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Bollettino n. 4 Bollettino di SOS scuola n. 4 A.s. 2008/2009 ITC “V. Cosentino”

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Sos Scuola

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Bollettino n. 4

Bollettino di SOS scuola n. 4

A.s. 2008/2009

ITC “V. Cosentino”

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Per saperne di più http://www.sos-scuola.it Finito di stampare: settembre 2009 Distribuzione gratuita Impaginazione a cura di Chiara Marra

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Indice

Sentinella, quanto resta della notte? p. 1 I cento passi 12 La notte di Natale di Vincenzo Padula 15 Memoria e identità di Giovanni Paolo II 19 Il Gattopardo 26 Il mare non bagna Napoli di A. M. Ortese 32 La tregua 34 Gita a Palermo 37 Sui passi degli uomini e delle donne di preghiera 40 La VB mercurio per Famiglia Aperta 43 La III C di San Lucido per Famiglia Aperta 54 SOS scuola per la vita 57 Un affare molto sporco 61 Firmino di Sam Savage 72 Segni sulla sabbia. Note di viaggio di Tommaso Cariati 75

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Sentinella, quanto resta della notte? Vedo molte luci, amico, ma il giorno tarda a venire

(Appunti dei coniugi Chiara Marra e Tommaso Cariati

per la riunione del 9 ottobre 2008 di SOS scuola)

Carissimi amici, da tempo desideravamo incontrarvi intorno a questo tavolo. Purtroppo molti di voi non sono stati presenti a Varco San Mauro per la riunione di bilancio, e il tentativo che abbiamo fatto immediatamente dopo di incontrarci in pizzeria non ha avuto successo, perciò è trascorso moltissi-mo tempo dall’ultimo incontro.

Con questa riunione introduciamo una nuova modalità di lavoro: la rela-zione sarà svolta a più voci. Iniziamo subito l’alternanza, ascoltando la voce di Chiara.

1. Ripartiamo dalla verifica di giugno

Per la riunione di bilancio del terzo anno di vita del gruppo SOS scuola siamo stati invitati a riflettere utilizzando il seguente testo: “Come sai, il gruppo SOS scuola persegue tre finalità: acquisire e trasmettere saperi validi, promuovere una responsabilità piena e favorire relazioni autentiche. Le attivi-tà di quest’anno, e le modalità adottate per viverle, sono state coerenti con gli obiettivi del gruppo? Hai gradito le attività? Ti sei lasciato coinvolgere e hai partecipato attivamente? A tuo avviso, gli altri membri del gruppo hanno vis-suto coerentemente con gli obiettivi le attività proposte? Come ti proponi di cambiare il tuo modo di vivere le attività proposte dal gruppo?”.

La riunione di verifica si è svolta in una bellissima giornata di sole nell’area pic nic di Varco San Mauro, in Sila.

Il primo dato positivo emerso dalla verifica è che il gruppo esiste ed ha continuato regolarmente le attività. Durante l’anno abbiamo affrontato la let-tura di tre libri (Il vento nell’uliveto di Seminara, Lettera ad una professores-sa di don Milani e Misteri d’Italia di Lucarelli); la visione di tre film (Napoli milionaria di De Filippo, Roma città aperta di Rossellini e Buongiorno, not-te! di Bellocchio); e abbiamo vissuto le visite guidate alla ricerca delle nostre radici, una nelle località arbreshe della Calabria (Civita, Frascineto, Lungro), la seconda nella Rossano bizantina, la terza ai paesi grecanici aspromontani (Amendolea, Gallicianò, Roghudi, Bova). Nelle gite si sono ricercate le no-

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stre radici, per meglio definire la nostra identità. Anche la lettura del libro Il vento nell’uliveto e il successivo incontro con Pino Caminiti, insieme al quale il libro è stato commentato, ci ha permesso di avvicinarci alle nostre tradizio-ni e di ripensare quella cultura contadina dalla quale tutti discendiamo.

La visione di Napoli milionaria e Roma città aperta, e la lettura degli scritti di don Milani, invece, hanno allargato il nostro orizzonte della ricerca d’identità, su un panorama più ampio, a livello nazionale, offrendoci uno spaccato delle condizioni di vita, ma anche dei valori e delle speranze dell’Italia nella seconda guerra mondiale e nel dopoguerra.

Il libro di Lucarelli e la visione del film Buongiorno, notte!, infine, ci hanno mostrato l’Italia degli anni ’70 e ’80 e le verità sconcertanti di quel periodo.

Tutte le attività portate avanti da SOS scuola sono state, a parere dei par-tecipanti all’incontro, un importante momento di riflessione e sono state coe-renti con gli obiettivi del gruppo. Un successo particolare hanno riscontrato le gite alle quali è opportuno – si è detto – dedicare in futuro una maggiore at-tenzione perché è un tipo di attività che ragazzi e adulti vivono in modo più rilassato e perciò favoriscono le relazioni.

Si coglie una crescita generale del gruppo, specie nelle relazioni e grazie all’assiduità di alcuni. Non sempre durante l’anno tutti hanno fatto il possibi-le per esserci e per esserci pienamente. Per esempio, è opportuno che ci sia maggiore disponibilità ad assumersi qualche incarico per far crescere l’appartenenza al gruppo e maggiore attenzione ad aspetti quali la presenza alle attività e la puntualità. Il modo per stare nel gruppo è quello della fedeltà agli incontri, della gratuità nelle relazioni, della curiosità nella proposta cultu-rale.

2. L'esperienza dell'estate

Tommaso e Chiara a. Dal 22 al 28 giugno siamo stati a Guardia Piemontese, al Campo scuo-

la della rete “Bambini, ragazzi, famiglie al Sud” sul tema “Costruire reti di vicinanza”. Abbiamo ascoltato relazioni e testimonianze di personalità del mondo del volontariato e del terzo settore, fatto lavori di gruppo e riflessioni.

b. Dall’8 all’11 agosto abbiamo partecipato a una tre giorni a Quaresima, sul lago Arvo, sul tema “Accoglienza ed emergenza educativa”. Abbiamo ascoltato relatori come il sociologo A. Costabile e il biblista padre Pino Stan-cari, partecipato a lavori di gruppo e riflettuto su temi di grande attualità.

c. Dall’11 al 14 agosto abbiamo partecipato al campo biblico con padre Pino Stancari a Capo Rosa, nei pressi del lago Ampollino, dedicato alla lettu-

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ra dell’Apocalisse. Abbiamo pregato, meditato, ascoltato la lettura che via via padre Pino ci proponeva, camminato nei boschi al mattino presto.

d. Dal 20 al 24 agosto abbiamo partecipato al raduno nazionale delle Equipe Notre Dame, a Nocera Umbra, provincia di Perugia, sul tema dell’“ascolto”. Abbiamo ascoltato relazioni e testimonianze, partecipato a lavori di gruppo con gente proveniente da tutta l’Italia, di diversa età e condi-zione, abbiamo esplorato l’Umbria, camminato sui monti Pennino, Faeto, Subasio, abbiamo pregato, visitato Spoleto e, per l’ennesima volta, Assisi.

Durante l’estate, insomma, oltre che in una specie di “campo di lavoro ora et labora” con gli imbianchini a casa nostra, siamo stati impegnati anche sul fronte delle riflessioni intorno ai temi cari a noi di SOS scuola, come sen-tinelle che scrutano attentamente l’orizzonte nella notte.

Alcuni studenti del nostro Istituto, tra cui Gessica e Leonardo, hanno

fatto un viaggio in Australia. Raccontano: dal 24 agosto al 15 settembre noi e altri otto ragazzi, ac-

compagnati da due docenti della scuola, abbiamo intrapreso un’avventura ma nello stesso tempo un’esperienza che è stata e sarà indimenticabile. Meta rag-giunta: Australia (Melbourne). Durante il viaggio eravamo tutti emozionati, ma anche impauriti di quello che ci attendeva giunti lì. Dopo 22 ore di viag-gio, finalmente abbiamo toccato terra, all’aeroporto di Melbourne vi è stato il primo impatto con le famiglie ospitanti. La mattina dopo siamo andati al college ognuna di noi accompagnata dalla sua “hostsister”. Abbiamo trascor-so una bella giornata, abbiamo fatto molte conoscenze e abbiamo visitato la struttura della scuola, dove vi era una piccola chiesa per i ragazzi, dato che era una scuola cattolica. La cosa buffa è stata la divisa che abbiamo indossa-to… al college abbiamo approfondito la lingua inglese e la loro cultura. Ci siamo informati sul funzionamento della struttura scolastica e sulla formazio-ne dei ragazzi. I ragazzi possono scegliere le materie da seguire e c’è una per-centuale molto bassa di bocciati; durante la giornata scolastica fanno due break, uno da 15 minuti e l’altro da 20 minuti. Il venerdì tutti noi insieme ai nostri docenti, sia italiani che australiani, andavamo a fare delle escursioni. Abbiamo visitato lo zoo dove abbiamo visto i canguri, i koala, l’aquila e altre specie di uccelli che si trovavano solo lì. Abbiamo visitato la “Italy town”, dove si trovano molti ristoranti e bar italiani, oltre a residenti di origine italia-na; alcune volte ci sentivamo come a casa nostra.

Rosa ha fatto un viaggio in Francia. Racconta: come docente accompagnatore ho partecipato al corso di for-

mazione per la lingua francese che si è tenuto ad Antibes (FR) dal 15/09/08 al

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26/09/08 presso il CIA Centre International Antibes. Insieme a quindici allie-vi e ad altre due colleghe, la prof.ssa Mariateresa De Grazia e la prof.ssa Iva-na Ferraro, quest’ultima coordinatrice del corso, siamo partiti il 13 settembre alle ore 19,00 e dopo un viaggio abbastanza faticoso in treno, siamo arrivati in Francia il giorno dopo alle ore 16,00. Qui, siamo stati accolti dal personale che si occupa dell’assistenza ai gruppi, che ci ha accompagnato ai nostri al-loggi e dopo a Castel Arabel, uno dei residence della scuola, dove abbiamo cenato.

Il giorno successivo sono incominciati i corsi di lingua presso la sede della scuola, dove venivamo accompagnati in autobus ogni mattina. I corsi iniziavano alle ore 8,30, dopo aver fatto colazione insieme, si interrompevano alle ore 10,00 per la pausa di venti minuti, poi proseguivano fino alle 13,00. Nel pomeriggio gli animatori della scuola ci guidavano nella visita ai posti più belli della Costa Azzurra: Antibes, Cannes, Monaco-Montecarlo, Nizza, Grasse, le isole Lerin dove oltre alle bellezze naturali c’erano da vedere mu-sei di storia, musei d’arte (Picasso, Péynét, il museo d’arte moderna di Nizza) e musei scientifici (il museo oceanografico di Monaco).

È stata, per tutti i quindici giorni che è durata, un’esperienza deliziosa, che ci ha nutrito la mente e lo spirito. La prima, oltre che dall’approfondimento della conoscenza della lingua francese, è stata stimola-ta dal contatto con realtà straniere e dal continuo confronto con queste (gli allievi del CIA erano tutti ragazzi, ovviamente, non francesi) per cui ci siamo ritrovati immersi in una realtà internazionale nella quale il bisogno di comu-nicare emergeva preponderante; inoltre abbiamo potuto osservare i metodi organizzativi e didattici di altre realtà scolastiche europee. Lo spirito è stato nutrito oltre che dalle bellezze visitate, anche dall’atmosfera di grande tran-quillità che ci avvolgeva ovunque andassimo. Si aveva l’impressione di far parte di un sistema dove tutto funzionava, dove le azioni quotidiane si svolge-vano con la più grande naturalezza, dove la buona educazione era la prassi più diffusa, dove studiare e applicarsi diventava così facile che non se ne po-teva fare a meno. Per noi, abituati a sgomitare, è stata una bella rivelazione. Speriamo che queste esperienze di confronto vengano ripetute nei prossimi anni, per poter così creare uno spirito europeo unitario che poggi sulle mi-gliori caratteristiche di cui ogni stato membro è portatore.

Alfio ha partecipato a una visita organizzata dagli Arbereshet di Calabria

nei Balcani. Emilia ha fatto un viaggio in America.

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3. Il buio e la notte

Come sentinelle che scrutano la notte ci siamo trovati immersi in una fitta oscurità, resa spaventosa dalla presenza di spesse nubi.

a. Antonello Costabile ci ha terrorizzati descrivendo un quadro desolan-te, drammatico, della famiglia, dell’educazione, della scuola e dell’università nel mondo frammentato, liquido, complesso.

b. Apriamo i giornali e vediamo che il Mediterraneo fa registrare sbarchi e annegamenti, e non c’è nuova legislazione che tenga, perché quando uno non ha niente da perdere, rischia l’unica cosa che ha: la vita; tanto se non par-tisse la perderebbe lo stesso.

c. Accendiamo la televisione e scopriamo che bande criminali hanno introdotto in Europa dalla Cina, attraverso canali clandestini, migliaia di ton-nellate di formaggio alla melamina, una sostanza utilizzata per fabbricare la plastica. In quel paese anche il latte per i bambini conteneva questa sostanza dannosa per la salute, e le autorità hanno mantenuto la notizia nascosta per tutta l’estate perché erano in corso le olimpiadi.

d. Non dobbiamo del resto dimenticare che ci sono ancora la guerra in Iraq, la paura del terrorismo, le morti sul lavoro e quelle sulle strade, la guer-ra della spazzatura e quella dell’informazione manipolata, e gli scontri xeno-fobi nei nostri quartieri, tutti fenomeni che ci interrogano anche perché non possiamo liberarcene con la bacchetta magica, come qualche governante faci-lone promette di fare.

e. Sullo sfondo intanto prende corpo una politica estera che vede il nuo-vo zar Putin e i padroni della Casa Bianca guerreggiare con le parole, come durante la guerra fredda, ma anche con i cannoni e i carri armati.

f. Abbiamo, sempre sullo sfondo, il disastro economico americano con interventi massicci dello stato liberale nell’economia, per salvare dal falli-mento grandi istituzioni finanziare, le quali hanno giocato d’azzardo con i soldi dei risparmiatori. Per cui non si capisce più che cosa sia il mercato, la concorrenza, la deregulation, la governance. Il mercato è forse un’istituzione che va lasciata libera finché le cose vanno bene e fanno arricchire i potenti, mentre va regolamentata quando le cose vanno male, facendo pagare le con-seguenze ai poveri? Guardate che cosa è successo con Alitalia: la parte sana dell’azienda viene venduta ai privati, la parte decotta viene smantellata, e noi contribuenti paghiamo il costo dell’operazione.

D’altra parte, guardate la Cina. Che cosa è la Cina? Una dittatura comu-nista al vertice dello stato, una potenza capitalistica e industriale emergente: un miscuglio totalmente inedito e aberrante. E pensare che alcuni liberisti nostrani vogliono farci credere che la libertà coincida con la semplice libertà

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d’impresa e di commercio. Come se l’uomo fosse solo ciò che produce e con-suma, o ciò che produce, vende e compra, magari per ostentarlo.

g. Se apriamo i giornali locali ammiriamo, dulcis in fundo, anzi proprio come la ciliegina sulla torta, il disastro criminale di Crotone, dalle gravissime conseguenze umane e ambientali. Che cosa è successo? Migliaia di tonnellate di rifiuti tossici provenienti dal polo industriale di Crotone, voluto, insieme ad altri, negli anni Cinquanta e Sessanta per intraprendere l’industrializzazione forzata della Calabria, sono stati occultati al di sotto di strade, piazze, campi di calcio, villette e palazzi.

D’altra parte, se Adam Smith, il fondatore dell’economia come scienza autonoma, alla fine del Settecento, nel suo importante saggio sulla “ricchezza delle nazioni” aveva affermato che non è grazie alla bontà del macellaio e del fornaio se io la sera mangio la mia bistecca e il mio pane, ma grazie al suo egoismo; se Keynes, il famoso economista del New Deal seguito alla grande depressione del 1929, a chi gli faceva domande sul futuro rispondeva che nel futuro saremo tutti morti; se i sostenitori della shock economy affermano che le catastrofi come uragani, guerre, terremoti, inondazioni sono utili al pro-gresso economico; se queste sono le premesse, che cosa potevamo aspettarci dalla globalizzazione selvaggia e dallo sviluppo tecnologico accelerato?

4. Le luci... e il giorno?

Nel cuore dell’estate abbiamo continuato a ricevere la posta di Dora Ciotta, coordinatrice dell’associazione Famiglia Aperta. Questa donna anzia-na lavora con una caparbietà e una concentrazione veramente invidiabili, riu-scendo a intrecciare e tessere relazioni in modo davvero originale. Così, quando abbiamo ricevuto una lettera di apprezzamento del lavoro di SOS scuola e l’invito a partecipare alla nuova tappa di ricerca promossa dall’Associazione, sul tema “Scegliere la vita nella società del mercato”, ab-biamo deciso di scriverle.

Cara Dora, alla fine di giugno, passando da casa per innaffiare le piante e raccoglie-

re i fioroni di fichi, abbiamo trovato la tua lettera circolare. In quei giorni par-tecipavamo entrambi al campo estivo della rete “Bambini, ragazzi e famiglie al Sud”, organizzato da Gianfranco Solinas e altri amici a Guardia Piemonte-se.

Mentre al campo ci interrogavamo su “volontariato” e “terzo settore” con l’aiuto di autorevoli testimoni e studiosi, i quali andavano disegnando un quadro di crisi del comparto (qualcuno dichiarava, dopo venti anni di impe-

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gno in trincea, che ormai il volontariato non è più possibile), durante il viag-gio di ritorno da casa al campo, abbiamo letto con interesse vivissimo e cre-scente quanto tu dalla tua nuova trincea di Mortara comunicavi a mezza Italia con passione inalterata, anzi accresciuta nel tempo. Allora ci siamo ricordati che Carlo Carretto ci ha lasciato scritto che l’impegno nel sociale, se non è sostenuto dalla preghiera e da una vita spirituale autentica che si alimenta della Parola e dell’Eucarestia, diventa presto sterile. Troppi segnali ci dicono che le esperienze di volontariato e di associazionismo, esaurita la spinta pro-fetica impressa dal fondatore, si affievoliscono, spesso soffocate dal prevalere di strutture organizzative, dalla burocrazia, dal lavoro aggiuntivo richiesto dalla gestione di pubbliche relazioni politiche, finanziamenti, progetti.

Cara Dora, la tua “Famiglia aperta” è un’esperienza seria e viva: ogni tappa di ricerca è un pezzo di cammino di crescita personale e comunitaria per tanta gente; la tua lettera periodica è un sorso d’acqua fresca.

Più tardi poi – prosegue la lettera –, il 14 agosto, di ritorno da un’esperienza biblica con padre Pino Stancari in Sila, durante la quale ci è stata offerta la lettura del libro dell’Apocalisse, abbiamo trovato nella buca delle lettere lo “strumento di lavoro” e il tuo invito a partecipare alla tappa della ricerca su “Scegliere la vita nella società del mercato”. Allora ci siamo detti: «Occorre fare il possibile per dare un contributo», non possiamo dare retta alle voci che vogliono toglierci la speranza e ridurci all’immobilità. Do-po tutto, come sappiamo, fa più rumore un albero che cade che la foresta che cresce e, anche se qualche albero cade, la foresta cresce perché il Figlio di Dio ha portato a compimento la sua opera di redenzione.

A presto, Chiara e Tommaso. Vedete, durante lo scorso anno c’è stata la polemica storico-politica sulla

nostra Resistenza, e noi, attraverso la nostra ricerca, aiutati dai film e dai li-bri, specialmente quello di Lucarelli sui misteri d’Italia, abbiamo scoperto che la Resistenza nel nostro paese non è finita nel ’45 e la Liberazione non è mai avvenuta del tutto. Infatti il nostro paese è stato per decenni campo di scontro tra potenze, servizi segreti deviati, mafie, potenze economiche più o meno criminali. Però là dove un Sindona seminava morte su vasta scala, un Ambrosoli umilmente ed eroicamente resisteva.

Ecco, diciamo che tutto quello che durante l’estate abbiamo maneggiato, visto, letto, ascoltato ci spinge a ritenere che noi crediamo di brancolare nel buio, ma il buio, quel buio spesso fabbricato ad arte dai venditori di morte, è rischiarato da tantissime fiaccole che si sono accese perché la luce già da tempo splende nelle tenebre.

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Vedete, in vista del lavoro da impostare con voi per questo nuovo anno, ci siamo interrogati, per esempio, se non fosse stato utile rispolverare il pen-siero educativo di alcuni maestri del passato. Ebbene, a chi rivolgersi?, ci siamo chiesti; a Lorenzo Milani?, a Luigi Giussani?, ad Antonio Gramsci?, a Luigi Sturzo?, a Giuseppe Mazzini, il quale sull’educazione ha pagine vera-mente esemplari ed attuali?

Constatato che tre di questi uomini sono preti e che il pensiero di Mazzi-ni trasuda di riferimenti al cristianesimo; che “libertà”, “uguaglianza”, e “giustizia sociale”, i principi della nostra carta costituzionale (come recente-mente un noto uomo politico italiano li ha sintetizzati ai suoi giovani segua-ci), provengono dall’evangelo (pochi sanno che Lazzati, Fanfani, Dossetti e Moro, dopo le riunioni dell’Assemblea costituente, la sera si riunivano in pre-ghiera); che gli stessi principi della Rivoluzione francese, nella sostanza iden-tici ai principi della nostra costituzione, nonostante il furore anticlericale del grande rivolgimento del 1789, sono principi evangelici; che, come afferma Carlo Carretto, il comunismo altro non è che l’ultima delle eresie; che, infine, come dice Benedetto Croce, noi italiani non possiamo non dirci cristiani; ci è parso chiaro che se vogliamo fare qualcosa di buono dobbiamo curare di ave-re fede, come l’hanno avuta i grandi uomini che ci hanno preceduto; però per evitare che si ripetano le aberrazioni della storia, e per costruire veramente la pace e la tolleranza tra gli uomini, ci vuole una fede continuamente purificata in un crogiuolo incandescente.

Abbiamo parlato di fiammelle nella notte. Ognuno di noi ne può elenca-re un certo numero. Diamo allora uno sguardo ad alcune iniziative che hanno luogo intorno a noi e che funzionano a volte come veri e propri fari nella not-te.

a. Della ricerca di Famiglia Aperta abbiamo già parlato. Aggiungiamo che la classe V B Mercurio ha aderito alla proposta di ricerca e sta già lavo-rando. Chiara, nella scuola media di San Lucido, ha iniziato l’attività con la sua classe III.

b. All’Università della Calabria continua l’esperienza di educazione alla lettura portata avanti dalla Fondazione Rubbettino, in collaborazione con il prof. Paolo Jedlowski. Quest’anno, come l’anno scorso, il tema è “Il valore della libertà” e i libri da proporre agli studenti delle scuole di Cosenza e din-torni sono: Gli scali del Levante di Maalouf Amin, Montedidio di Erri De Luca, La figlia del podestà di Andrea Vitali.

c. Padre Pio Parisi, un gesuita di Roma, variamente coinvolto nelle atti-vità dell’associazione di volontariato “San Pancrazio” di Cosenza e della rete “Bambini, ragazzi e famiglie al Sud”, con alcuni amici ha promosso una ri-cerca molto interessante sia nei contenuti sia nella modalità di svolgimento.

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La ricerca verte sulla ridefinizione di alcune parole del nostro linguaggio quotidiano e funziona così: si sceglie una parola e si analizza il suo significa-to nei discorsi (per esempio in televisione), nel vangelo e nella vita (al di là dell’uso superficiale). Finora hanno pubblicato il primo volume. Se qualcuno di voi volesse aderire all’iniziativa potrebbe analizzare, ad esempio, la parola “scuola” o la parola “educazione”. L’anno scorso l’associazione “Libera” ha proposto alle scuole una iniziativa simile alla quale noi abbiamo aderito con la classe IV B Mercurio. L’obiettivo era quello di ridefinire il vocabolario della cittadinanza attiva con la collaborazione degli studenti, ma l’elenco del-le parole era stato predefinito da “Libera”. Noi abbiamo lavorato sulle parole Patto, Periferie, Realtà. I testi che abbiamo redatto sono presenti nel sito del gruppo e nel bollettino n. 3.

d. La cooperativa sociale di Cosenza “Delfino lavoro”, che da anni orga-nizza la manifestazione denominata Rexpò, nel solco delle celebrazioni pro-mosse lo scorso anno in occasione dei 60 anni dell’entrata in vigore della car-ta costituzionale, ha organizzato una serie di iniziative sulla cittadinanza eu-ropea (visitare sito www.rexpo.it).

e. Alcuni ragazzi che fanno parte del gruppo SOS scuola hanno accolto la proposta di collaborare all’animazione di una festa che avrà luogo sabato 25 ottobre alle serre di Vadue di Carolei, organizzata dal movimento delle Equipes Notre Dame, movimento di spiritualità della coppia, e ospitata dalle strutture dell’associazione di volontariato “L’arca di Noè”.

f. Il Cidi, associazione nazionale di insegnanti, ha promosso a Torino un gruppo di studenti che, guidati da due insegnanti, cercano di riproporre oggi il lavoro della scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, utilizzando anche Internet.

g. Nei giorni 24-26 ottobre a Falerna si svolgerà un convegno della rete “Bambini, ragazzi e famiglie al Sud” sul tema “Agire comunitario e acco-glienza”.

h. L’associazione “Libera” ha proposto la terza edizione del concorso Regoliamoci rivolto agli studenti di tutta Italia sul tema dell’ambiente e in particolare delle ecomafie. Probabilmente con la classe V B mercurio aderire-mo raccontando il caso dei rifiuti tossici di Crotone.

i. In Sicilia esiste un’associazione che si chiama “Parlamento della lega-lità” che ha anche un sito Internet (www.parlamentodellalegalita.it) e che svolge attività con docenti e studenti.

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5. Le proposte

Per quest’anno abbiamo vagliato molte ipotesi di lavoro che ora vi illu-striamo brevemente. La prima idea che abbiamo considerato è stata quella di approfondire la cosiddetta “emergenza educativa” in rapporto alla politica e alla cittadinanza, attraverso lo studio di autori che in questo campo sono mae-stri riconosciuti: Milani, Giussani, Gramsci, Sturzo ecc., o invitando qui cin-que o sei personalità quali don Carron di Comunione e Liberazione, Dora Ciotta, Gianfranco Solinas, Paolo Crepet, Vittorino Andreoli, Giuseppe Li-mone. La seconda idea riguarda la visione di alcuni film che hanno un forte contenuto educativo: La forza del singolo, Mignon è partita, Indovina chi viene a cena, Arrivederci ragazzi, L’attimo fuggente, Caso mai ecc. La terza idea riguarda la lettura di alcuni libri che affrontano direttamente il problema dello studio e del lavoro intellettuale e offrono consigli metodologici pratici. Autori che si sono occupati di metodi adatti al lavoro intellettuale e all’autostima sono, per esempio, Jean Guitton, Georg Popp, Anselm Grün ecc. La quarta idea riguarda la lettura di opere su Israele perché gli studiosi hanno iniziato a rendersi conto che, mentre il mondo dell’educazione va alla deriva dovunque in Occidente, in Israele l’educazione non è in crisi perché, nonostante le numerose peripezie, il sistema dei valori di questo popolo è rimasto stabile per millenni. Un’altra idea riguarda la lettura di alcuni libri come Noi, voi o La gioia di educare di Crepet, Etica per un figlio di Savater, Lettera a un insegnante di Andreoli. Un altro filone che potremmo esplorare è quello della costruzione dell’identità e della cittadinanza europea.

Vi confessiamo che abbiamo riflettuto e discusso quasi tutta l’estate su questi temi, e la conclusione alla quale siamo giunti è che, un anno ancora, dovremmo seguire la modalità sperimentata con successo negli ultimi due anni: film, libri e gite, alla ricerca della nostra identità. Come abbiamo visto l’anno scorso, non dovremmo programmare però più di tre libri, tre film e tre gite. Inoltre quest’anno potremmo allargare la prospettiva all’identità europe-a.

Un elenco di opere dal quale potremmo scegliere tre libri e tre film com-prende: Radici culturali e spirituali dell’Europa di Giovanni Reale, Un’Europa cristiana di J.H.H. Weiler, Memoria e identità di Giovanni Paolo II, che sono libri sull’identità e la cittadinanza europea; alcuni libri sul Mez-zogiorno, come il Gattopardo, Il mare non bagna Napoli, Cristo si è fermato a Eboli, Gomorra, o altri dei napoletani Ortese e Rea, o dei calabresi La Ca-va, Padula e Altomonte; alcuni film interessanti per il nostro filone di ricerca dell’identità sono La tregua, da un libro di Primo Levi, I cento passi, La cio-ciara, La vita è bella, Il gattopardo, Gomorra.

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Per quanto riguarda le mete da considerare per le gite, vi proponiamo Stilo, Gerace, Bivongi o Santa Severina o il promontorio del Poro o l’area del Mercure o di nuovo Rossano, per un itinerario bizantino; Mileto e Serra San Bruno o San Marco Argentano e Scribla o Melfi o Palermo e Monreale, per un itinerario normanno; Guardia Piemontese o San Demetrio Corone, per un itinerario delle minoranze; Serra San Bruno o San Giovanni in Fiore o Luzzi, per un itinerario spirituale; Napoli o Caserta o le ferriere di Mongiana, per un itinerario borbonico.

6. Le scelte

Dal confronto fatto anche via e-mail, sono emerse le seguenti scelte.

Libri: Giovanni Paolo II, Memoria e identità; Roberto Saviano, Gomor-ra; Annamaria Ortese, Il mare non bagna Napoli; in aggiunta, potremmo pro-vare a leggere la Notte di Natale di Vincenzo Padula.

Film: I cento passi di Marco Tullio Giordana, Il Gattopardo di Luchino Visconti, La tregua di Francesco Rosi.

Gite: Palermo e Monreale con pernottamento dall’1 al 3 maggio, Guar-dia Piemontese, Gerace e Stilo, in aggiunta, se possibile, Mongiana e Serra San Bruno.

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I cento passi

(Appunti dal dibattito seguito alla visione del film nella riunione di SOS scuola del 20.11.2008 a cura di Giuliano Albrizio)

Scheda del film Anno: 2000 Genere: Drammatico Durata: 104' Regia: Marco Tullio Giordana Cast: Luigi Lo Cascio, Luigi Maria Burruano. Trama A Cinisi, paesino siciliano schiacciato tra la roccia e il mare, nei pressi dell'aeroporto, utile quindi per il

traffico di droga, cento passi separano la casa di Peppino Impastato da quella di Tano Badalamenti, il boss locale. Peppino, bambino curioso che non gradi-va il silenzio opposto alle sue domande, al suo sforzo di capire, nel 1968 si ribella come tanti giovani al padre. Ma in Sicilia la ribellione diventa sfida allo statuto della mafia. Quando si batte insieme ai contadini che si oppongo-no all’esproprio delle loro terre per ampliare l’aeroporto Peppino conosce le prime sconfitte ma scopre l’orgoglio di una vocazione. Dopo varie esperienze fonda “Radio aut” che infrange il tabù dell’omertà e con l’arma del ridicolo distrugge il clima riverenziale attorno alla mafia. Tano Badalamenti diventa Tano Seduto e Cinisi è Mafiopoli. Il clima per lui si fa pesante: il padre cerca di farlo tacere, madre e fratello sono solidali con lui. Quando arriva il Settan-tasette, mentre c’è chi si rifugia nel privato, lui si presenta alle elezioni comu-nali. Due giorni prima del voto lo fanno saltare in aria sui binari della ferrovia con sei chili di tritolo. La morte coincide con il ritrovamento a Roma del cor-po di Aldo Moro, viene rubricata come “incidente sul lavoro” poi, dopo che gli amici mettono a disposizione degli inquirenti molti indizi dell'esecuzione diventa addirittura “suicidio”. Solo vent’anni dopo la Procura di Palermo rin-vierà a giudizio Tano Badalamenti come mandante dell’assassinio. Il proces-so deve ancora essere celebrato.

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Dibattito Giuliano, terminata la visione del film, apre il dibattito con una persona-

le riflessione nella quale invita i presenti a cogliere nelle vicende di Peppino Impastato un filo conduttore che lo porterà ad essere una vittima predestinata di quel sistema mafioso che ha voluto combattere con tutte le sue forze.

La prima a prendere la parola è Iole che sottolinea la sua commozione

nel vedere la tragica fine di un giovane. Morte che sembra quasi sancire la fine di quegli stessi ideali che avevano mosso i passi di Peppino.

Giuseppina, invece, si interroga sulle simbologie del film. Sui gesti fatti

e sugli oggetti mossi dai protagonisti. Concentrando la sua attenzione sul re-galo fatto dallo zio americano del protagonista (una cravatta).

Chiara interviene per dare una chiave interpretativa al gesto del regalo

spiegando che, a parer suo, quel gesto va interpretato come un chiaro messag-gio intimidatorio verso Tano Badalamenti, appartenente ad una fazione oppo-sta.

Nel suo primo intervento, Rosa mette in risalto tutte le similitudini pre-

senti fra il film “I cento passi” e il libro “Gomorra” concentrando la sua at-tenzione in particolar modo sui vari intrecci e collusioni fra potere politico, potere economico e potere mafioso.

Leonardo, cambiando decisamente tema, mette in rilievo il rapporto fra

Peppino Impastato e suo padre. Un rapporto seriamente incrinato dal forte idealismo del figlio che è pronto a dividere la famiglia pur di portare avanti la sua lotta. Leonardo un po’ critica questo atteggiamento di Peppino osservan-do che, forse, avrebbe fatto bene a fermarsi in tempo, sicuramente prima di mettere a repentaglio la sua vita e quella degli altri.

Riprende la parola Rosa per sottolineare la voglia di ribellione del prota-

gonista e il suo esempio di vita che può creare una presa di coscienza in tutte le persone che, come Peppino, si trovano a vivere in ambienti mafiosi. Impa-stato ha gettato un seme che deve dare frutto.

Tommaso, nel suo intervento, analizza il film. Ritiene che sia bello e

drammatico, sicuramente forte e d’impatto. Il suo protagonista che non teme mai nulla e diventa per i suoi amici, per i suoi familiari e per tutti i compaesa-

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ni un modello di vita da seguire. Ma rileva anche, dando un prosieguo alla riflessione di Leonardo, che Peppino poteva optare per una lotta contro la mafia più prudente magari facendo ricorso a mezzi diversi. Tommaso, infine, sofferma la sua attenzione sul rapporto padre/figlio, un rapporto minato dalla impotenza del padre che nella sua collusione con Tano si mostra rassegnato, impotente e sicuramente complice, creando così una distanza abissale dal figlio che certo non può accettare questo assurdo atteggiamento.

Chiara afferma di ammirare Peppino per la sua mentalità aperta, per il

suo coraggio che lo porta a sfidare la criminalità e per l’attaccamento a quei principi che lo porteranno alla morte. Il messaggio di Impastato non è andato perso. Anzi, dalla sua tragica fine, chi lo ha conosciuto e stimato (gli stessi familiari) hanno tratto energie e determinazione per rilanciare la lotta alla mafia attraverso delle associazioni che proseguono l’azione di denuncia che Peppino ha avviato.

Nell’intervento conclusivo, Tommaso condivide questa riflessione: il

sangue versato da Peppino non è andato perduto, anzi ha reso fertile una terra resa arida dall’omertà e dalla paura ed ha contribuito ad una presa di coscien-za collettiva per liberarsi una volte per tutte dall’oppressione mafiosa.

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La notte di Natale di Vincenzo Padula

(Appunti dell’incontro di SOS scuola del 17 dicembre 2008 a cura di Iole Greco)

Il 17 dicembre 2008 presso l’ITC “V. Cosentino” di Rende si è tenuto

l’incontro sulla poesia La notte di Natale di Vincenzo Padula, scritta nel1837. Ospite d’eccezione il regista Giulio Palange. Brevi cenni biografici su Vincenzo Padula

Vincenzo Padula nacque ad Acri, in provincia di Cosenza, il 25 marzo 1819. Fu ordinato sacerdote nel 1843 e subito dopo divenne insegnante nel seminario di San Marco Argentano. Le arretrate condizioni della società cala-brese dell’800, nella quale sopravviveva la tradizione giacobina, lo spinsero a frequentare un gruppo di giovani intellettuali calabresi, radicali in politica e romantici in letteratura.

Fu amico soprattutto del più avanzato fra essi, Domenico Mauro, al qua-le dedicò la sua prima opera, la novella in versi Il monastero di Sambucina. Nel 1845 pubblicò il poema Il Valentino. In queste prime opere sono ben vi-sibili gli influssi della moda letteraria del tempo, della scuola lombarda (Tommaseo, Grossi) o del byronismo; ma c’è anche il precoce tentativo di dipingere la società calabrese nelle sue passioni primitive e quasi selvagge.

Nel 1848 prese parte ai moti calabresi, in difesa delle rivendicazioni dei contadini. Perseguitato dalla reazione borbonica, gli fu tolto il permesso di insegnare e visse di stenti. Nel 1854 si stabilì a Napoli, dove si legò ai pochi intellettuali antiborbonici rimasti in libertà con i quali si dedicò spesso alla compilazione di periodici quasi sempre soppressi dalla censura. A Napoli pubblicò una sua traduzione dell’Apocalisse e altri versi sacri.

Dopo la liberazione del Sud, fondò il giornale di centro-sinistra Il Pro-gresso (1861), seguito dal Bruzio (1864-65); in quest’ultimo giornale apparve il saggio Dello stato delle persone in Calabria, considerato la prima inchiesta sul Mezzogiorno dopo l’unità, e il dramma Antonello capobrigante calabre-se. Nel 1871 tentò la carriera universitaria e buttò giù in pochi mesi una Pro-togea, in cui pretendeva rintracciare nel mondo preistorico le origini semiti-che della toponomastica calabrese.

Chiamato nel novembre 1878 a Parma per insegnarvi Letteratura latina, vi durò tuttavia solo due anni. Tornò a Napoli nel 1881, ed essendosi ridotto

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in deplorevoli condizioni di salute, si rifugiò per sempre nel suo paese nativo, dove morì l'8 gennaio 1893.

Postume (1894) apparvero le sue Poesie. Padula lasciò il poemetto in-compiuto L'Orco e le Prose giornalistiche (1878), in cui raccolse i suoi studi meridionalisti. Presentazione di Giulio Palange (a cura di Tommaso Cariati)

Ringraziamo Giulio Palange per aver accettato l’invito a venire a discor-rere con noi su Padula e a offrirci una lettura professionale de La notte di Na-tale.

Giulio è un intellettuale calabrese di Cosenza. È autore di varie opere, tra le quali menzioniamo Osceno in giallo su Duonnu Pantu, La regina dai tre seni sulla Calabria magica, L’asino che vola su Jugale, scritto insieme ad A-chille Greco.

Si occupa di teatro, sia a livello di ricerca storico-linguistica, sia “sul palcoscenico”, come regista soprattutto. Anni fa ha lavorato al recupero e alla messa in scena dell’Organtino, del castrovillarese Cesare Quintana. Recente-mente, invece, ha collaborato alla produzione di un audiolibro prestando la sua voce nella lettura dei testi poetici in dialetto calabrese. Tra i testi trovia-mo proprio La notte di Natale di Padula.

Giulio Palange è un intellettuale indipendente, e perciò un vero intellet-tuale. Non è legato a partiti né a istituzioni, ma svolge un prezioso lavoro di scavo, capillare e continuo, che definirei “militante”. Militante non nel senso dell’impegno politico o partitico, o nel senso dell’engagement per la trasfor-mazione della società secondo un progetto umano, ma nel senso che egli combatte una battaglia stando in trincea senza mollare: è militante perché è fedele e costante nel proposito; è rigoroso nella ricerca; è energico e originale nel linguaggio; è graffiante nei giudizi.

Se voi lo chiamate alle tre di pomeriggio, lo trovate al suo posto di lavo-ro. Se lo chiamate alle nove del mattino, lo trovate al suo posto di lavoro: una sedia, una scrivania, un computer, tantissimi libri. Giulio offre una testimo-nianza straordinaria di una fedeltà a una vocazione, mantenuta nonostante la condizione catacombale nella quale spesso siamo costretti ad operare qui in Calabria. Nelle catacombe, in verità, l’intellettuale non sta poi tanto male. Anzi, esse potrebbero offrire una singolare condizione favorevole alla medi-tazione e alla ricerca. Grazie ancora a Giulio e buon lavoro.

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La notte di Natale (lettura a cura di Giulio Palange)

La poesia dialettale Notte di Natale è stata scritta dal Padula nel 1837 presso il Convento francescano di S. Marco Argentano, in essa si ritrovano elementi della tradizione popolare calabrese, particolarmente di quella di A-cri.

In una notte misteriosa e poetica, come in una favola nasce Gesù; la na-tura ed il cosmo partecipano alla gioia ed al giubilo per l’evento straordinario. Il dialetto usato è un dialetto dell’800.

Dopo le reciproche presentazioni ed i saluti, Giulio Palange, “legge” la poesia più che interpretarla, comunicando tutto il fascino, le emozioni e le situazioni insiti nel tessuto poetico e narrativo del testo; gli ascoltatori recepi-scono il messaggio letterario nella sua interezza e sono molto coinvolti, poi-ché la lettura è “essenziale” e non retorica e manieristica.

Dibattito

Dopo l’ascolto della poesia, si è svolto, più che un dibattito, uno scam-bio di sensazioni ed emozioni.

Antonella ha studiato proprio alcuni testi di Padula e pone l’attenzione

sul dialetto di Acri che riconosce nei versi. Alfio conosce bene l’opera di V. Padula e lo inquadra nel tempo in cui

ha vissuto: un’ampia stagione dell’800 pre-unitaria e post-unitaria,un po’ pre-te e un po’ diavolo. Prete di strada, che si confonde con la gente, solitario un po’ tardo-romantico. La sua opera è rimasta ristretta a livello regionale, valo-rizzata solo da critici locali. La poesia Notte di Natale appare come una favo-la, narra un evento popolare con personaggi di Acri; ha musicato alcune stro-fe, che ci farà ascoltare.

Luca interviene dichiarando di avere seguito il testo dialettale, conoscen-

do il dialetto di Acri, anche se il significato di alcune parole è per lui scono-sciuto.

Giuliano afferma di avere letto con piacere la poesia in quanto a Fuscal-

do, dove vive, c’è una tradizione di canti dialettali natalizi. Chiara vede descritto nella poesia un mondo che, dalla nascita di Gesù,

cambia, il tutto immerso in un’aura mistica.

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A questo punto Alfio pone un interrogativo, che apre i cuori di molti a riflessioni sul Natale e ricordi: cosa significa per i più giovani il Natale?

Angelo risponde che non crede e che per lui il Natale non ha alcun signi-

ficato. Luca invece ama il Natale; per lui è soprattutto ricordo di tante piccole

cose, come la raccolta del muschio per il presepe, il profumo del pane, dei dolci tipici anche delle fritture, il ricordo del nonno e della famiglia unita.

Anche per Rosina il Natale rappresenta tutto questo e ricorda che quando

lei era bambina si viveva più semplicemente, si apprezzavano le cose e non si sprecava niente.

Alfio osserva che l’avere vissuto in un paese e colto tutte le sfumature di

quella realtà lascia il ricordo solo delle esperienze belle e significative, di-menticando le brutte. Quando lui era giovane c’era la fame e si camminava scalzi, resta la nostalgia delle tradizioni.

Iole, d’accordo con queste note nostalgiche, torna sulla poesia di Padula,

dicendo che ascoltandola le è sembrato di essere proprio lì nel presepe e che comunque il Natale ci ricorda la nascita di Gesù.

Giuseppina riflette sul fatto che il Natale è lieto ma anche triste, infatti

facendo il raffronto con il Natale passato, alcune persone care non ci sono più e si sente la loro mancanza ed un senso di vuoto.

Dopo questo scambio di idee e di impressioni, Alfio, grande appassiona-

to e conoscitore di poesie, canti e musiche popolari e dialettali, accompa-gnandosi con la sua chitarra esegue una “pastorale” anonima molto delicata, nella quale “due pecurari della Sila” si scambiano i suoni e le melodie .

Esegue un secondo brano di Natale in arberesh, che crea un’atmosfera particolare e nostalgica.

Avendo musicato le prime sei strofe della poesia Notte di Natale, le ese-gue nella maniera tipica del cantastorie. Termina il suo contributo all’ incon-tro regalandoci una miscellanea di canti arberesh.

L’atmosfera a questo punto è di serenità ed amicizia; dopo avere ringra-ziato Giulio Palange per la sua disponibilità ed Alfio per i suoi sempre graditi contributi musicali e non, si stappa una bottiglia di spumante e si scambiano gli auguri di buon Natale.

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Memoria e identità di Giovanni Paolo II

(Appunti dell’incontro di SOS scuola del 26 gennaio 2009, a cura di Gaëlle Cariati)

Oggetto di questo intervento è l’opera Memoria e identità, il cui autore è

Giovanni Paolo II, pubblicata nel febbraio 2005. I temi trattati sono di grande attualità e interesse. Vi sono affrontati i

concetti di patria, nazione, stato, si riflette sull’Europa e sulla Chiesa. Anzitutto si impone all’attenzione del lettore la prospettiva in cui tali

argomenti sono affrontati. In una chiave, per così dire, etica. Nel senso che interesse dell’autore è valutare in che relazione stiano i concetti citati con l’agire umano. Che impatto ha sul comportamento di un uomo l’esistenza della patria, o del concetto di patria? O di nazione, o di stato?

Questa caratteristica, questa particolare prospettiva, non è casuale. Se-guirne la traccia conduce a trovare il filo del tema principale del libro. Esso è il seguente: cogliere, ripercorrendo e analizzando eventi storici precisi della storia umana, le dinamiche che conducono l’uomo ad agire per il bene piutto-sto che per il male, e viceversa.

In questa cornice, i totalitarismi sono il prodotto della scelta dell’uomo

per il male. Per “male” si intende la negazione di valori assoluti, costitutivi dell’umano. Tale negazione storica ha un parallelo e una origine. L’origine è nella negazione teorica maturata nel corso della storia del pensiero, che l’autore ripercorre. Il parallelo è con la storia del peccato originale quale è narrata nel libro della Genesi.

Per quanto riguarda il primo profilo: Nel corso degli anni si è venuta formando in me la convinzione che le

ideologie del male sono profondamente radicate nella storia del pensiero filo-sofico europeo. (...) Il cogito, ergo sum – penso, dunque sono – portò con sé un capovolgimento nel modo di fare filosofia. Nel periodo precartesiano la filosofia, e dunque il cogito, o piuttosto il cognosco, era subordinato all’esse, che era considerato qualcosa di primordiale. In tal modo non soltanto si ope-rava un cambiamento di direzione nel filosofare – ma si abbandonava decisa-mente ciò che la filosofia era stata fino ad allora, ciò che era stata in partico-lare la filosofia di San Tommaso d’Aquino: la filosofia dell’esse. (…) Dopo Cartesio, la filosofia diventa una scienza del puro pensiero: tutto ciò che è

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esse – sia il mondo creato che il Creatore – rimane nel campo del cogito, co-me contenuto della coscienza umana (pp. 18-19).

Secondo l’autore, la logica del cogito, ergo sum, porta innanzitutto a

rendere Dio un contenuto elaborato dalla coscienza umana. A relativizzare Dio. In base al bene si definisce il male. Relativizzato il bene (Dio è il som-mo bene), diventa relativo il male. Anche quest’ultimo è un contenuto dell’umana elaborazione. L’uomo moderno, per Giovanni Paolo II, ha posto le basi per giustificare qualunque comportamento: infatti può decidere qual è il bene e quale il male.

Questa medesima dinamica è la chiave di lettura della vicenda di Adamo

ed Eva. Infatti, l’autore, sulla scia di Sant’Agostino, interpreta così l’episodio:

«Amor sui usque as contemptum Dei – amore di sé fino al disprezzo di Dio». Fu proprio l’amor sui a spingere i progenitori verso l’iniziale ribellione e a determinare poi il successivo dilagare del peccato in tutta la storia dell’uomo. A questo si riferiscono le parole del Libro della Genesi: «Diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gn 3,5), cioè sareste voi stessi a decidere di ciò che è bene e ciò che è male (p. 17).

Questa è la diagnosi riguardante il male. Che fisionomia assume, allora,

il bene? Che posto ha, e ha avuto, nella storia umana? La riflessione sul bene scaturisce dalla vicenda dei totalitarismi del No-

vecento, i quali sono arretrati di fronte a alcuni fattori, quasi come se esistes-se un “limite imposto al male”.

Per individuare tali fattori, Giovanni Paolo II si concentra sul particolare

caso della nazione polacca, interessante in quanto storicamente fonte di argini e ostacoli al dilagare del male dei totalitarismi.

Cosa rende il popolo polacco così speciale, rispetto a tanti altri popoli? Cosa caratterizza questa nazione al punto da darle una coscienza del bene tale da resistere al male?

La risposta viene individuata dall’autore nella ricostruzione di alcuni concetti molto attuali: i concetti di patria, nazione, stato.

L’estrema sintesi è che queste categorie riconducono l’uomo, in maniera

diversa, riguardo aspetti differenti, alla sua identità. Che è proprio il cardine della tesi dell’autore. Il totalitarismo è una forma di male che ha a che fare col fatto che l’uomo non sa più chi è. Nell’incontro con l’altro, un uomo sen-

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za identità è aggressivo. Non conoscendo le proprie caratteristiche, non può riconoscere le somiglianze fra sé e l’altro.

È proprio il contrario di quanto avviene a chi ha consapevolezza di sé. Giovanni Paolo II è polacco, e ha consapevolezza di sé, proprio in quanto polacco:

Io sono figlio di una nazione che ha vissuto le più grandi esperienze del-la storia, che i suoi vicini hanno condannato a morte a più riprese, ma che è sopravvissuta ed è rimasta se stessa. Essa ha conservato la sua identità e ha salvaguardato, nonostante le spartizioni e le occupazioni straniere, la sua so-vranità nazionale, non appoggiandosi sulle risorse della forza fisica, ma uni-camente sulla sua cultura. Questa cultura si è rivelata, all’occorrenza, d’una potenza più grande di tutte le altre forze (p. 106).

Infatti, nell’incontro con l’altro, ecco quel che accade a Giovanni Paolo

II: In quel 2 giugno 1980 stavo ormai vivendo il secondo anno di pontifica-

to. Avevo alle spalle alcuni viaggi apostolici: in America Latina, in Africa e in Asia. Durante quei viaggi mi convinsi del fatto che, con l’esperienza da me fatta della storia della mia patria, con la consapevolezza che avevo maturato del valore della nazione, non ero affatto estraneo alle persone che incontravo. Al contrario, l’esperienza della mia patria mi facilitava grandemente nell’incontro con gli uomini e con le nazioni di tutti i continenti (p. 107).

Il papa testimonia con la sua stessa esperienza quello che sta sostenendo:

l’uomo è qualificato con delle caratteristiche intrinseche e universali. La co-scienza di quali esse sono e del fatto che appartengono a ognuno si chiama identità. Così come la famiglia è per la singola persona il luogo in cui matura l’identità, la nazione e la patria sono tale luogo per una collettività.

Nazione, patria e famiglia svolgono questo ruolo tramite una attività fon-

damentale. Quella di ridestare la memoria. Non esiste, infatti, identità senza memoria:

La memoria è la facoltà che modella l’identità degli esseri umani sia a

livello personale che collettivo. È infatti attraverso di essa che si forma e si definisce nella psiche della persona la percezione della propria identità (p. 171).

Esiste un limite imposto al male. Nella prospettiva di Giovanni Paolo II tale limite è Cristo. La novità di Cristo, infatti, come è argomentato nel libro,

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restituisce all’uomo le sue caratteristiche fondamentali, introduce nella storia dell’uomo la dinamica memoria – identità, la speranza del bene contro il ma-le.

Dibattito (appunti di Deborah Bottino) Enrico: hai parlato molto dei totalitarismi, della Polonia. Non è un punto

di vista parziale? Gaëlle: l’autore riesce ad entrare in relazione con gli altri popoli, grazie

allo spirito polacco. I totalitarismi non si basano su valori veri, reali, bensì sull’ideologia che è qualcosa di creato, assolutamente non reale.

Iolanda: il papa si sofferma sui valori assoluti; volevo sapere se ne parla

in generale o invece ne fa un riferimento più specifico, indicandoli. Gaëlle: non fa un riferimento preciso, essi sono quelli cristiani. Ma si fa

riferimento anche a quelli dell’illuminismo che al contrario di quello che si pensa, secondo il papa, non sono in contrapposizione alla Chiesa, al contrario sono comuni a quelli cristiani.

Cristina: il passaggio molto importante che ho colto nel libro è la parte

sui totalitarismi: la Polonia per il papa è il cuore geografico dell’Europa. Questo testo nasce dal fatto che sulla costituzione europea non è stato scritto che l’Europa è di prevalenza una comunità cristiana, quindi si è persa l’identità. L’altro passo importante è il riferimento agli illuministi che, co-munque sono nati per scontrarsi contro il clero. La libertà è anche responsabi-lità, ecco perché l’uomo moderno fugge dalla libertà.

Emilia: io vorrei fare solo delle osservazioni. Occorre precisare che

l’autore di questo libro è un papa e la sua visione è prettamente cristiana; la storia è visitata da Dio e da questo scaturiscono molte cose. Anche lui affer-ma che la sua storia è stata visitata da Dio. Per esempio, rivive il ricordo dell’attentato alla sua vita e afferma di essere stato salvato grazie all’intercessione della Madonna. Parla della cultura, di una cultura precisa che ha radici nell’ebraismo e nei classici. La cultura dei padri, con un esem-pio pratico: il contadino che insegna al figlio la semina. A questo punto mi sono posta un interrogativo: perché scegliere questo libro per il nostro percor-so, se il papa parla di identità, ma lo fa per la Polonia? La risposta potrebbe

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essere questa: il libro affronta in modo esemplare ed emblematico il tema dell’identità, perciò ha valore universale.

Rosa: è vero, fa un discorso incentrato sulla cultura polacca, che rappre-

senta la sua madre patria ed egli sottolinea che essa è un’‘entità nazionale’. La Polonia nel corso della storia, ha vissuto le tragedie dei totalitarismi che l’hanno profondamente segnata. Parla anche delle virtù teologali sulle quali basare le nostre azioni. Mi ha colpito la parte in cui è più evidente il lato cri-stiano del papa: l’uomo compie il male quando pensa solo a se stesso; questo in linea generale, ma in pratica essere “ortodossi” è veramente difficile.

Gaëlle: molto importante è la parte sull’egoismo. Il relazionarsi con gli

altri dovrebbe renderci generosi e non egoisti. Iolanda: l’essere calabrese sta diventando un peso. Io non mi sento infe-

riore rispetto ad una ragazza del nord anzi, mi sento molto più ricca di valori. Emilia: l’identità di cui parla il papa è da collegarsi anche ad altri autori

che analizzano questo aspetto, per esempio Pirandello che porta alla luce la crisi dell’uomo moderno e dell’identità.

Deborah: facendo riferimento alla differenza fra nord e sud, vorrei preci-

sare qualcosa sulla mentalità perché è lì la differenza. O meglio vorrei darvi alcune notizie che vengono dal mondo dei giovani. Faccio un esempio molto semplice: una differenza madornale sta nelle disco e nel modo in cui ragazzi e ragazze si comportano. In media nelle discoteche che funzionano di pome-riggio, che sono frequentate da ragazzi sui 15-16 anni, e anche di molto me-no, un ragazzo si bacia con una diecina di ragazze diverse, una ragazza inve-ce arriva anche a baciare 15 ragazzi. Lo staff della Diabolika, che è un orga-nizzatore di serate in disco su tutto il territorio italiano, ha due tipologie di serate: la prima è una serata normale, a base di musica e alcool: cose che di norma si fanno anche nelle discoteche di Cosenza; l’altra si chiama Pervert (già dalla parola inglese, si capisce qualcosa) dove viene praticato ogni gene-re di sesso, dall’anale a quello orale, in piena libertà, e con persone che non si conoscono, e che il giorno dopo, incontrandosi casualmente a piazza Duomo, non si scambieranno nemmeno un cenno di saluto. Lo stesso speaker incita i presenti con un linguaggio assolutamente pertinente alla serata, dando dal vivo un esempio pratico. Le ragazze vanno in giro in minigonna, senza indos-sare gli indumenti intimi, e accomodandosi tranquillamente sulle gambe di un ragazzo scelto a caso che procede a fare il resto (non mi voglio dilungare). Vi

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prego di non pensare che io abbia vissuto questo genere di serate: non ci pen-so lontanamente, diciamo che sono circondata da molti amici di su che si “divertono” a raccontarmi il loro mondo.

Tommaso: scusatemi se faccio un intervento articolato, ma io ho riflettu-to e sono venuto con gli appunti. Giovanni Paolo II è stato un grande papa e un grande uomo. Come uomo ha cercato di sviluppare e di vivere tutte le di-mensioni della persona: il corpo e la voce (sport, teatro), la sfera estetica ed emotiva (poesia, testi teatrali), la ragione (filosofia, teologia), la sfera mistica e trascendente (meditazione della Parola, preghiera). Io però voglio ricordarlo perché praticava anche quella preghiera semplice, che noi consideriamo “per vecchiette”, che è il rosario. Anzi, egli ha istituito i “misteri della luce”: bat-tesimo di Gesù, Gesù alle nozze di Cana, l’annuncio del regno di Dio, la tra-sfigurazione, l’istituzione dell’eucarestia.

In secondo luogo, si parla tanto di identità sessuale e di pari opportunità, di emancipazione della donna, e si fa bene, perché ancora c’è troppa prevari-cazione sulle donne. Tuttavia, porre il problema in termini di lotta tra i sessi, di potere da riequilibrare e di leggi da promuovere e da far rispettare, o di libertà sessuale oltre ogni limite, come si desume dall’intervento di Deborah, può condurre fuori strada. Giovanni Paolo II, da atleta, attore, poeta e teologo qual era, ha arato in lungo e in largo, con studi poco noti ma importanti, an-che il campo vastissimo del rapporto tra il “maschile” e il “femminile”. Da qui dovremmo ripartire per ricercare la verità sull’essenza del dialogo che avvolge e travolge l’uomo e la donna.

In terzo luogo, Giovanni Paolo II aveva una fortissima identità, polacca innanzitutto, europea in secundis, cristiana soprattutto. Il suo forte senso di identità si avverte in tutto il libro, ma io lo colgo in quella gaffe che egli ha fatto appena eletto capo della Chiesa universale. Nel pronunciare le poche parole di saluto alla folla egli disse: «Non so nemmeno se saprò esprimermi nella vostra lingua… nostra lingua italiana» si corresse. «Se mi sbalio, mi corrigerete» aggiunse come captatio benevolentie. A mio avviso non si tratta di un errore spiegabile con la scarsa familiarità con l’italiano o con l’emozione. Si tratta, invece, di un lapsus che segnala, come una vera e pro-pria spia, che la sua lingua era un’altra, la lingua polacca; e la lingua madre, per chi ha identità, carattere, è un marchio indelebile.

In quarto luogo, riprendendo le considerazioni di Cristina: nella cosid-detta carta costituzionale dell’Europa non si è voluto fare riferimento alle radici cristiane del continente. Ma bisogna essere ciechi per non rendersi con-to che, come diceva Croce, “non possiamo non dirci cristiani”. Basterebbe andare in giro per paesi, città e cimiteri: croci, chiese, cattedrali dovunque.

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Del resto, ritornando alla lingua, e riprendendo le domande di Emilia, non è un caso se noi calabresi diciamo “cristiano” per intendere “persona”, come non è un caso se a Castiglione c’è una chiesa detta “della Cona”, se nella zo-na industriale di Rende c’è una località detta “Lacona”, se a Rossano c’è il “Patir” e a Caloveto la località “Patera”. Padre Pino Stancari, commentando il vangelo di Giovanni, cap. 1, vv. 35-42, nel quale troviamo «Rabbì (che signi-fica maestro)», «Messia (che significa il Cristo)», «Cefa (che vuol dire Pie-tro)», spiega che Gesù ci raggiunge in uno spazio, il cuore, talmente profondo ed intimo che una “lingua comune” un poco convenzionale non è sufficiente per esprimere quel che ci accade a quel livello: serve la traduzione, perché quel che ci accade riguarda il mistero della persona, l’inconscio diremmo, dove forse il dialetto, comunque la lingua appresa dalla madre, ha più possi-bilità di riuscire. D’altra parte, in un altro celebre passo del vangelo troviamo: «Abbà, padre», l’originale e una sorta di traduzione. Ebbene, gli studiosi ci dicono che “abbà” ha sfumature familiari che “padre” non ha. In dialetto do-vremmo tradurre “tata” e in italiano “papi” o “papino”.

Dobbiamo essere grati a Giovanni Paolo II se, grazie al suo libro, noi oggi abbiamo potuto parlare di tutte queste cose, che sono universali, sia pure a partire dall’identità polacca.

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Il Gattopardo

(Appunti dalla riunione di SOS scuola del 18 marzo 2009 a cura di Deborah Bottino )

Il Gattopardo è un film del 1963 diretto da Luchino Visconti, tratto

dall’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, vincitore della Palma d’Oro come miglior film al 16° Festival di Cannes.

La figura del protagonista del film, il Gattopardo, si ispira a quella del bisnonno dell’autore del libro, il principe Giulio Fabrizio Tomasi di Lampe-dusa, che fu un importante astronomo e che nella finzione letteraria diventa don Fabrizio Corbera, principe di Casa Salina, e della sua famiglia tra il 1860 e il 1910, in Sicilia (a Palermo e nel feudo agrigentino di Donnafugata, cioè Palma di Montechiaro in provincia di Agrigento).

Don Fabrizio è padre di sette figli ed è esponente di un casato che per secoli “non aveva mai saputo fare neppure l’addizione delle proprie spese e la sottrazione dei propri debiti”. Il principe possedeva forti inclinazioni alle ma-tematiche; aveva applicato queste all’astronomia e ne aveva tratto sufficienti riconoscimenti pubblici e gustosissime gioie private. All’inizio del primo ca-pitolo si parla di un cadavere rinvenuto nel giardino di Casa Salina: “il cada-vere di un giovane soldato del quinto battaglione cacciatori, che ferito nella zuffa di san Lorenzo contro le squadre dei ribelli era venuto a morire, solo, sotto un albero di limone. Lo avevano trovato bocconi nel fitto trifoglio, il viso affondato nel sangue e nel vomito, le unghia confitte nella terra, coperto dai formiconi; e di sotto le bandoliere gl'intestini violacei avevano formato pozzanghera.”

Burt Lancaster e Claudia Cardinale nella famosa scena del ballo

Nel maggio 1860, dopo lo sbarco di Garibaldi in Sicilia, don Fabrizio assiste con distacco e con malinconia alla fine del suo ceto. La classe aristo-cratica capisce che ormai è prossima la fine della sua supremazia: infatti ap-profittano della nuova situazione politica gli amministratori e i mezzadri, la nuova classe sociale in ascesa. Don Fabrizio, appartenente ad una famiglia di antica nobiltà, viene rassicurato dal nipote Tancredi, che, pur combattendo

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nelle file garibaldine, cerca di far volgere gli eventi a proprio vantaggio. Quando, come tutti gli anni, il principe con tutta la famiglia si reca nella resi-denza estiva di Donnafugata, trova come nuovo sindaco del paese Calogero Sedara, un borghese di umili origini, rozzo e poco istruito, che si è arricchito ed ha fatto carriera in campo politico. Tancredi, che in precedenza aveva ma-nifestato qualche simpatia per Concetta, la figlia maggiore del principe, si innamora di Angelica, figlia di don Calogero, che infine sposerà, abbagliato sicuramente dalla sua bellezza, ma attratto anche dal suo notevole patrimo-nio.

Un altro episodio significativo è l’arrivo a Donnafugata di un funziona-rio piemontese, il cavaliere Chevalley di Monterzuolo, che offre a don Fabri-zio la nomina a senatore del nuovo Regno d’Italia. Il principe però rifiuta, sentendosi troppo legato al vecchio mondo siciliano.

Il Gattopardo rappresenta, nel percorso artistico di Luchino Visconti, un cruciale momento di svolta in cui l’impegno nel dibattito politico-sociale del militante comunista, si attenua, in un ripiegamento nostalgico dell’aristocratico milanese, in una ricerca del mondo perduto, che caratteriz-zerà i successivi film di ambientazione storica.

Il regista stesso, a proposito del film, indicò come propria aspirazione il raggiungimento di una sintesi tra il Mastro Don Gesualdo di Giovanni Verga e la Recherche di Marcel Proust.

La pubblicazione del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa aveva aperto all’interno della sinistra italiana un dibattito sul Risorgimento italiano come “rivoluzione senza rivoluzione”, a partire dalla definizione utilizzata da Antonio Gramsci nei suoi Quaderni del carcere. A chi accusava il romanzo di aver vituperato il Risorgimento, si opponeva un gruppo di intellettuali che ne apprezzava la lucidità nell’analizzarne la natura di contratto, all’insegna dell’immobilismo, tra vecchia aristocrazia ed emergente classe borghese.

Luchino Visconti, che già aveva affrontato la questione risorgimentale in Senso (1954), e che era stato profondamente colpito dalla lettura del roman-zo, non esitò ad accettare la possibilità di intervenire nel dibattito, offertagli da Goffredo Lombardo che si era assicurato, per la Titanus, i diritti cinemato-grafici del libro.

Nel film la narrazione di questi eventi è affidata allo sguardo soggettivo del principe di Salina, sulla cui persona vengono raccordati “come in un ine-dito allineamento planetario, i tre sguardi sul mondo in trapasso: del perso-naggio, dell’opera letteraria, del testo filmico che la visualizza”. Lo sguardo di Visconti viene a coincidere con quello di Burt Lancaster, per il quale, que-sta esperienza di “doppio” del regista “varrà... una profonda trasformazione interiore, anche sul piano personale”.

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È qui che si può cogliere la cesura rispetto alla precedente produzione del regista: gli inizi di un periodo in cui nella sua opera “… nessuna forza positiva della storia... si profila come alternativa all’epos della decadenza cantato con struggente nostalgia”.

È determinante, nell’esprimere questo passaggio, il ballo finale, cui Lu-chino Visconti assegnò, rispetto al romanzo un ruolo più importante, sia per la durata (da solo occupa circa un terzo del film), sia per la collocazione (ponendolo come evento conclusivo, mentre il romanzo si spingeva ben oltre il 1862, sino a comprendere la morte del principe nel 1883 e gli ultimi anni di Concetta dopo la svolta del secolo). In queste scene tutto parla di morte. La morte fisica, in particolare nel lungo e assorto indugiare del principe dinanzi al dipinto La morte del giusto di Greuzet. Ma soprattutto la morte di una clas-se sociale, di un mondo di “leoni e giaguari”, sostituiti da “sciacalli e iene”.

I sontuosi ambienti, vestigia di un glorioso passato, in cui ha luogo il ricevimento, assistono impotenti all’irruzione e alla conquista di una folla di personaggi mediocri, avidi, meschini. Così il vanesio e millantatore generale Pallavicino (Ivo Garrani). Così lo scaltro don Calogero Sedara (Paolo Stop-pa), rappresentante di una nuova borghesia affaristica, abile nello sfruttare a proprio vantaggio l’incertezza dei tempi, e con cui la famiglia del principe si è dovuta imparentare per portare una nuova linfa economica nelle sue esauste casse.

Ma è soprattutto nel nuovo cinismo e nella spregiudicatezza dell’adorato nipote Tancredi, che dopo aver combattuto coi garibaldini non esita, dopo l’Aspromonte, a schierarsi coi nuovi vincitori e ad approvare la fucilazione dei disertori, che il principe assiste alla fine degli ideali morali ed estetici del suo mondo.

Va segnalato, come anche Alain Delon, altra stella internazionale di pri-ma grandezza, riesca ad incarnare i moti dell’animo e del corpo del personag-gio da lui interpretato, come a pochi altri registi italiani è riuscito di ottenere con attori stranieri (tratto da Wikipedia).

Dibattito Alfio: il film è straordinariamente attuale. Offre molti spunti di riflessio-

ne anche sul nostro tempo. Alcuni temi sono presenti nella discussione cultu-rale e politica e rimangono irrisolti: la Questione meridionale, i tratti culturali della gente del Sud, l’irrisolto problema del potere che quasi mai è democrati-co. Un altro aspetto è il problema dell’evoluzione delle forme del potere; le innovazioni rivoluzionarie si trasformano presto in un regime, anche contro il popolo. La storia insegna che l’aspirazione all’uguaglianza è sempre presente

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nella gente ma spesso viene frustrata. C’è uno sforzo da parte di Visconti di rendere con efficacia componenti che caratterizzano la storia e i personaggi, compreso il protagonista. Ci sono nel libro e nel film l’ironia, il fatalismo, l’immobilismo.

America: il film mi è piaciuto perché il protagonista rappresenta bene la

Sicilia. Egli ha capito i tempi e favorisce il nipote e don Calogero mentre lui si mette da parte.

Iole: il libro sembra più veloce del film. Il film è costruito con tantissimi

particolari. Chiara: il ritmo del film è faticoso da reggere. Sicuramente la lentezza

contribuisce a rappresentare la Sicilia dell’epoca dell’Unità d’Italia. È messa bene in luce la differenza tra nobili e gente del popolo. Dei personaggi mi colpiva che Tancredi, che lo zio considera come un figlio, possa rappresenta-re in qualche modo l’attuazione di desideri frustrati del Principe: Tancredi si innamora e sposa una bella donna, ricca e figlia di un uomo potente.

Tommaso: il film è troppo lento e lungo per i miei gusti, debordante di

particolari. Le scene che mi sono piaciute maggiormente sono due, quella del dialogo dopo la caccia tra il Principe e don Ciccio da un lato, e quella del dia-logo tra il piemontese Chevalley e il Principe. La prima mi è piaciuta per la forza e l’autenticità di don Ciccio, espressa anche attraverso il dialetto. L’altra perché rappresenta bene la distanza abissale tra la mentalità dell’isola, espressa dal Salina, e quella di Torino, e perché rappresenta pure il punto più elevato dell’espressione del pensiero del protagonista. Il film è senz’altro in-teressante per riflettere sulla Sicilia e sui siciliani anche se non credo che le tesi del protagonista siano totalmente vere. Comunque trovo che un grande principe di 45 anni non dovrebbe lasciarsi travolgere in quel modo, come ve-diamo alla fine del film, da una rivoluzione che “cambia tutto per non cam-biare niente”. Forse il protagonista soffre di un male ben più sottile e profon-do. Forse si rende conto che ha vissuto e vive strangolato dalle convenzioni: ha sposato una donna che non ama, vive la religione come forma vuota, con-duce una vita priva di avvenimenti e di speranza. Ma, a ben vedere, tutto ciò che riguarda la vita del protagonista sarebbe vero anche senza la cosiddetta rivoluzione e il passaggio dai Borbone di Napoli ai Savoia di Torino. Certo, il film è molto diverso dal libro; si potrebbe perfino dire che il film è libera-mente tratto dal romanzo di Tomasi di Lampedusa. Nel film mancano alcune scene del libro come l’incontro tra il re e il principe avvenuto a Napoli o a

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Caserta. Non c’è quasi traccia dello stile ricco di similitudini, metafore, argu-zia che troviamo nel romanzo. Nel dialogo, dopo la caccia, tra il Principe e don Ciccio viene conservata la freschezza del dialetto che è anche autenticità dell’uomo don Ciccio. Ma altrove nel romanzo troviamo altri giochi linguisti-ci veramente geniali che riguardano per esempio l’arrivista Sedara. Del resto il libro, che è romanzo storico, esce nel 1958. Ora, nel 1957 è uscito in volu-me Il pasticciaccio che Gadda è andato costruendo e pubblicando dal 1945-46 e che presenta ben altro impasto di lingue e dialetti e Tomasi di Lampedu-sa non può non tenerne conto. Insomma anche se il suo stile è un altro, qua e là l’autore usa proprio la cifra linguistica per caratterizzare i personaggi. Tut-to ciò è quasi assente nel film. Concordo con Iole: il libro è molto più veloce e godibile del film. Forse ha ragione Chiara: il regista ha voluto usare uno stile barocco e la lentezza per rappresentare la visione del protagonista sulla storia della Sicilia. Comunque è vero che la morte aleggia dappertutto sia nel film sia nel libro. A proposito del famoso ballo Tomasi di Lampedusa non ci risparmia considerazioni sulla bruttezza fisica delle dame dell’aristocrazia palermitana, né i particolari relativi alla stanza attrezzata con una ventina di pitali, antesignana dei moderni wc. Del resto, l’incipit del libro è la conclu-sione del rosario: Nunc et in hora mortis nostrae. Amen, cioè [prega per noi] adesso e nell’ora della nostra morte.

Deborah: io sono riuscita a vedere poco del film, ma da quello che ho

potuto vedere mi sembrava che avesse uno scorrere lento e che cercasse di mettere troppi particolari, magari contenuti nel libro, che rendevano ancora più difficile seguire la trama del film. Non metto in dubbio che sia un colos-sal, ma credo che non sia un film apprezzato dalla componente giovanile del-la società. Poi dal punto di vista strettamente personale io non amo questa parte di storia, ecco perché parto già prevenuta.

Leonardo: il Gattopardo di Luchino Visconti mi è sembrato davvero un

bel film, molto curato nei costumi e nelle scenografie. Gli attori sono ottimi e il periodo risorgimentale è ricostruito benissimo. Mi ha colpito davvero tanto perché questo film inscena la fine di un’epoca e l’arrivo di nuove realtà, viste attraverso lo sguardo del Principe Salina, molto preoccupato, all’arrivo dei garibaldini, di mettersi al riparo da ogni cambiamento. Storica la frase “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi!” ad indicare il fenomeno del trasformismo, cioè la capacità di assumere in modo immediato posizioni differenti o alternative a quella immediatamente precedente; è im-pressionante vedere oggi che il termine gattopardismo è sinonimo di trasfor-

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mismo e già da questo si evince come questo film (e questo libro) sia ormai una pietra miliare della storia del cinema italiano.

Penso che l’unica pecca dello sceneggiato sia la lunghezza dei dialoghi e soprattutto la durata (oltre 3 ore), ma tutto sommato è stato davvero interes-sante e coinvolgente. Consiglio vivamente la visione del film soprattutto ai ragazzi della scuola perché è importante sapere cosa sia successo nell’Italia meridionale nel periodo risorgimentale; dai libri spesso non si riesce a com-prendere del tutto la realtà dei fatti.

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Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese

(Appunti dell’incontro di SOS scuola del 20 aprile 2009 a cura di Cristina Marchese)

Il mare non bagna Napoli viene pubblicato nel 1953, destando il disap-punto di molti, per la presentazione di una immagine singolarmente decaden-te della Napoli del dopoguerra. Anna Maria Ortese tenta di giustificare “i segni di un’autentica nevrosi”, riferendosi al personale male di vivere di que-gli anni, che influenza la sua scrittura ed il suo modo di vedere il mondo. La scrittrice dichiara nella premessa, ma risulta evidente nell’opera, come i rac-conti esprimano il rifiuto della realtà rappresentata da Napoli; la vera nevrosi, per la Ortese, si traduce nell’esigenza metafisica di dare un ordine razionale ad una realtà insopportabile. Il viaggio narrativo compiuto attraverso i rac-conti conduce il lettore nei multiformi bassifondi di Napoli, viene descritta in toni allucinati una discesa agli inferi, dove la ragione è totalmente assopita e fa fatica a destarsi dal sonno.

Le storie private, che hanno luogo nelle abitazioni, per le vie ed i quar-tieri fatiscenti, illustrano la decomposizione di un popolo e di una società non ancora redenta dalla luce della Ragione. I miserabili di Napoli hanno assunto i tratti di una singolare ed indistinta fauna sotterranea. Il racconto di apertura - Un paio di occhiali – introduce il lettore in una piccola vicenda, che ruota intorno all’acquisto di un paio di occhiali da vista; gli interventi correttivi della vista, sono inutili: non si è di fronte ad una semplice incapacità di vede-re bene, ma il mito della bella Napoli, sentimentale ed incantatrice nasconde solo una vista insostenibile. Non è praticabile alcun miglioramento per chi è ai margini: Eugenia, la piccola cecata, è circondata da una realtà, che è me-glio non vedere. La soluzione degli occhiali si rivelerà deludente, perché le lenti restituiscono una visione deformante del mondo, che appare ancora più misero e squallido, tanto da provocare la nausea; gli occhiali sono considerati da Eugenia non un’invenzione della tecnica, ma dei cerchietti stregati. Nel quadro sociale dissestato di Napoli, nessun correttivo può migliorare le con-dizioni di una plebe senza via d’uscita.

Anastasia Finizio - una delle protagoniste di un altro racconto de Il mare non bagna Napoli - è indipendente economicamente grazie al lavoro della maglieria, ma è soffocata nella rete di doveri familiari, che le hanno impedito di realizzarsi come donna. Lei è un altro esempio di ordinario fallimento in

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un mondo senza prospettive e reso sopportabile da fantasiosi progetti di cam-biamento privi di fondamento reale. Lo stesso presepio non è altro che il ri-flesso di un mondo decrepito, brutto fino alla stupidità. In Oro a Forcella, l’autrice considera la plebe napoletana una razza svuotata di ogni logica e raziocinio, che vive di espedienti e menzogne. La Ortese annulla, attraverso le sue narrazioni, i luoghi comuni su Napoli: non è la città del sole, del canto e del sentimento, ma conserva il pregiudizio sulla plebe napoletana: lazzarona e capace di ogni finzione. Con La città involontaria, inizia la vera e propria discesa agli inferi; la scrittrice si avventura nell’orribile istituzione dei Grani-li, la caserma borbonica dove le bussole impazziscono e la scuola della Ra-gione, redentrice di tanti paesi, non è riuscita a compiere la sua opera purifi-catrice; la plebe dei Granili è una massa informe, che sopravvive senza sco-po.

Nelle descrizioni della Ortese, Napoli appare un monstrum inspiegabile, che rischia di pietrificare quanti osano fissarla nelle sue orride profondità. Le cose non cambiano per gli intellettuali, che la Ragione avrebbe dovuto com-pletamente redimere. Ne Il silenzio della ragione, presenta gli intellettuali napoletani privi di efficacia sociale e culturale; loro non sono gli attivi opera-tori della Ragione e dei suoi principi, ma grigi impiegati e funzionari, che, come il resto della società napoletana, naviga nella pura immaginazione. La classe intellettuale napoletana è assopita e soffocata dalla città come lo posso-no essere i gruppi sociali più emarginati. Napoli distrugge, ad avviso della Ortese, quelli che hanno osato pensare o agire e vanno ad incrementare la vegetazione umana. La vera nemica dei napoletani è la natura invadente, che fa rispettare i suoi ordinamenti, ma ignora tutti i diritti umani. A Napoli la ragione ha perso la sua lotta con la natura, che ha determinato e determina la sconfitta di intere generazioni di intellettuali: regna incontrastato il non sense.

La scrittrice offre una chiave di interpretazione della sua opera, affer-mando di aver voluto offrire non una misura della realtà di Napoli, ma una visione. Una visione, si potrebbe aggiungere, metafisica. In effetti, la Ortese elabora una spiegazione metafisica per problemi di natura storico-sociale e si concretizza nella lotta tra due entità metafisiche, la Ragione e la Natura.

Bisognerebbe chiedersi, se ai problemi socio-economici di Napoli la Or-tese intendesse dare una soluzione metafisica. Dare un senso metafisico, quindi una ragione al dissesto di un’intera società è comprensibile, ma può anche essere scritta, da intellettuali che pensano e agiscono, una via possibile a problemi di natura reale, anche quando la vista della realtà è insostenibile.

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La tregua

(Appunti dalla riunione di SOS scuola del 27 maggio 2009 a cura di America Oliva )

La tregua è un film del 1997, diretto da Francesco Rosi, tratto dal ro-

manzo omonimo del 1963 (vincitore del premio Campiello) di Primo Levi. È stato presentato in concorso al 50° Festival di Cannes.

La storia è quella narrata nel libro da cui il film è tratto: all’inizio del

gennaio 1945, quando ormai la Germania nazista è costretta a difendersi dall’arrivo delle truppe sovietiche da un lato e dall’inarrestabile avanzata de-gli alleati dall’altro, i soldati tedeschi ricevono l’ordine di abbandonare i campi di concentramento situati in est Europa, per sfuggire all’arrivo dei rus-si. Vengono così cancellate le tracce degli orrori commessi nei lager distrug-gendo tutti i registri ufficiali e i deportati ancora in vita vengono chiusi nei campi e lasciati al loro destino.

Anche i deportati nel lager di Auschwitz subiscono la stessa sorte e dopo essere stati liberati dai russi cercano un modo di tornare alle proprie case. Tra di essi ci sono francesi, polacchi e anche italiani. Uno di loro è Primo Levi, deportato poiché ebreo, che racconta quindi in prima persona il viaggio che ha dovuto affrontare insieme ad altri deportati italiani per fare ritorno in Ita-lia, a Torino, la sua città natale. Il loro percorso attraverso l’Europa centrale è ricco di imprevisti e spesso li costringe a percorrere molti chilometri a piedi o su treni di fortuna.

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Il gruppo che viaggia con Primo è formato da Cesare, un romano molto estroverso e socievole, Daniele, veneto e oramai senza più una famiglia, ster-minata dai nazisti. Poi Ferrari, un ladro di professione, Unverdorben, violini-sta, D’Agata siciliano. Di grande importanza è l’incontro che Primo fa con un greco, furbo e disilluso che gli farà capire molte cose con il suo acuto modo di sopravvivere ai guai.

Dopo tante disavventure il gruppo giunge a Monaco, dove Primo mostra la sua uniforme da deportato di Auschwitz ad un soldato tedesco catturato e costretto ai lavori forzati all’interno della stazione. Quest’ultimo si inchina come per chiedere perdono. Il ritorno a Torino è vicino e Primo potrà final-mente riabbracciare la sorella e la madre. Brevi sequenze ci fanno capire co-me gli è ormai estraneo quel mondo silenzioso, tranquillo e fatto di cose che possono sembrare scontate a chi ci è abituato, come il pane morbido e una tavola pulita. Il ricordo della terribile esperienza lo segnerà per sempre.

Dibattito Emilia: fa un confronto tra il libro e il film. Il libro è più bello, anche se

quello che le piace di più è Se questo è un uomo. Nel film l’uso del bianco e nero rende l’atmosfera di Auschwitz. L’odio dei sopravvissuti per i tedeschi si esprime, nel film, attraverso situazioni di comportamenti contrastanti: per esempio, Daniele offre il pane ai tedeschi, ma lo lascia a terra, perché i pri-gionieri possano andare a prenderlo strisciando ai loro piedi, come le bestie; in un’altra scena, sempre Daniele si schiera, nel campo di raccolta, contro una donna ebrea che era stata usata dai tedeschi come prostituta. L’atteggiamento di ripresa della vita si esprime, per esempio, attraverso la musica: è interes-sante la scena in cui il romano ruba il violino per portarlo all’amico musici-sta, che attraverso lo strumento torna a suonare e a sentirsi vivo.

Racconta l’esperienza della visita allo Yad Vashem (Museo dell’Olocausto) di Gerusalemme: particolarmente impressionante è il monu-mento dedicato al milione di bambini ebrei sterminati. Si cammina al buio in un corridoio in cui ci sono piccole luci e una voce che pronuncia i nomi dei bambini uccisi.

È colpita dall’assenza dei ragazzi del gruppo a questo incontro, perché c’è il rischio che manchino loro i codici di lettura della realtà.

Rosa: in genere, nella Giornata della memoria, i ragazzi sembrerebbero

distratti, ma quando, come a gennaio scorso, hanno partecipato all’incontro con un sopravvissuto di Auschwitz, che ha parlato in prima persona della pro-pria esperienza, hanno ascoltato con attenzione e partecipazione. Nel film è stata colpita dalla signora che aveva scritto la lettera ad Hitler, esprimendo

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tutta l’essenza della vita dell’uomo: “Come è possibile che tu vuoi combatte-re contro tutti?”.

Tommaso: la scelta del film, che termina il percorso di quest’anno, è

stata coerente con l’interesse per la nostra storia, che partendo dalla Sicilia del Gattopardo, ci ha portato all’Europa della Tregua. Il protagonista è un po’ sprovveduto: decide di diventare partigiano anche senza saper sparare. Da intellettuale, riflette, parla latino, è in contrasto con gli altri personaggi. Quanto alla possibilità di sopravvivere in situazioni estreme come quelle dei campi di concentramento, ci sono due ipotesi: una che dice che sono soprav-vissuti più facilmente le persone capaci di arrangiarsi, un’altra che sostiene, invece, come la cultura o la fede aiutino a restare vivi. A lui sembra più vali-da la seconda ipotesi: Primo Levi parlava diverse lingue ed era un intellettua-le. Le risorse spirituali e culturali possono essere irrobustite e possono suppli-re a deficienze a livello di natura.

Cristina: si rimane colpiti pensando a come sia stato possibile che

nell’Europa civilizzata del Ventesimo secolo sia potuto accadere lo sterminio. Daniele spiega a Primo che lui è stato risparmiato per la scrittura, per rielabo-rare tutto quello che è stato vissuto e tramandarlo. Ma la memoria diventa dolorosissima.

Chiara: la visione di questo film è opportuna nel percorso della ricerca

dell’identità che stiamo seguendo, è necessario conoscere la storia del Nove-cento. Le sembra che i personaggi principali del film possano essere caratte-rizzati anche dalla loro provenienza geografica: il siciliano parla sempre della sua famiglia, il romano ha un modo di fare rilassato, di chi prende la vita co-me viene, Daniele, il veneziano, ricorda la figura dell’ebreo errante, del capro espiatorio, è l’unico sopravvissuto del ghetto di Venezia. È anche l’unico che esprime la fede in Dio, anche se è una fede tormentata. Daniele ha bisogno della razionalità di Primo per arrivare a dire che è stato preservato per conser-vare la memoria di quello che è accaduto. Primo dice che Dio non c’è, ma se c’è, è ad Auschwitz. Auschwitz è un paradigma: gli interlocutori dei soprav-vissuti o non sanno o non vogliono sapere. Anche durante lo sterminio gli ebrei che volevano diffondere la notizia dell’esistenza dei campi avevano difficoltà ad essere ascoltati, anche nella stessa Polonia dove gli ebrei sono quasi completamente spariti.

Con i ragazzi, che rimangono molto colpiti anche dai film sulla Shoa, il lavoro degli insegnanti è un antidoto contro le forze che vogliono soggiogar-ci.

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Gita di SOS scuola a Palermo 1-3 maggio 2009 (Diario di Paola Troiano)

01/05/09 Ore 6 di mattina: si parte. Dopo una lunga corsa contro il tempo (la sve-

glia non aveva suonato) si parte verso una delle regioni italiane più belle del mondo : la Sicilia.

Precisamente la nostra meta è Palermo ossia la “capitale” di questa me-ravigliosa regione. La particolare bellezza di questa città posso, ora, dopo averla visitata, riconoscere ed apprezzare.

Il viaggio è stato lungo. Per passare il tempo Tommaso ci ha raccontato per ore della storia della Sicilia e anche se è stato interessante, alla fine mi sono un po’ seccata. La traversata dello stretto di Messina col traghetto mi è piaciuta molto e ho approfittato per fare qualche foto al mare.

Dopo qualche sosta un po’ “improvvisata” finalmente si vede Palermo dominata da Monte Pellegrino.

Abbiamo raggiunto il nostro alloggio che è una casa diocesana situata nel porto di Palermo, denominata “Stella Maris”, abbiamo lasciato i nostri bagagli, e siamo usciti per visitare la Palermo arabo-normanna.

Il nostro sguardo si posa dappertutto. Dalle finestre ad arco arabo, alle grandi fontane tutto è grande, bello e ha il sapore eterno della storia.

La prima opera d’arte che abbiamo visto è stata una piccola chiesa (San Cataldo) con tre cupolette rosse che risale al tempo dei crociati.

Successivamente si arriva alla Cattedrale di Palermo di uno splendore immenso in stile arabo-normanno. Nella piazza, palme e piante e una scultura al centro, all’interno qualche affresco ai lati e le statue dei santi. Siamo andati a vedere anche un museo all’interno della cattedrale dove si trovavano le tombe dei più importanti imperatori della Sicilia, fra cui quella di Federico II.

Dopo siamo passati da un’altra piccola chiesa (San Giovanni degli Ere-miti) che assomiglia molto alla prima, ma purtroppo non siamo potuti entrare perché è abbandonata. Siamo passati anche dal Teatro Massimo che ho trova-to di grande bellezza.

Dopo questa lunga scarpinata siamo ritornati alla “casa del porto” per cenare. E dopo aver finito abbiamo visitato Palermo by night e abbiamo visto tra l’altro, il teatro Politeama. Infine siamo ritornati alla casa “Stella Maris” per dormire.

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L’indomani le nostre mete sono: il Centro “Peppino Impastato”, la Zisa, Monreale, la grotta di Santa Rosalia e Monte Pellegrino.

02.05.09 Alle nove siamo stati ricevuti al Centro “Peppino Impastato” dal prof.

Umberto Santino e dalla moglie, la prof.ssa Anna Puglisi. I due fondatori del Centro ci hanno illustrato la loro preziosa opera di studio, documentazione e impegno concreto nella lotta alla mafia. La testimonianza ha suscitato in tutti noi un grande interesse e molte domande. Alle 10.30 abbiamo scambiato al-cuni lavori a stampa e siamo andati a visitare la Zisa.

Per entrare siamo dovuti passare attraverso le sbarre di un cancello e nel giardino le fontane erano prosciugate, all’esterno la Zisa non presenta parti-colarmente bene, ma è di una ingegnosità incredibile. Infatti è stata uno dei primi palazzi con “l’aria condizionata” per il suo sistema di ventilazione e lo sfruttamento dei venti. Non a caso è stata la residenza estiva dei re Guglielmo I e Guglielmo II dove potevano rifugiarsi nei periodi più afosi dell’anno.

Essa è di gusto arabo-normanno, ci sono tre archi frontali, tre piani e al centro c’è una specie di cappella con affreschi sul soffitto e ai lati e delle va-sche al centro. Mi hanno colpito molto le finestre dove erano posizionate le “mushrabiyya” (dall’arabo “gelosia”) che sono delle persiane che servivano a far sì che chi era all’interno potesse vedere fuori, ma non permettevano a chi era fuori di vedere all’interno.

Alla fine della visita siamo andati a Monreale. Arrivati abbiamo visitato chiostro il e il Duomo. Il chiostro è grandissi-

mo e formato da tante colonne con delle decorazioni a mosaico. Il Duomo è immenso, pieno di mosaici bizantini che raccontano la storia della Bibbia e archi arabi.

Successivamente siamo andati alla Grotta di S. Rosalia. Essa è piccolina, ma di una bellezza molto particolare. In una teca di vetro c’era la statua d’oro con le reliquie della santa.

La visita finale della giornata è stata a Monte Pellegrino da dove si pote-va godere di una vista fantastica, si vedevano il mare e Palermo.

Infine rientro alla “casa del porto Stella Maris” dove ci siamo riposati per due secondi.

Per cenare siamo andati alla focacceria San Francesco che ha avuto e ha seri problemi con la mafia, infatti il proprietario ha detto no al pizzo e perciò viene scortato dalla polizia tutti i giorni da 15 anni.

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Abbiamo avuto l’occasione di mangiare il panino con la “mieusa” (ndr. milza fritta nello strutto) e farci una bella passeggiata dimagrante per Palermo (ci voleva!).

03.05.09 L’ultimo giorno è arrivato, ma abbiamo ancora tempo per visitare il

“piatto forte” di Palermo: il Palazzo Reale, la Cuba e il ponte dell’Ammiraglio.

Appena entrati a Palazzo Reale siamo saliti per delle lunghe e basse sca-linate e siamo entrati nel Parlamento siciliano costruito nel V secolo e sovra-stato da begli affreschi di stile settecentesco che raccontano le vicende di Er-cole.

Abbiamo visitato anche la Cappella Palatina dove abbiamo partecipato alla messa celebrata in latino. Pur essendo più piccola del Duomo di Monrea-le, la cappella Palatina è molto bella. Essa è stata edificata nel XII secolo da Ruggero II, ha notevoli soffitti arabi e mosaici di stile bizantino.

Poi abbiamo visitato la Cuba e alla fine, prima di andarcene, abbiamo visto il ponte dell’Ammiraglio.

Il viaggio mi è piaciuto un sacco, non pensavo che Palermo fosse così bella. Tanto gli arabi-normanni ci hanno colpito per la loro ingegnosità e per la finezza della loro arte che un amico, compagno di viaggio, ha detto con mia grande sorpresa ,“da grande voglio fare l’arabo-normanno”, peccato che fosse già grande da un pezzo.

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Sui passi degli uomini e delle donne di preghiera

(Appunti dal viaggio di SOS scuola a Bivongi, Caulonia, Gerace dell’11 e 12 luglio 2009 a cura di Chiara Marra )

Sabato 11 luglio (Tommaso e Chiara) abbiamo fatto visita ai monaci ortodossi del patriarcato di Romania, Giustino, Paolo, Andrea, che vivono in terra di Calabria, a Bivongi. I tre rumeni sono subentrati a tre monaci orto-dossi del monte Athos che a cavallo tra la fine del XX sec. e gli inizi del XXI hanno restaurato la chiesa e il monastero di san Giovanni Therestis, a pochi chilometri da Bivongi e da Stilo. A pochissima distanza dal monastero si tro-va un altro complesso monastico detto dei Santi Apostoli, ancora da restaura-re. Il dialogo con padre Giustino è durato circa un’ora e ha riguardato tanti temi, dalla sfera personale alla vita religiosa, dal rapporto con il territorio e gli altri centri di spiritualità, all’unità tra Chiesa d’oriente e Chiesa d’occidente.

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Il pomeriggio siamo andati a conoscere Frédéric Vermorel, un francese di circa cinquant’anni, il quale, dopo aver frequentato la scuola più prestigio-sa di scienze politica d’Europa, “Science Po” di Parigi, da sei anni vive in un eremo (Sant’Ilarione) situato su una roccia in un’ansa del torrente Allaro, nel comune di Caulonia. Padre Frédéric è approdato nell’alta valle dell’Allaro grazie a quel prete illuminato che si chiama Giancarlo Bregantini, allora ve-scovo di quella diocesi. Il dialogo con l’eremita è durato alcune ore del po-meriggio ed è culminato nell’ora di preghiera dei vespri, durante i quali il dialogo è diventato universale.

Domenica 12 luglio siamo andati a Gerace, dove insieme a quattro amici

di SOS scuola, che per l’occasione ci hanno raggiunto direttamente da Cosen-za, abbiamo incontrato Mirella Muià, una iconografa, originaria di Siderno ma francese di adozione, che da alcuni anni vive all’eremo di santa Maria di Monserrato, situato alle porte della città, rimesso a nuovo grazie a monsignor Bregantini, e ora denominato eremo dell’Unità. Mirella vive un tipo di apo-stolato che mira a recuperare le vere radici spirituali della Calabria e a tesse-re, con la preghiera, lo studio, la produzione delle icone, una rete di sutura delle lacerazioni tra la Chiesa d’oriente e quella d’occidente. L’incontro con Mirella si è concluso a casa di Mena e Gesumino, in contrada Puzzello, a

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qualche chilometro da Gerace, con un pasto semplice ma saporito e abbon-dante.

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Lavoro svolto dalla classe V B mercurio dell’ITC “V. Cosentino” di Rende (CS), relativo alla tappa

di ricerca di Famiglia Aperta sul tema “Scegliere la vita nella società del mercato”

(Coordinatore Tommaso Cariati, segretario Leonardo Magarò.

Testo pubblicato sul sito www.sos-scuola.it)

Riunione preliminare La classe V B mercurio dell’ ITC “Vincenzo Cosentino”, su invito di

Dora Ciotta, ha deciso di aderire ad un progetto dell’associazione culturale Famiglia Aperta sul tema “La scuola per la vita”, che fa parte del tema più ampio “Scegliere la vita nella società del mercato”.

L’obiettivo di Famiglia Aperta è quello di indagare, con l’apporto di tut-te le esperienze di vita, che attraverso le nostre testimonianze riusciranno a registrare, se e in quale maniera, il mercato incida oggi sulle nostre relazioni umane, e quanto e come condizioni la nostra capacità di rischiare scelte co-raggiose.

Nel primo incontro di “orientamento”, insieme al prof. Tommaso Caria-ti, dopo aver analizzato i contenuti esplicati dall’opuscolo del progetto, abbia-mo esaminato le quattro possibili modalità di partecipazione, o “piste”, per la comunicazione delle nostre esperienze.

La classe dopo esser venuta a conoscenza della struttura completa del progetto e dei maggiori particolari, ha individuato di comune accordo un gruppo di tredici persone volontarie maggiormente interessate all'iniziativa.

Il gruppo dei partecipante, costituito da Acri Gessica, Bianco Marcello, Bottino Deborah, Bruno Noemi, Bucalo Antonio, Covello Sabrina, Greco Antonio, Magarò Leonardo, Mannara Angelo, Palermo Iolanda, Perretti Ales-sandro, Perrotta Federica, Zupo Rosanna, ha deciso, tra le quattro diverse modalità, di scegliere la pista numero due (“per i preadolescenti, adolescenti e giovani - studenti e/o lavoratori”).

Cos’è la vita? Penso che la vita sia un dono inestimabile, che noi tutti l’abbiamo per

opera dello Spirito Santo; e noi tutti siamo tenuti a rispettarla e a continuarla

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finché non moriamo. Molti la perdono, perché sono stanchi di sopportarla, ma non bisogna buttarla così, solo perché si ha un momento brutto, perché a volte essa ci mette alla prova e penso che sia anche giusto, magari per farci crescere e affrontare qualsiasi ostacolo che ci pone. Io personalmente non nego che ho passato periodi brutti nella mia vita, ma ho sempre lottato per superarli perché amo vivere, cioè amo stare insieme agli altri ed arricchire le mie conoscenze per crescere e per rendere la vita più ricca e piena di soddi-sfazioni. È vero che c’è tanto da lavorare per abbellirla, ma se vogliamo e ci crediamo possiamo riuscire nell’intento di migliorarla, anche se oggi si pre-senta più difficile.

Una domanda così semplice, con pochi nomi, pochi verbi, pochi aggetti-

vi, pochi sostantivi, ma così grande di significato, così importante tanto da diventare una delle domande a cui è più difficile rispondere. La vita è un do-no e come tale dovrebbe essere vissuta. È un vortice di sensazioni, emozioni, esperienze, lacrime, sorrisi, problemi, gioie, dolori, delusioni, illusioni, sogni, sentimenti, musica, danza, riflessioni, pensieri. A volte sa essere un vulcano in esplosione, altre volte è un mare in tempesta. Poche volte è serena come un cielo in piena estate, spesso è grigia, cupa e inquieta come un cielo in inver-no. La vita, una parola che suscita un senso di infinito, ma purtroppo infinita non è… è sempre minacciata da questa ombra enorme, la morte, che prima o poi coinvolge tutti. Ecco perché si dovrebbe vivere sempre come se fosse l’ultimo giorno. Cercare di sorridere sempre, di superare tutti gli ostacoli che purtroppo ci pone. Qualcuno dice che la vita è come uno specchio che ti sor-ride se la guardi sorridendo… mah… chi lo sa… una cosa è certa che fare questo è difficile se non impossibile perché purtroppo, oggi come oggi, la vita è piena di problemi, ci sono giorni in cui sono veramente pochissimi i minuti di felicità e tantissime le ore di tristezza. È un continuo mettere alla prova, una scoperta continua, una sorpresa dopo l’altra. La vita è un mistero.

Sì, è un’esperienza che mi riguarda. La mia vita è mia. La posso solo condividere con gli altri. Ma nessuno può vivere la vita degli altri.

Beh, a questa domanda non è facile rispondere anzi credo che sia impos-

sibile, perché includerebbe spiegare e descrivere ogni cosa che esiste. Ogni respiro, ogni rumore, ogni emozione, ogni carezza, la brezza marina leggera che ti sfiora la pelle, il senso di pace che ti avvolge mentre gli occhi si chiu-dono, gli alberi verdeggianti che crescono dal terreno morbido e caldo, i pe-sci, gli animali, le persone… l’acqua. La vita è ciò che siamo e ciò che ci cir-conda. Non c’è un modo giusto o un modo sbagliato per viverla, perché nes-suno mai ce l’ha insegnato. Né le religioni, né la scienza hanno saputo dare

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una spiegazione plausibile, una spiegazione precisa sulla vita. È una domanda che fa parte di quella categoria di domande senza risposte, le domande che ci fanno un po’ paura perché le cose senza soluzione ci spaventano un po’.

Sì, è un’esperienza che mi riguarda, che ci riguarda perché ognuno ha la sua vita ed è sbagliato vivere in funzione di un’altra persona, come magari accade quando si è innamorati, ma a quel punto non è più amore ma dipen-denza. La vita deve essere condivisa con gli altri, in tutti i suoi aspetti: felici-tà, gioia e soprattutto dolore. Ma aldilà di questo, ognuno ha la propria vita, i propri sogni da realizzare e le proprie soddisfazioni da avere.

La vita la intendo come un percorso da affrontare. Un percorso che ti

pone davanti a difficili quesiti, per ognuno dei quali è di fondamentale impor-tanza riuscire a dare una risposta per continuare il cammino indisturbati. Ogni scelta può portarti su determinate strade che poi si rileveranno fondamentali per raggiungere i determinati obiettivi che ti sei posto per il futuro. Io penso che sia importante cercare di avere pieno controllo della vita, nel senso di seguire determinate regole di condotta per riuscire al meglio nel nostro per-corso, perché vivere la vita significa anche averla come esperienza che ci ri-guarda, perché ognuno di noi è artefice del proprio destino, ed è attraverso le proprie scelte che si arriva al compimento dei propri obiettivi senza mai pen-tirsi.

La vita secondo me è un’esperienza, un’opportunità che ci è stata data

per affrontare nuove situazioni. Secondo me sì, è un’esperienza che mi ri-guarda, come riguarda ogni individuo della terra, perché se siamo stati chia-mati a vivere questa esperienza vuol dire che ognuno di noi ha un qualcosa da insegnare agli altri e che quindi possiamo fare qualcosa di buono e utile per la società.

La cosa più ingiusta della vita è come finisce. Bisognerebbe iniziare mo-

rendo, così ci si leva subito il pensiero. La vita è qualcosa che ci è stato dona-to, che dobbiamo costruirci: ci è stata data la base su cui farlo e ora tocca tut-to a noi. È un insieme di eventi, emozioni, paure e sogni che ci trasformano ad ogni passo. È come una scatola di cioccolatini “non sai mai quello che ti può capitare”. Quando penso alla vita cerco sempre di ricordare di vivere co-me se dovessi morire domani, e penso come se non dovessi morire mai, dico “cerco” perché non sempre riusciamo ad assaporare ciò che la vita ci regala in quanto noi esseri umani siamo degli incontentabili. Bisogna vivere come si pensa, altrimenti si finirà per pensare a come si è vissuto.

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La vita si acquista con la nascita e la si perde con la morte. In questo periodo che può essere lungo o breve, si affrontano molte difficoltà e attra-verso queste esperienze l’uomo diventa sempre più colto e maturo. Nella vita l’uomo si deve porre delle domande: che cosa farò io per l’umanità? Cosa farò per vivere? Come cresceranno i miei figli? Sarò in grado di dar loro un’educazione corretta? Attraverso queste domande l’uomo si crea il proprio stile di vita. La vita quindi è un dono prezioso, quindi non bisogna sprecarla e bisogna sempre aiutare il prossimo.

Ragazzi, se ci guardiamo intorno, vediamo che ci sono piante, animali,

rocce e constatiamo che le piante e gli animali non sono come le rocce, e di-ciamo che le piante, e ancor di più gli animali, sono vivi. Osserviamo anche che se uno tira fuori un coltello e lo caccia nel petto di un compagno e dopo un po’ il malcapitato muore, diciamo che egli è privo di vita. Allora, a un pri-mo livello possiamo dire che c’è vita là dove c’è un certo grado di autonomia, di possibilità di sviluppo, di relazione con l’ambiente. Si badi che anche in un corpo morto c’è ancora potenzialità di vita: il DNA del defunto contiene an-cora in potenza la vita. Certo, voi ricevete la vita dai genitori, ma i genitori non sono la sorgente della vostra vita, sono solo strumenti al servizio della Vita.

A un secondo livello vediamo poi che le persone hanno potenzialità che gli animali non hanno, come gli animali hanno potenzialità che le piante non hanno. Allora ci rendiamo conto che le persone, nonostante le analogie, sono cosa diversa dagli animali. Le persone hanno una coscienza, un’intelligenza, una creatività che le altre creature non hanno e ci rendiamo conto che la per-sona umana è il capolavoro di Dio. Sì, perché la vita promana dal Dio viven-te, dall’“Altissimo onnipotente bon Signore” del poverello di Assisi.

La vita da chi ti è venuta? Penso che la mia vita sia venuta per un dono d’amore, ma può capitare

anche che quando due persone stanno insieme e si amano si arrivi anche a creare una vita indesiderata.

Personalmente penso che la vita ci sia data dallo Spirito Santo; la vita

però nasce da un rapporto basato sull’amore e sul vero sentimento, scaturito tra due persone di sesso opposto. Non sempre però è così, una volta gli uomi-ni, non consapevoli delle loro azioni, potevano commettere l’errore di dare la vita ad un altro essere umano. Oggi alcune ragazze dopo essersi accorte di essere incinte, riescono a trovare la forza di abortire e cioè di far cessare una

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vita. Forse non si rendono conto che commettono un grave gesto; altri invece, dopo l’errore commesso, cioè quello di mettere al mono una persona, non riescono a fare i “genitori”, non riuscendo in uno scopo della vita, appunto quello di essere genitori, di educare, di insegnare, di contribuire alla crescita del proprio figlio, e così si può avere un vero fallimento. Io penso che primo di voler dare al mondo un dono così bisognerebbe avere tanta maturità e con-sapevolezza del gesto che si vuol fare; sì, perché colui o colei che nascerà avrà diritto a vivere con a fianco i suoi genitore che contribuiscono nella sua crescita.

La vita è un dono di Dio. Ma penso anche che sia un dono d’amore, che

ci è data dai genitori. È grazie a loro che noi viviamo, ma è anche grazie a Dio. Perché se non avesse creato l’uomo e la donna a quest’ora il mondo sa-rebbe vuoto. Ma Dio ci ha creato per un unico principio: amarlo e adorarlo. Io penso che l’unico creatore di tutto sia lui, ma è anche vere che se non aves-se creato i miei genitori, a quest’ora non ci sarei neanche io. Ma oltre a que-sto penso di essere nata da un sentimento d’amore, anche se essendo nata, dopo 17 anni credo che il vero amore ci sia ancora, altrimenti non credo che mi avrebbero messo al mondo.

La vita è data da due persona che si amano ma non sempre è così… la

mia vita secondo me è venuta per amore. Penso che scoprire da dove arrivi la vita è un paradosso al quale nessuno

di noi potrà mai rispondere in modo razionale. Credo sia importante per o-gnuno di noi credere che la vita esista come dono di qualche divinità onnipo-tente, perché è impossibile immaginare diversamente. In senso più materiale, ed elementare, la vita mi è stata data dai miei genitori, sicuramente, per un dono d’amore poiché come abbiamo detto nell’incontro precedente la vita funziona in stretta relazione con l’amore. La vita è un dono inestimabile e se questa viene concepita senza amore perde di ogni suo significato e valore.

Beh, non essendo particolarmente religiosa, io credo che la mia vita mi

sia venuta dai miei genitori, tramite la loro unione sessuale con la fecondazio-ne dell'ovulo da parte degli spermatozoi. Almeno questa è la spiegazione scientifica a livello fisico, a livello pratico. Ma la vita in sé come fa ad esiste-re, io personalmente non so rispondere, non lo so spiegare. Non credo alle divinità, non credo ad una forza che abbia potuto realizzare un'opera cosi grande. Posso solo accontentarmi delle spiegazioni date dagli scienziati, quel-le poche per spiegare qualche fato preso alla rinfusa, almeno quelli spiegabili.

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È una speranza, la speranza che i miei mi abbiano veramente dato la vita at-traverso un gesto d'amore... un gesto che va solo a completare quella forma di sentimento puro che è il cardine principale della vita. Pensare ad una persona nata da un rapporto basato unicamente sul sesso, il solo pensare a tutto ciò... è squallido!!! Si pensi ai figli nati da abusi sessuali (succede), nati da un rap-porto senza nessuna goccia d'amore, di piacere sul lato fisico, ma soltanto da dolore e violenza.

Ragazzi, vi sono due nascite, una riguarda l’ingresso nel mondo e coin-

cide con la nostra data di nascita, mentre la seconda non coincide con un mo-mento particolare, ma dura tutta la vita e riguarda la dimensione spirituale. Ebbene si può essere nella morte anche vivendo, svolgendo molte attività, facendo carriera e diventando ricchi. La vita, quella vera che ci fa salire verso il vertice del creato, la si sperimenta solo quando riconosciamo umilmente di essere debitori di tutto. Siamo debitori nei confronti dei genitori, dei fratelli e degli altri componenti della famiglia, dei docenti, del proprio coniuge o fi-danzato, degli amici, i quali partecipano alla costruzione della mia vita; se amici, maestri, parenti e sposi non fanno questo non si capisce che cosa stia-no a fare. Sotto quest’ottica si vede bene da dove ci viene la vita: è dono degli altri ma soprattutto è dono di Dio Padre, il quale la vita ce l’ha donata perché egli è il Vivente, di Gesù Cristo che è venuto a riscattarmi dal peccato facen-domi rinascere sul piano spirituale, dello Spirito santo che è l’amore che mi avvolge e mi riscalda tutti i giorni.

Com’è la tua vita? La vita non è facile per nessuno, ognuno deve costruire un futuro e af-

frontare ostacoli, nel fare la cosa giusta si è fraintesi, e a volte si ha paura di fare determinate cose. La vita è bella ma influiscono determinati fattori, ma-gari quando uno si sente rifiutato, ma bisogna andare avanti magari col sup-porto delle persone care; poi penso che per aggirare determinati ostacoli nella vita per me la fede ha avuto un’importanza fondamentale.

La mia vita è bella e tranquilla perché ho delle persone vicine che mi

vogliono bene che sono la guida del mio percorso. Nella vita bisogna essere fortunati. Non è facile e bella, certo non è la

ricchezza che rende la vita facile. A volte si desidera di ritornare all’infanzia per non affrontare determinate svolte della vita. Giorni felici e sereni ci sono però non riescono a compensare quelli tristi di una vita. Ho delle soddisfazio-

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ni però vorrei un altro tipo di serenità che mi manca. La nostra classe è diver-sa dalle altre perché molte persona hanno avuto diversi problemi, la nostra è definita una classe modello ma l’apparenza inganna. Gli ostacoli più grandi che si possono incontrare riguardano la famiglia.

La mia vita è felice anche se con alti e bassi, ad esempio la mia vita

l’adoro ma può capitare che qualcos’altro vada storto, vorrei anche io tornare all’infanzia. Ad esempio a volte quando tu fai del bene e non viene ricambia-to e alla fine si hanno dei litigi. Difficoltà nelle relazioni interpersonali.

La vita non è facile per me, anche perché la mia famiglia non attraversa

un buon momento, io non riesco a trovare la forza in Dio. Nella mia vita ci sono momenti brutti e belli, la vita è complessa e per

niente facile, ma è bella perché è un dono e bisogna viverla fino in fondo. La mia vita è brutta, nel passato i giovani non avevano molta libertà ma

erano più responsabili, man mano che passa il tempo la spensieratezza dei giovani aumenta perché ritengono la vita un gioco.

La vita è la cosa più bella che si possa avere. Nella vita si fanno molte

esperienze, belle o brutte che siano; queste esperienze ci aiutano ad andare aventi e a fare di noi uomini e donne. Le cose più belle ed entusiasmante del-la vita sono quelle inaspettate, come trovare l’amore o trovare i veri amici. La mia vita è bella e felice proprio per questo, perché quando meno me lo aspet-to succede qualcosa che mi fa diventare sempre più felice e soddisfatto.

La mia vita non è per niente facile e neanche bella. Penso che vivere a

volte non serve niente, fare tanti sacrifici per che cosa poi? Nessuno ti ringra-zia per quello che fai, forse sarà una soddisfazione propria, ma alla fine non è neanche così… più cerchi di essere buona, comprensiva, aiutare chi ha biso-gno e più si riceve male… perché? Nessuno ci vede come siamo realmente, e questo delle volte fa male… perché ogni persona nel suo piccolo si conosce ed è speciale.

La mia vita finora ha avuto molti alti e bassi, ci sono stati giorni belli e

brutti, giorni felici e tristi, giorni dove ho avuto paura , ma giorni dove mi sentivo sicura di me stessa. Ma la mia vita è stata anche molto piena… sì per-ché ho conosciuto persone splendide che hanno sempre cercato di farmi cre-scere e di farmi capire il bene e il male, queste hanno creduto in me dandomi

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delle possibilità. Molte volte ho sofferto, pianto, gridato dal dolore che ho provato, ma ho sempre cercato di andare avanti, sapete perché? perché ho tanta fede e credo molto nel mio futuro. Spero che continuerò a trovare perso-ne come queste, spero di superare gli ostacoli posti dalla vita, spero di conti-nuare a maturare per arricchire la mia vita, spero di dare il più possibile alle persone che credono in me, ma soprattutto spero che la mia vita abbia avuto un significato, non solo per me, ma anche per gli altri.

Ragazzi, la mia vita è bella; facile no, ma nemmeno difficilissima. Di-

ciamo che è una lotta quotidiana che dà gusto alla vita. Dopo un lungo cam-mino fatto di tornanti, salite e cadute io faccio esattamente quello che devo fare, ciò per cui ho ricevuto la vita. Le ragioni che rendono bella la mia vita sono da ricercare nei rapporti familiari, nell’incontro di persone che ti edifi-cano, nell’opportunità di comprare ed apprezzare un libro che ti aiuta a com-prendere meglio il senso della vita. Sono giunto a questo stadio innanzitutto grazie alla serietà con cui ho vissuto le esperienze che mi sono capitate, che da un lato mi hanno fatto pagare un caro prezzo, ma dall’altro si sono rivelate preziose; in secondo luogo, grazie a una certa sensibilità che mi fa essere co-me un’antenna sempre in ascolto del mondo, del mistero che ci avvolge; in terzo luogo, grazie all’aiuto che ho trovato nella gente che ho incontrato; infi-ne, grazie alla fede che cresce giorno dopo giorno.

La vita è solo tua? La mia vita è solo mia e mi prendo il diritto di sbagliare e non la vivo in

solitudine perché mi piace relazionarmi con il mondo esterno. La vita è mia ma anche degli altri perché da sola non avrebbe senso. Non

la vivo in solitudine perché non ci sarebbe futuro. La mia vita è mia ma anche degli altri ed è bene alternare i momenti di

solitudine a quelli in compagnia. La vita è mia perché sono artefice del mio destino, nei momenti difficili

cerco sempre gli amici per stare in compagnia. La vita dipende dalle mie decisioni, a volte c’è solitudine ma preferisco

stare con gli amici.

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La vita è mia, posso accettare consigli, ma alla fine decido io, quando sono triste la passo in solitudine.

La mia vita la sento mia, e anche degli altri, perché altrimenti non avreb-

be senso; la vivo con gli altri perché è importante confrontarsi. Penso che la vita si debba vivere in relazione con gli altri, è importante

accettare consigli per affrontare scelte difficili. Nel mio caso penso che la mia vita non debba essere solo mia, vivendola

in solitudine… ma la mia vita è condivisa con gli altri. Per me non è vita stare isolata, senza instaurare rapporti con gli altri. La vita inizia ad avere un senso nel momento in cui si instaurano dei rapporti di qualsiasi natura, perché alme-no per quanto mi riguarda la vita nasce da un rapporto d’amore tra due perso-ne. Come faremmo noi giovani a crescere senza l’aiuto degli adulti, senza instaurare rapporti? Perciò, restando dalla mia idea, è giusto vivere la propria vita insieme agli altri, ovviamente senza creare delle dipendenze.

Ragazzi, la vita di ognuno di noi è relazione autentica e profonda con gli

altri e con il Dio vivente; chi si isola è morto anche se fa molte cose. Infatti, si può essere fuori strada anche mostrandosi attivissimi o associandosi agli altri in qualche impresa collettiva (magari mafiosa e criminale). Sono convin-to che bisogna stare attenti a tre trappole: l’attivismo, l’isolamento, l’associazionismo strumentalizzante. La mia vita non è per niente mia: non ho fatto niente per riceverla e non potrò fare molto per prolungarla. Più noi ci convinciamo di questo, e viviamo in questa ottica, e più la vita acquista gusto e bellezza.

La vita tra dramma e speranza (sull’intervista di J. Moltman) Sono stata colpita dalla domanda sull’uomo contemporaneo e della

scienza moderna e non sono del tutto d’accordo su quello detto da Moltman, dove parla anche della guerra in Afghanistan, il cristiano un tempo scendeva anche sui campi di guerra e non c’era molta differenza con l’islamismo e pen-so che con il dialogo si possa risolvere ben poco.

Il testo non mi ha colpito in modo particolare ma la domanda sull’uomo

contemporaneo mi ha coinvolto un po’. L’intervistato dà l’impressione che l’uomo non viva la vita in modo giusto, ma non sono d’accordo perché penso che l’uomo, attraverso il progresso, riesca a migliorare la vita.

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Sono convinto che la scienza a volte esageri perché non si può giocare a

clonare o fare altre cose come ignorare la volontà di Dio. Il testo non mi ha coinvolto particolarmente, ma sono d’accordo con la

mia compagna, la speranza è quella di vivere sempre meglio limitando la sof-ferenza.

Sono d’accordo sul fatto della vita di coppia perché credo che se un gior-

no dovessi studiare teologia sicuramente non mi isolerei e mi confronterei con gli altri.

Ancora sono presenti disuguaglianze. Penso che tramite il confronto si riesca a crescere. Gli scontri religiosi non sono giusti perché ognuno è libero di professare

la propria dottrina. È buono mettere limiti alla scienza, ma non troppi perché la scienza aiuta la vita.

Per quanto riguarda i campi di concentramento, sono d’accordo con

Moltman: vorrei valorizzare la speranza perché non bisogna dare la vittoria al male che ha fatto Hitler.

Ragazzi, penso che la maggior parte dei guasti umani siano dovuti al

fatto che l’uomo dimentica o ignora chi è veramente. Penso che l’uomo sia una creatura complessa, ma se uno sviluppa solo un interesse e riduce la vita a un solo obiettivo, per quanto nobile, non è libero.

Ad esempio, l’uomo ha un corpo, è “soma”, ma guai a considerare solo il corpo ed abusarne, perché oltre al corpo l’uomo è intelligenza, spirito, ani-ma, musica, poesia. Quando l’uomo si concentra su una sola dimensione, co-me può essere il lavoro, il successo, il potere, lo sport, la guerra, la politica, la religione, egli perde la libertà perché confonde il tutto con la parte, idolatra la parte, e si fa prigioniero di un’ideologia.

Consideriamo il dibattito sulla scienza, l’ingegneria genetica, la bioetica: il punto è che nessuno dovrebbe poter maneggiare una bomba atomica se non sa niente del vero significato della vita; forse un tale potere non dovrebbe essere concesso a nessuno. E i segreti della vita non sono forse più delicati della bomba atomica? Certo, nell’essenza dell’uomo c’è il desiderio di cono-scere e nella sua libertà la possibilità di sbagliare; chi, operando per la felicità

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degli altri, sbaglia in buona fede, può essere compreso e perdonato. Del resto, come narra il brano evangelico della zizzania e del grano, Gesù sconsiglia di sradicare la zizzania mentre il grano cresce perché ciò rovinerebbe anche il grano. Il problema diventa grave quando ci troviamo di fronte a vere e pro-prie ideologie della morte scientificamente organizzate per perpetrare mo-struosi crimini contro l’umanità. Come si vede, non si tratta di decidere: scienza sì o scienza no. Il problema è: quale scienza? nelle mani di chi la mettiamo? per farne che cosa? Occorre chiedersi: perché gli uomini vogliono manipolare il segreto della vita, per la felicità del prossimo o per la carriera, il successo, la gloria, il dominio? A costoro vorremmo dire, con san Paolo, che noi ci affanniamo tanto ma l’unica cosa che conta è la carità. Gustiamo insie-me allora l’inno alla carità di san Paolo in calabrese:

“Puru ca canuscera ttutte ’e lingvue ’e ru munnu, / parrate ’e l’uomini e dde

l’angiuli, / ma unn avera ra carità, sugnu cumu na campana rutta / o cumu na catar-ra šcasciata. / E ppuru s’avera ra graz¥z¥ia ’e fare prufez¥z¥ie / e ppuru ca canuscera ttutte ’e cose e ttutta a scienzia, / er avera na fira perfetta / ppe pputire špustare puru ’e muntagne, / ma unn avera ra carità, un sugnu nenta. / E ppuru ca rigalera ad¥d¥’at¥ri tuttu chid¥d¥u ca tiegnu / e gghiettera ru cuorpu mia ’nt¥ru fuocu / pper essa-re vrusciatu, ma unn avera ra carità, / nente m’aggiova. / ’A carità tena ppacienzia, è benigna ’a carità; / unn è mmiriusa ’a carità, un s’avanta, un s’unc¥hia, / unn offen-de, u bba ’ncerca ’e guaragnu, / un s’arraggia, un sa pigghia ppe ru malu ricivutu, / u ggora ppe ll’ingiustiz¥z¥ia, ma li piacia ra verità. / Cummogghia ttuttu, crira a ttut-tu, špera ttuttu, cumporta ttuttu, ’a carità”

(versione in dialetto di Tommaso Cariati).

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Lavoro svolto dalla classe III C della scuola media di San Lucido (CS), relativo alla tappa di ricerca

di Famiglia Aperta sul tema “Scegliere la vita nella società del mercato”

San Lucido è un paesino della costa tirrenica della provincia di Cosenza.

La classe III C è formata da 21 alunni, 11 ragazze e 10 ragazzi di circa 13 anni.

Abbiamo lavorato sulla pista n. 2, dedicando al confronto sulle domande alcune ore dei rientri pomeridiani. Tutti i ragazzi hanno seguito il dibattito, anche se non tutti hanno sempre preso la parola.

1. Cos’è la vita? Davvero un’esperienza che ti riguarda? La vita è una fortuna che abbiamo avuto. Non va sprecata perché ne ab-

biamo una sola. È una possibilità che ti viene data. È una schifezza. È un’esperienza che ti regala gioie, tristezza, dolori. È un’opportunità che può essere bella o brutta. La vita è un rischio. È un sovrapporsi di emozioni e sentimenti. È una scala: c’è chi sale e c’è chi scende. È un dono prezioso. È un regalo da Dio. È una gara.

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È un’opportunità e noi possiamo decidere se sfruttarla o meno. La vita è confrontarsi. È un tragitto da seguire. È come un filo: se lo tiri troppo si spezza. La vita è un’unica opportunità dataci dai nostri genitori ed è molto bella

se uno sa cogliere l’occasione, altrimenti si può rischiare la morte. Inoltre la vita è fatta da ostacoli, a volte facili e a volte difficili.

La vita per me è vita, solo una volta possiamo vivere questa bellissima

avventura e credo di sfruttarla in tutti i modi possibili. 2. Da chi ti è venuta? Davvero per un dono d’amore? A noi è venuta per un dono d’amore, ma questo non vale per tutti. Non sappiamo se la nostra vita è venuta per un dono d’amore, perché

difficilmente i genitori dicono ai figli se sono venuti per caso. Secondo me per un dono d’amore. Può anche darsi che non ci sia venuta per un dono d’amore. 3. Com’è la tua vita? La senti facile e bella? In certi momenti la mia vita è bella, in altri momenti è una schifezza. Non è assai bella. Sono sempre indecisa. Non è facile perché non sempre

so quello che devo fare. La mia vita mi piace, anche se a volte vorrei morire. Altre volte sono

orgoglioso di me stesso. Nella mia vita ci sono giornate belle e giornate schifose, anche se pure

nelle giornate schifose cerco di trovare qualcosa di positivo.

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La mia vita è bella perché non mi sono mai trovata in difficoltà. La fami-glia mi è sempre stata accanto. A volte, però, mi sembra di attraversare mo-menti difficili.

La vita è noiosa, bella, orribile. Alcune volte è bella, alcune volte andrei a buttarmi dal ponte più alto. La vita è bella quando hai un motivo per andare avanti. 4. La tua vita è solo tua? La vivi come solitudine? È mia perché ce l’ho io. Non la vivo come solitudine. È mia perché sono io a scegliere le cose giuste per me. Non la vivo come

solitudine perché la vivo insieme ai miei compagni e ai miei familiari. È mia perché, anche se ci sono i genitori che indicano la strada e mi dan-

no delle regole da seguire, le decisioni sono tutte mie. Perché i genitori più di tanto non possono fare. Non la vivo come solitudine, ma ci sono dei momenti in cui non voglio la compagnia di nessuno.

La vita è mia perché posso decidere cosa fare, anche se poi ne pago le

conseguenze. Non la vivo come solitudine perché ci sono molte persone con cui posso dialogare e confrontarmi.

La ritengo mia, anche se a volte mi faccio influenzare e ne pago le con-

seguenze. Non la vivo come solitudine, ma in alcuni momenti vorrei stare sola.

La vita è mia perché decido io cosa farne. La vita è un mio possesso e so io cosa fare. Se ogni tanto non si fanno

degli errori non si impara niente. La vita è mia perché le scelte sono mie. Non la vivo come solitudine

anche se a volte voglio stare sola.

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Bollettino n. 4

SOS scuola per la vita

(Appunti di Tommaso Cariati per la testimonianza portata il 28 marzo 2009 alla tavola rotonda del convegno della XV tappa della ricerca di Famiglia

Aperta – Salice Terme – a cui hanno partecipato anche Gessica Acri e Deborah Bottino)

Cercherò di rispondere alla domanda “Per quali ragioni e attraverso qua-li modi ritieni di scegliere la vita con il tuo impegno anche con il gruppo SOS scuola?”. Intanto ti ringrazio, Dora, per averci invitato alla tavola rotonda di questo convegno.

Venire qua su per noi non è stato facile, ma ci ha permesso di incontrare tante persone care come Gianfranco Solinas e Giuseppe Limone.

Io lavoro nella scuola come insegnante di informatica dal 1987. Ma non è di questo che vi parlerò.

Dalla metà degli anni ’90 unisco al lavoro di docente di informatica un impegno dentro la scuola e fuori da essa, con iniziative e finalità fortemente intrecciate.

Ne elenco alcune come premessa per poter meglio rispondere alla do-manda.

Nella scuola mi occupo di “Educazione alla cittadinanza attiva e respon-sabile”. La partecipazione della V B Mercurio alla ricerca di Famiglia Aperta sul tema “Scegliere la vita nella società del mercato” si inserisce proprio nell’ambito di questo progetto, al quale il nostro preside tiene particolarmen-te.

Sempre nell’ambito del progetto “Cittadinanza” abbiamo partecipato ad alcune iniziative promosse da “Libera, nomi e numeri contro le mafie”. Lo scorso anno, proprio con la classe di Gessica e Deborah, abbiamo partecipato al concorso “Regoliamoci”, promosso sempre da “Libera”, che aveva l’obiettivo di ridefinire, con l’apporto dei giovani, il vocabolario della legalità (un lavoro simile, di purificazione del linguaggio, fa p. Pio Parisi a Roma). A ben vedere si tratta di smascherare idoli che si sono annidati dentro il nostro linguaggio quotidiano: un lavoro di smascheramento simile a quello che il prof. Giuseppe Limone conduce con ben altri mezzi intellettivi e culturali, ma che riguarda tutti noi.

Quest’anno abbiamo partecipato al concorso indetto da “Libera” sulle ecomafie. Si tratta di un problema immenso che non riguarda più solo alcune regioni di un paese o del mondo, ma tutto il pianeta. Alcuni giorni fa abbiamo

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Sos scuola

ultimato e inviato il lavoro. Anche questa ricerca ha coinvolto molto tutti gli studenti, e il documento, elaborato attraverso una modalità cooperativa, simi-le alla tecnica della scrittura collettiva praticata alla scuola di Barbiana, ha permesso a ogni alunno di dire la propria tenendo conto di quello che diceva-no gli altri.

Insieme a mia moglie faccio parte dell’Equipe Notre-Dame, movimento di spiritualità per le coppie di sposi, nato in Francia una sessantina di anni fa e ormai presente in tutto il mondo, sia pure a macchia di leopardo. Si tratta sempre di un percorso di educazione e formazione permanente, come sanno bene Gianfranco, il quale insieme alla moglie Maria ha portato il movimento a Cosenza, e i coniugi Orlandi di Genova che ho conosciuto proprio qui a Salice.

Nel 2005, nell’ITC “V. Cosentino” di Rende, provincia di Cosenza, ho dato vita al gruppo SOS scuola. Su questa esperienza mi soffermerò tra poco.

Nel 2007, con lo pseudonimo di Giorgio de Giorgio, ho messo insieme un libretto sulla scuola, intitolato Non facciamo filosofia! La scuola al tempo di S.B., edito da Rubbettino. Si tratta di diciotto storie di “scuola quotidiana” che disegnano uno spaccato della scuola italiana all’inizio del terzo millen-nio.

Quest’impegno a latere della professione di docente di informatica mi è parso necessario quando mi sono reso conto che, da un lato, il mondo poneva sfide nuove e richiedeva risposte adeguate, dall’altro, io, come persona, veni-vo interpellato con l’eterna domanda del libro della Genesi: “Adamo, dove sei?”.

Direi che l’impegno nel progetto “Cittadinanza”, quello come docente incaricato di funzione strumentale, quello nel gruppo SOS scuola, ma anche quello con mia moglie nell’équipe, sia, ad un tempo, una risposta alle solleci-tazioni del mondo e alle mie inquietudini.

Diciamo anche che molto di ciò che faccio, e il modo in cui lo faccio, cioè seguendo un approccio coinvolgente, è frutto della vita cristiana e del sacramento del matrimonio.

Veniamo a SOS scuola. SOS è una creatura nata nel 2005. Si tratta di un gruppo di circa venti persone tra docenti, studenti e genitori, interessati ai temi della scuola e della cultura.

Il gruppo persegue tre fini fondamentali: a) Costruire e vivere relazioni autentiche, sia tra i componenti del grup-

po, sia all’esterno; ciò per contrastare la menzogna, i travestimenti, e pro-muovere la bellezza delle relazioni interpersonali.

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Bollettino n. 4

b) Ricercare e trasmettere saperi validi, non soltanto dal punto di vista epistemologico, ma anche riguardo alla vita; insomma non ci interessa soltan-to la verità scientifica, ma anche quella etica.

c) Promuovere l’impegno e la responsabilità, dovunque ci troviamo. I tre obiettivi, relazioni autentiche, saperi validi, responsabilità piena, si

sono rivelati fecondissimi. Siamo giunti al quarto anno di vita del gruppo e i risultati sono buoni.

Fin dall’inizio abbiamo deciso di incontrarci mediamente una volta al mese: in settembre per programmare insieme le attività da vivere durante l’anno, in giugno per fare un bilancio delle iniziative organizzate, e individu-are linee guida per l’anno seguente, nei mesi intermedi per vedere insieme un film e discuterne, per riflettere insieme su un libro preventivamente scelto e letto, per fare una gita in luoghi di interesse paesaggistico, culturale o spiritu-ale, di cui sono ricche le nostre regioni.

L’animazione di ogni evento viene affidata a turno ai componenti del gruppo. A volte collaboriamo con enti culturali come la Fondazione Rubbetti-no, o associazioni come Famiglia Aperta (già tre anni fa abbiamo partecipato alla penultima tappa della ricerca sul tema Giovani in ricerca nella società degli idoli), o anche con autori di libri ed esperti.

Una sintesi di ogni incontro viene pubblicata sul sito del gruppo all’indirizzo www.sos-scuola.it e, prima di ogni estate, stampiamo il Bolletti-no, un opuscolo in cui raccogliamo i lavori e le riflessioni dell’anno al fine di custodirli e divulgarli.

Non abbiamo presidenti, né una cassa: per le piccole spese ci autotassia-mo di volta in volta.

Con le stesse modalità, in piena autonomia, potrebbero nascere e operare gruppi simili in altre scuole, con i quali noi saremmo felici di cooperare.

Le iniziative che abbiamo intrapreso durante questi primi quattro anni sono state guidate dalla domanda “Chi siamo?”, cioè, “Chi siamo come per-sone, come calabresi, come mediterranei, come italiani, come europei, come cittadini di questo mondo in questo tempo?”.

Le attività più significative sono state le seguenti. La visita ad alcuni paesi arberesh della provincia di Cosenza (Lungro,

Civita, Frascineto). La visita ai paesi grecanici della provincia di Reggio Calabria

(Amendolea, Bova, Roghudi, ecc.). I dibattiti su alcuni libri che hanno come argomento la Calabria (libri di

Minuto, Stancari, Alvaro, Seminara, De Tavel). La lettura e il commento del libro Lettera a una professoressa della

scuola di Barbiana.

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Sos scuola

I dibattiti intorno a film e libri sulla mafia, la Resistenza, l’unità d’Italia, il terrorismo (Roma città aperta, Buongiorno notte, I centopassi, Il Gattopar-do, La tregua).

La già ricordata partecipazione alla ricerca di Famiglia Aperta su Giova-ni in ricerca nella società degli idoli.

Per il ponte del primo maggio andremo a Palermo per un itinerario arabo-normanno.

SOS scuola è un laboratorio in cui si pratica e si costruisce l’identità e la cittadinanza attiva e democratica, per questo si interseca con il progetto della scuola sull’“Educazione alla legalità e alla cittadinanza”.

Il nostro gruppo ha, però, i caratteri della continuità e della durata nel tempo.

Il suo programma annuale permette di costruire sempre a partire da qual-cosa di concreto che è stato già fatto insieme. Questo ci sembra importante affinché ciò che si vive abbia un costrutto, e non sia puro riempimento di un vuoto e fine a se stesso, come, invece, purtroppo, accade per molti progetti che si fanno oggi nella scuola italiana.

Certo abbiamo sperimentato che ogni anno alcuni giovani spiccano il volo e, nonostante le buone intenzioni, si fanno vivi raramente, ma altri pren-dono il loro posto, in una rotazione che appare fisiologica.

Insomma, negli anni in cui in Italia si affermavano la filosofia irrazio-nalpopolare, l’individualismo di massa, il reality-show, la politica ridotta a mera gestione del potere e a spot pubblicitario, noi abbiamo abbassato la voce e ci siamo fatti piccoli per cercare, nella piccolezza e nell’umiltà, la cifra del nostro stare con gli altri nel mondo.

Ecco, se, per dirla con Buber e Mounier, la vita è relazione e responsabi-lità, SOS scuola è per la vita, nel merito e nel metodo.

Se, per dirla con Levinas, la vita è ascolto, allora SOS scuola è per la vita.

Se, per dirla con Rogers, la vita è rielaborazione continua dell’esperienza personale, allora SOS scuola è per la vita.

Se, per dirla con il vangelo, la vita è amore per Dio e per il prossimo, e comunione, allora SOS scuola è un’opera, piccolissima, che cerca di promuo-vere la vita.

Grazie.

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Bollettino n. 4

Un affare molto sporco (Castiglione Cosentino, 4 aprile 2009)

Dramma in un solo atto, di Tommaso Cariati con la V B mercurio, dalla ri-cerca inviata a Libera, nomi e numeri contro le mafie, sul rapporto tra smalti-mento dei rifiuti e malaffare. Scena: Una pizzeria; alcuni tavoli; il forno e il pizzaiolo in vista; tre televisori

accesi; bancone; un paio di quadri di Picasso, Boccioni o Kandinsky alle pa-

reti; luce scarsa.

Personaggi: Il pizzaiolo (giovane), il cameriere (giovane), venti studenti, una

vecchietta in un angolo rivolta verso il pubblico, un giovane seduto fin

dall’inizio davanti a un computer nell’angolo opposto.

Cameriere (vestito in uniforme, apre la porta e invita a entrare): Buonasera.

Studenti (entrano gli studenti a piccoli gruppi, parlano ad alta voce, fanno

battute, ridono): Buonasera. (Gli studenti entrano rumorosamente e si siste-

mano intorno ai tavoli).

Leonardo (rivolto ai compagni del proprio tavolo): Quando arrivano gli altri?

Deborah (ascoltando musica con auricolari e manovrando rapidamente con il

cellulare): Arrivano, arrivano.

Cameriere (portando il menu): Volete ordinare?

Iolanda: Dobbiamo aspettare i compagni.

Leonardo: Lasciateci il menu. Intanto noi studiamo le vostre pizze.

(Gli studenti presenti conversano, gesticolano, ridono ma non si comprende

nulla)

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Sos scuola

Vecchietta (entrando lentamente e faticosamente): Buonasera. (Si dirige pres-

so un tavolo sistemato nell’angolo in fondo a sinistra).

Cameriere (seminascosto dietro il banco): Buonasera, zi Marì. Come state?

Altro gruppo di studenti (entrando come gli altri): Ciao … Ciao … Ciao ….

(Baci, abbracci con gli studenti già presenti. Alcuni si alzano. Si spingono i

tavoli e le sedie. Una sedia cade per terra).

Pizzaiolo (a voce alta, sofferente a causa del calore del forno): Ahi quest’afa,

soffoco.

Gruppetto di studenti (in coro, a voce alta): Dove sarà la soluzione di x eleva-

to a n più y elevato a n uguale a z elevato a n?

Cameriere (recando altre copie del menu, il taccuino e la matita): Siamo tutti?

Gli studenti (quasi in coro; alcuni telefonano o inviano sms): Lasciateci stu-

diare il menu. Che noi siamo studenti.

(Il cameriere si occupa della vecchietta. Parlano sottovoce e non si capisce

che cosa dicano).

Deborah (rivolta a Leonardo che si trova all’altro tavolo un poco distante,

alzando la voce per farsi sentire): Leonardo, avete incontrato il sindaco?

Leonardo (un poco seccato e quasi distrattamente, ma con ironia): Lasciamo

perdere. È molto impegnato, dicono.

Iolanda (dall’altro lato del tavolo, rivolta a Leonardo): Ma tu che idea ti sei

fatto?

Leonardo (quasi gridando per coprire il frastuono): È un groviglio che non ci

si capisce niente.

Vecchietta (rivolta direttamente al pubblico, informandolo, prima in dialetto

poi in un italiano regionale): Parcu ecologgicu, diΔcarica abbusiva? Sapimu

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Bollettino n. 4

cchi bbuonu fare! È nna storia mmulicata, figghicied¥d¥i mia. ’E ccussì sta ra

cosa. È nna mmulicatina ca ’un si cci capiscia nnente.

Questa è la questione che fa arrovellare i giovani della V B.

Per capire, prima hanno visto il documentario Biutiful cauntri; poi sono anda-

ti a vedere la società di riciclaggio “Calabra maceri”; e poi sono andati a fare

una camminata e hanno scoperto un mucchio di immondizia che si trova ac-

canto al torrente Sant’Antonio.

Cameriere (venendo fuori con un telecomando in mano, spegne i televisori e

accende uno stereo che diffonde musica rock).

Vecchietta (alzandosi e parlando al pubblico): Quannu ia era ggiuvaned¥d¥a, un

c’eranu detersivi, un c’eranu si cosi chimichi velenusi ’e mo. Tannu ’e ’nzone

’e ffaciamu ccu jinost ¥ra e ccu llana ’e piecura. ’E case ’e ffaciamu ccu pet ¥re,

crita, t¥ravi ’e lignu e ccavucia. ’A cavucia ’a faciamu ccu ppet ¥re ’nt ¥ra carcara.

Tannu un c’eranu si computi ’e mo, un c’era pprastica; aviamu panari e

Δporte. ’E cose ’e tannu ’e ffaciamu rurare c¥chiù ca putiamu; pua ’e gghietta-

vamu e ra natura s’e rricugghia. Mo ammecia accattati e gghiettati, pijati e

gghiettati. Usati e gghiettati, “usa e getta”. ’A pagura mia è ca un si sarba

c¥chiù ra ciuccia.

Gli studenti (commentano liberamente il menu).

Gessica (inserendosi nella conversazione tra Leonardo, Deborah, Iolanda):

Da quando ho visto Biutiful cauntri non sono più tanto tranquilla.

Pizzaiolo: Soooffoco.

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Sos scuola

Gruppetto di studenti (in coro): Dove sarà la soluzione di x elevato a n più y

elevato a n uguale a z elevato a n? L’antimateria si combina con la materia,

danzano elettroni, si scindono protoni, si sposano H+

Giovane al computer (interrogativo e con sorpresa, a voce alta; gli altri tac-

ciono): Antimateria!? Caro Google: an-ti-ma-te-ria. Wikipedia: L’antimateria

è la materia composta dalle antiparticelle corrispondenti alle particelle che

costituiscono la materia ordinaria. Se una coppia particella/antiparticella vie-

ne a contatto, le due si annichiliscono emettendo radiazione elettromagnetica.

Oooddio!

Noemi (inserendosi nella conversazione che diventa progressivamente più

seria): Per colpa di gente senza scrupoli c’è da avere paura di mangiare for-

maggi, verdure e carne.

Federica (seria): Il mondo sta diventando una discarica.

Leonardo (mentre i compagni fanno silenzio e lo ascoltano): Mi sono docu-

mentato esaminando fonti non so quanto attendibili, ho chiesto notizie a mol-

te persone di mia conoscenza per arrivare a scoprire cosa c’è dietro queste

modalità di sistemazione di rifiuti. Le notizie che ho sentito sembravano in

contrasto tra loro, ho sentito dire che di una discarica che appare abusiva si

vuole fare un “parco ecologico”, ma sembra che i lavori vadano particolar-

mente a rilento; ho sentito dire che una delle fabbriche di smaltimento più

famose della regione faccia di tutto per guadagnare il doppio per ogni carico

di spazzatura che riceve. Ma queste sono notizie che non hanno alcuna riso-

nanza nella società...

Sabrina: La situazione di Acerra è mostruosa: vedere quelle povere pecore

morire mentre mangiano la semplice erba dà i brividi.

Pizzaiolo: Ahi quest’afa, soffoco. Dove sarà la soluzione di x elevato a n più

y elevato a n uguale a z elevato a n?

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Bollettino n. 4

Gruppetto di studenti (in coro): L’antimateria si combina con la materia, dan-

zano elettroni, si scindono protoni, si sposano H+. Che pressione alle tempie,

precipitoooo…

Alessandro: Ma noi in Calabria non stiamo molto meglio. A Crotone le case,

le scuole, i campi di calcio e le strade sono stati costruiti con materiali mesco-

lati con rifiuti tossici che dovevano essere smaltiti in ben altro modo.

Alfredo (scandalizzato): Una cosa veramente sconvolgente è l’indifferenza

delle persone, delle forze dell’ordine, delle istituzioni. La “mala” trasporta

nottetempo rifiuti tossici a camionate dal Nord al Sud che vengono interrati o

occultati nella boscaglia e nessuno fa niente. Al mondo d’oggi non ci si può

più fidare di nessuno... Cameriere (presentandosi con il taccuino e la matita,

con ironia): Avete studiato tutto ben bene? Che ora vi interrogo.

Leonardo (rivolto al cameriere): Le pizze hanno l’aria appetitosa. Ma dove

prendete le materie prime?

Deborah (ironica): La mozzarella è vera o di plastica, alla diossina, alla mela-

mina o di mucca pazza?

Gessica (con malizia): Arriva dalla Cina via Nord Africa?

Cameriere (ironico e scandendo bene le parole): Noi usiamo solo vera mozza-

rella campana alla diossina, nutriente, saporita con mal di pancia assicurato.

Gli studenti (ridendo): Ordiniamo.

(Il cameriere se ne va, gli studenti ritornano seri).

Deborah (smettendo di manovrare col telefonino e diventando seria): Il docu-

mentario Biutiful cauntri ci ha portato a focalizzare meglio che l’obiettivo

dell’uomo è sempre quello di guadagnare denaro a discapito della salute dei

suoi simili. Napoli è una realtà vera e inquietante, lì i rifiuti sono una batta-

glia quotidiana, una guerra che non finisce mai. Ciò ci porta a pensare che

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Sos scuola

tutte queste malattie tumorali, leucemie ecc. sono frutto di questo inquina-

mento.

Pizzaiolo: Soooffoco. Dove sarà la soluzione di x elevato a n più y elevato a

n uguale a z elevato a n? L’antimateria si combina con la materia, danzano

elettroni, si scindono protoni, si sposano H+.

Giovane al computer (interrogativo e un po’ inquieto): H+, che cazzo è? Caro

Google: H+. Ecco: ione di idrogeno. H2O = H+ + OH-. Cazzo: ma H2O è

l’acqua! H2O = H+ + OH-.

Gruppetto di studenti (in coro): Che pressione alle tempie, precipitoooo …

Gran passo la Relatività, Newton, la Civiltà … Quanto attrito, quanta entropi-

a …

Leonardo (Un poco sconvolto): Facendo una semplice escursione al torrente

Sant’Antonio, che scorre nel comune di Castiglione Cosentino, alle pendici

della Sila, mi sono reso conto con questi occhi (Mostra gli occhi con l’indice

della mano destra) che al mio paese, accanto a un affluente del Crati, esiste

una discarica… Ma anche che l’acqua del ruscello è piena di schiuma di de-

tersivi…

Ida (ironica, ma anche preoccupata): Le pecore che pascolano sulle colline e

lungo le valli di Castiglione faranno la stessa fine delle pecore di Acerra?

Leonardo (insinuante): Vicino alla discarica sono stati costruiti due capanno-

ni, nei quali viene praticata la demolizione delle autovetture. Ora, io non sono

particolarmente documentato sull’attività degli autodemolitori, ma so per cer-

to che dopo la distruzione della vettura le uniche parti inutilizzabili sono le

gomme e, casualmente, nella discarica, a un centinaio di metri, ci sono un

sacco di pneumatici. Dopo tutto, gli “ecomafiosi” fiutano i soldi prima della

salvezza della loro stessa vita.

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Bollettino n. 4

Marcello (prudente e conciliante): Andiamoci piano con le generalizzazioni:

una congettura è una congettura, l’apparenza è solo apparenza fino a quando

non si hanno prove inconfutabili.

Nicola (sorpreso e preoccupato): Dopo l’esperienza fatta alla Calabra maceri,

sono arrivato a conoscenza del fatto che ogni giorno respiriamo tantissime

tossine nocive, che purtroppo a volte possono essere seriamente dannose per

l’organismo. Dietro a tutto questo si vede la crudeltà e la follia dell’uomo che

si distrugge con le proprio mani.

Leonardo (serio e responsabile ma anche reticente): Anche qui a Cosenza

l’emergenza rifiuti e le discariche abusive sono un problema vivo e reale.

Pare che dentro il Viale Parco a Cosenza e dentro l’autostrada Salerno-

Reggio siano stati occultati molti rifiuti. La visita a Calabra maceri ci ha mo-

strato il volto legale dello smaltimento dei rifiuti, però nel momento in cui

abbiamo posto delle domande mirate, la guida ha risposto in maniera evasiva.

Ciò ci ha fatto riflettere…

Pizzaiolo: Ahi quest’afa, soffoco. Dove sarà la soluzione di x elevato a n più

y elevato a n uguale a z elevato a n? L’antimateria si combina con la materia,

danzano elettroni, si scindono protoni, si sposano H+.

Gruppetto di studenti (In coro): Che pressione alle tempie, precipitoooo …

Gran passo la Relatività, Newton, la Civiltà … Che pressione alle tempie,

quanto attrito, quanta entropia …

Giovane al computer (sorpreso, inquieto, interrogativo, a voce alta): Eeentro-

pia!? Aiuto, Google: en-tro-pi-a; vediamo, Wikipedia: l’entropia è una gran-

dezza che viene interpretata come una misura del disordine di un sistema fisi-

co o più in generale dell’universo.

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Sos scuola

Rosanna (disgustata): Alla Calabra maceri sono rimasta colpita da tutte quelle

balle di carta e cartone ammassate l’una sull’altra. C’era un odore insopporta-

bile che nemmeno la mascherina che ci avevano dato impediva di sentire.

Renato (razionale): Mi ha stupito molto la presenza, a pochi metri del capan-

none della Calabra maceri, proprio accanto al torrente Emoli, di un cumulo di

calcinacci misti a immondizia liberamente abbandonati …

Gessica (interrompendo): Non sanno spiegarsi nemmeno loro molte cose,

eppure lavorano e stanno là…

Angelo (soddisfatto): È proprio vero che le cose più vergognose vengono

nascoste lungo i torrenti. Abbiamo fatto proprio bene a fare l’escursione lun-

go il torrente Sant’Antonio, dopo aver visto Biutiful cauntri e aver visitato la

Calabra maceri.

Alfredo (con nostalgia): Ricordo che da piccolo andavo sempre, insieme a

mio nonno, in campagna vicino a quel corso d’acqua. Era una meraviglia per

me vedere quella natura incontaminata. È un vero peccato non poter vedere in

futuro lo stesso spettacolo per colpa dell’inquinamento.

Leonardo (incredulo): E pensare che lungo quel torrente sono ancora ben vi-

sibili tanti segni del passaggio dei nostri nonni: le “cibbie”, le “macchie”, “i

sette canali”, il ponte-acquedotto, il mulino ad acqua, la “calcara”.

Cameriere (viene fuori e cambia la musica rock con una musica dodecafonica

inquietante).

Gessica (indignata): Che sorpresa e che rabbia quel sabato 14 marzo: mentre

salivamo, sulla nostra sinistra abbiamo visto un pezzo di terreno sul quale

giacevano i rifiuti, a fianco c’era il torrente. Giunti sul luogo, abbiamo notato

le pessime condizioni del fiume, abbiamo visto la schiuma che galleggiava

sull’acqua; vicino c’era del terreno coltivato.

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Bollettino n. 4

Leonardo (responsabile e propositivo): Dopo aver visto quello che c’è in giro

dovremmo fare una campagna di sensibilizzazione… Dovremmo coinvolgere

il sindaco, chiedergli come stanno le cose… Perché, ad esempio, intorno ai

rifiuti ci sono segni di lavori di sbancamento e di costruzione di fondazioni e

muri in cemento armato? Perché si è formata una discarica prima di avere

messo in sicurezza il sito? Perché nonostante ci sia un cartello che reca la

scritta “Divieto di discarica”, lì c’è tanta immondizia e segni che gomme

d’auto sono state bruciate insieme a cartoni e imballaggi vari?

Antonio (meravigliato): Mi ha colpito molto vedere un segnale con divieto di

discarica in prossimità di montagne di rifiuti lasciati all’aria aperta. Si vede

che l’uomo trasgredisce facilmente le norme che dovrebbero aiutarlo a vive-

re.

Alessio: Sì, proprio questo mi ha lasciato esterrefatto.

Marco (insinuante e sarcastico): Credete che non c’è un rapporto tra

l’autodemolizione, il cumulo di immondizia del Sant’Antonio e lo strano mo-

do di procedere del comune?

Il comune prima mette il cartello “Divieto di discarica”, poi lascia accumula-

re senza ostacolo rifiuti vari e dopo va a fare lavori di sistemazione del sito.

Quei lavori di sbancamento e di costruzione devono essere stati almeno auto-

rizzati dal comune.

Marcello (prudente e conciliante): Frenate, ragazzi. Noi non sappiamo come

stiano veramente le cose, e per quanto un piazzale per l’autodemolizione non

sia proprio bello da vedere, noi non possiamo congetturare rapporti tra le due

realtà.

Gessica (comunicando un’informazione importante): Sapete che dopo il no-

stro sopralluogo del 14 marzo hanno installato una sbarra sulla pista di acces-

so al mucchio di rifiuti di Sant’Antonio!

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Sos scuola

Pizzaiolo: Soooffoco, soffoco. Dove sarà la soluzione di x elevato a n più y

elevato a n uguale a z elevato a n? L’antimateria si combina con la materia,

danzano elettroni, si scindono protoni, si sposano H+.

Gruppetto di studenti (in coro): Che pressione alle tempie, precipitoooo …

Gran passo la Relatività, Newton, la Civiltà … Che pressione alle tempie,

quanto attrito, quanta entropia …

Giovane al computer (curioso): Relatività? Google, dimmi: re-la-ti-vi-tà.

L’espressione teoria della relatività è usata per riferirsi ad una delle particola-

ri teorie che Einstein ha elaborato tra il 1905 e il 1913. Il tempo si contrae per

oggetti e persone che viaggiano ad una velocità prossima a quella della luce.

Leonardo (riflessivo): Io credo che sia opportuno interrogare il sindaco.

Studenti (quasi in coro): Sì, interroghiamo il sindaco.

Vecchietta (a voce alta e chiara, informando tutti): Il sindaco dice che sta a-

spettando un finanziamento della Regione Calabria per costruire un “parco

ecologico” nella valle del Sant’Antonio. Un parco ecologico in una valle che

avrebbe potuto diventare un’oasi “storico-antropologica della civiltà contadi-

na”.

Cameriere (recando pizze fumanti): Capricciosa … Marinara … Quattro sta-

gioni … Giuseppe (ingenuamente): Il pomodoro è della piana di Sibari?

Cameriere (ironico): Di Sibari? Il pomodoro arriva in fusti grandi come quelli

della nafta. Proviene dalla Cina. Viene raccolto in campi nei pressi di centrali

nucleari abbandonate e innaffiati con acqua radioattiva. (Strizza l’occhio cini-

camente e se ne va. Alcuni studenti ridono, altri, con espressioni interrogative

e preoccupate, aggrottano la fronte).

Deborah (sconcertata): Da quello che vedo e sento posso dedurre che l’unica

ambizione di certi uomini è di arricchirsi, anche se in modo poco dignitoso e

dannoso per il prossimo e perfino per se stessi.

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Bollettino n. 4

Antonino (preoccupato): Da quello che ho visto, il rischio che incombe sulle

nostre regioni meridionali è molto alto: l’uomo, pur di sviluppare i suoi male-

detti interessi economici, è disposto a distruggere la bellezza del creato e se

stesso.

Leonardo (ragionando): Gli studiosi della Questione meridionale dovranno

aggiornare i loro modelli …

(Sui televisori compaiono le immagini degli agnelli morti di Acerra)

Deborah (interrompendo): Le regioni del Mezzogiorno sono state sfruttate

come mercato di raccolta del credito da investire al Nord …

Iolanda (interrompendo): E come mercato di sbocco delle aziende settentrio-

nali …

Leonardo (interrompendo): Da alcuni anni, e chi sa per quanto ancora, come

discarica delle industrie del Nord.

Pizzaiolo: Ahi quest’afa, soffoco. Dove sarà la soluzione di x elevato a n più

y elevato a n uguale a z elevato a n? L’antimateria si combina con la materia,

danzano elettroni, si scindono protoni si sposano H+.

Gruppetto di studenti (in coro): Che pressione alle tempie, precipitoooo …

Gran passo la Relatività, Newton, la Civiltà … Che pressione alle tempie,

quanto attrito, quanta entropia … Formaggio alla melamina … Pomodoro

radioattivo … Pizza alla diossina … L’agnello sgozzato, sgozzato, sgozzato

… Pecore morte intossicate … L’agnello è sgozzato.

Vecchietta (rivolta al pubblico, in dialetto): Vi l’aiu rittu: unn ’a sarbamu

c¥chiù ’a ciuccia. Mmunnizza, cosi chimichi, prastica, pet ¥rogghiu, uraniu, ca-

pizzuni e mmafia: un si sarba c¥chiù ra ciuccia. Parcu ecologgicu, diΔcarica

abbusiva o mafia ’e mmunnizza? Figghicied¥d¥i mia, ’e ccussì sta ra cosa … è

nna storia mmulicata. Sapimu cchi bbuonu fare!

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Firmino di Sam Savage

(Appunti di Chiara Marra e America Oliva proposti all’incontro della Fondazione Rubbettino presso la Biblioteca di Area Umanistica

dell’Unical il 17.4.2009)

Gli aspetti da scoprire sulla figura di Firmino sono tanti e straordinari. In

primo luogo la figura del protagonista: un topo, la sua visione del mondo, il suo modo di alimentare corpo e mente, il suo rapporto con gli uomini.

Firmino non è un topo di biblioteca, è un ratto nato in una libreria, in una tana resa accogliente dalla madre che aveva ridotto in coriandoli Finnegans Wake di Joyce, il «capolavoro più non-letto al mondo».

Firmino nasce e vive gran parte della sua vita in una libreria, ma non per questo vive in un mondo chiuso, i suoi interessi spaziano dal cinema, al tea-tro, alla cronaca locale, ai problemi quotidiani della sopravvivenza e si ag-giorna quotidianamente tramite la lettura del «Globe» su ciò che accade intor-no a lui e sul futuro del quartiere in cui vive.

Al contrario di quello che accade agli uomini, che scoprono prima il mondo attraverso esperienze concrete e poi allargano i loro orizzonti attraver-so la lettura, Firmino scopre il mondo attraverso i libri, tanto che quando esce dalla libreria per la prima volta ha già una visione della realtà che gli deriva dalle sue letture. «Avevo visto un po’ di mondo, attraverso quella vetrina: un andirivieni di gente e macchine, nonché parte dell’edificio sull’altro lato della strada. Una volta, pure un poliziotto a cavallo; e un’altra, piovere. Ma non appena misi piede sulla strada immersa nel buio, dietro Luweena e Mamma, compresi all’istante come l’immagine che avevo del mondo, rettangolare e limitata, somigliasse ben poco alla sua reale immensità. Mi sentivo un terre-stre a spasso su Giove, mentre mettevo piede su quel deserto nero così duro sotto le zampe».

Firmino comincia a divorare libri stretto dai morsi della fame, fin dai suoi primi giorni di vita, alimentando così il suo corpo, ma non si ferma qui: impara anche a divorare libri lasciandosi prendere tanto dalla lettura da di-menticare gli spasmi della fame. «All’inizio mi avventavo senza andare trop-po per il sottile, in modo indifferenziato, abbandonandomi a un’orgia insazia-bile – un boccone di Faulkner era come un boccone di Flaubert, per quel che mi riguardava. Ma presto cominciai a notare delle sottili differenze. Notai, prima di tutto, che ogni libro aveva un sapore diverso: dolce, amaro, aspro,

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agrodolce, rancido, salato, agro. Notai, anche, che ciascun gusto – e, con il passare del tempo e l’acuirsi dei sensi, il sapore di ciascuna pagina, frase e infine parola – portava con sé e suscitava nella mente un insieme di immagini e rappresentazioni di cose di cui non sapevo nulla a causa della mia limitata esperienza del mondo cosiddetto “reale”: grattacieli, porti, cavalli, cannibali, un albero in fiore, un letto disfatto, una donna annegata, un ragazzo volante, una testa mozzata, braccianti che alzano lo sguardo al verso di un idiota che urla, il fischio di un treno, un fiume, una zattera, il sole che filtra obliquo in un bosco di betulle, una mano che accarezza una coscia nuda, una capanna nella giungla, un monaco che muore. All’inizio mangiavo lasciandomi guida-re solo e soltanto dal gusto, rosicchiando e masticando dimentico. Ma ben presto cominciai a leggere, qua e là, lungo i bordi dei miei pasti e, con il pas-sare del tempo, quanto più leggevo tanto meno masticavo finché, in ultimo, presi a dedicare quasi tutte le ore di veglia alla lettura, masticando solo nei ritagli di tempo».

Divorando i libri, Firmino scopre il nesso che esiste tra il sapere e il sa-pore: «Quando mi avvicinai, quel che riuscii a trovare fu solo un po’ di lattu-ga. Aveva lo stesso sapore di Jane Eyre». E ancora: «Indugiando ogni notte tra il leggere e il mangiucchiare, avevo scoperto una relazione interessante, una sorta di armonia prestabilita, tra il sapore e la qualità letteraria. Per capire se valesse la pena leggere un certo libro, bastava che sbocconcellassi una por-zione di carta stampata. Per questo tipo di indagini, imparai ad utilizzare la pagina riservata al titolo, lasciando il libro integro. Da allora il mio motto divenne: “Quel che è buono da mangiare, è buono da leggere”».

Firmino oscilla continuamente tra il desiderio di essere un uomo e la

consapevolezza di essere un ratto. Non riesce a mantenere i rapporti con la sua famiglia perché i suoi fratelli e le sue sorelle «grazie ad una immagina-zione da nanerottoli e a una memoria corta, non chiedevano molto, più che altro soltanto mangiare e fornicare. E, di entrambi, ne hanno avuto quanto bastava per tutta la loro esistenza. Ma non era questa la vita che faceva per me. Come un idiota, io avevo delle aspirazioni». Il nostro protagonista si in-fatua di Norman, il proprietario della libreria, che lascia per Firmino «un mucchietto di cibo strano. Delle palline perfettamente cilindriche di un verde acceso […]. Avevano un buon odore, così ne spiluccai un po’. Erano strane, deliziose. Sapevano di formaggio Velveeta, di catrame ancora caldo e di Proust. Ricordai lo sguardo negli occhi di Norman l’istante in cui aveva in-crociato i miei e pensai: Dunque era proprio amore. […] Adesso ero sicuro di non essere solo. Appartenevo a qualcuno». In realtà Norman cerca di avvele-narlo, ma il tentativo non riesce e Firmino si troverà a condividere la casa e la

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vita con Jerry, uno scrittore squattrinato che vive nello stesso stabile in cui si trova la libreria e che «vive in modo simile ad un ratto». Jerry finalmente si prende cura di Firmino, gli dà un nome, lo nutre, gli regala un piccolo piano-forte, non si stupisce quando scopre il topo intento a leggere.

Quando Jerry muore il topo si ritrova solo, e assiste impotente alla di-struzione del proprio quartiere, finché, sazio di giorni e di esperienze, non torna a morire nel nido in cui era nato.

L’avventura di Firmino nel mondo è un’esperienza totale, di conoscenza, di amicizie, di tradimento, di amore, di conoscenza di se stesso e della realtà, sia pure attraverso i libri e la lettura.

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Segni sulla sabbia Note di viaggio

di Tommaso Cariati

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Calabria, antichi e nuovi punti d’irradiazione dell’evangelo

Caro Giorgio, mi chiedi che cosa sia oggi dell’evangelo in Calabria, do-

po che esso, stando a quanto scrive padre Pino Stancari nel suo La Calabria, tra il sottoterra e il cielo, sarebbe disceso con gli anacoreti nelle viscere della terra e da lì avrebbe fecondato la regione. Per comprendere qualcosa dovresti sperimentare di persona, visto che l’evangelo viaggia per vie carsiche e, quando credi che la sua fiamma si sia spenta, riprende ad ardere, lentamente ma tenacemente, come un fuoco dentro un antico ceppo, apparentemente spento dopo il furioso incendio.

I parte, cinque tappe nella Calabria settentrionale Il tuo itinerario in dieci tappe potrebbe iniziare a Rossano, la capitale

bizantina della Calabria ionica cosentina. (Qui, tra l’altro, potresti ammirare capolavori bizantini, come la chiesa di san Marco, l’icona della Madonna Achiropita, il Codex purpureus – un evangeliario illustrato su pergamena pur-purea, portato dai monaci a Rossano dall’Oriente –, la chiesetta bizantina det-ta Panaghìa – se avrai la fortuna di trovare chi custodisce le chiavi! –, il com-plesso del Patire, situato ad alcuni chilometri dal centro storico, in un posto di straordinaria bellezza. Ovviamente non dimenticherai che Rossano è la patria di quel grande uomo di fede che fu san Nilo).

Sì, potresti iniziare il tuo itinerario a Rossano, e tenendo bene a mente che non vuoi fare un viaggio culturale ma un pellegrinaggio, la prima sosta rigenerante potresti farla a Santa Maria delle Grazie. Si tratta di un piccolo borgo rurale situato a est del centro storico della cittadina ionica, dalla quale lo separa la profonda valle del torrente Celadi.

A Santa Maria delle Grazie c’è Gianni Novello con la sua comunità. Egli è approdato a Rossano dopo aver vissuto per un periodo a Taizé, in Francia, agli inizi degli anni ’70, dove, d’accordo con monsignor Cantisani, il vescovo di allora, ha avviato un’esperienza di fraternità monastica per vivere l’impegno per la pace nella preghiera, nell’azione e nell’accoglienza. La co-munità abita un convento cappuccino del XVI sec. La sua giornata è scandita dalla preghiera che diventa spazio. Il silenzio completa la preghiera, perché «poche parole siano incastonate in questo insieme di silenzio». Il mattino è dedicato al lavoro, mentre il pomeriggio all’attività comunitaria. La comunità è formata da tre persone che vivono stabilmente a Santa Maria e da altre che

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potremmo definire “amici di Santa Maria”, i quali, il sabato o la domenica, condividono con Novello qualche esperienza o attività particolare.

In un’intervista Novello dice: «La mia aspirazione era di vivere la fede tenendo le porte aperte. Ero molto impegnato nei movimenti per la pace, co-me del resto lo sono adesso. Ma in quegli anni [gli inizi dei Settanta] sentivo la necessità di offrire ai miei compagni di impegno un luogo dove rifocillarsi, in cui rifornirsi di energia spirituale. Desideravo una vita di comunità rispet-tosa delle differenze, pacifica, in cui il lavoro e l’economia fossero a misura d’uomo. Un nuovo modo di concepire l’esistenza umana».

A Pasqua e in estate la comunità di Santa Maria delle Grazie promuove incontri di approfondimento biblico o sulla pace. Da qualche anno poi essa svolge il tema “Spirito, arte, pace” in modo itinerante, dando appuntamento in altre regioni d’Italia ad uomini, associazioni, comunità, movimenti che siano costruttori di pace. La modalità itinerante, detta “visitazione”, «è ispira-ta al tema di Maria che si reca in fretta dalla cugina Elisabetta per comunicar-le quanto le sia capitato di bello».

La seconda sosta ti suggerirei di farla a Lungro, città arbëreshe, sede di

una diocesi particolare della provincia di Cosenza detta “eparchia”. All’eparchia di Lungro fanno capo tutte le comunità arbëreshë, quelle comu-nità che discendono dagli albanesi giunti in Calabria nel XV sec. a seguito dell’invasione dell’Albania da parte dei turchi. Queste comunità celebrano la messa in greco secondo il rito bizantino, in chiese che si presentano in tutto come chiese ortodosse, ma obbediscono al Papa. L’eparchia di Lungro non è formata del tutto su base territoriale, infatti a Cosenza, nel cuore della diocesi latina di Cosenza-Bisignano e della città, si trova, proprio attigua alla chiesa di san Francesco di Paola, la chiesetta del Santissimo Salvatore, appartenente all’eparchia di Lungro, nella quale si celebra la messa secondo il rito bizanti-no.

A Lungro potresti farti accompagnare dalle signorine della Proloco che ti forniranno alcuni elementi di storia e cultura arbëreshë. La storia degli “arbëreshët” è storia paradossale di un continuo tentativo di integrazione, accompagnato alla volontà di mantenere la propria identità culturale.

Visitando la cattedrale, solo se guidato, apprezzerai molti dettagli invisi-bili ai nostri occhi occidentali ineducati al linguaggio delle icone. Rimarrai affascinato da modi di pensare e di guardare la realtà che non ci appartengono ma riescono a conquistarti attraverso elementi quali i colori della chiesa, i simboli delle icone, la forma e la posizione degli oggetti presenti. (Dopo, per completare l’opera, potresti visitare il delizioso museo delle icone di Frasci-neto, paese situato ai piedi dell’immenso massiccio del Pollino, e Civita, con

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breve escursione al “ponte del diavolo” sul torrente Raganello: potresti am-mirare le imponenti pareti rocciose rossastre che precipitano a strapiombo nel canyon omonimo, dirimpetto al paesello).

La terza sosta potresti farla a Castiglione Cosentino, uno dei casali di

Cosenza, appollaiato su un cocuzzolo a circa 350 metri, alle falde della Sila. In questo borgo c’è un convento dei frati cappuccini, situato in un posto che offre una spettacolare vista sulla valle e su Cosenza, una chiesa del XII sec. che custodisce opere lignee di notevole pregio, come un Crocifisso e un san Francesco di Paola, una chiesetta detta “chiesa della cona”, cioè dell’“icona”, dove tutto il mese di maggio di ogni anno si prega il rosario in onore della Madonna (perciò, a orari prefissati, una campanella dal suono monotono chiama a raccolta per lo più le vecchiette del paese). Tu però non sei interes-sato tanto agli aspetti culturali e artistici, quanto alla vita dello spirito nell’evangelo. Ebbene, a Castiglione il venerdì santo, dopo la processione della Via Crucis, che si snoda dalla chiesa principale, situata in basso, per le vie del paese, e termina al Calvario e al convento dei Cappuccini, il Crocifis-so incontra la Madonna, vestita con un pesante manto nero, recante un cuore trafitto; tra le braccia della Madonna viene sistemata e legata una piccola sta-tua di Gesù morto; infine, la statua, così addobbata, viene trasportata a spalla e a passo di corsa dal convento giù per le vie del paese fino alla chiesa par-rocchiale, in basso, durante la corsa gli uomini cantano: «Noustru Signure è mmuortu e ra vergina l’aspetta. “Addimmanna a Ggiuvanni si avissi bbistu lu miu Gesù”», e le donne rispondono: «L’aiu vistu ’n casa d’Anna, ca tuttu jia llanguiennu, ’u sangu jia spanniennu ppe ll’amuri e ri peccaturi».

La quarta sosta la facciamo da Padre Pino Stancari, a Quattromiglia di

Rende. Padre Pino è un gesuita di Bologna che ha scelto di vivere in terra di Calabria, amando la sua gente. Vive nella valle del Crati, alla periferia dell’area urbana Cosenza-Rende, in contrada Lecco, in un posto noto come Casa del gelso. Insieme a padre Stancari vivono stabilmente padre Rogolino, e fratello Alessandro Trevisan. Inizialmente, intorno alla metà degli anni Set-tanta, con padre Pino c’erano padre Rodolfo, docente di matematica presso l’università della Calabria, poi deceduto tragicamente in un incidente strada-le, e padre Alberto, che poi si è trasferito in Terra Santa e quindi in Africa. I gesuiti di Rende, segnatamente padre Pino Stancari, svolgono molteplici mi-nisteri della Parola: offrono regolarmente la lectio divina, ritiri ed esercizi spirituali secondo il metodo di sant’Ignazio di Loyola, campi biblici, medita-zioni bibliche e teologiche. (Di Pino Stancari si possono leggere La Calabria, tra il sotto terra e il cielo, La novità di Dio, Per una teologia della vita, La

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nostra partecipazione alla messa, Il libro di Tobia). Tu però potresti sempli-cemente partecipare alla messa che i padri gesuiti celebrano nella cappella della Casa ogni giovedì alla diciannove e venerdì alle quindici, o ascoltare la lectio che padre Pino svolge il venerdì, dopo un’intera giornata di meditazio-ne, dalle diciannove alle ventuno, oppure partecipare alla messa che egli ogni domenica alle otto e trenta celebra nella vicina chiesa di san Carlo Borromeo, situata nel quartiere “Villaggio Europa”, sapendo fin d’ora però che l’omelia di padre Pino Stancari, uomo di studio e di preghiera, è un’esperienza straor-dinaria: durante la predica non fa digressioni o attualizzazioni, ma rimane, dalla prima all’ultima parola, inchiodato al vangelo proclamato per l’occasione, come il crocifisso al muro, senza mai pronunziare una frase che sia men che perfetta. Vieni, Giorgio, ascolta padre Pino; c’è molta gente, sai?, che fa chilometri per poterlo incontrare. Egli è una presenza preziosa per noi, e non si risparmia mai: corre per la causa dell’evangelo da un capo all’altro della regione: spesso accorre a Napoli e a Roma; ogni estate compie un viag-gio molto sobrio in Terra Santa, portando con sé una dozzina di persone, sempre diverse; tra Natale e l’Epifania si ritira sulle montagne della Catena costiera; a Pasqua collabora con l’eparchia di Lungro; in settembre si reca sempre al santuario di Polsi, in Aspromonte. I gesuiti di Rende sono cono-sciuti da tutti, con tutti in Calabria hanno intrecciato rapporti: padre Rodolfo era di casa a Santa Maria delle Grazie di Rossano, dove esercitava la direzio-ne spirituale per taluno di quella comunità; padre Pino è assistente del MEIC (Movimento ecclesiale di impegno culturale dell’Azione Cattolica), del movi-mento regionale dei medici cattolici, del seminario greco-albanese di Lungro, è consigliere spirituale del movimento dell’Equipes Notre-Dame (movimento di spiritualità delle coppie di sposi cristiani).

Farai la quinta sosta al santuario di san Francesco a Paola, sulla costa

tirrenica, a una trentina di chilometri da Cosenza. Francesco di Paola è un calabrese vissuto nel XV sec. Poco più che ragazzo ha trascorso un anno in un convento di San Marco Argentano e ha dato prova di essere dotato di doni straordinari. Ha condotto vita eremitica e ascetica e ha fondato l’ordine dei Minimi. Forse è stato l’ultimo di una schiera numerosa di anacoreti italo-greci di Calabria, sebbene i bizantini fossero stati scacciati per mano dei nor-manni da secoli dalla regione, e Costantinopoli stessa, in quel torno di tempo, venisse espugnata dai turchi. Francesco di Paola visse in un tempo difficile per la Calabria, e si schierò a fianco degli umili, contro i potenti. Famoso l’ostracismo subito da frate Francesco quando doveva recarsi in Sicilia: fu costretto a invocare l’aiuto straordinario della provvidenza e navigare con i due confratelli sul logoro mantello come zattera (per saperne di più puoi leg-

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gere Il frate, l’ordine, lo scudo, di Daniele Salerno). Tu visiterai i luoghi dove Francesco è vissuto, il santuario, la fontanella (dalla quale si attinge acqua con un semplice mestolo, e la berrai senza temere le infezioni trasmesse dagli altri pellegrini-bevitori); ascolterai in silenzio il canto del ruscello, osserverai la gente, mediterai davanti alle reliquie del santo, sosterai in preghiera davan-ti al Santissimo, parteciperai alla messa e ti lascerai penetrare dall’atmosfera mistica dei luoghi. Le montagne della Catena costiera tra Paola e Montalto, le prime notti di maggio, in occasione dei festeggiamenti in onore di Francesco, brulicano di gente di tutte le età e di ogni condizione, in pellegrinaggio sulle orme del santo: si tratta di un percorso estremamente accidentato e difficile che i pellegrini affrontano sempre con gioia ed entusiasmo.

II parte, cinque tappe nella Calabria meridionale La sosta numero sei, caro Giorgio, la farai dopo aver percorso molta

strada, a Serra San Bruno. Questa cittadina si trova sulle Serre appartenenti un tempo alla provincia di Catanzaro, ora alla nuova provincia di Vibo Va-lentia. I colli sono magnificamente vestiti di ogni tipo vegetazione, principal-mente di castagni, pini, abeti, faggi. Tra queste montagne, specialmente lungo la strada che porta a Monasterace marina, sulla costa ionica, intorno al monte Pecoraro e nel Bosco di Stilo, si incontrano foreste che lasciano a bocca aper-ta. (Tra l’altro potresti approfittarne per fare visita agli ultimi carbonai della Calabria e forse d’Europa. Gente che ti si presenta come lo spazzacamino di Mary Poppins: con la faccia nera nera di polvere di carbone. Esercitano un mestiere che si tramanda da generazioni immemorabili. Un lavoro che si svolge esclusivamente a mano, in cui è escluso ogni tipo di tecnologia e di strumento che non sia una rozza pala, qualche accetta e un rudimentale punte-ruolo detto pingituru con cui perforare, al momento opportuno, il mantello della carbonaia per ottenere le cosiddette fumalore).

In queste montagne, nell’XI secolo si è stabilito Brunone di Colonia, venuto al seguito dei cavalieri normanni, i quali avevano promesso al Papa la cacciata dei bizantini dalla Calabria e la latinizzazione della regione. A Bru-no, che in Francia aveva fondato la grande Chartreuse, viene proposto di di-ventare vescovo di Reggio Calabria ma egli rifiuta, essendo maggiormente portato per la vita contemplativa. L’opportunità di condurre vita ascetica, ma anche comunitaria con altri confratelli, gli viene offerta su un vassoio d’argento perché l’altopiano delle Serre, nei pressi della sorgente del fiume Ancinale (che scorre verso nord-est e sfocia nello Ionio, nei pressi di Sovera-to), induce naturalmente alla contemplazione del creato e del mistero di Dio: grandi spazi, foreste rigogliose, acque limpide, silenzio. Bruno si stabilisce in questi posti e riceve in dono, dal gran conte Ruggero d’Altavilla e da altri

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signori, terre, sulle quali sorgerà la Certosa di Serra. Se ti rechi alla chiesa di santa Maria del Bosco, nei pressi del luogo dove Bruno abitava, conviene sedersi e riposare, secondo l’invito che Gesù rivolge ai suoi discepoli dopo che ritornano dalla missione: Venite in disparte e riposatevi un po’, voi che siete affaticati e oppressi.

Alla certosa di Serra San Bruno vivono una ventina di monaci certosini provenienti da diverse parti d’Europa e del mondo. (Potresti procurarti I sen-tieri del deserto, edito da Rubbettino-La Certosa, che contiene scritti dei mo-naci di Serra, e I solitari di Dio, di Enzo Romeo, sulla vita alla Certosa). Che cosa fanno i certosini? Vivono una vita estremamente regolare: si alzano pre-sto e pregano insieme, studiano e lavorano ciascuno nella propria cella, con-dividono il cibo, un giorno alla settimana escono a fare una lunga camminata attraverso i boschi. Pregano molto: ringraziano e benedicono per gli uomini e le donne che spesso, troppo spesso, per le strade del mondo soffrono, su sen-tieri non di rado storti.

(A Serra San Bruno le persone un poco colte ti diranno che i normanni erano l’esercito santo del Papa, tu non farci caso. In effetti, qui oltre alla pre-senza di Bruno si avverte palpabile quella del gran conte Ruggero; tra l’altro c’è un posto poco distante che si chiama Torre Ruggiero: è ovvio, Mileto, che fu la città, situata nella zona del monte Poro, capitale della contea di Ruggero d’Altavilla, è poco distante da Serra, dalla parte del Tirreno. Occorre essere più colti di un poco, però, per sapere che sulle montagne della Calabria le due chiese, quella di Roma e quella di Costantinopoli, separatesi progressivamen-te forse dal tempo della lotta iconoclasta, e divenute durante il basso medioe-vo due organismi anche politico-militari distinti, si combattevano a colpi di scomuniche – c’è chi sostiene che gli anacoreti calabresi non “registrarono” lo scisma del 1054 –. Comunque, i normanni conquistarono la Calabria con le armi e introdussero il feudalesimo che ancora oggi non è del tutto tramontato, ma impedirono che i saraceni occupassero stabilmente la regione).

La settima sosta sarà a Bivongi, nei pressi di Stilo, la città di Tommaso

Campanella, un altro calabrese un poco pazzo e grandissimo. (Tra Serra San Bruno e Bivongi non devi però trascurare di fare due digressioni, una a Mon-giana, al sito di archeologia industriale borbonico, dove il regno delle due Sicilie alla fine del Settecento ha impiantato una fonderia, di cui è visibile ancora tutta l’area delimitata da mura, nei pressi del torrente Allaro, e fabbri-che per la produzione di armi, ancora intatte e visitabili. Nella fonderia si im-piegava il minerale di ferro che veniva estratto dalle miniere del comprenso-rio, del comune di Pazzano principalmente, e il carbone prodotto dalla legna dai famosi carbonai di Serra, finiti dopo il 1880 a fare carbone in ogni angolo

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della Calabria. L’altra digressione devi farla a Ferdinandea, un toponimo che rimanda a Ferdinando IV di Borbone, importante sito dell’area siderurgica borbonica delle Serre. Pensa che la ferrovia Napoli-Porici di circa sette chilo-metri, inaugurata nel 1839, fu costruita con l’acciaio prodotto a Mongiana e fu la prima ferrovia d’Italia).

Superati gli abitati di Pazzano e Bivongi, discendendo per un tratto il corso dello Stilaro (a monte si trovano le bellissime cascate del Marmarico), percorso il ponte e la tortuosa e ripida strada che si para sul costone sinistro del torrente, si giunge in un territorio che prima dell’anno 1000 fu, con buona pace delle persone un poco colte di Serra San Bruno, con Stilo e il monte Stella, che sovrasta l’abitato di Pazzano, tutto un comprensorio sacro intorno allo Stilaro.

Qui farai visita ai monaci ortodossi del patriarcato di Romania Giustino, Paolo, Andrea, che vivono da un paio d’anni in terra di Calabria. I tre rumeni sono subentrati a due monaci ortodossi del monte Athos, che tra la fine del XX sec. e gli inizi del XXI hanno restaurato la chiesa e il monastero di san Giovanni Therestis, il mietitore. Il complesso monastico si trova a pochi chi-lometri da Bivongi e da Stilo (dal posto dove sorge il monastero di san Gio-vanni si intravedono le antiche case di un quartiere di Stilo, essendo il resto coperto dal monte Consolino). A pochissima distanza da san Giovanni si tro-va un altro complesso monastico detto dei Santi Apostoli, ancora da restaura-re. Il dialogo con padre Giustino o con padre Andrea può durare qualche ora e riguardare tanti temi, spaziando dalla sfera personale alla vita religiosa, dal rapporto con il territorio e gli altri centri di spiritualità, all’unità tra Chiesa d’oriente e Chiesa d’occidente. Per esempio, padre Giustino ti dirà che si è fatto monaco all’età di diciotto anni, che appartiene a una famiglia in cui vi sono state diverse vocazioni monacali, che ha passato un periodo al monte Athos. Se interrogato dolcemente con l’aiuto di un interprete, giacché parla poco l’italiano, ti dirà che solo lo Spirito Santo potrà ricondurre a unità le chiese, dato che vi sono sentimenti di orgoglio che impediscono all’una e all’altra parte di fare ciascuna il passo che dovrebbe fare. (Intanto noi conti-nuiamo a recitare il credo che rimanda alla Chiesa «una, santa, cattolica e apostolica», più come auspicio, desiderio, speranza, invocazione perché av-venga presto, che come realtà. Infatti, come disse un tale una volta, Gesù Cri-sto, che un tempo veniva rappresentato con un pesce, è stato talmente spolpa-to che ormai non resta che la lisca).

La tua ottava sosta, nell’itinerario spirituale attraverso la Calabria, la

farai a Sant’Ilarione. Non lascerai però Stilo, la città dell’autore de La città del sole, senza aver fatto una capatina a quel gioiello che è la Cattolica: uno

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spazio di sei metri per sei soltanto, quattro colonne di spoglio, l’una diversa dall’altra, provenienti dalle città magnogreche della costa, cinque splendide cupole bizantine: una meraviglia.

Giunto a Caulonia marina potrai risalire il corso del torrente che nelle montagne delle Serre passa nei pressi delle fonderie di Mongiana, per andare a conoscere Frédéric Vermorel. È un francese di circa cinquant’anni, il quale, dopo aver frequentato la scuola più prestigiosa di scienze politiche d’Europa, “Science Po” di Parigi, da sei anni vive nell’eremo di sant’Ilarione, situato su una roccia in un’ansa del torrente Allaro, nel comune di Caulonia. Padre Fré-déric è approdato in questo luogo grazie a quel prete illuminato che si chiama Giancarlo Bregantini, allora vescovo della diocesi. Il dialogo con l’eremita può durare a lungo e culminare nell’ora di preghiera dei vespri, durante i qua-li il dialogo diventa universale. Parlando con lui scopri che aveva soltanto venti anni quando a Parigi incontrò Gianni Novello, il quale lo invitò a visita-re la Calabria, cosa che fece e si fermò alcuni anni proprio a Santa Maria del-le Grazie di Rossano; che a Santa Maria aveva come direttore spirituale padre Rodolfo, il gesuita professore di matematica e compagno di avventure di pa-dre Pino Stancari. Ti dirà anche che è molto amico dei certosini di Serra San Bruno, e che questi un giorno, durante una delle loro scampagnate, sono scesi a piedi fino a sant’Ilarione. Scopri inoltre che si tratta di un uomo che ha viaggiato, che tutt’ora viaggia molto, che lavora, studia, traduce libri, tiene conferenze, prega. Stando con lui scopri che egli ha un modo particolare di pregare: si prepara ascoltando canti di Taizé o musica di Bach, canta i salmi accompagnandosi con la cetra, usa il libro del salterio della comunità di Bose, fondata in Piemonte da Enzo Bianchi. Con padre Frédéric puoi parlare di qualsiasi cosa. Puoi, per esempio, chiedergli che cosa pensi di fratel Cosimo, il veggente che si trova sull’altra sponda dell’Allaro, a pochi chilometri dal suo eremo, nel comune di Placanica. Fratel Cosimo avrebbe visto, quando aveva diciotto anni e faceva il pastore, più d’una volta la Madonna, si è fatto poi terziario francescano e ha creato una comunità detta “Madonna dello sco-glio”, che attira folle oceaniche e finanziamenti. Padre Frédéric a riguardo ti dirà che se quel luogo e quell’uomo ti aiutano a vivere la fede in Gesù Cristo, fai bene a frequentarli, altrimenti faresti meglio a starne alla larga. Ciò è press’a poco quello che penso anch’io. Tieni presente però che Gesù è il mes-sia di tutti gli uomini, che egli è stato rifiutato dai sommi sacerdoti scandaliz-zati, che egli non ha affidato l’opera di continuare la sua missione nel mondo ai potenti, ai sapienti ai laureati ma ai pescatori analfabeti di Galilea. Medita su tutto questo e fatti un’opinione: forse scoprirai che, come dice san Paolo, ci sono molti carismi, e magari ce ne sono due che sembrano opposti, ma che, a ben vedere, sono soltanto complementari, e che hanno trovato dimora in

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due uomini diversissimi che però abitano le due opposte sponde di uno stesso torrente della Calabria meridionale, l’Allaro.

La nona sosta la farai a Gerace, un’altra capitale bizantina della Calabria

(insieme a Rossano e Santa Severina, nei pressi di Crotone) ma non farti fuorviare dalla cultura e dall’arte, nemmeno dalla storia, giacché tu sei un pellegrino sulle tracce di donne e uomini di fede. A Gerace incontrerai Mirel-la Muià, una iconografa, originaria di Siderno ma francese di adozione, che da alcuni anni vive all’eremo di santa Maria di Monserrato, situato alle porte della città, rimesso a nuovo grazie a monsignor Bregantini (ancora lui, sì), e ora denominato Eremo dell’unità. Prima di stabilirsi a Gerace, Mirella ha abi-tato nei pressi della Casa del gelso dei gesuiti di Rende, dove abita padre Stancari. Mirella, che è amica di padre Frédéric di Sant’Ilarione, vive un tipo di apostolato che mira a recuperare le radici spirituali della Calabria e a tesse-re, con la preghiera, lo studio, la diffusione delle icone, simbolo della spiri-tualità orientale, una rete di sutura delle lacerazioni tra la Chiesa d’oriente e quella d’occidente. (Ti trascrivo un brano sul tema dell’unità delle Chiese, tratto dal discorso pronunciato dal patriarca ecumenico di Costantinopoli Bar-tolomeo I, durante la visita alla certosa di Serra San Bruno, nel mese di mar-zo 2001. «A nove secoli da quell’evento [la morte di Bruno] siamo oggi felici nel constatare il solido vincolo spirituale stabilitosi in questi ultimi anni tra voi e i nostri monaci. Il vostro continuo dialogo e comunione in Cristo Gesù, qui nel centro della Calabria, costituisce la concorde supplica al Signore dei monaci greci e latini, ortodossi e cattolici, per l’unità dei Cristiani. Voglia Colui che è morto e risorto “per noi uomini e per la nostra salvezza” concede-re l’unità alle Chiese d’Oriente e d’Occidente e di tutto il mondo.

I sacri luoghi spirituali, mèta del nostro odierno pellegrinaggio, induco-no tutti noi, chierici e laici, ortodossi e cattolici, ad avvertire con maggiore intensità e nostalgia l’urgenza di adoperarci per ristabilire l’unità delle nostre Chiese. La più sicura strada per raggiungere ciò e la strada del pentimento e della santità, che cercano di trovare e percorrere specialmente i monaci. Men-tre godiamo dei benefici spirituali che riceviamo da questo pellegrinaggio alle palestre ascetiche della Calabria, una terra segnata in profondità da en-trambi le tradizioni spirituali dell’Oriente e dell’Occidente cristiano, vi esor-tiamo, padri e fratelli carissimi, a rimanere fedeli ai Santi e Teofori Padri del-la Chiesa, e specialmente a quelli della Chiesa indivisa, che costituiscono indubbiamente il comune punto di partenza e il comune fondamento della vita spirituale in Cristo sia dell’Oriente che dell’Occidente. Che essi illumini-no i vostri passi per il bene del pleroma dell’Una, Santa, Cattolica ed Aposto-

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lica Chiesa, verso cui tutti dobbiamo guardare, perché costituisce l’uno e in-diviso Corpo di Cristo»).

L’incontro con Mirella potrebbe prevedere la partecipazione alla messa alla chiesa del Carmine al Borgo, celebrata da un sacerdote dalle sembianze molto calabresi, che parla un ottimo italiano con accento romanesco per avere studiato nella capitale. Prima della messa potresti ascoltare una specie di ro-sario in vernacolo, che, dopo un poco, diventa un vero e proprio mantra. Il solista dice: «Si Maria unn avia ru mantu eramu persi tutti quanti …», il coro risponde: «Quante grazzie nua vulimu jamu a ra Vergina ca l’avimu …». Poi si invertono i ruoli e le strofe. C’è una bellissima corrispondenza, se non nei contenuti almeno nella forma, tra questo mantra e il canto a due cori in verna-colo che a Castiglione Cosentino, nella Calabria settentrionale, si canta dopo la Via Crucis del venerdì santo. (Ti segnalo, a questo proposito, che Giulio Palange, saggista e uomo di teatro di Cosenza, ha ritrovato la ninna nanna de La notte di natale di Vincenzo Padula sulla bocca delle donne di un centro del Pollino, a chilometri di distanza da Acri, patria del Padula, le quali la can-tavano essendo del tutto ignare che il testo fosse codificato nell’opera di un autore come il grande acrese. Ovviamente può ben darsi che il Padula, da etno-antropologo quale era, abbia costruito la sua famosa e bella ninna nanna proprio raccogliendo la voce del popolo). A Gerace la visita potrebbe conclu-dersi a casa di Mena e Gesumino (notare e annotare questo nome, che è tutto un programma) in contrada Puzzello, a qualche chilometro dalla cittadina, con un pasto semplice ma saporito e abbondante. Prima di partire ti è permes-so di visitare la città: almeno la cattedrale meravigliosa, la chiesa di san Gio-vannello, se riesci a farla aprire da colui che custodisce le chiavi, e la piazza dedicata a Barlaam, maestro di greco del Petrarca e vescovo di Gerace.

La decima sosta la farai ai paesi grecanici, nell’Aspromonte, per esem-

pio a Gallicianò. Questo paesino ospita ancora un manipolo di persone. In piazza, una vecchietta bruciata dal sole per la consuetudine di vivere all’aperto conversa con un uomo in una lingua sconosciuta: è la lingua greca-nica. Del resto, tutte le scritte del paese sono in lingua neogreca e in grecani-co. A un tornante prima del paese si incontra un’opera di Mimmo Nucera, uno dei pochi abitanti del borgo. Costui, che è insieme architetto, capomastro e manovale, insomma artigiano factotum d’altri tempi, con la pietra locale a vista, poca malta cementizia, e molto, molto gusto, ha costruito quattro gioielli in stile tradizionale: l’opera che dà il benvenuto al visitatore, posta in una curva prima del villaggio, una fontana, un anfiteatro, una chiesa ortodos-sa, ricavata da due piccole abitazioni adiacenti. La chiesa, dedicata alla Ma-donna dei greci, è stata consacrata dal Patriarca ortodosso d’Italia Gennadios,

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ed è stata visitata dal Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I; in essa si può ammirare un’icona della Madonna Odigitria. Qui, padre Nilo Vatopedino di tanto in tanto officia la messa in rito ortodosso.

Così ha termine il tuo itinerario attraverso i punti antichi e nuovi

d’irradiazione dell’evangelo in Calabria. (Non chiedermi perché non ti abbia suggerito di visitare la Madonna di Polsi – potresti leggere però il saggio gio-vanile di Corrado Alvaro su questo luogo–, perché non ti abbia proposto di far visita a Natuzza Evolo di Paravati, nei pressi del monte Poro – su di lei potresti leggere i libri del fisico Valerio Marinelli –, né ti abbia parlato del veggente Vincenzo di Crosia, a pochi chilometri a sud di Rossano, sulla costa ionica; no, questo, Giorgio, non chiedermelo). Ringraziamo Dio per aver su-scitato nelle persone che abbiamo incontrato in questo viaggio, la vocazione che hanno ricevuto, e prega con me affinché il Signore porti a compimento l’opera che ha iniziato in loro e per loro mezzo: le conservi nella letizia, nella fraternità e nella concordia reciproca e con le chiese locali.

Come vedi, l’evangelo in Calabria è ben vivo e da secoli scorre per vie sotterranee e segrete, come un fiume carsico che risorge dove e quando meno te lo aspetti. In questa terra montuosa e aspra l’evangelo scende sempre nel sottosuolo, nel silenzio della grotta, con donne e uomini come padre Pino Stancari, fermamente decisi a spendere la vita per ringraziare e benedire, per gustare e custodire il deposito della fede, e per annunciare al mondo la buona novella del Regno.

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Sicilia, l’universo dei paradossi

Bisogna andare in Sicilia per constatare quanto è incredibile l’Italia. Questa frase è di Leonardo Sciascia: la pronuncia il capitano dei carabinieri ne Il giorno della civetta dopo essere ritornato a Parma da quella terra. Natu-ralmente “incredibile” non è il Belpaese ma il fatto che l’Italia abbia tra le sue regioni la Sicilia. Infatti la gente sbaglia a ritenere che essa sia una delle regioni d’Italia. L’isola più grande del Mediterraneo non è una regione, ma il centro del mondo. «Me la chiami rreggione la Sicilia, me la chiami? Non è mmanco un’isola. La Sicilia è un continente» mi disse iperbolicamente una volta un siciliano. Regione, continente o universo, certo è che l’isola è un groviglio di paradossi.

La Sicilia deve essere pensata con categorie doppie o triple, con qualche modello interpretativo ma anche con il suo duale. Prima di prendere contatto con l’isola bisognerebbe considerare il nastro di Möbius, superficie nella qua-le esiste un solo lato, non due, e «dopo aver percorso un giro, ci si trova dalla parte opposta, ma dopo averne percorsi due ci si ritrova al punto di partenza»; considerare anche il moto perpetuo e le cascate di Escher; le geometrie non euclidee; il principio ologrammatico. In Sicilia deve essere facile pensare la luce avente natura contemporaneamente ondulatoria e corpuscolare, naturale concepire “uno, nessuno e centomila”, e forse anche comprendere l’uno e trino.

Nino Taormina, emulo forse dei cuntastorie Busacca, Trinchera, Buttitta, ha scritto: «Cu dici ca Sicilia è mafia e suli / s’havi scurdatu di lu granni onu-ri / di quanti sunnu ccà morti ammazzati / ma ancora vivi e sempri ringrazia-ti». Ecco il paradosso: la Sicilia è la terra di Riina e Badalamenti, ma anche di Falcone, Borsellino, Impastato, Puglisi, Caponnetto e Cassarà. La Sicilia è la terra del “blocco sociale” di cui parla Umberto Santino del “Centro Impasta-to”, che condiziona anche la storia d’Italia. Ma pure il “Centro Impastato” e “l’opera antiusura” della diocesi di Palermo, a ben guardare, sono Sicilia.

La Sicilia è una regione d’Italia ma è anche il centro del mondo. È stata il centro del mondo antico, posta com’è nel cuore del Mediterraneo. È stata però anche terra di frontiera, per esempio sotto gli arabi. Per i romani era la prima provincia, un territorio altro rispetto all’Italia. La Sicilia è un’isola che troneggia in mezzo al mare, ma anche un sistema con tanti arcipelaghi: come un sole con numerosi pianeti che gli ruotano intorno; è la regione più grande del paese, più grande della Lombardia, del Piemonte. Visitando l’isola può capitare di chiedersi: se la minuscola Malta è uno stato con Gozo, perché la

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Sicilia immensa non potrebbe esserlo? In effetti, la Sicilia fu un regno, anzi, con Federico II, nel XIII secolo, fu centro dell’impero. Ma anche per Bisan-zio era baricentro del mondo, se Costante II, nel VII secolo, pensò di trasferi-re la capitale da Costantinopoli a Siracusa. La Sicilia, come leggiamo nel grande dizionario enciclopedico Utet, nel corso dei secoli, oltre che centro del mondo e “marca” di frontiera, fu anche periferia, per esempio durante il bas-so medioevo. Oggi la Sicilia è una regione autonoma a statuto molto speciale: praticamente ha un parlamento, e il presidente della regione partecipa con diritto di voto al consiglio dei ministri del paese, per le questioni che riguar-dano l’isola: niente male per una regione: ma, l’abbiamo detto, si tratta di un universo. Se un giorno dovesse nascere l’Unione del Mediterraneo, tanto cara a Nicolas Sarkozy, le sue istituzioni dovrebbero essere collocate in Sicilia, come del resto, qualcuno ha già proposto.

Guardate le città della Sicilia. Palermo ha circa settecentomila abitanti ed è la quinta d’Italia, dopo Roma, Milano, Torino e Napoli. Catania, Messi-na, Siracusa ed Agrigento sono tutte città importanti. Ma anche le cittadine e i paesi hanno nomi molto evocativi, al punto che difficilmente si sbaglia nel collocarli nell’isola: Mazara del Vallo, Noto, Corleone, Canicattì, Bagheria, Marsala, Milazzo, Nicosia, Comiso, Portella della Ginestra, Caltabellotta, Tindari, Carini, Aci Trezza.

Guardate la letteratura. Nessuna regione ha dato i natali a tanti letterati, scrittori, poeti, filosofi, scienziati di levatura mondiale come la Sicilia: Verga, Pirandello, Quasimodo, Borgese, Tomasi di Lampedusa, Bellini, Sciascia, Gentile, Guttuso, D’Arrigo, Bufalino, Cattafi, Consolo, Brancati, Buttitta, Capuana, Ripellino, Vittorini, Majorana, Tornatore, Battiato, Cuticchio. E non si tratta di personalità per lo più concentrate nella capitale, nient’affatto: in Sicilia la semenza del genio l’ha distribuita in ogni contrada il vento. In questa terra il genio del mondo greco, di un Empedocle, di uno Stesicoro, di un Archimede, fecondato da quello saraceno, di un Ibn Hamdis, di un Al Idri-si, e anche di tutti quei matematici e astronomi arabi che siciliani non furono, ma che dovettero essere conosciuti in Sicilia, arricchito con il contributo dei geni degli impavidi normanni, a un dato momento ha cominciato a produrre frutti copiosi. Dalla scuola poetica siciliana, fiorita sotto Federico II, di cui ricordiamo Cielo D’Alcamo, Jacopo da Lentini e lo stesso Federico, ai giorni nostri, l’isola ha preso a pullulare in ogni angolo, non solo a Messina, Cata-nia, Palermo e Agrigento, di uomini di grandissimo valore, spesso senza e-guali al mondo: Sciascia è di Racalmuto, Borgese è di Polizzi Generosa, Gut-tuso è di Bagheria, don Sturzo di Caltagirone, Bufalino è di Comiso, Quasi-modo di Modica, Rosso di San Secondo di Caltanissetta, D’Arrigo di Alì Ter-me, Brancati di Pachino, Camilleri di Porto Empedocle. Spiega Giuseppe

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Bonaviri, medico e scrittore: «Come altre volte ho detto, Mineo, il mio paese, in provincia di Catania, ha sempre favorito la nascita di poeti e pensatori tra contadini e artigiani: per tradizione, per clima, aure, venti, fasce elettroma-gnetiche terrestri, lunari, solari, metabolizzati per fantasiose spirali di acidi desossiribonucleici…».

Stefano Lanuzza, nel suo Insulari. Romanzo della letteratura siciliana, ci offre un compendio efficace dell’universo letterario vasto e sconfinato del-la Sicilia. L’autore, dopo aver passato in rassegna narratori e poeti piccoli e grandi, noti e meno noti, chiude il libro con un «paradossale, temerario censi-mento…» di autori siciliani i quali, pur non essendo famosi, hanno pubblicato qualche opera tra la fine del secondo e l’inizio del terzo millennio: si tratta di un elenco che occupa sei pagine fitte fitte dell’opera. Sarà vero che oggi «più della metà degli scrittori italiani sono siciliani?». Il libro di Lanuzza è una tessera preziosa del mosaico della sicilitudine, degna di stare accanto a La corda pazza e ad Alfabeto pirandelliano di Sciascia. Ma le corde dei siciliani di cui parla Pirandello (la seria, la civile e la pazza), capaci di sprigionare una potenza creatrice straordinaria, non si limitano a produrre opere letterarie: quando vibrano producono anche scienza o congegni che sono il frutto di in-trecci, tra lettere e scienze, raffinatissimi.

Crediamo che non sia un caso che il principe Salina, protagonista del romanzo di Tomasi di Lampedusa, si diletti di astronomia. Dal tempo di Ar-chimede gli scienziati siciliani non sono pochi, come Zichichi, fondatore del centro di cultura scientifica di Erice. Ma quello che li supera tutti di molte spanne, non solo i siciliani, è Ettore Majorana, scomparso all’età di 31 anni misteriosamente. Sciascia ha scritto: «Fermi e “i ragazzi” [di via Panisperna] cercavano, mentre lui semplicemente trovava. Per quelli la scienza era un fatto di volontà, per lui di natura. Quelli l’amavano e volevano raggiungerla e possederla; Majorana, forse senza amarla, “la portava”». Majorana ha qualco-sa in comune con Ramanujan, geniale matematico indiano privo di una for-mazione ordinata che, ai primi del Novecento, ha lavorato con grande profitto in Inghilterra con Hardy, un altro genio della matematica, ed è morto a 33 anni. Per questi uomini la scienza non è un cercare con metodo e razionalità, né un costruire una posizione di potere: è un fatto esistenziale, ontologico, metafisico, mistico.

In Sicilia la scienza non è confinata nei laboratori dei fisici, dei matema-tici, degli astronomi. In quella terra anche la letteratura impasta sfera raziona-le e sfera emozionale: il bello, il vero e il buono: dimensione estetica, episte-mologica, etica: fides et ratio. Questo impasto troviamo in Pirandello, si pen-si soltanto a Il piacere dell’onestà, tutto giocato sul filo della logica. L’opera di Pirandello appare come una gigantesca costruzione simile a una geometria

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non euclidea, in cui non è abolito affatto il raziocinio (Pirandello stesso ha detto che la sua opera sta tutta nell’atto di riflettere sul vivere; riflettere, ser-rato ragionare, appunto, sullo scarto inevitabile tra la vita vissuta e le diverse idee personali o sociali che si hanno della vita): anzi proprio confermando tutto, postulati, rigore logico e metodi, e cambiando solo il quinto postulato di Euclide, si ottiene la geometria non euclidea di Riemann o di Lobačevskij. Un intreccio simile di logica e di estetica troviamo in Borgese, per esempio, nella struttura estremamente ragionata del suo Rubè.

Il maestro siciliano dell’impasto di scienza, raziocinio, filologia e lette-ratura è però Leonardo Sciascia. I suoi romanzi migliori hanno al centro un investigatore-professore o un professore-investigatore. Ne Il giorno della ci-vetta, per esempio, il capitano dei carabinieri che conduce le indagini è un uomo che ha il gusto della filologia; in Todo modo c’è un professore-pittore che orienta le indagini del suo amico, investigatore di professione; in A cia-scuno il suo il professore-investigatore, che segue una pista tutta linguistica, ci lascia le penne e viene qualificato come “cretino” dai notabili del paese; in Una storia semplice il caso si risolve grazie all’indizio fornito al brigadiere subalterno, che ha il gusto di usare il raziocinio, da un “punto fermo” posto alla fine della breve frase “Ho trovato” (che è poi l’eureka di Archimede), ma che la vittima non avrebbe potuto apporre.

Stefano D’Arrigo è invece il siciliano che ha celebrato nella sua opera il trionfo del linguaggio. Egli ha scritto un grande romanzo o poema di circa 1200 pagine, Horcynus orca, la cui stesura ha richiesto più di venti anni. Il congegno narrativo di D’Arrigo è straordinario perché basato su una lingua prodotta ad hoc e mai più impiegata: si tratta di uno strumento espressivo costruito a partire dal siciliano antico, tenendo d’occhio l’italiano e aggiun-gendo all’occorrenza lemmi e stilemi coerenti con le regole di produzione delle lingue di base utilizzate, ma interamente inventati. Si tratta di una lin-gua artificiale, imparentata con le lingue neolatine, costruita come i linguaggi artificiali per computer, spesso pensati dagli ingegneri informatici per un cer-to scopo e non per un uso veramente generale. Forse i siciliani hanno intuito meglio di chiunque altro che l’uomo è parola, linguaggio, testo e che la vita dovrebbe essere analizzata con i metodi della filologia e dell’ermeneutica.

La Sicilia vi sorprende sempre. Visitatela in primavera e non crederete ai vostri occhi, tanto è verde e colorata di ginestre, papaveri e oleandri. Visitate-la in estate, inoltrandovi nell’entroterra, verso Enna e Caltanissetta, e non crederete ai vostri occhi, tanto è brulla e arsa (arata, appare scura e fertile). Ma se tornate indietro, e percorrete la litoranea da Catania a Messina, crede-rete di essere in un’altra regione, per via di quei rilievi montuosi nient’affatto nudi o brulli che precipitano ex abrupto nel mare. Da queste parti il viaggia-

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tore resterà stupito non solo per la maestà del Mongibello, con i suoi circa 3340 metri, ma anche dalle gole dell’Alcantara scavate nella nera lava dalle acque. La Sicilia però, anche dove appare brulla e arsa, non è del tutto secca. Il prezioso liquido, dicono gli esperti, scorre sotto terra, nei meandri carsici. Forse nello stesso modo scorre per i siciliani il senso del vivere e del morire: in misteriosi recessi inaccessibili. Scrive Sciascia sul tema Sicilia e sicilitudi-ne: «Alla base di tutto c’è, ovviamente, il fatto geografico: la Sicilia è un’isola al centro del Mediterraneo; ma alla sua importanza in un sistema, per così dire, strategico, cioè come chiave di volta che ha assicurato potenza e dominio ai popoli conquistatori, paradossalmente ha corrisposto una vulnera-bilità di difesa, una insicurezza che, accompagnandosi alla tendenza a sepa-rarsi dal sistema di potenza da cui è stata di volta in volta conquistata, l’ha resa aperta e disponibile a ogni azione militare e politica». Agli stessi fatti geografici in definitiva gli studiosi fanno risalire la capacità creatrice senza eguali dei siciliani (i dati storici e culturali discenderebbero da quelli geogra-fici): l’isolamento, data la porosità dei confini, lungi dall’emarginare, aprireb-be gli spiriti migliori al mondo intero, alle istanze universali.

Sempre a causa dei fatti geografici di cui parla Sciascia, la Sicilia è un luogo aperto, d’incontro dei tipi umani più disparati. Ho visto siciliani a Cal-tanissetta che sembravano paracadutati freschi freschi da certi angoli di Fran-cia, Belgio o Paesi Bassi: capelli rossi e lisci, occhi chiari, pelle color del lat-te, cosparsa di lentiggini: erano normanni. Nello stesso luogo ho visto sicilia-ni alti, magri, capelli ricci e scuri come il corvo, pelle bruna, e sul viso tanti nei: si trattava evidentemente di saraceni. Saraceni e normanni hanno dato il volto alla gente e ai luoghi di Sicilia. Basta guardare i toponimi, l’urbanistica dei centri storici, gli edifici militari e religiosi, le colture, l’abitudine di pren-dere la granita o il sorbetto al limone a colazione, per rendersene conto.

Il viaggiatore che visita la Sicilia potrebbe chiedersi comunque in quale misura taluni paradossi del carattere dei siciliani siano da porre in relazione con le principali etnie che soprattutto durante il medioevo si sono incontrate e mescolate nell’isola. I normanni, per esempio, erano prodi cavalieri e banditi. Pare che Roberto il Guiscardo arrivasse in Italia con cinque compagni e che, giunto nella penisola, si sia messo alla testa di una banda di predoni. Un’altra banda di normanni si sarebbe guadagnata il pane offrendo la propria protezio-ne dagli altri banditi, ai pellegrini diretti al santuario di San Michele, sul Gar-gano. Probabilmente si trattava di una forma di racket; insomma, non avendo di meglio, tiravano a campare imponendo il pizzo. Anna Comnena, storica bizantina, scrive del Guiscardo: «Codesto Roberto era discendente dei Nor-manni, di stirpe minore, di temperamento tirannico, astuto di pensiero e co-raggioso nell’azione, estremamente ingegnoso nel pianificare attacchi alle

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ricchezze di facoltosi possidenti e ancor più ostinato nel metterli in pratica, poiché egli non tollerava alcun ostacolo alla realizzazione dei propri disegni. Era di statura notevole, tale da superare anche i più alti fra gli individui, ave-va una carnagione rubiconda, capelli di un biondo chiaro, spalle larghe, occhi come scintille di fuoco, e nel complesso era di bell’aspetto. Si racconta che il grido di quest’uomo avesse messo in fuga intere moltitudini. Siffattamente dotato dalla fortuna, dal fisico e dal carattere, egli era per natura indomabile, mai subordinato ad alcuno».

I normanni combattevano usualmente come mercenari al servizio dei longobardi o dei bizantini, ma a quanto pare non disdegnavano affatto di compiere imprese criminose. Erano coraggiosi, astuti, spregiudicati e senza scrupoli e, non avendo nulla da perdere, si trovavano nelle condizioni ideali per rischiare tutto nella speranza di guadagnare terre, ricchezza e gloria; e ci riuscirono. Pare che fossero estremamente abili nel tenere i longobardi della Campania sulla corda, in condizione di dipendenza, aiutandoli quando occor-reva ma senza impegnarsi a fondo per risolvere le diatribe che scoppiavano tra duchi e conti. Essi con i longobardi si imparentarono, sposando le loro donne. Roberto il Guiscardo ripudiò la prima moglie per sposare Sichelgaita, figlia di Guaimario IV, principe di Salerno. A nulla valse l’opposizione del fratello di Sichelgaita, Gisulfo II, il quale forse intuiva quale piega avrebbero preso i futuri eventi. Il fratello del Guiscardo, Drogone, aveva già sposato Gaitelgrima, altra figlia dello stesso principe. Quando Roberto inizierà la conquista della Calabria, allora in mano bizantina, voleva forse solo fare bot-tino, razziando e distruggendo. Egli aveva combattuto come mercenario a fianco dei bizantini anche in Sicilia e conosceva i loro metodi e le risorse del territorio. Il pretesto che darà il via nel 1061 alla guerra che porterà i fratelli Roberto e Ruggero d’Altavilla a strappare la Sicilia ai musulmani è l’invito rivolto loro da un signore arabo per un contrasto sorto col califfo di un’altra città dell’isola. Come dicono saggiamente i calabresi: «China int ¥ra ti puorti fora ti caccia». In verità l’ambizione dei due era smisurata, tanto che esisteva già un accordo con il papa in tal senso, e, del resto, Mileto, in Calabria, stava stretta a Ruggero: solo così poté diventare Gran Conte di Sicilia. In definiti-va, le modalità con cui nell’827 gli arabi sbarcarono a Mazara, e quelle con cui i normanni approdarono a Messina nel 1061, sono quasi identiche (Sciascia addirittura accosta lo sbarco degli arabi a Mazara allo sbarco degli alleati durante la Seconda guerra mondiale). Il regno dei normanni, come ac-cade spesso nella fondazione dei regni, nacque con qualche peccatuccio d’origine. Più tardi essi ricattarono due papi, facendoli prigionieri. Nel frat-tempo si allearono con un antipapa, Anacleto II, il che fece dire a Bernardo di Chiaravalle, suo avversario, che i normanni erano pagani. Tuttavia costoro,

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anche grazie a una potente flotta, riuscirono a scacciare dall’Italia meridiona-le i bizantini dell’impero d’Oriente, i longobardi che li avevano sfamati e, più tardi, gli arabi dalla Sicilia. Essi costruirono un regno potente che ha sfidato gli imperi; si imparentarono con i regnanti d’Inghilterra e d’Ungheria, e, da ultimo, attraverso un ramo quasi secco della famiglia, con gli imperatori. Ciò accadde quando Costanza d’Altavilla, figlia di Ruggero II, sposò il venti-seienne Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa, determinando la fine del regno costato sudore e sangue. Si tratta di una storia di coraggio, di genio militare, di abilità diplomatica, di forza e d’inganni; di sangue, di intrighi, di ambizione, di guerre di religione, di discordie, divisioni, scomuniche, scismi; talvolta di saggezza, di grazia e di splendore: quello della corte di Palermo, della Cappella Palatina, di Monreale, del parco del Genoardo e del palazzo della Zisa, con i suoi geniali sistemi di condizionamento del clima inventati dagli arabi.

Forse quel Mongibello-Etna che erutta fuoco, che scorre come fiume incandescente, splendido e tremendo ad un tempo, che minaccia e travolge gli abitati, è la migliore immagine della Sicilia, più del sole, più del mare. L’Etna che erutta può essere pure la sintesi del carattere dei siciliani: fuoco, lava, cenere, lapilli: passione, genio, fecondità, vita e morte (abbiamo detto “immagine” e “sintesi” non “causa” del carattere dei siciliani, come qualcuno ha ipotizzato – l’idea che il carattere dei siciliani possa dipendere dalla pre-senza del grande vulcano è menzionata e confutata da Leopoldo Franchetti in Condizioni politiche e amministrative della Sicilia).

La Sicilia è l’universo dei paradossi. Ne Il giorno della civetta, di Leo-nardo Sciascia c’è un capitano di Parma che, chiamato a operare in Sicilia, rinuncia a trarre le conseguenze delle sue meticolose indagini. In Una storia semplice, dello stesso autore, c’è un personaggio del Nord, un rappresentante di commercio con una Volvo, che rimane sconcertato dall’amministrazione della giustizia nell’isola. Scrive Franchetti: «La violenza va esercitandosi a-pertamente, tranquillamente, regolarmente; è nell’andamento normale delle cose»; e più avanti: «Qui l’amministrazione governativa è come accampata in mezzo a una società che ha tutti i suoi ordinamenti fondati sulla presunzione che non esista autorità pubblica». D’altra parte la Sicilia è terra di geni indi-scussi. L’opera di un Pirandello, come ha sostenuto energicamente Sciascia, non si spiegherebbe senza il riferimento all’universo linguistico, culturale e umano della sua terra. Vincenzo Consolo ne L’olivo e l’olivastro ci fornisce una sintesi efficace della realtà della Sicilia stratificata e multipla, mediante una lingua ruvida, piena d’increspature come il mare quando è sollecitato da venti contrastanti e forma brevi corrugazioni che si spezzano in scaglie spu-mose. Egli scrive: «E vide un giorno distruggere la casa dov’era cresciuto con

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i fratelli numerosi, sradicare gli alberi in giardino, abbattere i muri dai bulldo-zer, spazzare dalle ruspe pietre calcinacci tegole porte persiane. Vide nel luo-go dov’era la sua casa sorgere un palazzo di banche, uffici, studi di dentisti, di notai, intorno intorno fitto altri palazzi che hanno cancellato ogni sènia, giardino, chiuso la vista della spiaggia, del mare, delle Eolie all’orizzonte. In una Finisterre, alla periferia e confluenza di province, in un luogo dove i se-gni della storia – chiese bizantine, conventi basiliani, romitori arroccati su picchi inaccessibili – s’erano fatti labili, sfuggenti, dove la natura placata – immemore qui dei ricorrenti terremoti dello Stretto, immemore delle eruzioni del vulcano – s’era fatta benigna – nelle piane, nelle valli, sopra i monti erano agrumeti oliveti noccioleti, erano boschi di querce elci cerri faggi –, in un paese ai piedi dei Nèbrodi, in vista delle Eolie vaganti e trasparenti era nato e cresciuto. In tanta quiete, in tanto idillio, o nel rovesciamento d’essi, ritrazio-ne, malinconia, nella misura parca dei rapporti, nei sommessi accenti di paro-le, gesti – erano qui pescatori d’alici e sarde assolti da condanne del fato, a-lieni da disastrosi negozi di lupini (narrava la favola, il Vangelo ricreato, che la secca pianta, sonante, rivelò ai soldati il nascondiglio della famiglia in fuga nell’Egitto: Maria la maledisse); erano contadini, proprietari minimi, ortolani, innestatori e potatori, erano carrettieri e carretti disadorni, monocromi, gialli o verdi –, in tanta sospensione di natura, storia, il rischio era di scivolare nel sonno, perdersi, perdere il desiderio e il bisogno di cercare le tracce intorno più significanti per capire l’approdo casuale, il limbo in cui si trovava».

La Sicilia è paradossale, bella e crudele. Considerate i casi di bambini disciolti negli acidi. Considerate il caso della facoltà di farmacia dell’università di Catania, ricostruito attraverso i diari del povero ricercatore Emanuele Patanè, che ha lasciato la pelle nel laboratorio di ricerca, da lui ribattezzato “laboratorio della morte”. Si tratta di una storia che fa accappo-nare la pelle: nel laboratorio si maneggiavano sostanze tossiche senza le mi-sure di sicurezza necessarie. I superiori, i baroni professoroni ordinari, mini-mizzavano, ma sapevano benissimo quali gravi rischi quotidianamente corre-vano i ricercatori, gli studenti e i professori. Infatti periodicamente qualcuno si ammalava di tumore o di leucemia e ne moriva: loro avevano trovato un modo, criminale ma efficacissimo, per eliminare scomodi concorrenti. I gene-rali, in tempo di guerra, fanno lo stesso: mandano i loro collaboratori scomo-di là dove più infuria la battaglia. Lo ha fatto perfino Davide con Uria, sposo della bella Betzabea. Evidentemente per taluni uomini la vita, tutti i giorni, è guerra. Una guerra troppo impari, perché la maggioranza silenziosa e inno-cente, contro la quale questa mostruosa guerra viene combattuta, è ignara e disarmata. Fuoco, lava, cenere, lapilli: passione, genio, fecondità, vita e morte è la Sicilia.

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