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Tatiana Ros Blue sky: quando accadono le cose 1

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Romanzo, Tatiana Ros

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Tatiana Ros Blue sky: quando accadono le cose

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Tatiana Ros Blue sky: quando accadono le cose

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CAPITOLO UNO ............................................................................... 3!CAPITOLO DUE ............................................................................. 11!CAPITOLO TRE .............................................................................. 21!CAPITOLO QUATTRO .................................................................. 34! ………………………….

©Tatiana Ros, 2014

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Tatiana Ros Blue sky: quando accadono le cose

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CAPITOLO UNO

o chissà cos'altro

La mia vita era un bellissimo castello costruito con materiale

scadente, un castello fatto di sabbia.

Mi trovavo lungo la spiaggia, in riva al mare, sotto un caldo sole

estivo, indossavo un bikini rosa rivestito di pagliette, i miei lunghi

capelli bruni erano acconciati in due lunghe trecce che mi

incorniciavano il viso, due sottili elastici rosa le fissavano alle

estremità.

I miei capelli assomigliavano un po’ alla mia nuova me, erano

anarchici, non rispettavano obblighi, nè regole, a volte, perdevano

letteralmente il controllo trasformandosi in un ammasso scapigliato

sul mio viso. Le treccine riuscivano a domarli, almeno per un po’.

Me ne stavo in ginocchio sulla sabbia, a costruire il mio bellissimo

castello di sabbia, granello dopo granello, con attenzione.

Avevo scelto delle conchiglie bianche per sistemarle sulla sommità,

con un bastoncino di legno avevo disegnato le finestre e il portale.

Avevo persino scavato un fossato tutt'intorno sistemando, poi, una

serie di legnetti come ponte levatoio. Con un secchiello, avevo

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Tatiana Ros Blue sky: quando accadono le cose

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mescolato bene sabbia e acqua di mare e raggiunta la giusta

consistenza, a piccole manciate l’avevo lasciata colare dall’alto

formando dei caratteristici ghirigori sul tetto vicino alle conchiglie, i

merli del mio castello.

Era quasi pronto, altri piccoli dettagli e tutto sarebbe stato perfetto.

Feci una pausa per ammirarlo, piegai la testa di lato, restai

compiaciuta del mio lavoro. Davvero bello!

Poi, di colpo, mentre me ne stavo lì in ginocchio con il sorriso che

illuminava il mio bel faccino, le treccine leggermente mosse dalla

brezza del mare e le mani conserte in attesa di tornare al lavoro per

qualche dettaglio da ultimare, minacciosi nuvoloni neri oscurarono il

cielo.

Sentii un rumore sordo che si avvicinava... ma cos’era? Non feci

nemmeno in tempo a girarmi che un’enorme onda spumosa,

anomala, imprevista arrivò e in un attimo, senza darmi nemmeno il

tempo di realizzare quello che di lì a poco sarebbe accaduto, spazzò

via tutto. TUTTO.

Quando l’onda si ritrasse, al posto del mio bellissimo castello non

restò che un montarozzo informe di sabbia, i legnetti e le conchiglie

sparsi qua e là.

In preda al panico iniziai a gridare: “No! Noooo… il mio castello

perfetto! La mia vita perfetta! Era la mia vita... La rivoglio indietro!

No, ti prego noooo!”

“Signorina si svegli! Signorina, si sente bene?”

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Aprii gli occhi, e vidi l’hostess di fronte a me che mi stava

scuotendo, il suo volto era preoccupato.

Farfugliai qualcosa: “S-sì, b-bene, credo.” Accennai una specie di

sorriso imbarazzato mentre piano piano tornavo alla realtà.

“Desidera un bicchiere d’acqua?”

“Ehm… sì, g-grazie”.

L’hostess mi osservò ancora un istante, era indecisa, non era certa

che stessi bene almeno quanto bastasse per allontanarsi.

Qualcuno si sedette di fianco a me, nel posto vuoto.

“Non si preoccupi, sto io accanto a lei, vada pure a prendere

l’acqua”.

Ero salita su quell’aereo per ultima e l’hostess aveva tolto i cartellini

bianchi con su scritto “riservato” e mi aveva invitato a sedermi lì

perché, diceva, i passeggeri con la prenotazione non si erano

presentati al gate per l’imbarco.

Mi ero sentita fortunata a non avere nessuno seduto vicino a me.

Avrei potuto starmene da sola torturandomi con i miei tristi pensieri

e se anche mi fosse sfuggita qualche lacrima ribelle, mi sarei girata

verso il finestrino e nessuno se ne sarebbe accorto.

Vidi gli occhi celesti della hostess tranquillizzarsi alle parole dello

sconosciuto: “Torno in un attimo signorina, cerchi di stare

tranquilla”.

Annuii. Lei si girò e se ne andò camminando in quel modo elegante

che solo le hostess potevano avere.

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Il suo completo turchese ondeggiava accompagnando i suoi passi, la

gonna stretta lunga fino al ginocchio le fasciava il fondoschiena

perfetto e la giacca avvitata accentuava il suo esile punto di vita. I

capelli biondi erano raccolti in un grazioso ed elegante chignon.

Ma che era successo? Avevo parlato nel sonno?

Mi accorsi di avere gli occhi bagnati, avevo anche pianto?!

Un fastidioso senso di vergogna mi invase.

Non mi girai verso di il tipo gentile seduto vicino a me, non avevo il

coraggio di guardarlo in faccia, ero imbarazzata e impacciata, gli

chiesi: “Ma… che è successo? Cos’ho fatto?”.

Il tipo, con un tono di voce esageratamente pacato e gentile, mi

spiegò che avevo iniziato ad agitarmi nel sonno e poi l’agitazione si

era trasformata in una specie di attacco nervoso con annesse urla di

disperazione.

Sospirai amareggiata.

Mi guardai intorno timidamente e mi accorsi che tutti i passeggeri

del volo mi stavano osservando incuriositi e lievemente preoccupati.

Cercai di scuotermi pensando che, se non altro, con il mio

“spettacolo” da pazza, avevo rotto la monotonia del volo offrendo

loro qualcosa di cui sparlare per un po’.

Di lì a poco tornò la hostess con il mio bicchiere d’acqua, me lo

porse e restò in piedi davanti a me, senza andarsene.

“Grazie” dissi con un sorriso tirato.

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Lei continuava a fissarmi, in modo gentile, certo, ma io volevo

essere lasciata in pace, volevo assolutamente che se ne andasse, che

quell’antipatico episodio giungesse al termine una volta per tutte.

Bevvi un sorso d’acqua, magari voleva solo accertarsi che fosse

davvero tutto a posto.

Nel modo più cortese di cui ero capace ma con fare risoluto, almeno

quanto la situazione lo permetteva, dissi: “Grazie, sto bene, è

passato, ora sto bene.” Abbozzai un altro sorriso tentando di renderlo

più credibile possibile e feci un cenno di congedo con la mano.

Volevo soltanto concludere l’episodio increscioso.

La hostess, dopo avermi esortato a chiamarla per qualsiasi cosa e in

qualsiasi momento, finalmente, con mio grande sollievo, se ne tornò

al suo lavoro.

<<Spettacolo finito>> pensai, e sperai che i passeggeri che ancora mi

stavano fissando come se fossi un’attrazione del circo, tornassero a

occuparsi delle loro cose dimenticando l’accaduto.

Mio malgrado mi resi conto che ero già diventata la sfortunata star

del momento e di certo, tutti avrebbero raccontato a parenti e amici

di quella pazza che aveva avuto una specie di attacco isterico in

aereo urlando e dibattendosi in modo esagerato.

Come se durante un incubo si potesse avere la facoltà di controllarsi!

“Era una ragazza carina, dal viso dolce - avrebbero detto - ma di

sicuro con qualche rotella fuori posto”.

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Magari qualcuno avrebbe persino condito il racconto con qualche

ingrediente in più, del tutto inventato, solo per rendere la storia

ancora più interessante.

Avrebbero potuto dire... chessò, che, in preda al panico, nel sonno,

avevo cercato di strangolare la hostess che tentava di svegliarmi e/o

che, mentre mi divincolavo, della bava bianca e schifosa mi colava

dalla bocca. O chissà cos’altro.

L’immagine di me che tentavo di strangolare la hostess con un rivolo

di bava che mi scendeva fino al mento, mi fece sorridere, fu un

sorriso sincero questa volta.

Sarebbe stata un’immagine esilarante, se soltanto non fossi stata io la

pazza in questione.

“Vedo che stai meglio.”

“E-Eh?”

Il tipo seduto di fianco a me continuò: “Vedo che sorridi, quindi stai

meglio!”

“S-sì, grazie” mi girai verso di lui e per la prima volta lo guardai.

Era un ragazzo carino, sulla trentina, come me. Malgrado la sua

intraprendenza nell’aiutare una sconosciuta, doveva essere timido,

perché mentre mi parlava, si scompigliava nervosamente i capelli

biondo cenere, dimostrando una certa insicurezza.

Anche se era un perfetto estraneo riuscivo a leggere le sue emozioni

in quei grandi occhi blu, aveva uno sguardo pulito, trasparente.

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Non c’era segno di compassione per me, di pietà, o peggio, di

derisione, i suoi occhi esprimevano una sincera preoccupazione,

voleva davvero che stessi meglio.

Mi sorrise e lasciò intravedere dei denti bianchissimi, notai che i due

incisivi superiori erano leggermente sovrapposti, ma quel piccolo

difetto rendeva il suo volto ancora più bello e attraente. Portava un

orecchino al lobo destro, un piccolo diamante bianco e luminoso.

Gli sorrisi, quel tipo mi ispirava fiducia.

Presi il mio kindle e mi misi a leggere, in questo modo non mi sarei

addormentata di nuovo rischiando di perdere ancora il controllo.

Notai che il tipo di fianco a me, di tanto in tanto si voltava e mi

osservava per un po’, ma per il resto del volo, non disse più nulla,

neanche una parola.

Anche se mi sarebbe davvero piaciuto conoscere i suoi pensieri, feci

finta di niente, l’ultima cosa che volevo era flirtare con uno

sconosciuto che aveva assistito al mio patetico spettacolo.

Mi trovavo su quel volo perché desideravo allontanarmi da casa per

scrollarmi di dosso i miei problemi per un po’, avevo bisogno di

ricaricarmi per risolvere le cose.

Mi distrasse il “dlin” della spia sopra di me che mi invitava ad

allacciare la cintura di sicurezza, stavamo per atterrare all’aeroporto

di Stansted. Ero su un volo lowcost della Ryanair e avevo acquistato

il biglietto solo perché costava poco e partiva da Perugia, la mia

città. Londra era stata più una scelta dettata dal portafoglio e dalla

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comodità che una destinazione realmente desiderata. Volevo solo

andarmene per un po’, il luogo non aveva importanza.

Il tipo di fianco a me mi aiutò con il bagaglio a mano ma non disse

una parola, qualche sorriso, qualche sguardo e niente di più.

Ero curiosa di conoscere almeno il suo nome, ma non volevo essere

io ad avviare una conversazione.

Scesi dall’aereo con lui dietro di me.

Dopo i controlli, mi voltai un momento e mi accorsi che aveva

indossato un berretto con visiera e degli occhiali da sole.

Era ottobre, eravamo in un luogo chiuso, le ampie vetrate

mostravano un cielo completamente grigio e scuro, senza sole. Mi

sembrò un po’ strano che quel tipo avesse indossato berretto e

occhiali ma decisi di non badarci troppo, in fondo, non erano affari

miei.

Mi diressi svelta verso l’uscita, mi voltai ancora una volta per

sbirciare verso di lui ma con mio stupore mi accorsi che lui non c’era

più, lo cercai con lo sguardo ma niente, era sparito, volatilizzato. Ne

restai delusa.

Lui non c’era da nessuna parte e io non conoscevo nemmeno il suo

nome, non lo avrei più rivisto e non avrei avuto un’altra occasione

per ringraziarlo, scossi la testa, dispiaciuta.

Mi abbottonai il giubbetto e uscii dall’aeroporto trascinando il mio

trolley e la valigia dietro di me, individuai l’autobus diretto al centro

di Londra e mi ci infilai, volevo arrivare a destinazione il più presto

possibile.

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CAPITOLO DUE

andavo senza meta

Avevo prenotato su internet una camera d’albergo dotata di angolo

cottura.

Era un presupposto fondamentale per me, dato che, la cucina

straniera non mi aveva mai conquistato più di tanto. Mi piaceva

assaggiare sapori nuovi ma, da italiana verace, ero sempre rimasta

fedele a tagliatelle al ragù, lasagne, pollo arrosto e naturalmente alla

pizza napoletana.

Avere un angolo cottura mi tranquillizzava, perlomeno avrei potuto

cucinarmi qualcosa di buono in caso di necessità.

Quella sistemazione mi era saltata all’occhio anche per un’altra

questione, la scritta “Economy” campeggiava a caratteri cubitali di

fianco al nome “Greenpark Hotel”, non avevo troppi soldi da

spendere e un posticino economico era quello che ci voleva. Inoltre

la posizione era perfetta, l’albergo si trovava vicino alla

metropolitana di Queensway, permettendomi di raggiungere in breve

tempo qualsiasi destinazione.

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Ma soprattutto, la cosa che davvero mi entusiasmava, era la sua

vicinanza a Hyde park.

Ero abituata ormai da anni a fare jogging con regolarità, adoravo

correre e soprattutto mi piaceva farlo in mezzo alla natura, oltre a

tenermi in forma, mi aiutava a scaricare lo stress.

Un Hotel vicino a Hyde park mi avrebbe permesso di correre ogni

volta che ne avessi avuto voglia, potendo tornare in un attimo in

camera per la doccia, senza girare in metropolitana sudata e stanca.

Durante gli ultimi mesi, ad essere sincera, stavo un po’ esagerando

con la corsa, facevo jogging tutti i giorni e anche di più, correvo

sempre più spesso e sempre più a lungo.

Mi fermavo solo quando mi sentivo stremata ed esausta, quando il

cuore sembrava volesse pulsare via dal petto e quando la

respirazione diventava troppo affannosa impedendomi di continuare.

A quel punto mi accasciavo a terra e anche se poteva sembrare

strano, quello, da qualche tempo, era diventato il momento migliore

delle mie giornate.

La concentrazione che impiegavo per riuscire a respirare

regolarmente e per rallentare il battito cardiaco era tale da farmi

dimenticare i miei problemi. In quei momenti, ansimante e stremata,

c’ero soltanto io, senza ansie nè paure.

Lo sforzo eccessivo che mi imponevo, mi faceva sentire ancora viva,

forte abbastanza per andare avanti. Il mio dramma non esisteva più,

c’era soltanto il suono potente del mio cuore che pulsava forte,

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assordandomi, dovevo soltanto respirare, inspirare ed espirare.

Nient’altro.

Arrivai davanti al mio albergo, c’era un enorme via vai intorno a me.

La gente gremiva gli ampi marciapiedi, qualcuno teneva in mano da

bere, qualcun altro la ventiquattrore, altri ancora buste, sacchetti,

zaini… un bambino piangeva nel carrozzino, delle ragazze ridevano

sguaiate, un gruppetto di uomini serissimi, in completo elegante, si

muovevano a passo sicuro con lo sguardo rivolto a terra.

L’andirivieni era disordinato e vario, ognuno si trovava lì per una

ragione diversa, ognuno stava vivendo un pezzetto diverso della

propria vita.

Il traffico era frenetico, auto e autobus riempivano le strade in ogni

direzione, qualche clacson suonava arrabbiato, qualche motore

sgassava veloce.

Ero a Londra e intorno a me vedevo e sentivo il ritmo e la frenesia

della città, la vita correva da ogni lato, era un buon posto per

ricominciare. Tirai un profondo sospiro di soddisfazione ed entrai

nella hall del mio albergo.

Mi diressi verso il signore della reception, aveva la pelle chiarissima

come se non vedesse il sole da secoli, portava una camicia bianca,

una cravatta e una giacca blu sbottonata.

Era cortese ma di una cortesia professionale, che non veniva dal

cuore.

Mi registrai, la mia stanza era la numero 324.

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Presi la key card che il receptionist mi aveva appoggiato sul bancone

e dovendo arrivare al terzo piano con i bagagli al seguito, col mio

inglese incerto, chiesi dove si trovasse l’ascensore.

Il gentile receptionist mi informò che purtroppo l’ascensore era fuori

servizio, il suo viso era forzatamente dispiaciuto, si mise a fissare lo

schermo del computer con un interesse esagerato, evidentemente

temeva che gli chiedessi una mano per i bagagli.

Controvoglia mi avviai al terzo piano su per le scale, erano scale

strette e rivestite di moquette rossa piuttosto lisa, il corrimano era

massiccio, di legno, mi ci aggrappai con una mano, mentre con

l’altra afferrai la valigia e il trolley. Iniziai la salita, i bagagli erano

pesanti più del previsto, ad ogni gradino, il “tonc” della valigia che

sbatteva contro lo scalino, rompeva il silenzio. Sbuffavo

frequentemente, tanto ero frustrata per la situazione.

Nessuno accorse in mio aiuto, sembrava che l’hotel fosse deserto.

Arrancando, un passo dietro l’altro, arrivai finalmente al terzo piano.

Ero vistosamente affaticata, ad ogni rampa di scale le valige

sembravano essersi appesantite di più. Non avevo nemmeno tolto il

giubbotto per non avere un impiccio in più da trasportare, ma non era

stata una buona idea, ora mi ritrovavo sudata come se avessi corso la

maratona.

Lanciai le valigie sul pianerottolo, mi appoggiai al muro e cercai di

riprendere fiato.

Pensai alla parola “economy” sotto la scritta “Green hotel”, quella

parola da un lato aveva reso economicamente accettabile il mio

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soggiorno a Londra in un posto centrale ma dall’altro stava anche

implicando qualche problema di adattamento. Su questo ultimo

aspetto non avevo riflettuto a sufficienza.

Mi feci coraggio e sperando di non avere altre spiacevoli sorprese,

entrai nella camera 324.

Non era certo grande ma accettabile, per fortuna non c’era la

moquette, ma il parquet, era mia abitudine camminare scalza e quel

tessuto ruvido e mai pulito sotto i piedi nudi mi trasmetteva una

sensazione di fastidio.

Osservando meglio il pavimento, sembrava fosse plastica più che

vero parquet in legno, ma per me andava bene lo stesso.

A sinistra, addossata al muro, c’era una piccola cucina bianca dotata

di lavello, piano cottura e forno a microonde, nella parete opposta

c’era la porta del bagno e più avanti la stanza si allargava per

ospitare un letto a due piazze, più corto e stretto del normale, e una

scrivania con una piccola TV a schermo piatto.

Buttai la valigia sul letto, la aprii e presi l’occorrente per farmi un

lungo bagno caldo ristoratore, l’annuncio su internet diceva che il

bagno era dotato di vasca, era un altro motivo per cui avevo scelto

quell’hotel.

Il bagno era piccolissimo, la prima cosa che notai con piacere fu la

presenza di un bidet, non era poi così scontato nei bagni inglesi, mi

voltai e vidi la vasca, l’annuncio diceva il vero, in effetti una vasca

c’era ma… era minuscola, adatta forse a bambini, nemmeno

piuttosto grandi.

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Un adulto non ci sarebbe mai entrato, neanche rannicchiandosi in

posizione fetale, costringermi a fare un bagno là dentro mi avrebbe

creato seri problemi alle articolazioni, mi sarei rattrappita a tal punto

da rendere necessario l’aiuto di una gru per uscirne.

Con rammarico decisi per la doccia, l’erogatore era posto sopra la

minuscola vasca e una tenda a pallini colorati completava il

quadretto, le odiavo quelle tende da doccia, avevano la sgradevole

attitudine di appiccicarsi alla pelle come una sanguisuga e rendevano

vani i tentativi per liberarsene.

Ma non avevo scelta, aprii il getto d’acqua e dopo poco tempo

constatai con piacere che l’acqua calda stava arrivando, meno male!

L’angolo più pessimista della mia mente stava iniziando a dubitare

anche della presenza dell’acqua calda.

Entrai sotto la doccia, alzai il volto in alto affinchè l’acqua mi

inondasse la faccia e iniziai finalmente a rilassarmi, restai qualche

minuto così, con l’acqua calda che massaggiava la mia pelle.

Come tentai di muovermi per lavarmi la tenda iniziò ad

appiccicarmisi fastidiosamente addosso esattamente come previsto.

Ben presto mi accorsi che quella tenda non era come tutte le altre, la

mia tenda da doccia era speciale, era fissata ad un tubo di metallo

ancorato al muro e chissà perché, chissà in che modo…

improvvisamente, mentre mi stavo insaponando le gambe, il tubo si

staccò dal suo ancoraggio e mi cadde in testa, cacciai un urlo, più per

lo spavento che per la botta.

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Rimasi imprigionata, iniziai a lottare contro la tenda ma più cercavo

di liberarmene e più mi si attaccava addosso, alla fine riuscii a

uscirne fuori, la scaraventai a terra e finii la doccia allagando ogni

centimetro quadrato di quel minuscolo e scomodo bagno.

Non c’era nulla che non fosse bagnato, compresi gli asciugamani e i

vestiti puliti che mi ero portata dietro.

La mia vacanza rigenerante non aveva avuto un buon esordio, niente

affatto, sentii crescere in me il bisogno di sfogarmi, dovevo correre,

mi asciugai i capelli in due minuti con il phon che fortunatamente mi

ero portata da casa, infilai i pantaloncini da corsa corti e attillati, una

T-shirt tecnica rosa a maniche lunghe e le scarpe da jogging, mi legai

i capelli in alto a coda di cavallo con un grosso elastico nero, presi

l’I-pod, attivai la play-list numero 1, quella riservata alla corsa e

uscii dalla stanza correndo, con la musica rock che mi tuonava nelle

orecchie, diretta verso Hyde park.

Correvo molto velocemente e senza quasi notare il parco, guardavo

dritta davanti a me e pensavo solo a correre, andavo senza meta, non

avevo nemmeno studiato una mappa per l’itinerario e non conoscevo

affatto bene il parco, ma in quel momento non me ne importava,

volevo soltanto scaricare la tensione.

Dopo circa venti minuti di corsa mi resi conto di non sentirmi troppo

bene, ma non ci badai troppo, ero abituata a correre anche per più di

un’ora. Ad un certo punto, però, mi dovetti fermare, non ce la facevo

proprio a proseguire, mi tolsi le cuffiette dalle orecchie e mi

appoggiai al tronco di una grande quercia, mi sentivo mancare, mi

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sforzai di guardare in alto e respirare, ogni cosa girava intorno a me e

di colpo tutto divenne bianco.

“Lisa! Lisa svegliati!” Qualcuno mi stava schiaffeggiando, aprii a

fatica gli occhi, e mano a mano che le immagini diventavano nitide,

mi accorsi di avere intorno delle persone che mi fissavano.

Il loro volto aveva la stessa espressione di preoccupazione mista a

curiosità dei passeggeri dell’aereo poche ore prima, dopo l’episodio

increscioso.

Mi voltai verso la persona che mi aveva chiamato per nome, la stessa

che mi stava schiaffeggiando e con mia grande sorpresa riconobbi il

suo volto.

Era lui! Il tipo carino dell’aereo! Ma che ci faceva lì? perché mi

stava aiutando di nuovo? E come diavolo faceva a sapere il mio

nome? Ero certa di non averglielo mai detto.

Provai a dire qualcosa ma non ero ancora del tutto padrona di me

stessa, dalla mia bocca uscì solo un suono cavernoso e indefinito:

“Mmhmffm”.

Era meglio starsene zitti ancora per un po’, almeno fino a che non

avessi ripreso il pieno controllo.

Il tipo carino disse ai curiosi lì intorno che mi stavo riprendendo -

come se non se ne fossero accorti da soli - che non c’era bisogno di

aiuto, che lui avrebbe pensato a me - ancora una volta - e che

potevano pure andarsene.

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Lo disse in un inglese assolutamente perfetto, se non lo avessi già

sentito parlare in italiano, avrei scommesso che fosse inglese.

Senza alcuna fretta, le persone intorno a me si allontanarono,

parlottavano fra loro e ogni tanto si giravano per sbirciare, un signore

sulla sessantina continuava a fissarmi mentre camminava dall’altra

parte e per poco non andò a sbattere contro un albero, fece finta di

niente e tirò dritto senza più voltarsi.

Dopo qualche minuto tutti avevano ripreso le loro vite e si erano

dimenticati di me. Sospirai riflettendo che quello era il secondo

episodio increscioso della giornata, mi rincuorai appena constatando

che anche quel brutto momento era ormai giunto al termine.

Il tipo mi guardava ancora un po’ preoccupato e io guardavo lui

incuriosita.

“Ma chi sei?” chiesi debolmente.

Lui mi sorrise con sincero affetto ma non rispose, notai che era

vestito con gli stessi abiti che aveva in aereo, jeans scoloriti, felpa

blu con cappuccio, giubbetto e portava ancora il berretto e gli

occhiali da sole benchè la giornata fosse grigia. Completamente

grigia.

“Ti senti meglio? Hai fame?” mi chiese.

A quelle parole, finalmente, intuii cos’era accaduto, guardai l’ora nel

mio I-pod, erano le due e quaranta del pomeriggio e non avevo

ancora pranzato, la mattina mi ero alzata di buonora e avevo fatto

colazione soltanto con un caffè e un paio di biscotti prima di andare

in aeroporto, non avevo toccato altro cibo e per di più avevo avuto la

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brillante idea di andare a correre, un calo di zucchero era il minimo

che potesse capitarmi!

“Sì, credo di aver bisogno di mangiare” risposi.

Il tipo carino tirò fuori dalla tasca dei jeans un pacchetto di caramelle

e me ne diede una.

“Andiamo, ti aiuto, qui davanti c’è un bar, mangiamo qualcosa.” Mi

lasciai aiutare ad alzarmi e ci avviammo.

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CAPITOLO TRE

un'espressione mistica

Il bar era tranquillo, poco affollato, c’era qualche cliente che beveva

birra al bancone ma per il resto il locale era vuoto, le luci erano basse

e in sottofondo c’era una gradevole musica jazz, i tavolini erano in

legno scuro, piccoli e quadrati, le sedie, anch’esse di legno scuro,

avevano la seduta imbottita e foderata di stoffa bordeaux.

Lui si diresse verso il tavolo più defilato e nascosto del locale, mi

porse una sedia e ci sedemmo, arrivò quasi subito una cameriera

molto giovane, avrà avuto vent’anni, era carina, il viso era dolce, i

capelli biondi e lisci legati in una coda bassa.

Ci elencò i piatti del menu, parlava un inglese molto veloce e non

capii quasi niente, il tipo la ascoltava educato poi si tolse gli occhiali

da sole, forse perché il locale era semibuio, e con quegli occhiali

doveva essere veramente difficile vederci qualcosa.

Improvvisamente la cameriera smise di parlare. Lo guardò. Lo

riguardò. Si agitò. Cominciò a fare dei risolini imbarazzati

portandosi la mano alla bocca e stringendo le esili spalle, conclusi

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che in qualche modo si conoscevano ma la reazione di lui fu

piuttosto passiva, anzi dovrei dire la sua non-reazione, la ignorò

completamente, si comportò come se non la conoscesse, come se non

ci fosse nulla di strano.

Ordinammo dei toast al formaggio e dell’acqua, la cameriera se ne

andò e per tutto il tragitto continuò a voltarsi verso di noi e a fare

risolini.

La reazione della cameriera era stata strana, continuavo a chiedermi

chi fosse quel ragazzo che avevo di fronte, tentai di saperne qualcosa

in più su di lui, con il tono più cortese di cui ero capace, con un bel

sorriso stampato in faccia chiesi: “Posso sapere chi sei? Per

esempio… cosa fai… come ti chiami?”

Non mi sembrava una cosa strana da chiedere, erano domande del

tutto legittime viste le circostanze, ritenevo di averne il diritto, ma la

sua reazione mi colse del tutto impreparata, si mise a ridere, rideva di

gusto.

Mi sentii profondamente offesa e glielo feci capire: “Da quando

chiedere a uno come si chiama e cosa fa per campare fa tanto

ridere?”

Mi stava prendendo in giro o cosa? Sembrava sempre più chiaro che

stesse nascondendo qualcosa.

“Scusami… - tentò di ricomporsi - non volevo offenderti…”

La cameriera tutta risolini e moine ci portò i toast, con uno sguardo

truce la cacciai via, volevo risolvere quella questione e decisi di fare

io il primo passo: “Lisa Mottai, 32 anni, laureata in Lettere e

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Filosofia a Firenze e ora residente a Perugia, Umbria, Italia. Ora

tocca a te.”

Per fortuna questa volta rispose: “Sono Richard Miller, 34 anni e

vivo qui a Londra”.

Mi sentii sollevata, era già qualcosa, evidentemente non si trattava di

una spia dall’identità segreta o roba del genere. O forse sì e quelle

che mi aveva fornito erano informazioni false, chissà… decisi di

credergli ma di non dargli troppa confidenza, ero sola a Londra e

dovevo fare attenzione.

Conversammo amabilmente per tutta la durata del pasto, non ci

furono silenzi pesanti o situazioni imbarazzanti, era un tipo

divertente e piacevole, mi sentivo a mio agio con lui.

Parlammo di tutto e di niente con l’unico obiettivo di rendere

reciprocamente piacevole il tempo trascorso, non uscì fuori

nient’altro sulla sua vita.

Si offrì di pagare il conto e dovetti lasciarlo fare, ero uscita di corsa e

senza soldi. Qualcosa dentro di me mi disse che se anche avessi

avuto il portafoglio con me, non sarebbe stato possibile impedirgli di

pagare.

Prima di uscire dal bar si rimise gli occhiali da sole e volle per forza

accompagnarmi in hotel.

Passammo per Hyde park, il parco era quieto, rispetto al resto della

città, malgrado ci trovassimo in una zona centrale di Londra, in

mezzo a quei prati perfettamente curati si respirava tranquillità e

pace. Un ragazzo stava leggendo un libro con la schiena appoggiata

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Tatiana Ros Blue sky: quando accadono le cose

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al tronco di un tiglio, c’era gente che passeggiava, altra che si

allenava e c’erano bambini un po’ ovunque, di tutte le età. Lo spazio

verde era enorme e tigli, faggi, ippocastani e querce imponenti

incorniciavano aiuole e ombreggiavano i viali.

La giornata era grigia, di solito il cielo scuro mi metteva di

malumore, invece, quel giorno, in compagnia di Richard,

passeggiando e chiacchierando in mezzo al verde, mi sentivo serena,

in pace con me stessa e con il mondo, una sensazione che non

provavo da un po’, erano mesi che non mi sentivo più così tranquilla.

Improvvisamente realizzai una cosa, dapprima non ci feci troppo

caso, ma poi, usciti dal parco, tutto fu più evidente, Richard si

muoveva per le vie della città senza esitazioni e senza mai chiedermi

dove andare, da quale parte svoltare…

Di proposito indietreggiavo ai bivi e lui, sicuro, continuava a

camminare con passo deciso, come se niente fosse.

Alla fine glielo chiesi: “Ma sai dove alloggio?”

“Sì, al Green hotel” rispose tranquillo, come se non ci fosse niente di

male.

L’irritazione mi invase: “E come fai a saperlo? E come facevi a

sapere il mio nome? E a sapere che ero al parco?”

Fu sorpreso dalla mia reazione e restò a guardarmi a bocca

semichiusa, interdetto.

Incalzai: “Per caso sei un maniaco o cosa?!”

Mi resi subito conto che quella domanda fosse un po’ fuori luogo.

Primo: non sembrava affatto un maniaco.

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Secondo: se, e solo se, lo fosse stato, non lo avrebbe mai ammesso

dicendo qualcosa del tipo: “Sì, sono un maniaco e sono qui per

violentarti e poi ucciderti”.

Richard era ancora immobile davanti a me, lo guardai e allargai le

braccia per esortarlo a darmi una spiegazione.

Con qualche esitazione, mi disse qualcosa che mi sorprese: “Tu sei

quella del Valentine, a Perugia, una decina di giorni fa.”

A quel punto ero io quella interdetta, non proferii parola, il mio

sguardo fra il curioso e l’irritato lo spronò a continuare: “Ti ho vista

lì, quella sera. Eri scatenata! Proprio tanto!”

Sorrise e continuò: “Ero lì con un amico. Volevo conoscerti ma… sei

sparita. Ad un certo punto… puff non c’eri più. Ho chiesto a un po’

di gente di te… e tutto quello che sono riuscito a sapere era il tuo

nome: Lisa. Pensavo che fosse finita lì, non ero riuscito a

conoscerti… poi, però, ti ho rivista in aereo… avevo una seconda

occasione per fare due chiacchiere e… ne ho approfittato. Non c’è

niente di male nel voler conoscere una ragazza.”

Strinse le spalle, era evidente che fosse un po’ in imbarazzo.

Me la ricordavo bene quella serata al Valentine. La mia amica Clara

mi aveva convinta che per guarire da qualsiasi momento difficile la

terapia migliore fosse quella di ingurgitare fiumi di vodka seguiti da

una serata al Valentine, uno dei migliori locali della zona.

Indossavo un top di Clara ricoperto di pagliette argentate che si

teneva su solo con due nastrini annodati sulla schiena, era un

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Tatiana Ros Blue sky: quando accadono le cose

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pezzetto di stoffa davvero mini e copriva appena quello che era

doveroso coprire.

Avevo abbinato al top dei jeans blu attillatissimi e un paio di

scarpette dal tacco vertiginoso.

Clara aveva una camicetta bianca praticamente trasparente e una

minigonna di jeans.

Eravamo davvero carine, lei aveva un aspetto sbarazzino con i suoi

capelli corti e gli occhi scuri da cerbiatta, io invece ero, a parer mio,

un po’ troppo provocante ma Clara sosteneva che fossi uno schianto,

assolutamente adatta per una serata al Valentine e mi lasciai

convincere.

Mi incitò per tutto il tempo a lasciarmi andare, non pensando a

niente e a nessuno e mi assicurò che si sarebbe sacrificata per la

causa, sarebbe rimasta sobria e con gli occhi puntati su di me per

garantirmi una piena protezione e assistenza nel caso l’alcool mi

avesse impedito di badare a me stessa.

Non mi ubriacavo da un bel po’ di tempo, non c’ero più abituata e al

terzo drink ero già un pò fuori, allegra come non mai. Se qualcuno

mi avesse detto che gli era morto il gatto mi sarei sganasciata dalle

risate in modo del tutto inappropriato.

Il quarto drink me lo offrì un ragazzo dal viso tenero, con i capelli

corti e pettinati con la riga laterale, la camicia a righe rosse e un paio

di jeans dal taglio classico. Decisamente non era il mio tipo, ma

pagava lui… non potevo dire di no.

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Tatiana Ros Blue sky: quando accadono le cose

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Dopo quel quarto drink avevo dato il meglio di me (o il peggio a

seconda dei punti di vista).

Ero salita sul tavolo e avevo ballato e cantato a squarciagola. Mi

stavo divertendo e facevo divertire un sacco di maschietti impazziti

che mi incitavano da sotto il tavolo.

Poi, come capitava sempre quando si era un po’ troppo ubriachi, mi

sentii male, Clara se ne accorse subito, mi aiutò a scendere dal

tavolo, mi accompagnò in bagno e lì vomitai per un tempo indefinito

e interminabile. Appena mi sentii meglio, almeno tanto quanto

bastasse per reggermi in piedi, uscimmo dal locale da un’uscita

secondaria e ce ne andammo.

Pensando a Richard che mi aveva vista quella sera, mi vergognai un

po’ ma cercai di nasconderlo, come meglio potevo.

Richard mi spiegò che sapeva che alloggiavo al Green hotel perché

aveva seguito i miei spostamenti dall’aeroporto, voleva invitarmi a

uscire e non voleva perdere le mie tracce ancora una volta. Poi era

andato a mangiarsi qualcosa nella tavola calda di fronte al mio

albergo e di lì a poco mi aveva vista uscire correndo e mi era venuto

dietro.

In effetti ero rimasta in camera soltanto il tempo necessario per

quella doccia rocambolesca.

Mentre parlava, si passava spesso la mano fra i capelli, notai che

aveva una leggera inflessione inglese nella cadenza, prima non me

ne ero accorta.

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Il suo volto e le sue movenze mi trasmettevano un non so che di

familiare, forse una parte di me l’aveva notato quella sera al

Valentine.

Arrivammo a destinazione, di fronte alla hall del mio albergo lo

ringraziai e mi congedai, o almeno cercai di farlo, lui non mi mollò

fino a quando non acconsentii per un invito a cena. Decidemmo (anzi

“decise” dato che non mi lasciò altra scelta) che mi sarebbe passato a

prendere alle otto.

Salii su per le infinite scale fino alla mia camera. Il resto del

pomeriggio passò tranquillo, feci una doccia senza brutte sorprese,

dormii un po’ e chiamai casa per dire che tutto stava andando

benissimo.

Tralasciai ovviamente i piccoli e insignificanti dettagli dell’episodio

increscioso in aereo, del fatto che mi fossi dimenticata di mangiare,

dello svenimento nel parco e ovviamente del fatto che avevo un

completo estraneo alle calcagna.

In effetti, Richard era un grosso punto interrogativo ma

quell’incognita invece di intimorirmi, mi intrigava. Un brivido mi

percorse la schiena pensando a lui, chissà dove saremmo arrivati o se

saremmo arrivati da qualche parte.

Erano circa le sette di sera e decisi che era giunto il momento di

prepararmi per la serata.

Mi lavai i denti (due volte) mi depilai (anche se ero già perfettamente

liscia), scelsi un completino intimo nero di pizzo alquanto sexy.

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Feci tutto quello che c’era da fare per una serata di successo,

qualunque cosa fosse successa, non volevo essere impreparata, la

vita mi aveva insegnato che a volte le cose accadevano quando meno

te lo aspettavi e avevo preso l’abitudine di essere sempre a posto,

soprattutto quando uscivo con un lui.

Mi tornò alla mente l’unica volta della mia vita in cui uscii con un

tipo e non ero affatto a posto. Era capitato una decina di anni prima,

durante il primo anno di università a Firenze, ero uscita di casa in

tuta per noleggiare un film. Al videonoleggio avevo incontrato un

ragazzo di Perugia come me, anche lui a Firenze per studiare.

Ancora non conoscevo quasi nessuno in città e incontrare una faccia

familiare mi aveva fatto sentire meno sola.

Dopo i soliti convenevoli scegliemmo di vedere un film insieme, da

me. Durante i titoli iniziali eravamo già avvinghiati sul mio divano.

Perdonai me stessa per aver ceduto così presto, perdonai me stessa

che fossi completamente struccata, perdonai me stessa che i miei

capelli fossero un disastro, perdonai me stessa che indossavo una

vecchia tuta deforme, ma i pelucchi sulle gambe e le mutande da

nonna che portavo… no, non me li ero mai perdonati. Al solo

pensiero mi veniva ancora la pelle d’oca.

Lui non ci fece caso, eravamo in penombra ed era concentrato

soltanto a saltarmi addosso.

Era uno di quei tipi “tutto e subito”, in due minuti mi aveva

completamente spogliata togliendomi tutto in un colpo solo, dopo

circa 30 secondi dal primo bacio era già dentro di me e dopo altri 30

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secondi, aveva già finito. Lui aveva i pantaloni calati ma per il resto

era perfettamente vestito.

Ci rimasi male. Mi ero concessa a quel ragazzo per avere un po’ di

tenerezza e di compagnia ma non mi aspettavo che il tutto fosse

durato meno di poco.

Così, con un sorriso stampato in faccia, per sdrammatizzare, mi

ritrovai a dire: “Mi devi un orgasmo”.

ll tipo rise un po’ imbarazzato, era chiaro che c’era rimasto male

anche lui, aveva perso completamente il controllo. Non era stato

dolce, non era stato coinvolgente, non era stato niente. Fu la peggiore

esperienza sessuale della mia vita, ce ne furono delle altre non

proprio belle ma quella fu la peggiore in assoluto. Non mi ero quasi

accorta di nulla, come se non fosse mai accaduto.

Capii che era meglio lasciar stare e ci mettemmo a vedere il film

come se fossimo appena entrati in casa.

La serata scorse piatta, guardammo il film in silenzio, qualche parola

di commiato e ben presto mi ritrovai di nuovo sola.

Lui era stato a disagio per tutto il tempo, fu proprio il suo imbarazzo

a spingermi a ritentare. Era un tipo carino e non volevo conservare

un ricordo così negativo di lui, meritava una seconda possibilità.

Una sera lo invitai ancora da me. Sul tardi, ci ritrovammo sul mio

letto e lui cominciò di nuovo freneticamente a spogliarmi,

evidentemente quello era l’unico modo che conosceva.

Dovevo fare qualcosa, non potevo permettere che lo squallore della

prima volta accadesse ancora. Decisi di legargli le mani sopra la testa

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sulla spalliera del letto, per tenerlo buono, mi sembrava di non avere

altra scelta.

Lentamente mi spogliai, e con calma gli salii sopra.

Notai che aveva ancora problemi di autocontrollo, così decisi di

divertirmi un po’ con lui, ogni volta che stava per avere l’orgasmo

mi fermavo di colpo, senza preavviso. Lui contraeva il viso

assumendo un’espressione mistica, sofferente, gli si gonfiavano le

vene del collo a dismisura e emetteva un forte gemito, tutto il suo

corpo chiedeva pietà ma io non mi lasciavo impietosire.

Malgrado le sue reazioni, i suoi occhi brillavano, il gioco piaceva

anche a lui.

Poi, soltanto dopo essere completamente soddisfatta e appagata, lo

lasciai concludere.

Non lo rividi più. Provò a chiamarmi nei giorni seguenti ma non

risposi mai e capì l’antifona, non eravamo fatti per stare insieme. Ci

avevo provato, per due volte ma sapevo che fra noi non avrebbe mai

funzionato.

Però ero riuscita a conservare un ricordo positivo di lui, per me era

abbastanza.

Scacciai quei pensieri con un sorriso e mi concentrai su cosa

indossare per la cena con Richard.

Non avevo nulla da mettermi, nulla di appropriato.

Ovviamente sarebbe stato così anche se avessi posseduto un intero

negozio di vestiti. L’abito giusto era sempre quello mancante.

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Vuotai la valigia sopra il letto, mi provai qualcosa ma niente mi

soddisfaceva.

Alla fine, senza convinzione ma messa alle strette dal tempo che

scorreva inesorabile, optai per un paio di jeans attillati (perfetti per

ogni occasione) e un cardigan giallo avvitato, alquanto scollato ma

non troppo, a maniche lunghe, talmente lunghe da arruffarsi in fondo

rendendolo non troppo banale.

Misi le uniche scarpe con il tacco alto che mi ero portata, degli

stivaletti alla caviglia neri di camoscio.

Andai in bagno, mi spruzzai una generosa dose di Opium sul collo e

sui polsi e mi prodigai per un trucco stile “c’è ma non si vede”.

Non sapevo dove mi avrebbe portata a cena, un ristorante elegante,

una tavola calda o magari un hot-dog per strada, quindi il mio

abbigliamento doveva andar bene per qualunque occasione.

Alle otto in punto squillò il telefono della camera e il receptionist mi

informò che c’era un ragazzo ad attendermi. Risposi che sarei scesa

in un attimo, presi la borsa, il giacchetto e uscii.

Richard mi stava aspettando nella hall e mi accolse con un caldo

sorriso. Anche lui era in jeans, ma un modello diverso da quelli che

indossava nel pomeriggio, questi erano più aderenti, schiariti sulle

cosce e avevano degli strappi ben studiati qua e là. Portava un

giacchetto in jeans, una maglia nera e sneakers ai piedi.

Mi sorpresi a fissarlo, quel quadretto di lui sorridente vestito in stile

finto-trasandato mi piaceva davvero.

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Con un braccio mi cinse la vita e mi invitò ad uscire, fuori c’era un

taxi ad attenderci, aprì la portiera dell’auto e mi fece entrare. Un vero

gentiluomo.

“221 Cheyne Walk” disse al tassista.

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Tatiana Ros Blue sky: quando accadono le cose

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CAPITOLO QUATTRO

una complicazione fatta persona

“Dove siamo diretti?” chiesi curiosa.

“Non lontano da qui, a sud di Hyde park, vicino al Tames.”

Notai che pronunciò il nome del fiume in inglese, non disse

“Tamigi” ma “Tames”.

Chiesi a bruciapelo: “Ma tu sei italiano, inglese o… cosa?”

Avevo notato che quando l’avevo sentito parlare in inglese

sembrava madrelingua e l’italiano… beh lo parlava esattamente

come me.

Rispose tranquillo: “Mio padre era inglese e mia madre era

italiana. Ho vissuto un po’ in Italia e un po’ qui.”

Aveva parlato dei suoi genitori al passato, mi si strinse il cuore.

Era la prima volta che gli ponevo una domanda e ricevevo una

risposta chiara ed esauriente.

Tentai di sapere qualcosa in più, qualcosa che riguardasse il

presente, non capivo perché ottenere anche le più banali

informazioni da lui fosse un problema.

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Tatiana Ros Blue sky: quando accadono le cose

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In quel momento mi sembrava che fosse perfettamente a suo

agio così buttai lì: “Cosa fai nella vita?”

Non era una domanda fuoriluogo. Affatto.

Non era una domanda troppo personale. Affatto.

Cosa. Fai. Nella. Vita.

Niente di più semplice e banale, poteva rispondermi parlando del

suo lavoro, dei suoi hobby, dei suoi amici…

Qualsiasi cosa sarebbe andata bene. Qualsiasi.

Invece lui sorrise e non rispose.

Quel suo atteggiamento mi infastidiva, non capivo perché non

voleva parlarmi di sé, nemmeno nel modo più superficiale possibile.

Ero delusa e un po’ arrabbiata, continuavo a chiedermi se avessi

fatto bene ad accettare l’invito a cena.

Volevo soltanto passare una serata rilassante e se possibile

divertente ma lui era un mistero, con Richard non riuscivo proprio a

comunicare. O meglio, io e lui avevamo comunicato benissimo al bar

nel pomeriggio ma soltanto perché non avevo fatto domande su di lui

o sulla sua vita.

Non volevo complicazioni, ma lui era una complicazione fatta

persona.

Mi girai verso il finestrino e non parlammo più, fra noi calò un

silenzio velato di disagio.

Quella sua eccessiva riservatezza mi dava fastidio, mi sentivo

offesa.

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Tatiana Ros Blue sky: quando accadono le cose

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Lui non fece niente per recuperare la situazione, percepivo il suo

sguardo su di me ma… niente, non mi chiese niente e non parlò di

niente. Silenzio. Soltanto un pesante silenzio ci teneva compagnia.

Il taxi si fermò, eravamo arrivati, Richard pagò e scendemmo.

Mi guardai intorno, era buio e i lampioni di ghisa neri

illuminavano la strada di un colore ocra scuro, sfumato.

Il quartiere era elegante, ben tenuto e tranquillo, al di là della

strada c’era un piccolo parco che costeggiava il fiume, era ben

curato, c’era un vialetto che lo attraversava dove una signora

grassoccia camminava frettolosamente con un andamento a papera.

Un uomo dal fisico asciutto, in tenuta sportiva, dall’altro lato del

vialetto, si stava avvicinando correndo sicuro.

C’erano delle panchine a ridosso del fiume dello stesso stile dei

lampioni, classiche e dipinte di nero.

“Per di qua” disse.

Mi indicò una palazzina di cinque piani in mattoncini

facciavista. Le finestre erano dipinte di bianco e ben allineate. Quel

bianco sembrava illuminasse il rosso scuro dei mattoncini

conferendo alla palazzina una certa eleganza.

C’era un piccolo giardino di fronte alla casa, il prato era falciato

di fresco e qua e là c’erano alberi di betulla e di magnolie, il vialetto

d’ingresso era costeggiato da siepi verdi e rigogliose.

Davvero un bel posto ma di certo non sembrava affatto un

ristorante o un locale di qualsivoglia genere.

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Tatiana Ros Blue sky: quando accadono le cose

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Chiesi: “Scusa Richard ma dov’è il locale? Questa sembra in

tutto e per tutto una casa.”

Rispose tranquillo accennando a un sorriso: “Infatti, questa è una

casa, io abito qui.”

Ero sbalordita: “Coosaa?!”

Esplosi: “Tu mi hai portato a casa tua senza neppure

chiedermelo? Io non ti conosco, non so chi sei e di certo non voglio

venire a casa tua stasera. Avevo accettato un invito a cena, sì, ma in

un locale, un luogo affollato, con altra gente. UN LOCALE! Ma per

chi mi hai preso? Per quel che ne so potresti essere…”

Avrei potuto dire un maniaco, un pluriomicida, ma non ci

credevo nemmeno io, e non volevo offenderlo così pesantemente,

così dissi: “…chiunque! Tu puoi essere chiunque!”

Lui rimase più sbalordito di me, non si aspettava il mio attacco.

Cercai di recuperare la calma e scandendo le parole dissi: “Io

non ti conosco, non voglio entrare in casa tua. Non sono quel genere

di ragazza.”

Si affrettò a dire: “No, no, lo so che non sei… lo so… non

volevo…”

Riprese fiato e un po’ imbarazzato continuò, anzi cercò di

continuare: “Il fatto è che…”

Ma non riusciva a proseguire, sembrava che le parole gli si

fossero bloccate in gola e non potessero più uscire, come se una

forza misteriosa le spingesse dentro di lui, Richard provava a farle

uscire, a liberarle ma non poteva.

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“Non so chi sei” dissi con un filo di voce, sempre più delusa.

Messo alle strette riuscì a dire: “Il fatto è che… non possiamo

andare in un locale.”

“E perché mai?”

“Non possiamo. Non possiamo. Non voglio parlarne qua fuori…

Fidati di me. Io… Io vorrei stare un po’ con te. Solo due chiacchiere

davanti a una buona cena. Non possiamo andare in un locale.”

Io lo guardavo incredula e davvero non sapevo cosa fare o cosa

dire.

Continuavo a fissarlo. Mi guardò. Ci guardammo. Silenzio.

Disse: “Ovviamente te ne puoi andare quando vuoi. Ma almeno

entra. Prova a entrare.”

Lo guardavo sbalordita, ancora non riuscivo a rispondere, quel

tipo mi piaceva, parecchio, ma allo stesso tempo c’erano troppe cose

che non capivo.

Sorrise imbarazzato: “Credo che una volta entrati capirai molte

cose.”

Quali cose? Era un trucco per farmi entrare o davvero avrei

capito?

La mia mente esaminò la situazione in cui mi ero cacciata.

Mi trovavo da sola, in una città straniera, in compagnia di uno

sconosciuto.

Non dovevo entrare.

Era un soggetto attraente ma alquanto misterioso e atipico.

Non dovevo entrare.

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Mi sentivo ingannata. Pensavo di cenare con lui in un locale

affollato e invece, mi ero ritrovata di fronte a casa sua.

Non dovevo entrare.

Stavo attraversando un brutto periodo, non ero del tutto padrona

di me stessa, ero facilmente manipolabile.

Non dovevo entrare.

Mi consideravo una brava ragazza e le brave ragazze non

accettavano di andare a casa di sconosciuti. Mai.

Non dovevo entrare.

Se fossi dovuta scappare via, non conoscevo il posto e le

possibili vie di fuga.

Non dovevo entrare.

Avevo bisogno di serenità e qualcosa mi diceva che quel tipo mi

avrebbe incasinato la vita più di quanto non lo fosse già.

Non dovevo entrare.

Di certo non potevo accettare, non potevo entrare in casa sua,

non potevo e non volevo fidarmi di lui.

“Ti prego, entra… poi se non ti va… te ne vai via. Ma entra”. Il

suo sguardo era implorante, dolcissimo.

C’erano mille ragioni per cui non sarei dovuta entrare e nessuna

buona ragione per dire di sì.

Alzai le spalle e con voce incerta mi sorpresi a dire: “Ok, ci

provo”.

Mi stupii di me stessa, ma perché la mia bocca non faceva ciò

che il cervello gli aveva ordinato di fare?

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Avrei dovuto dire “No, non se ne parla proprio, é meglio che

torni in hotel”.

Invece avevo accettato, la mia bocca aveva detto di sì e ora stavo

per entrare in casa di uno sconosciuto misterioso.

Dovetti ammettere a me stessa che, malgrado le mie pessime

congetture, non ero affatto intimorita dalla situazione, Richard

continuava a trasmettermi fiducia e sicurezza. Un uomo con quegli

occhioni blu, così blu, così dolci non poteva fare del male nemmeno

a un moscerino, proprio non poteva.

Ero nervosa, quello sì, ma quella non era paura, non era affatto

paura.

Di solito, quando si trattava di uomini ero sempre padrona della

situazione e sicura di me stessa, non ero mai così agitata o nervosa.

Invece quella sera ero agitata, invece quella sera ero nervosa.

Soltanto un’altra volta avevo vissuto una cosa simile, quel

pensiero mi avrebbe dovuto mettere in allarme.

L’uomo che in passato mi aveva fatto sentire così era la causa

dei miei attuali problemi.

Era successo otto anni prima, a Firenze durante l’Università,

quella mattina il professore era assente e le lezioni erano terminate

prima del solito.

Io e Marisa, una mia amica di studi, avevamo deciso di farci un

giro per la città, chiacchierando eravamo arrivate in piazza Beccaria,

era primavera, c’era il sole, la giornata era splendida e si stava

avvicinando l’ora di mangiare.

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Entrammo in un bar che preparava anche piatti veloci per il

pranzo, ci sedemmo all’unico tavolo libero e ordinammo due insalate

con tonno.

Il locale era alla moda, tinto di blu, le piastrelle erano lucide

come specchi, c’era un sacco di gente tiratissima, giovane, frizzante.

Io e la mia amica eravamo in tenuta universitaria, jeans, scarpe

da ginnastica e felpa. Io avevo I capelli raccolti in una coda di

cavallo, Marisa invece li portava sciolti. Marisa era sempre stata

molto bella, alta addirittura più di me, snella e sempre sorridente.

Con me era sempre stata un’amica fidata, di quelle che potevi

chiamare a qualsiasi ora del giorno e della notte, di quelle sempre

disponibili ad aiutarti, a confortarti, ad ascoltarti. Purtroppo però,

dopo l’università, con lo scorrere del tempo ci siamo perse di vista

sempre di più, allontanate dagli eventi delle nostre vite.

Quella tarda mattina, in quel bar, due ragazzi ci chiesero se

potevano sedersi al nostro tavolo, i tavoli liberi erano finiti.

Erano tipi dinamici, dal sorriso bianchissimo.

Io e Marisa ci interrogammo con uno sguardo complice, indecise

sul da farsi, alla fine decidemmo di farli accomodare.

Era evidente che quei due ragazzi fossero più grandi di noi, ci

dissero che lavoravano in uno studio di architettura sul lungarno e

avevano da poco terminato gli studi universitari. Due architetti.

Niente male.

Fu così che conobbi Alessandro. Ale.

Era un tipo di quelli che catturavano l’attenzione. Sempre.

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Aveva una forte personalità, era piacevole, loquace, per niente

noioso o pesante, diceva sempre cose interessanti, almeno per me.

Me ne innamorai quasi subito.

Dopo il pranzo ci accordammo per rivederci la sera, poi il giorno

seguente, poi quello dopo ancora… e così via.

Finchè, un giorno, finimmo a letto insieme, anzi no… finchè, un

giorno, facemmo l’amore, non mi ero mai innamorata davvero prima

di allora.

Quella sera dovevamo uscire con un gruppo di amici e lui mi

venne a prendere a casa.

Benchè fossimo usciti già svariate volte insieme, ancora non

c’era stato niente fra noi, non un bacio, non un abbraccio, niente di

niente.

Qualche giorno prima ero addirittura stata da lui a cena ed ero

certa che qualcosa sarebbe successo, almeno me lo auguravo, invece

i suoi coinquilini, che dovevano essere fuori, piombarono

nell’appartamento con una ciurma di amici. La nostra cenetta

romantica si trasformò in una festa di quelle con la musica che

spaccava le orecchie e la gente mezza brilla che ballava ovunque.

Mi ero divertita parecchio, mi ero scatenata, avevo conosciuto un

sacco di persone, ma la festa e la confusione avevano azzerato la

possibilità che si verificasse un qualsiasi contatto di natura intima fra

me e Ale.

Lui mi guardava mentre ballavo, i suoi occhi neri brillavano. Ale

era alto, dal fisico atletico, i suoi capelli erano scuri e lucenti, capelli

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ribelli che spesso si toglieva dagli occhi con un gesto che mi faceva

impazzire.

Ale era un tipo che piaceva alle ragazze. Troppo. Aveva carisma,

era sempre sicuro di sé, sapeva muoversi.

Era sua abitudine gesticolare molto mentre parlava e quel suo

modo di fare imbambolava letteralmente chi lo ascoltava. Era

coinvolgente, colto ed era pure divertente, sapeva farmi ridere come

pochi.

All’inizio non capivo perché lui ci andasse così piano con me,

avevo anche temuto di non piacergli abbastanza, almeno in quel

senso.

Invece poi compresi che il suo comportamento era dettato dalla

nostra differenza di età, era più grande di me di otto anni. Tanti

quando si era così giovani, non voleva fare errori.

La nostra prima volta successe per caso.

Ale era sempre puntualissimo e quella sera, quando arrivò da

me, io ero in terribile ritardo, lo accolsi in casa tutta gocciolante, ero

appena uscita dalla doccia ed ero coperta soltanto da un

asciugamano.

“Ci metto un attimo, accomodati dove vuoi” dissi frenetica dopo

avergli aperto la porta.

Lui mi squadrò da cima a piedi, rimase colpito dal mio

abbigliamento (anzi, dal mio non-abbigliamento), entrò in casa e

invece di recarsi in soggiorno ad aspettarmi, si diresse senza

esitazioni verso camera mia.

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Il mio “accomodati dove vuoi” sottintendeva “dove vuoi ma in

soggiorno”, il fatto che se ne fosse andato in camera mia, la stessa in

cui dovevo vestirmi, mi lasciò interdetta, lo seguii e mi spiegai

meglio: “Non che la tua presenza qui mi dia fastidio, ma devo

vestirmi, sono nuda”.

Allargai le braccia per sottolineare il mio stato, qualcosa nel suo

sguardo mi disse che ne era più che consapevole.

Sorrise in modo promiscuo e rispose “Perfetto, fai pure.”

Si sedette sul mio letto e accavallò le gambe, in attesa. Fu tutto

chiaro e limpido come il cielo d’estate.

Non era stata mia intenzione tentarlo in qualche modo, avevo

agito d’impulso, gli avevo aperto la porta in quello stato spinta dalla

fretta, dal ritardo.

Dato che eravamo usciti insieme già parecchie volte e non mi

aveva ancora sfiorata neanche con un dito, la mia parte più intima

cominciava a credere che non fosse attratto dal mio corpo, ero

convinta che non avesse fatto caso al mio non-abbigliamento.

Mi sarei aspettata più un rimprovero per il fatto che non fossi

pronta piuttosto che quello che invece stava accadendo.

Rimasi in piedi davanti a lui, anch’io in attesa.

Sentivo il bisogno di lui, del suo corpo, sapevo che sarebbe

bastato avvicinarmi, avrei potuto baciarlo, avrei potuto lasciar cadere

sapientemente l’asciugamano lungo i fianchi o mille altre cose ma

non feci nulla di tutto ciò.

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Tatiana Ros Blue sky: quando accadono le cose

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La consapevolezza che stava per accadere, in quel momento, con

Ale, mi innervosiva, mi immobilizzava, ero incapace di muovermi,

di parlare, di agire.

Mi sforzai di essere disinibita ignorando ciò che dentro di me

stava ribollendo senza controllo, riuscii ad abbozzare un sorriso.

Non volevo però che lui interpretasse male le mie emozioni, non

doveva pensare che non lo volevo.

Andai verso la porta di camera mia per chiuderla, la mia

coinquilina poteva tornare a casa in qualsiasi momento e volevo

privacy, era un segnale inequivocabile.

La porta era molto vecchia, non si poteva chiudere a chiave, non

c’era mai stata una chiave, quando volevo non essere disturbata

incastravo una sedia sotto la maniglia. Così feci, presi la sedia di

fianco alla porta e la posizionai sotto la maniglia.

Lui mi osservava ancora seduto sul mio letto, un letto a una

piazza, troppo piccolo per due.

La mia camera era grande ma quasi vuota, c’era una piccola

scrivania davanti alla finestra, costantemente coperta di libri, un

piccolo armadio e poco altro.

Quel lettino in mezzo alla stanza, con Ale, così alto, seduto

sopra, sembrava un fuoriscala.

Lui si alzò dal letto, venne verso di me, evidentemente il segnale

che gli avevo inviato chiudendo la porta aveva suscitato un qualche

effetto.

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Tatiana Ros Blue sky: quando accadono le cose

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Ora lui sapeva che anche io lo volevo, nessuna incomprensione,

nessuna esitazione, nessuna incertezza. Il nostro momento era

arrivato.

Posò le sue mani sopra le mie che in quel momento erano

saldamente aggrappate all’asciugamano, quel telo di spugna non

doveva scivolare via, non ancora, mi faceva sentire protetta.

Mi guardò dritto negli occhi, le sue mani erano calde e

rassicuranti sopra le mie e piano piano mi aiutò a mollare la presa.

L’asciugamano cadde inesorabilmente a terra, rimasi nuda,

davanti ad Ale, vulnerabile, indifesa.

Lui non distolse gli occhi dai miei, non sbirciò le mie nudità,

gliene fui grata, non mi sentivo ancora a mio agio.

Continuava a fissarmi dritto negli occhi.

Posò le sue grandi mani calde sulle mie spalle e con voce bassa

disse: “Lisa, lo sai che sono pazzo di te?”

Mi baciò, fu un bacio caldo, protettivo, dolce, durò a lungo, e

piano piano il bacio divenne sempre più impaziente, agitato.

Stavo superando l’imbarazzo iniziale, sapevo che anche lui mi

voleva, sapevo di essere anch’io pazza di lui, ora intuivo persino che

se non mi aveva ancora sfiorata era stato per proteggermi.

Si tolse la maglia, lo aiutai con i pantaloni, ci ritrovammo nudi

sul mio lettino, mi baciò ovunque, la bocca, il viso, il collo, scese un

po’ più giù, la sua bocca era sempre più vorace.

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Tatiana Ros Blue sky: quando accadono le cose

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Mi stava facendo perdere il controllo, con audacia gli afferrai

una mano e gliela appoggiai lì, volevo che sapesse quanto lo

desideravo, volevo che sapesse che mi sentivo al sicuro.

Quel mio gesto fu inequivocabile, forte. Il suo respiro si fece

frenetico, iniziò a toccarmi davvero, la sua bocca intanto si dava da

fare con il mio seno in modo sempre più prepotente.

Stavo per esplodere, mi stavo avvicinando a ritmo velocissimo al

mio primo orgasmo con lui.

Con la mia mano afferrai la sua su di me e la spinsi ancora di

più, fu un orgasmo lungo e profondo, il più bello della mia vita.

Almeno fino ad allora.

Quando i miei muscoli tornarono a rilassarsi, aprii gli occhi, Ale

mi stava osservando, il suo sguardo era compiaciuto e

tremendamente eccitato. Lo baciai, volevo di più, volevamo di più.

Mi fece inarcare la schiena tanto era intenso il piacere.

D’improvviso si fermò e restò così per qualche istante, i suoi occhi

nei miei occhi, fu una sensazione bellissima, era come se mi stesse

dicendo: “E’ con me che stai facendo l’amore. CON ME”.

Cercai di restituirgli quello sguardo ipnotico, non avevo mai

desiderato nessuno con quell’intensità.

Ale sapeva esattamente quello che faceva, ogni movimento era

perfetto, di un’intensità senza pari, forse perché provavamo già dei

sentimenti profondi l’uno per l’altra che rendevano quei momenti

ancora più vivi e potenti.

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Tatiana Ros Blue sky: quando accadono le cose

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Dopo un tempo impossibile da quantificare, finimmo insieme,

esausti, appagati, Ale si accasciò su di me, il volto sprofondato sul

mio petto, il silenzio era rotto soltanto dai nostri respiri.

Dopo qualche istante, quando ormai eravamo tornati nel

presente, con un filo di voce disse: “Mi sto innamorando di te, se non

è lo stesso per te mandami via. Adesso. Prima che sia troppo tardi”.

Quella frase mi riscaldò l’anima, la mia anima fredda fino ad

allora, la stessa che non aveva ancora conosciuto l’amore, quello

vero, si sciolse come un ghiacciolo al caldo sole d’estate.

Sentivo il peso del suo corpo sul mio, il suo respiro sfiorarmi la

pelle, risposi: “Resta Ale. Resta.”

Quello fu l’inizio della nostra storia.

Otto anni dopo, tutto era cambiato, mi sembrava un’altra vita,

non la mia.

Ora mi trovavo davanti al cancello della casa di Richard, un altro

uomo, un altro luogo, un’altra realtà, un altro pezzo della mia stessa

vita.

Provavo lo stesso nervosismo e la stessa tensione di quella sera

con Ale con l’asciugamano stretto fra le mani. Mi preoccupai per

quelle sensazioni, non avevo nessuna intenzione di finire a letto con

Richard. Nessuna. Ma anche il semplice pensiero di stare da sola con

lui mi inquietava.

“Entriamo, vieni” Richard aprì il cancello e mi porse la mano.

Aveva percepito la mia agitazione, avevo bisogno di un

sostegno, afferrai la sua mano ed entrammo in casa sua.

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CAPITOLO CINQUE

come la pioggia d'estate

La porta d’ingresso si apriva su un enorme salone, il grande tavolo

poco più in là era già apparecchiato per due, con tovaglia e

porcellane bianche ed eleganti, calici di finissimo cristallo. Nel

mezzo del tavolo la luce delle candele riscaldava l’atmosfera.

Notai un grande pianoforte nero, lucido che dominava l’intero

salone.

Arrivò subito una signora ad accoglierci, il grembiule bianco

merlettato spezzava la monotonia delle sue vesti nere, i capelli,

ormai grigi, erano raccolti in un perfetto chignon sulla nuca.

La signora si affrettò a liberarci dai nostri giacchetti.

“Grazie Nina” disse Richard.

Lei rispose a Richard con uno sguardo d’intesa, uno sguardo

colmo di approvazione e di calore, dopo di che scomparve in cucina

e chiuse la porta dietro di sé.

Per rompere l’imbarazzo che diventava sempre più

insopportabile, mi sentii in dovere di commentare quello che stavo

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osservando: “Questa casa è enorme, accogliente, elegante… un bel

posto. Davvero. ”

“Grazie…” rispose con gratitudine.

Mi accompagnò verso il divano, era grande, di pelle nera, posto

vicino al pianoforte: “Accomodati. Gradisci qualcosa da bere? Un

aperitivo… del vino…”

Notai che anche Richard era nervoso, la sua mano non la

smetteva più di passare fra i capelli.

“Vino bianco, grazie” sorrisi con dolcezza cercando di mettere

entrambi a nostro agio, quella tensione fra noi non mi piaceva.

“Torno in un attimo.” si diresse verso la cucina e lo sentii parlare

con Nina in inglese.

Mi sedetti sul divano e mi guardai intorno, alle pareti erano

appesi dei quadri che riproducevano paesaggi marini dai colori tenui

e delicati. Erano così belli che osservandoli si percepiva quasi il

rumore delle onde del mare.

Quei quadri mi fecero pensare a Lorenzo, mio figlio, come tutti i

bambini amava il mare, se ne stava per ore a giocare sul bagnasciuga

con la sabbia.

Aveva già quattro anni ormai, ero partita da un giorno e già mi

mancava moltissimo. Mi mancava tutto di lui, le sue manine

cicciottelle sul mio viso, i suoi boccoli neri, la sua pelle chiara e

delicata come seta.

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Tatiana Roscini_Blue sky: quando accadono le cose

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Al mare lo impiastricciavo sempre con quintali di crema per non

farlo arrossare, lui frignava sempre. Mi mancavano anche i suoi

capricci.

Dopo la mia laurea io e Ale dovevamo decidere cosa fare del

nostro futuro, stavamo insieme già da quattro anni e le cose fra noi

sembravano andare benissimo.

Io ero molto legata a Perugia, la mia città, conoscevo tanta gente

e la vita lì scorreva tranquilla. Ale si era innamorato di quel posto, di

quella gente, sosteneva che sarebbe stata una base perfetta per una

famiglia, la nostra famiglia.

Decidemmo di iniziare lì una vita insieme, Ale comprò un

terreno, ci costruì una bellissima casa e aprì uno studio di architettura

in città. Le cose andavano bene o perlomeno, questo era quello che

dicevamo a noi stessi.

Lorenzo era arrivato presto, inaspettatamente, crescere Lory

occupava gran parte delle mie giornate, per il resto del tempo

lavoravo nello studio di Ale, svolgendo mansioni di tutti i tipi. Non

riuscivo a trovare un lavoro tutto mio e lavorare con Ale, per Ale mi

piaceva, non percepivo uno stipendio dato che era una cosa

temporanea e saltuaria, ma mi andava bene così.

Facevo quel che serviva e per il momento mi accontentavo,

convincendomi che presto sarei riuscita a trovare un lavoro vero.

D’un tratto un quadro mi balzò agli occhi distogliendomi dai

miei pensieri, era appeso sul muro dietro al pianoforte e non era

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Tatiana Roscini_Blue sky: quando accadono le cose

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come tutti gli altri. Una grande cornice sottile, moderna e nera

racchiudeva un collage di tantissime foto e articoli di giornale.

Mi alzai dal divano e mi avvicinai per osservarlo meglio.

Guardai. Guardai meglio. Sgranai gli occhi e guardai ancora. I

miei pensieri si accavallarono gli uni sugli altri. Mi agitai.

Non ci potevo credere, ma come avevo fatto a non capire? Gli

indizi c’erano tutti, sarebbe bastato fare due più due e…

Era totalmente fuori dalle mie aspettative che non ci ero arrivata,

non me lo sarei mai immaginata. Mai e poi mai.

In quel momento Richard uscì dalla cucina con due calici di vino

bianco in mano e notò l’espressione di sconcerto sul mio volto.

Un istante e capì al volo, si fermò e con voce decisa disse: “Sì,

Lisa. Sono io.”

Provai ad analizzare le mie emozioni, decidere cosa dire, cosa

fare…

Ero sbalordita, immensamente, ma non ero in collera con lui.

Niente rabbia. Forse sarebbe stato più logico arrabbiarsi, ma non lo

ero, di certo avrebbe potuto dirmelo prima, questo sì.

Ero curiosa, molto curiosa, pretendevo delle spiegazioni e non

mi sarei accontentata di un sorrisetto.

“perché non me l’hai detto?”

Per fortuna rispose subito, senza esitazioni, fornendomi le

informazioni che desideravo conoscere.

“Non sai quanto significhi per me che tu sia venuta qui senza

saperlo. Non puoi immaginarlo. Davvero. Sei qui perché in qualche

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modo ti interesso io. Io. Non Il mio lavoro o tutto ciò che ci sta

intorno. Solo io.”

Cominciava tutto ad avere un senso.

Lui era Ric, RIC, il front man degli Island, un gruppo rock

inglese molto famoso. Avevo anche un sacco di pezzi degli Island

nel mio I-pod, conoscevo abbastanza bene la loro musica, ma non

avevo riconosciuto Richard, proprio non ci avevo pensato.

La gente come Ric apparteneva a un mondo parallelo rispetto al

mio, due mondi diversi incapaci di incontrarsi, almeno questo era

quello che pensavo fino a quel momento.

Invece Ric era Richard. Richard era Ric. In carne e ossa. E io mi

trovavo a casa sua.

Se solo mi avesse detto di chiamarsi Ric e non Richard… forse

avrei capito… forse mi sarebbe venuto in mente…

Ma lui aveva ragione, se l’avessi riconosciuto prima non

avremmo mai saputo, nè io, nè lui, se avevo accettato l’invito a cena

perché ero interessata a Richard o a Ric.

Esaminai il quadro, mostrava foto e articoli della carriera degli

Island, c’erano foto di Ric in camerino, immagini dei concerti,

articoli che parlavano delle conquiste degli Island in campo

musicale.

Una foto mi colpì più delle altre, ritraeva Ric su un palco, vestito

elegantissimo, completo nero e camicia bianca, era bellissimo,

teneva in mano un trofeo che riproduceva un grammofono dorato.

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Conoscevo quel premio, era il Grammy Award, uno dei premi più

ambiti per ogni musicista.

Ciò che catturò la mia attenzione, però, non fu il fatto che avesse

vinto il Grammy Award o il fatto che fosse così affascinante, ma fu il

suo volto, la sua espressione.

La foto immortalava Ric a mezz’aria, mentre saltava innalzando

il trofeo verso l’alto in segno di vittoria.

Osservandolo si percepivano le emozioni che stava vivendo, era

trionfante, sorridente, soddisfatto, la gioia fatta persona, la sua

felicità era palpabile, quasi si potesse toccarla con un dito.

Quel Ric si contrapponeva nettamente al Richard che avevo

davanti, un uomo un po’ schivo, di poche parole, introverso,

misterioso.

Era difficile pensare che il ragazzo che conoscevo io e quello

così sfacciatamente esplosivo della foto fossero la stessa persona,

sembravano due entità distinte, sembrava come se qualcosa o

qualcuno lo avesse spento.

Guardai Richard e poi tornai al quadro, di nuovo Richard e poi di

nuovo il quadro. Non potevo ancora crederci. Quante cose erano

successe in quella giornata!

Ora potevo spiegarmi perché indossava spesso berretto e occhiali

da sole, e perché si era defilato in aeroporto. Non voleva essere

riconosciuto, non voleva essere importunato.

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La cameriera del locale dove avevamo pranzato aveva capito chi

fosse, per questo si era comportata in quel modo strano, tutto risolini

e moine.

Proprio non mi sarei mai aspettata di imbattermi in Ric degli

Island, le immagini che li riguardavano sulle riviste o in Tv, li

ritraevano sempre tutti insieme, come un’entità unica, era difficile

distinguerli.

Mi piaceva la musica, ascoltavo moltissimo la radio, scaricavo

parecchie canzoni da I-tunes, avevo play list per ogni situazione, per

addormentarmi, per gasarmi, per correre, per concentrarmi… ma mi

interessavo della musica, dei brani, non certo dell’immagine o della

vita degli artisti.

D’improvviso, mentre stavo ricostruendo gli avvenimenti della

mia prima incredibile giornata a Londra un pensiero spense il sorriso

che avevo in volto, mi tornò in mente un particolare della vita di Ric.

Un particolare non da poco.

Mi sentii come se un pugno mi avesse colpito allo stomaco. Mi

mancò il fiato. Con un filo di voce dissi: “Ma tu sei sposato, e hai

pure una bambina.”

Non mi intendevo di gossip, ma questa era una cosa che tutto il

mondo sapeva. Era sposato con la famosissima Nadine Lane, sua

moglie era la figlia di un ricco e famoso avvocato statunitense,

George Lane. Pronunciare il nome di quell’uomo era sufficiente per

mettere tutti sull’attenti, un uomo potente, da tutti i punti di vista.

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Nadine era una scrittrice e seguiva personalmente molti progetti

di aiuto ai bisognosi, ogni volta che usciva un suo nuovo lavoro o

ogni volta che compariva in qualche opera di beneficenza i media di

tutto il mondo ne parlavano per giorni.

La sua immagine pubblica era quella di una ricca e brava

ragazza, che cercava di utilizzare la fortuna che aveva ricevuto in

sorte per aiutare gli altri.

I suoi libri parlavano di mogli in carriera, belle e intelligenti che

lottavano con tutte se stesse per la propria famiglia, donne vincenti,

un po’ come lei.

Ogni tanto mi era capitato di leggere una sua rubrica intitolata

“The good woman” in “Look” una famosa rivista internazionale che

a volte compravo. Nadine elargiva consigli su come essere una

perfetta moglie, mamma e donna in carriera.

A malincuore considerai che quella rubrica mi piaceva parecchio

e ci avevo trovato degli spunti interessanti che mi avevano persino

dato una spinta per risolvere questioni personali della mia vita.

Se tutto ciò non bastasse, Nadine era anche bellissima, una

donna alta, snella, dai lunghi e fluenti capelli castani, dal naso

perfetto, forse rifatto, e un seno generoso malgrado la magrezza,

forse anch’esso opera del chirurgo ma di certo, era bella.

Di fronte alla sua immagine mi sentii un brutto anatroccolo. Mi

trovavo nel posto sbagliato con l’uomo sbagliato, non potevo e non

volevo competere con lei, neppure per una cena.

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Mi ricordavo del suo matrimonio con Ric, una decina di anni

prima, i media ne avevano parlato per giorni.

I giornali avevano abbondantemente descritto ogni dettaglio del

matrimonio dell’anno: la cerimonia del matrimonio dell’anno, il

party del matrimonio dell’anno, la luna di miele del matrimonio

dell’anno. La coppia dell’anno…

In quel momento avrei voluto essere come la mia inseparabile

amica Clara, sempre informatissima sulla vita di tutte le persone

famose.

Lei di certo aveva letto tutto quello che c’era da leggere e visto

tutto quello che c’era da vedere sul matrimonio fra Ric e Nadine,

Clara conosceva ogni aspetto del loro rapporto.

Con voce acida dissi: “Cazzo, Richard ma che ci faccio qui? Sei

sposato! Sposato!”

Mi sentivo ingannata, presa in giro, mi sentivo un giocattolo fra

le sue mani, un passatempo. Come se il significato di “sposato” non

fosse chiaro, aggiunsi: “Hai una moglie! Una moglie!”.

Richard si affrettò a giustificarsi: “Non credere a tutto quello che

leggi sui giornali. Io e Nadine non stiamo più insieme”.

Stavo sulla difensiva: “Non ho sentito parlare di nessun divorzio,

se fosse stato così ne avrebbero parlato tutti i giornali. Non ho sentito

nulla riguardo a un vostro divorzio. Nemmeno di una crisi. Niente”.

C’era irritazione e rabbia nella mia voce.

“Hai ragione. Non stiamo divorziando. Andiamo insieme alle

serate di Gala… in pubblico recitiamo la parte della famiglia

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perfetta… ma conduciamo vite private separate, io e lei non stiamo

più insieme. Da tempo. E’ solo una recita.”

Mi sembrava una scusa, non riuscivo a credergli, come potevo

credergli… le immagini dei giornali di lui e lei sorridenti, insieme

alla loro bambina mi saltavano alla mente una dopo l’altra.

Ero in collera: “E questo dovrebbe bastarmi? Tutti gli uomini

sposati dicono queste stronzate quando vogliono portarsi a letto una

ragazza. Tu non fai eccezione.”

Dovevo andarmene da lì al più presto, lui mi piaceva, e molto

anche! Dovevo andarmene prima che le cose si fossero complicate.

Aveva una figlia ed era sposato. SPOSATO.

“Me ne vado.” Dissi risoluta, mi incamminai verso la porta, a

gran passi.

“Ti prego non farlo!” lo disse con una sorta di disperazione nella

voce che mi fece tentennare.

Mi fermai, mi voltai verso di lui e gli diedi un’ultima possibilità:

“Dammi un solo motivo per cui non dovrei farlo”.

Lo conoscevo come un tipo di poche parole, immaginai che non

avesse niente da dire, almeno niente di interessante.

Contravvenendo alle mie aspettative un fiume di parole uscì

dalla sua bocca: “Non puoi andartene ora perché fra noi c’è qualcosa.

Noi due ci conosciamo, sì, io e te ci conosciamo, conosco molto di

più te che persone che frequento da anni, c’è come una forza che mi

spinge verso di te. Da quando ti ho vista è cambiato tutto, è come se

mi fossi risvegliato da un torpore lunghissimo, che durava da anni.

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Fra me e te esiste qualcosa, non posso fare a meno di interessarmi a

te, quello che fai mi interessa, quello che hai da dire mi interessa,

come stai mi interessa parecchio. Ho capito che sei turbata, questo è

chiaro, spesso ti estranei dalla realtà e ti immergi nei tuoi pensieri,

chissà a cosa pensi, chissà dove sei. Sono interessato a te, alla tua

vita. - fece una pausa, un grosso sospiro e disse - Resta Lisa,

ceniamo insieme, non ti chiedo altro. Resta per una cena.”

Aveva ragione, era scattato qualcosa fra noi e aveva ragione

anche sul fatto che mi estraniavo spesso, la mia mente continuava ad

andarsene.

Richard non mi diede il tempo di prendere una decisione, prese

fiato e continuò: “In aeroporto, stamattina, mentre tutti aspettavamo

il volo, ti ho vista e ti ho riconosciuta dalla sera al Valentine, ero così

sorpreso… così felice che il caso ci avesse fatto incontrare di nuovo.

Avevo un’altra possibilità, volevo presentarmi… conoscerti ma… ho

notato che eri presa dai tuoi pensieri, i tuoi occhi fissavano il rigo

delle mattonelle del pavimento e non hai mai alzato lo sguardo. Mai.

Eri estraniata dal presente talmente tanto che quasi perdevi l’aereo.”

Infatti quella mattina stavo davvero per perdere l’aereo, mi resi

conto che il gate stava per chiudere all’ultimo momento e fui

l’ultima a salire a bordo. Ero talmente presa dai miei pensieri che

non avevo sentito le chiamate.

Continuò: “In aereo hai avuto un incubo… poi ti sei dimenticata

addirittura di mangiare… sei svenuta… non so perché sei a Londra,

forse sei in vacanza ma… non credo, penso piuttosto, che hai

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bisogno di evadere, hai bisogno d’aria nuova. Io sono la tua

evasione, io sono l’aria nuova. Tu mi interessi. Tu mi piaci.”

Aveva colto nel segno, avevo bisogno di ricaricarmi, ero a

Londra per recuperare le energie. Aveva già capito più cose sul mio

conto di quanto non avessero fatto le persone che vivevano intorno a

me, le stesse che sostenevano di conoscermi così bene.

Fece qualche passo e porgendomi il calice di vino disse: “Non ti

obbligo a stare qui, certo, ma penso che cenare in compagnia non sia

una cattiva idea, non c’è niente di male in questo, non hai nulla da

perdere. L’alternativa? Tornartene in hotel. Sola. Con i tuoi

pensieri.”

Lo guardai incerta.

“In fondo cosa ne sai del mio matrimonio? Niente. perché pensi

che ti stia mentendo? Se volessi usarti per portarti a letto… sarebbe

stato tutto più semplice con la cameriera di quel locale… oggi a

pranzo… non credi? I suoi ridolini dicevano “Sì” a gran voce. Invece

ho scelto te, ho scelto una cena con te.”

Mi porse il calice di vino con insistenza, rimasi interdetta per

qualche lungo istante, ci guardavamo, lui in attesa di una decisione,

il calice a mezz’aria, io stordita dalla situazione e dalla velocità con

cui gli eventi stavano accadendo.

Malgrado fossi ancora un po’ incerta, decisi di afferrare il

bicchiere di vino, mi resi conto che mi stava chiedendo soltanto di

restare a cena, non era poi così tanto e soprattutto non volevo

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andarmene, volevo restare in sua compagnia. A voce bassa risposi:

“Ok, una cena e poi me ne vado”.

Tirò un sospiro di sollievo, restammo ancora qualche istante in

silenzio, poi mi cinse in vita e mi accompagnò a tavola.

Nina ci servì da mangiare, tutto a base di pesce, il cibo era

davvero gustoso, crostacei, filetti tenerissimi si alternarono sui nostri

piatti accompagnati da salse squisite, riempii il piatto più volte e

Richard mostrò gradire il mio appetito.

L’imbarazzo scomparve a poco a poco, la comunicazione fra noi

divenne sciolta e tranquilla, quella sera Richard parlò a lungo, con

fare pacato, mi raccontò un sacco di cose su di lui e sulla sua vita,

aveva capito che se voleva frequentarmi, avrebbe dovuto darmi delle

spiegazioni.

Il mio bisogno di sapere era tangibile, un bisogno disperato,

volevo controllare gli eventi prima che gli eventi controllassero me.

Mi raccontò anche aspetti molto personali della sua vita, forse

ispiravo a lui la stessa fiducia che lui ispirava a me, volli credere che

fosse così.

Scoprii che si era sposato nove anni prima, poco tempo dopo

aver conosciuto Nadine. Lui era attratto e affascinato da lei, ne era

orgoglioso, Nadine possedeva tutto ciò che un uomo sognava in una

donna: fascino, cultura e ricchezza.

Tutti la conoscevano e tutti la adulavano.

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Nei primi anni di matrimonio sia Nadine che Richard erano

molto impegnati nel lavoro. Richard voleva far crescere gli Island,

voleva che la loro musica scalasse le classifiche fino a dominarle.

Intuii, anche se non me lo confessò apertamente, che la voglia di

successo di Richard fosse anche una sorta di rivincita nei confronti

della moglie, per dimostrarle che anche lui valeva, anche lui poteva.

Il lavoro li obbligava a starsene lontani per lunghi periodi, i

primi tempi non fu un problema, anzi, quel poco tempo che

passavano insieme era sensazionale, lui si sentiva vivo e innamorato.

Dopo poco tempo però, le cose cominciarono a cambiare, lei era

sempre più distante, si stava allontanando da lui, ogni giorno di più.

La carriera di lui stava decollando, il suo lavoro era ad un punto

cruciale e delicato, se voleva veramente farcela, doveva mettere la

carriera al primo posto, questo richiedeva impegno, dedizione e

sacrificio.

I mesi passavano e Nadine e Richard trascorrevano sempre più

tempo lontani, purtroppo le incomprensioni erano sempre più

frequenti, la voglia di stare insieme calava come la pioggia d’estate.

In quel clima sempre più secco, sempre più teso, a tratti aspro,

Nadine restò incinta, non stavano certo cercando un figlio, ma

accadde.

Richard sperava che fosse stato il destino a inviargli la piccola

Janet e che con l’arrivo della bambina, le cose fossero cambiate,

migliorate.

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Non fu così, anzi la figlia li divise ancora di più, erano in

disaccordo su come educare Janet, sulla scelta della baby sitter, su

quali attività dovesse svolgere, persino sui vestiti che dovesse

indossare. Su tutto.

Secondo Richard, Nadine era troppo rigida e intransigente e la

gestiva come se fosse una bambola preziosa da esporre al mondo.

Crederlo non era difficile, per quello che avevo letto di lei,

Nadine era una di quelle donne sempre a posto, sempre controllate e

fin troppo ligie al dovere.

Tre anni prima, quando Janet aveva circa due anni, Richard,

esausto e logorato da quel matrimonio ormai senza speranza, parlò

seriamente con lei del loro futuro. Voleva trovare una soluzione,

voleva sperare di essere nuovamente felice.

Secondo lui il divorzio era l’unica soluzione possibile, dovevano

dividere le loro vite ormai inconciliabili, ricominciare da zero,

continuare a crescere Janet insieme ma senza essere più marito e

moglie, di fatto, non lo erano più già da molto tempo.

Nadine saltò su tutte le furie, secondo lei il divorzio non era

un’opzione possibile, non ne voleva nemmeno sentir parlare, disse

chiaramente che non glielo avrebbe mai concesso. Mai.

Secondo lei, Janet aveva bisogno di genitori uniti, almeno in

apparenza, l’immagine pubblica di una famiglia felice sarebbe stata

abbastanza per la piccola, almeno secondo lei.

Non si parlò più di divorzio. Per Janet.

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Tatiana Roscini_Blue sky: quando accadono le cose

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Ma Richard e Nadine non avevano più nulla da condividere,

iniziarono a condurre vite private separate di comune accordo, era

inevitabile, fra loro non c’era più nessun tipo di rapporto, ma tutto

doveva restare nascosto agli occhi del mondo.

Le loro vite procedevano seguendo una sorta di equilibrio che si

erano costruiti addosso, un equilibrio fatto di regole ma non di

emozioni, un equilibrio in grado di farli andare avanti. Un equilibrio

che gli impediva di cercare la felicità.

I giorni passavano sempre più sterili, la vita non era più vivace

come lo era stata o come poteva ancora essere.

Richard si sentiva come un naufrago su una barca in mezzo al

mare calmo, una barca senza remi, incapace di muoversi, incapace di

raggiungere la riva, incapace di iniziare una nuova avventura.

Da allora Richard aveva frequentato altre donne, belle, giovani, a

volte anche intelligenti, ma non si sentiva più vivo ormai da troppo

tempo. Era sospeso in una vita che non gli apparteneva, che non

voleva.

Raccontava quella storia… la sua storia, con amarezza, con

risentimento, con dolore, concluse scuotendo il capo, guardandomi

dritto negli occhi, dicendo: “Non era certo questa la vita che avrei

voluto vivere”.

Ne parlava come se fosse stato un condannato a morte senza via

d’uscita.

Provai a sollevargli il morale: “Credo che la vita abbia in serbo

per te ancora molte sorprese.”

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Dissi quelle parole senza crederci troppo nemmeno io, ancora

non sapevo che avevo ragione, ragione da vendere, nel bene e

purtroppo anche nel male.

Dopo cena gli chiesi di suonare qualcosa per me, al pianoforte.

“E’ da un po’ che non lo uso…” rispose come per giustificarsi.

Cercai di convincerlo: “Nessuno ha mai suonato nulla per me,

non sono affatto un’esperta in fatto di musica, non mi accorgerò

degli errori”.

Lo implorai con la sguardo, non volevo che mi dicesse di no,

non poteva dirmi di no.

Richard cedette e si diresse verso il piano, io lo seguii, mi sedetti

sul divano e lo guardai mentre si preparava.

Era insicuro, sembrava come se provasse un certo imbarazzo.

Mi tornarono alla mente le immagini di Ric sul palco durante i

suoi innumerevoli concerti, scatenato e pieno di energia, le due

immagini erano contraddittorie, forse ero io a metterlo a disagio o

forse era qualcos’altro.

Seduto davanti al pianoforte era davvero attraente, sfogliava uno

spartito di musica classica, sembrava non decidersi, poi chiuse lo

spartito e si girò a guardarmi, aveva deciso.

Mi ero raggomitolata sul divano e mi sorpresi a sorridergli.

“Vado?” chiese

Alzai la mano e lo esortai: “Vai!”

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Non ero un’intenditrice ma a volte ascoltavo la musica classica,

mi rilassava. Quando ero nervosa per un esame importante o, più

avanti, quando Lory con i suoi capricci e con le sue esigenze di

bambino mi faceva impazzire, andavo in camera mia, mi stendevo

sul letto, mi infilavo le cuffiette dell’I-pod, selezionavo la playlist

“musica classica” e alzavo al massimo il volume, chiudevo gli occhi

e la magia aveva inizio. Non importava quale sinfonia fosse o quale

autore se Mozart, Beethoven, Bach o Brahms, qualsiasi fosse stata la

melodia era perfetta, le note si diffondevano dentro di me fino a

prendere possesso del mio corpo mandandomi in estasi.

Ero drogata di quella musica, aveva il potere di calmarmi quando

ero nervosa, di darmi forza quando ero stanca, di farmi sorridere

quando ero triste.

Richard guardò me, poi il pianoforte, iniziò a suonare.

Dopo poche note riconobbi il pezzo, non potevo credere alle mie

orecchie, non mi sarei mai aspettata che la sua scelta fosse quella.

Mi venne da ridere, portai una mano alla bocca per cercare di

trattenermi ma niente da fare, esplosi in una risata fragorosa. Lo

osservai mentre cercavo invano di trattenermi, anche Richard

sorrideva mentre le sue dita premevano abilmente i tasti del piano.

Era soddisfatto della mia reazione, compiaciuto, voleva

divertirmi e c’era riuscito.

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Fino ad allora, i momenti che avevamo vissuto insieme erano

stati tutti disperatamente seri o complicati, un po’ di leggerezza era

quel che ci voleva.

Si mise ad accompagnare la musica con il canto, le mie risa

esplosero ancora di più, mi ritrovai semidistesa sul divano con le

gambe scalpitanti in aria.

Cercai di ritrovare un po’ di autocontrollo almeno quanto

bastasse per cantare pure io, conoscevo molto bene quella canzone,

era una delle preferite di Lory e forse, di tutti i bambini.

Iniziai a cantare, sapevo di non essere un granchè in fatto di

canto e con le risate in mezzo il risultato doveva essere catastrofico.

Richard, invece, sebbene sempre più divertito, riusciva a

controllarsi e ad essere perfettamente intonato, persino in quelle

inusuali circostanze riusciva a dare un qualche spessore al brano.

Trovammo il giusto ritmo e insieme cantammo a squarciagola,

ogni tanto dovevo saltare qualche parola travolta da una risata

improvvisa, ma riprendevo il controllo e continuavo.

Avrei dovuto filmare quel momento, sarebbe bastato prendere il

telefonino e avrei avuto quella singolare esibizione immortalata per

sempre, ma in quel momento non ci pensai.

Ero certa, però che quegli istanti e quelle immagini di Richard al

pianoforte sarebbero rimasti per sempre dentro di me, sarebbe

bastato chiudere gli occhi e tutto avrebbe preso il via come in un

film.

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Ci stavamo esibendo in una rivisitazione tutta nostra de “Nella

vecchia fattoria”.

“Nella vecchia fattoria iha iha oh - c’è il cane -bau- cane- bau - i-

il cane - c’è la pecora - beeh - pecora - behh - la-la pecora - nella

vecchia fattoria iha iha ohh…”

Quando arrivò il turno del maiale non riuscimmo più a

controllarci, mi tenevo la pancia con le mani, e cercavo di andare

avanti, di cantare ancora ma le risa avevano invaso tutta me stessa,

avevo le lacrime agli occhi e gli addominali cominciavano a farmi

male.

Anche Richard cedette, si arrese all’inevitabile, in quelle

circostanze era impossibile fare il verso del maiale. Ci provò, due o

tre volte, la sua faccia si contorceva fra le risa nel vano tentativo di

emettere quel verso.

Mi mancava l’aria, non avevo mai riso così tanto e così

convulsamente.

Smise di suonare, si alzò, mi guardò per un attimo e si tuffò su di

me distesa e agitata sul divano.

Ci abbracciammo mentre ancora ridevamo, ci stringemmo forte

ancora dominati dalle risa che però stavano via via scemando.

Lui era su di me e con un pollice mi asciugò una lacrima di

felicità che stava rigandomi la guancia.

Mi baciò, fu un bacio d’impeto, un bacio che non ammetteva un

rifiuto, lasciò la mia bocca con la stessa irruenza con cui l’aveva

presa.

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Mi guardò dritto negli occhi, con una mano mi sistemò una

ciocca ribelle di capelli dietro l’orecchio.

Percorse con l’indice il profilo del mio viso, dall’orecchio al

mento, mi baciò di nuovo, questa volta fu un bacio dolce,

controllato, morbido, senza fine.

Stavamo vivendo uno di quegli attimi di perfezione che la vita

elargiva con così tanta parsimonia.

Ci baciammo per parecchio tempo, dai tempi del liceo non

baciavo un ragazzo così a lungo ma quei baci di me ragazzina non

avevano niente, assolutamente niente in comune con quel momento.

Mentre continuava a baciarmi mi prese il viso fra le mani, il suo

tocco era così leggero che sembrava fossi accarezzata da soffici

piume, gli misi una mano fra i capelli e glieli scompigliai

dolcemente.

Dopo un lungo tempo ma per me comunque troppo breve,

Richard si ritrasse.

Il suo respiro era un po’ alterato, io mi sentivo catapultata in

un’altra dimensione, lo spazio e il tempo avevano lasciato il posto ad

un benessere sublime.

Non dicemmo nulla per un po’. Non c’era niente da dire.

Le parole, qualunque fossero state, sarebbero state eccessive,

pesanti e sbagliate.

In quel momento la comunicazione fra noi era forte, intensa ma

non era fatta di parole, condividevamo gesti, sguardi e carezze.

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Lo strinsi a me con forza, Richard affondò il volto sul mio collo,

lo baciò.

I pensieri si accavallarono disordinati nella mia mente, Richard

era straordinario, era quasi un estraneo eppure riusciva a darmi

quello che mi serviva. Lo conoscevo da meno di un giorno ed era

stato in grado di proteggermi, allietarmi, divertirmi, darmi affetto.

Sapeva quello di cui avevo bisogno, sapeva che per il momento

non doveva chiedere di più, sapeva che avevo bisogno di calore e

quella stanza ne era piena.

Il suo viso era ancora sul mio collo, sospirò due o tre volte. Era

chiaro che anche per lui la vita non era facile e mi confortò il

pensiero di essere stata capace di condividere un momento così

perfetto.

Gli avevo fatto bene, gli stavo facendo bene, ci facevamo bene a

vicenda.

Si tirò su, e mentre con la mano mi accarezzava il volto, con un

filo di voce disse: “Vorrei chiederti una cosa, ma ti prego, non capire

male.”

Si interruppe, distolse gli occhi dai miei e li posò sulla mia

bocca, con il pollice iniziò a disegnare il contorno delle mie labbra e

mentre lo faceva, riprese: “Che ne dici di dormire con me stanotte?

Ti prometto che non proverò a fare l’amore con te, lo so che non è il

caso. Non voglio sciupare tutto. Vorrei dormire abbracciato a te. Ti

chiedo soltanto di farti abbracciare stanotte. Sai darmi calore. Ho

bisogno del tuo calore.”

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Distolse gli occhi dalla mia bocca e mi fissò dritto negli occhi:

“Non voglio che te ne vada.”

Il suo sguardo era blu e profondo come l’oceano, pieno di

speranza.

Non mi sfiorò nemmeno l’idea che le sue parole non fossero

sincere, lo baciai.

“Ok” sussurrai.

Mi abbracciò forte, quasi volesse convincersi che avevo

accettato per davvero, sorridendo ripetè fra sé: “Ok, ok, ok.”

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