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C’È UN’ALTRA COSA CHE DEVI SAPERE PRIMA DI ANDARE IN BANCA
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“C’È UN’ALTRA COSA CHE DEVI SAPERE PRIMA
DI ANDARE IN BANCA”
VALERIO MALVEZZI
Alessandria, lì 15 maggio 2017
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Autore: Valerio Malvezzi In copertina Valerio Malvezzi, co-fondatore di WINtheBANKWINtheBANK Come conquistare una banca
Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta senza autorizzazione scritta dell’Autore.
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INDICE
• Prefazione 5• Quanto mi costa la mia azienda? 9• I miei soldi hanno un valore 13• Perché calcolare il costo del denaro 18• Il costo del capitale 23• Quando un’azienda sta in piedi? 26• In equilibrio sulla fune 31• I soldi della banca sono diversi da quelli dell’imprenditore 36• Perché i bilanci servono a poco 41• Perché non ottengo denaro dalla banca? 43• Cosa leggono le banche 46• Perché lo stato patrimoniale è un casino 51• La lente d’ingrandimento delle banche 56• Perché con la cassa si mangia, e il reddito no 61• Cerchiamo di essere operativi 65• Qual è lo scopo di un imprenditore 71• I soldi che restano all’imprenditore 76• La cassa non è come il prosciutto 81• Un contratto, una penna e un caffè 86• Come ragiona il tuo antagonista 90• L’importanza del biglietto da visita 94• Trippa per gatti, panettone e sputasentenze 99• La casetta di Alice 105• La collina e il rischio dello scollinare 111• La sindrome del gioco d’azzardo 117• Mi faccia il pieno 123• Ma quanto mi posso indebitare? 128• L’abito per tutte le stagioni non esiste 132• Il denaro è sovrano 135• Perché tu non vali 139• L’agnello sacrificale 143• Cosa succede se vai in emergenza? 147• Zombies a caccia di soldi 151• Il dado a sei facce 155• Mago Merlino e la sua bacchetta 159• Conclusioni 163
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PrefazioneA dispetto dei dati totali, che vengono presentati periodicamente scritti
con l’inchiostro rosa, gli impieghi bancari alle imprese non stanno salendo
affatto, in Italia.
Nei primi tre mesi del 2017 ad essere saliti effettivamente sono gli impieghi
complessivi verso la clientela, grazie però al solo incremento dei mutui
immobiliari alle famiglie che, si sa, sono il prodotto finanziario più sicuro
per le banche in quanto garantiti dagli immobili stessi oggetto del prestito
e dalla buona solvibilità che comunque le famiglie italiane hanno finora,
e nonostante nove anni di crisi, conservato.
È da questo quadro che Valerio Malvezzi, un economista dal pensiero
libero e dal DNA indipendente, con la regia e il supporto editoriale del
suo socio Massimo Bolla, “mago” del marketing e della comunicazione,
ha preso le mosse ormai più di tre anni fa per proporsi sul mercato della
formazione in Italia come uno dei pochi ancora capace di spiegare agli
imprenditori italiani come ottenere dalle banche quel credito che nella
maggior parte dei casi esse sono ormai portate a negare.
Ne è scaturito un denso “cartellone” di lezioni frontali, articolate per
seminari e workshop periodici, e supportate da un’intensa attività
social, che ormai conta in migliaia gli allievi entusiasti - e virtuosamente
“ripetenti”, nel senso che tornano volentieri ad ascoltare periodicamente
le nuove lezioni di Malvezzi. Accanto a questo programma, “WINtheBANK”
- come Bolla e Malvezzi hanno chiamato la loro società - ha sviluppato
un’intensa attività editoriale che genera oggi un secondo libro, dopo il
primo - di grande successo - pubblicato poco meno di un anno fa. Nasce
come raccolta degli articoli che il prolifico Malvezzi ha pubblicato su
vari supporti - dal Gruppo Facebook di WINtheBANK, al settimanale
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Panorama, al mensile Economy - ma va oltre la formula della raccolta
di articoli, perché questi contenuti sono aggiornati e integrati con spunti
sempre nuovi.
La qualità profonda di quest’opera risiede nell’approccio insieme
costruttivo ma severo che l’autore esprime in essa.
Malvezzi non lesina critiche a quegli imprenditori che pretendono
- senza essersi evidentemente resi conto che il mondo è cambiato -
di avere finanziamenti bancari producendo, per riuscirci, la stessa
documentazione scarna e “smozzicata” che dieci anni fa, prima della
crisi, veniva considerata sufficiente da impiegati bancari spesso distratti
o incompetenti e comunque non motivati a filtrare con severità le richieste
che arrivavano dalla clientela.
Ebbene, da allora ad oggi il mondo è davvero cambiato. Anche volendo,
oggi le banche non possono più comportarsi così “alla leggera”. Le regole
sono diverse, le maglie sono diventate strettissime.
Davvero si tende a erogare crediti - come ironizza una celebre “mattonella“
popolare italiana, di quelle che si vendono in tutti i mercatini - soltanto
ai “novantenni purché accompagnati dai genitori”. E dunque, per non
tornarsene a casa a tasche vuote, si deve essere più bravi, ma molto più
bravi di prima.
Occorre produrre tanti documenti, affinare le proprie idee, far chiarezza
con sé stessi sui propri programmi, sui propri piani. Solo così si può
tentare di ottenere comunque credito bancario: e neanche sempre.
Senza fare sconti alle banche - ottuse e spesso impreparate a loro volta
alle nuove incombenze - ma senza neanche far sconti ai loro clienti, o
aspiranti clienti, Malvezzi fa in pratica l’insegnante di lingue, insegna ai
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clienti come si parla con la banca per “vincerla”, o meglio per vincerne
la riluttanza ormai istituzionale a finanziare chi non abbia carte di
cristallina trasparenza e forte attrattiva.
Ma attenzione: è proprio qui il bello degli scritti di Malvezzi raccolti in
questo libro e delle sue lezioni. Impegnandosi in azienda per “farsi belli” e
presentarsi al meglio alla sfida del credito bancario, l’imprenditore cresce
ed evolve.
Si riqualifica; impara a conoscere della sua azienda aspetti che molte
volte egli stesso ignorava.
Ed è attraverso questo processo di autoscienza ed autoanalisi che
l’imprenditore forse riesce a ottenere credito, ma certamente ottiene una
ricarica di chiarezza strategica e gestionale per meglio far fronte a tutte le
nuove sfide del mercato.
Buona lettura!
Sergio Luciano
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Quanto mi costa la mia azienda?Questo libro è stato scritto per chi ha esigenza di far finanziare la propria
azienda da una banca, non per chi voglia studiare la finanza aziendale per soli
scopi culturali.
La finanza aziendale, non è così banale da essere ridotta a chiacchiere da bar,
come talvolta mi è successo di cogliere nell’approccio di talune persone, ma,
pur non rinunciando al rigore dei contenuti (qua e là troverete anche formule
o riferimenti), intendo provare a renderli chiari ed espliciti.
Ho scelto di partire da questa domanda:
“Ma quanto mi costa la mia azienda?”
Lo faccio per una ragione ben precisa; perché, se io fossi un imprenditore,
avrei due sole domande in testa.
Va bene, mi dovrei anche chiedere quanto pagherò di tasse, quanti ricavi
otterrò l’anno prossimo in Brasile, se il mio sistema qualità è adeguato, se il
mio sistema di pianificazione della produzione del mese prossimo è efficiente,
se il fornitore mi fornirà il materiale in tempo e mille altre questioni.
Sono certo che avrete mille domande e mille suggerimenti operativi, fiscali,
finanziari, produttivi, commerciali, e tanti altri da darmi, secondo le complesse
e articolate logiche e funzioni aziendali.
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Ma, se iniziate a seguire il mio punto di vista, che è quello di chi si occupa
della finanza delle aziende con approccio esterno, allora converrete che la
sintesi delle mille domande diventano due.
• Prima domanda: quanto mi costa?
• Seconda domanda: quanto mi rende?
Sono le due domande strategiche, le cui risposte, che come vedremo saranno
una sintesi di più articolati ragionamenti, consentono di possedere una terza
informazione cruciale: l’azienda guadagna o perde denaro?
Attenzione, scrivo denaro e non utile, poiché tutti sanno calcolare se un’a-
zienda produce utile o perdita, ma non tutti sanno dire se una azienda che
produce utile, per esempio, guadagna oppure perde denaro.
Molti, addirittura, sono convinti che un’azienda che dichiara utile produca
denaro; non è così, come vi spiegherò velocemente nei prossimi passaggi.
Il mio ragionamento cruciale sarà il denaro.
Parlerò di denaro, o moneta, perché lo scopo dell’imprenditore, in estrema
sintesi, è uno solo: partire con del denaro, spenderlo e arrivare con maggiore
denaro di quanto ne aveva alla partenza.
Se questo si verifica, allora ha vinto la partita, altrimenti ha perso.
L’economia e la finanza sono un gioco semplice, anche se talvolta qualcuno,
ritenendolo troppo semplice, lo banalizza incorrendo in gravi errori interpre-
tativi.
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Ho conosciuto centinaia di imprenditori nella mia vita professionale e molti di
loro, circondati da informazioni poco chiare e talvolta di parte, avevano perso
di vista la semplicità e la chiarezza di tale messaggio banale.
Preferisco allora continuare a parlare un linguaggio semplice, come faccio
con i miei studenti in aula di Università, cercando di sostenerlo con rigore
metodologico e approccio scientifico, ma con l’umiltà di chi sa di essere qui
letto da adulti che hanno approfondite esperienze, conoscenze, competenze
e, come me, decenni di vittorie e... anche qualche sconfitta.
E allora, racconterò di come, parlando con centinaia di imprenditori, quasi
sempre, io riceva una risposta a una semplice domanda che mi fa comprendere
di come la realtà sia percepita in modo curioso.
La domanda è:
“Scusa, ma quanto ti costa il denaro?”
Il senso della domanda è ovvio.
Devo sapere quanto remunero, monetariamente, i costi della produzione,
come i dipendenti, i fornitori, le merci, e così via.
Ed ecco la risposta: mi costa il 5%, il 6%, a seconda dei casi.
Al che io chiedo:
“Scusa, ma chi ti dice che questo sia il prezzo?”
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“Oh, beh la banca Tizio, piuttosto che la banca Caio.”
La domanda che io faccio a quel punto è:
“Scusa, ma il tuo, di denaro, non lo consideri?”
E qui, si apre un mondo che, in Italia almeno, non è così conosciuto.
Partirò nella mia analisi da questa banale domanda: “ma quanto mi costa il
denaro?”
Lo faccio, poiché io stesso sono stato e sono piccolo imprenditore e so
esattamente quanti soldi abbia impiegato, tratti dalle mie tasche, nelle aziende
nelle quali ho investito appunto tempo e denaro.
E se, spero, converrete con me che il tempo e il denaro dell’imprenditore
hanno un valore e che tale valore è maggiore di zero, allora dovremo insieme
concludere che ritenere che il costo del denaro in azienda sia quello che ci
dicono le banche è ragionamento del tutto fuorviante.
Al contrario, il denaro in azienda costa un prezzo che è una media, tra
quanto hanno investito loro, le banche, e quanto abbiamo investito noi, gli
imprenditori.
Come si vede, non ho usato una sola formula, finora.
Nel prossimo capitolo ne useremo qualcuna per dimostrare, anche in termini
formali e semplici, il perché di questa banale, ma troppo spesso dimenticata,
verità.
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I miei soldi hanno un valoreSupponiamo che tu sia un imprenditore che vuol fare un’analisi critica della
propria azienda.
Vuoi capire, in sostanza, se guadagni, o se perdi e quanto guadagni, o quanto
perdi.
Per farlo, come vedremo, bisognerà fare un piccolo calcolo e, di certo, non
trovi questa informazione facendo la differenza tra i ricavi e i costi, come
comunemente si crede.
Ma ci arriveremo per gradi.
Un’azienda, ne converrete, è un investimento.
Tuttavia, è un particolare tipo di investimento; non ha una data di scadenza.
Ci sarebbe un po’ da discutere su questo, ma è sostanzialmente una appros-
simazione accettabile, quanto meno non ha una data di scadenza definita, o
definibile a priori.
In questo è diversa da tutti gli altri investimenti finanziari (che hanno una
data di scadenza contrattuale) e da tutti gli altri investimenti operativi (che
hanno una scadenza fisica o tecnica, per capirci che vanno ammortizzati in
un congruo numero di anni).
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Le aziende, come sappiamo, non si ammortizzano, non esiste una tabella
ministeriale di riferimento, né un contratto bancario e nemmeno siamo
obbligati a rispettare la data fittizia scritta da un notaio al momento della
costituzione.
Dove voglio andare a parare?
Desidero solo farvi riflettere sul fatto che se è un investimento, allora ci avete
messo dei soldi, dei vostri soldi.
E quei soldi hanno un valore, certamente maggiore di zero.
La prima cosa da fare, di un investimento, è capirne il rendimento.
Cos’è il rendimento?
Ma lo sappiamo tutti benissimo: la differenza non tra i ricavi e i costi (non
avrebbe senso) ma, più precisamente, la differenza tra il costo (monetario)
dell’investimento e il ritorno (monetario) dell’investimento.
Questa differenza la chiamiamo guadagno e si misura in moneta; ecco perché
ho precisato, nella parentesi, l’aggettivo monetario.
In questo libro il precisare l’aggettivo monetario è un dettaglio molto
importante.
Non ne siete convinti?
Provate ad andare al supermercato e offrire al cassiere di pagare con gli
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utili, o con i ricavi futuri, o con le commesse attese e ve ne convincerete
immediatamente.
Partiamo allora dalla considerazione più semplice, il costo dell’investimento.
Chiediamoci allora quanto è il costo dell’investimento nella mia azienda: e
chi lo sa?
In realtà è un calcolo semplice, e non ha nulla di misterioso.
Prendiamo il nostro stato patrimoniale a una qualsiasi data e osserviamo la
colonna del passivo.
Lì troviamo le passività, ma in finanza quella colonna si legge come il capitale
raccolto.
Prima, dovremo fare una operazione di pulitura del bilancio, cioè dovremo
riclassificare il bilancio al fine di tener conto soltanto delle poste definite
onerose, cioè con un interesse.
Sono onerosi i capitali per i quali si paga un prezzo.
Quindi, toglieremo i fondi ammortamento, il fondo trattamento fine
rapporto, i debiti verso i fornitori, e così via.
Quali sono i capitali per i quali si paga un prezzo, solitamente rappresentato
da un tasso di interesse?
Quelli bancari, direte voi.
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E avrete, in parte, ragione.
Ma in parte, state commettendo un errore molto grave: e il vostro capitale,
non lo considerate?
Intendo il capitale netto, o patrimonio netto, la somma, accumulata negli
anni, delle vostre riserve, del capitale sociale e degli utili.
Prima obiezione: “Va beh, ma io ho solo 10.000 euro di capitale sociale, su
un totale di capitali raccolti di 2.000.000 di euro, quindi ho quasi 2.000.000
di euro di debiti con le banche”, talvolta mi viene obiettato.
Scusa, ma questi 500.000 euro di finanziamenti soci postergati non li consideri
nel costo?
“Ma quelli sono finanziamenti soci infruttiferi”.
E allora, il tuo denaro vale zero?
Potrei andare avanti per ore, con questi colloqui immaginari, che non vengono
da libri, ma da reali esperienze con le persone.
Questo errore concettuale, della cui gravità cercherò di convincervi, è più
diffuso di quanto si pensi.
A me è capitato dover constatare questa grave incomprensione perfino in una
società di cui ero socio e tutti i soci erano consulenti in altre materie.
Ora, supponiamo che, rispetto al totale delle fonti di capitale, abbiate messo,
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non importa in quali forme tecniche per ora, dei vostri soldi per il 30% del
totale.
Allora, se definiamo i nostri soldi mezzi propri, e quelli delle banche mezzi di
terzi, converrete sul fatto che i mezzi di terzi sono il 70% del totale.
Se nel costo dell’investimento, avviandoci alla conclusione del ragionamento,
calcoliamo solo il 6% che ci fa pagare la banca, commettiamo un grave errore:
stiamo sottostimando il costo dell’azienda.
Di quanto?
Semplice, di un 30%.
Se sbagliamo di un 30% la stima dei costi di produzione, di un budget, di un
conto economico, lo consideriamo un errore grave.
Bene, sappiate che questo, che quasi nessuno considera, è più grave.
Perché?
Perché non considera che il nostro denaro costerà, per regola finanziaria, di
certo di più di quel 6% che stiamo pagando la banca.
Questo è l’errore più grave che si possa commettere.
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Perché calcolare il costo del denaroAbbiamo già visto che sovente il piccolo imprenditore sottovaluta l’importanza
di questo aspetto.
Per inciso, parlo di piccolo imprenditore poiché, falsamente, si dice che l’Italia
sia un Paese di piccola e media impresa.
La statistica dimostra invece che siamo una Nazione di microimpresa, cioè di
imprese al di sotto dei dieci dipendenti; per il momento, prendetelo per vero,
lo dimostreremo a suo tempo.
Mi rivolgerò quindi prevalentemente al micro imprenditore, o al piccolo
imprenditore, quello che possiede un’azienda fino a cinquanta dipendenti
(non è un giudizio di valore, ovviamente, ma solo una definizione giuridica
data dalle norme comunitarie).
Mentre l’imprenditore medio e grande ha, di solito, una struttura interna,
solitamente facente capo al direttore finanziario, che effettua queste
valutazioni.
La struttura della piccola impresa italiana, che costituisce il vero tessuto della
nostra economia, ne è talvolta priva.
Ne consegue che, come dicevamo, calcola il costo del denaro in termini di
costo del denaro bancario.
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In realtà tale costo dovrebbe essere calcolato come una media ponderata tra il
costo del denaro che mi è stato fornito dalle banche e il costo del mio denaro.
Cosa intendo per mio denaro?
Quello che io imprenditore investo nella mia azienda, o che non tolgo, il che è
lo stesso: capitale, riserve, utili, ma anche tutte quelle forme di finanziamento
che, in ragione della loro natura, di fatto diventano capitale immobilizzato in
azienda, indipendentemente dal fatto che sia retribuito o meno.
Se effettuassimo questa correzione, scopriremmo che il denaro che finanzia
le nostre attività aziendali (sia quelle immobilizzate, come i capannoni, sia
quelle circolanti, come le merci) è molto più caro.
Perché? Per una ragione duplice.
Prima ragione, perché il nostro denaro costa molto di più del denaro bancario.
Come è possibile?
Tratteremo di questo aspetto in modo più approfondito in seguito, ma per ora
ci basti osservare che il nostro denaro è a rischio: noi possiamo perderlo, la
banca, di fatto, molto meno.
Non ne siete convinti?
Provate a fine anno ad avere una perdita e a non poter remunerare i soci; vale
la regola che io chiamo “non c’è trippa per gatti”; pazienza signori soci, sarà
per l’anno prossimo.
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Provate invece, a fine semestre, a non saldare una rata di una banca, o peggio,
provate a sconfinare un paio di volte sul sistema.
Non c’è bisogno che vi spieghi cosa succede, siete tutti consapevoli dell’im-
portanza della Centrale dei Rischi (ma ci torneremo).
Quindi, se il denaro dell’imprenditore è a rischio, deve costare di più, perché
una regola base della finanza vuole che a più alto rischio, corrisponda più
alto rendimento.
Seconda ragione, il debito bancario produce un effetto noto come “scudo
fiscale del debito”.
In parole semplici, il reddito lordo tassabile è al netto degli oneri bancari.
Non è così per il capitale dell’imprenditore, che non produce alcuno scudo
fiscale.
Quindi, effettuando questo calcolo, scopriremmo che il costo del denaro della
mia azienda è sensibilmente più elevato di quanto io non creda.
Ho voluto affrontare subito questo tema per due ragioni:
1. la prima è che un imprenditore potrebbe effettuare lo stesso delle scelte,
ma l’importante è effettuare scelte consapevoli.
2. La seconda è che, ogni qual volta e questo capita ogni anno, ogni mese, ogni
giorno, l’imprenditore debba prendere una decisione (aprire una nuova
sede, comprare un tornio, comprare merci, assumere del personale, investi-
re in una nuova linea di prodotto, investire in un mercato estero, e così via),
qualsiasi decisione non può essere priva di questa valutazione di base.
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“Come finanzio la mia scelta, e ... quanto mi costa?”
Senza sapere quanto costa, monetariamente, ogni scelta si procede un po’ al
buio, ne converrete.
Conosco molti consulenti che consigliano gli imprenditori di fare scelte
seguendo le valutazioni economiche e qui siamo tutti bravi, più o meno.
Badate, non sto parlando necessariamente di grandi imprese, il ragionamento
vale anche per le piccole e in ogni settore, da quello artigianale e quello
commerciale.
Hai una pizzeria e un laboratorio artigiano che produce i prodotti, disse un
consulente a un mio cliente: perché non apri una seconda pizzeria?
Gli fece dei calcoli di redditività, calcolando in questo modo: “Se fai x di
ricavi e y di costi, allora avrai un valore z, dato da x meno y, di utile”.
“Quindi” - gli disse - “spendi: è un affare”.
Di affari così è pieno il mondo, ma purtroppo la finanza non funziona in
questo modo.
Quell’imprenditore, che prima stava bene, oggi lotta contro Equitalia.
Saper calcolare un margine è una cosa, non banale, ma abbastanza comune.
Ma quel margine è sempre collegato alla sostenibilità finanziaria di una
operazione.
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Sbagliare la stima della sostenibilità finanziaria (non è teoria, vuol dire pagare
tasse, interessi, dipendenti e fornitori), significa la differenza tra festeggiare a
fine anno oppure piangere lacrime amare.
Un imprenditore accorto, ogni giorno, dovrebbe prestare attenzione non a
quanti presunti utili avrà a fine anno, ma a quanti soldi veri avrà, nel cassetto,
ogni mese.
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Il costo del capitaleSe abbiamo condiviso il ragionamento dei precedenti capitoli, allora, quali
imprenditori, dobbiamo cambiare mentalità e riconoscere che non dobbiamo
solo pensare a quanto ci costa il denaro (bancario), ma a quanto ci costa il
capitale raccolto, che è la somma di quello che prendiamo dalle banche e di
quello che in azienda mettiamo, o non preleviamo noi.
Facciamo alcune considerazioni.
Prima considerazione: attenzione, poiché per calcolarne il costo, dobbiamo ricordare che il
capitale di debito, cioè i soldi che prendiamo in prestito dalle banche (e che
vanno obbligatoriamente restituiti), segue una regola particolare: produce
uno scudo fiscale, cioè pagheremo meno tasse, poiché, almeno in parte,
abbatte l’utile imponibile. All’opposto, il nostro capitale, che non dobbiamo
obbligatoriamente restituire - ricordate la regola della “trippa per gatti”? -
non comporta tale effetto.
Seconda considerazione: la realtà è molto più complessa della teoria. Non esiste il capitale di debito, ma
una molteplicità di capitali di debito, diversi tra loro, anche grandemente, sia
per forma tecnica, sia per soggetto datore dei fondi. Un mutuo con la banca
A avrà un costo molto diverso da un anticipo fatture con la banca B e ancora
diverso da un finanziamento chirografo con la banca C. Come fare a calcolarne
i costi? Non è banale, occorre ricondurre tutti i diversi contratti coi diversi
istituti, come vedremo, a un unico comune denominatore, che equipara tutte
le diverse condizioni. A quel punto, avremo una stima accettabile del costo
complessivo del debito bancario dell’azienda.
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Terza considerazione: esistono altre complicazioni. Talvolta in azienda ci sono strumenti ibridi di
finanziamento, cioè forme tecniche a metà tra il capitale proprio (quello dei
soci) e il capitale di terzi (quello delle banche).
Tralascio per il momento tale questione, che probabilmente attiene ad
imprese più strutturate. Non posso tuttavia non ricordare che, sovente, si
dimentica di considerare nei costi finanziari, e nella struttura finanziaria,
un costo per un contratto particolare, in ragione delle regole di stesura del
bilancio italiano, almeno nelle piccole imprese: mi riferisco ovviamente al
contratto di leasing. Si presti attenzione, poiché, anche se giuridicamente
l’impresa non è proprietaria del bene, del quale ha sostanzialmente un
“affitto” in luogo del quale paga regolarmente un canone, detto “canone di
leasing”, che va in conto economico e produce effetti fiscali, dal punto di vista
patrimoniale, le banche, correttamente, lo equiparano a una forma di debito.
Per questo motivo, quando si negozia con una banca, o si fanno ipotesi di
finanziamento, è bene considerare che se ho un totale di fonti pari a cento,
con 20 di capitale, e 80 di debito, apparentemente ho un rapporto di 20 su
100 di capitale, cioè il 20%. Diciamo che oggi, sul mercato reale bancario,
sono un’impresa a rischio, cioè sono poco bancabile. Se però l’impresa avesse
anche contratti di leasing per altre 100 unità monetarie, allora il suo rapporto
tra capitale proprio (il patrimonio aziendale) e capitale totale (compreso
anche le banche e assimilate) sarebbe 20 (il patrimonio aziendale) su 200 (il
totale delle fonti), cioè sarebbe il 10%: l’impresa, ve lo do per prassi, anche
se in teoria non è così, non è finanziabile. L’imprenditore dell’impresa Alfa
potrebbe fare il tradizionale “giro delle banche” per scoprire questa dura
realtà; cambierebbe il linguaggio - si sentirebbe dire che il “rating quest’anno
è basso” - non cambierebbe la sostanza. Torneremo sui rating, su come si
leggono, ma soprattutto su come si possono prevedere.
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Per ora, mi preme concludere la prima questione: il costo del capitale, traendo
delle conclusioni.
Prima conclusione: il costo del capitale dipende dalla composizione delle fonti aziendali, cioè da
quanto denaro è stato messo dall’imprenditore e non solo da quanto denaro
è stato raccolto dalle banche. Saperlo calcolare non è cosa banale e non
calcolare il costo del proprio denaro, limitandosi a prender per buono il costo
(spesso sottostimato) di parte bancaria, conduce a gravi errori.
Seconda conclusione: fare questi calcoli non è questione teorica, ma drammaticamente pratica.
Non sapere se si sta guadagnando, o perdendo, significa andare a sbattere
sugli scogli senza averli visti. “Ma io so se guadagno o perdo” - risponde
l’imprenditore - “so benissimo fare i conti, e so se sono in utile o in perdita”.
“Benissimo”, replico io, “allora una sola domanda: se siamo in utile, come
mai stiamo rateizzando pagamenti di tasse con Equitalia?”. Attenzione, il
bilancio contabile è una cosa, la gestione della cassa un’altra. I bilanci si fanno
per competenza; i fallimenti, per cassa.
Terza e ultima conclusione: al di là di sapere se e quanto guadagno, a che altro mi serve fare questi
calcoli? “A vivere”, dico io. Non conta solo conoscere il passato e il presente,
ma è importante prevedere, nei limiti del possibile, con una ragionevole
approssimazione, il futuro. Se l’azienda vuole vivere, deve non solo fare conti
sul passato, ma anche e soprattutto piani sul futuro. Questi sono problemi
pratici, per un imprenditore. Praticamente, quanti soldi servono e dove
trovarli.
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Quando un’azienda sta in piedi?Sì, detta così sembra una domanda stupida, ma di questi tempi, forse, non è
così peregrina.
Se consideriamo l’azienda come un particolare tipo di investimento senza una
data di scadenza prefissata, allora possiamo ragionare in termini finanziari e
dire che, come ogni investimento, comporta un rischio e che tale rischio deve
essere remunerato con un rendimento per ogni soggetto che vi abbia investito
denaro.
Allora, quando io studio un’azienda, non mi interessa solo quel che produce
o quanto utile sviluppa, ma essenzialmente analizzo una cosa: se nel futuro
svilupperà sufficiente flussi di cassa, cioè denaro, sufficiente a ripagare il denaro
di chi lo ha investito (essenzialmente banche e soci), oltre a garantire loro una
remunerazione del rischio, cioè l’interesse per gli uni e il guadagno per gli altri.
Quei soldi, per produrre un guadagno, devono essere investiti nel ciclo
produttivo aziendale.
Si crea qui, soprattutto per la piccola impresa italiana, un problema strutturale,
che possiamo definire mancanza di equilibrio.
Ogni impresa, anche la più piccola, investe il denaro raccolto sostanzialmente
in due direzioni.
La prima è definibile capitale a veloce rotazione, la seconda a lenta rotazione.
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Facciamo un esempio:
1. se compro delle merci, per quanto sia lungo il mio ciclo di produzione,
probabilmente in pochi mesi le venderò, producendo, se tutto va bene,
un utile;
2. se compero un tornio, piuttosto che un impianto produttivo, potrebbero
volerci anni prima di rientrare dei soldi investiti.
Il primo esempio sono quindi capitali a veloce rotazione, o veloce ritorno, il
secondo capitali a lenta rotazione, o lento ritorno.
Chi se ne importa di una definizione? Dipende.
Quando l’imprenditore si rivolge a una banca, il principale finanziatore, non
sempre riceve il consiglio corretto sulla tipologia, sull’ammontare e soprattutto
sulla forma tecnica da utilizzare.
Il risultato è che l’imprenditore si trova, spesso, un bilancio in cui si trova da
una parte i soldi investiti, e dall’altra soldi raccolti per fare quella spesa non
coerente con il tempo di ritorno.
Non è teoria; ogni giorno mi imbatto in imprenditori che, male consigliati,
hanno speso soldi in capitali a lenta rotazione, drenando risorse dalla liquidità
aziendale, oppure facendosi finanziare linee di fido.
Vogliamo fare esempi?
Abbiamo usato linee di fido a revoca (le cosiddette linee a breve), oppure il
direttore di banca ci ha concesso più liquidità per anticipo fatture, a volte
abbiamo fatto aspettare i fornitori e, ultimamente, sempre più imprese si
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finanziano facendo attendere lo Stato, cioè finanziandosi impropriamente, di
fatto, con i servizi non proprio poco onerosi di Equitalia.
Esistono articolate ragioni per le quali le banche, sovente, sono più propense
a estendere linee di fido a breve, piuttosto che valutare un progetto di crescita
aziendale.
Alle volte hanno ragione, ma spesso hanno torto, e qualche volta succede
che l’impresa non abbia saputo impostare un piano economico e finanziario
previsionale.
In mancanza di un piano di stima delle necessità finanziarie, anche di
breve periodo, anche solo a un anno di distanza, diventa impossibile sia per
l’imprenditore, sia per il direttore di banca, comprendere le reali necessità
finanziarie per l’impresa.
Un’impresa sta quindi in piedi quando, sistematicamente, e non una volta
ogni tanto, sviluppa dei piani previsionali, in grado di dire all’imprenditore,
in anticipo, se il denaro in entrata futuro sarà sufficiente a coprire il denaro
in uscita futuro.
Di soldi io tratto; non di utili e perdite, o di ricavi e costi.
Un’impresa sta in piedi quando i soldi che sono entrati, a scadenze prede-
finite, sono maggiori dei soldi usciti; è un concetto semplice, eppure tanto
spesso dimenticato.
Ci preoccupiamo - giustamente aggiungo io - di calcolare il marketing, la
produzione, la vendita, la qualità, di fare il budget dei costi e poi, per qualche
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motivo, non facciamo l’ultimo passo, e cioè trasformare tutto questo nell’unità
di misura degli affari.
Nel mondo degli affari esiste una sola unità di misura internazionale, e questa
unità di misura, comunemente accettata, si chiama denaro.
Un’azienda sta in piedi se è in grado di prevedere le proprie entrate e le proprie
uscite di denaro nel tempo.
Non ha senso fare un esercizio intellettuale una volta, occorre fare lo sforzo di
prevedere questa variabile in modo sistematico e continuativo.
Sviluppare dei piani economici e finanziari serve a tradurre tutte le altre
variabili che l’imprenditore conosce bene - le vendite, i costi, la produzione,
eccetera - in previsioni di entrate e di uscite di soldi.
Non fare questi tipi di previsioni, e quindi acquisire capitali senza un’analisi
dei fabbisogni, per esempio drenando liquidità dall’azienda, piuttosto che
facendosi ampliare linee di fido dalle banche - ammesso che queste ce li diano
- può condurre a errori anche gravi.
Conosco molti imprenditori che, se tornassero indietro, farebbero scelte
finanziarie differenti.
In qualunque momento è sempre possibile cambiare approccio e mettersi a
sviluppare piani di previsione del futuro.
Un’azienda sta al mondo quando sa prevedere quanto denaro avrà nel
futuro.
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In equilibrio sulla funeAlle volte, mi capita di pensare che un imprenditore sia in realtà un funambolo.
Avete presente quei tali che camminano su un filo con un bilanciere in mano?
Talvolta, mentre sono molto abili a districarsi su alcuni percorsi, perché
magari bene consigliati da collaboratori o professionisti in alcuni ambiti, da
come pagare meno tasse e come produrre meglio, a come vendere e a come
fare qualità, non sono così attenti a come raccogliere fondi in azienda.
Basti guardare i bilanci, mi riferiscono naturalmente a quelli delle piccole e
medie imprese, che sono quelli di maggiore interesse, ai miei fini.
Abbiamo detto che due e solo due sono le possibilità di investire denaro:
• in attività circolanti, come le merci,
• in attività immobilizzate, come i macchinari e gli impianti.
Allo stesso modo, due e solo due sono le forme di capitale che l’imprenditore
può raccogliere:
• quello adatto a finanziare le prime
o
• quello adatto a finanziare le seconde.
Non sembrerebbe uno schema particolarmente complesso.
Eppure, spesso succede di trovare aziende in cui non c’è equilibrio tra il
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denaro raccolto e il denaro speso, o meglio, tra il tipo di denaro raccolto e il
tipo di denaro speso.
“Chi se ne importa?” - direte voi.
“Alla fine, se ho raccolto 100 e ho speso 100, i conti tornano. O no?”
Vero, i bilanci, gli stati del patrimonio, alla fine, pareggiano, ma i conti
economici?
Si verificano 3 gravi conseguenze, se si commette tale frequente errore
finanziario.
Supponiamo che la nostra impresa sia andata dalla banca Alfa e abbia chiesto
di espandere il fido su alcuni castelletti.
Supponiamo anche che tali fondi siano stati, almeno in parte, impiegati per
pagare magari rate di macchinari o impianti, piuttosto che la sede.
Prima considerazione:il debito cosiddetto a breve termine, oltre che apparentemente più semplice da
ottenere, ha un costo solitamente elevato. Perché - ci si chiede - dato che, nel
breve termine, ci dovrebbe essere, a buon senso, meno rischio che nel lungo?
Per un’altra ragione: per la banca - dobbiamo sempre metterci nei panni del
nostro avversario - il debito che chiamiamo a breve ha una caratteristica
negativa: non consente di programmare i flussi di cassa.
La banca non può prevedere quanto castelletto useremo, né quanto
anticiperemo in termini di fatture, e così via.
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Ci farà pagare un costo occulto, che si chiama costo della flessibilità.
Primo problema: questo costo, oltre che elevato, incorpora un rischio.
Quale rischio?
Se ho contratto un mutuo o un finanziamento, finché pago, la banca non può
aver nulla da ridire.
Se ho contratto un ampliamento di fido, non solo mi può revocare l’estensione,
può anche chiudermi il conto.
Il debito a breve, in realtà, ricordiamolo, nasconde sempre un fido a revoca.
Seconda considerazione: se siamo finiti in questa spirale, ci troveremo a fine anno ad avere un utile più
basso, perché staremo pagando, mediamente, un costo del denaro più elevato
di quello che potremmo e dovremmo pagare.
Terza considerazione:se ci stiamo finanziando sperando di vivere nel lungo periodo e lo stiamo
facendo con risorse di breve respiro, staremo correndo un rischio non dovuto.
Non solo saremo un equilibrista, ma saremo un equilibrista con un grosso
sacco sulla schiena. Quel sacco sarà il peso del rischio finanziario, che si
sommerà al normale rischio di impresa, quello operativo.
Queste descritte sono le conseguenze ineluttabili di un errore di scelta, che
potevamo evitare.
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Ma qual è la soluzione?
Non è semplice e nemmeno banale, come tutte le risposte serie richiedono
di essere.
La soluzione passa da due passaggi.
Primo passaggio: non si deve vivere alla giornata la finanza aziendale, nel senso che non si può
andare in banca quando abbiamo bisogno, ma con congruo anticipo.
Le banche, soprattutto oggi, hanno tempi di istruttoria anche molto lunghi,
e porsi nelle condizioni di essere deboli nella negoziazione, in quanto in
condizioni di difficoltà, avendo il “fiato corto”, non ci pone nelle condizioni
migliori.
Per evitare di finire in questa situazione, occorre pianificare.
Cosa intendo con pianificare?
Semplicemente, svolgere una sistematica attività di previsione del business.
Con questo intendo che occorre, soprattutto oggi per una piccola impresa,
sapere preparare, periodicamente, dei piani previsionali.
Questo significa prevedere le necessità dei costi, e le opportunità derivanti dei
ricavi, stimare i tempi, calcolare i rischi, ipotizzare degli scenari.
Dopo aver calcolato la parte economica, alla quale sto facendo riferimento,
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bisogna però tradurre tali calcoli in necessità finanziarie, perché dovremo
definire due cose:
• primo, e non è risposta banale, quanti soldi ci servono in un arco
temporale futuro, per esempio in un anno, piuttosto che in tre anni.
• secondo, e questo è risposta ancora meno scontata, che tipo di soldi ci
servono. Cioè, posto che la necessità finanziaria stimata sia 100, quali
forme saranno necessarie per comporre quel 100.
Secondo passaggio: chiarite le nostre idee e solo allora, andremo in banca.
Ma questa è un’altra storia.
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I soldi della banca sono diversi da quelli dell’imprenditoreSi dice che il denaro sia tutto uguale. Non è vero.
Abbiamo detto in precedenza che possiamo raccogliere capitale dai soci, o
dalle banche.
Sempre di denaro si tratta, ma con caratteristiche molto diverse.
Sono cinque, le principali differenze, che un imprenditore dovrebbe sempre
ricordare, perché sono alla base delle scelte della finanza aziendale.
Prima differenza:l’obbligo del pagamento. I soldi raccolti dalle banche vanno rimborsati.
Banale, ma tendiamo a ricordarcene di più dopo, quando ce li chiedono
indietro, che prima, quando li chiediamo noi. Al contrario, i capitali raccolti
dai soci possono essere rimborsati solo se vi sono le condizioni.
Seconda differenza: il capitale portato dai soci non ha effetto fiscale, cioè non produce un effetto
noto come scudo fiscale del debito. Il capitale preso in prestito, al contrario,
lo produce. In pratica, se pago interessi abbatto l’utile imponibile e, almeno in
parte, pago meno tasse. Buono a sapersi, in condizioni di utile; pericoloso, se
sono in situazione di tendenziale pareggio, o peggio di perdita.
Terza differenza. Il capitale preso dai soci crea ingerenza nella gestione, quello delle banche,
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in teoria, no. Tradotto, il socio può entrare nelle scelte aziendali, la banca, in
teoria, non dovrebbe. Come vedremo, ci sono comportamenti bancari che
non consentono questa netta distinzione, ma dobbiamo sempre ricordarla,
anche quando negoziamo con la banca.
Quarta differenza. Il finanziamento apportato con capitale dei soci non ha una durata definita,
quello della banca invece sì. Che si tratti di un debito cosiddetto a breve, o
che si tratti di un mutuo, dovrà sempre essere rimborsato a scadenza, anche
se con regole molto diverse. Il capitale dei soci non ha una data di scadenza,
quindi è molto adatto a scopi di finanziamento di lunga durata.
Quinta e ultima differenza. La priorità nel rimborso è alta, per il capitale preso in prestito dalla banca,
mentre è molto bassa per il capitale messo nella società dai soci. Tradotto, se
qualcosa va male, la banca è la prima che si porta indietro i soldi, i soci sono
sempre gli ultimi.
Se queste sono le differenze, che dovremmo sempre ricordare, vediamo quali
sono le conseguenze pratiche di tali distinzioni teoriche.
Quanto alla prima considerazione, l’obbligo della restituzione, appare banale,
ma ho conosciuto troppi imprenditori piuttosto disinvolti nella stima della
propria capacità di rimborso del capitale.
Per esempio, ho conosciuto imprenditori che, potendo scegliere tra un piano
di rimborso a lungo termine e uno a più breve termine, hanno optato per il
secondo, contro il mio consiglio.
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La ragione stava nel fatto che, a loro parere, gli utili derivanti da un certo
progetto sarebbero stati tali da consentire il rimborso del prestito in tempi brevi.
Io non ne ero affatto convinto, ma un consulente non può avere la conoscenza
del business che ha un imprenditore esperto del suo settore.
Quelle esperienze, tuttavia, mi hanno convinto del fatto che, in futuro, se
non sarò convinto della scelta finanziaria di un mio cliente, non la avallerò,
preferendo rinunciare a un incarico.
Troppo spesso, infatti, ho scoperto mio malgrado di avere ragione, perché i
piani sulla carta non sempre funzionano, mentre i contratti, per la banca,
funzionano sempre.
Mi sono convinto che siano tre le regole da seguire, in tal caso: prudenza,
prudenza e ancora prudenza.
Quanto alla seconda differenza, lo scudo fiscale del debito, mi sono sentito
dire, talvolta, oggi più raramente, da qualche imprenditore:
“Le cose vanno molto bene, faccio utili e non ho debiti.”
Allora non vanno abbastanza bene, non quanto potrebbero.
Infatti, se una azienda è sana, se produce utili e se incassa, non ha senso
finanziario che non si indebiti, poiché, come vedremo in altra sede, non
indebitandosi riduce il proprio valore.
Quanto alla terza differenza, l’ingerenza nella gestione, bisogna fare attenzione.
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Quando si negozia con le banche, occorre controllare anche le condizioni
collaterali, di solito previste nei cosiddetti term sheet, che sono proposte della
banca, e poi nei contratti veri e propri.
Non tutti si accorgono dei cosiddetti covenants, cioè delle condizioni
contrattuali a lato del contratto.
Ma voi mi dite quali differenze ci siano tra avere un socio e avere una banca
al mio fianco, se quest’ultima decide se devo fare altri investimenti, se posso o
meno distribuire utili, se posso o meno contrarre altri debiti, se devo ampliare
i fornitori, se devo avere certi clienti?
Sono esempi di ingerenza nella gestione, cioè si comporta da socio.
A tutela dei suoi interessi, ovvio, ma basta sapere cosa stiamo firmando e
capire se e fino a che punto, ci conviene accettare tutte le condizioni.
Alle volte, si firma per ignoranza.
Quarta differenza; la durata del capitale dei soci non ha scadenza: è una cosa
così importante che merita un ragionamento a parte.
Quinta differenza, la priorità del rimborso.
Attenzione, perché gli utili si fanno per competenza, e i fallimenti per cassa.
Motivo in più per ricordarci che, anche se siamo una piccola impresa, è
importante effettuare sempre, sistematicamente, dei piani industriali. Non
per fare teoria, ma per verificare se ci sono scogli all’orizzonte, e aggirarli.
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Perché i bilanci servono a pocoPer carità, servire servono.
A pagare le tasse, per esempio, che è il motivo vero per cui si fanno e per il
quale sono poco significativi, spesso.
Meno a raccogliere fondi dalle banche, soprattutto oggigiorno.
Una volta, l’imprenditore andava in banca, portava gli ultimi due bilanci e
riceveva credito.
Oggi, lo stesso imprenditore, quando va bene, riceve ascolto, talvolta
nemmeno quello.
Cosa è successo? Semplicemente, sono cambiate le regole del gioco.
Non siamo qui per discuterne le cause, né per parlare delle regole di Basilea,
ma mi soffermerò sugli effetti, ai fini della negoziazione creditizia.
L’entrata in vigore di un insieme di regole anglosassoni in un Paese latino
come il nostro, ha comportato un effetto dirompente.
In un Paese con una pressione fiscale ben più elevata a quella dichiarata,
semplicemente perché da anni ci raccontano che riducono le aliquote,
quando invece ampliano la base imponibile riducendo i costi deducibili, il
nostro piccolo imprenditore è in grossa difficoltà.
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Si preoccupa giustamente di uscire con bilanci fiscali sufficiente a minimizzare
le tasse, ma si rende, più o meno consapevolmente, un soggetto non bancabile.
Dall’altro lato, i bilanci, per quanto necessari, sono scarsamente utili nella
negoziazione con la banca, per due ragioni.
La prima, che sono rivolti al passato, mentre chi è dall’altro lato del tavolo
vuole valutare il rischio futuro.
La seconda, meno nota, è che i bilanci usano un linguaggio diverso da quello
usato dai sistemi di rating, cioè di valutazione del merito creditizio, usato
dalle banche.
I primi usano una logica, quella del reddito, i secondi ne usano un’altra, quella
della cassa.
I due linguaggi, tra loro, non comunicano.
Dobbiamo sempre pensare che, a prescindere dalla forma tecnica con cui la
banca ci concede credito, quando lo fa, lo fa in logica di investimento.
Lei ci sta prestando denaro per averne indietro, nel tempo, la stessa somma,
maggiorata di interessi.
Lo scambio, nel tempo, è denaro verso denaro.
Solo il denaro, in finanza aziendale, ha valore: cash is king, il denaro è
sovrano, dicono quelli che ne hanno inventato le regole.
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Perché non ottengo denaro dalla banca?“Perché non ottengo denaro dalla banca?” - si chiede l’imprenditore.
In parte, forse per ragioni di numeri.
In altra parte, spesso, per come quei numeri sono da lui esposti alla banca.
Si tratta di un problema di linguaggio: la banca presta denaro e vuole capire
quanto denaro libererà l’impresa in futuro, non nel passato.
Il passato serve solo per immaginare, di conseguenza, il futuro; ma tutto può
cambiare nel futuro, clienti, mercato, tempi di incasso e livello d’insolvenza.
Presentarsi in banca con solo il bilancio, qualsivoglia sia la ragione, anche
solo una espansione del castelletto, oggi è molto limitante.
“Va bene - dirà l’imprenditore avveduto - ma io mi faccio fare dal
commercialista, o dal mio responsabile amministrativo, un prospetto per
il futuro.”
Meglio, sicuramente, ma potrebbe non essere sufficiente e questo perché
dipende da come è fatto, quanto è accurato, attendibile, ma soprattutto da
quale linguaggio usa il prospetto.
Usa il linguaggio del reddito (come il bilancio) o della cassa?
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Se usa il primo, si presta a quattro gravi limiti, nella logica della banca, cioè -
ricordiamolo sempre - della controparte.
4 Limiti del linguaggio del Reddito
Primo limite:l’utile contabile - sia di bilancio, sia prospettico - non è univoco, non è una
grandezza certa. Si pensi al fatto che nel bilancio ci sono valori certi, come
la cassa, ma anche valori stimati, come i crediti verso clienti, e infine valori
congetturati, come le rimanenze e gli ammortamenti.
Secondo limite:l’utile contabile può essere manipolato dalle cosiddette politiche di bilancio,
pienamente legittime - è il mestiere del commercialista - ma difficili da
valutare. Mi è capitato di vedere bilanci fortemente diversi, a fine anno,
rispetto a quando si era partiti nel dialogo con la banca, magari per effetto
di una politica sul marketing, sulla ricerca tecnologica, per accantonamenti
perdite, per politiche infragruppo con imprese collegate, e così via.
Terzo limite:l’utile contabile, derivante dalla lettura del conto economico, trascura
l’assorbimento di cassa derivante dagli investimenti e dalla espansione del
capitale circolante. Investiremo soldi per macchinari o impianti? L’espansione
del fatturato comporterà un rallentamento negli incassi? Avremo una
espansione del magazzino? Sono esempi di cose che drenano cassa, e l’utile
non ce ne parla.
Quarto limite:l’utile contabile trascura le remunerazioni implicite dei soci, cioè il costo del
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capitale di rischio, quello messo dai soci in società, mentre considera solo le
remunerazioni esplicite del debito, nel costo degli interessi passivi bancari e
dei costi correlati.
Se dunque questi sono i limiti, qual è la soluzione?
Non esiste la ricetta infallibile, ma posso tentare un duplice suggerimento,
dato dalla pratica.
1. presentarsi in banca con un documento previsionale e mai solo storico;
2. aver cura che quel documento previsionale usi il linguaggio della cassa,
perché è su quello che verremo giudicati.
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Cosa leggono le bancheIl bilancio, direte voi, se glielo abbiamo lasciato.
Sì, ma importa sapere quali considerazioni farà la controparte, a una prima
analisi.
Torniamo a dire che, se ci siamo recati in banca, è per chiedere soldi.
Nella logica della banca, se ci darà soldi, lo farà per una sola ragione, come
detto; perché sta facendo un investimento, perché la nostra impresa è per
lei un modo di investire il suo capitale, o per meglio dire, il capitale raccolto
presso i risparmiatori.
Alla banca interessa solo capire una cosa: se l’impresa, nello svolgimento
della normale attività, genererà presumibilmente sufficiente cassa per
rimborsare il capitale, maggiorato di interessi.
Questa logica è vera, se ci pensate, indipendentemente dalla forma tecnica,
molto diversificata, in cui può soddisfare le nostre esigenze.
Abbiamo detto che il bilancio risponde alla logica della competenza, mentre
la banca, come notiamo, sta osservando la cassa.
Abbiamo altresì notato che è opportuno, nel recarci in banca, farlo con un
prospetto previsionale e non solo con il bilancio.
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Di solito, succede che l’imprenditore, qualora non abbia tempo, voglia o
capacità per farlo da solo, deleghi tale prospetto previsionale a un terzo, suo
dipendente (ad esempio un responsabile amministrativo) o, talvolta, suo
consulente (ad esempio un commercialista).
Qual è di solito il ragionamento che vediamo, in tutti i prospetti previsionali,
in tutti quei documenti che vengono tecnicamente chiamati business plan?
Semplifichiamoci la vita, e andiamo all’osso.
Avremo una prima riga, con i ricavi, variamente articolati e poi una serie di
righe con i costi operativi.
Da qui otterremo un margine, detto margine operativo lordo, comunemente
definito in italiano MOL, dal quale, deducendo gli ammortamenti, troveremo
un secondo margine definito, in italiano, Reddito Operativo.
Da lì, scendendo, troveremo i costi finanziari, straordinari e fiscali, fino ad
arrivare a un margine netto.
Non starò ad annoiarvi con le sigle inglesi, che, peraltro, sono molto più
chiare, in quanto definiscono bene l’oggetto del numero.
Il punto è un altro.
In questo schema, supponiamo che l’oggetto della richiesta del nostro
imprenditore sia finanziare un investimento, supponiamo per semplicità un
solo impianto, del valore complessivo di un milione di euro.
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Supponiamo altresì che sia ammortizzabile in dieci anni, il che significa che
indicheremo nel nostro piano centomila euro l’anno di costi.
Ebbene, il ragionamento che fanno molti tra coloro che preparano il
documento previsionale è semplice:
se il reddito operativo, cioè il secondo margine, è maggiore dei costi che
stanno sotto e tra questi ci sono i costi finanziari, allora, dicono:
“Cara banca, devi darmi i soldi, perché come vedi sono in grado di pagarti gli interessi”.
Bellissimo, se non fosse che tale ragionamento è semplicistico.
Ci sono infatti due considerazioni fondamentali che occorre fare.
Il reddito operativo è, per l’appunto, una grandezza di reddito.
Alla banca, interessa una grandezza di cassa, poiché la rata sarà un fatto di cassa.
Dire, nel nostro esempio che avremo, in futuro, un reddito di sessantamila
euro, se la rata fosse di cinquantamila, significherebbe forse che quei
sessantamila corrispondono a sessantamila di cassa usabili per pagare la rata?
Assolutamente, no.
Basti una banale considerazione: gli ammortamenti, che avremo indicati
sopra, sono grandezze fittizie, sono una finzione scenica, non corrispondono
a reali uscite di cassa.
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Lo sappiamo noi, lo sa la banca. Non prendiamoci in giro.
Per converso, nel primo anno avremo indicato nel nostro conto economico
solo la quota di ammortamento (stiamo semplificando) di centomila, ma
quale sarà il reale esborso monetario per l’impianto?
Un milione.
Insomma, i due linguaggi non si parlano.
Per tale ragione, le banche osservano, con un certo interesse, almeno
preliminare, la grandezza del margine operativo lordo, in quanto, pur essendo
una grandezza di reddito e non di cassa, almeno non è inquinata dalle
politiche dell’azienda (si pensi agli accantonamenti, alle spese capitalizzate,
alla ricerca e sviluppo, e così via).
Tutto questo, inoltre, riguarda solo il conto economico, e ancora nulla abbiamo
detto dello stato patrimoniale, il quale, essendo più complesso, merita una
trattazione a parte.
Prima di chiudere il capitolo mi preme di inserire una parte propositiva al
ragionamento.
Ciò che suggerisco non è, ovviamente, quello di non produrre un business
plan, utile oggi anche per chiedere solamente un ampliamento delle linee di
fido, quanto piuttosto accompagnare la lettura dei dati previsionali di reddito
con un opportuno prospetto che traduca queste ipotesi in ciò che realmente
interessa alla banca: verificare quanta cassa produce l’impresa, quanto
denaro, quanta moneta.
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Io ti presto moneta, tu mi devi ripagare in moneta; questo è il banale
ragionamento della banca.
Abituarsi a usare questo linguaggio significa semplificare la vita alla nostra
controparte ma anche, indubitabilmente, a noi.
Non possiamo però parlare di come redigere tale documento senza trattare
dello stato patrimoniale per il quale vi rimando al prossimo capitolo.
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Perché lo stato patrimoniale è un casinoDetta così, sembra una volgarità.
Tuttavia, il nostro legislatore, nel descrivere cosa compone lo stato patrimoniale
di un bilancio, ha adottato un approccio che io definirei promiscuo.
Provate a pensare: chissà quante volte avrete letto il bilancio preparato dal
vostro commercialista, il quale, correttamente, avrà seguito le direttive che
impongono la sua classificazione in quattro classi nell’attivo e cinque classi
nel passivo.
Non starò certo a fare un’elencazione scolastica, ma vi inviterò a riflettere sul
fatto che il lettore si troverà poste come la cassa attiva e i crediti commerciali,
ma anche le immobilizzazioni e magari crediti finanziari, nell’attivo e dall’altra
parte leggerà di debiti finanziari mescolati a quelli commerciali, fondi vari e
debiti tributari, voci di patrimonio e banche passive a breve.
Insomma, ripeto, un casino.
O meglio, lo è ai fini di chi vuole fare una valutazione finanziaria dell’azienda.
Non consente di capire se l’azienda sia, paradossalmente, in equilibrio
patrimoniale, ma nemmeno, ovviamente, se sia in equilibrio finanziario.
Diremo più avanti cosa significhino tali importanti definizioni, non per
ragioni teoriche, ma perché sono quelle dietro gli algoritmi di calcolo imposti
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ai sistemi di rating bancari da Basilea.
Il che, in soldoni, significa se i soldoni li prenderemo, dalle banche, oppure no.
Quali sono i limiti del modello del legislatore italiano, e perché non va bene
oggi per l’analisi finanziaria di una azienda?
Sono quattro, vediamo di enunciarli con semplicità.
1. Primo limite, è un modello ibrido, che non consente di afferrare al volo
quali sono gli investimenti operativi e i correlati finanziamenti.
2. Secondo limite, confonde le risorse di finanziamento onerose e quelle
non onerose.
3. Terzo limite, confonde nell’attivo attività operative con attività non
operative.
4. Quarto limite, non tiene conto di uno strumento finanziario sovente
usato nelle imprese, e cioè il leasing.
Allora, se questi sono i limiti, come sempre proviamo a indicare le soluzioni.
Occorre riclassificare il bilancio in chiave finanziaria. Perché?
Perché altrimenti avremo due problemi:
1. non capiremo se la nostra impresa è in equilibrio;
2. non capiremo come saremo letti dal sistema bancario.
Si, ma in pratica che significa?
Che dovremo apportare delle rettifiche al nostro stato patrimoniale, per
arrivare a scrivere un secondo modello, completamente diverso.
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Quali?
• Prima rettifica, depurare le componenti finanziarie dalle attività
operative.
• Seconda rettifica, operare compensazioni tra le voci dell’attivo e del
passivo nel capitale cosiddetto circolante, compensando voci come il
magazzino, i crediti, i fornitori, ma anche poste a breve termine di altra
natura.
• Terza rettifica, dovremo compensare i fondi dall’attivo, inserendoli nelle
poste logicamente corrispondenti.
• Quarta rettifica, dovremo inserire nel passivo il valore del debito residuo
di leasing e in attivo il valore corrispondente dei beni.
Alla fine, il nostro bilancio sarà molto più piccolo, numericamente, cioè
pareggerà su importi più bassi rispetto al bilancio redatto secondo le normative
italiane.
Questo nuovo bilancio sarà semplicissimo, e si comporrà di soli cinque
numeri.
All’attivo troveremo solo tre numeri, l’attivo operativo circolante, l’attivo
operativo immobilizzato e le attività non operative.
Al passivo solo due numeri, il debito finanziario e il patrimonio.
Punto, niente altro.
Da leggersi, capite bene, è molto più semplice di uno stato patrimoniale con
decine di voci.
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Da farsi, è un’altra questione, non banale, poiché bisognerebbe aver sviluppato
un modello di analisi che, partendo da rigorosi assunti scientifici, sia stato
testato in centinaia di casi professionali, cosa che, in effetti, noi abbiamo fatto.
A quale scopo?
Perché solo in questo modo, attuando le operazioni di rettifica al bilancio,
questo diventa significativo per un analista finanziario.
Questo ci mette nelle condizioni non solo di capire meglio, e più approfondi-
tamente, che cosa sia successo alla nostra azienda, ma anche di interloquire
con competenza con l’interlocutore bancario.
Verosimilmente, infatti, saremo in grado di predire le sue considerazioni.
Una, su tutte.
Solo questo modello di rappresentazione consente il calcolo di tutta una
serie di indicatori finanziari necessari a determinare i tre equilibri aziendali
fondamentali: quello reddituale, quello patrimoniale e quello finanziario.
Tutti e tre, strano a dirsi, passano di qui, e non dotarsi di questo sistema
di riclassificazione non consente di affermare nulla circa tali equilibri,
oppure, peggio ancora, di commettere gravi errori valutativi e interpretativi
dei dati.
Infatti, i modelli tradizionali, in termini di analisi e previsione, sono alquanto
lacunosi, poiché redatti ad altri fini, semplicemente.
C’È UN’ALTRA COSA CHE DEVI SAPERE PRIMA DI ANDARE IN BANCA
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Uno tra tutti, non consentono di determinare, a differenza di questo, il vero
livello di leva finanziaria.
Che cosa significa?
Al di là del termine inglese, oggi di moda, la leva finanziaria definisce il
rapporto tra le fonti di finanziamento oneroso, che sono due e due soltanto:
il debito finanziario e il patrimonio.
Il bilancio italiano, purtroppo, non consente di cogliere tale rapporto, prima
di essere ripulito e riscritto.
Ecco perché, prima di andare in banca, è meglio fare un po’ di pulizia, almeno
mentale, nei nostri conti.
C’È UN’ALTRA COSA CHE DEVI SAPERE PRIMA DI ANDARE IN BANCA
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La lente d’ingrandimento delle bancheTi sei mai chiesto come ci leggono le banche?
Hanno una lente grande così, che deforma e amplifica alcune parti del nostro
documento.
Siedono a un tavolino, accendono una luce soffusa, e con quella lente lo
leggono attentamente, trascurando ciò che a noi sembra importante, e
ampliando a dismisura ciò che, forse, a noi pare secondario.
Ora, è bene capire come funziona, quella lente, e perché legge le cose in modo
diverso da come appaiono a chi ne è privo.
Facciamo un esempio concreto, così ci capiamo meglio.
Supponiamo che la nostra azienda, una piccola impresa, abbia un progetto
di crescita.
Per esempio, vuole ampliare una linea esistente, o vuole aprire un nuovo
mercato, oppure ancora vuole lanciare un nuovo prodotto; immaginate voi il
caso più adatto alle vostre esigenze, è lo stesso.
Per fare questo progetto, come tanti altri già fatti nel passato, avete bisogno
di soldi.
I soldi, questi dannati, non bastano mai.
C’È UN’ALTRA COSA CHE DEVI SAPERE PRIMA DI ANDARE IN BANCA
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Va bene, in parte li chiediamo ai soci, ma gli altri?
Supponiamo che chiediamo un terzo ai soci, e chiediamo due terzi alla banca:
sulla carta, potrebbe funzionare.
Perché?
Perché stiamo dividendo il rischio: ovviamente - lo dico per inciso -
scordiamoci, oggi, di pretendere il finanziamento dell’intero progetto da parte
delle banche (nemmeno in leasing), non siamo più negli anni duemila.
Ma, ricordate il mio monito, ciò che è da sempre il mio approccio: non
presentiamoci in banca con una idea, ma con un progetto.
Avere un progetto significa saperlo scrivere, e di questo tratterò in separata
sede, poiché richiede una tecnicalità. Ma supponiamo, di averlo fatto, e di
allegare ad esso un business plan.
Vi siete rivolti al responsabile amministrativo, o al commercialista, ora avete
un foglio in mano. Cosa dice quel foglio? Solitamente, è fatto così.
Il direttore di banca - tecnicamente quello con la lente in mano sarà un
signore o una signora dell’analisi fidi - lo prenderà in mano, quindi vediamo
insieme cosa leggete voi e cosa legge quello con la lente.
Voi leggete i ricavi, che vengono magari accorpati da un budget.
Poi, avrete indicato dei costi, magari sintetizzabili nel fatto che la vostra
azienda ha il trentacinque per cento di materie prime, il venti di personale, il
C’È UN’ALTRA COSA CHE DEVI SAPERE PRIMA DI ANDARE IN BANCA
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dieci di costi per servizi e il cinque di costi generali.
Preciso, è del tutto indifferente, la metodologia - anche molto raffinata - che
avrete seguito per calcolarli.
Avrete una parte che simula gli ammortamenti degli investimenti pregressi e
del nuovo investimento (quello di cui chiediamo quota parte di finanziamento)
e avrete indicato una stima dei costi finanziari, poi le tasse e quindi un po’ di
utile, tendenzialmente a crescere, negli anni.
Il ragionamento del vostro dipendente o professionista sarà dire, alla banca:
“Vedi, cara banca, il mio fatturato cresce. Poniamo da venti milioni a trenta
milioni in cinque anni.
Facendo un investimento di tre milioni, di cui due li chiedo a te, e tu devi
darmeli perché il mio reddito operativo cresce negli anni, con quel reddito
ti pago gli interessi, che stanno sotto, e poi vedi che, pagate le tasse, il mio
utile quadruplicherà nei cinque anni.”
Tutto perfetto, ma funziona?
No, che non funziona.
Per qualche ragione, la banca pare non capire.
Cosa c’è che non va?
Il linguaggio, e le grandezze in gioco.
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La banca comincerà a esaminare la grandezza del reddito operativo, quella
che il vostro collaboratore o consulente avrà indicato, nel prospetto, come
superiore al costo degli interessi, e si chiederà: quanta cassa c’è in quel
reddito?
Non so se la domanda sia chiara, ma a loro lo è. Il reddito, non è cassa.
Se non ne siete convinti, provate ad andare alla cassa di un supermercato e
pagare con la vostra dichiarazione dei redditi.
Oppure, provate a pagare i vostri fornitori con il vostro utile dichiarato a
bilancio.
Ora, se ne siete convinti, cominciate a vedere la lente.
La banca, che la vede benissimo, starà già attuando delle rettifiche.
E poi, voi sarete andati dal direttore di banca a magnificare la crescita,
enfatizzando la prima riga, quella che dice, lo ricordiamo, che nei cinque
anni del piano, sulla carta, il vostro fatturato crescerà da venti milioni a trenta
milioni.
Gongolerete, quando lo direte, e il direttore vi sorriderà.
Poi, vi chiederà un dettaglio clienti, analizzerà lo storico e magari si farà
preparare da voi un prospetto previsionale delle tipologie di clienti - “Una
tabellina andrà benissimo” avrà detto - possibilmente con i nominativi, e
valuterà il rischio, se sa fare il suo mestiere.
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Non dubitate, nella più parte dei casi lo sa fare, e anche bene.
Vi avrà chiesto a quanto tempo pagano i clienti e voi gli avrete risposto a
trenta, sessanta e novanta, e lui vi avrà sorriso.
Poi, sarà andato nell’ufficio di quello con la lente, e quello avrà esaminato il
tempo di incasso clienti medi del vostro ultimo bilancio - è una formula - e
mediamente sarà stato centoottanta giorni (voi non lo sapevate nemmeno).
Caspita, penserà, se il fatturato sale a trenta milioni, sono quindici milioni di
credito verso clienti.
L’espansione del circolante brucia cassa.
Procedendo con tali rettifiche, alla fine, misteriosamente, vi dirà:
“Mi spiace, il rating ha detto no.”
Cosa fare?
Cominciare a ragionare come loro.
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Perché con la cassa si mangia, e con il reddito noEd eccoci finalmente arrivati a un punto essenziale.
Questo modo di ragionare, incentrato sulla cassa, e non sul reddito, dovrebbe
essere usato in diverse questioni, comunque, non solo per raccogliere denaro
dalle banche.
Serve anche per altre questioni di strategia aziendale, per capire se fare o
meno un investimento, a esempio, oppure quanto vale la nostra azienda.
Ma come redigerlo?
Naturalmente vi sono diversi schemi possibili, e anche noi abbiamo dei
software che servono a riclassificare i conti in modo da fare emergere, in
termini storici o previsionali, la posizione finanziaria netta, cioè quell’aggregato
di bilancio che, sommando le componenti positive o negative che stanno nei
conti bancari aziendali, dice di quanto saremo sotto, complessivamente, con
le banche (sopra non ci saremo mai, dai, non siamo qui a fare scuola).
Dicevo, però, che presentarsi in banca con un modello che dice, semplicemente,
che l’azienda merita centomila euro, perché il reddito operativo è maggiore di
centomila, non è oggi più sufficiente.
Perché?
Ovviamente, perché confonde un discorso di interessi (che vanno in conto
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economico) con un discorso di rata (il cui differenziale sarà finito in stato
patrimoniale), ma soprattutto perché la banca si chiederà: ma quanto di quel
reddito operativo è cassa?
E sicuramente la banca farà delle rettifiche.
Quali rettifiche?
La banca prenderà il nostro prospetto e, poiché lavora nell’ambito di direttive
internazionali che usano schemi predefiniti, cercherà di comprendere quale
sia la prima grandezza di cassa fondamentale.
Qual è? Lo vediamo subito, operando delle rettifiche.
Dal reddito operativo aggiungeremo gli accantonamenti al fondo TFR
e aggiungeremo tutti gli altri accantonamenti e svalutazioni, poiché tali
valori, che avremo indicato nel conto economico come costi, in realtà non
comportano uscite reali di cassa.
Gli accantonamenti e le svalutazioni, infatti, sono soltanto artifizi contabili
per il principio della competenza di bilancio, ma sappiamo che la banca
ragiona per soldi, per moneta, per cassa.
Poi, dovremo togliere invece tutti i costi capitalizzati, poiché, al contrario,
quei costi ci sono o ci saranno, eccome, e saranno uscite di cassa.
Dovremo aggiungere tutti gli ammortamenti, poiché invece questi costi
non comportano uscite reali di cassa, e per converso togliere (e questo si
dimentica spesso) le imposte sul reddito operativo.
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Spiace ricordarlo, ma come sappiamo, gli imprenditori hanno sempre un
socio occulto: lo Stato.
In Italia, poi, questo socio è particolarmente esigente, e cambia anche le carte
in tavola con una certa frequenza, pretendendo anche soldi che, certamente,
non avremo guadagnato.
Basti pensare, a giustificazione dell’ultima affermazione, alle politiche degli
ultimi anni, per le quali ci tassa un reddito imponibile falso, non consentendoci
più di dedurre costi - o consentendo di farlo in modo irrisorio - realmente
sostenuti.
A questo punto avremo operato cinque tipologie di rettifiche al reddito
operativo, e ottenuto una grandezza di importanza fondamentale, che in
inglese si chiama Current Cash Flow.
Nel modello internazionale più usato di rendiconto finanziario, è molto chiaro
cosa sia: è il flusso di cassa della gestione corrente.
Risponde a una domanda fondamentale:
“La gestione economica dell’impresa produce cassa o no?”
Attenzione, mi ripeto fino alla nausea: cassa, non reddito.
Il flusso di cassa della gestione corrente, rilegge il conto economico, storico
o previsionale, e dice se l’impresa produce cassa esaminando i fattori, e solo
i fattori, che riguardano il conto economico, cioè il differenziale tra i ricavi e
i costi.
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Perché interessa questa grandezza?
Perché è il primo, vero flusso di cassa.
Abbiamo infatti appena trovato la prima di delle quattro diverse accezioni di
cassa, riconosciute nel rendiconto finanziario internazionale.
Alla banca, come a noi, dovrebbe interessare, poiché la capacità di pagare
interesse e rate (ciò che interessa alla banca) e di guadagnare moneta (ciò
che alla fine interessa all’imprenditore) parte da qui, da questo flusso di cassa.
Con il reddito non si mangia (e non si dà da mangiare); con la cassa, che è
quel che resterà veramente partendo da qui, invece sì.
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Cerchiamo di essere operativiIl flusso di cassa di gestione corrente di una azienda è quello che io chiamo un
frullato: il frullato del conto economico.
La abbiamo agitato, mescolato, cambiato, e trovato un primo flusso di cassa.
Ma poi?
L’azienda usa cassa per le attività operative.
Cosa sono le attività operative?
Dal punto di vista della finanza aziendale, soltanto due: quelle circolanti,
come ad esempio le merci, e quelle immobilizzate, come i torni e i capannoni.
La finanza aziendale, a ben vedere, usa un linguaggio semplice: sono i beni
con cui l’imprenditore opera.
Come si trova il capitale circolante?
Esso è dato da un aggregato costituito da due grandezze, la prima si trova
nell’attivo del patrimonio, la seconda nel passivo.
La prima è data dalla somma delle rimanenze e dei crediti commerciali;
queste attività bruciano cassa.
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Perché?
Molto semplice; se i soldi sono ancora in tasca ai miei clienti, non sono in
tasca mia.
Allo stesso modo, se i miei prodotti non sono venduti, non ho nemmeno il
credito, quindi, a maggior ragione, i soldi non sono in tasca mia.
La seconda grandezza si trova nel passivo dello stato del patrimonio, ed
è data dai debiti verso fornitori, dai debiti verso il trattamento di fine
rapporto e dai debiti verso l’erario; queste passività operative, all’opposto
delle precedenti, generano cassa.
Perché?
Se i soldi non sono in tasca dei miei fornitori, sono ancora nelle mie tasche,
se ho ancora un debito per i trattamenti fine rapporto sono nelle mie tasche,
e anche se non ho ancora pagato lo stato sono nelle mie tasche.
La somma algebrica dei soldi nelle tasche degli altri (ma che dovrei incassare)
e dei soldi nelle mie tasche (ma che dovrei pagare a terzi) genera la grandezza
definita capitale circolante.
Poi, come detto, abbiamo il capitale immobilizzato; questo è ancora più
semplice da trovare.
Si tratta del complesso delle attività operative immobilizzate in azienda, come
macchinari, impianti, arredi, hardware, capannoni, beni immobili operativi,
impianti generali, attrezzature generali e specifiche, e via discorrendo.
A questo punto, occorre una ulteriore precisazione.
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Dobbiamo costruire un rendiconto finanziario, storico o previsionale, e
quindi, ciò che importa, non è il dato assoluto, ma lo scostamento.
Ecco il punto che interessa a noi, prima ancora che a una banca, ed ecco
come dovremmo ragionare, prima di tutto in quanto imprenditori, e poi con
il direttore di banca (il quale darà il nostro prospetto al responsabile di analisi
fidi).
Non è sufficiente rappresentare un business plan con un piano di investimenti,
o di crescita, e dimostrare la crescita degli utili aziendali.
È necessario, e va fatto facendosi aiutare, se del caso, da persone qualificate,
ma oggi non è più sufficiente.
Bisogna tradurre quel ragionamento di reddito in variazioni di cassa, cioè
variazioni di moneta, attese.
Ragionare per cassa, e non per competenza, ad esempio vuol dire questo:
supponiamo di essere l’azienda Malvezzi s.r.l., che ha in pancia, nello stato
patrimoniale, un bene industriale al valore storico di cinquecentomila euro,
ma nel piano previsionale sa di venderlo a settecentomila.
Si registrerà, dal punto di vista contabile una plusvalenza, cioè una differenza
di valore pari alla differenza di duecentomila.
Ma a noi questo ragionamento, ai fini finanziari, poco rileva: noi dovremo
rilevare un’entrata di cassa, che non sarà duecentomila, ma settecentomila.
Tale cassa sarà calcolata come differenza tra il capitale fisso, immobilizzato,
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operativo precedente, e quello nuovo.
Ricordiamoci la regola, minor capitale investito significa minore cassa
impiegata.
Ovviamente, sarà vero anche l’esempio opposto.
Allo stesso modo, se l’impresa prevede di espandere, cioè di far crescere il
capitale circolante, starà prevedendo di avere bisogno di più cassa, mentre per
converso se ne prevederà una diminuzione starà prevedendo una riduzione di
fabbisogno di cassa.
Sembra evidente che una impresa che si presenti in banca, in condizioni
di normale operatività (non mi riferisco alle imprese in liquidazione, per
esempio), probabilmente avrà un piano di crescita, e quindi il fabbisogno
finanziario, sia di capitale circolante, sia di capitale immobilizzato, sarà
tendenzialmente in aumento.
La banca lo sa - non prendiamoli per stupidi - ma pretende che tali grandezze
siano identificate con chiarezza; sottostimarle palesemente, perché si è
dimenticato di ragionare in questo modo, significa poi sentirsi dire la fatidica
risposta; “Mi spiace, ma il rating ha detto no”.
Anticipiamolo, questo dannato rating, se sappiamo come ragiona: non è
impossibile.
Questo dico, presentiamoci in banca, o dai soci, o da terzi finanziatori, con
un ragionamento finanziario.
Prendiamo la prima grandezza, il flusso di cassa della gestione corrente, ag-
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giungiamo o togliamo le variazioni previste del circolante e dell’immobilizza-
to, e troviamo una seconda grandezza di cassa fondamentale, che nel mondo
della finanza internazionale si chiama operating cash flow: flusso di cassa
operativo.
Siamo a posto?
Non ancora, ma ora possiamo finalmente iniziare a fare seri ragionamenti di
strategia finanziaria aziendale.
A questo punto, siamo operativi, e possiamo iniziare a ragionare di finanza.
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Qual è lo scopo di un imprenditoreDobbiamo intenderci su quale sia lo scopo, per un imprenditore.
Negli anni, ho letto le risposte più disparate, da quelle filosofiche a quelle
pratiche.
Tralasciando quelle scolastiche, e stando a quelle pragmatiche, qualcuno
potrebbe dire che è stimare l’utile a fine anno, qualcun altro prevedere i
budget dei ricavi, un altro ancora verificare il raggiungimento dei target di
produzione e di qualità.
Sono tutte risposte parimenti corrette, ma tutte confluiscono, a ben vedere,
nei soldi.
I soldi, sono l’unico scopo per cui uno fa l’imprenditore.
Altrimenti, non gli serve un professionista di finanza aziendale, ma uno
psicologo.
Partiamo dallo scopo, per il quale stiamo discutendo.
Un imprenditore ha un solo scopo: fare soldi.
Non utili, non dare da mangiare alle persone, non pagare le tasse: fare soldi.
Per farli, deve investire un capitale e, alla fine di un periodo definito, avere un
capitale maggiore di quello investito.
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Alla fine del periodo, quanti soldi, quanta cassa produce (o distrugge) l’impresa?
Punto, questa è l’unico scopo del fare impresa.
Il resto è contorno.
Allora, se siamo d’accordo su questa dura verità, fare una previsione, fare un
modello previsionale, creare qualsiasi documento, quale scopo deve avere?
Calcolare quale sia il flusso di cassa che l’azienda produce.
Abbiamo già scritto di due flussi di cassa, quello corrente e quello operativo.
Il terzo che dobbiamo trovare è questo.
Abbiamo in mano ora un dato fondamentale, il flusso di cassa operativo, e da
qui proseguiamo il ragionamento.
Perché un imprenditore lo deve conoscere?
Tre ragioni:
1. è il primo flusso di cassa completo;
2. è legato solo all’attività tipica;
3. non è ancora influenzato dalle strategie finanziarie.
Questo è un flusso di cassa prima dei finanziamenti, cioè prima di aver
definito, da soli o con l’aiuto di un consulente, le strategie finanziarie, cioè
dove reperire i soldi che (eventualmente) mancano.
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Soltanto dopo si prendono le decisioni, mentre spesso mi è capitato di veder
prendere decisioni in assenza di tale informazione.
Ora, fin qui abbiamo esaminato solo l’attività tipica, e abbiamo determinato
il flusso di cassa, positivo o negativo, che questa produce, cioè sappiamo se
generiamo cassa, o la bruciamo.
Ma un’impresa potrebbe avere attività di gestione non caratteristica.
Facciamo un paio di esempi concreti e pratici.
Un’impresa potrebbe avere un affitto attivo da immobili della società, e
ricevere compensi per spese condominiali.
In tal caso, avremo dei compensi, indicati in conto economico (affitti attivi
e spese condominiali) che non fanno parte dell’attività di gestione tipica
dell’impresa.
Li segneremmo come flussi di cassa positivi ma non operativi.
Oppure, l’impresa potrebbe prevedere l’acquisto di un immobile civile, e
segneremmo un flusso di cassa negativo, o al contrario prevederne la vendita,
e segneremmo un flusso di cassa positivo.
Al termine di tali rettifiche, avremmo un saldo, che possiamo chiamare flusso
di cassa non operativo.
Solo sommando tale aggregato a quello operativo, troviamo il nostro vero
obiettivo.
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È un obiettivo strategico, è l’obiettivo principe di ogni pianificazione
finanziaria, è il motivo per cui si dovrebbe prevedere il futuro.
In finanza aziendale si chiama unlevered cash flow, che significa flusso di
cassa prima dei finanziamenti.
È questo il motivo per cui facciamo le previsioni, o dovremmo farle, non per
trovare altro.
Tutto deve confluire qui, perché da qui si ragiona di finanza aziendale, cioè di
far quadrare i conti dell’impresa.
Di chi sono questi soldi?
Dello Stato? No, lo abbiamo già calcolato nel capitale circolante.
Dei fornitori? No, li abbiamo già calcolati nel capitale circolante.
Dei dipendenti? No, li abbiamo già pagati nel flusso di cassa corrente.
Degli investimenti? No, li abbiamo già considerati nel capitale immobilizzato,
quindi sono nel flusso operativo.
Abbiamo già pagato tutto. E allora?
E allora, quello che resta, è il flusso di cassa più importante, perché dice
quanta cassa è disponibile per due soggetti: per le banche, e per i soci.
In altri termini, questo flusso di cassa può essere definito come flusso di cassa
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dell’azienda.
Concludendo, è il flusso di cassa disponibile per i finanziatori, a qualsiasi
titolo, sia a titolo di capitale di debito (le banche) sia a titolo di capitale di
rischio (i soci).
Qualsiasi piano previsionale finanziario non può che partire da qui.
Per questo, andare in banca in assenza di tale informazione precisa è poco
produttivo.
Ma prima ancora, non sapere come stanno i numeri della propria azienda è
l’errore.
Come sempre, esiste la soluzione: sviluppare con sistematicità delle
previsioni, mettendo insieme tutte le informazioni di budget aziendali
(qualità, produzione, vendite, costi, ecc.) ma alle fine ricordandosi che tutto
ha uno ed un solo scopo: fare soldi.
E per farli, bisogna prima averli.
Per averli, bisogna sapere calcolare il fabbisogno finanziario, e sapere come
coprirlo. Il che, è quel che vedremo in seguito.
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I soldi che restano all’imprenditoreAlla fine, l’obiettivo di un imprenditore è avere del denaro.
Nei miei articoli precedenti ho trattato delle tre fondamentali configurazioni
di cassa, quella corrente, quella operativa, e quella prima dei finanziamenti.
Ora, e solo ora, possiamo fare strategia finanziaria.
Come ragiona l’imprenditore, a questo punto?
Semplice, poiché ha tutte le informazioni per decidere.
Se il flusso di cassa prima dei finanziamenti è positivo, allora può rimborsare
cassa, altrimenti, la deve reperire.
Questo modo di ragionare funziona perfettamente sia in logica retroattiva (e
allora parleremo di rendiconto finanziario), sia in logica prospettica (e allora
parleremo di piano finanziario).
In entrambi i casi troveremo l’ultima configurazione di cassa, quella che più
interessa all’imprenditore, come vedremo.
Come?
Il primo passaggio è trovare la gestione finanziaria netta.
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Essa è data dagli interessi attivi al netto di quelli passivi, ivi compresa la
quota interessi dei leasing.
Il secondo passaggio, tuttavia, è fiscale, poiché si deve ricordare che gli
interessi passivi producono uno scudo fiscale, cioè abbattono in parte l’utile
imponibile: quindi è un vantaggio, in termini di cassa.
A questo punto, terzo passaggio.
In finanza aziendale due e solo due sono le forme di capitale: o è capitale
di rischio (e allora sono soldi dei soci) o è capitale di debito (e allora sono
soldi delle banche).
Supponendo, per ipotesi, che il saldo sia negativo - ragioneremmo col segno
opposto nell’opposta situazione - allora il nostro piano richiede ancora dei
soldi, per stare in piedi.
Da dove li prendiamo?
Andremo a inserire qui il differenziale nel patrimonio netto (per la quota
conferita eventualmente dai soci) e un altro differenziale nel debito bancario
(per la quota eventualmente raccolta dalle banche).
Da ultimo, il piano considererà anche gli eventuali i dividendi programmati,
cioè l’eventuale quota di utili promessa come distribuzione ai soci.
Alla fine avremo costruito la risposta: tale risposta si chiama free cash flow,
cioè flusso di cassa libero per i soci.
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Questa è la grandezza più importante, per un imprenditore, perché dice, alla
fine di tutto, quanti soldi saranno liberi, per lui.
Questo è il modo di ragionare della finanza aziendale, in logica internazionale,
e oggi quella logica è usata, come sappiamo, dalle banche italiane.
Come si vede, nulla a che vedere con il nostro bilancio, redatto a fini fiscali.
Diventa interessante costruire questo modello anche in logica retroattiva, ed
anzi io lo consiglio sempre ai miei clienti, come strumento collaterale del
bilancio, per quelle aziende, la maggioranza, che non lo fanno poiché non
sono obbligate, per la normativa italiana, a farlo.
Si chiama, ovviamente, rendiconto finanziario.
Ho visto molti modelli, alcuni invero curiosi e con risultati diversi tra loro.
Dal mio punto di vista, un modello è corretto quando fornisce un risultato
corretto.
Con la cassa non si scappa, poiché è un dato certo.
Il modello sarà corretto se e solo se - e ci vorrà un attimo a capirlo -
restituisce, alla fine di tutto un ragionamento il valore corrispondente al
differenziale di cassa di due stati patrimoniali.
Volete essere sicuri che il numero finale sia giusto?
Prendete la cassa dello stato patrimoniale dell’anno uno, la confrontate con
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il numero che avevate all’anno zero, e se quel numero è lo stesso numero
che viene alla fine del vostro rendiconto finanziario, allora il rendiconto è
giusto; altrimenti, no.
Al che, uno potrebbe dire:
“Si, va beh, ma allora, a che interessa all’imprenditore o alla banca fare
tutto questo esercizio? In fondo, bastava prendere la cassa dell’anno prima
e confrontarla con quella dell’anno dopo, e in un secondo avremmo avuto
la stessa risposta.”
“Questo, anche se stiamo parlando di un piano previsionale, di un business
plan, e non di un bilancio storico.”
“Vero - risponderei io - ma il rendiconto finanziario è importante perché non
dice solo quanta cassa si è prodotta o bruciata, ma come.”
Un bravo direttore di banca, con il quale vi troverete a discutere, si farà
fare dal proprio ufficio fidi un’analisi di questo tipo, che sarà indirettamente
studiata dal sistema di rating.
Magari non vi viene esplicitata, ma l’analisi finanziaria, per un’impresa, c’è
sempre.
Sapere, ad esempio, se l’impresa ha prodotto cassa o meno dalla gestione
corrente, piuttosto che da quella operativa, sapere se ha prodotto cassa con
attività non di gestione tipica, o peggio ancora se l’ha consumata, consente di
esprimere pareri totalmente differenti su due aziende apparentemente simili.
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Dirò di più, a parità di cassa prodotta o distrutta, cioè dell’ultima riga, due
aziende potrebbero essere giudicate in modo completamente diverso dal
sistema, poiché quel numero si potrà essere determinato in modo totalmente
differente.
Se vogliamo avere un’azienda sempre attenta alla finanza, abituiamoci a fare
questi conti, sia in logica storica (capire dove e come abbiamo bruciato o
prodotto cassa), sia in logica prospettica (capire come e dove la produrremo,
o impiegheremo).
Questo al fine, manco a dirlo, di sapere come valutare una cosa fondamentale:
il nostro fabbisogno finanziario, che è un numero che si modifica,
costantemente, negli anni.
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La cassa non è come il prosciuttoIl rendiconto finanziario consente, sia all’imprenditore, sia alla banca, di
formulare un giudizio sull’impresa ben diverso da quello che può emergere
dalla mera lettura del bilancio.
Ciò è vero sia in logica storica, sia in logica prospettica, e quindi se si ragiona
su un business plan.
Infatti, solo il rendiconto finanziario consente di capire come si forma la cassa.
Alcuni commercialisti ragionano sulle aziende osservando il margine operativo
lordo, piuttosto che il reddito operativo, quando dialogano con l’imprenditore
o con la banca, talvolta per suo conto.
Non è sbagliato, ovviamente, ma è riduttivo.
Perché?
Semplicemente perché tre aziende con lo stesso reddito operativo, e con lo
stesso ∆ (delta) cassa, cioè con lo stesso differenziale prodotto o consumato
in un arco di tempo, per esempio un anno, non sarebbero affatto lette dal
sistema come uguali.
Potrebbero avere, come probabilmente hanno, diversa cassa dalla gestione
tipica, diversa cassa dalla gestione operativa, e diversa cassa prima dei
finanziamenti, a parità di reddito e di cassa finale.
C’È UN’ALTRA COSA CHE DEVI SAPERE PRIMA DI ANDARE IN BANCA
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Per cui, quando si ragiona di finanziamenti, si deve sempre ragionare di
soldi, di cassa, e non solo di reddito.
Questo vale anche quando si ragiona verso il futuro.
Se un imprenditore vuole andare in banca e chiedere dei soldi, ha bisogno di
diverse informazioni, ma una è basilare.
Di quanto ho bisogno?
Può sembrare una domanda stupida, e qualcuno potrebbe rispondere in modo
generico, per esempio dicendo: “Il più che posso”, oppure, “Quanti me ne
danno”.
In effetti, non è molto diverso dal modo in cui, talvolta, funzionano le cose.
Il problema è che, così facendo, e cioè andando a braccio, di solito si fa
l’interesse della banca, non dell’impresa.
Questo succede per quale motivo?
Perché non si sa calcolare il fabbisogno finanziario prospettico.
Spesso, i piani redatti nella logica del reddito, e cioè quelli che calcolano
la differenza tra i ricavi e i costi, non hanno questa informazione basilare.
Possono essere precisi, dal punto di vista reddituale, ma poi, siamo sicuri
che la finanza regga?
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Meglio, allora, produrre un rendiconto finanziario previsionale, e avere in
mano le due informazioni basilari, e cioè i flussi di cassa prodotti dall’azienda
prima dei finanziamenti, e il ∆ (delta) cassa, cioè la differenza tra la cassa
dello stato patrimoniale di un anno e quella dell’anno successivo.
Se noi prendiamo il ∆ (delta) cassa, e a questo aggiungiamo i dividendi che
abbiamo promesso ai soci, il differenziale di patrimonio atteso e il differenziale
di debito atteso, oltre che la gestione finanziaria netta (il differenziale di
interessi attivi e passivi, al netto della componente fiscale) otteniamo la
grandezza che cerchiamo: il flusso finanziario.
Incidentalmente, osservo che tale numero sarà uguale, ma di segno contrario,
a quello dei flussi di cassa prima dei finanziamenti. In altri termini, la cassa
che serve all’impresa per fare quadrare il piano previsionale.
Lo stesso modello, ci dirà, visto dall’alto, la cassa assorbita, e visto dal basso
la cassa raccolta.
Questo significa ragionare con un modello fondamentale nelle nostre
previsioni: il modello fonti e impieghi.
Da una parte il nostro business plan dovrà indicare dove viene messa la
cassa, e dall’altra da dove viene raccolta.
Le due parti, ovviamente, dovranno pareggiare, in ogni istante temporale.
Se vale la relazione che il flusso finanziario deve essere pari al flusso prima
dei finanziamenti, con il segno opposto, allora stiamo affermando una cosa
banale: il flusso prima dei finanziamenti, sommato al flusso finanziario, deve
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sempre restituire un numero, lo zero.
E così, avremo quadrato il nostro modello, ma soprattutto saremo chiari
nell’esporre le nostre necessità alla banca.
Infatti, avremo esplicitato i nostri progetti non in modo generico, parlando di
reddito, utili, termini che non consentono di verificare la cassa, il denaro, la
moneta.
Avremo, invece, accompagnato gli stessi modelli di cui sopra con un
linguaggio che dice: se il flusso finanziario, in un certo istante, non è maggiore
di zero, allora dovremo raccogliere moneta (per esempio indebitandoci) fino
a raggiungere il valore di zero.
Questa è la prima relazione.
La seconda, dirà che il differenziale tra la cassa registrata in bilancio nel
momento precedente e quella nel momento successivo sarà pari, guarda caso,
all’ultima riga del nostro ragionamento, e cioè al flusso di cassa libero per i
soci.
Credo sia chiara la valenza informativa di queste informazioni, rispetto a
quelle di un generico documento privo di tali indicazioni.
Infatti, in questo modo, l’imprenditore sa esattamente di quanto ha bisogno,
in ogni momento, per fare funzionare, finanziariamente, l’impresa.
Questo è il punto dal quale partire.
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Siamo arrivati alla fine?
Neanche per idea. Siamo all’inizio. Infatti, dopo aver saputo di quanto abbiamo
bisogno, bisognerà ragionare di cosa abbiamo bisogno.
Infatti, la cassa, la moneta, non è tutta uguale. Ma intanto, siamo partiti bene,
e non ci siamo recati in banca a comprare un po’ di denaro, come si fa con gli
etti di salame o di prosciutto.
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Un contratto, una penna e un caffèSupponiamo che l’imprenditore Rossi abbia definito il valore ricercato
correttamente, e sappia quale sia il numero da reperire per far funzionare
finanziariamente la propria azienda, in un orizzonte temporale definito.
Fino a qui, abbiamo trovato una informazione non banale, poiché sintetizza
un lavoro che avrà certamente coinvolto altri soggetti e campi, quali le
vendite, ma anche la produzione, gli acquisti, la qualità, il marketing e via
discorrendo.
Diamo per scontato un processo di pianificazione finanziaria e di avere il
numero ricercato.
Ora, inizia una seconda importante partita, quella del reperimento di tali
risorse.
Vengo da poche ore da una riunione in banca, e quindi potrei testimoniare
di come praticamente i colloqui vertano su mille aspetti molto pratici, ma,
forse per mia deformazione professionale, non posso dimenticare che, volenti
o nolenti, tutti i ragionamenti pratici non fuggono mai alle regole teoriche,
indipendentemente dal fatto che le si conosca.
Non fosse altro perché i sistemi di rating, che sono quelli che oggi determinano
il merito creditizio, sono stati programmati su questo sapere.
Non va dimenticato il fatto, a mio parere, che la banca è un commerciante che
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compra e vende un prodotto che si chiama denaro, e che vive, sinteticamente,
sul differenziale tra il costo di acquisto e quello di vendita.
Se entrate in tale ottica, scoprirete che non ragiona diversamente dalla vostra
impresa manifatturiera, o commerciale, o di servizi, o di qualsiasi altro settore.
Con una particolarità: come intendo scrivere in altra sede in modo più
puntuale, il banchiere è un equilibrista particolare.
Deve affrontare il rischio, altrimenti il pubblico non applaude (il suo azionista).
Al contempo, deve evitare un eccesso di rischio, e per questo si dota sempre
di sistemi di sicurezza (la rete).
Attorno alla gestione del rischio, ruota il mestiere del banchiere (e di tutti i
suoi collaboratori).
Comprendere la filosofia alla base, significa la differenza tra vincere o perdere
la partita.
Dopo tanti anni di pratica, trovo ancora importante studiare, perché in questa
battaglia, come tutte le battaglie (senza citare i testi di storia militare più
noti e abusati) la conoscenza del modo di condurre la battaglia del nemico è
importante, e molte battaglie si vincono prima di scendere in campo.
Il banchiere, la banca, è il nostro avversario con il quale inizieremo una
trattativa, non dissimile da quella che avviamo con qualsiasi altro fornitore.
A differenza degli altri, questo fornitore ci vende una merce particolare, il
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denaro, e conoscere le sue logiche filosofiche di vendita è importante, per
chiudere la trattativa.
Naturalmente, molte banche si siederanno al nostro tavolo sorridendo
e dicendo che il nostro è un rapporto di partnership, ma io preferisco
considerarle miei antagonisti, nei confronti dei quali intendo avviare un
rapporto corretto, costruttivo, rispettoso e rigoroso.
Intendo produrre loro documenti seri e sviluppati con rigore metodologico
e approccio scientifico, piuttosto che adottare un generico approccio
amichevole, che, nel mondo degli affari non è sempre foriero di successo.
Suppongo sia preferibile una negoziazione anche dura, purché corretta, nel
rispetto della diversità delle posizioni e dei diversi interessi - ricordate la
distinzione tra capitale di rischio e di debito?
Non è vero che siamo dalla stessa parte della barricata, semplicemente perché,
se così fosse, saremmo soci (il che incidentalmente è possibile, ma non è il
tema di cui sto discutendo, intendendo qui trattare della raccolta di capitale
di debito, e non del private equity).
Per farlo, dobbiamo sempre ricordare alcune grandi questioni, quando saremo
seduti a una scrivania o a un tavolo da riunione. In particolare, di quattro
grandi temi:
1. la teoria della creazione del valore;
2. il livello di leverage ottimale;
3. la leva finanziaria e l’EVA (economic value added);
4. il livello di indebitamento sostenibile.
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Questi saranno i quattro pilastri teorici delle nostre chiacchierate, tra un
caffè, una battuta scherzosa e la visita allo stabilimento o al negozio o al
campo agricolo.
Sono principi immutabili della finanza e validi, nell’ottica della banca, per
tutti i settori, da quello artigiano alla grande industria, dal commerciale
all’agricoltura, dai servizi all’edilizia.
Come vedremo, alle regole universali basterà applicare dei correttivi di settore
(anche molto diversi).
Ma le regole universali vanno conosciute, se vogliamo negoziare in modo
consapevole e senza (eccessive) sorprese.
La questione fondamentale sarà: esiste un livello di indebitamento ottimale
per la mia impresa?
E tale livello, è anche sostenibile?
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Come ragiona il tuo antagonistaFacciamo un passo avanti. La grande questione, che nessun direttore di banca
vi dirà mai, è che, da una parte c’è come vi vedete voi, e dall’altra come vi
vedono loro.
Detto in modo meno colloquiale, ma non siamo qui a fare Accademia, è il
concetto della struttura finanziaria ideale.
Forse il sistema di rating non lo sa - almeno, non in modo esplicito ai suoi
utilizzatori - ma il suo modo di ragionare non è tanto lontano dal mondo delle
idee, dal mito della caverna di Platone, e il vostro bilancio non è così dissimile
dal velo di Maya.
Capisco che questo continuo richiamo alla filosofia potrebbe spiazzare chi
magari sia su queste pagine per trovare qualche risposta pratica a problemi
molto concreti e contingenti.
Ebbene, per mia esperienza, credo che nulla sia così etereo e teorico come
finanziare un capannone o mettere un impianto.
Come sa benissimo chi ha realizzato una strada, un ponte, un cantiere, un
capannone, un impianto di energie rinnovabili, quel manufatto in cemento e
ferro esisteva già, prima che arrivassero i soldi.
Di questo io sono assolutamente convinto.
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Nulla di più pragmatico esiste rispetto al trovare moneta, ma io trovo che
buona parte del mio mestiere sia legato alla filosofia.
Quel manufatto esisteva prima, i soldi sono arrivati dopo.
Il manufatto, pensate pure alla cosa più concreta del mondo, esisteva nel
mondo delle idee: era una realtà prima di diventare realtà. Era una idea.
Ora, il problema per il quale non tutte le idee diventano realtà dipende dalla
nostra capacità di renderla concreta.
Il mondo della finanza aziendale ha le sue regole.
Una di queste, che non in molti vi diranno, temo, è che la vostra idea del
mondo potrebbe essere pesata dall’idea che il vostro antagonista avrà di voi,
e del vostro mondo.
Questo è il primo dei quattro grandi pilastri del tema della struttura
finanziaria ideale, di cui andrò a trattare.
Coloro che scrivono in modo meno colloquiale di me, lo definiscono l’aspetto
della caratteristica dell’attività economica.
Ora, voi siete un imprenditore, e ritenete con questo di avere due caratteristi-
che: essere unico e appartenere a un genere economico.
Mi spiace deludervi, ma il vostro antagonista (che nel mio modo di ragionare
è il vostro finanziatore, la banca) tende a usare delle categorie di pensiero.
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Per lui voi avete delle caratteristiche standard, e tenderà a inquadrarvi.
Siete un animale, va bene, ma un mammifero o un rettile oppure un volatile?
Ora, è bene ricordare, e anche questo non lo dicono tutti, che lui tenderà a
stimare, per voi, la struttura finanziaria ideale della vostra impresa.
Banalizzo, e dico che con il termine di struttura finanziaria ideale intendo il
rapporto tra le fonti finanziarie onerose, che come sappiamo si distinguono
in due e due sole tipologie: o è capitale vostro (il patrimonio, variamente
configurato) o è capitale di terzi (oneroso, si badi bene, quindi parlo di quello
finanziario, delle banche).
Qualunque sia la ragione per la quale stiamo progettando tale struttura, nel
momento in cui ci sediamo a discutere con lui, egli avrà invariabilmente delle
idee, delle categorie di pensiero, a prescindere dal nostro progetto.
Vi dirò solo che da ragazzo ci tenevo moltissimo a spiegare il dettaglio del
progetto, ritenendolo unico rispetto al resto del mondo, e capii bene questo
concetto solo quando un amico, che era l’Amministratore Delegato di un
Fondo Chiuso - nella fattispecie sto parlando di capitale di rischio e non di
debito, ma non cambia di molto la questione - mi disse: “Vedi Valerio, a me
non importa molto capire se stai parlando di una fabbrica che produce
spilli piuttosto di razzi per andare sulla luna, a me interessa capire quali
saranno i flussi di cassa.”
Capisco che per qualche lettore l’affermazione possa essere dura, scomoda,
riduttiva e forse anche stupida.
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Comprendo anche che rinunciare alla specificità per una logica di
standardizzazione sia difficile.
Ammetto altresì che sia particolarmente triste immaginare un mondo di
categorie di pensiero definite, hegheliane.
Ma da allora mi pongo una sola domanda pragmatica, dopo tanta filosofia:
“Chi ha il coltello dalla parte del manico?”. Punto.
Allora, il mio suggerimento è: senza rinunciare alla vostra specificità
ricordiamoci sempre della pratica: l’importante è sapere come ragiona il mio
interlocutore.
Il decisore, userà la categoria di pensiero della struttura finanziaria ideale,
che la sua cultura finanziaria gli avrà insegnato.
Essa verterà su quattro assi portanti:
1. le caratteristiche dell’attività;
2. le esigenze di controllo;
3. il profilo fiscale;
4. lo stadio di sviluppo.
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L’importanza del biglietto da visitaIn tema di struttura finanziaria ideale sappiamo che il nostro interlocutore
sarà condizionato da quattro idee fondamentali.
La prima, riguarda la tipologia di attività.
Sarà banale a dirsi, ma come non è uguale ogni banca, così non è uguale
ogni impresa, e certamente pesa moltissimo, almeno nella prima fase della
negoziazione, il settore in cui essa opera.
Mi è capitato di assistere imprese in negoziazioni che io definisco procicliche
o anticicliche.
Sono procicliche quelle in cui il settore è gradito, mentre è vero l’opposto nel
caso delle anticicliche.
Premesso che ovviamente questo dipende dal più generale ciclo economico,
e che naturalmente nei periodi di recessione come questo i settori prociclici
sono minori di quelli dei periodi di espansione, è anche vero che esistono
periodi in cui ci sono settori di moda.
Mi ricordo, molto in là negli anni, il settore di internet e della internet
economy, e più recentemente il settore delle energie rinnovabili, solo per fare
due esempi.
Operare nel settore orafo o telefonico non è esattamente la stessa cosa.
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Operare nel settore delle costruzioni negli anni novanta e oggi, nemmeno.
Ricordiamoci che un bravo direttore di banca (se non lui il suo ufficio fidi)
pretenderà di acquisire informazioni fondamentali.
Per esempio, qual è la tecnologica di produzione?
Quali sono le caratteristiche del processo produttivo?
Molte altre sono ovviamente le considerazioni, qui solo accennate.
Perché servono tali informazioni?
Perché la banca cerca di capire se la nostra azienda opera in un settore che,
rispetto alla media, necessita di capitali per restare competitivi e se il nostro
business ha una elevata obsolescenza tecnologica.
Dopo valuterà noi, ma prima valuta il settore.
Qual è la sua ottica? Molto semplice.
Noi non siamo andati in banca per caso, ma per chiedere denaro.
Lei deve decidere se darci altro denaro, il che aumenta il rapporto che abbiamo
definito di leva finanziaria, cioè il rapporto tra il debito e il vostro patrimonio.
A meno che voi non portiate in banca altrettanti fondi quanti quelli che
la banca vi chiede, e cioè a meno di uno scambio uno a uno - ipotesi che,
vedrete, un giorno non lontano non sarà così di scuola come oggi vi potrebbe
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sembrare, se state sorridendo - allora tale rapporto aumenta.
Perché?
Ovviamente perché se voi mettete in qualsiasi nuovo progetto di cui state
discutendo meno denaro di quanto ne mette la banca, allora il rapporto tra il
debito e il patrimonio aumenta, perché il numeratore della frazione aumenta
più del denominatore.
Per esempio, questo succede se la banca ci chiedesse di mettere nel progetto
il 20% di soldi nostri, e lei fosse disponibile a metterne l’80%.
Succede anche certamente se fossimo semplicemente a chiedere un aumento
delle linee di fido.
Insomma, immaginate voi i mille casi pratici della vostra azienda, ma questa
è la chiave di lettura.
Se aumenta quel rapporto, il retro pensiero di ogni bancario con cui avrete a
che fare sarà questo: nello stesso momento in cui avete chiesto nuovo denaro,
siete meno affidabile di un minuto prima.
Un po’ come quando siete usciti dal concessionario con la vostra auto nuova,
si sarà già svalutata. Perché?
Perché una regola ampiamente nota è che l’aumento del debito comporta
aumento del rischio.
Ecco perché è importante descrivere bene la vostra attività, per fare com-
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prendere bene la vostra struttura fisica e tecnologica aziendale.
Molti pensano che sia solo un fatto di chiarezza espositiva. Vero, ma non
sufficiente.
Serve anche a fare capire il livello di rischio tecnologico.
Sia ben chiaro, la banca lo sa, sono molto meno sciocchi di quello che molti
imprenditori ritengono, semplicemente perché, anche se lo si dimentica,
anche le banche sono imprese.
Il punto è un altro.
Io consiglio sempre ai miei clienti di scrivere documenti molto chiari su questo
primo punto (e ci sono delle tecniche per farlo) in quanto la banca, che queste
cose le sa, vuole sapere se le sapete anche voi, e se le sapete illustrare.
Si badi bene, non dipende dalla dimensione aziendale, il ragionamento vale
per una piccola impresa artigiana o commerciale o agricola, non solo per la
grande impresa.
Tutto è relativo, e la banca vuole capire, prima di tutto, con chi ha a che
fare.
Capire bene il settore serve a capire se l’amministratore con cui sta dialogando
ha un approccio prudente (cosa gradita) o meno.
In che senso?
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Nel senso che l’imprenditore non deve fare il finanziere, e non deve correre
rischi finanziari non dovuti.
Questo non è assoluto, ma relativo al profilo di rischio del settore economico.
Non lo ricorda mai nessuno, ma il settore di attività è il punto dal quale si
parte nel merito creditizio.
Non è per niente irrilevante descrivere in modo chiaro il suo profilo di rischio.
Perché?
Perché quello è il vostro biglietto di ingresso alla trattativa.
Non è banale come si può pensare, il saperlo fare con perizia: questo biglietto
da visita fa la differenza, nella prima impressione.
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Trippa per gatti, panettone e sputasentenzeProseguiamo il ragionamento sulla struttura finanziaria ideale, restando
sulla prima delle quattro idee fisse del direttore di banca: il vostro settore di
riferimento.
Inutile girarci intorno, non ve lo dirà forse apertamente, ma la sua banca avrà
un orientamento, avrà delle esperienze, avrà conosciuto altre imprese del
settore.
Se voi siete nel settore delle rubinetterie o del turismo, sarete confrontati con
altre aziende dello stesso settore.
La prima cosa che valuteranno sarà il rischio tecnologico e industriale.
Più è alto, a loro giudizio, questo rischio, più questo parametro non scritto
andrà ad influire sul rapporto di leva finanziaria, che è - lo ripeto alla nausea
- il cuore del problema, cioè quanto debito potete portare a casa, dato il
patrimonio di cui disponete.
Perché? Vi propongo un esempio banale.
Negli scorsi anni uno dei settori più interessanti era quello delle energie
rinnovabili. Molti progetti erano sulla carta vincenti. Ma cosa non dice
l’analista di banca?
Non vi spiega in modo palese uno dei loro dubbi, specie quando il progetto va
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in là nel tempo di alcuni anni: rischio tecnologico vuol dire rischio industriale,
che significa reddito operativo oscillante, che vuol dire flussi di cassa prima
dei finanziamenti non sicuri.
Sempre lì torniamo a parare: sui flussi di cassa.
Non esiste il business plan ideale, ed esiste una profonda differenza tra
un reddito derivante da un flusso stabile, e uno derivante da un flusso
aleatorio.
Cosa lo definisce?
Il giudizio che il mercato ha del vostro settore, giusto o sbagliato che sia: lui
ha il coltello dalla parte del manico. Possiamo mitigare il suo giudizio?
Certamente, per questo io dico che la parte qualitativa di un documento
numerico è estremamente importante, e sempre trascurata (talvolta
addirittura è assente).
Se noi non siamo chiari, sul settore, sulla tecnologia, sul rischio produttivo e
tecnologico - dove per tecnologico e produttivo intendo la capacità di produrre
reddito in qualsiasi settore - allora saremo visti come a rischio.
Più siamo visti come a rischio, più vorranno che noi mettiamo capitale di
rischio: il nostro.
Meno saremo giudicati a rischio, più saranno disponibili a mettere capitale
di debito: il loro.
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So che sembra banale e riduttivo, ma a far sembrare le cose difficili ci
penseranno altri molto più bravi di me.
Perché questa regola banale?
Prendetelo come un assioma - il debito comporta stress.
Il direttore di banca si preoccupa del vostro stress, perché vi ha molto a cuore,
come il vostro medico.
Per evitare che vi ammaliate, il suo buon cuore gli impedisce di darvi troppo
credito, in modo che non abbiate troppo stress.
Ma se voi sarete percepiti come in buona salute, allora sarete in grado di
sopportare più stress, quindi avrete più credito.
Mia nonna mi diceva sempre che le banche danno soldi a chi non ne ha
bisogno: dopo trent’anni di studio, ho scoperto che aveva ragione lei.
Gli economisti hanno scoperto che il debito provoca stress, ma lo sapeva
anche mia nonna. Perché?
Perché per il capitale di rischio vale questa regola: non c’è trippa per gatti.
Tradotto, se non abbiamo soldi non remuneriamo i soci.
Per il capitale di debito, questa regola non vale: provate a non rimborsare una
banca dicendo che non c’è trippa per gatti e poi mi dite.
Naturalmente, chi scrive forbito vi spiegherà che si dice trattamento
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asimmetrico delle forme di capitale oneroso, ma la trippa per gatti secondo
me rende di più.
Questo è il primo ragionamento circa il settore, viene valutato il vostro
rischio aziendale con riferimento al settore.
Ma vi sono altre due considerazioni, su questo primo punto.
La seconda è la volatilità del fatturato.
Gli imprenditori, talvolta, presentano piani ottimistici.
Ma la banca si chiede. “Esiste una ciclicità?“
Se non vi conosce bene, prenderà parametri di riferimento di settore.
“Esiste una stagionalità nelle vendite o nei mercati?”
Di nuovo, volatilità delle vendite significa volatilità del reddito operativo, e
da lì, per il percorso in cui ormai siete maestri, dei flussi di cassa.
Sempre a quelli, torneremo. Io la chiamo la sindrome del panettone, perché
non tutti i giorni è Natale, come sembra in molti business plan.
Chi parla forbito vi dirà che è la valutazione della ciclicità del business.
Esiste infine una terza e ultima considerazione.
Io la chiamo “Non sputare sentenze.”
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Significa che affermare con sicurezza che rientreremo dell’investimento
in due anni, quando i concorrenti ce ne mettono mediamente sei, spiace
deludervi, ma non è una cosa che consiglierei di fare.
Eppure, molti imprenditori che ho conosciuto lo hanno fatto.
Quando arriveranno i flussi positivi di cassa?
Chi parla forbito lo chiama analisi del lag temporale dei flussi di cassa.
Io so solo che, per prassi, chi sa calcolare la trippa per gatti, non si fa prendere
dalla sindrome del panettone e dall’approccio dello sputasentenze, ha le tre
carte vincenti per superare al meglio il primo step della struttura finanziaria
ideale: l’analisi del proprio settore.
Scrivo queste cose perché sono piccoli e banali punti sui quali, tuttavia, ho
visto commettere incredibili errori.
Nella migliore delle ipotesi, la banca non concede il credito.
Nella peggiore, lo concede alle condizioni errate richieste da chi non ha
valutato con rigore questi semplici elementi.
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La casetta di Alice“Veramente vorrei essere un po’ più grande. Se è possibile, naturalmente”
disse Alice “Sette centimetri e mezzo è troppo poco davvero.”
“È un’ottima statura!” disse il Bruco arrabbiato.
Mentre parlava si erse in tutta la sua statura (era alto esattamente sette
centimetri e mezzo).
Nei film di animazione, questa favola viene raccontata con Alice che sbatte
mangiando i funghi magici tra un tetto e un pavimento.
La seconda variabile che condiziona il giudizio della banca circa la vostra
struttura finanziaria dipende da quella che io definisco la sindrome di Alice.
Questa è un fenomeno tipico della piccola impresa italiana, vorrebbe crescere,
ma non può.
Perché?
Coloro che scrivono in modo più serioso la chiamano questione del controllo
societario.
Nel nostro Paese, come noto, non solo la dimensione delle imprese è medio
piccola - micro, dico io, sia perché così dice la definizione comunitaria,
sia perché oggettivamente il bruco è più grande - ma anche esiste una
caratteristica tipica: la struttura familiare.
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Senza scomodare l’inglese, tutti sappiamo che molte nostre imprese si basano
sul capitale di una o poche famiglie.
Di per sé, nulla di male, se non fosse che per decine di anni siamo stati
convinti, dalla letteratura e dalla politica di riferimento, che il nostro punto di
forza era nella piccola dimensione.
Tra un articolo sulla creatività italiana e uno sul Made in Italy, venivamo
convinti del fatto che essere piccoli era un valore in sé.
Ora, spiace di nuovo deludere qualcuno, ma il mondo della finanza aziendale,
lo dirò in modo brutale, non ne è convinto.
La ragione è che la piccola dimensione crea un vincolo strutturale alla
raccolta di fondi e allo sviluppo.
Le imprese piccole sono limitate nelle condizioni di accesso al capitale, in
quanto esiste un altro limite spesso non dichiarato: la paura della perdita
del controllo societario, cioè della maggioranza detenuta dalla famiglia di
riferimento.
Questa seconda questione è spesso derivante da ragioni psicologiche, nelle
quali non mi addentro, poiché mi occupo di finanza aziendale e non di
psichiatria.
Sta di fatto che esiste una resistenza psicologica ad accettare il fatto che sia,
finanziariamente, possibile raccogliere dividendi maggiori da una piccola
partecipazione che non da una grande.
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Volgarmente, può essere più nutriente una piccola fetta di una torta grande
piuttosto che una grande fetta di una torta piccola, direbbe Carrol.
Ma so benissimo che le resistenze ai ragionamenti finanziari vanno ricercati
in altri campi, e che la paura di non governare più l’impresa comporta altri
stress, non finanziari.
Sta di fatto che il capitale della famiglia è limitato, e poiché sappiamo che
esiste un rapporto di congruità tra il livello del capitale proprio (in questo
caso della famiglia) e quello di terzi (della banca), allora può succedere che a
fronte di piani di crescita particolari il rapporto non regga più.
Non è possibile lasciare crescere all’infinito tale rapporto, per regole date dal
contesto internazionale delle quali tratteremo (volgarmente dette di Basilea).
In estrema sintesi, maggior debito vuol dire maggior rischio, per il nostro
interlocutore (la banca), il quale a fronte del maggior rischio ci farà pagare
un maggior prezzo (interesse).
Ma, oltre un certo livello, il rischio sarà per lui così alto che a nessun prezzo
ci darà i soldi.
Quindi, a fronte di un progetto importante, delle due l’una: o si trova il
capitale di rischio (cioè d’impresa) sufficiente a garantire il rapporto,
oppure la banca non interviene.
Ma la famiglia - succede prima o poi - non ha più capitali, e allora la strada
diventa:
C’È UN’ALTRA COSA CHE DEVI SAPERE PRIMA DI ANDARE IN BANCA
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“Faccio entrare qualcuno in società, oppure no?”
La risposta “oppure no” significa scegliere di rimanere piccoli.
Non è una scelta sbagliata, è una scelta.
Ciò che conta è sapere che la crescita finanziaria comporta sempre che la
casa cresca da ambo le parti, in questo pazzo mondo della finanza aziendale.
Non basta far crescere il tetto (il debito), deve seguirlo anche il pavimento (il
capitale imprenditoriale).
Se il pavimento non cresce, non cresce il tetto, e la casa resta piccola.
Capisco che sembri strano, ma questo mondo è fatto così, alla rovescia.
Scrive ancora Carrol: “Se io avessi un mondo come piace a me, là tutto
sarebbe assurdo: niente sarebbe com’è, perché tutto sarebbe come non è, e
viceversa!”.
Ma così è, e si deve sapere.
In altri Paesi, la perdita di controllo familiare non è avvertita come in Italia, e
in effetti il mercato del capitale di rischio è più sviluppato.
Ciò che conta è che solo in queste condizioni l’impresa può crescere,
virtualmente, senza limiti.
Voi direte: “Questa seconda questione è pura teoria, è questione che riguarda
C’È UN’ALTRA COSA CHE DEVI SAPERE PRIMA DI ANDARE IN BANCA
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le grandi imprese, a me che interessa?”.Mica vero.
Pochi mesi fa: piccola impresa italiana, pochissimi milioni di euro di fatturato,
possibilità di enorme business in Cina, l’affare della vita.
Piccolo problema: serve un investimento, e nessuna banca potrebbe concedere
quel livello di debito alla struttura societaria attuale.
Io spiego semplicemente questo concetto: vuoi fare l’operazione Cina? Devi
aprire il capitale.
Delle due l’una: rimani piccolo, e continui a barcamenarti con Equitalia, o
cresci e rischi, vendendo parte della società a un partner.
Io non so se decideranno di aprire il capitale della piccola impresa italiana,
Perché fare lo psicologo non è il mio mestiere.
So che, se non lo faranno, la casetta di Alice sarà piccola, e la Cina resterà
lontana.
C’È UN’ALTRA COSA CHE DEVI SAPERE PRIMA DI ANDARE IN BANCA
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La collina e il rischio dello scollinareLa struttura finanziaria ideale di un’impresa è condizionata da un’altra
variabile, che talvolta si dimentica: quella fiscale.
Tranquilli, so benissimo che nessuno di noi se ne dimentica, non fosse altro
per l’acidità di stomaco che il solo termine comporta, in un Paese come il
nostro almeno, nel quale vi è un patto occulto politico scellerato a favore del
mantenimento dell’iniquità.
Stando sul tecnico, non sempre è noto che il trattamento asimmetrico delle
fonti di capitale - cioè banalmente il fatto che gli interessi abbattono in parte
l’utile imponibile su cui si pagano le tasse, mentre il vostro capitale non dà
tale beneficio - fa sì che, se l’impresa produce utili, il non indebitarsi distrugge
valore, mentre l’indebitarsi lo produce.
Fidatevi, sono state scritte fiumi di pagine sul fatto che, a parità di rischio e di
costo, il debito conviene sempre, in ogni Paese del mondo.
Se fosse esattamente così, e se fosse così semplice, allora basterebbe
indebitarsi all’infinito.
Purtroppo, questo mondo teorico non è quello reale, e anche alcuni premi
Nobel hanno dovuto rivedere famose tesi degli anni 50.
La ragione sta nel definire cosa sia il valore della vostra impresa.
C’È UN’ALTRA COSA CHE DEVI SAPERE PRIMA DI ANDARE IN BANCA
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Stando alla definizione più semplice, essa è data dal valore dei vostri beni, che
si trovano a sinistra del vostro stato patrimoniale, che deve pareggiare, per
definizione, con il valore dei vostri fondi, che si trovano dall’altra parte, e che
sono la somma del valore del debito e del patrimonio.
I capitali raccolti a destra, e impiegati a sinistra nei vostri beni, generano i
flussi di cassa sui quali si determina il valore attuale dell’impresa.
Un tempo, si riteneva che due imprese che avessero raccolto cento, potessero
avere un valore diverso in virtù del modo in cui avessero impiegati i fondi.
Ciò è vero solo in parte.
Come si sa oggi, invece due imprese possono avere - e hanno - un valore
diverso anche in funzione del tipo di capitale raccolto, e non solo impiegato.
Detto in altro modo, il valore di una azienda dipende anche dal mix delle sue
fonti di finanziamento.
Esiste una curva statistica che dimostra che, a parità di capitale di rischio
di base - ricordate la sindrome di Alice? - il valore dell’impresa aumenta in
modo più che proporzionale al crescere di ogni unità di debito raccolto.
Il problema è che, purtroppo, esiste una collina.
Questa collina è strana.
Da una parte, quando sale, sale lentamente.
C’È UN’ALTRA COSA CHE DEVI SAPERE PRIMA DI ANDARE IN BANCA
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Man mano che raccogliete debito, salite un po’ verso la vetta.
La sommità di questa collina è un punto in cui sarete in equilibrio, ma se per
sbaglio raccoglierete un euro di debito in più, a quel punto entrerete dall’altro
lato della collina.
Il primo lato ha un pendio dolce, ma dall’altra parte c’è uno strapiombo.
Ciò che vi sto raccontando in modo leggero, con quello che io definisco il
rischio dello scollinare, è ben noto alle banche.
Idealmente, l’imprenditore avrebbe l’interesse a raccogliere il massimo
debito possibile, fino a che tale valore aumenta il valore della propria
impresa.
In altri termini, il punto di indebitamento ideale per un’impresa sarebbe quello
in cui, dato il patrimonio disponibile, si massimizza il valore dell’impresa.
È possibile conoscerlo?
Assolutamente, non è fatto noto, ma ci sono delle semplici metodologie di
calcolo.
Allora, perché nella prassi le banche fanno fatica concederlo?
Perché, nella realtà, hanno paura - giustamente, dico io - del rischio dello
scollinare.
Un imprenditore che si avvicini alla sommità dolce del pendio, da questa
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parte della collina, rischia, scollinando, di rovinare tutto.
Si innesca infatti una spirale non sempre nota, se non a posteriori.
Vediamo di renderla visibile con parole semplici.
L’aumento del debito comporta, per la banca, un aumento del rischio.
Se aumenta il rischio, aumenta quello che la banca teme di più, cioè il
fallimento, o che banalmente l’impresa non restituisca il debito.
Se vede questo rischio (perché lo dice il suo sistema di rating sui vostri
bilanci) allora entreranno nel calcolo del costo del denaro delle componenti
occulte, la cui traduzione in italiano del termine inglese sta per costo del
rischio del fallimento.
Se succede questo, allora aumenterà il costo del denaro che andrete a
prendere a prestito.
Ma se aumenta tale costo, nel vostro bilancio il costo alla voce oneri finanziari
(e altri, spesso non evidenti) aumenterà.
Se i costi finanziari saranno cresciuti, si ridurrà il vostro margine.
Se si riduce il margine economico, allora avrete meno risorse finanziarie -
ricordate il flusso di cassa della gestione corrente?
Se avete meno cassa dalla gestione corrente cosa fate?
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Avete bisogno di pareggiare, quindi dovete avere cassa dalla gestione
finanziaria, tradotto li chiedete alla banca.
Ma se chiedete debito, allora il vostro rischio aumenta, e la spirale ricomincia.
Avete visto?
Siamo partiti dalla considerazione fiscale per dire che il debito è conveniente,
se l’azienda è in utile, e siamo arrivati a dire che però, indebitandosi oltre
misura, si rischia di entrare in una spirale simile a quella che conosce chi fa
uso di sostanze che danno assuefazione.
Ciò comporta, e la banca lo sa, il rischio di comportamenti opportunistici,
ancora più rischiosi.
Qual è la morale?
Sapere calcolare il rischio, saper calcolare l’equilibrio economico,
patrimoniale e finanziario della propria impresa non è un fatto di tecnica o
di teoria.
È la differenza tra il navigare a vista e il dotarsi di strumenti e tecniche per
evitare gli scogli.
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La sindrome del gioco d’azzardoSempre in tema di struttura finanziaria ideale, vorrei affrontare un tema
purtroppo spesso trascurato: quello del comportamento rischioso.
Succede sempre più spesso, soprattutto in questi anni di crisi, che
l’imprenditore, a fronte di una situazione non più positiva come in passato,
cerchi di recuperare il terreno perduto.
Poiché chi fa impresa affronta un rischio, può succedere che psicologicamente
si cerchi di recuperare affrontando progetti più rischiosi ma potenzialmente
più redditizi.
Si tratta di un fenomeno in aumento, e molto più comune di quanto non
possa sembrarvi.
Tecnicamente, coloro che parlano forbito lo chiamano fenomeno dell’asset
substitution, cioè sostituire un attivo (asset) poco a rischio, con un attivo
più a rischio; in parole povere, spendere i soldi in progetti potenzialmente
più redditizi.
Io la chiamo sindrome del gioco d’azzardo.
Vediamo di capirci, in parole semplici.
Supponiamo, in ipotesi, che una piccola impresa abbia, alla fine della fiera, un
reddito operativo di soli duecentomila euro.
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Ma supponiamo altresì che abbia anche centoottantamila di oneri finanziari
all’anno.
Voi capite che quell’impresa sarà ragionevolmente in perdita,
Perché ci dovrà pagare sopra le tasse, e che non avrà cassa per remunerare i
suoi soci.
Questi ultimi, si trovano a dover fare un business plan per l’anno prossimo.
Fanno due previsioni, una di base e una peggiorativa: se va bene, faranno
trecentomila di reddito operativo, se va male, centomila, ed assegnano una
probabilità del 50% ad ognuna delle due ipotesi.
In termini di valore atteso, cioè di media statistica, ne deriva che anche l’anno
prossimo il reddito operativo sarà duecentomila, il che vuol dire che, stando
alle mie definizioni, dovranno applicare la solita regola del non c’è trippa per
gatti (i soci non si pagano).
Non è un bell’incentivo al fare l’imprenditore.
Esiste un secondo scenario, e anche del secondo scenario preparano due
ipotesi di budget.
Nella seconda previsione - estremizzo il concetto per renderlo più chiaro - c’è
un business che dice: se va bene, il reddito operativo sale a dieci milioni, se
va male, sarà zero. Le probabilità sono al 95% che vada male, e al 5% che vada
bene.
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In termini statistici, il valore atteso, cioè la media matematica, è di un reddito
operativo di cinquecentomila, ben superiore ai duecentomila dell’altro
scenario.
Anche se ho estremizzato i numeri, credo che sia chiaro il concetto.
Quando le cose non vanno bene, aumenta la propensione al rischio,
Perché l’imprenditore dice: lavorare per pagare banche e Stato non mi
interessa, allora tanto vale rischiare.
La sto raccontando in modo volgare, ma la realtà della piccola impresa
italiana non è fatta nei libri e nelle biblioteche, ma con il sudore della gente e
gli sportelli della rateazione di Equitalia.
Lungi da me fare della morale, perché sono un peccatore e ho paura dei Santi,
ma desidero portare l’attenzione su questo approccio, oggi relativamente
diffuso, per dire che è razionalmente controproducente, in finanza aziendale.
Esistono molte scale di grigio, quindi potete spostare le percentuali che io ho
volutamente esagerato, e attenuare il concetto dicendo che la piccola impresa
tal dei tali si presenta in banca con un progetto di apertura in un nuovo settore
o in un mercato estero per la prima volta.
Possiamo fare esempi molto più realistici ma ciò che conta è capire che,
nella finanza, se si vuole aver credito (di questo solo io tratto), bisogna
presentarsi con onestà intellettuale e rigore metodologico.
Io sconsiglio vivamente l’approccio del gioco d’azzardo, per indole e per
realismo.
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Per indole, poiché non mi appartiene tale cultura.
Per realismo, perché cinicamente affermo che non è quella del vostro
interlocutore, il finanziatore.
Se il vostro interlocutore percepisce, dalle parole, ma soprattutto dai
documenti, dai numeri, che state presentando dei numeri campati per aria,
reagirà con 4 misure di protezione:
1. siete giudicati più a rischio, maggior rischio significa maggior rendimento,
quindi vi alza il tasso di interesse;
2. vi aumenta la richiesta di garanzia, o diretta dei soci e della società, o
indiretta (ad esempio tramite Consorzio di Garanzia Fidi, i Confidi);
3. vi inserisce delle clausole (dette convenants) nei contratti preliminari
(detti term sheet, che talvolta si leggono in modo superficiale) e poi negli
allegati al contratto, talvolta inserendo misure di protezione per voi
molto pesanti;
4. se le altre tre misure di difesa non bastano, vi concede meno credito di
quanto richiesto, oppure non ve lo concede (non arrivo all’ipotesi della
revoca del già concesso, ma potrebbe in casi limite succedere).
Quale consiglio?
Adottare un comportamento cautelativo e rigoroso, nella preparazione dei
vostri piani.
È importante la metodologia di preparazione di tali documenti.
Occorre essere, a mio modesto parere, intransigenti con voi stessi.
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La dirò brutta: inutile raccontarsi delle balle.
Per mia esperienza, a volte ho visto imprenditori raccontare frottole alle
banche, perché si erano voluti raccontare frottole a sé stessi; quando è andata
bene, non hanno avuto i soldi.
Invece, ho lavorato con imprenditori seri, prudenti, coi quali ho preparato
piani rigorosi, e alla fine le banche, convinte della nostra serietà, ci hanno
dato di più di quanto noi avevamo chiesto.
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Mi faccia il pienoPuò un’impresa fare il pieno del debito?
In linea teorica, sì, ed è possibile calcolarlo.
Mi sono ripromesso, su queste pagine, di non usare nessuna formula, e quindi
proverò a descrivere l’idea, in modo che sia comprensibile - spero - ai più.
Si può calcolare in diversi modi, basta ragionarci un po’ su.
Il modo più semplice è dire: mi indebito fino a che il flusso di cassa prima dei
finanziamenti è pari al costo del capitale.
Cosa significa?
Semplice, che fino a che la cassa che ho calcolato di avere prima dei
finanziamenti, è maggiore di quanta cassa devo pagare per avere quei
finanziamenti, sono in equilibrio.
Lo stesso concetto si può esprimere in un secondo modo: se il tasso di
interesse è il costo del capitale di debito, allora mi indebito fino a che il
rendimento sul capitale investito (che sarà espresso in percentuale) sarà
maggiore del costo del denaro (che sarà espresso in percentuale).
Cosa significa?
Che se l’impresa mi rende il 4%, ma io pago il denaro il 5%, non sto facendo
un buon affare, mentre lo farei se fosse il contrario.
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Un terzo modo per vedere lo stesso concetto è invece questo: se i miei redditi
devono pagare gli interessi, allora sarà bene che siano maggiori, quindi il
reddito operativo deve sempre essere maggiore degli interessi passivi.
Cosa significa?
Che se in un bilancio il reddito operativo è inferiore al peso degli oneri
finanziari, sicuramente non siamo in salute.
Un quarto e ultimo modo di definire lo stesso concetto è infine questo: ma
se il capitale è costituito anche dal capitale di rischio, e non solo da quello
di debito, allora io devo verificare se il rendimento del capitale investito è
maggiore del costo del capitale investito.
Questo quarto modo è decisamente più preciso.
Cosa significa?
Fermiamoci un istante a ragionare.
L’impresa è un investimento.
Ogni investimento ha senso se quanto di rende è maggiore di quanto mi
costa.
Quanto mi rende si può calcolare come il reddito sul capitale.
In pratica, se un capitale investito di cento mi rende all’anno dieci, diremo
che ha una resa del 10%.
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Quanto mi costa?
Sarà calcolabile come una media ponderata tra il costo del capitale
che mi fa pagare la banca, e il costo del mio capitale, che dovrà costare
necessariamente di più.
Pertanto, non calcolare questa seconda componente è un grave errore, perché
sottostimerei il costo.
Eppure, lo si fa sempre.
Tutti calcolano sempre solo quanto costa il denaro preso a prestito dalle
banche.
E il vostro non ha un prezzo? Ve lo regalano?
Non potreste investirlo in altre attività a minor rischio, per esempio in titoli
di Stato, e farlo rendere?
Allora, se lo mettete nella vostra azienda dovete per forza, se volete fare
ragionamenti finanziari, dargli un valore non solo maggiore di zero, ma
certamente maggiore di quanto costa il denaro preso in prestito dalla banca.
Perché?
Perché la banca non rischia di perderlo, voi sì.
Eppure, non tutti ve lo dicono, e non tutti sanno come calcolarlo.
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Si può fare, con delle tecniche.
Questo quarto ragionamento, noto come calcolo dell’EVA (economic value
added) significa banalmente in italiano “Calcolo del valore aggiunto
economico”.
Io suggerisco sempre di calcolarlo, poiché si scoprono talvolta cose curiose e
interessanti, per esempio che aziende in utile, secondo il bilancio civilistico,
stanno avendo un EVA minore di zero, cioè stanno distruggendo ricchezza.
Per questo, quando io analizzo se fare o no una scelta, calcolo se l’impresa
produce o distrugge ricchezza, poiché mi interessa se produce valore
monetario, non se produce reddito civilistico.
Se il differenziale di tasso di resa e il differenziale del tasso di costo è
positivo, allora sto creando ricchezza, altrimenti la sto distruggendo.
Questo è il reale concetto di equilibrio economico, e non ha nulla a che
vedere, come si vede, con la differenza tra costi e ricavi.
Si tratta di una differenza tra tassi di rendimento, cioè di percentuali e non
di valori assoluti.
Ora, quando si valuta un’impresa in logica retroattiva, ma anche e soprattutto
se si ragiona di crescita, è importante fare questi calcoli finanziari, perché ha
senso indebitarsi solo fino a che si crea ricchezza.
Indebitarsi a un livello superiore non solo distrugge ricchezza, ma lo fa con
una intensità esponenzialmente superiore alla capacità di crearla.
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Si tratta di un gioco pericoloso, nel quale, quindi, occorre fare attenzione.
Questo punto teorico di massimizzazione del valore dell’impresa è quindi
calcolabile con le formule e con gli algoritmi.
Ma conviene fare il pieno?
Dirò subito di no.
La ragione è che la realtà non funziona come nei libri di testo.
La seconda parte del ragionamento, noto il ragionamento teorico qui esposto,
deriva da una serie di considerazioni pratiche che faremo nel prossimo
capitolo.
Quando si negozia con una banca, bisogna conoscere la propria potenzialità,
e poi conoscere realisticamente le condizioni pratiche di applicabilità.
Queste derivano da una serie di regole non scritte, ma di buon senso,
facilmente conoscibili e stimabili.
Così operando, si sta adottando un approccio più razionale nella
pianificazione finanziaria e nell’accesso al credito diventa ragionevole non
solo stimare se stiamo creando o distruggendo valore, ma anche prevedere
con una certa attendibilità se e in quale misura riusciremo a raccogliere
credito.
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Ma quanto mi posso indebitare?Abbiamo detto nell’ultimo capitolo che esiste ed è calcolabile un valore
di debito massimo per l’impresa, e che tale valore massimizza il valore
dell’azienda stessa.
Nella pratica, questo livello teorico è raggiungibile?
No, abbiamo già detto.
Ma perché?
Dovrebbe essere la prudenza a consigliare l’imprenditore di non farlo,
ma supponiamo che egli non lo sappia; saranno le banche a negargli un
indebitamento eccessivo, poiché le banche, al contrario, sono molto prudenti.
Quali sono le ragioni?
Ve ne porto quattro, quelle più classiche, secondo la mia esperienza.
Tutte dipendono dal fatto che, nel calcolare il punto di massimo indebitamento,
stiamo ipotecando il futuro.
Esso, come noto, è governato da variabili che gestiamo noi (coloro che
scrivono bene le definiscono endogene), altre invece ci sfuggono, perché non
le gestiamo noi (e coloro di cui sopra le chiamano esogene).
I sistemi di rating delle banche danno molto peso anche alle seconde.
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Primo esempio: esistono gli imprevisti a livello planetario.
Se vi avessero detto, nel duemila, che degli aerei di linea sarebbero stati
dirottati e fatti piombare sul pentagono e sulle torri gemelle, non avreste detto
ridendo che non leggevate libri di fantascienza?
Ma poi è successo.
Secondo esempio: esistono gli aumenti dei prezzi delle materie prime.
Se vi aumenta il costo del greggio o dell’acciaio, e voi siete nella catena che
fa uso dei loro derivati, il vostro costo industriale aumenta, senza che voi
possiate farci nulla.
Terzo esempio: potreste essere in una fase del ciclo in cui scendono i costi
delle materie prime, e perfino il costo del denaro, eppure non c’è più la
domanda, perché si è entrati in una grave recessione.
Dieci anni fa avreste riso a questa ipotesi, oggi non più.
Quarto esempio: siete una buona impresa, con adeguato reddito e soprattutto
adeguati flussi di cassa, e vi siete indebitati al punto di massimo teorico,
massimizzando, come detto, il valore aziendale.
Poi, arriva una nuova tecnologia, o entrano sul mercato nuovi concorrenti.
Se volete restare competitivi, dovete investire in tecnologia, peccato che non
abbiate più capacità di credito, perché siete già a tappo.
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Ho fatto quattro esempi dei casi più classici che mi è capitato di vedere, e
le aziende che avevano un livello di debito troppo alto, non sono riuscite a
superare l’impatto di queste variabili esogene.
Ma come ragiona una banca? Posto un certo patrimonio aziendale - sempre
da qui si parte - dato che non è possibile raggiungere il livello di massimo
teorico calcolabile, come si trova il livello realistico di debito ottenibile?
Questo non è il debito teorico massimo dei libri di finanza, ma è il debito
giudicato sostenibile dal sistema bancario.
Come si trova? La soluzione formale non c’è ma esiste la prassi: nella prassi,
la banca userà il livello di leva finanziaria (cioè il rapporto tra debito e
patrimonio aziendale) medio di settore.
Questo è il comportamento pratico: la banca vi valuta con riferimento alla
media del settore.
Giudica che voi non possiate differire molto dal grado di indebitamento medio
del vostro business.
Questo è il parametro di riferimento (coloro che amano l’inglese lo chiamano
benchmark).
L’ipotesi del sistema di rating bancario è che il settore, in media, converga
verso un grado di debito coerente con la rischiosità del business sottostante.
Prima obiezione: ma il livello di rischio di un business cambia negli anni, non
è confrontabile.
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Risposta dei sistemi dei rating: e noi mettiamo i dati di un arco temporale
sufficientemente lungo, poniamo sette anni, e ne prendiamo la media.
Seconda obiezione: ma noi lavoriamo in giro per il mondo e in Italia siamo
penalizzati da alcune variabili.
Risposta dei sistemi di rating: infatti, noi mettiamo nella media un campione
rappresentativo di imprese europee del settore.
Inutile comunque fare obiezioni; chi ha il coltello dalla parte del manico?
Quindi, funziona così: primo, la banca sa quale è il livello medio di indebita-
mento del settore.
Tale valore sarà inferiore al punto teorico di massimo, per le ragioni di cui
sopra.
Secondo, se la vostra analisi finanziaria del bilancio vi pone sopra la media
del vostro settore, allora il vostro punto sostenibile sarà tra il livello medio e
il livello massimo.
Se la vostra analisi finanziaria del bilancio vi pone sotto la media del vostro
settore, allora il vostro punto di indebitamento sostenibile sarà inferiore al
livello medio del settore.
Ecco perché io consiglio ai miei clienti di fare un’analisi finanziaria del proprio
bilancio, che ha poco a che vedere con l’analisi tradizionale reddituale e
patrimoniale.
C’È UN’ALTRA COSA CHE DEVI SAPERE PRIMA DI ANDARE IN BANCA
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L’abito per tutte le stagioni non esisteIl livello di indebitamento dipende anche da una quarta variabile, oltre tre già
discusse.
Molti autori di marketing hanno trattato del ciclo di vita, ma esso è applicato
- anche se cosa meno nota - nella finanza d’impresa.
Come noto, tale teoria assimila la vita di un’impresa a quella dell’uomo, per
cui lo stesso abito non va bene per tutte le stagioni: l’infanzia, l’adolescenza,
la giovinezza, la maturità, la senilità hanno esigenze diverse.
Così, una volta calcolato il fabbisogno finanziario necessario per un’impresa
(di cui si è detto in precedenza) e aver stimato che il vostro fabbisogno
finanziario sia poniamo cento unità di moneta, quel che conta è capire che il
denaro non è uguale.
In particolare, ci sono due grandi categorie di denaro: il vostro, e quello
degli altri.
Aver calcolato un fabbisogno finanziario di cento, non dice ancora nulla su
quanto debba essere questo rapporto (che come sappiamo definisce la leva
finanziaria).
Non sempre si ricorda la quarta variabile: il ciclo di vita.
Imprese con diverso stadio del ciclo di vita richiederanno, tendenzialmente,
C’È UN’ALTRA COSA CHE DEVI SAPERE PRIMA DI ANDARE IN BANCA
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una o l’altra tipologia prevalente.
Senza usare i termini inglesi - anche perché la finanza non da ieri è dominata
dal mondo anglosassone, ma nasce in Italia quando loro non conoscevano la
patata - un’impresa appena nata, una matura e una in fase di sviluppo hanno
necessità finanziarie diverse e sono lette dal sistema finanziario in modo
diverso.
Perché?
Facciamo un esempio.
L’impresa A, la B e la C sono dello stesso settore di attività economica, similare
contesto di compagine societaria e stesso Paese, l’Italia. Pertanto, le prime tre
variabili altrove richiamate sono, per ipotesi, sostanzialmente confrontabili.
Tuttavia la A è un’impresa appena nata, la B un’impresa in fase di sviluppo, la
C un’impresa matura.
Nuovamente, banalizzo, nei libri di finanza gli autori sono molto fantasiosi ad
inventare termini inglesi, ma a me piace la sintesi: adoro la banalizzazione e
la volgarizzazione, sarà perché non ho origini nobili.
Parliamo delle imprese in fase di partenza, che devono ancora nascere o con
pochi mesi di vita.
Per oltre un decennio ho seguito questi tipi di imprese, spesso come
consulente, talvolta dall’altro lato della barricata, come chi dava credito
di firma (il credito di firma è una forma diversa e talora complementare al
credito di cassa, cioè la moneta). Ebbene, per la mia esperienza su centinaia
C’È UN’ALTRA COSA CHE DEVI SAPERE PRIMA DI ANDARE IN BANCA
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di casi, la stragrande maggioranza delle imprese nascenti aveva il seguente
approccio: NCB. Notaio, commercialista, banca.
Qualche volta, con diversa speranza di successo, il contributo a fondo perduto
o agevolato. Di capitale proprio, nessuno aveva mai parlato a queste persone.
Non alle donne, non ai giovani, non ai meno giovani o alle persone che
costituivano un’impresa magari dopo decenni di esperienza.
A me preme invece ricordare sempre che in finanza esistono due e solo due
forme di capitale: il vostro e quello degli altri.
Di queste due forme, il loro rapporto varia invariabilmente negli anni del ciclo
di vita di un’impresa in modo statisticamente e tendenzialmente uguale e
noto.
Non è noto invece il fatto, che poi si scopre tristemente nella prassi, che
l’approccio che io chiamo NCB non paga. Perché?
Perché i primi due sono pagati, ma la terza, la banca, non pagherà voi.
La ragione è che, diceva mia nonna, la banca darà preferibilmente i soldi a
chi non ne ha bisogno.
C’È UN’ALTRA COSA CHE DEVI SAPERE PRIMA DI ANDARE IN BANCA
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Il denaro è sovranoLa sintesi di quanto scritto nei precedenti capitoli sul finanziamento di
una impresa è riassumibile in due concetti semplici: prima, bisogna saper
calcolare il fabbisogno finanziario (quanto ci serve di cassa), dopo bisogna
sapere la tipologia (che tipo di cassa ci serve).
Quanto al secondo aspetto, si è detto altrove che non tutta la cassa è uguale,
e che esistono due grandi tipologie di denaro: il denaro vostro, e quello
degli altri.
Preciso che per denaro vostro intendo quello dei soci, quindi se decidete di
fare entrare un socio nel business, ai fini del lettore esterno, come posso
essere io oppure una banca, quello è denaro vostro, cioè della vostra società.
Mi pareva un inciso opportuno perché apre altre considerazioni.
Il finanziamento con una o l’altra forma prevalente di capitale varia nelle fasi
del ciclo di vita di un’impresa.
I testi di finanza distinguono molte tipologie, ma a me preme la semplicità, e
quindi considero solo 3 grandi categorie: per me il discorso è abissalmente
diverso se voi siete una impresa nascitura o appena nata, se siete un’impresa
affermata e matura o se siete un’impresa a metà, cioè in fase di crescita.
Queste sono a mio parere le tre grandi categorie di pensiero nella negoziazione
dei capitali.
Ve ne è una quarta, in realtà, oggi di grande importanza purtroppo, quella
C’È UN’ALTRA COSA CHE DEVI SAPERE PRIMA DI ANDARE IN BANCA
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delle imprese in fase di liquidazione, ma è per il momento un mondo che
lasciamo fuori dalla nostra indagine su queste pagine.
Cosa bisogna sempre ricordare di queste tre grandi categorie?
Che i finanziatori esterni (vale per le banche ma anche per chi porta capitale
proprio in società) sanno bene una cosa che spesso si dimentica: come girano
i flussi di cassa prima dei finanziamenti.
Torno sempre su questo concetto, perché è quello chiave per capire la finanza.
La finanza riguarda i finanziamenti, ma ciò che serve a chi finanzia è capire
quali sono i flussi prima del suo intervento.
Teoria? Niente affatto.
Vi racconto quello che mi è successo ieri.
Primario operatore immobiliare, si presenta con me in un istituto di credito
per la prima volta a parlare con il capo area settore imprese.
Per la prima parte della chiacchierata presenta ciò che ha realizzato in passato
(e questo è giusto).
Per la seconda parte della chiacchierata presenta il proprio nuovo progetto,
raccontando che vale ora un certo numero di milioni, che ne varrà dopo
l’intervento un valore maggiore e che darà un reddito annuo di una certa
somma (e questo è sbagliato).
C’È UN’ALTRA COSA CHE DEVI SAPERE PRIMA DI ANDARE IN BANCA
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Preciso, io avevo già detto come la pensavo al mio cliente, prima di entrare in
banca, e non mi ero affatto messo d’accordo con il capo area.
Fatto sta che al termine della sua esposizione il capo area dice al mio cliente:
“Tutto bene, ma mi spiega con un business plan quali sono i flussi di cassa attesi dall’operazione?”
E poi aggiunge:
“Sa, cash is king.”
All’uscita il mio cliente mi dice:
“Hanno usato la stessa frase che mi aveva detto Lei: cash is king.”
“Certo - dico io - non ho mica l’esclusiva su quella frase, semplicemente io
so che in ambito finanziario si ragiona così.”
“Aveva ragione - mi dice il cliente - allora dobbiamo preparare un business
plan coi flussi di cassa, altrimenti non ci valutano il progetto.”
Racconto ogni tanto degli aneddoti un po’ per spezzare una trattazione di
temi che potrebbe sembrare altrimenti noiosa, e un po’ per fare notare come
le teorie siano alla base della pratica quotidiana.
Il denaro è sovrano, indicare i flussi di cassa prima dei finanziamenti è il solo
modo per essere giudicati interlocutori credibili nel mercato della finanza
aziendale.
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Ora, questo serve in pratica a due cose:
1. a valutare la quantità di denaro necessario per ogni piano futuro;
2. a stabilire con ragionevole approssimazione quale tipologia di denaro
sia necessaria, cioè quanta parte debba essere di capitale proprio (la
devono mettere i soci) e quanta possa essere di capitale di debito (la
può mettere una banca).
Questo, dipende certamente in primo luogo dal tipo di progetto e di necessità,
ma è fondamentale distinguere nelle tre grandi tipologie del ciclo di vita.
Per ragioni tecniche e in parte psicologiche le regole, come vedremo, saranno
completamente diverse.
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Perché tu non valiRicordate una nota pubblicità?
Perché io valgo.
Poi per renderla politically correct l’hanno cambiata in “Perché tu vali.”
Invece, tu lettore, non vali un bel niente, per la classe politica.
Le piccole e le micro imprese fanno quasi il 95% delle imprese italiane.
“Ah - dirà qualcuno - ma i piccoli sono robetta, quel che conta sono le grandi
imprese, perché danno occupazione.”
Accetto la sfida: l’Italia è fatta di piccole e di micro imprese e le micro imprese
occupano il 48% dei lavoratori dell’economia privata.
A me risulta che sull’impresa privata si regge una nazione.
Parimenti, in finanza aziendale, occorre ricordare sempre - ma già lo sapete
- che voi imprenditori avete un socio occulto, che si chiama Stato, che vi
succhia abbondantemente più della metà del vostro reddito (non cito
percentuali sulla pressione fiscale, tanto sono tutte false, e lo sapete).
È così, e sapete che ci prendono in giro, perché scrivono sui giornali che
abbassano la pressione fiscale, quando in realtà i dati sono truccati dal fatto
che riducono le spese deducibili, e quindi alzano la base imponibile.
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Naturalmente, ci sentiamo ancora più derisi dal fatto che noi paghiamo le
tasse per poi leggere che il PIL in Italia è in realtà ben maggiore, considerando
il nero, la droga e le prostitute.
Il che, con riferimento alla terza categoria, ci dà un’idea del dove andrà questo
Paese.
Il risultato è che ogni anno la pressione fiscale sulla piccola impresa aumenta
(i grandi sanno come eludere le tasse).
Non possiamo dedurre più - se non in maniera irrisoria - molte spese, viaggi,
ristoranti, telefoni, spese di rappresentanza e di marketing, costi un tempo
deducibili e chiaramente riconducibili al fare impresa.
Sarete anche d’accordo sul fatto che in teoria la classe politica in democrazia
viene eletta dalle persone.
Parimenti, allora concorderete sul fatto che se lo Stato è in società con le
imprese micro, piccole, medie e grandi, e che se la somma fa cento, avere il
48%, sapendo che le altre tre categorie hanno percentuali minori della vostra,
vi pone nella incredibile condizione di azionista di maggioranza.
Forse non ci avete mai riflettuto, piccoli imprenditori, artigiani e liberi
professionisti, ma voi date da mangiare alla maggioranza dei dipendenti
italiani.
Se seguite il mio ragionamento, se il voto dei politici dipende dalle persone,
e se di quelle persone voi occupate circa la metà, e se lo Stato è in società
occulta con voi e dal vostro reddito trae il suo sostentamento, allora voi
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dovreste avere il peso di un azionista di maggioranza relativa nelle decisioni.
Mi seguite?
Ora, vi pare che il vostro peso decisionale sia quello di un azionista di
maggioranza relativa?
A me, che mi occupo di finanza aziendale e di rapporti delle imprese con le
banche, non pare proprio.
Anzi, avendo fatto il deputato in Commissione Finanze alla Camera, posso
testimoniare che mai le istanze dei piccoli siano mai state prese in alcuna
considerazione.
Al contrario, la situazione che io fotografo è la seguente.
Sono state introdotte regole anglosassoni (le cosiddette regole di Basilea, per
sintetizzare) giustissime a mio parere, ma in un contesto di paese latino.
Quando andate in banca, vi parlano di rating e di cose che spesso non
capite, e non vi danno il credito.
Strano, in un paese normale, a chi occupa circa il cinquanta per cento delle
persone bisognerebbe dare credito, penso io.
Vi pare sia così?
Apro questo inciso non perché io pensi che si possa cambiare questo stato di
cose - non ci credo più da 18 anni - ma perché penso che voi siate nel Far West.
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Se voi pensate che vi sia qualcuno che possa farsi carico delle vostre istanze
e rendervi giustizia, allora vi invito a rivolgervi ai fratelli Grimm, perché voi
amate le favole.
Io qui parlo della dura realtà, e affermo che se vivete nel Far West, dovete
avere la pistola al fianco per vivere.
Fuor di metafora, io credo allora che sapere, informarsi, conoscere, studiare,
non sia un fatto di amore della cultura: credo sia un fatto di sopravvivenza.
O andate in un altro mondo, oppure dovete conoscere le regole di questo, e
non di uno ideale.
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L’agnello sacrificaleDiamo una risposta all’apparente assurdità del trattamento riservato alla
piccola impresa italiana.
Questa produce reddito e occupazione, eppure non ha alcun ruolo.
Per mia diretta esperienza sia della piccola impresa sia del mondo politico,
tento una mia personale lettura della situazione.
Partiamo dal fatto che i due mondi non dialogano.
Uno chiede oggi la riduzione della pressione fiscale per rilanciare gli
investimenti, l’altro risponde parlando di riforma della legge elettorale.
Uno risponde che l’una è propedeutica all’altra azione di governo: sarà.
Non so voi, ma io sono almeno vent’anni che aspetto una politica a favore del
tessuto produttivo.
Partiamo da un presupposto: la politica è per me la più nobile delle
occupazioni umane, nulla ho mai immaginato di più elevato moralmente e
ideologicamente.
Purtroppo, il mondo che io conosciuto mi ha condotto a una mia personale
definizione della politica pratica.
Se la definizione mia teorica è che la politica sia la più nobile delle arti, in
quanto finalizzata al benessere collettivo, la mia definizione pratica è diversa.
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Ciò che ho visto in Parlamento mi ha costretto a una definizione che non si
trova certamente sui manuali universitari di scienza della politica.
Io definisco la politica come segue: la politica è l’arte di acquisizione del
consenso, finalizzata all’esercizio del potere, nell’interesse di chi lo esercita.
Ora, partendo da questa mia constatazione della realtà, ben diversa dai miei
studi teorici, ritorno alla finanza aziendale.
Il primo punto per consentire alle imprese di sopravvivere sarebbe quello di
metterle in condizione di produrre ricchezza.
Per me produrre ricchezza vuol dire produrre soldi, in modo che, alla fine
dell’anno, l’imprenditore ne abbia di più.
Non conosco un altro fine del fare l’imprenditore che non sia quello di fare
soldi.
Mi rendo conto che è brutale, ma la verità per me è questa, il resto è contorno.
Se però il socio in affari occulto, lo Stato, assorbe più della metà del reddito,
alla fine le imprese risultano poco bancabili.
La scelta diventa: pago meno tasse o sono bancabile.
Prendetelo come un assioma, ci torneremo.
Perché, ci chiediamo, non si consente alle imprese italiane di tornare
competitive?
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Perché, semplicemente, la classe politica non vuole.
Non vuole, in quanto le micro e le piccole imprese italiane sono soggetti senza
rappresentanza.
Non hanno alcun peso politico, né gli imprenditori, né i loro dipendenti.
Possono essere licenziate migliaia di persone in una città perché stanno
fallendo decine di imprese e non leggerete una sola riga sui giornali locali,
ma se dieci dipendenti di una società partecipata pubblica vengono messi in
mobilità, troverete i sindacati in piazza, interpellanze in Consiglio comunale
e titoloni di prima pagina.
Questa è una società in cui chi produce reddito non ha alcuna tutela, e in cui
l’ingiustizia sociale è il prezzo del mantenimento dello status quo.
Negli ultimi decenni del Novecento, si è progressivamente aumentato il peso
del Sistema Pubblico, pagato dal tessuto produttivo, fino a che oggi la macchina
pubblica consuma oltre la metà del prodotto interno lordo nazionale.
Il sistema andava bene, poiché in una economia in crescita la pressione
fiscale, per quanto alta, era sopportabile.
Oggi, in un’Italia nel quale l’economia vale quanto i BOT (zero virgola), ci
sono due Paesi: in uno si soffre lacrime e sangue, nell’altro si annunciano le
riforme.
Il patto siglato all’epoca era che il dipendente pubblico, a fronte di una
sostanziale inamovibilità, avesse una retribuzione mediamente inferiore.
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Oggi, il sistema privato soffre la disoccupazione e la rateazione con Equitalia,
mentre quello pubblico rimane intoccabile.
Paradossalmente, per non andare allo scontro sociale, invece che ridurre
la pressione fiscale per aumentare la competitività e ridurre privilegi
anacronistici e ormai insostenibili, si preferisce da parte della classe politica
adottare manovre atte ad aumentare la pressione fiscale su coloro che non
hanno alcuna difesa, alcuna tutela, che possono morire in un angolo in
silenzio: i micro e i piccoli imprenditori.
Non mi venite a parlare di rappresentanza di categoria e associativa, perché
quella tutela i grandi nomi, non certo i piccoli.
Per il politico, una grande impresa è un problema, decine di migliaia di
micro e piccole imprese sono un numero.
Non è casuale ciò che sta avvenendo, è un comportamento cinico e
sconsiderato.
Chi vuole sopravvivere deve conoscere le regole della finanza aziendale,
poiché, a mio parere, confidare nel buon senso della politica sarebbe folle.
Il politico non è scemo, conosce i vostri problemi; semplicemente, non ha
interesse a scontrarsi per risolverli.
Voi piccoli imprenditori siete, e rimarrete, agnelli sacrificali sull’altare del
consenso organizzato e tutelato.
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Cosa succede se vai in emergenza?Un viaggio di mille miglia comincia con un primo passo, si narra dicesse Lao
Tzu.
Quante volte hai sentito dire che in banca tutto è già deciso e che il tuo
credito dipende sostanzialmente dal rating e dai tuoi numeri del passato?
Oppure ti è stato suggerito di fare delle cose per migliorare i numeri futuri.
Sono d’accordo con chi ti ha dato questi consigli, ma osservo anche che, nel
lungo periodo - come ci ricorda un noto economista del secolo scorso - siamo
tutti morti.
Prima che tu faccia gesti scaramantici, preciso il mio pensiero: lo sanno anche
i bambini che è meglio essere ricchi che poveri, aver capitale proprio che non
averlo e che aver ottimi bilanci è meglio che aver bilanci con dei problemi.
Ti posso anche dire che, senza scomodare i sistemi di rating, a un esperto basta
sfogliare un bilancio per capire se l’azienda è bancabile e in quale misura.
A quel punto, se ci sono problemi, è pacifico che si debba intervenire per
ristrutturare radicalmente l’azienda.
Talvolta io, analizzando finanziariamente un bilancio, dico al mio cliente che
il problema non è finanziario, ma economico, e da lì si parte a ricostruire
l’azienda.
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È indubbio, che questa sia la via maestra.
Ma ho una sola domanda: quanto tempo ci vuole?
Per mia cultura, il tempo è l’unica risorsa scarsa in natura.
Per questo, ha tanto valore.
Ma quando vai in banca, oggi, hai bisogno di una soluzione immediata: sei in
emergenza.
Qualche giorno fa ho visto un video su YouTube sull’atterraggio forzato di un
aereo.
Il pilota spiega, con voce pacata, che non dovrebbe mai succedere di dover
fare un atterraggio di emergenza, ma succede e quando succede, bisogna
sapere cosa fare.
Non nei mesi, non negli anni, ma nei minuti, subito.
L’emergenza non ti lascia il tempo di correggere.
Allo stesso modo, diamo per un fatto che voi abbiate bisogno di credito domani
mattina, e che abbiate un’azienda non ottima, ma nemmeno scadente.
In un caso avete tutto in ordine, e non vi serve una procedura d’emergenza,
nell’altro vi hanno tirato un missile terra-aria, e non c’è procedura di
emergenza che regga.
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Io parlo della realtà, non dei libri, parlo della maggioranza delle imprese
italiane, che non fanno pianificazione finanziaria e che hanno dei problemi
finanziari (anche perché non hanno fatto pianificazione).
A quel punto, devono andare in banca.
Questo è il quadro, non idilliaco, ma realistico: avete un aereo che vola, ma
con problemi di motore.
A me non interessa il mondo dei sogni, il mondo del “tutto è bello”, il mondo
dei modelli teorici, il mondo ovattato dei convegni paludati e delle poltrone
in velluto rosso.
A me interessa fornire una risposta concreta a chi è in emergenza, cioè a tutti
gli imprenditori che, per mancanza di conoscenza specifica della materia, o
perché spesso consigliati male, fanno errori banali.
Esistono due grandi questioni che ti riguardano, se sei un imprenditore.
Sono il tuo comportamento e il tuo linguaggio, quando vai in banca.
Sono cose importantissime, che pochi conoscono.
Molti di voi vanno a braccio, indottrinati da chi ha una cultura diametralmente
opposta a quella di chi vi riceve dietro una scrivania.
Quindi, dite e fate le cose sbagliate, e non dite e fate quelle giuste.
A parità di numeri, ripeto, sono tutti capaci a far finanziare le imprese
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eccellenti, quelle coi rating sintetici perfetti.
Ieri, una figura importante di una banca, mi ha detto il motivo per cui non
avrebbe voluto lavorare con un imprenditore: perché manca di cultura
finanziaria - mi ha detto.
E ha ragione.
Poi, i rating confermeranno il suo giudizio, guarda caso.
Cultura finanziaria non è teoria, è pratica.
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Zombies a caccia di soldiAlle volte la gente mi chiede come fare a ottenere denaro dalle banche.
Per cominciare, sarebbe opportuno sapere come fare a non farselo dare, in
modo di fare l’opposto.
Pare incredibile, ma ci sono una serie di comportamenti tipici, invero piuttosto
ripetuti e standardizzabili, che sono osservabili in tutti i casi di insuccesso.
Voi non ci crederete, ma in giro, ci sono.
Ne parlo spesso con chi è dall’altra parte della scrivania, cioè chi ha un ruolo
decisionale in banca.
“Li vedi arrivare” - mi dicono - “e sono tutti uguali, commettono tutti gli
stessi errori. Sì, certo, poi abbiamo le conferme dai rating, ma li vedi subito,
quelli che non sono sani, perché si comportano da malati”.
“Sembrano dei non morti e dopo questa crisi” - raccontano - vagano per le
banche come Zombies”.
Ora, di cosa sto parlando?
Di imprenditori (o loro consulenti) che non hanno compreso due cose
importanti.
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Ne avete conferma se leggete ciò che dicono per strada e che scrivono sui
social, prendendosela con il commercialista, con le banche cattive, con il
governo (per definizione ladro).
Non hanno nemmeno il dubbio di essere loro, ormai, fuori dalla normalità, e
che il mondo è cambiato.
Ciò che è successo con la crisi che ci sta colpendo da anni ha avuto una
ripercussione sul mercato del credito, le cui regole sono state stravolte.
Questo ha comportato non solo un cambiamento, ma una vera e propria
rivoluzione, in due cose: nel comportamento e nel linguaggio.
Queste sono le due cose principali che sono state rivoluzionate nel
commercio di credito, cioè nel rapporto tra banca e impresa.
In pratica, come puoi fare per stare vivo? Non comportandoti come un malato.
Perché?
Perché il credito dipende dai rating, ma in ultima analisi questi danno una
misura del rischio percepito.
La prima cosa da fare domani mattina è cambiare - per non aumentare la
percezione di soggetti a rischio - queste due cose: comportamento e linguaggio.
Queste sono le due determinanti comuni a tutti i casi di insuccesso del
commercio di denaro.
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Non esistono casi di successo nei quali l’imprenditore, anche se con buoni
numeri, non abbia oggi un comportamento e un linguaggio coerenti con quanto
richiesto dalle regole commerciali attuali, anche perché, invariabilmente, chi
ha comportamento e linguaggio corretto ha anche buoni numeri.
Me lo diceva ancora ieri sera una figura con rilevante potere decisionale in
ambito bancario:
“Gli imprenditori che finanziamo, oggi, sono quelli che si comportano
in un certo modo e usano un certo linguaggio.”
Cosa vuol dire - praticamente - comportarsi in un certo modo?
Non fare gli errori classici, tipici di coloro che gestiscono un’azienda malata
o destinata ad ammalarsi.
Naturalmente, ancora una volta, sto parlando di azioni per agire praticamente,
sulla vostra impresa, da domani mattina.
I numeri storici, cioè i risultati di bilancio, non sono modificabili né dal
linguaggio, né dal comportamento, e se sono impresentabili nulla potete fare,
almeno nel breve.
Tuttavia il vero, drammatico problema delle imprese italiane è un altro.
Le nostre imprese si trovano oggi in maggior parte in un’area grigia, in un
limbo in cui non è facile, per una banca, scegliere se intervenire o meno.
Trovatemi, su un campione di cento micro, piccole e medie imprese, in
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qualsiasi zona d’Italia, dati di bilancio per i quali la maggioranza degli indici
siano impeccabili.
Non esiste una situazione del genere.
Nel mondo reale, servono consigli pratici.
Quindi, io vi consiglio la cosa più pratica che possiate fare, se volete continuare
ad aver credito: cambiate la vostra testa.
Adottate un Sistema di Gestione Finanziaria, ponendo al centro della vostra
impresa la finanza aziendale.
Cambiate comportamento e cambiate linguaggio, perché sono due cose che
potete fare da subito, e sono propedeutiche a cambiare i risultati.
Significa cominciare a parlare di pianificazione finanziaria.
Cambiare testa è difficile ma possibile, e vuol dire cambiare cose molto
concrete: come vi comportate e come parlate con le banche.
E fatelo in fretta, prima di sembrare, a chi opera in questo mercato, degli
Zombies.
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Il dado a sei facceSuccede spesso che l’imprenditore (o il suo consulente) si lamenti del fatto
che la banca non ha capito il suo progetto, la sua esigenza, la sua idea.
Altrettanto spesso che si aggiunga che le banche sono sempre le solite, che
danno i soldi a chi non ne ha bisogno, o che chiedano garanzie spropositate.
Queste sono le obiezioni o le scuse a giustificazione di un insuccesso
commerciale, cioè di un diniego del credito o - il che è lo stesso - di una
proposta giudicata inaccettabile.
Alla fine, molti pensano che tale diniego sia dovuto al famigerato “rating”,
la parola magica dietro la quale qualcuno si trincea per motivare qualcosa di
inesplicabile, di misterioso, di inoppugnabile.
“Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare.”
Ora, senza andare all’inferno, la banca è - tutto sommato - un posto più
ospitale. In questo posto il diniego, quasi sempre, è dovuto al fatto che loro
probabilmente non hanno capito la potenzialità del vostro business, ma
certamente voi non siete stati in caso di spiegarlo e soprattutto documentarlo,
nei fatti e nei comportamenti.
Sembrerà paradossale ma ogni colloquio bancario ruota sempre su un dado
a sei facce.
Guardate, se io mi portassi un dado a sei facce in tasca, e ascoltassi le domande
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che vi fanno in banca, vi potrei dire con assoluta certezza:
“Ecco, adesso ti stanno facendo una domanda del lato uno, ora invece ti stanno facendo una domanda del lato sei.”
Sempre quelle sono, le domande girano sempre attorno al dado a sei facce.
Ora, è un po’ come quando da ragazzo andavo ad ascoltare gli esami.
Alla fine, i professori sono un po’ ripetitivi, sembra che sappiano tante cose,
ma alla fine vi interrogano sempre sulle solite quattro fesserie, perché a quelle
quattro cose sono davvero interessati.
La prima grande categoria di domande verterà sul “Chi sei”, Perché vogliono
capire con chi hanno a che fare.
La seconda categoria riguarda invece l’oggetto della discussione, ma
attenzione: tutti sanno parlare di cosa vogliono fare e di cosa hanno bisogno,
ma pochissimi lo sanno tradurre nel linguaggio, nella parola magica che
interessa al tuo interlocutore, che io nel video ti ripeterò.
La terza categoria di domande riguarderà il tempo: in quanto tempo mi riporto
indietro i soldi? Questo, è il loro pensiero, e tu dovrai capire che il discorso
prenderà una piega diversa a seconda dell’oggetto, cioè del punto precedente.
La quarta categoria riguarderà il controllo: ti faranno domande per capire
come ti possono controllare. Non equivocare, non ha una accezione
necessariamente negativa, semplicemente significa capire quale tipo di
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rapporto intendi avviare con loro, in termini di frequenza e intensità di
rapporto.
Guarda che questo è essenziale, perché la banca non è solo una bella donna
che si nega: è anche gelosa.
La quinta categoria ne è un corollario: quanto lui - si chiede la banca - crede
in me? Voi andate sempre in banca, ragionando sul fatto che la banca deve
credere nel vostro progetto, nella vostra azienda, in voi.
Nel mio metodo, ti insegnerò che i casi di successo sono quelli in cui
l’imprenditore ragiona in modo laterale e rovesciato, mettendosi nei panni
dell’altro quando negozia, e ponendosi quella domanda, perché sa che gliela
faranno.
E stai attento, perché se tu sai gestire le obiezioni e sei preparato sulle
domande, potresti trarre grande vantaggio da situazioni apparentemente
spinose, che di solito rifiuti di discutere, candidandoti a perdere l’affare.
Infine, la sesta categoria riguarda sempre la domanda: e io, mi posso fidare di
lui? Ovviamente, questa sesta faccia del dado potrà avere domande diverse se
siete già cliente, o se siete nuovo cliente, ma state certi che le banche, come
mi dice un amico che ci lavora con grande potere decisionale “guardano
sempre il cliente, ogni giorno, con occhi nuovi”.
Per farsi capire bisogna prepararsi con metodo e disciplina su queste sei
facce, perché invariabilmente, per qualsiasi progetto, per quanto varie siano
le problematiche e le questioni, sempre quelle verranno girate sul tavolo.
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E le gireranno tutte - siatene certi - quindi preparatevi su questi sei argomenti,
perché le banche, come i professori, sono prevedibili, e chiedono sempre le
stesse parti del programma.
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Mago Merlino e la sua bacchettaQuando si parla di soldi, si dovrebbe solo parlare di cose serie.
Paradossalmente, nel mercato del credito circolano invece dicerie e leggende
sul fatto che sia possibile aggirare, evitare, e - diciamola tutta - ingannare i
controlli bancari.
Oh, se ne ho conosciuti.
Girano vestiti da prestigiatore, e ammaliano l’imprenditore con voce suadente,
indicandogli sempre una scorciatoia sorprendente.
L’Italia ha un po’ la cultura della scorciatoia, e sempre c’è qualcuno disposto a
credere - perché in cuor suo vorrebbe che fosse così - che invece di affrontare
gli ostacoli sia possibile evitarli.
Fatta la legge, trovato l’inganno, recita un adagio popolare.
Peccato che le regole della finanza siano internazionali e non italiane, e che
coi soldi (degli altri, soprattutto) non si scherza.
Non esistono le scorciatoie, esiste il duro lavoro, per ottenere il merito
creditizio.
Il merito creditizio dipende dai numeri e dai comportamenti, che prima
ancora dipendono dalla cultura.
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Lo so, quando parlo di cultura, sempre qualcuno storce il naso, perché suona
come teoria, aria fritta, fumo, parole vuote.
Nulla di più sbagliato, mi duole contraddirvi.
La cultura è la cosa più pratica che ci sia, tanto che domina il commercio, e
quello degli affari soprattutto.
Negli ultimi tempi ho conversato spesso con uomini e donne di banca con
elevato potere decisionale, giungendo a una conclusione, che traggo dalle loro
opinioni: il primo punto dal quale partire, per ottenere credito, è la cultura.
“Come,” - chiederete voi - “ma non si deve partire dai numeri?”
Certo, e infatti i numeri parlano per voi.
Ma quali numeri?
Se ascoltate i prestigiatori, quelli che amano le scatole cinesi e i tarocchi,
tirerete fuori dei numeri strani.
Poi, quei numeri, li consegnerete in banca, fiduciosi del fatto che il vostro
spettacolo non sia mai smascherato, e forse avrete successo, talvolta, ma
sempre nel breve termine.
Se intendete impostare il vostro comportamento abituale su questa cultura,
state pur certi che - molto prima che poi - sarete scoperti.
Perché, prima o poi, vi beccano.
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E allora, non ci fate una bella figura, ma soprattutto vi siete bruciati, per
sempre, una risorsa.
Volete un consiglio pratico?
Bene, allora ve lo regalo: non mentite.
Non è arduo da capire, ma è molto difficile da applicare.
Capisco di essere una voce fuori dal coro, e so bene che l’obiezione più
ricorrente sia:
“Scusa, ma tu, da che parte stai?”
Dalla tua, caro imprenditore.
Proprio per questo, lungi dal blandirti con voce suadente e melliflua,
suggerendoti soluzioni mirabolanti e fantasiose, dato che ho origini contadine,
intendo proprio, da buon ragazzo di campagna, darti un consiglio pratico:
manda al diavolo i suggeritori di scorciatoie, e sii chiaro e trasparente,
scegliendo la via maestra dell’onestà intellettuale.
Questa è la regola numero zero, per aver credito con le banche.
“Anche se mi gioca contro?” - chiede sempre qualcuno.
La mia risposta è che la dimensione di un imprenditore è il lungo termine,
e che in una azienda (come nella vita) la correttezza - alla lunga - paga
sempre.
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La banca ama finanziare la realtà, non l’illusione.
L’uomo di banca ama la persona leale, che espone con schiettezza i propri
problemi alla ricerca di una soluzione, chiedendo e pretendendo chiarezza
di risposte.
Forse, pensi che io sia un idealista.
Allora, fai bene a seguire le sirene che ti blandiscono per trascinarti a fondo.
Se invece trovi che le mie parole abbiano un fondo di verità, la prossima volta
che incontri un prestigiatore, ascolta un mio consiglio pratico: digli di andare
in un altro cortile a fare il suo mirabolante, patetico, spettacolo.
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ConclusioniIn queste pagine ho cercato di spiegare in termini molto semplici come può
una piccola impresa sopravvivere oggi nel mondo delle banche.
Sì, è ormai questione di vita o di morte, di successo o di fallimento: nessun
imprenditore più più permettersi di non avere una adeguata cultura bancaria.
Sin da quando, nel 2014, decisi con il mio socio Massimo Bolla di sviluppare un
progetto di formazione sul sistema delle piccole e micro imprese italiane, avevo
ben chiaro che il sistema bancario italiano era in profonda trasformazione e
che il sistema imprenditoriale non era affatto quello descritto nei convegni
che, da anni, trattavano di piccola e media impresa.
A mio modo di vedere, da vent’anni si stavano palesemente descrivendo cose
che non esistevano.
Non esiste affatto in Italia un mercato di piccola e media impresa, come esiste
in Europa continentale o nel mercato anglosassone.
In Italia esiste un mercato di micro e piccola impresa e, non a caso, quelle sono
le aziende a cui mi rivolgo con la mia società di formazione WINtheBANK.
La ragione di tale scelta appare oggi chiara ai più: quel mercato non è
presidiato da nessuna società di consulenza adeguata, né da alcun soggetto
formativo evoluto e moderno.
Vent’anni di convegni, corsi gratuiti, corsi associativi o di ordini professionali,
seguiti talora come discente, talaltra come docente che doveva svolgere ben
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precisi programmi, mi avevano convinto di tale dura affermazione.
Il linguaggio usato in tali contesti aveva due caratteristiche: era avulso dal
mondo del destinatario di tale formazione ed era perfino lontano dalle reali
prassi del mondo bancario e tutto questo perché i relatori, spesso del mondo
accademico o del grande giornalismo o della politica, parlavano di temi aulici,
di grandi problemi e delle trasformazioni in atto, ma non sapevano calarsi
nella realtà operativa del piccolo imprenditore manifatturiero, dell’artigiano,
del commerciante, dell’azienda del turismo o dei servizi, quel mondo in cui
il mio socio Massimo Bolla ed io abbiamo esperienza attiva ultra ventennale.
In poche parole, nel mondo dell’Italia vera; quello della micro e piccola
impresa.
Quel mondo che si è presentato così del tutto impreparato alla trasformazione
epocale che ancora non è completata e darà ulteriori grossi grattacapi in un
futuro molto prossimo.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti, ma nessuno evidenzia con chiarezza il
fenomeno e soprattutto addita il vero responsabile del disastro: la mancanza
di conoscenza.
Sia ben chiaro, io non espongo una mia opinione.
Al contrario, riporto ciò che, in una ricerca che ormai dura da quasi tre anni,
ho effettuato dichiarando che “io so di non sapere”.
Il dubbio cartesiano, del resto, mi ha portato a un percorso di maggiore
conoscenza, attraverso il rigore metodologico.
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Ho voluto qui spiegare l’origine del processo conoscitivo che mi ha condotto
a scrivere, tra mille altre cose, questo libro ed a realizzare, primo in Italia, i
manuali di negoziazione bancaria che oggi insegno ai piccoli imprenditori nei
nostri Corsi WINtheBANK.
Tale origine risiede nella consapevolezza del fatto che nessuno può insegnare
se non conosce i fatti, dall’interno, ed io sono andato alla fonte, nel cuore
delle banche, a vedere perché finanziavano talune aziende e talaltre no.
Ora anche tu hai la possibilità di fare il mio percorso frequentando i miei corsi
pratici WINtheBANK.
I miei maestri sono stati, così, coloro che all’interno del sistema bancario
lavorano e tutto questo grande lavoro è confluito nel vastissimo materiale
leggibile, visionabile, ascoltabile e scaricabile gratuitamente sul sito
www.winthebank.com e che puoi imparare con grande facilità nei corsi
WINtheBANK.
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