceva che può essere una malformazione, non che gli è successo un inci-

dente… lui fa una differenza... queste cose sono molto diverse: un conto è che capita

un incidente, un conto è una malformazione… e allora lui dice – ed è una domanda

interessate: ma, se è una malformazione, ce l’aveva anche il padre e il nonno? Per-

ché, se capisco che ce l’aveva anche il padre e il nonno vuol dire che…

7: ... è un carattere ereditario.

È interessato a trovare una risposta alla domanda che si è fatto prima e arriva ad un

tale punto di comprensione che anticipa le parole di M.

M: ... che è un carattere ereditario. Però questa è la cosa importante: che se ce l’ha... se è

ereditario, allora ecco... si eredita, appunto…

2: Io ho visto... un giorno... alla televisione che una donna è nata... però era piccola e

adesso… ha fatto un figlio... e suo figlio è piccolo.

M: Quindi siamo sempre sul discorso che certi caratteri sono ereditari e certi no… in

realtà praticamente abbiamo fatto degli esempi diversi sulla sua domanda “ma questi

caratteri si ereditano o no?”. Mi sembra che abbiate detto questo: se sono cose che

cambiano durante la vita, incidenti, allora no; se non sono incidenti, in alcuni casi

sembra che si ereditano. Quello che dice lui [22] è una cosa che viene ereditata, quel-

lo che diceva lui [21] invece no... quindi sono casi diversi.

Tutti questi interventi, su suggerimento di quello di 22, consistono nel proporre esempi

pertinenti in base alle proprie esperienze; non si parla più di cose sentite a scuola. E il

risultato sembra essere la comprensione di idee per nulla semplici.

3: Io dico che se prendi un topo e gli tagli la coda, suo figlio non ce l’ha come il padre...

perché c’è una molecola che si prende da un corpo all’altro... e così la scimmia... ec-

co perché da scimmia nasceva ancora scimmia, perché [...], e poi il bambino della

scimmia [...]

M: Quello che lui [3] chiama “molecola” è lei [12] prima chiamava “cellula”, gli scien-

ziati lo chiamano in un altro modo: gene.

Di nuovo un’ “etichetta” in linguaggio scientifico applicata a un’idea maturata dai

bambini stessi.

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F: La domanda che si sta un po’ perdendo qua è: ma se la scimmia fa una scimmia, e

questa scimmia fa una scimmia e questa scimmia fa una scimmia, l’uomo da dove

viene?

Molti: Dalla scimmia.

F: ma se la scimmia fa la scimmia?

[confusione]

3: Io penso che la scimmia è nata scimmia... sì però la madre della scimmietta che è pic-

colina... la sua madre fa qualcosa che lo impara... e l’aiuta a diventare [...]

Entra in gioco l’idea di insegnamento, di trasmissione e quindi di evoluzione culturale,

anche se qui è applicata scorrettamente a un carattere corporeo.

M: Ma... allora -giusto!- perché il problema era: se certe cose non si ereditano, come fa

il figlio a cambiare se deve ri-iniziare sempre da capo; allora lui [3] dice: “attenzio-

ne, perché ci sono anche delle cose che vengono insegnate”. Faccio un esempio: mio

papà faceva il ragioniere, ma non è che io sono nato che sapevo già fare i conti...

quella è una cosa che non si eredita, però mio padre potrebbe insegnarmi fin da pic-

colo a fare bene i conti…

Allora faccio un obiezione: d’accordo, lui [3] sta dicendo che il fatto che i figli pos-

sono andare un po’ più avanti dei genitori è perché gli vengono insegnate delle cose,

ma certi cambiamenti dell’uomo si possono insegnare?

3: Un po’ glielo insegna la mamma, un po’ è nel sangue, poi nel nostro sangue, nel san-

gue del bambino ci potrebbe essere già qualche cosa che è già programmato… po-

trebbe essere già lui così...

M: Sai chi faceva questa ipotesi? Uno scienziato che si chiamava Darwin.

Attraverso la co-operazione del gruppo, 3 riesce a formulare un ipotesi per nulla bana-

le; ed é piuttosto sorprendente l’analogia con il pensiero di Darwin, indipendentemente

dal fatto che quella teoria si sia rivelata priva di base empirica e sia stata spazzata via

dalla genetica mendeliana.

- : Com’è che si chiama?

M: Darwin. È vissuto più di 100 anni fa e ha fatto questa ipotesi che sta facendo lui [3],

precisa identica, solo che allora non sapevano ancora tutte le questioni dei geni, della

genetica.

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4: Un giorno sono andato al supermercato ho visto una signora che era molto piccola,

però aveva un figlio che era normale... e voglio dire una cosa: quello che diceva lui

[3], che nasce… io dico che un po’ ha ragione però... se una scimmia diventa uo-

mo… non è che di colpo è diventata uomo: ha fatto un figlio... se la sua mamma è

ancora scimmia, non può essere come uomo.

Questo intervento ipotizza che l’evoluzione avvenga gradualmente e non “per salti” (si

veda 2.2.2), tema molto dibattuto sia da Darwin stesso che dagli scienziati che lo hanno

seguito. Sembra addirittura che 4 si contraddica: prima segnala una variazione notevo-

le tra una generazione e l’altra e poi afferma che il cambiamento avviene lentamente.

M: Quindi sei d’accordo con lui [3], che certe cose si imparano durante la vita, dei

cambiamenti che si possono trasmettere… lui dice che si trasmettono attraverso il

sangue…

4: Non è che se un uomo fa un bambino... non è che... cioè se… se nasce… una scim-

mia normale fa un figlio... suo figlio diventa come lei… fa un figlio come…

M: Torniamo agli esempi precedenti: a te [4] è capitato di vedere una mamma molto

piccola e il figlio alto normale, invece lui [2] ha fatto un esempio in cui la mamma è

piccola e il figlio è piccolo anche lui: evidentemente ci sono delle cose che si eredi-

tano e altre no... abbiamo escluso gli incidenti, ma anche delle cose che si possono

ereditare ce ne sono alcune che si ereditano e altre no.

5: Per me... quella cosa lì del topo… è che se il padre nasce con la coda corta, per me...

può anche lui nascere con la coda corta…

M: È stessa cosa che diceva lui [21]: può succedere non perché gliela tagliano ma può

succedere che nasce con la coda corta.

F: Ma qua la domanda è: da un topo con la coda lunga... può nascere un topo senza co-

da o no?

5: Per me no.

M: Lui [21] invece diceva che qualche volta può succedere… una malformazione.

6: Per me può nascere da un padre e una madre normali... può nascere anche un bimbo

diversamente abile.

L’idea che i figli non sono uguali ai genitori è la base della variazione, o per ricombi-

nazione dei caratteri dei genitori o per mutazione: insieme a quella che i figli assomi-

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gliano ai genitori, è una delle premesse alla possibilità che si verifichi il processo di

selezione naturale.

M: Volevo fermarmi su questa cosa qui: che può nascere con una malformazione. Vi

ricordate quello che dicevo prima di quella scimmia che camminava male perché a-

veva la schiena dritta? Quello che è nato così, dal punto di vista delle scimmie, è un

diversamente abile, perché ha delle difficoltà, perché le scimmie corrono… lui ha so-

lo due zampe... non riesce a correre a quattro zampe... Però cosa succede nel caso in

cui non c’è più da mangiare per terra, ma c’è da mangiare sugli alberi…

[confusione]

Quindi la malformazione è rispetto alla normalità, poi invece può cambiare... tenia-

mo conto anche di questa cosa qua. Quindi la parola “diversamente abile” in questo

senso è molto interessante… perché una volta si diceva “dis-abile” perché non aveva

delle abilità... dire “diversamente abile” ci ricorda che però potrebbe succede qualco-

sa… cambia... il Rift… magari invece poi proprio quella malformazione può essere

un vantaggio…

Adesso siccome manca poco, facciamo l’ultimo giro...

M. cerca di arrivare all’idea di selezione naturale legata al contesto ambientale, il

grande motore dell’evoluzione.

[confusione]

F: Cerchiamo di andare un po’ spediti però…

8: Avete fatto la domanda “perché le scimmie si sono evolute in uomo e invece il topo,

se gli tagliavano la coda, rinasceva con la coda?”; secondo me perché le scimmie

c’era bisogno che si evolvevano perché dovevano adattarsi al nuovo ambiente, inve-

ce il topo non aveva cambiato ambiente, non aveva il bisogno di avere la coda taglia-

ta…

Ritorna un’idea finalista dell’evoluzione (si veda 2.1.2).

Curioso il fatto che viene ripetuta la domanda, come a chiedere indirettamente “ho ca-

pito bene?” o come a volersi ricollegare direttamente con la domanda cancellando il

passaggio fatto sopra. Forse la spiegazione di 3 non soddisfa. 8, che cerca di giustifica-

re il suo intervento ricollegandosi a ciò che era stato detto all’inizio. Questo indica

quanto sia importante tenere presente il contesto relazionale e sociale della conversa-

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zione per interpretare i significati degli interventi.

M: Sì, hai ridetto… sono cose che avete già detto.

F: Posso dare un impulso? Allora la scimmia ha detto: ”io ho bisogno di cambiare, a-

desso cambio”? Tu lo puoi fare se vuoi? Se tu dici “io ho bisogno di volare perché il

cibo adesso è solo in cielo… da domani volo”, lo puoi fare? E quindi cos’è?... è la

scimmia che può decidere di cambiare? E il topo non può? E allora cos’è che ha pro-

vocato questo cambiamento?

F. cerca di riproporre la domanda fatta prima da M. in modo più provocatorio e più

semplice: l’intento è far capire che ci dev’essere un “motore” dietro tutta questa evolu-

zione.

- : Ma voi lo sapete?

[suona la campanella: la conversazione si chiude con i ringraziamenti di M. alla clas-

se]

3.2.3 I TEMI EVOLUZIONISTICI EMERSI DALLA CONVERSAZIONE

Analizzando la conversazione avvenuta tra l’esperto e la classe emergono alcuni impor-

tanti temi della teoria dell’evoluzione; tali temi non sono stati scelti e imposti ma sono

scaturiti dai bambini nell’interazione con il conduttore.

Si è scelto di partire da una domanda molto generale (sapete qualcosa sull’evoluzione?)

per due motivi: in primo luogo per verificare quali conoscenze scolastiche e quali idee

avessero su questo tema, e in secondo luogo per costruire un contesto che si discostasse

dalla comune interrogazione per coinvolgerli in un “gioco linguistico” incentrato sulla

ricerca.

La seconda domanda fatta da M. che riguarda il perché l’uomo “diviene”, ha potuto es-

sere formulata all’inizio della conversazione perché da subito i bambini hanno mostrato

di non credere in uno dei cardini del creazionismo: l’immutabilità della specie.

Si è passati quindi ad analizzare un nodo epistemologico chiave della teoria

dell’evoluzione, ovvero la differenza tra variazione individuale ed evoluzione di specie

(ontogenesi e filogenesi) introducendo anche il fattore temporale che, nel caso di bam-

bini, mantiene un riferimento essenziale alla propria esperienza; è infatti da osservare

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che per i bambini l’idea della successione delle generazioni precede un’idea di tempo

come quantità misurabile e/o come riferimento assoluto lineare su cui collocare gli e-

venti: benché non riescano a comprendere del tutto cosa significhi 100 o 200 anni (figu-

riamoci milioni o miliardi) sanno perfettamente che loro sono nati dai genitori, che i ge-

nitori sono nati dai nonni ecc., ovvero l’idea di generazioni che si susseguono.

Una successiva domanda verteva sulle motivazioni che portano a tale cambiamento e

così è stata introdotta dai bambini l’idea di speciazione su base geografica e la consa-

pevolezza che essa necessita di un tempo molto lungo per realizzarsi. Darwin stesso a-

veva indicato come causa delle resistenze all’accettazione della teoria dell’evoluzione la

difficoltà a rappresentarsi una serie di piccoli cambiamenti che si accumulano nel corso

di periodi di tempo di una durata che travalica le capacità dell’immaginazione umana:

“Però la causa fondamentale della nostra spontanea ripugnanza ad ammettere che una

specie abbia generato un’altra specie distinta deriva dal fatto che siamo sempre lenti

nel riconoscere qualsiasi grande cambiamento del quale non vediamo i gradi intermedi.

[…] L’intelletto non riesce ad afferrare bene un valore come cento milioni di anni; non

riesce a sommare e a concepire tutti gli effetti conseguenti a molte leggere variazioni

accumulate nel corso di un numero pressoché infinito di generazioni” (Darwin, 1859,

pag. 423). Un bambino ha poi avuto un’intuizione di un tema importante nell’evoluzione della teo-

ria dell’evoluzione, ovvero l’idea (Gould - Vrba, 1982) che non tutto nell’evoluzione si

spiega come adattamento della forma alla funzione. Purtroppo l’esperto non ha colto

questo aspetto e ha spostato il fuoco del discorso su un altro tema cruciale ad esso con-

nesso: il fatto che la variazione precede la selezione e l’adattamento. Tale tema non è

però nella “zona di sviluppo prossimale” dei bambini e così non viene capito pienamen-

te, come si può verificare dalle risposte evasive che sono state date.

La domanda successiva del conduttore ha cambiato discorso, indagando sulla possibilità

di ereditare caratteri acquisiti tramite l’esempio concreto dei due genitori che vanno in

palestra e la possibilità che i “muscolacci” vengano trasmessi agli eventuali figli. Da qui

si è sviluppata l’idea che alcuni caratteri sono ereditabili (ed esempio si è ipotizzato la

propensione allo sport) ed altri no. Un altro esempio sull’argomento ha chiarificato ulte-

riormente la domanda: l’esperimento (di Weismann) del topo a cui viene tagliata la co-

da. Da questo esempio i bambini hanno ipotizzato la presenza di geni (nella conversa-

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zione chiamati “cellule”) che indipendentemente dalla mutilazione ricostruiranno la co-

da nella prole.

Nell’ultima domanda l’esperto ha cercato di ricollegare l’esperimento concreto (topi,

coda) al discorso generale, affrontato all’inizio della conversazione, dei cambiamenti

passati di generazione in generazione, azzardando anche l’ipotesi che la variazione po-

trebbe essere un vantaggio per l’individuo. I bambini, non trovando immediatamente

una risposta, hanno riportato molti esempi tratti dall’esperienza personale. È entrata an-

che in gioco l’idea di insegnamento, di trasmissione e quindi di evoluzione culturale,

anche se viene applicata scorrettamente a un carattere corporeo. Infine, attraverso la co-

operazione del gruppo, un bambino è arrivato a formulare l’ipotesi dell’esistenza di un

“programma” che viene trasmesso di generazione in generazione “attraverso il sangue”:

é piuttosto sorprendente l’analogia con il pensiero di Darwin, indipendentemente dal

fatto che quella teoria si sia rivelata priva di base empirica e sia stata spazzata via dalla

genetica mendeliana.

EVOLUZIONE DELLA TERRA

“L’evoluzione degli esseri viventi affonda le proprie radici nella storia fisica del nostro

pianeta, stabilizzatosi e raffreddatosi circa 4,5 miliardi di anni fa.” (Pievani 2006, pag 17) Interessante l’intervento di 19 [ricordiamo che i bambini nella conversazione vengono

identificati con un numero] che, a differenza degli interventi precedenti basati sull’ “e-

voluzione dell’uomo”, amplia lo sguardo sulle trasformazioni che ha subito la terra da

quando è nata ad oggi, affermando così che l’evoluzione non riguarda solo gli esseri

umani, ma anche il mondo fisico che ci circonda.

19: Io ho sentito anche in storia l’evoluzione dell’uomo e poi anche in storia l’evoluzione

della posizione della Terra nel mondo... poi…

M: No: non ho capito… la posizione della Terra nel mondo in che senso?

19: Che prima era tutta attaccata e poi si è iniziata a staccare…

M: Allora quelle due cose che hanno detto loro sono due cose diverse: in un caso ha detto:

l’evoluzione dell’uomo è “nasce, cresce, muore”; invece per l’evoluzione della Terra ave-

te tirato in ballo altre cose, lei [11] diceva il fatto che prima c’erano le piante… lui [19] si

è ricordato che l’evoluzione della terra è il fatto che le terre, i continenti, prima erano at-

taccati, poi si sono staccati… è una cosa diversa…

1: La Pangea…

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Questa idea è sicuramente stata imparata a scuola o dai media, non viene da un espe-

rienza personale del bambino o da un ragionamento logico; ciò non toglie che aver am-

pliato l’uso del termine “evoluzione” con questa affermazione è un passaggio molto im-

portante che verrà poi utilizzato dagli altri bambini per associare il termine “evoluzione”

al termine “ambiente”.

ADATTAMENTO

“[…] si tratta di un processo e prodotto sempre incompiuto, provvisorio, contingente ri-

spetto ai cambiamenti ambientali che possono rimettere in moto il meccanismo selettivo a

favore di altri adattamenti. Un adattamento, benché ottimale in una nicchia ecologica, ri-

mane sotto condizione: vale fino al prossimo cambiamento delle pressioni selettive.” (Pie-

vani 2006, pag. 73)

21: Eh sì... e l’evoluzione penso sia che prima erano delle normali scimmie e poi si sono

evolute per adattarsi all’ambiente…

M: Questa è una parola nuova… A questo punto la domanda è: di quale, delle quattro cose

che abbiamo detto, parliamo? perché, al di là che le cose si chiamino “evoluzione”, “adat-

tamento” ecc., di quale vogliamo parlare… La cosa che mi interessa di più capire di quel-

lo che avete detto è… la faccenda dell’uomo, la scimmia… quando voi dite che cambia…

ditemi bene come avete detto... chi l’ha detto?

10: Nasce, cresce, muore?

M: No… com’è che hai detto esattamente?

8: Che c’erano i dinosauri, poi c’erano le scimmie che poi sono diventate uomini.

Sarà presente in tutta la conversazione un’idea finalista, espressa dalla preposizione

“per” (“per adattarsi all’ambiente”). Ciò può non essere significativo di un pensiero fi-

nalista che caratterizza i bambini: tutta la comunicazione sociale, anche quella degli

scienziati, si esprime in questi termini.

Qui compare per la prima volta il termine “adattamento”, ma nonostante M. ne sottoli-

nei l’importanza, i bambini non riescono ad associare tale parola al “divenire” (riprendo

la terminologia utilizzata dai bambini) degli uomini.

M: La domanda è questa, ed è una domanda importantissima: se succede prima che cambia

l’ambiente e poi gli animali cambiano per adattarsi all’ambiente oppure succede che

qualcosa negli animali ha un cambiamento e quello li costringe a cambiare abitudini? Lui

diceva “se la scimmia ha le braccia corte cammina male, allora comincia a camminare in

piedi”; quindi prima è successo che è cambiato, dopo di che, siccome cammina tutto in

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piedi e nella foresta si trova male, va nella savana… insomma prima c’è il cambiamento

del corpo e dopo l’animale cambiato si trova un ambiente adatto, oppure, al contrario,

cambia l’ambiente e allora l’animale cambia per vivere meglio nell’ambiente cambiato?

Iniziamo il giro regolare… cosa ne pensate di queste due cose? È chiara la domanda o

no?

[…]

3: La scimmia… lei cresceva e invece le braccia non crescevano più perché una scimmia non

è che cresce tanto tanto tanto e invece […] le gambe erano proprio più grandi delle mani e

delle braccia e quindi c’è un diverbio fra loro e ha dovuto camminare soltanto con i pie-

di…

M: Perfetto! Ti faccio ancora una domanda... è chiarissimo quello che hai detto… prima è

successo che le gambe fossero più lunghe delle mani; a quel punto era scomodo cammi-

nare per terra, quindi si è alzato in piedi e si è abituato a vivere in un altro modo; la do-

manda a questo punto è: ma come mai a quella scimmia lì sono diventate le braccia più

corte delle gambe?…

3: Perché ha cominciato ad andare… è andato a vedere delle nuove cose, così con i mesi e

con le settimane ha cominciato a mangiare meglio.

L’esperto cerca di guidare la co-costruzione dei bambini verso la comprensione del

meccanismo che sta alla base della selezione naturale e ne è premessa e condizione: la

variazione che di per sé non è direzionata all’adattamento.

Il gruppo non sembra comprendere la domanda che pone M. ed egli decide di provare a

spiegarla con un esempio:

M: Per chiarirvi un attimo la faccenda, facciamo che io sono una scimmia e cammino a quat-

tro zampe… [mima] per camminare a quattro zampe io devo avere la colonna vertebrale

piegata davanti... Supponiamo che io nasca con un difetto della colonna vertebrale per cui

non riesco a stare piegato… ce l’ho così, e non riesco più a stare piegato – no?- a questo

punto faccio fatica a camminare a quattro zampe… tutti i miei antenati hanno sempre

camminato a quattro zampe, hanno continuato a vivere così… io però ho il problema che

ho la schiena rigida, quindi faccio fatica. Allora a questo punto o decido che non ce la

faccio, non riesco a stare dietro agli altri, non riesco a correre eccetera… mi metto da par-

te e muoio… oppure a questo punto dico: beh, visto che sono così, che è un difetto... però

adesso vi faccio vedere… con queste zampe qui, bipede, perché non le adopero per pren-

dere, per esempio, la frutta sui rami più in alto? Tutti i miei famigliari mangiano le cose

che cadono per terra e non si sono accorti che qui c’è della frutta da mangiare… capite

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cosa sto dicendo? Cioè siccome, per una malattia, ho la schiena più dritta, a questo punto

mi metto a fare… mi adatto a una vita nuova… Questo era quello che cercavamo di spie-

gare prima.

Oppure invece c’è l’altra cosa, cioè: tutti camminano a quattro zampe e a un certo punto

cambia l’ambiente... il Rift, tutte queste cose qui… poi non c’è più niente da mangiare

tranne la frutta in alto, allora a questo punto decido di alzarmi in piedi per prendere la

frutta? Avete capito che... - no?- una cosa succede prima e una dopo.

Alla ripresentazione della domanda, il gruppo reagisce rispondendo con una delle due

ipotesi proposte, con una divisione abbastanza netta tra chi propende per la prima e chi

per la seconda (la maggioranza). In questo contesto sorge il dubbio che i bambini non

abbiano compreso fino in fondo la domanda: nessuno la specifica o chiede chiarimenti,

nessuno azzarda altre ipotesi; c’è semplicemente una scelta tra due possibilità non giu-

stificate.

EXAPTATION

Non tutto nell’evoluzione si spiega come adattamento della forma alla funzione: ci sono

casi in cui vengono cooptate funzionalmente, ovvero assumono una nuova funzione

strutture che originariamente erano presenti come effetti collaterali di strutture adattati-

ve o che svolgevano funzioni diverse (Gould – Vrba, 1982).

L’argomento che si sta discutendo è l’evoluzione dalla scimmia all’uomo: in questo

contesto, 3 azzarda questa ipotesi:

3: Io penso che noi camminiamo su due piedi perché loro, quando crescevano... le braccia

non arrivavano più a terra e così hanno dovuto imparare a camminare soltanto con due

piedi.

È tra l’altro la prima volta che viene usato il termine “dovere”, che implica non una

scelta attiva, bensì un vincolo strutturale.

“Il fenomeno dell’exaptation, che possiamo tradurre come <cooptazione funzionale>,

ci mostra come nell’evoluzione difficilmente un adattamento è stato fin dall’inizio co-

struito <per> assolvere alla funzione corrente […] e come l’adattamento sia spesso un

compromesso con i vincoli strutturali degli organismi e con la loro storia pregressa.”

(Pievani 2006, pag. 77-78) L’esperto sul momento non focalizza la discussione su questo concetto, non la coglie,

probabilmente perché la co-costruzione di conoscenze non è ancora giunta a una idea

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più basilare, il fatto che la variazione precede la selezione e l’adattamento, ed è su que-

sta che si concentra.

INDIVIDUO, POPOLAZIONE, SPECIE

2: Le scimmie si sono evolute.

M: Sì, ma come?

2: Hanno una crescita, diventano più intelligenti! E il cranio…

M: Sì, tu stai usando il plurale “le scimmie”…

2: Le scimmie.

M: Invece lui [12] diceva “la scimmia”… allora stiamo parlando di una? di tutte? di un

gruppo?

1: Di una.

Altri: Di tutte.

M: Chiarisco bene la domanda: ciascuna scimmia è diventata uomo e questo è capitato solo

alle scimmie?

1: Noooo!

M: Ah, vedi che dobbiamo capirci bene!

1: Quella di oggi non si è trasformata.

M: Allora: a chi è capitata questa cosa di diventare, da scimmia, uomo?

2: Eh, a delle scimmie sì e a delle scimmie no…

[…]

M: Stai parlando della vita di una scimmia?

3: Sì.

M: Bene, dei cambiamenti che sono avvenuti… lui [3] ha descritto in maniera dettagliata dei

cambiamenti che sono avvenuti nella vita di una scimmia. Sei d’accordo che questo è ca-

pitato ad alcune scimmie e ad altre no?

3: Ad alcune sì e ad altre no.

È stato importante capire se i bambini si riferissero alla crescita, allo sviluppo indivi-

duale oppure a un cambiamento (un’evoluzione) che ha interessato un gruppo, una po-

polazione, una specie. Davanti all’evidenza empirica che non tutte le scimmie si sono

“trasformate”, nasce l’ipotesi di cambiamenti che riguardano solo alcuni esemplari e

non la totalità del gruppo. In questo momento la discussione è costruita su ipotesi e im-

plicazioni logiche che i bambini fanno attivamente sulla base delle informazioni che

hanno e non è più un “esposizione” di quanto imparato a scuola.

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M: Anche tu pensi “durante la vita”?

6: Sì.

7: La scimmia ha imparato delle cose nuove, è diventata più intelligente, poi magari ha fatto

i figli che sono nati come lei… e così man mano…

M: Aspetta, perché riguardo questa cosa qua… va beh, finiamo il giro poi ci ritorno su…

Vi siete accorti cos’ha detto [7] di diverso dagli altri?

[…]

8 : Io penso che non è possibile che da quando nascono a quando muoiono… cioè che na-

scono scimmie e muoiono uomini… succede nel corso degli anni, non è che una nasce

scimmia e poi diventa uomo... si sono adattate all’ambiente nel corso degli anni…

[…]

M: Allora: voi conoscete qualcuno che è nato scimmia ed è morto uomo?

[…]

11: Allora, come avevano detto anche loro, solo alcuni gruppi di scimmie si evolvono e, se

non sbaglio, sono le scimmie antropomorfe… cioè, se io ero una scimmia e sono diventa-

ta habilis… mio figlio si evolverà e andrà avanti con lo sviluppo.

In questi scambi comunicativi si giunge a un presupposto cruciale della teoria

dell’evoluzione; partendo dall’idea che il termine “evoluzione” stia ad indicare lo svi-

luppo di un singolo organismo, i bambini comprendono che è impossibile che tale cam-

biamento avvenga in un singolo individuo e nell’arco di una vita: occorrono più genera-

zioni per avere il passaggio da scimmia a uomo.

Interessante è anche l’intervento di 21:

21: Eh sì... e l’evoluzione penso sia che prima erano delle normali scimmie e poi si sono

evolute per adattarsi all’ambiente…

Egli infatti utilizza l’aggettivo ‘normale’ per distinguere le scimmie che non si sono e-

volute da quello che invece si sono evolute. Questo concetto è adeguato scientificamen-

te in quanto la selezione naturale che ha portato alla specie umana ha coinvolto una po-

polazione che differiva dalla norma.

“Per evoluzione intendiamo il cambiamento (qualunque esso sia, morfologico o com-

portamentale) degli organismi nel corso delle generazioni. Non è sempre stato così: in

epoca predarwiniana <evoluzione> era un concetto associato allo sviluppo individuale

nel ciclo di vita […]. La distinzione è della massima importanza, perché lo sviluppo di

un singolo organismo nell’arco di una vita (ontogenesi) è un processo molto diverso

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[…] dalla formazione delle specie lungo migliaia di generazioni (filogenesi).” (Pievani

2006, pag.13) Anche i bambini arriveranno a formulare l’ipotesi che l’evoluzione non coinvolga solo

l’aspetto morfologico ma anche quello comportamentale:

2: … che poi le scimmie sono diventate più... dopo tutta la rivoluzione sono diventate più re-

sponsabili, hanno scoperto il fuoco, poi ci sono anche delle... cioè hanno trovato delle ca-

verne e li hanno messo dentro come casa per riscaldarsi, e che mangiavano…

M: Quindi mi stai dicendo che i cambiamenti non sono solo fisici, tipo il pollice, ma sono

anche dei cambiamenti nel modo di comportarsi…

SPECIAZIONE

È una bambina che pone una domanda e così facendo indirizza la discussione su come

nasce una specie, e anche sul perché non è possibile assistere in tempo reale alla nascita

di una specie:

14: Allora io sono d’accordo con tutti quelli che hanno detto dei figli… di come si evolve la

scimmia… e mi faccio la stessa domanda di C. [12]: perché le scimmie antropomorfe non

si evolvono più? Forse perché il Rift non si fa più… cioè… il Rift…

M: Cos’è il Rift?

14: La spaccatura… cioè alcune scimmie nell’epoca… hanno deciso di stare nella savana,

invece altre si sono decise di andare nella foresta pluviale…

M: Sì, ma che cos’è il Rift?

14: Il Rift è la spaccatura del terreno che ha fatto... in Africa… che …

[confusione]

M: Aspetta: ferma un attimo!… quello che stai dicendo è che questa cosa è successa perché

ci sono state condizioni diverse tra quelli che erano al di qua o al di là della spaccatura…

ecco il perché... quando si diceva “alcune sì e alcune no”… è perché alcune avevano certe

condizioni ed altre no...?

17: Secondo me quello che ha detto S. [14] è giusto perché quando è avvenuta la spaccatura

nel terreno, il Rift, alcune scimmie hanno deciso di rimanere nel proprio habitat e non la-

sciarlo, mentre altre hanno deciso di cercare altre foreste dove vivere… per questo adesso

l’uomo deriva dalla scimmia; invece quelle che hanno deciso di rimanere nelle foreste so-

no rimaste com’erano prima... e adesso noi possiamo essere uomini grazie alla dinastia

che ha permesso all’uomo di svilupparsi sempre di più fino ad arrivare a noi.

19: Per me quello che ha detto S. [14] e C. [12] è giusto però… adesso non è che dobbiamo

aspettare il Rift… perché… mmm… Questo andamento... diciamo… dell’evoluzione

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dell’uomo... ci sono voluti tanti anni per... per il cambio dell’aspetto… e questo… in o-

gnuno diciamo…

Non v’è dubbio alcuno che il termine “Rift” e la spiegazione di cosa indica tale termine

sia una conoscenza di questa bambina (e anche di altri) che proviene dall’esterno, ma in

modo pertinente è immessa nella conversazione l’idea dell’associazione tra un grande

evento ambientale, lo spostamento di un gruppo di scimmie (migrazione) e la nascita

della specie umana.

In queste frasi nasce la consapevolezza di un tempo (non quantificabile) necessario per

passare da una specie all’altra (un bambino dice che occorrono “tanti anni”) e che que-

sto “tempo” in realtà è successione di generazioni:

M: Quindi noi non lo vediamo perché non viviamo abbastanza anni… cioè, se aspettiamo un

po’, lo vediamo qualche cambiamento?

19: Però non in noi perché noi ormai abbiamo già fatto il nostro cambiamento… adesso dob-

biamo aspettare i nostri figli...

----

7: [...] poi magari ha fatto i figli che sono nati come lei… e così man mano…

----

12: Ha detto che la scimmia quando si è evoluta ha fatto i figli e perciò si è …

Un problema che viene adombrato dall’intervento di un bambino è quello della distin-

zione tra speciazione per anagenesi, ovvero progressiva modificazione di tutta una spe-

cie, tanto che alla fine la specie ancestrale non esiste più, o per divergenza, processo che

dà origine a due o più specie (speciazione allopatrica):

11: [...] non tutte sono diventate uomini… non tutte sono arrivate all’evoluzione.

CONTINGENZA

Quando è stato chiesto al gruppo perché era avvenuto il cambiamento dalla scimmia

all’uomo, è stato risposto che la causa era di tipo ambientale: una grossa spaccatura nel

terreno. L’esperto ha sostenuto questa ipotesi, riprendendola, ampliandola e dandogli

importanza.

11: Allora io non ho capito il fatto, cioè il fatto del Rift; cioè ha detto che c’è la spaccatura,

che c’è stata una volta e non ci sarà più... magari ci risarà, però non accadrà niente.

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Con questa nuova ipotesi, viene messo in dubbio che un grosso cambiamento ambienta-

le debba sempre provocare una mutazione o l’origine di una nuova specie. L’evoluzione

è contingente, non direzionata e non rispetta in modo necessario schemi di ricorsività.

Questo importante pensiero è stato formulato autonomamente da 11 ma non viene ap-

profondito perché contemporaneamente si sta affrontando il problema del come avviene

l’adattamento.

GRADUALISMO

4: Un giorno sono andato al supermercato ho visto una signora che era molto piccola, però

aveva un figlio che era normale... e voglio dire una cosa: quello che diceva lui [3], che

nasce… io dico che un po’ ha ragione però... se una scimmia diventa uomo… non è che

di colpo è diventata uomo: ha fatto un figlio... se la sua mamma è ancora scimmia, non

può essere come uomo. Questo intervento esplicita un’idea di evoluzione costante e graduale; 4 esclude che av-

venga ‘di colpo’. Per rispondere alla domanda posta, che chiedeva di spiegare come può

essere avvenuto il passaggio da scimmia a essere umano, 4 aggiunge all’ipotesi che

l’evoluzione avvenga anche per trasmissione culturale (formulata da 3 nell’intervento

precedente) l’idea che avvenga per piccoli cambiamenti.

Interessante notare come nella stessa frase 4 porta un esempio che sembra testimoniare

una situazione di grande cambiamento intercorso tra una generazione e l’altra e contem-

poraneamente afferma che l’evoluzione avviene gradualmente. Sembra una contraddi-

zione, ma oggi, alla luce delle ricerche sull’ “evo-devo”, sappiamo che le mutazioni, se

avvengono a un livello alto della gerarchia delle regolazioni dei geni, possono portare a

“salti” da una generazione all’altra, ma che la maggior parte di tali mutazioni è letale e

quindi non si manifesta.

EREDITARIETA’

M: […] adesso la domanda sarà questa: cosa succede tra i padri e i figli? Facciamo un esem-

pio... mmm… supponete che due... facciamo un esempio che riguarda gli uomini… per-

sone, signorino e signorina, vanno in palestra tutti i giorni, fanno tutti i giorni esercizi ec-

cetera eccetera... nel giro di un anno, due anni… gli succedono dei cambiamenti; per e-

sempio cosa succederà?

[…]

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M: […] gli vengono i muscolacci; poi questi due decidono di sposarsi, fanno dei figli… se-

condo voi… la domanda è questa: i loro figli nascono coi muscolacci o no?

Questa domanda, incentrata su un esempio reale, concreto permetterà ai bambini di

comprendere che ci sono caratteri ereditabili e caratteri non ereditabili: da questa distin-

zione coglieranno la differenza tra caratteri acquisiti e “malformazioni”.

I bambini partono dall’osservazione che c’è una somiglianza tra genitore e figlio, ma

che non si eredita tutto dal genitore; secondo la maggioranza, il tono muscolare fa parte

dei caratteri che non è possibile ereditare (anche se non motivano il perché).

M: Stiamo discutendo se si può ereditare una cosa che si è acquisita durante la vita... ad e-

sempio andando in palestra… Facciamo un altro esempio: un esperimento un po’ crudele

che hanno fatto 100 anni fa. C’è stato un signore che ha preso un topo e gli ha tagliato la

coda… ha preso due topi… al topo femmina gli ha tagliato la coda, poi gli ha fatti accop-

piare… secondo voi i figli sono nati con la coda tagliata o con la coda lunga?

Con questo ulteriore esempio l’esperto evidenzia una differenza molto importante: alcu-

ni caratteri sono innati, altri acquisiti; chiarisce inoltre che quello di cui si sta parlando è

un carattere acquisito durante la vita e non innato.

Dopo aver ascoltato le varie ipotesi dei bambini, M. racconta il risultato

dell’esperimento: i topi continuavano a nascere con la coda e a questo punto opera un

collegamento con quanto detto all’inizio della conversazione: se il “cambiamento” non

è trasmissibile di generazione in generazione, com’è possibile che l’uomo si sia evoluto

dalla scimmia?

19: Una cosa: ma i figli dei genitori con la coda tagliata… i figli dei figli dei figli... io non

credo… perché se l’hanno tagliata a lui [...] il bambino del topo non può avere subito la

coda…

19 ipotizza che il figlio del topo con la coda tagliata nasca con la coda lunga perché non

è un cambiamento che avviene tutto in una volta, bensì di generazione in generazione (e

noi non la vediamo perché occorrono troppi anni). Riprende la spiegazione data in pre-

cedenza alla domanda “perché oggi le scimmie non si evolvono più?” e l’adatta

all’esempio del topo.

21: Quella cosa lì che c’era il topo con la coda... che c’era il topo senza la coda lunga anche

se non gliel’hanno tagliata... il fatto che magari in un topo c’è stata questa malformazio-

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ne… e poi... magari si è accoppiato con uno normale ed è andata avanti questa cosa con la

coda corta visto che è un carattere ereditario…

Introduce la parola “malformazione”; il prefisso “mal“ generalizza una situazione rela-

tiva al contesto e al punto di vista, ma è un’ottima spiegazione, perché la lega

all’ereditarietà e antepone la variazione all’adattamento.

I bambini ora comprendono che ciò che si trasmette di generazione in generazione sono

caratteri ereditari e non acquisiti durante la vita o con l’uso e il disuso.

M: […] lui fa una differenza... queste cose sono molto diverse: un conto è che capita un inci-

dente, un conto è una malformazione… e allora lui dice – ed è una domanda interessate:

ma, se è una malformazione, ce l’aveva anche il padre e il nonno? Perché, se capisco che

ce l’aveva anche il padre e il nonno vuol dire che…

7: ... è un carattere ereditario.

Un’altro esempio che conferma questa ipotesi è l’intervento di 4, che riassume in un

unica frase il fatto che i figli assomigliano ai genitori,che non si ereditano i caratteri ac-

quisiti e che il confronto con i genitori non può essere fatto nei primi anni di vita, per-

ché ovviamente il bambino deve ancora crescere.

4: Dipende… perché… dipende che papà… Per me non centra se è muscoloso o no… però,

quando cresce… noi ne abbiamo pochi di muscoli… nel senso che i bambini crescono e

dobbiamo aumentare i muscoli… ci alziamo…

GENI

Durante la discussione sull’ereditarietà dei caratteri acquisiti emerge l’ipotesi che gli

organismi siano costruiti a partire da “cellule” o “molecole” che si trasmettono per via

ereditaria e che stanno alla base della creazione delle diverse parti del corpo: un’idea

che corrisponde bene a quella di gene. Probabilmente tale informazione è stata acquisita

dalla scuola o dai media: se è così, ci si può chiedere perché i bambini non usano i ter-

mini corretti. Può essere che non abbiano compreso fino in fondo cosa significhi questo

concetto, oppure che le informazioni siano state trasmesse in modo errato:

1: Secondo me no, perché le cellule sono sempre quelle e non possono cambiare aspetto fisi-

co… secondo me no.

[…]

12: Anche se gli hanno tagliato la coda, non è cambiato niente… come ha detto S. [1] le cel-

lule rimangono quelle... nel senso che…

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M: Quindi nascono con la coda lunga?

12: Sì… perché è come dire… la cellula… cioè la cellula che permette di fare la coda al to-

po... ecco non è che, se tagli la coda, quando si sono accoppiati... la cellula va via…

[…]

3: Io dico che se prendi un topo e gli tagli la coda, suo figlio non ce l’ha come il padre... per-

ché c’è una molecola che si prende da un corpo all’altro... e così la scimmia... ecco per-

ché da scimmia nasceva ancora scimmia, perché [...], e poi il bambino della scimmia [...]

M: Quello che lui [3] chiama “molecola” è lei [12] prima chiamava “cellula”, gli scienziati

lo chiamano in un altro modo: gene.

Interessante come ci sia da parte dei bambini una citazione pertinente di un concetto ac-

quisito dall’esterno, all’interno di un discorso rielaborato da loro relativo a un caso con-

creto.

LA “PANGENESI”

3: Io penso che la scimmia è nata scimmia... sì però la madre della scimmietta che è piccoli-

na... la sua madre fa qualcosa che lo impara... e l’aiuta a diventare [...]

M: Ma... allora -giusto!- perché il problema era: se certe cose non si ereditano, come fa il fi-

glio a cambiare se deve ri-iniziare sempre da capo; allora lui [3] dice: “attenzione, perché

ci sono anche delle cose che vengono insegnate”. Faccio un esempio: mio papà faceva il

ragioniere, ma non è che io sono nato che sapevo già fare i conti... quella è una cosa che

non si eredita, però mio padre potrebbe insegnarmi fin da piccolo a fare bene i conti…

Allora faccio un obiezione: d’accordo, lui [3] sta dicendo che il fatto che i figli possono

andare un po’ più avanti dei genitori è perché gli vengono insegnate delle cose, ma certi

cambiamenti dell’uomo si possono insegnare?

3: Un po’ glielo insegna la mamma, un po’ è nel sangue, poi nel nostro sangue, nel sangue

del bambino ci potrebbe essere già qualche cosa che è già programmato… potrebbe esse-

re già lui così...

M: Sai chi faceva questa ipotesi? Uno scienziato che si chiamava Darwin.

In queste risposte 3 formula una nuova ipotesi: l’ereditarietà ha una base fisica; infatti

ipotizza che i cambiamenti avvengano perché c’è qualcosa che si trasmette ai figli attra-

verso il sangue; una ipotesi simile era stata formulata dallo stesso Darwin nella teoria

della “pangenesi”:

“ciascuna parte del corpo, in ogni fase dello sviluppo, libera delle minuscole particel-

le, […] che circolano nell'organismo”

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e che

“nella maggioranza dei casi, finiscono per aggregarsi negli organi riproduttivi. […] Ne

deriva, così, una prole all'insegna della mescolanza dei caratteri dei genitori, benché di

tanto in tanto, sempre secondo l'ipotesi darwiniana, le gemmule non vengano utilizzate

immediatamente, ma restino latenti per poi ricomparire in un momento successivo del-

l'esistenza oppure nelle generazioni future.” (Jablonka – Lamb, 2005) È davvero impressionate come queste ipotesi (quella del bambino e quella di Darwin) si

assomiglino ed è dunque curioso domandarsi come 3 sia arrivato alla formulazione di

tale ipotesi. Purtroppo non è possibile conoscere i procedimenti mentali messi in atto da

questo bambino, ma si può comunque cercare di fare delle osservazioni (senza ovvia-

mente far riferimento a nessuna teoria) ragionandoci sopra. Dal momento che è da esclu-

dere che 3 possa avere compreso la teoria della pangenesi e anzi è alquanto probabile che

neppure la conosca, il suo pensiero potrebbe essere stato: se siamo simili ai genitori, la

somiglianza dev’essere “programmata” da qualche parte nel corpo. Se il “programma” è

una metafora che proviene dalla comunicazione dei media è interessante che 3 non citi,

come luogo in cui sia situato questo ipotesi programma, il DNA, che pure viene massic-

ciamente proposto dai media, ma di cui 3 (come molte delle persone che ne parlano) non

sa nulla, ma faccia ricorso al sangue, che è invece una immagine profondamente radicata

nelle culture tradizionali.

3.2.4 LE DINAMICHE DI INTERAZIONE CON L’ADULTO IN RAPPORTO

ALLA COSTRUZIONE DI CONOSCENZA DA PARTE DEI BAMBINI

Secondo l’ipotesi di Sala (Sala, 2007), relativa alla teoria dell’autopoiesi, illustrata in

2.1.4, i bambini sono in grado di autoorganizzarsi, ma ciò non toglie importanza al ruo-

lo dell’interazione con l’adulto. Egli ha infatti dei compiti fondamentali: garantisce e

definisce lo spazio di relazione, è garante della comunicazione di tutti perché sostiene la

comunicazione di ciascuno. Tale compito è affidato soprattutto al linguaggio non verba-

le del corpo. L’approvazione non dev’essere l’unica modalità di sostegno affettivo. Sala

ricorda l’importanza dello “spiazzamento”, della “perturbazione” come motore di ap-

prendimento:

“[…] l’apprendimento parte dal significato affettivo-cognitivo che lo piazzamento ha

per chi lo subisce […]” (Sala 2007, pag. 177).

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Può accadere anche l’inverso, ovvero momenti in cui le azioni dei bambini siano pertur-

banti per l’adulto, capaci quindi di provocare ristrutturazioni.

Come si può notare, anche nella conversazione con la classe 5C, l’adulto svolge un ruo-

lo fondamentale nel processo di co-costruzione di conoscenza. L’obiettivo non era di

fare un’indagine sulle conoscenze dei bambini di quinta elementare, ma di osservare

come co-costruiscono le loro conoscenze sull’evoluzione qui e ora in un contesto di in-

terazione sociale, impostato secondo l’idea dell’autoorganizzazione. Di qui la scelta di

non dirigere la conversazione, ma di tenere presenti soltanto alcuni temi, da proporre ai

bambini in chiave problematica aperta, in quanto di interesse per la ricerca. Così si è

deciso di iniziare la conversazione con una ricognizione non tanto sulle pre-conoscenze

in modo analitico, ma su una idea generale di evoluzione.

M., il conduttore del gruppo, ha scelto di presentarsi come “esperto” e non come inse-

gnante; tale scelta è fondamentale per la definizione del contesto (il “gioco linguistico”

in atto): a seconda di come percepiscono il ruolo dell’adulto e l’ambiente, i bambini

danno delle risposte coerenti con esso. Questo processo si può osservare nei primi

scambi della conversazione, nei quali i bambini mantengono un contesto di tipo scola-

stico, valutativo, non “fidandosi” della presentazione di M. come “esperto”: le risposte

sono riferite a precedenti lezioni didattiche e c’è timore nell’esprimere i propri pensieri.

L’esperto ha interagito con i bambini in diversi modi: talvolta indirizzando l’attenzione

su temi specifici onde evitare divagazioni dal tema di discussione, altre volte ignorando

degli interventi divagatori, spesso rispecchiando in modo più chiaro l’intervento di un

bambino o riassumendo quanto detto da più bambini, in modo da restituire in un unico

intervento le diverse opinioni o i diversi contributi dei bambini e, infine, attribuendo dei

termini specifici a delle idee proposte dai bambini ed espresse con il loro registro lin-

guistico.

FOCALIZZAZIONE DELL’ATTENZIONE

Gli interventi nei quali l’esperto focalizza l’attenzione sono molti all’interno delle con-

versazione, ad esempio quando vengono introdotte parole o concetti nuovi:

21: Eh sì... e l’evoluzione penso sia che prima erano delle normali scimmie e poi si sono

evolute per adattarsi all’ambiente…

M: Questa è una parola nuova […]

-----

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M: […]Vi siete accorti cos’ha detto [7] di diverso dagli altri?

-----

M: Aspetta perché questa è una cosa nuova!

-----

M: Bene: è importante questa cosa nuova.

oppure quando è necessario specificare meglio un ipotesi o un concetto:

M: No: non ho capito… la posizione della Terra nel mondo in che senso?

----

M: Bene, fermo lì! quando lui [8] dice che sono diventati uomini, cosa sta dicendo veramen-

te?...

----

M: Il punto importante della domanda è se quell’animale lì prima era una scimmia e poi si è

trasformato in uomo, quindi non c’è più la scimmia ma c’è l’uomo… Vorrei capire come

pensate che succede che una scimmia diventa uomo… io non ho mai visto una scimmia

diventare uomo… può darsi che non l’abbia vista io oppure che forse…

----

M: Stai parlando della vita di una scimmia?

----

M: Questi cambiamenti succedono nella vita di una scimmia?

----

M: Sì, ma quindi questo succede da quando nascono a quando muoiono?

----

M: Mmm… avete sentito bene?

----

M: Avete capito? Lui [21] ha fatto un ipotesi […]

----

M: Ma... allora -giusto!- […]

----

M: Volevo fermarmi su questa cosa qui: che può nascere con una malformazione. […]

In altri episodi, è invece necessario far comprendere che un intervento non è pertinente

o semplicemente non è importante per la conversazione:

20: Io invece mi ricordo delle scimmie, ma non mi ricordo invece più come si chiamano.

M: Va beh…

----

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20: C’è anche il fatto che la scimmia una volta aveva il pollice così [mima] …

M: Ma secondo te cosa centra… cioè perché citi il pollice così?... Va beh, non entriamo nei

dettagli...

“Se la conoscenza è una relazione tra soggetto e oggetto, la conoscenza scientifica ri-

chiede in primo luogo che l’attenzione sia rivolta a un oggetto, sia nella descrizione (il

come) sia nella spiegazione (il perché).” (Sala 2007, pag. 180).

ma i bambini non si pongono il problema di delimitare un oggetto e neppure se stanno

elaborando una spiegazione scientifica o no. È esigenza e compito dell’adulto indirizza-

re e limitare la ricerca attorno all’oggetto scelto onde evitare la dispersione del discorso:

Sala parla di “contenimento cognitivo” (Sala, 2007). E la reazione dei bambini è spesso

quella di affinare le osservazioni su un determinato oggetto.

OPPOSIZIONE E SPIAZZAMENTO

Il conflitto ha un ruolo fondamentale nella co-costruzione di conoscenza: l’esperto

dev’essere fonte di perturbazione dei sistemi cognitivi, di spiazzamento. Non si tratta di

un’opposizione basata su idee personali in merito ad una determinata questione, ma

semplicemente del rifiuto di accettare degli interventi come conclusivi e quindi della

possibilità di avanzare ulteriori richieste.

“E’ chiaro che una opposizione ha comunque un significato emotivo e affettivo nella re-

lazione asimmetrica tra insegnante e bambini.” (Sala 2007, pag. 182) e di questo bisogna sempre essere consapevoli, cercando di mantenere la giusta situa-

zione emotiva che renda accettabile ai bambini questa dimensione critica irrinunciabile.

L’esperto fa spesso ricorso all’opposizione; ecco degli esempi:

8: Io in storia ho sentito parlare dei dinosauri… che prima c’erano i dinosauri poi le scimmie

e poi sono diventate uomini…

M: In storia?

8: Sì.

M: Non in scienze?

10: Io ho sentito parlare dell’evoluzione dell’uomo in storia… l’uomo nasce, cresce e poi…

muore.

-----------

2: Le scimmie si sono evolute.

M: Sì, ma come?

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2: Hanno una crescita, diventano più intelligenti! E il cranio…

Nella conversazione vi sono “spiazzamenti” cruciali perché, non dando per scontato ciò

che è problematico, permettono di focalizzare l’attenzione, mantenendo aperta la curio-

sità del gruppo.

12: Allora… perché le scimmie che vedo adesso non si evolvono in uomini? Magari perché

le scimmie antropomorfe non ci sono più… io non lo so questo.

M: Ci sono ancora invece… Cioè lei [12] dice che, se le cose vanno come dice lei [11], cioè

che una scimmia cambia, poi fa e figli ecc…, le scimmie che ci sono adesso… perché non

cambiano?

RISPECCHIAMENTO

L’esperto rimanda continuamente ai bambini ciò che ha capito dai loro interventi, cer-

cando di renderli più chiari e comprensibili anche per gli altri bambini; il rischio è che la

sua interpretazione non corrisponda al significato che il bambino voleva dare alle pro-

prie parole e che quindi possa creare confusione o incomprensione; ma spesso questo

meccanismo è d’aiuto per i bambini (come dimostrano ricerche della Pontecorvo), che

talvolta arrivano a formulare i loro interventi in modo più chiaro e completo:

M: Ah: ecco allora cosa possono entrarci i figli! Cioè lei [11] dice: non è nell’arco di una vi-

ta che uno nasce scimmia e diventa uomo, ma, se nasce scimmia può succedere che co-

mincia a cambiare un po’ e poi il figlio...

11: .... porta a termine la…

M: ... diciamo: parte da dove è arrivato il genitore...

11: ... il padre, sì...

M: ... e poi va avanti.

E quindi per avere tutto il cambiamento?

11: ... e il nonno e il bisnonno…

M: Eh! E come si chiamano queste robe qua?

11: Cioè la famiglia, la…

----

3: Io penso che la scimmia è nata scimmia... sì però la madre della scimmietta che è piccoli-

na... la sua madre fa qualcosa che lo impara... e l’aiuta a diventare [...]

M: Ma... allora -giusto!- perché il problema era: se certe cose non si ereditano, come fa il fi-

glio a cambiare se deve ri-iniziare sempre da capo; allora lui [3] dice: “attenzione, perché

ci sono anche delle cose che vengono insegnate”. Faccio un esempio: mio papà faceva il

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ragioniere, ma non è che io sono nato che sapevo già fare i conti... quella è una cosa che

non si eredita, però mio padre potrebbe insegnarmi fin da piccolo a fare bene i conti…

Allora faccio un obiezione: d’accordo, lui [3] sta dicendo che il fatto che i figli possono

andare un po’ più avanti dei genitori è perché gli vengono insegnate delle cose, ma certi

cambiamenti dell’uomo si possono insegnare?

3: Un po’ glielo insegna la mamma, un po’ è nel sangue, poi nel nostro sangue, nel sangue

del bambino ci potrebbe essere già qualche cosa che è già programmato… potrebbe esse-

re già lui così...

M: Sai chi faceva questa ipotesi? Uno scienziato che si chiamava Darwin.

Le ripetizioni dell’esperto segnalano anche che l’informazione in questione è considera-

ta importante dall’adulto.

RIASSUNTO

Questa operazione permette di avere un quadro complessivo chiaro di ciò che è stato

detto dai bambini, in modo da poter confrontare più facilmente le varie teorie; in questo

modo si evita il rischio che chi parla dimentichi gli interventi fatti e si concentri solo

sugli ultimi.

È un operazione che l’esperto fa molto di frequente. Ecco alcuni esempi:

M: Ma, in conclusione, l’evoluzione qual è fra queste?... Ah no! Sono quattro cose, mi sono

dimenticato: una è “nasce, cresce, muore”, l’altra era “scimmia, uomo primitivo, uomo

moderno”, poi il fatto che “sulla terra c’erano alcune forme di vita, poi altre…” e poi “la

terra che cambia la posizione dei continenti sul globo”.

------

M: Aspetta! metto solo insieme quello che hanno detto alcuni di loro... insomma ve lo ridico

a modo mio e voi mi dite se ho capito bene; allora: certi cambiamenti succedono perché

succed qualcosa di grosso, per esempio si apre un Rift, e mica succede tutte le volte,

quindi capita una volta e poi non capita più. Lui stava parlando del fatto che c’è stato

questo grosso cambiamento, ci vuole del tempo per adattarsi a questa nuova situazione,

poi, una volta adattati, basta - no?- perché si dovrebbe cambiare ancora se non succede

niente… Ho capito bene?... Bene!

-----

M: Quindi siamo sempre sul discorso che certi caratteri sono ereditari e certi no… in realtà

praticamente abbiamo fatto degli esempi diversi sulla sua domanda “ma questi caratteri si

ereditano o no?”. Mi sembra che abbiate detto questo: se sono cose che cambiano durante

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la vita, incidenti, allora no; se non sono incidenti, in alcuni casi sembra che si ereditano.

Quello che dice lui [22] è una cosa che viene ereditata, quello che diceva lui [21] invece

no... quindi sono casi diversi.

Anche Pontecorvo segnala che quando l’insegnante ripete o estende l’informazione in-

trodotta da un bambino, il contenuto semantico del discorso può essere più facilmente

elaborato e compreso da tutti i partecipanti, questo anche perché l’informazione intro-

dotta da un bambino ha molta probabilità di essere alla ‘portata’ degli altri bambini

(Pontecorvo, 1991).

INTRODUZIONE DI TERMINI SCIENTIFICI

Nel momento in cui i bambini sono riusciti a co-costruire un ipotesi, l’esperto interviene

indicando il nome scientificamente corretto di ciò di cui si sta parlando. Questa opera-

zione è molto diversa dalla spiegazione didattica, nella quale prima viene presentato un

nuovo termine e dopo viene spiegato a livello teorico. In questa situazione invece si ri-

baltano i ruoli: ai bambini va il compito di portare nuove ipotesi, nuove scoperte, men-

tre all’adulto non rimane altro da fare che “etichettarle” correttamente.

Vediamo alcuni esempi:

M: ... diciamo: parte da dove è arrivato il genitore...

11: ... il padre, sì...

M: ... e poi va avanti.

E quindi per avere tutto il cambiamento?

11: ... e il nonno e il bisnonno…

M: Eh! E come si chiamano queste robe qua?

11: Cioè la famiglia, la…

M: La parola che usano gli scienziati è “generazione”…

----

M: Gli scienziati direbbero: il tono muscolare è ereditario o… quello che dice lui – no?- la

somiglianza con i genitori... abbiamo delle cose che assomigliano ai genitori… allora an-

che la muscolatura si prende dai genitori perché ci assomigliamo… o deve ricominciare

a….

----

M: Quello che lui [3] chiama “molecola” è lei [12] prima chiamava “cellula”, gli scienziati

lo chiamano in un altro modo: gene.

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CAMBIO DI REGISTRO LINGUISTICO

In momenti di particolare difficoltà, di stallo, o di incomprensione, è stata adottata la

tecnica di cambiare registro linguistico, passando a uno narrativo più vicino al pensiero

dei bambini o addirittura a uno più teatrale e intuitivo. Questo cambiamento spesso ha

aiutato il gruppo a comprendere meglio la domanda in questione.

Vediamo alcuni esempi:

M: Bene, fermo lì! quando lui [8] dice che sono diventati uomini, cosa sta dicendo veramen-

te?... Preciso la domanda: “c’era una scimmia, e quella scimmia lì si è trasformata in uo-

mo”: è questo che noi stiamo dicendo?

[confusione]

F: La domanda è: una mattina la scimmia si sveglia e si ritrova uomo?... è andata così?

----

F: Allora… ci sono due soluzioni... facciamo l’esempio dell’alzarsi in piedi: l’uomo prima

andava a quattro zampe poi si è alzato in piedi: la domanda è: si è alzato in piedi per rag-

giungere gli alberi più alti, o comunque per cacciare più velocemente, oppure si è alzato

in piedi perché le braccia si sono accorciate, faceva fatica a camminare a quattro zampe e

si è alzato in piedi? […]

----

M: Per chiarirvi un attimo la faccenda, facciamo che io sono una scimmia e cammino a quat-

tro zampe… [mima] per camminare a quattro zampe io devo avere la colonna vertebrale

piegata davanti... Supponiamo che io nasca con un difetto della colonna vertebrale per cui

non riesco a stare piegato… ce l’ho così, e non riesco più a stare piegato – no?- a questo

punto faccio fatica a camminare a quattro zampe… tutti i miei antenati hanno sempre

camminato a quattro zampe, hanno continuato a vivere così… io però ho il problema che

ho la schiena rigida, quindi faccio fatica. […]

EFFETTI DELLA MODALITÀ DI INTERAZIONE DELL’ADULTO

Tramite le dinamiche d’interazione con l’adulto sopra descritte, i bambini sono riusciti a

co-costruire importanti ipotesi su temi evoluzionistici.

Un esempio concreto è quello relativo alla scoperta che l’evoluzione di una specie non

può avvenire nell’arco della vita di un singolo individuo, bensì sono necessarie diverse

generazioni perché ciò avvenga: i bambini, “perturbati” dagli interventi dell’esperto,

comprendono che è impossibile che un tale cambiamento avvenga così repentinamente.

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Questo concetto chiave della teoria dell’evoluzione non è dunque insegnato

dall’esperto, bensì co-costruito dai bambini con la sua guida.

Un altro caso similare è quello che riguarda l’ereditarietà di un carattere: i bambini, con

l’aiuto dell’esperto, hanno chiarito che alcuni caratteri ci sono sia nei genitori che nei

figli, ma non tutti:

7: Io dico di sì perché quando si dice: “tu hai questi occhi, hai il naso di tua madre”… anche

il fisico può [...]

[...]

M: Stiamo discutendo se si può ereditare una cosa che si è acquisita durante la vita... ad e-

sempio andando in palestra…

A questo punto viene introdotto dall’adulto un nuovo termine: “carattere ereditario”.

Andando avanti con la conversazione, sarà sempre più evidente che i bambini hanno

fatto proprio il concetto di “ereditarietà di un carattere”: questo infatti, come già stato

detto, non è stato presentato dall’esperto, ma è stato co-costruito dai bambini tramite

ragionamenti logici, scontri di opinioni e racconti tratti dalla propria personale esperien-

za.

Il merito di queste scoperte va dato anche al “gioco linguistico” (Wittgenstein, 1953)

che è stato istituito dall’adulto e anch’esso co-costruito: un contesto di ricerca, nel quale

chiunque poteva dire ciò che pensava (ovviamente se pertinente alla conversazione)

senza che seguisse un giudizio di valore da parte dell’adulto. Creare un tale clima non è

stato semplice: nell’analisi della conversazione emerge come all’inizio i bambini non si

espongano sul piano delle conoscenze personali, ma cerchino di ricordare concetti inse-

gnati a scuola; successivamente si passa a un piano di discussione basato sulla logica, su

ipotesi e confutazioni da parte dell’esperto, su accordi e disaccordi all’interno del grup-

po; alla fine invece sono riportati esempi o ipotesi tratti dalla propria esperienza di vita,

dall’ambito culturale di riferimento, da ciò che si è sentito dai media. Ad esempio, il

ciclo di risposte sull’ereditarietà dei caratteri, che per l’appunto si conclude con la con-

divisione, da parte di alcuni bambini, di esperienze tratte dalla propria vita personale,

con esempi di parenti o amici che hanno subito amputazioni o che hanno malformazioni

dalla nascita, porterà il gruppo alla conclusione che ciò che si trasmette di generazione

in generazione sono caratteri non acquisiti bensì innati.

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Questa modalità del “fare esempi” appartiene all’epistemologia dei bambini che tendo-

no a contestualizzare il pensiero in situazioni concrete esperienziali, ma anche alla pras-

si scientifica, perché il procedere induttivo generalizza a partire da esempi, e anche si

deve saper dedurre dal caso particolare affermazioni di carattere generale.

Interessante osservare fin dove si spinge questo “gioco linguistico”: ci sono momenti in

cui la perturbazione reciproca fra bambino e adulto è talmente forte da completare in-

sieme delle frasi; addirittura c’è un episodio dove i ruoli (tra chi fa le domande e chi da

le risposte) sono invertiti:

12: Io ho due domande…

[…]

12: Perché adesso le scimmie non si evolvono più? anche se ci sono le antropomorfe e ho

sentito del Rift… cioè, anche se adesso... cos’è che è cambiato... anche se c’è la cultura…

che sono andati nella foresta...

M: La tua domanda è “ma perché le scimmie antropomorfe si sono evolute e adesso non si

evolvono più?”. La risposta che ti hanno dato loro è che, siccome non è più cambiato

l’ambiente in cui vivono, sono rimaste com’erano prima. Non ti convince?

12: Poi la seconda era che l’A. [11] ha detto che le scimmie adesso stanno bene come sono e

quindi non hanno più bisogno di evolversi, però anche un tempo magari le scimmie sta-

vano bene e allora perché si sono evolute, se stavano bene?

M: La risposta è che se le scimmie stavano bene non ci pensavano a cambiare, ma siccome è

successa questa cosa del Rift... che si dovevano spostare... è cambiato tutto, come dire...

hanno dovuto, in qualche modo, per sopravvivere, hanno dovuto cambiare. Questa è la ri-

sposta che ti danno loro.

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4. CONCLUSIONI

Questa ricerca è stata guidata da ipotesi tratte dalla lettura di studiosi e ricercatori, (cap.

2) e a partire da domande (cap. 1), cui ora, sulla base di questa esperienza di conversa-

zione in classe, cercherò di dare delle risposte.

Analizzando la conversazione, è stato possibile osservare come il processo che conduce

i bambini alla costruzione di nuove conoscenze è un processo sociale, che si fonda su

uno sfondo culturale di riferimento comune. Per comprendere questo processo è neces-

sario partire da ciò che i bambini stessi propongono e domandano, in un contesto di in-

terazione, altrimenti si rischia di uscire dalla “zona di sviluppo prossimale” creando pe-

ricolose incomprensioni.

È certamente importante avere ben presente i diversi sfondi culturali che caratterizzano

l’insegnante e gli allievi, ma ancora più importante è la strategia di interazione messa in

atto dall’adulto: come si può osservare nella conversazione, nei momenti in cui l’esperto

dichiara di “non capire”, i bambini si sforzano di riformulare in modo più adeguato i

loro pensieri. Questo può avvenire solo se l’adulto si mostra disposto all’ascolto, a esse-

re a sua volta ‘perturbato’, a stupirsi, curioso di comprendere e non ansioso di riformu-

lare nelle sue forme culturali ciò che i bambini esprimono.

Prima di tutto, dunque, l’adulto ha il compito di sostenere la conversazione, rispec-

chiando gli interventi dei bambini con lo scopo di renderli più comprensibili al gruppo,

riassumendo le diverse idee in modo che siano facilmente confrontabili, mantenendo

concentrata l’attenzione su un determinato argomento, creando momenti di conflitto co-

gnitivo che mantengano aperte le aspettative dei bambini.

In secondo luogo, importanti sono le modalità di interazione e organizzazione che i

bambini utilizzano per rispondere alle domande; spesso ci sono state situazioni in cui un

membro del gruppo riprendeva l’intervento precedente chiarendolo, ampliandolo o e-

sprimendo un disaccordo: così facendo, ogni bambino sembra partecipare alla costru-

zione di un pensiero collettivo, autoorganizzato, in grado di rispondere alle “perturba-

zioni” provocate dall’adulto.

La costante attenzione o partecipazione del gruppo è fondamentale in un processo di co-

costruzione di conoscenze; come si è potuto osservare dalla conversazione, ogni bambi-

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no in qualche modo contribuisce e, più la curiosità è forte, più il gruppo ha bisogno di

risposte, più si attiva per trovarle.

Osservando la differenza che intercorre tra l’inizio e la fine della conversazione, ipotiz-

zerei che fondamentale è il “gioco linguistico” che fa da sfondo all’interazione, così

come le “regole del gioco” che si istituiscono: sono infatti queste che, come si è visto,

hanno permesso a ogni componente del gruppo di partecipare, inducendolo nel contem-

po ad ascoltare le opinioni altrui.

Altre strategie dimostratesi efficaci durante l’interazione sono la continua problematiz-

zazione degli interventi, la confutazione e soprattutto lo spiazzamento.

Per quanto riguarda le domande, esplicitate nell’introduzione, che vertono più specifica-

tamente sul tema dell’apprendimento della teoria dell’evoluzione, i risultati di questa

ricerca sostengono la convinzione che non solo sia possibile affrontare argomenti com-

plessi quali quelli evoluzionistici tramite la cooperazione dei e soprattutto fra i bambini,

ma che anzi questo sia un ottimo modo per facilitare il processo di apprendimento.

Gli aspetti dell’evoluzionismo proposti dal gruppo sono stati soprattutto quelli che ri-

guardano più da vicino la vita dei bambini; è stato difficile ampliare il discorso da esse-

re umano a esseri viventi e da individuo a specie. Gli esempi che sono stati portati sia

dall’esperto che dai bambini sono osservabili e rintracciabili nella quotidianità, con

l’eccezione dell’evoluzione fisica della terra.

L’argomento sui quali i bambini si sono mostrati più impazienti di esprimere e di con-

frontare la loro opinione è stato il tema dell’ereditarietà; probabilmente è perché su que-

sto si concentrano una (seppur minima) conoscenza scolastica, esperienze vissute per-

sonalmente, temi di discussione attuali trattati dai mass media, uno degli elementi più

confusi della teoria dell’evoluzione (l’idea lamarckiana di eredità dei caratteri acquisiti,

fondata sull’uso/disuso, non è ancora scomparsa). Il ragionamento collettivo su tale te-

ma ha condotto a una idea di ereditarietà abbastanza adeguata scientificamente.

Le conoscenze che i bambini possedevano sull’argomento erano molto confuse; è inte-

ressante inoltre notare come essi si riferiscano all’ “evoluzione” come un tema trattato

nell’ambito storico del programma didattico e come la loro concezione di “evoluzione”

sembra rifarsi alla famosa “marcia del progresso”, che vede raffigurati i cambiamenti

dai primi ominidi all’uomo moderno come un miglioramento progressivo e lineare. È

stato comunque evidente che le nozioni scolastiche su temi evoluzionistici erano abba-

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stanza limitate in questo gruppo, che ha dovuto velocemente far appello ad altre risorse

per poter rispondere alle domande poste dall’esperto.

Sono così entrate in gioco le conoscenze di ognuno, che accuratamente “focalizzate” e

“riassunte”, hanno permesso una serie di ragionamenti sviluppati in gruppo, che hanno a

loro volta condotto a una definizione più adeguata scientificamente delle ipotesi presen-

tate in origine da un singolo bambino, giungendo persino alla formulazione di ipotesi

complesse associabili a quelle elaborate dallo stesso Darwin o dalla genetica mendelia-

na.

Capire come influisce il contesto culturale sociale sul processo conoscitivo è un compi-

to complesso. A questo scopo sarebbe utile anche una ricerca che comparasse una stessa

serie di domande poste in diversi contesti culturali.

In definitiva quello che si può ricavare a questa ricerca è che, in un contesto di intera-

zione sociale tra pari, le informazioni acquisite dai bambini nel bagno di comunicazione

in cui sono immersi possono entrare in un processo vivo di assimilazione e accomoda-

mento dei sistemi cognitivi, in cui vengono rimesse in gioco e rielaborate anche espe-

rienze personali, come esempi capaci di contestualizzare la conoscenza.

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