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Atti del Convegno

INTERROGARE IL NOVECENTO

Ragusa, 21-22 Novembre 2015

A cura di

Giuseppe Nativo, Giovanni Occhipinti, Emanuele Schembari

4

5

Comune di Ragusa, Centro Servizi Culturali

Gruppo ″Mario Gori″.

Banca Agricola Popolare di Ragusa

Selinus University of Sciences and Literature, Bologna.

Convegno

INTERROGARE IL NOVECENTO

21-22 Novembre 2015

A cura di

Giuseppe Nativo, Giovanni Occhipinti, Emanuele Schembari

6

7

RELATORI

Aldo Gerbino (Università di Palermo): "Cuore ombroso".

Fiori. Filippo de Pisis.

Antonio Di Silvestro (Università di Catania): Valerio

Magrelli dagli anni Ottanta in poi.

Francesco De Nicola (Università di Genova): Tre poeti

liguri dimenticati e il potere.

Zosi Zografidou (Università di Salonicco): Il '900 e la

poesia del Mediterraneo.

Emilio Coco (traduttore, poeta, ispanista): Tributo alla

poesia ispanica.

Rodolfo Di Biasio (poeta, narratore, saggista): Alcune

riflessioni sulla poesia di oggi.

Giovanni Occhipinti (poeta, critico letterario, narratore): Il

secolo che non c'è: uno sguardo dal terzo Millennio".

Mauro Macario (poeta, saggista): Dalla beat generation

alla digital degeneration.

Piero Longo (poeta e docente di Letteratura italiana e

Storia nei Licei): Mario Luzi e la Sicilia.

Carmelo Mezzasalma (saggista, poeta, teologo, scrittore):

Mario Specchio nella temperie del '900.

Emanuele Schembari (poeta, scrittore, giornalista,

saggista): Poeti del Secondo Novecento Siciliano.

Domenico Pisana (poeta, saggista, teologo): Verso un

nuovo umanesimo: dall'interiorità alla realtà.

Giuseppe Digiacomo (poeta, scrittore, uomo politico):

Ricordando un pezzo di Novecento.

Andrea Guastella (saggista, dottore di ricerca, poeta): Il

luogo delle origini.

Segretario: Giuseppe Nativo (giornalista letterario,

saggista e cultore di Storia patria):

8

Letture poetiche dell'attore Giovanni Arezzo e del

cantautore Giacomo Schembari.

I testi poetici letti sono di:

Salvatore Quasimodo, Giuseppe Bonafede, Enrico

Cavacchioli, Gesualdo Bufalino, Vann’Anto, Emanuele

Mandarà, Enzo Leopardi, Emanuele Giudice, Domenico

Cultrera, Raffaele Poidomani, Aldo Gerbino, Piero Longo,

Emilio Coco, Giovanni Occhipinti, Giuseppe Di Giacomo,

Andrea Guastella, Letizia Di Martino, Domenico Pisana,

Maria Teresa Verdirame, Dario Pepe, Giuseppe

Schembari, Pippo Di Noto, Giovanna Vindigni, Luigi

Carotenuto, Vincenzo Galvagno, Antonio Lanza,

Emanuele Schembari.

9

PREFAZIONE di Giovanni Occhipinti

Gli interventi di autori e studiosi italiani e stranieri sulla

situazione della poesia e dei poeti all'inizio del nostro

Terzo Millennio, con uno sguardo rivolto al trascorso

Novecento, hanno lo scopo di analizzare dati e questioni –

insomma, aspetti – di un bilancio consuntivo sullo status

della cultura letteraria italiana nel momento in cui la

dimensione umana si allarga, si arricchisce per il

fenomeno della migrazione dei popoli che fondono le loro

culture, contribuendo a modificare la nostra visione del

mondo in rapporto al pensiero della poesia, dell'arte, della

filosofia e delle immancabili innovazioni della nuova

antropo-sociologia e della sociologia della letteratura.

Trasmigreranno anche le poetiche, recando con sé temi

e motivi, ovvero nuove pagine di storia che d'ora in avanti

apparterranno alla globalità della terra: proprio così, un

tempo c'erano le scaramucce di confine o di quartiere

sedate dallo schioppo e dall'archibugio, poi quelle sedate

dalle bombe da una parte all'altra del mondo, e oggi basta

la bomba nucleare per mettere a tacere l'intero pianeta.

Tutto si modifica ed espande, nel bene come nel male,

legando l'umanità a un unico destino. E la letteratura,

l'arte, la filosofia non possono non alimentarsi a queste

nuove situazioni, di cultura e di rischi, determinate dai

popoli della terra, troppo piccola per l'umanità dei nostri

giorni. Delle trentatre popolazioni della terra si comincia

solo ora a viverne la promiscuità, ne segue l'inutilità dei

localismi, sempre più riduttivi, se non banalizzanti e

incapaci di esaltare i valori della grande poesia, quella che

esprime la mondità del mondo.

10

Nella nuova fase di presa di coscienza e di crescita, la

letteratura accoglie e modifica i nuovi strumenti di

espressione e certamente si differenzia dalla letteratura del

Novecento, la quale si è alimentata a ben altre esperienze:

vedi le due grandi guerre mondiali, il Futurismo, il

Fascismo, la Contestazione giovanile del Sessantotto, col

sequestro e la morte di Aldo Moro e così via.

Nell'attesa di assimilare la cultura del nuovo secolo, la

Narrativa si muove, insieme agli editori, sulla vecchia

solfa del già-detto e fa bella mostra di sé nelle vetrine

delle ″classifiche″ che non ci dicono niente. All'editoria

interessa produrre e vendere e quando si è assicurata

alcuni nomi non li molla. Punta sempre sugli stessi cavalli

vincenti. E' il complesso dell'ippodromo.

La Poesia, intanto, se ne sta a guardare. Ha ben altro da

dire. Muove dalla finitudine verso l'Assoluto. Nasce

dall'extrasistole del mondo. Sorta di aritmia della vita che

coinvolge l'essere di ognuno di noi. E' perciò che non si

esaurisce mai. E' parola che vuole mettere insieme il

particolare con l'universale; ed è, spesso, la stessa biologia

del poeta, formandosi all'interno dei suoi vissuti. E' lunga

quanto il Tempo, perché viene dal Tempo e porta al

Tempo; non ha soluzioni da proporre, perché il suo è il

canto dell'anima dell'uomo e ne è il dolore, la tensione al

sublime, il pianto, la caduta ad inferos...

Sì, la poesia se ne sta a guardare. Attende la novità del

pensiero nuovo, quello che sta maturando - non certo tra le

poltrone del nostro Parlamento -, ma tra uno sbarco e

l'altro di migranti tiranneggiati da scafisti briganti che

facilitano e alimentano il terrorismo internazionale. Qui, è

la nuova materia che andrà a confluire nei versi della

poesia o nelle pagine di narrativa dei prossimi anni.

Ma non è tutto! All'orizzonte si profila la politica

sinistra dell'espansionismo, fondata sulle annessioni dei

11

territori e dei confini; e questo ″giustifica″ la sopraffazione

dei popoli più deboli da parte, soprattutto, di una grande

potenza europea e mondiale, che non è certo difficile

individuare. Per non parlare della Corea del Nord e del suo

innominabile, quanto inaffidabile e megalomane capo, che

contempla, già, nella sua mente malata di despota, il gioco

d'artificio, da Apocalisse, che incenerirà il mondo.

Questi fatti, questi temi non possono non alimentare la

nuova storia – già in atto – dell'umanità e, di conseguenza,

l'arte che la esprime.

Questo, lo spirito del Convegno e degli Atti che lo

riassumono attraverso il lavoro di sintesi che troveremo in

apertura del libro, curato da Giuseppe Nativo e voluto da

Emanuele Schembari, presidente del Centro Servizi

Culturali di Ragusa, che, da autore, ha condiviso col

sottoscritto, insieme ad Aldo Gerbino, l'intenzione e l'idea

di ascoltare la voce di scrittori, poeti, saggisti sulla

situazione, oggi, della letteratura, guardando da un lato al

Novecento, dall'altro alla storia appena iniziata del Terzo

Millennio.

Giovanni Occhipinti

.

.

12

13

NOTIZIE BIBLIOGRAFICHE

FRANCESCO DE NICOLA

Nato a Genova nel 1946 é professore di Letteratura

Italiana Contemporanea nell’Università di Genova, dove

pure ha fondato e dirige 1a Scuola di lingua e cultura

italiana per stranieri. Studioso di autori e problemi della

letteratura italiana dell’Ottocento e del Novecento, é

autore di numerosi saggi monografici - Fenoglio,

partigiano e scrittore (Argileto, 1976), Introduzione a

Fenoglio (Laterza 1989), Introduzione a Vittorini (ivi,

1993), Neorealismo (Bibliografica, 1995) e Gli scrittori

italiani e l’emigrazione (Ghenomena, 2008) - e ha curato

l’edizione di importanti opere rare - I ponti di Schwerin

(Le Mani, 1998) di Liana Millu, Bandiera bianca a

Cefalonia (Mondadori, 2001) di Marcello Venturi,

Sull'Oceano (ivi, 2004) di Edmondo De Amicis e La

giovinezza (Editori Riuniti, 2011) di Francesco De Sanctis

-. Appena usciti il saggio-antologia, scritto con Maria

Teresa Caprile, Gli scrittori italiani e la Grande Guerra

(Ghenomena, 2014) e l’edizione delle Lettere dal fronte a

Mario Puccini di Giuseppe Ungaretti (Archinto, 2015).

MAURO MACARIO

Mauro Macario é nato a Santa Margherita ligure nel 1947.

E’ poeta, scrittore, regista.

Ha pubblicato sette volumi di poesia: Le ali della jena

(Lubrina, Bergamo 1990), Crimini naturali (Book editore,

Ro Ferrarese 1992), Cantico della resa mortale (Book

editore, Ro Ferrarese 1994), Il destino di essere altrove

14

(Campanotto, Pasian di Prato 2003), Silenzio a occidente

(Liberodiscrivere, Genova 2007), La screanza

(Liberodiscrivere, Genova 2012, Premio Eugenio Montale

Fuori di Casa 2012) e Metà di niente (Puntoacapo editrice,

Pasturana 2014, Premio Lerici Pea 2015 per l’Edito).

RODOLFO DI BIASIO

Poeta tra i più significativi del 2° Novecento, è nato a

Ventosa (Latina ) nel 1937 e vive a Formia. Giornalista,

critico letterario, narratore e autore di saggi critici e di

sillogi poetiche.

Collabora alla Rai e a riviste italiane e straniere.

ALDO GERBINO

Nasce a Milano nel 1947, da famiglia siciliana.

Morfologo, è professore ordinario di Istologia ed

Embriologia nell'Università di Palermo. Cultore di

antropologia culturale, si occupa di critica d'arte e

letteraria. Oltre a pubblicazioni scientifiche sono al suo

attivo libri di saggistica e volumi di poesia. Ha diretto e

dirige importanti riviste letterarie tra le quali ″Plumelia″

da lui fondata. Memorabile, nella storia della poesia in

Sicilia, l'antologia Sicilia, poesia dei mille anni (Sciascia

editore, 2001). E' redattore di ″Gradiva″.

EMANUELE SCHEMBARI .

Nato nel 1936 a Ragusa, dove abita. Poeta tra i più

significativi della sua generazione, giornalista

professionista, ha diretto per dieci anni una televisione

privata ed é stato corrispondente del quotidiano “L’ora″ di

Palermo. Ha pubblicato venti volumi tra poesia, narrativa

15

e saggistica. E’ stato per dodici anni Segretario Regionale

del Sindacato Nazionale Scrittori di Sicilia. Ha diretto otto

periodici e vinto quindici Premi Letterari. E’ Presidente

del Centro Servizi Culturali di Ragusa e del Gruppo

culturale “Mario Gori″. Con Giovanni Occhipinti ha

fondato le riviste letterarie ″Presenze″ e ″Cronorama″: è

stato, per un certo tempo, condirettore di quest'ultima.

ANDREA GUASTELLA

Nato nel 1973 a Ragusa, dove abita. E’ dottore di ricerca

in italianistica e cultore di letteratura italiana. Insegna

storia dell’arte nei Licei e si occupa di Letteratura,

pubblicando parecchie opere di saggistica Ha a1 suo attivo

anche due opere di versi. E’ direttore editoriale

dell’editrice Aurea Phoenix.

EMILIO COCO

Nato a San Marco in Lamis, 1940. Ispanista, traduttore,

editore. E' poeta, saggista e organizzatore di Convegni

mondiali finalizzati a tenere alto il rapporto tra i poeti

spagnoli e latino-americani con i poeti italiani. Tra le sue

opere di poesia vanno ricordate: Profanazione (1990), Le

parole di sempre (1994), Fingere la vita (2004), Il tardo

amore (2004), Notevole il suo studio sul teatro spagnolo

contemporaneo raccolto in tre volumi.

DOMENICO PISANA

Nato a Modica nel 1958. Fondatore e Presidente del

″Caffè Letterario Quasimodo″, è poeta, saggista e teologo.

Degni di nota e tradotti in alcune lingue europee i saggi:

Sulla tua parola getterò le reti e Quel Nobel venuto dal

Sud. Salvatore Quasimodo tra gloria e oblio. L'ottavo

16

volume di poesia, la sua opera più recente, è Tra naufragio

e speranza (2014). Nel 2006 è stato insignito della

Medaglia d'oro - ″Premio alla Modicanità″ - dall'Ammi-

nistrazione Comunale e dalla ProLoco dell'antica Contea.

PIERO LONGO

Piero Longo (Altavilla Milicia-Palermo 1943) vive ed

opera a Palermo dove ha insegnato Letteratura italiana e

Storia nei Licei; Storia del Teatro e metrica nella Scuola

del Teatro Biondo-Stabile di Palermo e Storia dell’Arte

Moderna presso la facoltà di Scienze della Formazione

dell’Universita di Palermo. In poesia ha pubblicato: Parole

in concertante (1970); Gli animali del cielo (1978);

Lampiridi e altri segni (1995); Dialoghi con Eleonora

(1999); Cofano di bellezza (2006); Haiku per violino

barocco (2010); Probabili orditure (2013).

ZOSI ZOGRAFIDOU

Nata a Salonicco nel 1962 è professore Ordinario presso il

Dipartimento di Lingua e Letteratura italiana

nell'Università ″Aristotele″ di Salonicco. Specialista di

Storia della Letteratura italiana e di traduzione letteraria.

Traduttrice e poetessa, coltiva la passione per l'arte

dell'iconografia, vivendo la simbiosi con l'obiettivo

nell'attimo di esaltare il paesaggio.

CARMELO MEZZASALMA

E' nato nel 1945 a Siracusa, é cresciuto a Ragusa, dove

abita la sua famiglia, ha studiato a Roma e a Firenze, dove

si é laureato in Filosofia. Organista e docente di

drammaturgia musicale, con Eugenio Garin ha pubblicato

17

opere di saggistica e due volumi di versi. Ha fondato e

diretto 1e riviste letterarie ″Hellas″ e ″Feeria″. Sacerdote,

vive in Toscana, dove ha fondato e dirige la Comunità di

San Leolino.

ANTONIO DI SILVESTRO

Nato a Scordia, insegna Filologia della Letteratura italiana

presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di

Catania. E' autore di saggi sulla Letteratura ottocentesca,

particolarmente su Verga (va ricordato il volume, scritto

con Giuseppe Savoca, Lettere alla Famiglia: 1851-1880).

Ha condotto ricerche e analisi su Leopardi lettore di

Petrarca e su Sinisgalli, Gatto, Caproni, Montale.

GIOVANNI OCCHIPINTI

E’ nato a Santa Croce Camerina (Rg) nel 1936 e vive da

quasi sessant’anni a Ragusa, dove ha insegnato nelle

scuole elementari e medie. Ha pubblicato libri di narrativa,

saggistica letteraria e raccolte di versi. Ha fondato e diretto

le riviste letterarie ″Cronorama″ e ″Trasmigrazioni″. Ha

fondato il Premio di poesia “ Anni 70″ poi diventato “Un

ponte per l’Europa″, che si é concluso solo qualche anno

fa, dopo 25 anni. Per dieci anni é stato Presidente della

Giuria del Premio di poesia giovanile “Mario Gori″. E'

tradotto all'estero e ha partecipato a molti convegni

internazionali. Suoi scritti sono apparsi su riviste e giornali

italiani e stranieri.

GIUSEPPE DI GIACOMO

E’ nato a Comiso (Rg) nel 1957. Laureato in

giurisprudenza, é parlamentare regionale del PD,

presidente della Commissione Sanitaria, é stato assessore

18

alla cultura del Comune di Comiso e, per quattro anni,

sindaco della città. E’ stato anche attore di prosa, a livello

amatoriale.

Ha pubblicato i libri di poesia: Alchimie per vivere, Il

giorno fariseo, Balena bianca, Canti di guerra e divine

inconcludenze, oltre all’instant book Io non sono il boss e

il libro di cronaca Come abbiamo fatto a fare l'aeroporto

di Comiso.

19

IL NOVECENTO,

IL MEDITERRANEO E OLTRE

di Giuseppe Nativo

Il Novecento è come una moneta che presenta due

facce. Da un lato può essere definito il “secolo breve” –

secondo la definizione dello storico Eric Hobsbawm –, che

comincia tardi con lo scoppio della prima guerra mondiale

nel 1914 e finisce presto con il crollo dell'URSS nel 1991.

“Breve” non solo per questa sua particolare collocazione

temporale all’interno delle due date fatidiche sopra

menzionate, ma anche per la densità di eventi che lo

caratterizza. Dall’altro si presenta “lungo” perché non

riesce a scrollarsi di dosso i resti della fin de siècle e non

vuole finire nemmeno a nuovo millennio già avviato. Il

Novecento, dunque, è il secolo che sembra non cominciare

e non finire mai.

In campo letterario emerge analogo andamento. In

Italia si riscontra una doppia anima “che, attraverso forti

contraddizioni, si manifesta in una fertile disarmonia per

coloro (letterati e non) che sono in grado di cogliere e di

far proprie le scintille generate da questi attriti dolorosi e

irrisolti”.1

I contributi raccolti nel presente volume, proposti du-

rante i lavori del Convegno, sono stati motivo di dialogo

intorno agli argomenti trattati. Inoltre, contribuiscono a

1 Filippo Milani, “La letteratura italiana del Novecento: un itinerario

europeo”, in http://www.letteraturaitalianaonline.com/novecento /let-

teratura-taliana-novecento-milani.html, Portale di letteratura on line,

Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica Alma Mater

Studiorum - Università di Bologna.

20

fornire una nutrita (anche se non esaustiva) mappatura

della letteratura del ‘900, con riferimento alla poesia, - e

non solo in Italia e nell’assolata Trinacria - attraverso una

sorta di ricognizione contraddistinta da itinerari compositi

e mai del tutto districabili gli uni dagli altri. In essi con-

fluiscono il pensiero riflessivo, esperienze poetiche, il

punto di vista dell’autore. Da qui un panorama letterario

variamente articolato in cui la geometria dei ricordi, talora,

si intreccia con il tempo del presente e del passato percor-

rendo lo spazio della memoria. Quest’ultima è il “patri-

monio di una società e di un’epoca, intorno a cui si snoda

il racconto della letteratura, della storia e del pensiero

umano poiché la letteratura è vita e la vita letteratura”.2

Zino Pecoraro, nel suo articolo pubblicato nel 2011 sul

quotidiano “La Sicilia”,3 ponendosi la domanda “a che

cosa serve la letteratura”, aggiunge che “non è un bene

indispensabile, una attività che concede onori e

benemerenze”. Eppure “la scrittura è l’attività più diffusa e

praticata, non conosce tregua, aspira sempre a qualcosa di

grande e di importante: è una continua sfida”.

Italo Calvino, in un bel passo delle Lezioni america-

ne,4 in una delle sei voci che contengono le “proposte per

2 Zosi Zografidou, “Introduzione”, in AAVV, Tempo, Spazio e

Memoria nella Letteratura italiana. Omaggio a Antonio Tabucchi, (a

cura di Zosi Zografidou), Roma, Aracne Editrice S.r.l. (responsabile

della distribuzione in Italia), 2012, University Studio Press, Università

‘Aristotele’ di Salonicco – Dipartimento di lingua e letteratura

italiana, p. 15 (atti del Convegno internazionale dall’omonimo titolo;

Salonicco, 13-14 maggio 2010). 3 Zino Pecoraro, “Letteratura e visione plurima del mondo”, La

Sicilia (quotidiano, edizione di Catania), 26.09.2011, p. 13, rubrica

“Oggi Cultura”. 4 Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo

millennio, Milano, Garzanti, 1988, pp. 121. Si tratta di un libro basato

su di una serie di lezioni preparate dall’autore nel 1985 nell’ambito

21

il prossimo millennio” esprime a chiare lettere la funzione

universale e completa della letteratura: “L’eccessiva ambi-

zione dei propositi può essere rimproverabile in molti

campi dell’attività, non in letteratura. La letteratura vive

solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là

d’ogni possibilità di realizzazione. Solo se poeti e scrittori

si proporranno imprese che nessun altro osa immaginare la

letteratura continuerà ad avere una sua funzione [...] la

grande sfida per la letteratura è il saper tessere insieme i

diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima,

sfaccettata del mondo”. Purtroppo, in questi ultimi decen-

ni, il panorama della letteratura, come prodotto industriale

e come appagamento dei gusti del pubblico, non mostra di

condividere quanto sostenuto da Italo Calvino.

C’è da dire che oggi a una geografia letteraria che dise-

gni una mappa delle correlazioni tra le tradizioni e i luoghi

in cui esse prendono consistenza e si sviluppano se ne

deve oramai sostituire un’altra, al di là della peculiarità

regionale ma anche al di là dei confini delle diverse nazio-

ni. Se si guarda all’ultimo scorcio del XX secolo e agli

inizi del nuovo millennio, la produzione e la circolazione

della letteratura sembrano fortemente condizionate sia dai

meccanismi e dalle leggi del mercato, sia dai mezzi di

comunicazione di un mondo che ormai può definirsi glo-

della programmazione di un ciclo di sei lezioni da tenere

all’Università di Harvard. Il ciclo, previsto per l’autunno di quello

stesso anno, non si è mai tenuto a causa del decesso di Calvino

avvenuto nel settembre del 1985. Alla data della morte, l’autore aveva

terminato tutte le lezioni. Il saggio ebbe un esito a stampa solo nel

1988 e con titolo in inglese. Il titolo Lezioni americane deriva dal

modo in cui lo scrittore e critico letterario, Pietro Citati, che era solito

visitare in quell’ultima estate l’amico Italo, aveva l’abitudine di

chiamarle (cfr. Alberto Asor Rosa, Stile Calvino: cinque studi,

Torino, Einaudi, 2001, pp. 65-66).

22

bale.5 Una fase epocale di “straordinaria mutazione” –

come sottolinea Giovanni Occhipinti col suo “Sguardo

dal terzo millennio” – in cui è possibile notare una “grande

confusione di voci che si affollano, si sovrappongono,

interagiscono babelicamente come nell’amplificazione di

un gigantesco interfono”. La letteratura da un lato si “pla-

netarizza” e dall’altro “diviene evanescente e stagionale”

assumendo un linguaggio che “tende a spegnersi in una

deriva di insignificanza” e dando così origine ad una

“letteratura di fuochi fatui”. Il professore padovano Pier

Vincenzo Mengaldo parla di “stasi creativa” osservando

che “la società sta creando le condizioni alla poesia per/di

tutti non in quanto sia stata liberata e rinnovata ma in

quanto al contrario s’impaluda e si sfilaccia sempre più”.6

Nell’informe “scarabocchio della comunicazione globa-

le”,7 in cui una “editoria da supermercato”,

8 e “senza

5 AAVV, Dal neorealismo alla globalizzazione, a cura di Gabriella

Fenocchio, Mondadori, 2004, p. 28 (il volume fa parte di La

letteratura italiana: il Novecento, diretta da Ezio Raimondi). 6 Pier Vincenzo Mengaldo, “Grande stile e lirica moderna”, in Id., La

tradizione del Novecento, Nuova serie, Firenze, Vallecchi, 1987, p. 14

[nuova ed., Torino, Einaudi, 2003]. 7 Grazia Calanna, “Giovani voci per la poesia contemporanea”, La

Sicilia (quotidiano, edizione di Catania), 12.11.2015, p. 16, rubrica

“Cultura” (intervista allo scrittore e critico letterario Orazio Caruso

in occasione della presentazione del numero inaugurale della collana

“Quadernetto di poesia contemporanea”, intitolato “4x10”, relatore

prof. Giuseppe Savoca, ordinario di Letteratura italiana moderna e

contemporanea all’Università di Catania). 8 Antonio Di Grado (ordinario di Letteratura italiana all’Università di

Catania), “Letteratura e web. Isole sconosciute nell’oceano-Internet”,

La Sicilia (quotidiano, edizione di Catania), 23.10.2010, p. 27, rubrica

“Cultura”.

23

patente di letterarietà”,9 si appresta a congedarsi dalla

poesia perché l’unico linguaggio che comprende è quello

della matematica finanziaria e l’unico critico che ascolta è

quello che fa pendere i bilanci dalla parte del guadagno, si

osserva quello che Giovanni Occhipinti chiama il trionfo

dei “silenzi letterari divulgati!”. Un paradosso surreale

che, purtroppo, è anche accompagnato dal fenomeno di

una “Sicilia letteraria” particolarmente penalizzata

“dall’arbitrio della dotta ignoranza di qualche antologia-

sta” che va approntando citazioni di autori di poesie la cui

provenienza territoriale è esclusivamente nordica.10

Nel Novecento e nei primi anni del Duemila, il numero

di poeti e di volumi stampati sembra essere più alto rispet-

to alla media dei secoli precedenti. Si osserva, altresì,

come l’infittirsi della schiera dei poeti diventi direttamente

9 Silvia De March, La passione della realtà, tesi di dottorato di

ricerca in Italianistica, Università degli Studi di Padova, Dipartimento

di Italianistica, anno accademico 2008-2009, p. 2. 10

E’ di qualche anno fa l’accesa polemica sollevata anche attraverso le

pagine del quotidiano “La Sicilia” (edizione di Catania) riguardante

un decreto del Ministero dell’istruzione risalente all’ottobre 2010, il

numero 211, e contenente le linee guida destinate ai docenti della

scuola superiore. In tale decreto, sarebbe stata inserita una

“epurazione” di autori siciliani e meridionali, quali Sciascia,

Quasimodo e Vittorini, dal nostro ’900 letterario. I non pochi autori

inclusi nella lista dei “fondamentali” del Novecento, con l’esclusione

di buona parte della letteratura meridionale, hanno suscitato una

rovente indignazione in quanto è stato fatto notare che nelle antologie

più recenti e nelle storie letterarie del Novecento solo il dieci per cento

dei poeti citati “era nato a Sud di Roma, e che la stragrande

maggioranza degli autori erano padani, toscani e romani”. Sulla

delicata questione hanno dedicato ampie riflessioni: Alessandra

Belfiore e Lorenzo Catania, rispettivamente con i seguenti contributi

giornalistici “Gli scrittori meridionali banditi dalle antologie” e

“L’autobiografia di una nazione”, entrambi in La Sicilia (quotidiano,

edizione di Catania), 10.04.2012, p. 29.

24

proporzionale all’aumento di antologie che, in modo non

infrequente, sono concepite per dare visibilità ad autori

altrimenti sommersi dalla massa di nomi e di titoli.11

Visi-

bilità oppure “openione o reputazione” - come fa rilevare

Rodolfo Di Biasio nelle sue puntuali “Riflessioni sulla

poesia” – che manca in numerosissimi casi al poeta del

Sud “perché non gli è stata attribuita da parte dei centri di

potere che non sono certo nel sud”. Eppure è necessario

porre la giusta attenzione “al lavoro continuo, ricco di

risultati di tanta poesia del sud”. Anche Di Biasio, come

Occhipinti, avverte un clima letterario sommerso da un

“flusso vorticoso degli eventi” in cui ogni poeta deve

portare la sua “scheggia di storia e di canto” sofferta ed

“esplorata da ogni prospettiva”. I problemi di questo pri-

mo scorcio di millennio chiedono lo sforzo di tutti, anche

del poeta che è chiamato a immettere nella sua opera il

grido di questo nostro tempo. Ma qual è la situazione

attuale della poesia? Si sono fatte e si fanno antologie, si

stabiliscono unilateralmente scale di valore, si anticipano

velleitarie storicizzazioni. Insomma si fa un gran baccano,

un eccessivo rumore tra gli addetti ai lavori, quando inve-

ce dietro il poeta c’è il vuoto. I lettori sembrano abbando-

nare i poeti. Anche i grandi poeti del passato rischiano di

essere dimenticati. Si privilegiano altri itinerari. Tutto ciò,

forse, è causato da un’interruzione del circuito poeta-

lettore, un distacco tra il testo e la sua memoria. Secondo

Di Biasio, una delle cause principali è da ascrivere alla

memorizzazione dei versi poetici che, oggigiorno, sembra

un esercizio in buona parte non contemplato dalla scuola.

11

Niccolò Scaffai, “Altri canzonieri. Sulle antologie della poesia

italiana (1903-2005)”, Paragrafo, rivista semestrale di letteratura

curata dall’Università degli Studi di Bergamo, I – 2006, pp. 75-98

(cfr. web site http://www.unibg.it/paragrafo).

25

Eppure tanta poesia del Sud riecheggia ancora nel cuore

di ciascuno. Nella seconda metà del ‘900 la tradizione

letteraria siciliana, fertile e nel contempo inquieta, rimane

legata all’adozione di un punto di vista periferico e critico,

da cui guardare alla storia con un senso spesso orgoglioso

della solitudine e con un geloso individualismo.12

Nella

prefazione alla raccolta poetica Vidi le Muse di Leonardo

Sinisgalli, il cui esito a stampa è nel 1943, Gianfranco

Contini13

identifica la presenza di una linea della poesia

italiana novecentesca, che si sarebbe ulteriormente

sviluppata subito dopo la seconda guerra mondiale e per

tutti gli anni ’50, la cosiddetta “linea meridionale”14

indicando quelli che in quel periodo sono i principali

esponenti (nella lista è compreso Salvatore Quasimodo,

“poeta di calda vena e di colorita nostalgia, dotato di una

tecnica verbale intensa e comunicante”).15

E proprio a

Quasimodo, definito “iniziatore della poesia meridionale”,

il poeta pugliese Vittorio Bodini dedica, nel 1955, un

importante articolo scrivendo che “le sue parole

raggiunsero paesi e oggetti reali, che erano d’un territorio

vergine nella geografia lirica italiana: il Mezzogiorno, anzi

12

AAVV, Dal neorealismo alla globalizzazione, op. cit., p.27. 13

Gianfranco Contini, Avvertenze al lettore di Sinisgalli, in L.

Sinisgalli, Vidi le Muse, Milano, Mondadori, 1943; ora in G. Contini,

Altri esercizi (1942-1971), Torino, Einaudi, 1978, p. 161. 14

Antonio Lucio Giannone (Università del Salento-Lecce), “La linea

meridionale nella poesia italiana del Novecento”, in AAVV, Lingua e

letteratura del Sud nell’Italia del Novecento, Ulla Åkerström (a cura

di), atti del Convegno internazionale, Università di Göteborg, 13-14-

15 settembre 2011, Roma, Aracne editrice S.r.l., 2013, pp. 13-32; Id.,

La “permanenza” della poesia. Studi di letteratura meridionale tra

Otto e Novecento, Cavallino di Lecce, Capone, 1989, pp. 35-63. 15

Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, Milano-Messina,

Casa Editrice Giuseppe Principato, 1968, p. 594.

26

il Sud […]”.16

Queste citazioni abbracciano l’intera

tematica che ruota attorno al fenomeno della poesia

meridionale della quale Emanuele Schembari, con i suoi

“Poeti del secondo Novecento siciliano”, fornisce un

ampio panorama, enucleando i vari poeti siciliani, e

osservando che accanto alla linea poetica meridionale di

tipo “tradizionale” (ovvero i poeti rimasti in Sicilia) si può

collocare – dopo gli anni ’50 - quella dei poeti meridionali

ma trapiantati altrove, i quali riflettono la memoria del

Sud. Tra i due gruppi esistono certamente punti di

contatto. Alla base è da ricercarsi una comune matrice di

tipo antropologico, che si rivela nella presenza

generalizzata di alcuni elementi caratteristici della civiltà e

della cultura meridionali.17

Tra queste peculiarità non va dimenticato l’accanito

impegno civile dei poeti siciliani che richiama non poco

l’impronta umana ed artistica dei poeti appartenenti a

quella “scarsa lingua di terra che orla il mare”,18

ovvero

alla Liguria, e che si configurano nella cosiddetta “linea

ligustica”19

della poesia italiana. A tale riguardo

16

Vittorio Bodini, “Quasimodo iniziatore della poesia meridionale.

Le sue terre d’uomo”, in La Fiera letteraria, a. X, n. 29, 17 luglio

1955, p. 5. 17

Antonio Lucio Giannone (Università del Salento-Lecce), “La linea

meridionale nella poesia italiana del Novecento”, op. cit, p. 16. 18

Camillo Sbarbaro (1888-1967), “Scarsa lingua di terra che orla il

mare”, da Pianissimo, raccolta “Poeti Italiani del ‘900”, a cura di Pier

Vincenzo Mengaldo, A. Mondadori ed., 1997. 19

Giorgio Caproni, Il mondo ha bisogno dei poeti. Interviste e auto

commenti 1948-1990, a cura di Melissa Rota, Firenze, University

Press, 2014, p. 460. Caproni parla di una “linea ligustica” nel 1954,

durante la trasmissione radiofonica “L’Approdo”, per tornare

sull’argomento nel 1956, in una serie di articoli sulla rivista “Il Caffè”

e in seguito sulla “Fiera Letteraria” e sul “Corriere mercantile” di

Genova. Per un approfondimento sul tema si veda Michela Baldini,

27

Francesco De Nicola, con le sue riflessioni sui “Tre poeti

liguri dimenticati e il potere”, si propone di riportare

all’attenzione tre figure: Gherardo Del Colle, combattivo

e tormentato frate francescano; Nicola Ghiglione, scrittore

trasgressivo e ruvido; infine, Adriano Guerrini,

professore di storia e filosofia nei licei. Sono tutti attivi

negli anni ’50 del Novecento, tutti liguri per nascita,

formazione o adozione, tutti sfuggiti non solo al successo -

così raro per i poeti – ma anche alla memoria, nonostante

ognuno di loro abbia pubblicato testi e ognuno di loro

abbia avuto davanti agli occhi la Liguria col suo corredo di

natura, fatica e cultura. La diversità delle rispettive identità

professionali pone l’accento sull’esigenza interiore di

scrivere, fissare sulla carta pensieri che possono nascere

aiutando i poveri col saio addosso, spiegando la letteratura

italiana dalla cattedra di un liceo, o scrivendo articoli su

varie testate senza mai trovare un punto fermo.

Denominatore comune ai tre poeti è il talento per il quale,

però, “non ebbero la fortuna che gli sarebbe spettata se

non si fossero imbattuti nell’avversione di differenti forme

di potere”. Un esempio per tutti Gherardo Del Colle che

non è un poeta esclusivamente religioso, dato che in lui si

agita una complessa e talvolta tormentata tematica, anche

di carattere sociale e aperta quindi alle problematiche del

proprio tempo, come testimoniano alcuni suoi testi. Egli è,

inoltre, un validissimo critico, che non esita per onestà

intellettuale ad andare talvolta contro corrente attraverso

l’espressione del proprio giudizio negativo nei confronti

anche dei maggiori esponenti della letteratura di quel

tempo.

“La linea ligustica della poesia”, in L’Approdo. Storia di un’aventura

mediatica, a cura di Anna Dolfi e Maria Carla Papini, Roma, Bulzoni,

2006, pp. 225-228.

28

Gli anni a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta rap-

presentano un periodo molto particolare per la poesia, in

parallelo al moltiplicarsi di iniziative editoriali e di occa-

sioni di partecipazione al dibattito pubblico. Si assiste alla

liberalizzazione di costumi e creatività: si impone il mito

di un’espressività spontaneistica, legittimata dal valore

assoluto della libertà di espressione soggettiva. Una sorta

di contestazione che porta ad un vuoto di produzione

editoriale fino al ’71, annus mirabilis,20

in cui escono in

concomitanza Satura di Montale, Trasumanar e organiz-

zar di Pasolini e in posizione appartata Su fondamenti

invisibili di Luzi.21

“Gli anni Sessanta – scrive Enrico

Testa nell’Introduzione a Dopo la lirica – costituiscono

una delle fasi più significative della storia del secondo

Novecento. In Italia sono, secondo l’analisi di Pasolini, il

momento del ‘trauma’ […]. In questo rivolgimento […] la

poesia interviene con una radicalità che forse non ha pre-

cedenti nel corso del Novecento. Ciò vale soprattutto sul

piano linguistico, dove [cadono le] ‘paratie della secolare

separazione di lingua della poesia e lingua della prosa’”.22

Sicuramente “una fase epocale dalle peculiarità uniche e

irripetibili”, come sostiene Mauro Macario con le sue

riflessioni “Dalla beat generation alla digital degenera-

tion”, gravida di innovazioni, di rivoluzioni, di “poesia

multiforme” che timbrerà in maniera indelebile la vita di

quella generazione immersa in un contesto socio-storico

che porterà un “cataclisma poetico e catartico”. Una “beat

generation” contraddistinta da scelte di vita libertarie da

parte degli esponenti più noti che rumorosamente si scon-

20

Andrea Afribo, Poesia contemporanea dal 1980 a oggi: storia

linguistica italiana, Roma, Carocci, 2007, pp. 238. 21

Silvia De March, La passione della realtà, op. cit., pp. 38-41. 22

Enrico Testa (a cura di), Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000,

Torino, Einaudi, 2005, pp. v-vi.

29

trano con i canoni socialmente accettati dell’epoca. Gio-

vani con la trasgressione nel sangue, e la mente altrove.

Alcuni geniali, altri solo a rimorchio. Pochi riescono ad

immaginare che quel movimento culturale sarebbe diven-

tato un brand, capace di imporsi in tutto il mondo. Un

marchio non si costruisce dal nulla. E’ necessaria intelli-

genza, intuito, capacità di leggere nel futuro. Il solo ad

avere queste caratteristiche è Allen Ginsberg (1926-

1997), il più adatto a raccontarne le gesta. Perché oltre a

essere un buon poeta, un discreto scrittore, è soprattutto

promotore infaticabile dell’immagine del gruppo. Se

ancora oggigiorno il termine beat generation evoca qual-

cosa e suscita emozione lo si deve al lavoro di diffusione

che Ginsberg ha modo di promuovere sui giornali, tra le

case editrici, con la gente dei paesi in cui era invitato. Egli

ama particolarmente l’Italia, dove, più che altrove, il mito

della “beat generation” riesce ad attecchire, grazie anche

al lavoro prezioso di Fernanda Pivano. Questa non è solo

la traduttrice dei suoi libri ma l’amica, la vestale,

l’interprete di quelle voci che cominciarono a circolare

nella metà degli anni Cinquanta. Per Ginsberg la droga fu

per lungo tempo la sua musa e la poesia il mezzo per

metterla in pagina. Ma cos’è un poeta? “Strana vita passa-

ta a bussare alla porta del significato delle parole, trascorsa

a comporre suoni nella speranza che svelino qualcosa”,

così scrive nell’introduzione a una sua raccolta di poesie.

Ne esce fuori un affresco vivido attraverso cui Macario

ricostruisce - con sensibilità, ricchezza d’animo e animosa

affabulazione di chi ha vissuto quel periodo - umori e

slanci di una stagione che ha segnato l’Italia. Sono anni di

tensioni e utopie, tra pacifismo, politica, buddismo,

letteratura, sesso, droga e rock and roll. Una vera e propria

epopea letteraria che è unica nel suo genere: popolare

come un fumetto, familiare per quelle generazioni che

30

hanno sognato e cantato la libertà.23

Un cruccio assilla

Macario quando riflette sul fatto che dalla beat generation

della nostra giovinezza ci siamo trovati, molti anni dopo,

da adulti, da vecchi, davanti alla digital degeneration, e in

particolare “nel vedere quei miti sostituiti da altri miti, i

nostri bersagli d’allora divenuti, al contrario, semidei

idolatrati?”. E con animo amareggiato va a constatare che

il “cordone ombelicale con il nostro più recente passato è

stato tagliato e gli ultimi umanisti vagano sospesi nel buio

epocale come astronauti fuori dall’abitacolo nell’oscurità

siderale dell’universo”.

Il raffronto della letteratura italiana con tradizioni e

contesti letterari stranieri offre sicuramente un panorama

critico-metodologico di ampio respiro. In questi anni si è

nutrita dalle voci della letteratura mondiale che

provengono anche dall’America latina. L’incremento delle

traduzioni porta ad una circolazione rapida dei testi che, in

tal guisa, sono coinvolti in un dialogo in cui ciascuno

sostiene la propria parte e la propria vocazione. In un

mondo che ormai può essere definito policentrico, dove le

periferie divengono in fondo altrettanti centri, la letteratura

si apre al gioco molteplice delle relazioni.24

Per dirla con

le parole di Rocco Mario Morano: “Il confronto costante

con le letterature straniere e l’esame degli influssi

reciproci culturalmente e artisticamente verificatisi tra

Paesi fra loro anche geograficamente lontani, permette

utilmente di ampliare gli orizzonti interpretativi e

metodologici e di superare le ristrette visioni

23

Antonio Gnoli, “Ginsberg. Scatti beat”, la Repubblica, 23.05.2010,

consultabile in http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repub-

blica /2010/05/23/ginsberg-scatti-beat.html?ref=search. 24

AAVV, Dal neorealismo alla globalizzazione, a cura di Gabriella

Fenocchio, op. cit., p. 29.

31

nazionalistiche”.25

Nel saggio intitolato La literatura

hispanoamericana por un testigo de vista (1988), Octavio

Paz annota: “E’ fuori discussione l’esistenza della

letteratura ispanoamericana: le opere sono lì, a portata

degli occhi e della mente. Molte di quelle opere sono

notevoli e alcune di esse sono veramente uniche”.26

I poeti

colombiani, ad esempio, sono la dimostrazione del grande

fervore creativo che pervade la loro terra e che emerge

dirompente dal loro animo. “Ma quanto conosciamo di

quella poesia in Italia?”, si chiede Emilio Coco col suo

contributo su “un’Antologia” che si rende “necessaria” per

parlare di “32 poeti colombiani d’oggi” e porre la giusta

luce “sulla realtà poetica contemporanea di questo

meraviglioso paese sudamericano [la Colombia]”,

purtroppo noto per il clima di violenza che ha reso

possibile, come scrive Luis Eduardo Celis, “la più grande

operazione di distorsione della democrazia”. Quella di

Coco non è un’antologia nel senso tradizionale della

parola, bensì una dimensione umanistica aperta in grado di

presentare i poeti “in carne viva, ciascuno con la propria

esasperata vitalità e individualità”. Si tratta di una

produzione letteraria che occupa un arco di tempo di poco

più di mezzo secolo e che si contraddistingue – confessa

Coco nel suo blog -27

per la verve poetica e “originalità di

temi e una freschezza di linguaggio” che difficilmente si

trovano in quella europea.

Una dimensione letteraria che il mare separa dal

25

AAVV, Strutture dell’immaginario. Profilo del Novecento

letterario italiano, a cura di Rocco Mario Morano, Soveria Mannelli

(Catanzaro), Rubbettino Editore, 2008, p. 13. 26

Emilio Coco, Dalla parola antica alla parola nuova, Rimini,

Raffaelle Editore, 2012, p. 6. 27

http://www.emiliococo.it/#!di-poesia-latinoamericana/cqlq

32

vecchio continente. Le diverse immagini relative

all’acqua, ed alle sue figurazioni, si intrecciano con la

poesia novecentesca. Il viaggio per acqua, il naufragio, il

rispecchiarsi dell’uomo nell’elemento liquido,

rappresentano archetipi culturali in senso lato (si veda il

loro ricorrere nei miti e nei racconti “genesiaci” delle più

diverse religioni), e di conseguenza poetici. E’

significativo come la stessa tematica, la stessa idea di

base, venga a trasformarsi a seconda del microcosmo

poetico in cui è chiamata ad attualizzarsi.28

Tra grecità e

destino, il Mediterraneo delle lettere è un lungo racconto.

Secondo Braudel è: “Non una cosa. Mille cose insieme.

Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un

mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una

serie di civiltà”. E il mare è “il luogo dell’avventura e

della ricerca, e il viaggio sul mare simboleggia il viaggio,

il cammino della vita dell’uomo”, come giustamente

sostiene Zosi Zografidou col suo contributo riguardante

“Il Novecento e la poesia del Mediterraneo. Verso una

Itaca poetica”.29

Il Mediterraneo è il mare di ieri e di oggi. E’ il “mare

bianco di mezzo”, come viene chiamato dal mondo arabo.

E’ il mare dei poeti che non appartengono a uno spazio

28

Virginia Di Martino, Figurazioni dell’acqua nella poesia italiana

del primo Novecento, tesi di dottorato di ricerca in Filologia moderna,

ciclo XIX (2004-2007), Università degli Studi di Napoli Federico II,

Dipartimento di Filologia moderna, 2007, pp. 244. 29

L’intervento della professoressa Zosi Zografidou è stato oggetto di

articolo/intervista da parte di Giuseppe Nativo, “Ulisse, il

Mediterraneo e noi. Intervista a Zosi Zografidou”, in rete sul

quotidiano on line www.ondaiblea.it in data 18.11.2015 (link:

www.ondaiblea.it/index.php/it/2014-07-02-22-38-36/cultura/ 6551-

ulisse-il-mediterraneo-e-noi-intervista-a-zosi-zografidou).

33

determinato perché, come dice Elitis, “la poesia è sempre

unica, quanto unico è il sole” dei poeti che portano dentro

di loro lo spirito del Mediterraneo, punto di riferimento

per tutti i paesi mediterranei, rappresentando l’elemento

che inquadra il loro paesaggio ed elemento della loro

cognizione. Il mare rappresenta anche il luogo

dell’avventura e della ricerca, e il viaggio sul mare

simboleggia l’itinerario della vita dell’uomo. È simbolo

della ricorrente lotta e della continuità. Itaca rappresenta

“l’inizio e la fine della lotta della vita umana”.

Nella letteratura mondiale l’opera che riassume i

significati concreti e simbolici legati al tema del viaggio è

l’Odissea di Omero. Nel corso dei secoli il mito di Ulisse

è stato variamente interpretato, si è riempito di nuovi

contenuti assumendo una valenza differente in relazione al

momento storico e agli ideali filosofici, politici e culturali

di ciascuna civiltà. Infatti ogni civiltà ha potuto

interpretarlo a suo modo e “il viaggio di Ulisse è destinato

a non finire mai, così come Ulisse, è rimasto sempre vivo

nel corso dei secoli”, come scrive Russo-Karali,

assumendo diversi ruoli e significati e avventurandosi in

nuovi viaggi, in cerca di una Itaca. Ulisse è un uomo

“bugiardo e capace di tutte le imposture”, scrive Ladrón

de Guevara, “che nonostante il suo apparente desiderio di

rientrare in patria ha un cuore che non lo vuole perché

rimane vincolato al mare”. Secondo Bernard Andreae

che definisce Ulisse “come il prototipo dell’uomo

dinamico, sicuro di sé, che riflette sul suo destino e

reagisce consapevolmente” è “il primo della letteratura

mondiale a decidere delle proprie azioni, e a non

dipendere più esclusivamente dal destino o dalla volontà

degli dei”. Anche il viaggio per Itaca ha un profondo

significato. Un momento particolare che, secondo il poeta

34

greco Odisseas Elitis (1911-1996), parlando della poesia

di Kavafis, non è quello dell’arrivo ad Itaca, ma la durata

stessa del viaggio. L’Itaca è l’ultima meta, che

simboleggia la morte, dove ci porta il viaggio della vita.

“Il viaggio – sostiene Tabucchi - trova senso solo in se

stesso, nell’essere viaggio”. E Umberto Saba sembra

continuare lo stesso discorso. Ma chi viaggia pensa alla

meta. Ma quale è la meta di Ulisse secondo Mario

Specchio? Tornare a Itaca a fare il re? Il marito? Il padre?

Secondo Zografidou “Ulisse è un avventuriero e rimarrà

sempre inquieto, pieno di voglia di cercare nuove mete e

nuove destinazioni” e il suo viaggio non potrà finire mai.

“Non durerà più di un momento il vento - scrive Specchio

- già raccoglie le forze alza le vele”. Ulisse sempre si

volge verso nuove avventure. Scrive Ladrón de Guevara:

“Ulisse è la giovinezza, l’ardire, l’osadia, la furbizia, ma

anche la stanchezza di chi ha viaggiato tanto e vuole

soltanto riposare in terra (seguendo l’interpretazione

dell’oracolo) - e al di là delle braccia di Penelope trova

pace all’interno dell’olivo, magico albero della nostra

mediterraneità”.

Una mediterraneità da cui trae linfa vitale tanta poesia

novecentesca il cui patrimonio poetico-letterario

rappresenta quasi una eredità che, in maniera non

infrequente, è lasciata “un po’ troppo nell’oblio”, come

sostiene Domenico Pisana con la sua relazione “Verso un

nuovo umanesimo: dall’interiorità alla realtà”. Ci si chiede

insistentemente se la poesia abbia ancora un ruolo nella

società. Il poeta irlandese Seamus Heaney (1939 – 2013),

nel corso della sua prolusione30

letta nel 1995, al momento

30

Seamus Heaney, Sia dato credito alla poesia, a cura di Marco

Sonzogni, Milano, Archinto, 1997, pp. 71.

35

di ritirare il premio Nobel per la letteratura, ebbe a dire

che la parola ha una funzione reale, concreta, di relazione,

ovvero, diretta con la realtà, col mondo vissuto, mentre la

poesia, “onesta e fedele” (come sostenne anche Saba),

riesce a “creare un ordine fedele all’impatto della realtà

esterna e rispondente alle leggi interne dell’essere del

poeta”. Per Pisana la poesia rappresenta “un’ancora di

riferimento importante, ancora oggi, nel passaggio al

Terzo Millennio”, ponendosi come una sorta di sfida

antropologica: quella di far comprendere il valore della

poesia rispetto alla condizione esistenziale dell’uomo. La

poesia non può più limitarsi a poetizzare la realtà, a

descrivere e narrare il mondo, ma deve ripensarsi e

rifondarsi. Da qui l’esigenza di ricercare orizzonti di

speranza e di cambiamento. La visione poetica di Pisana

sembra porsi quasi come una sorta di varco

“soteriologico” attraverso il quale spingere l’uomo di oggi

verso un neo-umanesino con una prospettiva in cui la

parola poetica diventi una sorta di “atto profetico” in

grado di aiutare l’uomo a leggere dal di dentro se stesso, i

suoi rapporti con l’altro e con la società. Quest’ultima,

sebbene sia contrassegnata da tante positività, presenta

non poche caratteristiche negative che Pisana, anch’egli

poeta, fa convergere nella metafora del naufragio dove

l’uomo è il naufrago stesso che perde motivazioni,

sentimento e valori; e a naufragare sono anche le

istituzioni cui si accompagna altresì lo sgretolarsi delle

fondamenta che sorreggono la coesione sociale.

Il poeta oggi è colui che con i suoi versi deve entrare

dentro le macerie interiori della vita per riorganizzarla,

mentre la poesia del nostro tempo è chiamata a suscitare

domande di senso sulla necessità per l’uomo di ritrovare

l’anima rubata da relazioni di solitudine. Ed è proprio

36

all’interno di questa visione che occorre aprire un nuovo

varco verso cui orientare la poesia del nuovo millennio,

quasi con l’intento di determinare il passaggio da una

“poesia elitaria” ad una “poesia per tutti” capace di

contribuire ad “innalzare il livello qualitativo dell’uomo

del nostro tempo”.

Un tempo, quello presente, contraddistinto da un rapido

susseguirsi di avvenimenti e che, comunque, si fa carico –

con una tendenza alla riflessione e all’introspezione

storica31

- di ricordare le nefandezze delle guerre e

stermini di massa che hanno marcato l’Europa del XX

secolo. Un continente “incendiato e distrutto, in seguito

ricostruito ma nuovamente disseminato di odi e di orrori

fino alla incredibile rinascita degli anni ‘60”, come fa

riflettere Carmelo Mezzasalma col suo contributo

“Mario Specchio (1946-2012) e il suo Novecento”. Una

civiltà, dunque, che ha sofferto nel suo itinerario ma che è

stata in grado di cambiare fisionomia seguendo la scia di

rivoluzioni industriali e tecnologiche contrassegnando

“l’avvento di una nuova era post moderna”. E la letteratura

creativa come ha vissuto le poliedriche trasformazioni del

‘900? Su tale problematica Mezzasalma si sofferma

ponendo l’accento su interrogativi e riflessioni che

prendono in considerazione quella “effervescenza”

letteraria in continua evoluzione a partire dalla prima metà

del secolo scorso e che attraversa i decenni successivi con

una prospettiva in cui si affacciano non pochi nomi

“consacrati e riconosciuti”. E’ un periodo di grande

31

Peter Carravetta, “La questione dell’identità nella formazione

dell’Europa”, in AAVV, La letteratura europea vista dagli altri,

Franca Sinopoli (a cura di), Roma, Meltemi editore srl, 2003, pp. 19

– 66.

37

fermento il cui itinerario conosce momenti di

“navigazione incerta” con la tragica scomparsa di Pier

Paolo Pasolini, figura di grande spessore e, come scrive

Alberto Moravia, “poeta che aveva segnato un’epoca, un

regista geniale, un saggista inesauribile”.32

Non è facile

tracciare un bilancio letterario, ma anche politico-morale,

del Novecento italiano. Il giudizio espresso da Cesare

Segre (1928-2014)33

si presenta “amaro e sconsolato” (pur

nella consapevolezza che si tratti, probabilmente, di una

fase “transitoria”), fotografando, per così dire, “la nostra

realtà e lo stato di indifferenza generale che circonda la

nostra idea cultura”, come annota Mezzasalma. Tra le

esperienze letterarie che hanno cercato di opporre

“resistenza” a tale declino, fornendo “un’immagine di

letteratura” diversa e più autentica, si può inserire la

“parabola letteraria” intensa e significativa di Mario

Specchio, scrittore e poeta della cerchia culturale e poetica

di Mario Luzi, docente dell’Università di Siena.

Ricercatore di Lingua e letteratura tedesca ad Urbino,

riesce a far convivere il suo spirito di studioso con quello

di raffinato saggista, narratore e creativo. La cifra, genuina

e intensa, di tutta la “parabola creativa” di Mario

Specchio è l’aver scelto una “dimensione tragica del fare

letterario in un tempo che fa di tutto per allontanare da sé

il tragico del vivere”. È la “resistenza romantica che il

32

Su “L’Espresso” del 9 novembre 1975, a pochi giorni dalla morte di

Pasolini, Alberto Moravia scrive un attento ritratto del grande poeta

che trova la morte in maniera tragica, ripercorrendone la storia e la

personalità (cfr. “Pasolini. Un ricordo di Alberto Moravia del

novembre 1975”, consultabile anche sul sito web : http://www.centro

studipierpaolopasolinicasarsa.it/molteniblog/pasolini-un-ricordo-di-

moravia-del-novembre-1975/). 33

Cesare Segre, Tempo di bilanci. La fine del Novecento, Torino,

Einaudi, 2005, pp. 322.

38

poeta ha perseguito e colto lungo le fasi della sua

avventura esistenziale” di uomo e di poeta, che ha saputo

mettere “il vino nuovo nei vecchi otri”34

seguendo alcuni

modelli ben riconoscibili in una linea cosiddetta “laterale”

della poesia del ‘900 formata da Umberto Saba, Camillo

Sbarbaro e Vincenzo Cardarelli.35

Uno dei più significativi e originali poeti contempora-

nei è Valerio Magrelli (classe 1957) la cui lirica è “attra-

versata da una forte tensione speculativa”. Una poesia –

come esordisce Antonio Di Silvestro con “Il corpo, il

testo, il pensiero: messaggi dalla poesia di Valerio Ma-

grelli” – che parla del “rapporto di distanza tra sé e il

mondo”. Il suo esordio è datato 1980 con Ora serrata

retinae (Feltrinelli, pp. 107), titolo che sembra l’emistichio

di un verso di Virgilio, ma in effetti è il “margine frasta-

gliato della retina”, ovvero la linea oltre la quale l’occhio

risulta percettivo. Motore primario della poesia è proprio

la percezione di sé. L’attenzione del poeta è, pertanto,

rivolta a sottolineare il rapporto ambiguo che c’è tra lo

sguardo e gli oggetti. Attraverso l’uso di un lessico preci-

so, che tenta di penetrare dentro gli oggetti, un lessico che,

in maniera non infrequente, si rivela scientifico e una

sintassi limpida, il poeta compie una sorta di investigazio-

ne razionale di ciò che lo sguardo riesce a vedere e perce-

pire. In effetti il tentativo è quello di tradurre in scrittura la

percezione visiva di un mondo assolutamente materiale.

34

Così scrive Mario Luzi nella prefazione al libro dell’allora giovane

poeta Mario Specchio A piene mani, Firenze, Nuovedizioni E.

Vallecchi, 1979, pp. 74. 35

Sandra Evangelisti, “Specchio Mario. Da un mondo all’altro”,

riflessioni critico-letterarie pubblicate in data 08.06.2010 sul sito web

http://www.lankelot.eu/letteratura/specchio-mario-da-un-mondo-all

altro.html#comment-58683.

39

Non a caso l’utilizzo delle parole “pensiero, corpo, carne,

membra” sono caratterizzate da una certa ricorsività.

Nell’ultima sua raccolta, Il sangue amaro (2014), affronta

un ampio ventaglio di argomenti. Si va da poesie su artisti,

poeti o amici, a una sorta di iper-testo sul tema della lettu-

ra. Quello di Magrelli è una sorta di “pensiero-corpo-

scrittura semantizzato nelle parole della poesia”. Nel fare

poesia, oltre che con le contraddizioni e le ferite della

quotidianità, egli fa i conti col mestiere del poeta.36

Un mestiere che, non di rado, si rivela molto articolato

e foriero di amicizie sincere anche fuori dal proprio

territorio di origine. E’ il caso del fiorentino Mario Luzi

(1914-2005), uno dei più grandi protagonisti della cultura

europea, testimone attento e acuto delle vicende che hanno

attraversato il Novecento, un poeta che con i versi

coltivava anche un autentico e profondo impegno civile.37

Commosso e coinvolgente si rivela il ricordo personale di

Piero Longo, suo amico ed estimatore, che con la

relazione “Palermo nella Poesia di Mario Luzi” offre

36

Illuminanti, a tale riguardo, sono le riflessioni riportate da:

Giovanni Accardo, “Valerio Magrelli: dal silenzio del poeta al

sangue amaro”, Minima&moralia, 25.05.2015, pubblicata on line su

http://www.minimaetmoralia.it/wp/valerio-magrelli/; Giorgio Lin-

guaglossa, “Poesie scelte di Valerio Magrelli da “Il sangue amaro”

(Einaudi,2014) con un commento di Giorgio Linguaglossa”,

27.09.2014, consultabile su https://lombradelleparole.wordpress.com

/2014/09/27/poesie-scelte-di-valerio-magrelli-da-il-sangue-amaro-

einaudi-2014-con-un-commento-di-giorgio-linguaglossa/. 37

Può risultare impresa ardua affrontare l’opera luziana. A tale

riguardo si rimanda a: Mario Luzi, L’opera poetica, a cura di Stefano

Verdino, Milano, Mondadori, 2001, 4ª edizione, pp. 1908; Antonio

Spadaro, “Il viaggio di un estremo principiante. La poesia di Mario

Luzi”, La Civiltà Cattolica, quaderno 3756, 16 dicembre 2006, IV, p.

554-567.

40

un’immagine privata e, nel contempo, piena di riferimenti

colti del poeta. Inevitabile il riferimento alle numerose

“memorie panormitane” presenti nella poesia luziana che

ancora dimorano nell’animo di Longo testimone del “suo

amore e abbaglio” per il capoluogo siciliano. Una Palermo

adorata per l’aspetto talora misterioso, enigmatico, quasi

esoterico, pur non ignorando i suoi mali38

(“[…] officina

di crimini e di morte”). Un vincolo affettivo forte e

schietto con la città, ma soprattutto con un gruppo di poeti

e scrittori palermitani che a Luzi guardano come un

maestro. E che Luzi considera veri amici. Gli piace

coltivare con familiarità i rapporti che ivi aveva saputo

intessere, anzi alcuni li rappresenta in celebri versi. Tali

rapporti si ampliano in maniera tale che finisce pure per

comporre due opere assolutamente palermitane: il Corale

della città di Palermo per Santa Rosalia (Rrrusulia, come

lui si divertiva a pronunziare con intonazione sicula) e il

Fiore del dolore, sulla vicenda del martirio di don Pino

Puglisi.39

Quello tra Mario Luzi e Palermo, pertanto, si

rivela come un rapporto così intenso che, nella fase

conclusiva della sua lunga vita, lo porta a prediligerla alla

sua Firenze.40

Percorrere il Novecento letterario e interrogarsi sulle

38

Salvatore Ferlita, “Mario Luzi palermitano di Firenze”,

quotidiano la Repubblica, 08.02.2007, consultabile on line in

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2007/02/08/

mario-luzi-palermitano-di-firenze.html. 39

Elio Giunta, “Mario Luzi, il ricordo del grande poeta che amava

Palermo”, pubblicato sulla testata giornalistica on line http://

palermomania.it, 22.10.2014. 40

Redazionale, “Omaggio, nel centenario della nascita, al poeta

Mario Luzi”, pubblicato sulla testata giornalistica periodica

http://trinacrianews.eu, 28.11.2014.

41

correlate implicazioni socio-culturali comporta uno sforzo

non indifferente anche in funzione del concetto di

“letteratura contemporanea”. Al riguardo Andrea

Guastella, con il suo contributo “Il luogo delle origini”,

propone delle riflessioni affermando che la “grande

letteratura è sempre contemporanea” perché rispecchia “un

mondo e ha in sé le domande – mai le risposte – più

urgenti che esso ci rivolge”. Il primo gruppo di quesiti

riguarderà “l’identità, l’appartenenza, il luogo delle

origini”. Il senso di appartenenza al luogo è un sentimento

complesso che non abbraccia semplicemente il paesaggio

quanto piuttosto il luogo in tutte le sue dinamiche e in tutti

i suoi aspetti.41

Ma qual è il nesso tra appartenenza e

identità? Per rispondere a questa domanda può essere

d’aiuto la riflessione del sociologo Gasparini, secondo il

quale l’appartenenza, definita come “un sentimento attivo

di legame, che implica attaccamento (emozionale), e

quindi sviluppa una lealtà a qualcosa cui si appartiene”, si

fa mezzo “di affermazione o di adesione a una identità”.42

Il territorio, dunque, è portatore di segni. Alla letteratura il

compito di interpretarli svolgendo il ruolo di intermediario

di eccezionale ricchezza.43

Si instaura, in tal modo, una

41

Alessia De Nardi, Il paesaggio nella costruzione dell’identità e del

senso di appartenenza al luogo: indagini e confronti tra adolescenti

italiani e di origine straniera, tesi discussa al Dipartimento di

Geografia “G. Morandini”, Scuola di dottorato in Territorio,

Ambiente, Risorse, Salute, indirizzo “Uomo e Ambiente, Università

degli Studi di Padova, 2010, pp. 40-105. 42

Alberto Gasparini, La sociologia degli spazi. Luoghi, città,

società, Roma, Carrocci Editore, 2000, p. 143. 43

Armand Frémont, La Région: espace vécu, tradotto in italiano con

La regione: uno spazio per vivere, edizione italiana a cura di Marica

Milanesi, Milano, F. Angeli, 1988, pp. 203; Fabio Lando, “La

geografia umanista: un’interpretazione”, Rivista Geografica Italiana,

119 (2012), n. 3, pp. 259-289.

42

sorta di “geografia umanistica” in cui la letteratura abbia

la capacità di sintetizzare l’oggettività del “senso del

luogo” e la soggettività culturale dell’uomo, quindi

quell’insieme di relazioni più o meno affettive che legano

gli esseri umani ai luoghi. Tale coinvolgimento, emotivo e

nel contempo affettivo, Guastella lo ritrova “leggendo qua

e là” tra i versi inediti del poeta ibleo Emanuele

Schembari.

Nel sottile confine tra letteratura e pittura, tra campo

poetico e quello delle arti figurative, si colloca la figura di

Luigi Filippo Tibertelli de Pisis (Ferrara 1896 – Milano

1956). Un uomo col pennello, i colori sul tavolo e una

notevole capacità lirica pronta ad emergere dirompente

dalla sua vivace ed inquieta anima letteraria. Peculiarità,

queste, inscindibili della personalità del “marchesino

pittore”, capace di utilizzare in modo quasi

interscambiabile sia l’arte del pennello sia la parola.44

A

sessant’anni dalla scomparsa, viene da chiedersi quanto la

ricca e poliedrica produzione letteraria dell’artista sia

effettivamente conosciuta e se la versatilità del suo

contributo trovi adeguato riscontro nelle storie letterarie

del Novecento italiano.45

A percorrere quell’orizzonte

“apparso subito frastagliato da quell’intima avversità

congenita per destino d’uomo”, in quel voyage

“mirabilmente sospinto dalla sua non indifferente forza

propulsiva nata, non da illuminanti verità, piuttosto dal

possesso di un estremo e pulsatile bagaglio di fragilità”, è

Aldo Gerbino con le sue riflessioni su “Cuore ombroso.

44

Federico Poletti, “Filippo de Pisis”, Minuti, n. 324, marzo 2006,

pp. 1-2. 45

Andrea Sisti, “Filippo de Pisis: postille a una bibliografia degli

scritti”, Nuova informazione bibliografica, ediz. Il Mulino, 1/2016,

gennaio-marzo, pp. 165 – 170.

43

Fiori. Filippo de Pisis: parole, pigmenti”. Quella

dell’artista è una pittura che si fa lirica, un segno che si

trasfigura in pura poesia.46

De Pisis è il pittore delle cose.

Intese, trasfigurate dall’ispirazione. Pesci, fiori, oggetti.

Gesti, apparenze, ombre “leggiere / sui muri bianchi e

grigi / del ricordo”. Nella sua città natale instaura il suo

sodalizio con De Chirico, Savinio e Carrà.

“Un’educazione ferrarese ben immersa nella sua città –

rileva Aldo Gerbino – tenendo presenti i maestri della

pittura a cavallo tra Otto e Novecento”. Poi la tappa

romana, nel ‘20, e quella parigina, dal ‘25 al ‘39, infine

Milano e Venezia (1943-’49), prima che il “male oscuro”

di cui soffriva si palesasse nella sua tragica violenza. E’ lo

scrittore Giovanni Comisso a registrare nel libro “Mio

sodalizio con De Pisis” (1954) l’incredibile storia artistica

di questo artista multimediale (almeno per quanto lo

consentivano i mezzi di allora). Comisso, con grande

abilità, trasforma un epistolario tra amici, de Pisis e lui, in

un coinvolgente racconto che attraversa due dopoguerra e

in mezzo una guerra mondiale, la seconda. Con

l’aggravarsi delle condizioni di salute di Filippo de Pisis

la storia finisce. Nel diario comissiano si legge: “Le nostre

opere sono le orme dei nostri passi mentre si cammina

nella vita. Egli non cammina più e non lascia più orme”.

I motivi non solo per amare, ma anche per studiare

l’arte di de Pisis non mancano, tanto più se si cerca di

assemblare i pezzi di questo Novecento. Secolo che sarà

anche stato “breve”, non lineare e confuso, ma che ricorda

tanto la Senna della poesia I fiumi47

di Ungaretti, cioè un

46

Laura Larcan, “Novecento italiano. De Pisis, il poeta”, in

http://www.repubblica.it, 07.03.2006. 47

Celebre poesia che compare nella raccolta L’Allegria (Milano,

Preda 1931, pp. 163) in cui Giuseppe Ungaretti rievoca, con i propri

ricordi personali, i fiumi che hanno accompagnato la sua vita.

44

fiume nelle cui acque torbide è necessario bagnarsi per

capire veramente chi siamo:

Questa è la Senna

E in quel suo torbido

Mi sono rimescolato

E mi sono conosciuto

45

IL SECOLO CHE NON C'E':

UNO SGUARDO DAL TERZO MILLENNIO

di Giovanni Occhipinti

I

Il mio intervento, un po' gridato, ma col graffio qua e

là, del pamphlet, è un excursus storico su un ″pezzo″ di

Novecento veicolato dall’incontro di oggi, che vuole

essere, in certo senso, un test sul secolo trascorso, ma

anche una riflessione sui motivi e i valori di quella

letteratura e dei Maestri della critica interessati allo

sperimentalismo strutturalista e della linguistica in un

momento in cui si manifestava il declino della civiltà

contadina e i braccianti della terra dal Sud andavano alla

ventura per inurbarsi al Nord, dove fioriva già la civiltà

dell'industria, improvvisandosi operai nelle fabbriche.

Rifletteremo anche sulla temperie storica nella quale i

poeti nati a partire dal 1935 (mi riferisco ai poeti della

cosiddetta ″Quinta Generazione″), passano spesso

inosservati dalla grande critica, specie quelli delle

″periferie″ geografiche della Penisola, e dai Centri del

potere editoriale.

Da quindici anni viviamo le problematiche, difficili e

complesse, del terzo millennio, il quale già affronta e

subisce l'accelerazione della Storia, come ricorda

l'antropologo Marc Augé (cfr: Genio del paganesimo,

Bollati Boringhieri, 2008; Où est passé l'avenir, edition

Panama, 2008). Siamo, dunque, in una fase nuova e

straordinaria di mutazione, una fase epocale, si direbbe; la

società occidentale rischia di implodere nella grande

46

confusione di voci che si affollano, si sovrappongono,

interagiscono babelicamente come nell'amplificazione di

un gigantesco interfono. Sono voci che chiedono e

vogliono soprattutto ″uniformarsi″ in una voce comune e

universale, come una grande lingua e un grande

linguaggio che siano allo stesso tempo di ″uno″ e di

″tutti″, animati dalla curiosità di conoscere e di conoscersi,

per finalmente riconoscersi nell'unica, insostituibile

dimensione umana.

″[...] pensiero e azione possono aiutarci a cercare il

bene comune, rinunciando a inseguire i piccoli egoismi e

le miserie legate al nostro particulare [...]″: ce lo ricorda

Pierre Hadot, sottolineando l'importanza di ″una vita più

razionale che ci consenta di aprirci agli altri e di sentirci

parte integrante dell'immensità del mondo″.

Traspare, qui, un concetto della cultura letteraria e

poetica già intuito da Heidegger e sviluppato nei Quaderni

neri, dove il filosofo accenna all'informazione planetaria

legata alla globalizzazione.

Ecco un tema a cui dovrebbe alimentarsi la poesia di

oggi. Urge, infatti, aprire gli occhi all'epica del mondo,

che già intravediamo dalla complessità delle nuove

poetiche globali. La letteratura si planetarizza e noi non

possiamo che prendere atto del fenomeno e favorirlo

attraverso strumenti più aperti -e di punta- dell'espressione

della parola del mondo, della sua voce e della sua

memoria. Oggi, non interessa tanto la lettura dell'uomo

regionale, come accadeva negli Anni Cinquanta-Sessanta-

Settanta, quanto invece la lettura dell'Uomo, tutto l'uomo,

proprio attraverso i poeti del mondo in una stessa epoca.

Una lettura sincronica che possa scendere nelle profondità

della poesia, passando, appunto, per la memoria del

mondo, scrutandolo nell'attualità della sua storia.

47

Non abbiamo ancora dimenticato la novità e

l'effervescenza di quella letteratura impegnata e

politicizzata e poi battagliera e d'attacco (alludo al

″Gruppo '63″), che ci indignò e ci fece fremere sfidando e

segnando la storia del Secondo Novecento, voltando le

spalle, con la sua controcultura, ai Maestri del Primo

Novecento e dissennatamente degenerando nella violenza

e nel terrore delle falangi sovversive e ordinoviste che

pretendevano di cambiare il mondo e riscrivere la

letteratura attraverso lallazioni, nevrosi sintattiche,

epilessie del verso, sperimentando una parola nuova e

destabilizzante, un linguaggio ribelle che suonasse come

sberleffo e scherno al sistema socio-storico e politico e alla

stessa poesia, ″superata″, dei Maestri che si erano opposti,

prima ai Crepuscolari e più tardi alla fanfara marinettiana

e futurista, che sarebbe divenuto oggetto della

pubblicistica fascista; non solo, ma rinunciando ai

maggiori rappresentanti della poesia del dopoguerra, che

nelle sue istanze e nei suoi traumi aveva percorso l'Europa.

II

Oggi, nell'oggi di questo nostro terzo millennio, la

letteratura sembra cercare il successo mediatico; anzi, è

tale se raggiunge il successo mediatico. Siamo convinti

che le Classifiche48

che favoriscono questo successo

nullificano il valore del pensiero critico, mentre la scena

letteraria si opacizza e tace. Tutto diviene evanescente e

stagionale, e il linguaggio tende a spegnersi in una deriva

48 Sul ″Corriere della Sera″ del 12 ottobre di quest'anno, leggo di un

libro di giardinaggio, scritto in un fine settimana e zeppo di errori,

arrivato ai primi posti della classifica dei bestseller della categoria.

Ciò, è scandalosamente fuorviante!

48

di insignificanza, ponendoci di fronte a una letteratura di

fuochi fatui...

Vorrei aggiungere, a queste riflessioni, una battuta di

un grande critico letterario, a livello mondiale: Harold

Bloom, il quale, non molto tempo fa, intervistato da

Alessandra Farkas a Manhattan, a proposito del destino,

oggi, della letteratura, risponde: ″Basta dare un'occhiata

alle classifiche dei libri più venduti per vedere che

bestseller e spazzatura sono ormai diventati sinonimi″;

sulla stessa linea è lo scrittore ed editore tedesco Michael

Krüger: ″[...] pubblicano tanta robaccia [...]″. Ma anche

Pier Vincenzo Mengaldo parla di ″stasi creativa″

nell'ambito della letteratura dei nostri giorni.

Chiediamoci, allora, se la tradizione novecentesca si sia

estesa, attraverso la memoria culturale, al terzo millennio e

se esista un risultato innovativo o la novità della

trasmissione culturale. In modo più esplicito: quali sono i

temi fondamentali della nostra epoca? Riepiloghiamoli

attraverso la scommessa dell'indagine, riaffacciandoci al

secolo trascorso. Per esempio, potrà mai dialogare la

poesia di oggi con quella di ieri? ha un senso, oggi, la

letteratura in un mondo non letterario, se non anti

letterario, nel quale vengono pubblicati tanti libri (una

vera e propria invasione, affinché si dica che il mercato

tiene) e se ne vendono pochissimi, ma col marchio di

garanzia della notorietà dell'autore (insapori, scialbi,

sciatti), che soffrono la patologia del blocco creativo dei

loro artefici? Gli addetti ai lavori giustificano il fenomeno

col dire che i libri, in fondo, non sono in grado di

modificare la nostra realtà culturale. Allo stato attuale

delle cose, ci convinciamo sempre più che l'editoria è

diventata incapace di darci il grande libro di questo secolo.

Gli editori storici sono rimasti confinati nel '900, mentre i

giovani editori cercano di inventarsi un'editoria nuova e

49

indipendente, che prenda le distanze dai Gruppi editoriali.

La mediocritas celebrata dalle trombe e dai tamburi di

tanta critica continuerà forse a imporsi, affermandosi a

sostegno e a gloria dell'effimero.49

Dovremo rassegnarci a leggere ciò che continueranno a

proporci troniste, veline, vallette, olgettine, cantautori,

cantanti, politici e ogni Cincinnato che dal proprio

orticello concluso si affanni a dirci la sua sul fallimento

della politica italiana davanti agli occhi di un'Europa

indifferente e insofferente, che sembra fare l'eco a un

mondo sempre più ostile e infido? Quanti fatti, quanti

problemi, quante trepidazioni per le pagine della nostra

letteratura di questo nuovo millennio, e noi che

continuiamo ad ascoltare i vagiti di tanti libri di nessuno,

avendo ancora dentro l'eco perdurante dei Maestri del

secolo trascorso e, insieme, il chiasso di un'editoria (molti

direttori editoriali andrebbero sostituiti per la loro inerzia e

indifferenza ai nuovi motivi che caratterizzano il 3°

millennio) che sbandiera i cosiddetti nuovi autori, che

dànno false risposte alle nuove domande e aspettative di

questo nuovo torno di tempo, le cui promesse viaggiano

sulle ali di un pensiero talora tracotante che finisce a

esaltare il calcolo, l'inconsistenza, l'inconcludenza,

l'aggressività. E in questo clima, si illude, l'editoria, di

soddisfare un mercato e una richiesta che però nella realtà

non possono esistere. Ne segue il condizionamento delle

voci poetiche e narrative del nostro tempo, alle quali viene

attribuita poca o nessuna considerazione. Una nuova

soluzione al problema ci porterebbe a pensare

49 Le recensioni non sono infatti indicative di niente, oggi, e la critica

letteraria dovrebbe essere affidata agli specialisti. E' voce corrente che

a Londra, per una manciata di euro, sia possibile ottenere una

recensione; tre recensioni per dieci dollari; due per cinque sterline.

50

all'opportunità di creare una forza d'urto contro l'attuale

cultura italiana, che ristagna nelle stanze dei fabbricanti di

libri e di conseguenza contro il prodotto, appunto,

dell'orientamento editoriale, che sembrerebbe avere una

sola mira: vanificare la grande opera di ricerca e

affermazione dei motivi che fecero grande, per novità e

intensità di vissuti, di stile e contenuti, la letteratura e

l'intellighenzia creativa del trascorso secolo.

Oggi, noi speriamo in una politica culturale più saggia

e con una ben precisa identità, che stimoli e conservi il

gusto per la lettura, e che non ci induca a ricorrere

all'alternativa della letteratura straniera: israeliana o

palestinese o latino-americana o francese o pakistana e

così via. In questo discorso rientra a pieno titolo la poesia,

quella, oggi, dei vecchi misconosciuti che subirono l'onta

dell'indifferenza da parte del manipolo avanguardista (il

riferimento è agli anni Sessanta -il '68, per la precisione -),

che per i suoi principî e programmi battaglieri, anche al di

là della questione linguistica, o stilistica e del linguaggio,

non sapeva cosa farsene di una poesia che aveva i suoi

ascendenti nei Maestri del Novecento. Una poesia di tal

fatta, mai sarebbe stata organica ai movimenti e

programmi della Nuova Avanguardia, la quale trasferiva

nell'ideologia, insieme ai suoi arrabbiati miagolii, l'azione

alla quale assisteremo ben chiaramente negli anni Settanta,

dopo gli sviluppi e l'affermazione della propaganda

politica sessantottesca.

Ne seguiva una scelta, da parte della ″Quinta

Generazione″, che si concludeva nell'isolamento e nel

rifiuto degli sperimentalismi in poesia (per esempio, lo

strutturalismo), peraltro confortati dal diffondersi di teorie

linguistiche (cfr. R. Barthes, Noam Chomsky, Ferdinand

de Saussure) che percorrevano l'Europa. La ″Quinta

Generazione″ di poeti italiani continuò per la sua strada,

51

ferma nel proposito di considerare la poesia come

inquietudine interiore e sguardo sull'aspetto segreto e

lontano delle cose e della terrestrità, in rapporto

all'invisibile della trascendenza, insomma una poesia

ferma nel proposito di respingere i manifesti anarcoidi

dello sperimentalismo della Neoavanguardia che negli

anni Settanta, come ricordavamo, sarebbe esplosa nel

ribellismo sociale e nell'azione sovversiva e terroristica

(Brigate rosse, caso Moro).

In altri termini, la poesia-manifesto dei neo-

avanguardisti ebbe il solo scopo di propagandare la sua

″rivoluzione″ contro un sistema socio-politico ritenuto non

più possibile e indigesto da tanti rampolli borghesi, che

giocavano occupando le Università e bivaccandovi perché

non avessero corso le lezioni. Non avevano certo il

problema dell'effimero dell'esistenza, ma l'ambizione del

comando sostenuto da un potere forte e magari nelle

poltrone dei centri di potere.

Non è dunque né fuori luogo né fuori tempo una

scorsa, oggi, al secolo che non c'è, attraverso le opere

letterarie che ne hanno segnato il corso insieme alle guerre

e alle tirannie e alla barbarie.

Da noi, il bubbone del Fascismo che nel ventennio

costruì -decostruendo- labirinti di utopie e incalcolabili

calamità: si pensi allo squadrismo, al confino, al sinistro

connubio Mussolini-Hitler, ai folli e sanguinari nazi-

fascisti, ai forni crematori di Auschwitz e Dachau, alla

risiera di San Sabba, lager nazista con forno crematorio in

Italia, ricordando Se questo è un uomo di Primo Levi, e si

pensi alla Seconda Guerra mondiale.

Al contrario, il terzo millennio, in Europa, ha solo

sentito parlare di guerre nelle lontane (ma non tanto,

oggi!), contrade mediorientali e afro-asiatiche e di

sanguinose, inumane dittature, da cui fuggono popolazioni

52

di migranti, i disperati senza domani e senza terra che

tentano la folle fuga, vittime e ostaggi dei Caronte briganti

che non temono di inabissarli nel nostro biblico mare o di

soffocarli nel fumo di monossido della stiva di carrette del

mare; fuggiaschi alla mercé di mostri trafficanti di anime,

nel nome di un dio complice e più di loro mostruoso.

Oggi tutto sembra essere concepito in maniera che il

mondo guardi altrove, onde dare tempo e modo a tanti

criminali mediorientali di sopprimere, cancellare l' ″altro″,

sperimentando l'efficacia di cinture esplosive e dei gas

nervino e sarin; o la precisione di mortai, i cui proietti

giungono silenziosi e improvvisi sul popolo inerme.

Ebbene, mi pare sia anche questa la materia prima da cui

dovrebbe trarre nutrimento la letteratura di oggi,

impegnata e civile.

III

Il malessere della poesia e della narrativa di questo

nostro tempo mette naturalmente in crisi di riflesso la

critica letteraria onesta per il disagio determinato e

aggravato da orientamenti editoriali interessati soltanto

alla domanda del mercato, peraltro, come si ricordava,

influenzato dalla stessa editoria. Il rischio che potrebbe

seguirne, e che ci pare già di intravedere, potrebbe essere

un prodotto narrativo, consumistico e omologato, e

dunque una paccottiglia ipocritamente accettata da quella

critica interessata e compromessa, al punto che non sa

ribellarsi all'andazzo editoriale e oserei dire ai dictat

dell'editoria che continua a contare, quella che dispone di

Testate importanti e altri mezzi di divulgazione, che fanno

gola soprattutto a critici di primo pelo, talvolta con

problemi assillanti di occupazione, perciò costretti a

53

ignorare i problemi cruciali della cultura e della storia

attuali.

Bisognerà prendere atto che il nuovo secolo rischia di

celebrare, suo malgrado, insieme a una moltitudine

incolore e anonima (anche in area politica), il trionfo dei

silenzî letterarî, che vivono l'azzardo di un'editoria che si

ostina a divulgarli. Sembrerebbe un paradosso surreale: i

silenzî letterarî divulgati! Epperò, come si fa a negare un

libro a un giocatore di pallone o a una spogliarellista o, per

esempio, a un politico decaduto e in vena di confessioni

circa i misteri di certa politica da Beati Paoli?!

C'è un'editoria giovane e con tanto desiderio di

emergere e onorare la letteratura che merita, ma che

alcuni vecchi direttori editoriali, purtroppo, fanno fatica a

considerare.

Concludiamo, osservando anche che, in tutto questo

azzuffarsi di situazioni e di fatti, la Sicilia letteraria è stata

particolarmente penalizzata, come non bastasse,

dall'arbitrio della dotta ignoranza di qualche antologiasta

che andava approntando vetrine e vetrinette di ″nordiche″

poesie, volutamente ignorando che l'Italia finisce a

Lampedusa.

Sorprende non poco, allora, l'articolo del siciliano

Paolo Di Stefano sul ″Corriere della Sera″ del 9 agosto

2015, a proposito della poesia del Novecento. Di Stefano è

bravo ed è uno dei pochi giornalisti letterati -oltre che

autore di apprezzabili romanzi-, che opera da pari suo

sulla ″terza″ del prestigioso giornale lombardo; tuttavia,

lascia l'amaro in bocca il suo elenco di poeti, che non solo

prende in considerazione la poesia inesistente di un certo

Cucchi e del compagno di strada Riccardi (entrambi, per

fortuna, non più alla Mondadori), ma dimentica, come

accade spesso al Nord, la presenza di poeti siciliani come

A. Maria Ripellino, Bartolo Cattafi, Santo Calì, Stefano

54

D'Arrigo, Giuseppe Zagarrio, Giuseppe Bonaviri, Stefano

Vilardo, Sebastiamo Addamo, Armando Patti, Alfonso

Campanile, tutti degli anni Venti; e nel suo elenco, a

proposito dei poeti degli Anni Trenta, cita soltanto la brava

Jolanda Insana. Dimentica, il Nostro, gli altri siciliani:

Antonino Cremona, Basilio Reale, Andrea Genovese,

Alfonso Zaccaria, Emilio Isgrò, Emanuele Schembari,

Lucio Zinna, Carmelo Pirrera e altri ancora; e tra i poeti

degli anni Quaranta salta Angelo Scandurra, Stefano

Lanuzza, Aldo Gerbino, Salvatore Martino, Donata

Passanisi, Carmelo Mezzasalma e altri. L'elenco sarebbe

lungo, ma preferisco fermarmi qui, non prima di aver

citato Letizia Dimartino. Sono certo che Di Stefano, da

buon avolese trapiantato a Milano, condivide con me

l'incompletezza dei suoi elenchi sui rappresentanti della

poesia del Novecento siciliano e italiano.

E' vero anche che la nostra geografia ci decentra

rispetto ai luoghi del potere editoriale, lasciandoci

dormicchiare in periferia. E' forse per questo che il

professore padovano, Pier Vincenzo Mengaldo (1936), che

negli anni Settanta dalla sua antologia escluse Bartolo

Cattafi, oggi non riesce a vedere altri poeti, oltre ai bravi

Milo De Angelis e Valerio Magrelli, sul cui spessore

naturalmente concordiamo.

Il mondo, nel frattempo, si è arricchito di altri poeti

che onorano la poesia anche di questo terzo millennio e

anche se... ″siciliani″ e anche se fuori dalle agende

editoriali che malgrado tutto continuano a contare, anche

se non sempre cantano!

L'attualità del terzo millennio è fatta dall'uomo della

realtà globale e letteratura, poesia, arte, politica, progresso

abbracciano ed esprimono queste realtà, già oggetto

d'indagine da parte della sociologia della letteratura,

55

soprattutto per ciò che concerne le nuove prospettive, nel

bene e nel male, della globalizzazione e del conseguente

flusso di circolazione di temi, motivi, fatti storici ed

esistenziali, provenienti dalle civiltà in cammino del

mondo e, nello specifico, dalla trasmigrazione delle

poetiche che distinguono questo nuovo secolo dal

trascorso Novecento.

56

57

TRE RIFLESSIONI SULLA POESIA

di Rodolo Di Biasio

Il mio intervento si articola in tre brevi e concise

riflessioni sullo stato della poesia oggi in Italia. Risalgono

a tempi diversi a partire dal 1984, ma denunziano ancora e

purtroppo una situazione che non è cambiata.

Ecco la prima. Si intitola: Tutti avanti in ordine sparso

Giuliano Manacorda nella sua Letteratura italiana

d'oggi, nella parte quarta dedicata agli scrittori degli anni

settanta, nel capitolo Verso gli anni ottanta: nuovi

dibattiti; nuovi scrittori, dopo aver rapidamente riassunto

gli avvenimenti più macroscopici della storia italiana e

internazionale così scrive:

"Sono pochi cenni e su alcuni aspetti macroscopici

della storia d' Italia e del globo, ma sufficienti a rivelare

una situazione di così alta conflittualità da suggerire per lo

più all'uomo e alle masse (salve,comunque sempre, le

eccezioni) nausea per la storia, fuga dalla cosa pubblica,

sfiducia nel potere (ogni potere), indifferenza,cinismo,

egoismo, qualunquismo. Si è già detto che il riflesso di

tutto ciò sull'animo e l'attività dello scrittore non è

meccanico, ma ci parrebbe storiograficamente un'eresia

distaccare la vita e la produzione dell'intellettuale dalle

condizioni concrete in cui opera; certamente egli le vive e

le soffre, e le restituisce, come può e come sa, in forma di

scrittura o altro mezzo per comunicare...".

La nausea della storia dunque e la necessità di essere

nella storia: è la condizione più schizofrenica, più lacerata

e più contraddittoria che mai il poeta abbia dovuto

affrontare, sicché egli è costretto a individuare oggi,

58

cadute le grandi utopie, cadute forse le utopie di ogni

sorta, le microspie che gli possano restituire le radici, che

lo possano agganciare al flusso vorticoso degli eventi, ad

un panta rei quale mai si è visto nel corso dei secoli e che

gli propone ogni volta una realtà franta, pulviscolare,

amebica. È questa condizione che rende oggi il lavoro

sulla poesia drammatico al massimo grado: il poeta sa che

la realtà è polivalente e polimorfa, eppure sa che gli si

chiede di consegnare il monolite, la summa, perché

intorno è palpabile, nel naufragio o solo nella dispersione

delle cose, il desiderio delle necessarie schematizzazioni e

delle necessarie definizioni.

Lacerazione inconciliabile, da cui emerge come fatto

artistico un fitto brusio, una sorta di coro dissonante,

perché ogni poeta porta la sua scheggia di storia (e non

può che essere una scheggia la sua) e di canto, scheggia

sofferta ed esplorata da ogni prospettiva, un frammento di

vita che trova la sua collocazione e la sua ragion d'essere

nelle altre voci che tutte insieme comunicano

l'impossibilità del poeta di oggi a farsi cantore totalizzante

di una condizione.

Il poeta vive un tempo, in cui l'accelerazione è alla base

del nostro esistere e quest'accelerazione lo pone di fronte

all'impossibilità di metabolizzare il reale e quindi di farlo

diventare canto, perché di esso gli giunge solo il

pulviscolo degli eventi e l'eco delle parole: da qui una

poesia che pare costretta a disattendere i maestri per essere

in sincronia con il farsi del reale, da qui un poeta che può e

sa parlare solo dal suo angolo angusto per una

auscultazione di sé affidandosi ad una comunicazione

orizzontale come quella della rete.

Per queste ragioni oggi in Italia il critico può forse solo

descrivere il fenomeno, può essere solo colui che registra

il lavoro in atto dei poeti, lasciando il giudizio a tempi

59

futuri, in cui da questo camminare in avanti in ordine

sparso (cito ancora Manacorda) possa in un poeta o in più

poeti emergere la traccia più profonda di questo nostro

tempo.

.O non si potrebbe anche scorgere proprio in questo

procedere in ordine sparso, il nuovo modo di essere del

poeta,consapevole che il suo prodotto non ha più il tempo

di stabilizzarsi e di autocertificarsi? O questo ordine

sparso rischia di trasformarsi in uno sparso disordine?

Può anche accadere però che il poeta scopra

nuovamente un'altra storia e tenti di farla sua, una storia

sottesa ancora, ma ben più drammatica: una storia che dica

la necessità dell'uomo di confrontarsi con le dimensioni

apocalittiche, globali in cui egli sarà chiamato a vivere,

che dica questo andare dell'uomo verso chissà dove e

verso chissà che cosa. Un mondo che non è stato ancora

sfiorato dal verso. Crocicchi celesti, spazi sterminati che

presuppongono il superamento del privato, il balzo al di là

delle piccole poetiche per tentare di dire in poesia il sentire

collettivo, cosa che del resto è registrata assai spesso in

poesia tra un arcadia e un'altra, tra un manierismo e l'altro.

Ecco il secondo. Si intitola Sud e poesia

In un articolo molto bello e coraggioso comparso su

Belfagor (Anno XXXIVII,I,3 I gennaio 1982) Edoardo

Esposito riprende e commenta un intervento di Giulio

Ferroni sulla poesia : "Osservava tempo fa Giulio Ferroni

che alla massiccia espansione quantitativa dei testi poetici

negli anni settanta si oppone un altrettanto atteggiamento

di non-lettura non certo nuovo ma preoccupante proprio se

coniugato a quella espansione: giacché di quei testi

naturalmente si parla, siano essi letti o no".

Nasce così quell'openione di cui parla appunto Ferroni:

60

"La consistenza di un testo nel mondo della

comunicazione letteraria è data insomma da quella che i

trattatisti cinquecenteschi definirebbero openione o

reputazione: il testo non vale per le sue possibilità di

essere letto, ma per il suo modo di porre se stesso nel

mondo degli addetti ai lavori, di produrre openione di sé e

dell'autore"

E' quest'openione o reputazione che manca in

moltissimi casi al poeta del sud, perché non gli è stata

attribuita da parte dei centri di potere che non sono certo

nel sud. Nelle Antologie, nella varia e vasta pubblicistica

eccetera egli entra raramente e se entra lo deve a canali

fortuiti, alla piccola openione che è stato in grado di

crearsi, ma lo stesso la sistematicità delle assenze rimane

piuttosto sconcertante.

Perciò pare opportuno che l'antologista o l'operatore

culturale in genere volgano finalmente la loro attenzione al

lavoro continuo, ricco di risultati di tanta poesia del sud,

che non è più solo la poesia del lamento e della protesta,

perché si innesta di prepotenza nella ricerca attuale sulla

poesia.

Non ha senso pertanto che essa continui ad essere

emarginata, che venga costretta ad una sopravvivenza

precaria, che venga lasciata fuori troppo spesso da

quell'openione, che pare alla fine conti più dell'essere della

poesia, della sua qualità: in questo modo certe esclusioni

divengono ancora più arbitrarie e sono da addebitare

all'improvvisazione con cui i curatori mettono insieme i

loro nomi senza avere la mappa completa della poesia di

questi anni, senza farsi completi lettori di poesia.

La confusione così aumenta. Il circolo è vizioso e gli

esclusi divengono sempre più esclusi, gli antologizzati

sempre più antologizzati, perché nel caso della poesia si

61

procede per silentium, che molto spesso si stabilisce

intorno ai nomi propter ignorantiam.

Né servono le promesse giustificatorie a coprire gli

errori di fondo che nascono, e va ribadito, da un lavoro di

indagine poco attenta, non capillare, non critica, quando

occorre invece essere attenti, capillari, critici non per non

sbagliare, perché il margine di errore in operazioni di tal

genere è ineliminabile, ma per sbagliare di meno e per non

creare, tra l'altro, una questione meridionale della poesia.

Ecco il terzo. Si intitola C’è una memoria della poesia?

Mai come in questi anni, ora anche attraverso il cinema, si

è celebrato Giacomo Leopardi come “il poeta più amato

dagli Italiani. Infatti Il passero solitario, Il sabato del

villaggio, A Silvia, La quiete dopo la tempesta hanno

significato per quanti ne hanno imparato i versi a memoria

altrettanti momenti di riflessione su quell’eterno cliché che

è la vita di ogni uomo: dalle speranze e dalle utopie della

giovinezza al dolore, alla vecchiaia, alla solitudine, al

tradimento della natura che ci inganna. Oggi le cose

stanno così? O si è verificata un’interruzione del circuito

poeta-lettore, un distacco tra il testo e la sua memoria?

Forse sì e per tante ragioni. La prima di queste è la scelta

della scuola di non contemplare quasi più la

memorizzazione della poesia. Certo ci sono insegnanti che

ancora la richiedono, ma nella maggior parte dei casi

l’esercizio della memoria è stato dismesso. Leopardi si

divertirebbe moltissimo nel constatare che proprio mentre

vengono alla luce su di lui saggi importanti e degnissimi, i

suoi versi si sono affievoliti nella memoria collettiva.

“L’infinita vanità del tutto”: forse così, autocitandosi,

commenterebbe questo progressivo lentissimo andare a

fondo della memoria della poesia. Se questa sembra essere

62

la situazione, potrà mai tornare la poesia ad essere

sillabata e risillabata perché possano essere memorizzati

quei versi che ad un certo punto e di diritto, diventano

patrimonio di tutti? Quei versi (o solo quel verso) che

anche l’uomo della strada, dimenticandone o ignorandone

l’autore, citerà come suoi, per dire di sé ? Ecco, mi

accanisco a sperare che ciò accada. La poesia è resistente.

63

POETI DEL SECONDO

NOVECENTO SICILIANO

di Emanuele Schembari

E’ indispensabile che si faccia un bilancio della poesia

del Novecento, con particolare riferimento a quello che

riguarda la seconda metà del secolo, per poter esaminare i

segnali che riguardano il futuro della poesia. E, se parlare

di poesia potrebbe sembrare anacronistico, in un mondo

che si occupa di tutt’altro, noi sappiamo perfettamente che

il futuro dell’uomo è collegato direttamente alla poesia. La

sua assenza segnerebbe il prevalere dell’animalità sui

sentimenti e sulle sensazioni. Giovanni Occhipinti nel suo

saggio Il mondo attorno a un verso? (Rubbettino 2000)

scrive: “La poesia esiste perché si possa parlare di tutte le cose che appartengono al genere umano… La poesia vive

il dramma della Storia e dell’uomo dal suo apparire ad

oggi. Cancellare questo dramma vuol dire cancellare la

Storia e rinunciare alla parola della poesia.”

Trattare la poesia italiana della seconda metà del

Novecento rappresenterebbe un discorso troppo vasto e

dispersivo, mi soffermerò, quindi solo ai poeti siciliani,

che, del resto, sono stati discriminati, parzialmente

ignorati dalla critica ufficiale, esclusi dalla grossa editoria,

con qualche eccezione (Sciascia, Bufalino, Camilleri )

solo per confermare la regola.

Nella prima metà del secolo operano poeti colti e

individualisti, a cui si alternano poeti dialettali e poeti

futuristi, tutti legati più ad aspetti formali che a differenze

contenutistiche, che si esauriscono in un ristretto numero

di anni e non lasciano molti ricordi. A parte i poeti della

64

linea classica, come i catanesi Giuseppe Villaroel (1889-

1965) e Antonio Corsaro (1909-1995), sono più numerosi

e più efficienti i poeti dialettali, che si dividono in poeti

popolari, estemporanei e spontanei e in poeti colti, che

seguono le linee tracciate da Giovanni Meli, da Micio

Tempio e da Nino Martoglio. In provincia di Ragusa un

epigono di questa linea è Serafino Amabile Guastella, che

muore nel 1899 e che è anche uno studioso di letteratura

popolare, mentre a Palermo si distingue dagli altri, per

cultura e impegno sociale, Alessio Di Giovanni (1872-

1946).

C’è da aggiungere che i poeti siciliani, dopo gli anni

‘50, si dividono in quelli che sono rimasti in Sicilia e

quelli che sono partiti, per i quali la Sicilia diventa una

sorta di proiezione a livello di ricordi, mentre nei primi si

alimenta un sentimento di diversità, in quanto vengono

regolarmente tagliati fuori dalle industrie culturali e

letterarie del nord.

Nell’immediato secondo dopoguerra i poeti siciliani

cominciano a sentirsi partecipi di una realtà più vasta, da

cui potrebbero derivare nuove prospettive. A livello

nazionale si affermano Rocco Scotellaro e Cesare Pavese,

poeti che evitano l’ermetismo e si caratterizzano per un

certo intimismo realistico. E’ lo scrittore più noto, fra i

siciliani, quel Salvatore Quasimodo (Modica 1901–Napoli

1968), che vive nel Nord e che è già affermato e che viene

considerato un epigono della linea ermetica, ad affrontare

tematiche più realistiche, a metà degli anni ‘40. Ed è

proprio per le sue ultime opere che si afferma in campo

internazionale e gli viene assegnato il Premio Nobel nel

1959. Il poeta si pone in una posizione di autocritica

rispetto al travaglio esistenziale e individualistico del suo

primo periodo, dopo una breve parentesi futuristica. Si

rende conto che non può sfuggire alla responsabilità

65

storica, manifestando la propria indignazione civile

rispetto al ventennio fascista.

Nello stesso periodo il friulano Danilo Dolci (1924–

1997), naturalizzato siciliano, diventa un rappresentante

della poesia sociale, operando anche come sindacalista,

protagonista di occupazione delle terre e di scioperi della

fame, in appoggio ai contadini. La sua è una poesia

essenziale, che, solo in un secondo periodo, si arricchisce

di moduli sperimentali.

Tra i numerosi poeti dialettali, quasi tutti di buon

livello, ma che si somigliano nei moduli e nelle tematiche,

spicca, nel dopoguerra, Ignazio Buttitta (1899–1997), che

raggiunge a Milano Quasimodo, il quale lo protegge e lo

aiuta. Le sue composizioni trattano temi di alto impegno

sociale tanto che Giuseppe Giacalone in Novecento

siciliano Ediz.Tifeo 1986, scrive che riesce “a

universalizzare in chiave lirica la sicilianità del suo

sentire, cioè nell’aver finalmente fatto il popolo siciliano,

nella sua millenaria e contraddittoria civiltà, oggetto della

sua rappresentazione e narrazione drammatica”. Buttitta

diventa il più conosciuto poeta siciliano e si afferma come

attore, recitando i propri versi nelle piazze e nelle feste

dell’Unità, favorito dalla sua posizione politica e

ideologica.

I poeti siciliani sono, nella maggior parte dei casi, degli

isolati, come Bartolo Cattafi, che, nel dopoguerra, vive a

Milano, colora un suo personalissimo surrealismo

stilisticamente di un alone metafisico, in quello che

Raboni definisce “viaggio nella metafora”. Poi, dopo

vent’anni di volontario esilio al Nord, torna a Terme

Vigliatore (Me), suo paese natale, si mantiene lontano da

gruppi e da moduli e muore a poco più di cinquant’anni

nel 1979, mantenendosi fedele alla sua trasfigurazione

poetica.

66

Altro caso isolato di poeta di grande statura è quello di

Lucio Piccolo (1903–1969), un aristocratico, cugino di

Tomasi di Lampedusa, vissuto sempre in Sicilia e che,

tardivamente, è scoperto da Montale. Angela Barbagallo in

Novecento siciliano (op cit.) scrive che il suo è “un dettato

lirico, colto, raffinato, comprensivo d’ampio respiro

letterario – filosofico - scientifico, ma chiuso, involuto,

accartocciato in una serie di fantasmagoriche psichiche ed

estetiche concretate dalle volute ad arco di costruzioni

barocche liquide e terse.”

Intanto, negli anni ’50, due siciliani emigrati in

Toscana, Giuseppe Zagarrio di Ravanusa (Ag) e Mario

Gori di Niscemi (Cl) mantengono i collegamenti con la

loro terra, creando iniziative culturali e determinando la

formazione e la crescita di altri poeti siciliani. Zagarrio, da

Firenze, partecipa all’esperienza della rivista “Quartiere” e

crea quella che, all’epoca, viene definita “poesia sociale”

che poi è una sorta di esistenzialismo storico e un

neorealismo, che riflette su se stesso, fra dubbi e

perplessità. Collabora a “Il ponte”, a “Quasi” e ad “Aut”,

importantissime riviste toscane e si afferma come uno dei

più validi e seri critici italiani, soprattutto realizzando

Febbre, furore e fiele (Mursia 1983) che è una rassegna

esaustiva di trent’anni di poesia italiana. Su Zagarrio

scrive il palermitano Salvatore Orilia su Inchiesta sulla

poesia (Ed. Bastogi 1979): “si avvia ad un discorso ampio

e drammaticamente mosso, pronto a scavare nel fondo

delle cose e a sentire quale crisi di coscienza è nella poesia

degli autori siciliani”. Muore a Firenze nel 1994, a

settantatre anni. Oggi è quasi dimenticato ma non da chi vi

parla, che, insieme a Giovanni Occhipinti, lo considera

uno dei suoi maestri.

Mario Gori (il cui vero cognome è Dipasquale) a Pisa,

dopo l’esperienza dialettale catanese della rivista “Sciara”

67

insieme a Salvatore Camilleri e alla corrente

“Trinachismo”, mette le basi per “La soffitta”, una rivista

che fonda negli anni ’50, quando fa ritorno definitivo a

Niscemi. Pubblica testi di autori di ogni parte d’Italia e

contribuisce a scoprire nuovi talenti. Fra tutti Alberto

Bevilacqua con i suoi primi componimenti poetici,

insieme al romano Elio Filippo Acrocca e al siciliano, che

vive a Roma, Ugo Reale. Fra i poeti da lui lanciati ci sono

Serafino Lo Piano, Bernardino Giuliana (che è anche un

attore) Fiore Torrisi, Federico Hoefer di Gela e, fra gli

iblei, il sottoscritto, Emanuele Mandarà ed Enzo Leopardi.

In pratica, lo scontro fra l’esperienza lirico-individuale e

post ermetica con quella a carattere storico-sociale, in

Gori, diventa coesistenza, anche se finisce col seguire una

linea più intimistica e più quasimodiana nella rivista

“Banditore Sud”, diretta insieme a Leopardi. Gori recita

nella piazza ai braccianti di Niscemi i suoi versi in dialetto

e organizza dei recitals di poesia in compagnia di Hoefer,

di Mandarà e dell’attrice Lydia Alfonsi. Muore a Catania

nel 1970, a quarantaquattro anni e a Ragusa, città a cui è

molto legato, lascia un Gruppo culturale a lui intitolato, di

cui io sono il presidente da trent’anni e un Premio di

poesia giovanile,che è vissuto per 25 anni, aprendo la

strada a giovani poeti, oggi affermati.

Federico Hoefer vivente, di Porto Empedocle e amico

d’infanzia di Andrea Camilleri, abitante a Gela, da

epigono di Gori, acquista una voce sempre più originale,

toccando varie corde, da quella lirica a quella ironica,

dalla verista alla ideologica, fino a quella colta ed

esoterica. Negli anni Settanta fonda i mensili “Fogli di

poesia” che ospitano alcuni validi poeti del secondo

Novecento e che fanno conoscere un quadro vasto ed

esaustivo della lirica siciliana, spesso condizionata dalla

difficoltà di distribuzione dell’editoria isolana.

68

Emanuele Mandarà nato e morto a Vittoria (1930-

1993), autore di una poesia raffinatissima, è seguace del

post ermetismo di Luzi e di Sereni, ma ha una sua

caratterizzazione e le sue descrizioni paesaggistiche sono

dotate di grande fascino.

Enzo Leopardi (1923–1999) di Santa Croce Camerina

(Rg), anche apprezzato critico d’arte, poeticamente

realizza le sue cose migliori nei suoi riferimenti alla

resistenza in Sicilia, all’invasione degli americani e

all’immediato dopoguerra, dove, scrive Zagarrio in

Febbre, furore e fiele (op.cit.): “c’è un certo paesaggio non

solo naturalistico… dove solitudine e morte (o assenza di

vita) fanno da elementi egemoni e totalizzanti”.

Angelo Maria Ripellino palermitano (1923–1978) è più

noto come saggista e storico della letteratura slava, ma è

un poeta notevolissimo, che è riuscito a fondere vari

moduli psicanalitici, futuristi, elegiaci, espressionisti, in

una sorta di poesia demoniaca, che sembra voler

esorcizzare i mostri della coscienza.

Ci sono pure dei poeti molto interessanti, che sono

rimasti più noti come narratori e sono il messinese Stefano

D’Arrigo, il lentinese Sebastiano Addamo, Giuseppe

Bonaviri di Mineo (Ct), Stefano Vilardo, amico fraterno di

Leonardo Sciascia, lo stesso Sciascia, che esordisce con un

volume di versi, come Andrea Camilleri, senza contare il

comisano Gesualdo Bufalino, che realizza un unico

volume di versi, mentre il modicano Raffaele Poidomani,

forse il miglior narratore della nostra provincia, pubblica

su riviste e giornali i suoi versi che, solo dopo la sua

morte, vengono raccolti in un volume, intitolato

Pellegrino dei sogni.

Fuori dalla Sicilia operano, con risultati interessanti,

Stefano Lanuzza a Firenze, che è anche saggista e che

segue una strada sperimentale linguisticamente e

69

protestataria tematicamente e il palermitano Mimmo

Morina (1933–2008), funzionario dell’Unione Europea in

Lussemburgo. Ci sono ancora quattro messinesi lo

scomparso Nino Pino e i viventi, Angelo Maugeri, che

abita in provincia di Como, Andrea Genovese, che vive a

Lione, Basilio Reale, stabilitosi da molti anni a Milano.

Rimane in Sicilia Antonino Cremona (1931–2004),

avvocato civilista di Agrigento dalla complessa e rilevante

personalità, in cui gli elementi ironici e di denuncia si

mescolano, motivati da una maturità culturale di assoluto

vigore, di chi ha assorbito le fondamentali della poesia

classica e di quella contemporanea europea.

Carmelo Pirrera nato nel 1932 e scomparso lo scorso

anno, oltre a svolgere ottima attività editoriale,

pubblicando, tra l’altro, per anni la rivista di testi “issimo”,

dimostra come poeta (ma è anche narratore) una sensibilità

sottile ed inquieta, che esprime, con felice connotazione

linguistica, un continuo e approfondito colloquio interiore,

stemperando il contenuto dei suoi versi con una felice

ironia, avvicendando spunti lirici a tematiche esistenziali.

Edoardo Cacciatore, nato in Sicilia e vissuto a Roma,

dove si è spento nel 1996, a 83 anni, è scarsamente

considerato e sottovalutato dalla critica ufficiale, ma,

secondo Giuliano Manacorda, si tratta di uno dei migliori

poeti siciliani. Zagarrio (op.cit.) considera “il laboratorio

espressivo di Cacciatore qualcosa a se stante, comunque

da rapportare al più vasto movimento dello

sperimentalismo europeo piuttosto che a quello

neoavanguardistico”.

La neoavanguardia del 1963 viene chiamata “La scuola

di Palermo” anche se formata da scrittori del nord

(Sanguineti, Balestrini, Giuliani, Pagliarani, Guglielmi)

vede la presenza di tre scrittori siciliani Perreira, Testa e

Roberto Di Marco, ma lascia poca traccia in Sicilia. Del

70

resto è un’operazione più formale che contenutistica,

assolutamente intellettualizzata e piuttosto sterile, anche se

dà una forte scossa a certo formalismo linguistico.

Un professore di Liceo di Linguaglossa sull’Etna, che

scrive sia in lingua che in dialetto è Santo Calì (1918–

1972), che si collega, a metà degli anni ’60, con un gruppo

di poeti di Palermo e di Trapani, fortemente impegnato sul

sociale e ne diventa, in un certo senso l’ideologo. Nasce

così l’Antigruppo, un movimento importantissimo, che

esamina criticamente le strutture socio-economiche della

Sicilia. Calì recita poesie ai popolani di Palermo, ai

contadini dei Peloritani, ai pescatori di Trapani e ai

minatori di Caltanissetta, insieme a Nat Scammacca,

Rolando Certa, Gianni Diecidue, Ignazio Navarra,

Crescenzo Cane, Pietro Bilieci e altri. Si tratta di

personaggi che rendono estremamente vivo il movimento

poetico che, sia Zagarrio che lo storico della letteratura

italiana Giuliano Manacorda, considerano il più

importante movimento del ‘900, con un sua precisa linea

politica progressista e anticonformista. In pratica è l’unico

gruppo compatto, che opera in Italia tra gli anni ’60 e ’70

e determina una poesia di denuncia, piena anche di rancore

e di rabbia, in una serie di interventi, anche con

ciclostilati, con varie pubblicazioni e con la terza pagina

del periodico “Trapani nuova”, curata da Nat Scammacca.

Salvatore Rossi su Novecento siciliano (op.cit.) scrive:

“L’attività di questi scrittori rappresenta una svolta

importante per la letteratura prodotta in Sicilia, se non

altro per lo sforzo per agitare le acque, rimettere tutto in

discussione, dare agli scrittori operanti nell’isola una

prospettiva di sprovincializzazione”.

Calì muore precocemente e non fa in tempo a veder

pubblicata l’antologia Antigruppo 73, realizzata da

Vincenzo Di Maria (poeta e tipografo catanese, vicino

71

all’Antigruppo) che raccoglie i poeti più validi dell’isola,

compresi giovani ancora sconosciuti, ma anche Roversi,

Zavattini e Ferlinghetti. E’ considerato il miglior poeta

dialettale siciliano, ma in lingua realizza un bellissimo

poemetto, che è La ballata di Jossip Shyrin, apparso

postumo nel 1980. Mescola il canto al racconto, la

polemica politica e sociale alla provocazione, l’invettiva

alla meditazione in uno scontro di tensione misurata e

sognante, nello stesso tempo, mentre, nell’ultimo periodo

della sua vita, prevale una linea di straordinario fascino.

Altro esponente dell’antigruppo, di cui diventa il

maggiore rappresentante, dopo la scomparsa di Calì è Nat

Scammacca (1924–2005), nato negli Stati Uniti,

trasferitosi a Trapani trentenne, è vicino a Ferlinghetti e a

Gregory Corso, esponenti della poesia beat. E’ un poeta

interessante, oltre che ottimo narratore e possiede una

straordinaria originalità. Fonda la rivista “Trinacria” e

oppone, anche dopo la scomparsa dell’Antigruppo una

cultura alternativa a quella nazionale.

Ad un certo punto l’Antigruppo si spacca nella linea

palermitana e linea trapanese, dove si ha l’egemonia di

Scammacca, che realizza l’antologia Antigruppo 75, che

continua il discorso di una poesia underground, fuori dai

soliti schemi editoriali, all’insegna della “sicilitudine”

(termine coniato da Crescenzio Cane e ripreso da Sciascia,

che vuole ricordare la “negritudine”) insieme allo stesso

Cane, a Certa, Diecidue, Navarra, Di Maio.

Nella seconda metà degli anni ’70 si ha un’ulteriore

spaccatura nell’Antigruppo. Rolando Certa (1931-1987),

di Mazara del Vallo (Tp), che è stato il miglior

organizzatore del movimento, fonda la rivista “Impegno

70”, avvalendosi della collaborazione di Antonino

Contiliano di Marsala e si accosta ai poeti del

Mediterraneo (greci, romeni, jugoslavi, egiziani, turchi)

72

organizzando dei convegni, chiamati “Incontri del

Mediterraneo”, ricchi di scambi culturali tra i popoli e

messaggi di fraternità. Anche la sua tematica personale, di

protesta e di aggressività si lega, al mito neo greco, si fa

più delicata e riflessiva e si apre a tematiche di respiro

europeo. Muore precocemente, mentre si trova in

Ungheria, per un convegno.

A Palermo, dai resti dell’Antigruppo nasce

l’Intergruppo, che privilegia una forma neosperimentale,

pur mantenendo, solo in parte, tematiche di polemica

social- politica. Il poeta più interessante, poi diventato

narratore sperimentale, è l’avvocato Ignazio Apolloni

(1932-2015) a cui si affiancano Pietro Terminelli di

Palermo e Nicola Di Maio (1949–2014), di Castel-

vetrano.

Anche in campo femminile ci sono presenze

interessanti,a cominciare dalla messinese Giorgia Stecher

(1926-1996) che comincia a pubblicare già quarantenne,

ma brucia le tappe, vince premi importanti, collabora a

riviste qualificate. La sua è una voce sommessa, con una

lirica giocata su sensazioni minime, immergendosi in una

piccola realtà, limitata in apparenza, che cresce

gradualmente, finendo col rappresentare la drammaticità

del vivere.

Oggi forse ci sono più donne che uomini a dedicarsi a

scrivere versi. Citiamo, su tutte Maria Attanasio, di

Caltagirone, nota anche in campo nazionale, per i suoi

romanzi, autrice di versi raffinatissimi, dove le metafore

sottolineano l’essenzialità di un lessico ambiguo e

profondo. Altra poetessa importante è Jolanda Insana, nata

a Messina ma abitante a Roma, che usa in linguaggio di

grande efficacia e che, come scrive Andrea Guastella su

Dalla lama del giorno (Ed. Nona 2002): “va trasformando

ogni immagine in visione, ogni viaggio in avventura”.

73

Tra le donne, che operano in Sicilia, ci limitiamo a

citarne due, abitanti a Ragusa: Letizia Di Martino, nata a

Messina, e Maria Teresa Verdirame, nata a Tripoli. La

prima pubblica vari volumi di versi ed è presente nello

“Specchio” di Mondadori, destando l’attenzione di alcuni

fra i maggiori critici italiani. La Verdirame, oltre a quattro

libri di poesia, pubblica un volume di haiku, un romanzo e

si appresta a pubblicarne un altro.

Tra i poeti siciliani operanti nella seconda metà del

Novecento i più validi sono gli scomparsi catanesi Rino

Giacone e Armando Patti, i cattolici palermitani Pietro

Mirabile e Giulio Palumbo, oltre ad Alfonso Zaccaria e

Mario Farinella.

Ricordiamo, per restringerci alla provincia di Ragusa

alcuni poeti scomparsi in tempi relativamente recenti: i

poeti dialettali Carmelo Assenza di Modica e Carmelo

Lauretta di Comiso, Carmelo Conti, nato a Scicli e morto a

Ragusa, dalla sintassi complessa e raffinata e due poeti

tardivi, entrambi vittoriesi, deceduti, rispettivamente nel

2012 e 2014, Domenico Cultrera ed Emanuele Giudice. Il

primo offre un sofferto e sensibile canto, espresso in un

barocco tutto interiore, il secondo ha una pluralità di

contenuti, dove prevale una pensosa riflessione

esistenziale.

Poeta ancora in attività in Sicilia è Lucio Zinna, nato a

Mazara del Vallo, ma abitante a Bagheria (Pa), oltre che

poeta e narratore, operatore culturale importantissimo che,

da anni, realizza la rivista letteraria “Arenaria”. La sua è

una poesia a verso lungo, colloquiale in apparenza e

complessa nella sostanza, che approfondisce, con vigoroso

scavo interiore, la tematica della quotidianità.

C’è Aldo Gerbino, tra i relatori di questo Convegno,

che vive a Palermo. E’ docente universitario, critico

letterario, oltre che poeta molto raffinato, il cui dettato è

74

centrato da una ricerca stilistica coerente, dove persiste

un’ironia sottile in un’atmosfera di raffinata sensibilità.

E ancora ci sono Antonio Di Mauro, Renato Pennisi,

Mario Grasso, Angelo Scandurra a Catania, Elio Giunta,

Nicola e Tommaso Romano, Emilio Paolo Taormina,

Salvatore Di Marco a Palermo, Sebastiano Burgaretta ad

Avola (Sr), Melo Freni di Messina, che vive a Roma,

Sebastiano Saglimbeni, Diego Guadagnino a Canicattì

(Ag), Antonino Contiliano e Nino De Vita a Marsala (Tp).

Rimane Giovanni Occhipinti, uno dei più importanti

poeti e scrittori italiani, autore di oltre cinquanta volumi. La

mia collaborazione con lui supera i quarant’anni: dalla

fondazione della rivista “Cronorama” nel 1973, al Premio

di poesia “Ragusa Anni ‘70”, che poi diventa “Un ponte per

l’Europa”, che premia alcuni tra i maggiori scrittori italiani

e stranieri e si interrompe qualche anno fa per mancata

elargizione di finanziamenti da parte delle istituzioni, dopo

oltre un trentennio. Fino all’organizzazione di questo

Convegno che, probabilmente, è la nostra ultima iniziativa

culturale di un certo spessore.

Per ciò che riguarda il presente e il futuro della poesia,

c’è da dire che molte cose sono cambiate, che su Internet

navigano migliaia di testi poetici, che non ci sono più

pubblicazioni letterarie specifiche e che la critica non

esiste più. Si sono persi gli strumenti per misurare il valore

della poesia. E tutto è molto confuso.

Nella provincia di Ragusa, fra i poeti che

parteciperanno al recital di queste due giornate, ci sono

due poeti quasi sessantenni con varie pubblicazioni e già

affermati come Giuseppe Di Giacomo di Comiso, deputato

regionale del PDI e Domenico Pisana, di Modica,

dirigente scolastico e presidente del “Caffè letterario

Quasimodo”. Abbiamo due cinquantenni di Ragusa:

Carmelo Arezzo e Giuseppe Schembari, tra i migliori.

75

Schembari, già poeta del dissenso negli anni passati, ha

testi molto interessanti per il suo ultimo libro, Naufragi.

Arezzo, importante funzionario di un ente pubblico, ha

pubblicato quarant’anni fa, ma ha molti inediti di grande

spessore. Una certezza è rappresentata dal quarantenne

Andrea Guastella, soprattutto critico letterario e quotato

critico d’arte, che, come poeta, è stimolante e originale. I

più validi poeti dialettali locali sono, senza dubbio, i

coniugi Pippo Di Noto e Giovanna Vindigni, che

esprimono temi di attualità con moduli freschi e moderni.

Io e Giovanni Occhipinti, puntiamo sul trentenne Dario

Pepe, che, nella sua prima pubblicazione, segue un filone

esistenziale su una strada di icastica classicità. Per il resto

ci guardiamo intorno e cerchiamo di aprire al futuro,

affinché la poesia resti, resista e continui il suo cammino.

Concludo con le stesse considerazioni del mio

intervento durante il Convegno sulla poesia siciliana, che

si è tenuto in questi locali nel 1997: “ Il poeta siciliano è

sempre più poeta del mondo e sempre meno caratterizzato,

sempre meno siciliano, ma questo sta avvenendo

dovunque. Il mondo si fa sempre più piccolo. Il poeta

siciliano è sempre più poeta internazionale e sempre meno

siciliano”.

76

77

TRE POETI LIGURI DIMENTICATI E IL POTERE:

GHERARDO DEL COLLE, NICOLA GHIGLIONE

E ADRIANO GUERRINI

di Francesco De Nicola

Nella serie di articoli dedicati ai poeti liguri, dai quali

ebbe origine l’impropria definizione di “linea ligustica

della poesia italiana”, pubblicati prima sulla “Fiera

Letteraria” nel 1956 e poi sul quotidiano genovese

“Corriere Mercantile” nel 1959, Giorgio Caproni aveva

concesso ampio e legittimo spazio ai poeti noti e

consacrati: da Montale a Sbarbaro; da quelli familiari

soprattutto ai cultori del genere: da Roccatagliata Ceccardi

ad Adriano Grande e ad Angelo Barile; e a quelli di più

recenti generazioni nei quali aveva colto qualità che li

avrebbero potuti far leggere ed apprezzare al di fuori della

ristretta cerchia locale. Tra questi ne rientravano tre il cui

talento Caproni non aveva esitato a riconoscere (e altri

prima e dopo di lui lo avevano o avrebbero riconosciuto) e

che tuttavia, pur senza tradire le aspettative, non ebbero la

fortuna che gli sarebbe spettata se non si fossero imbattuti

nell’avversione di differenti forme di potere: Gherardo Del

Colle, Nicola Ghiglione e Adriano Guerrini50

, poeti diversi

per storie personali, origini e generazioni. Il primo, nato

50

Le loro poesie si possono leggere rispettivamente in Gherardo Del

Colle, Il fresco presagio. Poesie 1937-77, a cura di Francesco De

Nicola, Genova, De Ferrari, 2008; Nicola Ghiglione, Finestre. Poesie

edite e inedite (1939-1988), a cura di Francesco De Nicola, ivi, 1991 e

Adriano Guerrini, Poesie (1941-1986), a cura di Francesco De Nicola,

ivi, 1996. Le informazioni qui riportate sono desunte dalle rispettive

introduzioni.

78

nel 1920 in un paese appenninico in provincia di Genova,

era un frate francescano fornito di solidi studi classici

(morirà nel 1978); il secondo, nato a Voltri, borgo sul mare

nella periferia di Genova nel 1915 (dove morirà nel 1990)

era l’incarnazione compiuta del “poeta maledetto”

irregolare e perciò avviato ad una vita difficile; e l’ultimo

infine, nato ad Alfonsine, in Romagna, ma trasferitosi da

bambino nel quartiere operaio di Sampierdarena,

all’interno del capoluogo ligure (dove morirà nel 1986) era

professore di storia e filosofia nei licei.

Gherardo Del Colle aveva cominciato a scrivere versi

poco più che ventenne ed ebbe la fortuna di conoscere

Angelo Barile, che divenne la sua guida, e poi suo

strettissimo amico come rivela il carteggio intercorso tra i

due dal 1940 al 196651

, leggendo e correggendo le sue

prime poesie ispirate dalle inquietudini di una vocazione

religiosa sicura ma non per questo priva di dubbi e

problemi. La raccolta di queste poesie giovanili fu

pubblicata, con il titolo ottimista di Rosso di sera, nel

1946 per le edizioni della rivista “Il Gallo”, fondata nel

dopoguerra a Genova (e tuttora attiva) da un gruppo d’

intellettuali cattolici sensibili ai problemi della società in

quel difficile dopoguerra e aperti al dialogo con chiunque

condividesse quell’attenzione. “Il Gallo” si conquistò in

breve un posto di rilievo tra i periodici del dopoguerra

(Montale nel maggio del 1947 vi pubblicò la Primavera

hitleriana) e padre Gherardo vi recitava un ruolo

fondamentale, pubblicando anche, tra il 1946 e il 1947,

una serie di letture di poeti tra le due guerre che includeva

tra gli altri Alfonso Gatto e Salvatore Quasimodo, e cioè il

51

Angelo Barile-Gherardo Del Colle, “Amor di poesia”. Lettere

(1940-1966), a cura di Francesco De Nicola, Genova, De Ferrari,

2010.

79

fronte ermetico, insieme ai più delicati Saba e Betocchi. E

intanto vi pubblicava anche le sue nuove poesie, che con

sempre maggiore assiduità affrontavano temi sociali con

particolare attenzione per i problemi dei lavoratori

rendendo protagonisti dei suoi versi “i braccianti avviliti /

e i licenziati dell’Ilva e i torvi ferrovieri. / Ricurvi sulle

scope, anche i macilenti spazzini / T’informeranno, o

Gesù, d’essere scesi in sciopero”, per dedicare più tardi

una poesia a Sandor Dèry ucciso a Budapest il 29 ottobre

1956 dai carri armati sovietici per essersi “gettato addosso

agli scherani / d’Erode con impavida innocenza”.

E su “Il Gallo” padre Gherardo, che ne era il

responsabile per la parte letteraria, teneva anche una

rubrica di recensioni e di opinioni e qui, nell’aprile del

1950 polemizzò vivacemente con Montale, che sul

“Corriere della Sera” aveva espresso giudizi negativi sui

critici incapaci di capire le sue recenti poesie; rilevato

“l’astio di Montale contro quelli stessi che, primi, hanno

manifestato consensi alla sua poesia”, il cappuccino aveva

osservato che se è accettabile che le pagine di tanti bei

libri di poesia siano oscure (e ciò non gli aveva impedito,

come si è appena sopra rilevato, di apprezzare gli ermetici)

“che un lettore debba battersi il petto quando

incolpevolmente non riesce a capire ciò che un poeta non

gli fa capire, questo è davvero pretendere troppo”; e

aggiungeva che la poesia non deve comunque risultare “un

indecifrabile rebus che celi trabocchetti per chi legge e un

pretesto di sollazzo per chi scrive”, concludendo che “la

torpidezza mentale di certi critici pure intelligenti e onesti

quasi sempre è determinata dalla torpidezza d’ingegno e di

cuore di certi illustri criticati”. Questa dura presa di

posizione in favore di una poesia non intellettualizzata e

non incomprensibile per i lettori era seguita sul mensile da

una nota del direttore Nando Fabro che, presagendo una

80

possibile bufera, intendeva ammorbidire la polemica

sollevata da padre Gherardo.

Ma Montale non mancò di intervenire e tuttavia invece

di replicare esponendo le sue ragioni in un articolo spedì

allo stesso Fabro una lettera (pubblicata nel numero di

giugno) addirittura sprezzante per l’estensore della nota

critica e invece aperta verso la presa di distanza del

direttore, il quale a sua volta scrisse una precisazione che

di fatto sconfessava padre Gherardo e si schierava dalla

parte del poeta celebrato (e oltretutto ormai giornalista

presso il più importante quotidiano italiano). Questo

episodio aveva segnato la fine del rapporto tra Gherardo

Del Colle e “Il Gallo”, ma soprattutto l’inizio del suo

progressivo distacco dalla “società letteraria” dominata dai

mostri sacri inattaccabili ai quali, nel marzo 1951,

dedicherà questo epigramma: Or che Saba montaleggia / e

Montal quasimodeggia / Salvatore et Ungaretti /

abbandonano i versetti: / Cardarelli l’impassibile / tenga

duro (se possibile). Padre Gherardo continuerà a

pubblicare brevi sillogi di poesie presso piccoli e minimi

editori, vivendo con grande impegno la sua missione

religiosa e quasi del tutto appartato dall’ambiente

letterario, dove però non mancavano gli estimatori

qualificati come Barile e appunto Caproni che lo definirà

“poeta ricco di passione non in esclusivo senso religioso,

ma soprattutto umano”, riconoscendo nei suoi versi “una

trasparenza, una tenerezza di luci che può anche qua e là

(come avviene di solito ai giovani) colorarsi e compiacersi

di malinconia, ma che più spesso si rialza a una vera

giocondità del cuore”.

Nello stesso articolo sui poeti liguri nel quale aveva

ricordato Gherardo Del Colle, Caproni aveva scritto anche

di Nicola Ghiglione, con il quale aveva condiviso alla fine

degli anni Trenta gli esordi poetici a Genova e del quale

81

aveva ammirato la pubblicazione, avvenuta all’inizio del

1945, del suo poemetto intitolato Canti civili. Era un’opera

originalissima, visionaria e realistica insieme, nella quale

si succedevano brevi liriche ricche di immagini di grande

forza e violenza che rappresentavano la misera condizione

di quanti, già emarginati in tempo di pace, durante la

guerra pativano un’esistenza difficilissima e stentata, tanto

che la parola gridata “Fame” era ricorrente in questi versi,

dedicati al venditore di caldarroste o all’arrotino, al

beccamorto o allo spazzino, al ladro di immondizie e

perfino allo spaventapasseri “miseri uomini del vento / con

abiti senza bottoni e con scodelle d’argento / […] che

battiamo strumento / per impaurire il cielo che ha segnato

sui nostri cappellacci / un chiodo per impiccarci”. Che si

trattasse di un’opera di grande significato, al di fuori

dell’ormai stantio ermetismo come pure all’ideologizzato

neorealismo, se ne accorse subito Carlo Bo, che nel

novembre del 1946 la recensì su “Costume” dedicandogli

una pagina intera esattamente come al romanzo di

Vittorini Uomini e no. E poco più tardi lo stesso Caproni

sulla “Fiera Letteraria” ed Enrico Falqui includendolo in

un’antologia di nuovi poeti (1956) colsero la forza degli

inconsueti versi di Ghiglione, il quale nella sua città

(patria di molti poeti importanti ma in genere piuttosto

sorda alla loro voce) cominciava a godere di

apprezzamento e notorietà, accresciuta anche dalla

frequente comparsa della sua firma sulla terza pagina del

giornale più letto di Genova, “Il Secolo XIX”, sulla quale

il direttore Umberto V. Cavassa, anch’egli scrittore anche

se di gusti tardo romantici, gli aveva affidato nel 1952 la

rubrica settimanale “La vetrina dei libri”, ospitando

peraltro anche altri suoi articoli. I tempi però cambiavano

in fretta e i gusti in campo letterario si stavano

modificando, anche per l’irrompere sulla scena nazionale

82

all’inizio degli anni Sessanta della neoavanguardia alla

quale, diversamente da altri e pur essendo anch’egli un

poeta in qualche modo sperimentale, Ghiglione non si

accodò ed anzi nel 1967 ripubblicò, in edizione riveduta, i

Canti civili ; ma l’anno dopo, a soddisfare l’esigenza di

rinnovamento anche nell’informazione, al vecchio

Cavassa alla direzione del “Secolo XIX” subentrò un

nuovo direttore, Piero Ottone, che in breve sostituì gran

parte dei precedenti collaboratori, tra i quali Ghiglione

che, vivendo fino ad allora dei proventi del suo lavoro

giornalistico, si trovò ad un tratto in una difficilissima

condizione, ma che, soprattutto, cominciò a vivere la

pesante condizione dell’emarginato e dell’escluso

(sebbene altri quotidiani genovesi, dal “Corriere

Mercantile” al “Giornale” al “Lavoro”, lo accettassero

come collaboratore); e l’emarginazione di Ghiglione

aumentò nei due decenni successivi anche perché il ritorno

di Edoardo Sanguineti a Genova alla metà degli anni

Settanta per insegnarvi Letteratura Italiana all’Università

aveva determinato una sua indiscutibile egemonia (e dei

suoi orientamenti sperimentali) nell’ambito delle

manifestazioni pubbliche sulla poesia. Beninteso, non che

l’autore di Laborintus fosse in prima persona responsabile

di scelte o di esclusioni (anche perché eletto consigliere

nel Comune di Genova nel 1976 non fu affidato a lui,

come forse supponeva, l’assessorato alla cultura), ma

quanti avevano questa responsabilità raramente si

sottraevano dal seguire i modelli del far poesia indicati da

Sanguineti. Ricordo lo sdegno di Ghiglione nel leggere i

manifesti di un grande convegno internazionale di poesia

organizzato a Genova negli anni Ottanta dalle istituzioni

pubbliche nel quale il suo nome non compariva: ma già

nella sua poesia Genova, uscita sulla “Fiera Letteraria” il

19 maggio 1957, aveva scritto negli ultimi tre versi:

83

“Genova antica, con la stecca alla persiana / all’insù, usa a

dannare gente di lettere: / arenile di sembianze domestiche

e di fatti”. Ma questa condizione di escluso in casa propria

non impedì a Ghiglione di continuare a scrivere poesie,

molte sullo sport e in particolare il ciclismo, raccolte nel

volumetto postumo Lunarietto sportivo52

, vivendo

appartato e povero negli ultimi anni della sua vita.

Non diversa fu la sorte di Adriano Guerrini, autore

apprezzato da Caproni sin dalla sua raccolta d’esordio del

1957 intitolata L’adolescente e poi soprattutto nella

successiva del 1959 L’età di ferro che, osservava l’autore

del Seme del piangere, “mostra un poeta maturo, dalla

voce virilmente ferma, nel quale le rovine della guerra

hanno lasciato l’ombra di una profonda disperazione,

sostenuta tuttavia da un concetto quasi stoico della vita”.

Oltre che poeta Guerrini era molto altro, a cominciare dal

suo ruolo di professore che nel 1971 gli aveva dettato il

pamphlet intitolato La rivoluzione al liceo che, per non

aver sposato la linea populista e protestataria del PCI,

venne contestato e censurato dalla sua stessa casa editrice

La Nuova Italia; e oltre a questo impegno pedagogico

Guerrini era anche un convito organizzatore culturale,

tanto da dar vita a due importanti periodici: il bimestrale

“Diogene”, fondato nel 1959 e vissuto fino al 1969, e

“Resine”, avviato nel 1972 e tutt’ora in vita sia pure dopo

alterne vicende. Su queste pagine Guerrini spesso rivestiva

il ruolo di polemista, recuperato poi in modo convinto in

due volumetti: Polemica (1965) e Prose politiche (1976).

Il primo si collocava nel quadro del dibattito sollevato

dalla nascita del Gruppo 63 che era il bersaglio della

polemica di Guerrini che, come aveva osteggiato

52

Nicola Ghiglione, Lunarietto sportivo, a cura di Francesco De

Nicola, Genova, De Ferrari, 1993.

84

l’ermetismo per la sua oscurità (già nell’articolo giovanile

Le parole non bastano a fare poesia uscito nel novembre

1950 sul “Giornale letterario”), così ora combatteva lo

sperimentalismo ritenuto velleitario ed essenzialmente

formalista, usando anche l’arma del sarcasmo nel calarsi

nei panni del poeta sperimentale che recita alcuni suoi

principi: “Ciò che importa è l’azione di rottura, / il rinnovo

dei moduli espressivi / (se no, sembro un tardone

sprovveduto”) e ancora “Quel che importa è il linguaggio.

/ Primum: sperimentare. / E morte al personaggio. / Zero e

neurologia: / questa è la poesia”. E dalla polemica con il

Gruppo 63 a quella con Sanguineti il passo era breve e

quasi obbligato; anch’egli, come Ghiglione, avvertiva la

sua presenza dominante, anche se non sempre materiale e

quasi sempre rappresentata da suoi epigoni, sulla vita

culturale della sua città che spesso non si accorgeva del

lavoro di Guerrini svolto anche come anima dei periodici

da lui (con altri intellettuali laici) fondati che anche

offrivano l’occasione, con le relative edizioncine, a

giovani poeti per farsi conoscere. E la polemica passò dal

piano del dibattito a quello della sua trasposizione in versi,

avendo un suo testo emblematico nella poesia intitolata

proprio A Edoardo Sanguineti scritta nell’ottobre del 1976

in occasione delle celebrazioni per gli ottant’anni di

Montale: “E’ giusto che l’angoscia d’Arsenio ora ti sembri

/ non quella dell’esistere, ma quella del borghese, / e che

da lui, non chierico rosso o nero, tu senta / d’essere offeso,

tu, chierico miope, e lo dica, / e che t’irriti Arsenio letto

ormai nelle scuole; / tu daresti ai ragazzi solo un breviario

di Mao”. La polemica proseguirà ancora in diverse

occasioni, sia in prosa, sia in versi di talora viscerale

anticomunismo, che certo non sono i migliori di Guerrini,

da ricercarsi invece nelle poesie segnate dal timore

dell’approssimarsi al baratro della fine della civiltà, ora

85

che viviamo in un’età di ferro ed è finito per sempre il

tempo dell’ “antica cortesia”. E in ogni caso, come per

Ghiglione anche per Guerrini, gli anni conclusivi della

loro vita a Genova era stata una continua (e spesso

perdente) lotta per non essere schiacciati dalla

prevaricante moda sperimentale.

86

87

DALLA BEAT GENERATION

ALLA DIGITAL DEGENERATION

di Mauro Macario

Solo adesso che il tempo utile dell’esistenza –utile a

farne qualcosa- stringe il suo cerchio a ridosso del

tramonto, torna a indorarci e ancora ci abbaglia la lucida

memoria dell’adolescenza dove si estendeva a perdita

d’occhio la terra promessa, una terra fresata e inseminata

di scoperte nascenti, di sogni esaltanti, di utopie sublimi.

Se poi l’adolescenza coincide con una fase epocale

dalle peculiarità uniche e irripetibili come quella degli

anni Sessanta, a mio avviso la più luminosa e struggente,

la più ricca di pulsioni umanistiche, dal dopoguerra a oggi,

ecco che quella età formativa, quella spugna assetata di

conoscenza, di innovazioni, di rivoluzioni, di poesia

multiforme, timbrerà per sempre la vita di quella

generazione, la condizionerà nelle scelte etiche, negli

imperativi morali, negli schieramenti ideologici, nelle

vocazioni artistiche, nell’ascesa e nella caduta di ogni

tensione onirica.

In quegli otto anni che vanno dal 1960 al 1968 è

accaduto tutto. La carne tenera della coscienza

adolescenziale come un tessuto assorbente s’è impregnata

di tutte le emanazioni e le trasformazioni metamorfiche di

un contesto socio-storico che assunse poi le caratteristiche

di un vero e proprio cambiamento epocale, di un

cataclisma poetico e catartico, creando la generazione

“contro”, la generazione utopica, la generazione che

credeva nell’altrove. L’altrove di Rimbaud.

Furono molti i richiami che ci fecero voltare la testa ai

quattro punti cardinali dove si trovava “la fantasia al

potere”: il rock, il movimento beat, tra musica e

88

letteratura, quello hippy, tra misticismo e nuovo

tribalismo, i poeti in musica cioè i cantautori, i poeti

letterari, i filosofi anarchici, i guerriglieri marxisti, la

rivolta del maggio francese: richiami diversi tra loro,

eppure sotterraneamente collegati da una visione sociale

destrutturata, reinventata, e unificante, da condividere tra

contest-azione e cultura antiaccademica, anzi cultura

underground, per dichiarare ogni arte non inferiore

all’altra, per volerla nelle strade tra le masse giovanili, per

affermare il valore estetico di ogni prodotto artistico nel

suo specifico, per abolire il classismo intellettuale

discriminante esistente allora e resistente oggi all’interno

dei pascoli creativi, per restituire priorità contenutistica

all’opera artistica come dovere morale dell’autore davanti

alla realtà sociale e politica planetaria.

Dunque scardinare le convenzioni borghesi, lottare

contro le istituzioni repressive, rifiutare l’intero Sistema,

“senza mai perdere la propria tenerezza”. Ma procediamo

per strati.

Alla fine degli anni Cinquanta, l’Italia del dopoguerra

aveva terminato l’opera di ricostruzione post-bellica,

impostandola su canoni di produttività dettati dalla civiltà

industriale e dal consumismo con il sostegno della politica

e del clero, così la rinnovata triade Dio Patria Famiglia

tornò in scena, mascherata di democrazia e benessere, a

rimettere in funzione i vecchi collaudati meccanismi dei

riferimenti nazional-popolari tra potere e massa.

Ma fin dai primi anni Sessanta, una generazione

inquieta e bisognosa di sogni, in crisi di rigetto con il

pragmatismo capitalistico dell’establishment filo-

americano in continua espansione al di qua dell’oceano,

stava per aggregarsi in tutti gli angoli del mondo seguendo

la percezione magica di un accordo universale; flussi

inestinguibili di giovani si interscambiavano di paese in

89

paese, affratellandosi, solidarizzando tra loro attraverso

una consanguineità spontanea ed elettiva. Il primo Big

Bang, il punto sorgivo primordiale, fu il rock che a tutto

questo fece da miccia ma che si rivelò essere subito un

ordigno antiborghese, la cui forza dirompente provocò

l’insanabile rottura dei giovani con l’autorità famigliare.

Ma fu soprattutto la beat generation, a creare questo

miracolo laico di fratellanza basato su comuni intenti

utopici e uno stile di vita on the road, “sulla strada”, intesa

come viaggio permanente in altre culture e all’interno del

sé, rifiutando i criteri convenzionali che prevedono il

concetto di progettualità e relative tappe esistenziali già

codificate, addirittura obbligate, come non ci fosse

un’alternativa felicemente improduttiva da scegliere e

poter perseguire.

Il movimento beat nacque e dilagò nel mondo per via

naturale come la crescita dell’erba o il passaggio delle

nubi. Antinuclearista, antimilitarista, pacifista, fece da

contro/canto alla guerra del Vietnam, ad ogni guerra

esistente sul pianeta, al terrore atomico. Milioni di giovani

stesi sul selciato nei sit-in di protesta, milioni di

manganelli ligi al dovere di massacrarli.

Naturalmente da noi arrivarono i simulacri più popolari

del beat: i complessi musicali con le loro canzoni che

sebbene commerciali avevano comunque la capacità di

sostenere un clima, una tematica, un’atmosfera, differenti

com’erano nei testi da quelle che solo poco tempo prima

gorgheggiavano in televisione. I grandi, tanto per

ricordarli, erano Bob Dylan, Joan Baez, Donovan.

Ma il beat fu prima ancora un movimento letterario già

vivo alla fine degli anni ’40. A noi fornì gli strumenti di

indagine Fernanda Pivano che fu la sola a importare

dall’America gli autori di quella corrente e ancora oggi

molti di noi continuano a nutrire verso “Nanda” una

90

profonda gratitudine e una autentica venerazione. Saggista

outsider, già allieva di Pavese, operò sempre “in direzione

ostinata e contraria” come cantava Fabrizio De André per

il quale curò la versione musicale di “Spoon river” di

Edgar Lee Masters: un vero capolavoro.

Dunque anteponiamo per un attimo alle gaudenti e

sfrenate serate degli anni Sessanta dove si consumava la

giusta voglia di vivere tra spiagge assolate, locali da ballo,

e corse azzardate su spyder lanciate oltre i limiti del buon

senso, anteponiamo le serate molto diverse che vivevamo

noi, l’altra faccia di quegli anni, quando fuggivamo il

chiasso e una ludica superficialità, ritirandoci in collina,

mirando il mare dall’alto, le lucine tremolanti, col

sottofondo di una musica che ci giungeva flebile, attutita

dalla distanza. Lì sì che parlando di Kerouac, di

Ferlinghetti, di Corso, o recitando i versi di Howl di Allen

Ginsberg, genio del ‘900, ci lasciavamo andare a

un’esaltazione mai provata, come visionari dilettanti senza

freni, facili prede di una smania inconfessabile di volerci

ritrovare poeti all’indomani… Adesso tutto questo ha un

sapore quasi commovente ma si vorrebbe ritrovarla quella

passione, anche se infantile, quel senso del sogno… anche

se decaduto, quando si pensava che i poeti avessero tanto

pubblico quanto le rockstars e che la poesia fosse in grado

di cambiare il mondo, come voleva Rimbaud… Ginsberg

operava una tale scomposizione del verso, un

accoltellamento delle strofe che dagli squarci ogni regola

ortodossa defluiva come un’emorragia inarrestabile, direi

un salasso benefico e letterariamente terapeutico… Nelle

notti estive ci pareva di assistere a uno spettacolo

pirotecnico ma non erano i fuochi artificiali a illuminare

l’oscurità, erano i versi di Ginsberg, le sue visioni come le

visoni degli indiani d’America a digiuno sulla montagna,

le sue rabbie politiche, la sua disperazione esistenziale, le

91

sue angosce metropolitane, erano quei versi a creare

l’arcobaleno psichedelico delle nostre folli notti di ragazzi

solitari e confusi.

A quel tempo eravamo assediati da tanti richiami ma

erano assedi d’amore, travasi straripanti di poesia, la

poesia ci colava addosso, nell’anima, nei calzini, fuori

dalle orecchie, in fondo agli occhi. Nel trambusto

assordante del rock e del beat all’improvviso si fecero

avanti voci più delicate, musiche più melodiose, testi più

intimisti: erano i cantautori italiani che qui chiamerò poeti

in musica. Gino Paoli, Luigi Tenco, Umberto Bindi,

Fabrizio De André, Bruno Lauzi, la cosiddetta “scuola

genovese” (senza dimenticare Piero Ciampi e Sergio

Endrigo) s’infiltrò nella nostra fragile ma intensa

sensibilità ricettiva creando un’identificazione empatica

che ci guidò nell’intricata foresta dei sensi amorosi

decriptandoli, rivestendoli d’incanto e di lirismo ma di un

incanto e di un lirismo asciutto e moderno senza fronzoli

né sospiri melò. Come il beat ci indusse a essere partecipi

degli eventi sociali del mondo e ad accogliere i giovani

nomadi che quel mondo lo percorrevano ad ogni

latitudine, scambiando informazioni, suggellando amicizie

transnazionali, così i poeti in musica ci portarono dentro il

mondo dei sentimenti privati, individuali, diventando gli

osservatori dei nostri primi incerti diagrammi ghiandolari,

equivocati per amori assoluti, i confessori segreti, i fratelli

maggiori, addirittura i genitori che avremmo voluto avere.

Come può oggi un poeta che tanto li ha amati da ragazzo e

da adulto e che continua ad amarli da vecchio, svilirli o

contrapporsi o denigrarli come molti fanno? Li

ascoltavamo con lo stesso coinvolgimento, lo stesso

struggimento che provavamo nel leggere le poesie di

Pavese, di Cardarelli, di Prevert… Eravamo una spugna

92

imbevuta di sogni… l’età della terra promessa… Se i poeti

letterari avessero risposto alle istanze interiori e sociali di

quella massa giovanile che chiedeva poesia e impegno, se

avessero partecipato a quella grande festa di vita, se

fossero stati capaci di creare una Woodstock poetica

invece di ritirarsi su un trespolo elitario guardando la

plebaglia con sprezzo aristocratico, non ci troveremmo

oggi a contarci in una nicchia sempre più ristretta, sempre

più vicina al rischio d’estinzione, in ogni caso meno

dolorosa del non essere ascoltati. Voglio ricordare che la

poesia in musica nacque a Parigi alla fine degli

anni’40…Un artista su tutti ne fu l’immaginifico fautore:

Léo Ferré.

Il destino mi offrì più tardi il privilegio di essergli

amico devoto negli ultimi dieci anni della sua vita e devo a

lui, al suo magico ascendente, se mi sono dedicato

totalmente alla poesia in questi venticinque anni di

creatività ininterrotta. Ferré, in quelle caves parigine,

anguste e fumose, aprì la via alla poesia in musica, seguito

da Georges Brassens, Jacques Brel, Juliette Greco,

Patachou, Barbara, Moustaki, Mouloudji…Non solo i suoi

testi rappresentavano di per sé una forma letteraria

qualitativamente alta a tal punto che Ferré oggi figura nel

Petit Larousse insieme ai più grandi poeti francesi del

‘900, ma il Maestro si spinse oltre e musicò e cantò

Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Apollinaire, Aragon,

Villon, Pavese, e Angiolieri. Un’operazione sublime e

coraggiosa che non ha eguali al mondo. Louis Aragon

proclamò: “ bisognerà riscrivere la storia della letteratura a

causa di Léo Ferré ”. E i letterati che frequentavano e

sostenevano con entusiasmo quegli artisti si chiamavano

Jean Paul Sartre, Albert Camus, André Breton, Simone De

Beauvoir, Jacques Prevert, Boris Vian…

93

I nostri cantautori, i poeti in musica, arrivarono circa

dieci anni dopo ma, ebbero dei “padri” di tutto rispetto,

delle fonti ispiratrici nobili e altissime che hanno dato

tanta poesia agli uomini.

Certo, se vogliamo circoscrivere la poesia al puro gesto

di scrittura su un foglio, allora chi canta non è un poeta.

Mi piace però pensare che sia la poesia ad

autodeterminarsi dove e quando vuole, come un’entità

indipendente che sceglie ogni volta la forma in cui

apparire: una volta sulla carta, un’altra volta attraverso la

macchina da presa di un regista, o sulla tela di un pittore, o

infine in una canzone d’autore. Non è il genere che la

determina, ma il tipo d’artista. Non ci sono arti maggiori o

arti minori, ma artisti maggiori e artisti minori.

Ma terminiamo la nostra breve incursione sugli anni

Sessanta. Dopo il rock, il beat, i poeti in musica, ecco che

arrivarono gli hippies, i figli dei fiori, costola transfuga del

beat ma con tendenze più misticheggianti, con uno

spiccato senso tribale a tal punto da formare “la comune

hippie”, l’abbandono della città e della civiltà,

organizzandosi in “famiglie allargate”, coltivando nei

campi il cibo per la sussistenza alimentare, sperimentando

in pratica la possibilità di sopravvivere senza cedere

all’integrazione forzata nel Sistema. Una forma di

condominio anarcopacifista alleggerita e sublimata dalla

sua inclinazione verso le dottrine filosofiche indiane e

orientali in genere e da una sessualità collettiva condivisa

all’interno della comunità stessa.

Ma è un’ultima trincea nel deserto. Siamo arrivati al

’68 dove le “istanze sociali ghandiane” espresse in libertà,

pacificamente, fuori da contesti teorici, vengono

risucchiate dalle ideologie marxiste che spazzano tutti quei

fenomeni giovanili precedenti dando il via alla rivolta di

maggio a Parigi e nel mondo. Il mondo prende fuoco ma

94

forse, al di là degli anni, sulle ceneri di quel falò utopico, è

proprio la cultura beat a resistere nel tempo, a significarsi

nella storia, grazie ai suoi scrittori, alla sua poesia, cantata

o scritta che sia. Dunque la nostra adolescenza, la

dinamica formativa di quell’età meravigliosa, s’è nutrita di

utopie, del senso del sogno, di poesia, dell’impeto

rivoluzionario . I miti d’allora erano miti artistici,

filosofici, politici. Li abbiamo seguiti come fossimo stati

generati da loro, da loro venuti alla luce per la seconda

volta.

Che dire dunque quando dalla beat generation della

nostra giovinezza ci siamo trovati, molti anni dopo, da

adulti, da vecchi, davanti alla digital degeneration? Che

dire nel vedere quei miti sostituiti da altri miti, i nostri

bersagli d’allora divenuti, al contrario, semidei idolatrati :

manager, aziendalisti, imprenditori, tecnocrati ?

L’involuzione antropologica spacca la bottiglia di

champagne allo scoccare degli anni Ottanta, quando il

Titanic umanistico inizia la sua tragica traversata

giungendo in pezzi ai giorni nostri, affondando nel mare

gelato e necrotico della cancellazione mnemonica ogni

volta che ci si dimentica di un autore d’appartenenza, ogni

volta che un arrembaggio corsaro neoliberista o

ipertecnologico trascina sul fondo dell’oblio i nostri padri,

la nostra identità culturale: Pavese, Vittorini, Fenoglio,

Soffici, Papini, Bobbio, Sbarbaro, Montale, Ungaretti,

Piovene, Pratolini, Pasolini, Morante, Lalla Romano, e

tanti tanti altri…

Domandate alla digital degeneration chi sono questi

padri appena citati, solo il pesante e agonico silenzio

d’occidente vi risponderà con eloquenza cimiteriale e

s’archivia s’archivia, verso su verso, riga dopo riga, come

in una necropoli museale. Una generazione seppellisce

l’altra e ricopre i nostri padri sotto un cumulo cartaceo

95

come sotto lenzuola di marmo. Le lotte d’allora, le utopie

lontane vengono schernite o addirittura demonizzate. Il

cordone ombelicale con il nostro più recente passato è

stato tagliato e gli ultimi umanisti vagano sospesi nel buio

epocale come astronauti fuori dall’abitacolo nell’oscurità

siderale dell’universo. Il trapianto globale è riuscito

perfettamente, la grande protesi è stata applicata

sostituendo i soggetti con gli oggetti. Oh si, l’uomo nuovo

è davvero nato ma non ha le caratteristiche che

auspicavamo, un uomo senza consapevolezza del passato

è un uomo – cicala, un organismo usa e getta fatto in

laboratorio e asservito a un sistema globale onnivoro e

mandibolare destinato a morire per anemia onirica. Ma il

danno non è solo nell’aver creato e nel continuare ad

alimentare i barbari del nuovo analfabetismo, il danno è

più profondo, più irreversibile. Il danno finale è di aver

rarefatto i sentimenti e i valori morali, di averli

desertificati a tal punto di averli espropriati dal DNA

collettivo, di aver leso il nucleo intimo dell’individuo,

desensibilizzandolo come in un’anestesia mondializzata.

Alcuni decenni fa Pasolini disse: “Credo nel progresso,

non credo nello sviluppo”. Nel 1965 il regista Jean-Luc

Godard realizzò un bellissimo film, altrettanto profetico,

intitolato Missione Alphaville che narrava l’avventura di

un agente segreto in missione sul pianeta Alphaville dove

uno scienziato –simbolo del potere assoluto- domina

l’intera società disumanizzandola, togliendo la capacità

alla gente di percepire e vivere i sentimenti, e rendendola

così asservita a un tirannico regime tecnologico. Tutti i

personaggi della storia vengono spogliati d’ogni umana

pulsione. L’agente Lemmy Caution, s’innamorerà di una

ragazza anch’essa inconsapevole della azione snaturante

subita e incapace di ricambiarlo. Quando, alla fine del

film, l’uomo riesce a strappare la ragazza ai suoi

96

sorveglianti e a fuggire con lei da Alphaville, la ritroviamo

all’interno della macchina mentre tiene tra le mani il libro

di Paul Eluard Capitale del dolore che Lemmy Caution gli

ha rifilato come ultima speranza. Solo attraverso la poesia

lei riuscirà a dire: “ io ti amo”.

Non so se sarà la poesia a salvarci, so che da Alphaville

dobbiamo tutti scappare.

97

UN’ANTOLOGIA NECESSARIA (Con il fuoco del sangue. 32 poeti colombiani d’oggi)

di Emilio Coco

Si dice da più parti che la Colombia è un paese di poeti,

come si afferma che il festival di poesia di Medellín è il

più importante del mondo. Ma quanto conosciamo di

quella poesia in Italia? Niente o quasi. A parte le poche

notizie di poeti colombiani apparse in riviste on-line o le

rare ma pregevoli traduzioni di qualche autore per conto di

piccole case editrici le cui pubblicazioni sono introvabili

anche nelle grandi librerie, non esiste in Italia un lavoro di

un certo spessore che ci informi sulla realtà poetica

contemporanea di questo meraviglioso paese

sudamericano noto, ahimè, in Italia soprattutto per i

numerosi casi di violenza e per i famigerati cartelli della

droga.

Un luogo comune che si sente ripetere spesso è che in

questa nazione si parla il migliore castigliano

dell’America latina per la sua pronuncia e la sua fedeltà al

senso originale della parola. Un’altra asserzione tipica è

che la poesia che si scrive in Colombia è superiore a

quella messicana o a quella di qualsiasi altro paese di quel

continente. Se il lettore curioso vuole verificare di persona

la veridicità di questa rivendicazione, ha a disposizione

un’ampia scelta di poeti messicani nell’antologia da me

curata tre anni fa presso lo stesso editore, dal titolo Dalla

parola antica alla parola nuova. Ventidue poeti messicani

d’oggi.

Mettendo da parte futili polemiche e contese, io penso,

anzi sono convinto, che la poesia che si scrive oggi in

America latina è la migliore del mondo e sto cercando di

dimostrarlo attraverso i diversi florilegi che sono venuto

98

compilando, a partire dal 2008, di poeti argentini,

ecuadoriani, nicaraguensi, della repubblica dominicana,

messicani fino a quest’ultimo di poeti colombiani che il

lettore ha adesso tra le mani, per non parlare delle

numerose altre pubblicazioni in libri o in riviste di poeti

cileni, peruviani, uruguaiani, paraguaiani, cubani,

salvadoregni, costaricani, boliviani, guatemaltechi,

venezuelani.

Il mio interesse per la poesia sudamericana ha preso

definitivamente corpo a partire dal 2008, anche se negli

anni precedenti c’era stata qualche breve incursione

attraverso traduzioni di poeti che avevo conosciuto in

festival di poesia spagnoli. Menziono per tutti il poeta

peruviano Arturo Corcuera. Ricordo con viva emozione il

mio primo viaggio in Messico, nell’ottobre del 2008,

quando fui invitato al “Festival de Poesía del Mundo

Latino”. Visitai, insieme ad altri poeti colombiani,

peruviani, cileni, cubani, uruguaiani e soprattutto

messicani, le splendide località di Morelia e Pátzcuaro e

m’immersi nell’illimitata e caotica Città del Messico. Qui

mi ha onorato della sua amicizia il grande Juan Gelman,

suggellandola con un abbraccio soffocante. Qui, sulla

scalinata del monumentale Palacio de Bellas Artes, mi

sono confuso nell’accalcarsi dei poeti abbagliati dai flash

della macchina fotografica dell’instancabile e generoso

José Ángel Leyva. Non ho visto mai tanto interesse e

amore per la poesia nella gente comune come in Messico.

A Morelia, nello splendido teatro cittadino, gremito fino

all’inverosimile, scrosciavano applausi entusiastici per i

poeti che si avvicendavano sul palcoscenico come se si

trattasse di grandi divi del cinema, della canzone o dello

sport. Qui mi sono visto avvicinare, all’uscita del teatro, la

sera della mia lettura poetica, da due fidanzatini che, con

voce rotta dall’emozione, mi chiesero un autografo,

99

professandosi miei fans e facendomi omaggio del libro di

un poeta locale. Mi commossi fino alle lacrime e li strinsi

entrambi in un solo abbraccio. Nella stanza dell’albergo,

sfogliando il libro, trovai un bigliettino con queste parole:

“Gracias por escribir palabras que vuelven más sensibles

a las almas de este mundo. Natalia y Adal. Morelia,

Michoacán, 2008”. Potevano avere sedici anni. Qui ho

conosciuto Marco Antonio Campos che accompagnava la

lettura dei testi suoi e di altri poeti col gesto lento e

delicato della mano quasi a sottolinearne l’intensa

musicalità. Qui ho stretto amicizia con i poeti colombiani

Juan Manuel Roca e Jotamario Arbeláez.

Appena tornato in Italia, dopo quella mia prima

indimenticabile esperienza, proposi alcuni testi di questi

tre poeti al direttore della rivista Pagine. Vincenzo Ananìa,

un altro grande e generoso amico che ci ha lasciati

qualche anno fa, rimase completamente affascinato da

quella poesia che trovò impetuosamente fresca, agile,

genuina, non viziata, come spesso quella italiana, da uno

sterile e narcisistico esibizionismo linguistico. Non mi

accade spesso di fare scoperte felici che mi compensino

della lunga e paziente fatica di ricerca tra le molte decine

di volumi che giorno dopo giorno aumentano le pile di

libri sulla mia scrivania. E quando capita, mi prende

gratitudine, come per un dono caro e inaspettato. E il bello

è che spesso queste consolanti illuminazioni mi vengono

non tanto dalle sillogi di poeti italiani, che pure leggo e

faccio conoscere all’estero attraverso le mie traduzioni,

quanto da testi di autori latino-americani spesso malnoti o

completamente sconosciuti in Italia e che stanno

scrivendo, a mio parere, una poesia che i tanti cultori di

letteratura nostrana si ostinano a non tenere in debito

conto.

È così che, dopo più di trent’anni dedicati alla

100

traduzione di poeti spagnoli, i miei interessi hanno

cambiato definitivamente rotta. Come dico in una poesia

di Ascoltami, Signore “... è meglio concentrarmi / su

qualche messicano / cileno o uruguaiano / da un anno a

questa parte / non m’intrigano più i castigliani”. Una

spiegazione a questo brusco cambiamento potrei darla in

questi termini: mi sono profondamente innamorato della

poesia sudamericana e l’amore, come ben si sa, richiede

una dedizione assoluta ed esclusiva. Essa mi ha succhiato

l’anima, mi ha come drogato. Non so fornire delle

motivazioni critiche a tutto ciò, anche perché, come ho

detto più volte in precedenti lavori, mi sento enormemente

a disagio nei panni del critico e lascio volentieri ad altri

questo ingrato mestiere che spesso costringe a nuotare in

un’acqua infida, melmosa, piena di trabocchetti e di

risucchi, soprattutto quando si lavora su una materia

incandescente qual è la poesia che si sta costruendo giorno

dopo giorno, non ancora sedimentata, che comporta il

pericolo della scommessa, ma anche, credo, la bellezza

della ricerca e la passione della scoperta.

Ha scritto il poeta spagnolo José Hierro: “La poesia è

magia e qualsiasi esplicitazione è come voler giustificare il

miracolo ricorrendo a procedimenti di illusionista”.

L’anno scorso sono stato invitato al festival

internazionale di poesia “Las líneas de su mano” che si è

svolto in Colombia, a Bogotá dal 2 al 6 settembre. In

questo paese, l’amabilità della gente è una distinzione

culturale. Il sorriso è spontaneo, l’abbraccio, avvolgente.

In Europa e in Italia, queste forme di comunicare le

abbiamo perse da tempo. E io questa gentilezza, questa

gioia di conversare con l’amico, quest’intimità di persone

che si sono appena conosciute ma che si comportano come

se si frequentassero da anni, l’ho vissuta pienamente in

101

quei pochi giorni trascorsi nella capitale colombiana. Da

quell’esperienza è nata l’idea di fissare sulla carta alcune

delle voci ascoltate nell’accogliente spazio del Gimnasio

Moderno insieme ad altre che sono andato scoprendo

grazie anche all’aiuto di vecchi e nuovi amici.

Al di là delle proposizioni dottrinarie, mi preme qui

sottolineare l’ambizione di questo lavoro. Esso in primo

luogo vuole offrire al lettore italiano la possibilità di

avvicinarsi a una poesia poco nota da noi e partire da lì per

ampliarne e approfondirne, qualora ne abbia voglia, la

conoscenza. In secondo luogo essa ha costituito per me

l’occasione di un rinnovato incontro con alcuni nomi

consacrati che avevo già avuto modo di apprezzare e che

si pongono, grazie alla loro forza e originalità creativa,

come modelli insostituibili del fare poesia. E accanto ad

essi altre voci, voci di poeti giovani e meno giovani che

reclamano giustamente il loro spazio di attenzione. La mia

è stata una lettura appassionante, persino entusiasmante.

Alla fine ho dovuto scegliere: trentadue poeti. Una scelta

condizionata soprattutto dal mio gusto personale, dalle mie

particolari convinzioni. Ogni antologista dovrebbe

ammettere onestamente che in ogni sua operazione c’è

una buona dose di soggettività. È in errore chi pretende di

aver scelto tra quanto vi è di più rappresentativo o di più

consolidato, senza lasciarsi influenzare dalle sue

preferenze, dalla sua personale “poetica”. Ma è soprattutto

in malafede chi non fa una scelta di qualità. In base ad

essa deve esprimere sempre il proprio consenso o il

proprio rifiuto.

Un altro punto che mi sta a cuore rimarcare è che non si

tratta di un’antologia nel senso tradizionale della parola.

Non è una storia, un resoconto più o meno esaustivo e

fedele di quello che è successo in Colombia in questi

ultimi decenni nel campo poetico. Non informa sulle

102

estetiche, le tendenze più forti, le varie generazioni. Di

simili storie, coniugate in formule diverse, ne circolano o

ne sono circolate abbastanza, alcune buone, altre meno

buone. Questa “antologia” è una resistenza alla tentazione

di catalogare, etichettare, produrre canoni per quanto la

pensino diversamente certi critici che giocano ad eliminare

o a includere nomi a seconda che rientrino o meno nei loro

schemi precostituiti. La lettura, per essere tale, deve essere

libera, plurale, e più che azzardare inquadramenti e

gabbie, è preferibile presentare i poeti in carne viva,

ciascuno con la propria esasperata vitalità e individualità,

con la sua voce inconfondibile.

Trentadue poeti viventi, dunque, la cui produzione

letteraria occupa un arco di tempo di poco più di

cinquant’anni se si considera la pubblicazione delle prime

poesie di Jaime Jaramillo Escobar (il più anziano dei poeti

presenti), pubblicate da Gonzalo Arango nell’antologia 13

poetas nadaístas (1963) e l’ultimo lavoro del più giovane

dei poeti, Luis Arturo Restrepo, uscito nel 2014, dal titolo

En el fuego, la mirada. Penso che sia un numero

sufficiente per un primo approccio alla poesia colombiana

di oggi. E’ questa un’antologia che si caratterizza per la

sua totale apertura e dispersione di voci. Lo scrittore (in

questo caso il poeta) è un solitario che si rivolge a un altro

solitario (il lettore), alla ricerca di un interlocutore con cui

condividere il suo mondo e le sue preoccupazioni. Per

quanto vasta e ambiziosa possa essere un’antologia (e

questa non lo è) resta sempre e comunque un’opera

frammentaria, una scelta di nomi. Nel 1997 Rogelio

Echavarría selezionò 219 poeti del XX secolo per la sua

Antología de la poesía colombiana, commissionatagli dal

Ministero della Cultura. E sono sicuro che anche in essa

mancavano dei nomi. La forza dell’antologista sta proprio

103

nella precarietà delle sue scelte. Il poeta messicano José

Ángel Leyva ricorda il caso emblematico di Volodia

Teitelboim che a diciannove anni si lanciò nell’avventura

di classificare i grandi poeti cileni, escludendo

olimpicamente Gabriela Mistral che poi avrebbe dato al

suo paese e all’America latina il primo premio Nobel di

letteratura nel 1945. Volodia si sarebbe portato addosso

fino ai suoi ultimi anni di vita il peso di quella decisione

viscerale o della sua giovanile ignoranza.

Forse i margini di errore sarebbero stati più ristretti se

avessi optato per un’antologia tematica, di quelle sulle più

belle poesie d’amore, sul padre, sulla madre, sul

paesaggio, sulla donna, sulla violenza, sull’eros, ma in

questo modo ne avrebbe sofferto il probabile lettore in

quanto gli si sarebbe propinata una visione a dir poco

parziale della realtà poetica di quel paese. O forse ancora

un’antologia ideale potrebbe sembrare quella

generazionale, che prende in considerazione gruppi ben

definiti, movimenti, estetiche. Ma anche qui i gruppi di

poeti sono più espressione di un corporativismo mafioso,

di un’associazione di mutuo soccorso che di un’identità

estetica. Poeti che si aggruppano lo fanno spesso per

sentirsi sicuri e protetti anche se diversi sono i loro esiti

stilistici e le loro dinamiche. D’altro canto non va

sottaciuto il fatto che in questo tipo di antologie si ripetono

in continuazione le stesse poesie e gli stessi nomi che

acquistano visibilità proprio grazie a simili operazioni.

Basta dare uno sguardo alle varie antologie pubblicate in

questi ultimi anni in Italia per avere una conferma di

quanto ho appena detto.

Dicevo prima che questo mio lavoro prende in

considerazione l’opera di trentadue poeti che si sono posti

in luce in varia misura e con una varia validità di risultati,

104

ma comunque sempre con un loro peso e con una loro

significazione, nell’ultimo cinquantennio. Sono stati anni

contrassegnati da una violenza inaudita a tutti i livelli che

ha fatto dire a qualcuno che la “democrazia” colombiana

ha causato più morti di qualsiasi altra dittatura degli altri

paesi sudamericani. Come scrive Luis Eduardo Celis “la

violenza dei narcotrafficanti, dei possidenti terrieri e delle

élite regionali che confluirono nel paramilitarismo degli

anni ‘90, rese possibile la più grande operazione di

distorsione della democrazia, attraverso il controllo delle

istituzioni statali a tutti i livelli”, a cui bisogna aggiungere

una nuova forma di violenza messa in atto dalla sinistra

armata in varie operazioni di guerriglia.

Di questa terribile realtà si trovano riferimenti più o

meno espliciti in più di un poeta. Si legga La estatua de

bronce di Juan Manuel Roca, o la poesia I morti di

Guillermo Martínez González, i quali “spuntavano per

strada col volto / di spavento alterato dalle mosche” o che

“scendevano in paese in groppa alle mule / sospesi come

animali da sacrificio”, mentre la violenza “passeggiava col

suo tamburo / di mezzanotte nei villaggi”. Migliaia di

morti e migliaia di scomparsi sui quali cala una cappa di

silenzio quasi obbligata nella “maligna” Bogotá su cui

brillano inutili le stelle del cielo, con i “suoi crimini

nascosti e i suoi giovani assassini / che cospirano nei bar”.

Ma è nei testi di Horacio Benavides dove il clima di

violenza è maggiormente palpabile e dove la morte aleggia

dappertutto, impregna l’aria e imbeve il paesaggio. È tutto

un susseguirsi di orride visioni di cadaveri e monconi di

corpi che galleggiano nei fiumi e che trasformano la

frescura dell’acqua chiarissima in un nero specchio di

morte. E sentiamo il bramire del mostro scuro, le grida

dei torturati e lo sguazzare dei caimani nel pozzo che si

contendono i cadaveri, le grida di spavento mentre la notte

105

scende sopra i morti orfani e gli assassini dormono

ubriachi sulle tavole nelle osterie, e ci sediamo insieme al

contadino su una panchina del parco dove aspetta invano i

suoi figli perché nessuno è mai tornato. Il poeta descrive

tutto ciò con una lievità di tocco e semplicità di

linguaggio, quasi fosse una favola brutta, con la piccola

speranza che tutto questo finisca un giorno e il mare possa

lavare tanto orrore e si ritorni a correre sulla spiaggia,

ruzzando con la gioia che si radica nei corpi distesi al sole

“brillanti e robusti come leoni marini”.

Di fronte a tanta terribile virulenza sociale, come

reagiscono i poeti? Essi vivono e soffrono il loro tempo

tormentato e inquieto, e la loro poesia, in più di un caso,

ha dato prova di un elevato spirito civico. È presente in

molti di loro un forte sentimento di speranza e

determinazione di costruire la pace, non con la forza delle

armi, ma con quella dell’intelligenza e delle parole. Ma è

anche vero che nessuno può suggerire i temi al poeta. La

vecchia idea romantica che la poesia possa cambiare il

mondo è da tempo che è entrata in crisi. Il poeta

messicano Marco Antonio Campos scrive dei versi

illuminanti a tal proposito. Nella poesia “Dichiarazione

d’inizio” possiamo leggere affermazioni devastanti come

queste: “La poesia non cambia / se non la forma di una

pagina, l’emozione, / una meditazione già scontata. / Ma,

in concreto, signori, niente cambia. / In concreto, cristiani,

/ non cambia una croce a nuovi monti, / non estirpa,

tedeschi, / la vergogna di un tempo e della sua crisi, / non

toglie, marxisti, / il pane dalla bocca al milionario. / La

poesia non fa niente. / E io scrivo queste pagine

sapendolo.” La forza del poeta potrebbe consistere semmai

nel denunciare, nell’indicare possibili soluzioni, ben

sapendo che tocca ai politici metterle in atto per il bene

della comunità. Ma i politici, si sa, non leggono poesia.

106

Egli è da tempo che ha smesso di essere la voce della

tribù, la voce di quelli che non possono parlare. La poesia

può solo cambiare il poeta e il possibile lettore che ad essa

si avvicina. Tutto il resto è demagogia.

Il tema della violenza, come il lettore potrà verificare,

non è l’unico presente in quest’antologia. La poesia

colombiana di questi ultimi decenni è caratterizzata da una

esplosione di voci, di forme, di estetiche, di registri, di

temi in continua ebollizione e arricchimento. Così accanto

a Jaime Jaramillo Escobar e Jotamario Arbeláez due tra i

più agguerriti rappresentanti del movimento nadaísta (una

forma di neovanguardia che nasce come risposta

all’imposizione culturale dell’accademismo), troviamo la

poesia di Juan Manuel Roca in cui la realtà più scontata si

colora di una magia onirica che ci invita a viverla come si

vive una passione. E non poteva mancare Giovanni

Quessep che ci canta la bellezza di un mondo perduto fatto

di leggende e favole, di castelli e giardini che ci tocca ed

emoziona in eguale misura nell’ambito umano e nel

dominio propriamente estetico. Juan Manuel Roca e

Giovanni Quessep sono due giganti della poesia

colombiana d’oggi, che hanno prodotto opere di altissimo

valore estetico e morale, contribuendo in maniera

determinante a definire le scelte di scrittura di tanti

giovani poeti, non disdegnando di confrontarsi con essi in

una leale e feconda competizione. Come non si può

passare sotto silenzio l’opera di un altro grande della lirica

colombiana, Darío Jaramillo con la sua poesia autoironica

che non soffre intoppi e deviazioni e opta per un

linguaggio conversato di cui si serve per narrarci la sua

esperienza d’uomo immerso nell’universo urbano; ma

sono i suoi versi d’amore, impetuosamente freschi, quelli

più conosciuti dai lettori di poesia e che hanno trovato in

107

Fabio Volo uno dei più entusiastici estimatori e diffusori.

Né si può fare a meno di ricordare la voce di Luis

Aguilera, creatore di inquietanti atmosfere di una rara

bellezza; o quella di José Luis Díaz-Granados, calda e

musicale; o la poesia di Rómulo Bustos, sottile, precisa ed

elusiva allo stesso tempo; o l’insinuante e sfavillante

erotismo di Raúl Henao, intriso di surrealismo; o ancora la

poesia di Piedad Bonnet, con la trasparenza delle sue

emozioni e dei suoi trasalimenti placati e risolti nel sereno

possesso della parola poetica, o quella di Armando

Romero, la cui vocazione narrativa ricorre a inusuali

associazioni che scombussolano gli ordini della visione

reale creando situazioni di alto potenziale poetico.

E qui mi fermo, lasciando al lettore che abbia la

pazienza e il gusto della letteratura volenterosa, non

prevenuta, di fare le sue scoperte e le sue considerazioni.

Poi verranno gli accademici e i critici di mestiere a

dissezionare, a integrare, a ricomporre, a confrontare

poetiche e personalità, a chiedere e a cercare spiegazioni.

Nel frattempo, il lettore si lasci prendere per mano dai

poeti e guidare nel fascinoso e caleidoscopico mondo della

poesia colombiana d’oggi.

108

109

IL NOVECENTO E LA POESIA DEL

MEDITERRANEO. VERSO UNA ITACA POETICA

di Zosi Zografidou

Il Mediterraneo, il mare che separa e unisce l’occidente

con l’oriente, che rappresenta il «crocevia tra Europa e

Africa, tra Europa e Asia»,53

il «mare bianco di mezzo»,

come viene chiamato dal mondo arabo54

è lo slargo umido

degli scambi fra tre continenti che va mischiando e

impostando processioni multiverse»,55

«il mare che

costituisce la più grande concentrazione di beni artistici

del mondo»,56

«l’immensa ‘platea’ intorno alla quale si

fronteggiano molteplici palcoscenici di diverse influenze

artistiche»,57

«il mare degli incontri e dei confronti fra

culture, religioni, società differenti»,58

è il mare del

viaggio di Ulisse, di Giasone, di Ercole, di Enea.

È l’infinito mare nostrum di tutti i popoli del bacino che

53

Giorgio OTRANTO, «Per un dialogo euromediterraneo: le ragioni

della storia», in Mediterraneo: mare di incontri interculturali, a cura

di Franca Pinto Minerva, Bari, Progedit, 2004, p.5. 54

Tahar Ben JELLUN, «Mediterraneo la poesia del lago di luce»,

traduzione in italiano Elisabetta Horvat, vd. http://ricerca. repubbli-

ca.it/repubblica/archivio/repubblica/2005/09/04/mediterraneo-la-poe-

sia e in http://www.eleaml.org/sud/meridiano/pm_mediterraneo

_lago_luce.html 55

Armando GNISCI, «Premessa in memoria di Dionyz Durisin», in Il

Mediterraneo. Una rete, cit., p.19. 56

Ettore CATALANO, «Saggio generale 1», in Letteratura del

Novecento in Puglia 1970-2008, a cura di Ettore Catalano, Bari,

Progredit, 2009. 57

Pasquale BELLINI, «Coordinate per uno spettacolo

‘mediterraneo’», in Il Mediterraneo. Una rete, cit., p.167. 58

Mediterraneo: mare di incontri interculturali, cit., p.VII.

110

apre la mente all’idea della partenza e dell’avventura,

dell’esperienza e della conoscenza.

È il mare delle letterature, di ieri e di oggi, il mare

senza confini, il mare dei poeti che non appartengono a

uno spazio determinato, perché come dice il poeta greco

Elitis, «la poesia è sempre unica, quanto unico è il sole»59

.

È il mare dei poeti greci, italiani, francesi, spagnoli, turchi,

libanesi, marocchini, egiziani che portano nel cuore lo

spirito del Mediterraneo, il calore del sole e la freschezza

delle acque e riescono con la loro voce a farsi sentire in

tutto il mondo celebrando la luce mediterranea fuori dal

tempo e dallo spazio. La loro poesia è la poesia

dell’azzurro del mare e del cielo, degli oliveti e delle

vigne, delle pietre e del vento. Il mare e il sole sono due

campi semantici ai quali vengono assegnate le forze più

potenti della natura mediterranea.

Il mare è il luogo dell’avventura e della ricerca, e il

viaggio sul mare simboleggia il viaggio, il cammino della

vita dell’uomo. È simbolo della costante lotta e della

continuità. Itaca rappresenta l’inizio e la fine della lotta

della vita umana. «Il desiderio di scoprire l’ignoto e di

acquisire conoscenza è sempre vivo nell’uomo».60

Il canto dolce che salmodia il mare, composto dai tre

grandi poeti della natura, come vengono definiti dal poeta

simbolista greco Constantinos Kavafis (1863-1933), il

sole, il vento e il cielo del Mediterraneo, è il canto che

emoziona i poeti di tutte le comunità interletterarie61

. Il

59

«Μυρίσαι το άριστον IV» O μικρός Ναυτίλος, Οdisseas ELITIS, in

Ποίηση, Αtene, Ikaros, 2002. 60

Sonia ILINSKAJA, «La ‘mediterraneità’ nella poesia», cit., p.80. 61

Zosi ZOGRAFIDOU, «La poesia del mare Egeo: immagini poetiche

del paesaggio mediterraneo», in Orizzonte Sud, a cura di Luigi

Cazzato, Bari, Besa, 2011, p.371; Ivan DOROVSKY, «Ιl centrismo

mediterraneo orientale», in Il Mediterraneo. Una rete interletteraria,

111

canto che riesce ad unificare tutte le voci poetiche e

trasformare il mare in un bacino pieno di sentimenti senza

confine.

Il Mediterraneo è il mare dei poeti che accolgono nel

cuore l’azzurro del cielo infinito, il vento che non ha patria

e il sole che da vita a ogni essere terreno.

Il destino dell’uomo è di viaggiare in cerca del suo

porto. I popoli del Mediterraneo, i popoli del Sud e

dell’Oriente, del Nord e dell’Occidente hanno attraversato

mari, pelaghi, oceani per conoscere l’“Altro”. E il mondo,

come dice Edgar Morin, «diviene sempre più un tutto, ma

nello stesso tempo diviene sempre più diviso».62

Non è

vero che il mondo è piccolo, dirà Antonio Tabucchi, anzi

«il mondo è grande e diverso. Per questo è bello: perchè è

bello e diverso».63

Viaggiare per terra o per mare per l’amore, per il

desiderio per la conoscenza, per l’esperienza, per

l’avventura, per la scoperta di nuove terre è un forte

bisogno della natura umana. L’uomo è interessato sempre

al viaggio, ha voluto conoscere nuovi luoghi, e il bisogno,

l’inquietudine continua provoca anche il bisogno di

collegarsi con un’altra terra diversa dalla terra natia e si

crea in questo modo la necessità di spostamento.

a cura di Dionyz Durisin - Armando Gnisci, Roma, Bulzoni, 2000,

p.59. 62

E. MORIN, I sette saperi necessari all’educazione del futuro,

Raffaello Cortina, Milano, 1999, p.69; Franca Pinto MINERVA,

L’intercultura, cit., p.123. 63

Antonio TABUCCHI, Viaggi e altri viaggi, a cura di Paolo Di

Paolo, Milano, Feltrinelli, 2010, p.14; Zosi ZOGRAFIDOU, Antonio

Tabucchi, un viaggiatore inquieto sempre altrove, in P.L.Ladrón de

Guevara-B.Hernández-Z.Zografidou (a cura di), Las huellas del

pasado en la cultura italiana contemporánea-Le tracce del passato

nella cultura italiana contemporanea, Università di Murcia, Edit,

2013, pp. 571-576.

112

Testimonianze di questi viaggi ce ne sono in tutta la

storia dell’umanità. «Non c’è viaggio senza che si

attraversino frontiere – politiche, linguistiche, sociali,

culturali, psicologiche, anche quelle invisibili che

separano un quartiere da un altro nella stessa città, quelle

tra le persone, quelle tortuose che nei nostri inferi sbarrano

la strada a noi stessi».64

«Viaggiare non vuol dire soltanto

andare dall’altra parte della frontiera, ma anche scoprire di

essere sempre pure dall’altra parte».65

Nella letteratura mondiale l’opera che riassume i

significati concreti e simbolici legati al tema del viaggio è

l’Odissea di Omero. L’Odissea è la testimonianza di un

amore per l'avventura e le esplorazioni di nuove terre e

spazi. Il viaggio di Ulisse è un viaggio di ritorno dalla

guerra di Troia alla sua nativa Itaca, la patria abbandonata

e ritrovata.

Nel corso dei secoli il mito di Ulisse è stato variamente

interpretato, si è riempito di nuovi contenuti ed «ha

assunto una valenza differente in relazione al momento

storico e agli ideali filosofici, politici e culturali di

ciascuna civiltà».66

Infatti ogni civiltà ha potuto

interpretarlo a suo modo e «il viaggio di Ulisse è destinato

a non finire mai, così come Ulisse, è rimasto sempre vivo

nel corso dei secoli»,67

come scrive Russo, assumendo

diversi ruoli e significati e avventurandosi in nuovi viaggi,

in cerca di un’Itaca.

Ulisse, «l’eroe epico dell’avventura, aperto verso

64

Claudio MAGRIS, L’infinito viaggiare, Milano, Mondadori, 2005,

p.XII. 65

Ibid, p.XIII. 66

Giovannina RUSSO-KARALI, L’ultimo viaggio di Ulisse nella

letteratura italiana, Salonicco, University Studio Press, 2006, p.11. 67

Ibid., pp.481-482.

113

l’inesplorato, il nuovo e l’ignoto»68

è una delle figure

letterarie più paradigmatica, «un modello forte che ha

trovato il suo sviluppo nei mille volti diversi con cui ci è

stato proposto dalle letterature di tutti i tempi»69

, «il

simbolo dell’instancabile ansia di ricerca, di conoscenza,

di attitudine al rischio e di fuga verso il futuro

dell’uomo»70

, un uomo «bugiardo e capace di tutte le

imposture», scrive Ladrón de Guevara, «che nonostante il

suo apparente desiderio di rientrare in patria ha un cuore

che non lo vuole perché rimane vincolato al mare».71

Itaca, la patria, è nella poesia «Odiseo» la terra

promessa.72

Nell’elaborazione del mito di Ulisse Dante propone nel

canto XXVI dell’Inferno della Divina Commedia, Ulisse

come il grande viaggiatore assetato di conoscenza e colpe-

vole di un desiderio che lo porta alla morte, legata al suo

peccato di superbia nei confronti dei decreti divini.

Secondo Bernard Andreae che definisce Ulisse «come

il prototipo dell’uomo dinamico, sicuro di sè, che riflette

sul suo destino e reagisce consapevolmente»73

è «il primo

della letteratura mondiale a decidere delle proprie azioni, e

68

«I mille volti di Ulisse» in Anna DE SIMONE - Catia GUSMINI,

Percorsi testuali tra ieri e oggi, vol.B’: Epica-Mito-Fiaba-Racconto,

Firenze, Le Monnier, 2002, p.86. 69

Ιbid., pp.86-87. 70

Ιbid., p.86. 71

Pedro Luis LADRóN DE GUEVARA, «Εl mito de Ulises-Odiseo en

la literatura italiana del siglo XX», in Las huellas del pasado en la

cultura italiana contemporánea, a cura di Pedro Luis Ladrón de

Guevara - María Belén Hernández González - Zosi Zografidou,

Murcia, Editum, 2013, pp.21-43. 72

Pedro Luis LADRóN DE GUEVARA, «Odiseo», in Id., Del sudor

de las sirenas, Madrid, Huerga & Fierro editores, 2015, p.17. 73

Bernard ANDREAE, L’immagine di Ulisse. Mito e archeologia,

Torino, Einaudi, 1983, p.190.

114

a non dipendere più esclusivamente dal destino o dalla

volontà degli dei».74

Ιl poeta greco Kavafis usa nei suoi versi tante allegorie.

Nella sua famosa poesia Itaca Ulisse è l’uomo che ha una

meta nella sua vita: fare il viaggio di ritorno in patria, la

sua Itaca.

Nel mare, in qualche luogo, dovrebbe trovarsi Itaca, la

luce, la speranza, la patria, l’ultima destinazione e il

simbolo complesso dell’approdo di ogni ricerca.75

«Il profondo significato del viaggio, dice il poeta greco

Odisseas Elitis (1911-1996), parlando della poesia di

Kavafis, non è il momento dell’arrivo ad Itaca, ma la

durata stessa del viaggio».76

L’ Itaca è l’ultima meta, che

simboleggia la morte, dove ci porta il viaggio della vita. È

inutile, per Kavafis, provare delusione per il triste finale,

ma dobbiamo vivere con gioia e pienezza il presente,

cercando di scoprire la ricchezza della vita la quale si

rivela quando non abbiamo paura e timore a goderci ogni

momento, ad avventurarci in cerca della conoscenza.

«Il viaggio - dice Tabucchi riprendendo il discorso -

trova senso solo in se stesso, nell’essere viaggio».77

Umberto Saba sembra continuare lo stesso discorso.

Elitis, poeta di esperienza intellettuale maturata nella

civiltà della Grecia di «larghissimo respiro e formazione

europea»78

ha nel suo sangue79

il mondo mediterraneo e

74

Id., cit., p.3. 75

Lucia MARCHESELLI, «La mitologia delle pietre», Omaggio a

Seferis, 1970, p.157. 76

Sonia ILINSKAJA, «La ‘mediterraneità’ nella poesia», cit., p.80. 77

Antonio TABUCCHI, Viaggi, cit., p.10. 78

Achille TARTARO, «Allocuzione del Prof. Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia», in Laurea ad Honorem in Lettere a Odisseas Elitis,

Facoltà di Lettere, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, 1987,

p.3. 79

Enrica FOLLIERI, «Elogio», cit., p.5.

115

l’amore per il mare, la luce e il sole che fanno nascere

dentro di lui le ‘visioni solari’ e mediterranee.80

Nei versi

di Elitis si va incontro allo splendore del sole, lo scintillio

del mare, la trama delicata degli oliveti, gli aromi

campestri, la libertà del sogno.81

La sua poesia è una

poesia vera che rappresenta, come dice il poeta stesso,

«una terza dimensione dello spirito dove gli opposti

cessano di esistere».82

Questo è il principio della

‘trasparenza’, un principio, che come dice il poeta greco,

«si basa sulla luce e sul mare mediterraneo».83

Il paesaggio mediterraneo della «Quiete» di Ungaretti

assomiglia al paesaggio di Elitis. che sembra riprendere il

discorso.

L’infinito del mare coincide con l’immortalità e la sua

durata con l’eternità.

Anche il poeta premio nobel greco Ghiorgos Seferis

(1900-1971) ha negli occhi le rupi, gli scogli, l’arida terra

argillosa screpolata e il modo di recepire la natura

comune a molti altri poeti come Montale.84

La poeticità di

Seferis è enfatizzata da numerose similitudini e

metafore85

. Seferis prosegue il suo percorso, il suo lungo

viaggio per ritrovare la via di Itaca, la patria dello spirito,

la patria di Ulisse.

Seferis descrive nei suoi versi la bellezza quotidiana del

Mediterraneo. La presenza del mare permea profonda-

mente l’atmosfera della poesia seferiana.

80

Achille TARTARO, «Allocuzione», cit., p.3. 81

Enrica FOLLIERI, «Elogio», cit., p.8. 82

Ibidem. 83

«Breve allocuzione nell’Aula Magna», cit., p.23. 84

Amalia CORRÀ, «Seferis e Montale: paralleli», in Omaggio a

Seferis, Padova, Liviana, 1970, p.200. 85

Mario VITTI, Storia della letteratura neogreca, Roma, Carocci,

2001, p.313.

116

Il mare non è soltanto inesauribile di vita e di benessere

ma ha anche significato di chiusura, di prigione e di

dolore. Ogni approdo è soltanto un momentaneo riposo

prima della nuova partenza e il viaggio è la realtà

quotidiana. «ll quadro omerico del mare si conserva

inalterato nel tempo, fino ai nostri giorni. Rimbaud lo

chiama ‘il mare mescolato al sole’ indentificandolo con

l’eternità».86

In tutte le poesie di Mario Specchio (1946-2012) si ri-

vela il bisogno che sente di andare oltre, di cercare, di

sperimentare, di approfondire, di tornare al passato e

rivivere momenti felici, pieni di serenità. L’opera del

poeta Mario Specchio è piena di nostalgia, di sentimenti

che vengono dal profondo, diffusi in viaggi vissuti o im-

maginari.87

Sogni, mari di corallo, la calma di notte, l’ondeggiare

su velieri di carta, con la penna dello scrittore tra le dita,

per viaggiare su mari innavigati e la giovinezza eterna nel

cuore.

La poesia di Specchio è una poesia di movimento che

sfugge come la vita, come quando Ulisse, in cerca di

amore e di luce, si sposta verso un nulla che si scioglie,

senza certezza, eccetto che la propria incertezza.88

Nell’opera di Specchio è presente un dolore, una certa

angoscia esistenziale, un senso di solitudine non

86

Sonia ILINSKAJA, «La ‘mediterraneità’ nella poesia», cit., p.73. 87

Vd. Zosi ZOGRAFIDOU, «L’Itaca di Mario Specchio. Nostalgia di

Ulisse», in Colloque international. Le travail de réécriture dans les

littératures romanes, Departement d’Etudes Romanes (Facultè des

Lettres classiques et modernes), Sofia, Università Saint Clement

d’Ohrid, 2014 (in corso di stampa) 88

Pedro Luis LADRóN DE GUEVARA - Zosi ZOGRAFIDOU, cit.,

p.447.

117

condivisa, tutta sua, che tormenta il suo essere umano89

. È

presente una delusione intrisa di amarezza ma anche

caricata di tenerezza e di pietà che si diffonde

nell’antologia Nostalgia di Ulisse, opera che ci trascina in

un viaggio immaginario nella mitologia greca con gli eroi

omerici verso una sua Itaca poetica.

Nel suo racconto «Ιl nonno» leggiamo storie con le

quali il poeta era cresciuto. Le storie omeriche assumono

un ruolo importante alla sua formazione classica,

diventano sue e si trasformano in opere specchiane

acquistando un’altra dimensione.90

Specchio diventa

Ulisse in carne ossa, come gli piace autodefinirsi, e Itaca,

l’isola amata di Ulisse, il rifugio del guerriero, la meta

dell’inquieto viaggiatore, diventa per Specchio tortura,

solitudine, malinconia, carcere, deserto come quando

Ulisse stanco dal viaggio arriva in patria.

Ulisse, il viaggiatore inquieto di Specchio, è legato alle

sirene, «simboli del desiderio mondano e del piacere dei

sensi»91

per Omero e per l’ellenismo intero, che sono una

tentazione per lui, ma anche un richiamo alla ‘conoscenza’

provocazione della sua curiosità.92

L’eroe guarda sempre verso il mare, desidera sempre

tornarci, vuole la sua libertà per poter sempre viaggiare,

rinunciando all’immortalità, al dono dell’eterna giovinezza

che gli è stato offerto da Calipso quando giunge morto

nell’isola della ninfa.

Mario Specchio, una sera dell’estate del 2010, dopo una

lunga conversazione sulla mitologia greca, sugli dei e

sugli eroi mitici, su Ulisse e Achille, sulla guerra di Troia,

89

Pedro Luis LADRÓN DE GUEVARA - Zosi ZOGRAFIDOU, cit.,

pp.447-448. 90

Mario SPECCHIO, Morte di un medico, cit., p.88. 91

Ibid., p.14. 92

Ibid., p.13.

118

argomenti da lui molto amati, mi spedisce due poesie,

«Itaca. Tanti anni dopo» e «Malinconia di Circe».

Non c’è nessuno ad aspettare l’Ulisse di Specchio, e

cerca di trovare le tracce come il cane che aspetta alla

porta della reggia o come il giallo cane di Goya, il cane

che hanno amato insieme, Mario Specchio, Antonio

Tabucchi e Pedro Luis Ladrón de Guevara quando

assettato chiedeva ai tre amici nel museo di Prado un po’

d’acqua per uscire, per salvarsi dalla sofferenza del sole,

quel cane che d’ora in poi sarà presente anche in altre sue

poesie e nell’opera di Tabucchi.93

Ulisse è tornato alla sua amata Itaca, ha mantenuto le

promesse, ma pare che sia pentito nonostante i rimorsi

che sente all’arrivo, «ti ho tradita ogni volta che ho

creduto fosse afferrabile il senso della vita», Itaca sembra

una gabbia dove l’avventuriero si annoia.

Dopo l’arrivo a Itaca c’è sempre la riflessione, che cosa

sia più vero del tempo vissuto con Penelope o il desiderio

di essere con lei. Tutto seccato e cambiato nel paese natio,

non sa più distinguere tra verità e sogno, le memorie del

passato non coincidono con le immagini del presente e

non possono far rinascere l’amore degli altri. I nemici

sono in casa, in palazzo, e niente può fermare il correre del

tempo e il mutare delle cose e dei sentimenti. Queste

immagini si completano e si confondono con le parole di

Circe: il cuore di Ulisse non voleva tornare, non poteva

dimenticare i giorni trascorsi insieme. «Le notti e la luna

che di vino bagnava i capelli», «il mare ti ha

accompagnato» -dice Circe con la voce di Specchio- ma il

93

«Δυο κείμενα του Μάριο Σπέκκιο για τον Αντόνιο Ταμπούκι (Due

testi di Mario Specchio per Antonio Tabucchi), a cura di Zosi

Zografidou, nella rivista elettronica ITI - Intercultural Translation

Intersemiotic < http://ejournals.lib.auth.gr /iti/issue/current > (data di

consultazione 30/6/2013)

119

ritorno a Itaca non ha portato la felicità che si aspettava.

Circe rimasta da sola sente la nostalgia dell’assenza di

Ulisse senza poter trovare rassegnazione, se non, quando

accarezzata dal sogno dell’Altrove.

La maga solo begli auguri può fare al viaggiatore

dell’oceano, a Ulisse che forse la sua ombra non avrà mai

pace, non scongiurerà la morte con la vita perchè non si

torna due volte nei luoghi che si sono amati.

Scrive Ladrón de Guevara: «Ulisse è la giovinezza,

l’ardire, l’osadia, la furbizia, ma anche la stanchezza di chi

ha viaggiato tanto e vuole soltanto riposare in terra

(seguendo l’interpretazione dell’oracolo)- e al di là delle

braccia di Penelope trova pace all’interno dell’olivo,

magico albero della nostra mediterraneità».94

Chi viaggia pensa alla meta ma quale è la meta di

Ulisse secondo Specchio? Tornare a Itaca a fare il re? Il

marito? Il padre? Ulisse è un avventuriero e rimarrà

sempre inquieto, pieno di voglia di cercare nuove mete e

nuove destinazioni, vuole aprire nuove strade inesplorate e

cavalcare nuove salite, il suo viaggio non potrà finire mai,

«non durerà più di un momento il vento -scrive Specchio-

già raccoglie le forze alza le vele».95

Ulisse sempre si

volge verso nuove avventure.

Mario Specchio ha viaggiato ed ha attraversato i mari

della poesia, e come l’Ulisse di Omero, è affondato nella

ricerca del passato in un tempo futuro. Nella sua ultima

poesia del libro Da un mondo all’altro guarda sempre

verso il mare cercando un’Utopia e ci parla come un

viaggiatore etereo.

Specchio è arrivato alla profonda giungerà sempre agli

94

Pedro Luis LADRÓN DE GUEVARA, «Εl mito de Ulises …», cit.,

pp.21-47. 95

Mario SPECCHIO, «V», in Id., Nostalgia di Ulisse, cit., p.40.

120

orecchi di chi l’ha conosciuto. Il poeta continuerà a

parlarci sempre da un paese «dove il sole/nasce dal mare/e

fioriscono stelle nei giardini, /qui dove i morti si nutrono

di latte».96

Itaca diventa la metafora della fine della vita

dell’uomo, della morte, e come dice Kavafis il viaggio si

compie con il raggiungere la meta desiderabile, con

l’arrivo alla destinazione, a Itaca.

96

Id., «A mio padre, da un altro paese», in Id., Da un mondo all’altro,

cit., p.92.

121

VERSO UN NUOVO UMANESIMO:

DALL’INTERIORITA’ ALLA REALTA’

di Domenico Pisana

Il tema di questo convegno, “Interrogare il Novecento”,

è intrigante e complesso nel contempo. Ho scelto di dare a

questo mio contributo il seguente titolo: “Verso un nuovo

umanesimo: dall’interiorità alla realtà”, che spero di

declinare lungo il mio discorso.

Questo nostro convenire ci spinge senza dubbio ad

inoltrarci all’interno del mondo della poesia tenendo

conto delle varie concettualizzazioni che si sono succedute

lungo il secolo scorso e che hanno descritto tale mondo

attraverso quella che è l’arte della parola poetica, che,

nonostante tutto, comunque resiste al tempo.

Desidero puntare l’attenzione sul fatto che la poesia,

nonostante sia stata sempre considerata un genere “di

nicchia”, a volte bistrattato dai lettori ed ignorato dalle

case editrici, in realtà rappresenta un’ancora di riferimento

importante, ancora oggi, nel passaggio al Terzo Millennio.

Il Novecento ci ha consegnato grandi poeti che hanno

interrogato il mistero della vita e che hanno fatto

interrogare la società su tematiche che hanno gettato le

basi della poesia stessa, mettendo la coscienza universale

di fronte a domande di senso molto forti.

La poesia contemporanea credo stia vivendo un certo

smarrimento, nel senso che il poeta comincia a chiedersi

che senso ha questo suo poetare. Egli si trova di fronte un

forte interrogativo: se la poesia del Novecento ha già

detto tutto, cosa possano dire di nuovo i poeti delle

generazioni contemporanee? Dagli anni ‘80 in poi in molti

hanno scritto versi e pubblicato testi di poesia, ma quasi

nessuno (tranne qualche eccezione) ha lasciato un segno;

122

tutti si sono aggiunti alle generazioni precedenti, alla

schiera di poeti più o meno noti dal punto di vista

mediatico sviluppando temi poetici già trattati. Non è così

emerso un chiaro orizzonte che dica dove va la poesia,

qual è la poesia di cui il nostro tempo ha bisogno, e chi è il

poeta oggi.

Ecco perché alcuni critici sostengono che la poesia

contemporanea è caduta in una sorta di paralisi e che è

diventato quasi impossibile fare anche critica, perché la

poesia si è troppo frastagliata, è divenuta troppa e

confusa, per cui qualcuno, come Davide Rondoni, ritiene

sia diventato quasi inutile parlarne in termini critici e

sistematici. Poiché chi vi parla si trova, di persona, dentro

questo meccanismo, non riesco a stabilire se questa ipotesi

abbia senso e sia davvero da prendere in considerazione.

Credo, comunque, che occorra “ri-partire”, a mio

giudizio, da una “ri-valorizzazione” di quel patrimonio

poetico-letterario, che costituisce quasi una eredità,

costruito dai poeti del secondo Novecento e forse lasciato

un po’ troppo nell’oblio; un compito questo che la critica

letteraria militante dovrebbe operare al fine di fare uscire

la poesia, nel suo insieme, da quella precomprensione che

la riduce a quel genere letterario un po’ astruso, intimista,

solipsistico ed autoconsolatorio che serve per esprimere

buoni sentimenti e dare sfogo alle proprie immaginazioni

creative.

C’è stata anche nel secolo scorso e vige tutt’oggi, a mio

avviso una forte precomprensione verso la poesia,

specialmente dell’ultimo Novecento, consolidatasi in due

idee-madri:

- l’idea che la poesia non abbia più nulla da dire e che

sia diventata una sorta di giuoco di parole per anime

delicate;

- l’idea che la poesia abbia perso il suo ruolo nella

123

società, divenendo uno strumento non più necessario per

conoscere la realtà e il mondo: ciò che serve – si afferma -

a far progredire le società sarebbe la scienza, la tecnica, la

politica, l’economia, non la poesia, che ha detto tutto in

passato con i grandi poeti e che oggi non avrebbe più nulla

da dire. Insomma ad un progresso della società in termini

scientifici, tecnici, economici, telematici,

corrisponderebbe un arretramento della poesia, confinata

nello spazio di pochi eletti rimasti chiusi in una

poetizzazione non più necessaria alla storia del nostro

tempo.

Su questo equivoco si è costruito, nel secondo

Novecento, l’ assenza della poesia nella grande editoria

italiana, la quale si è convinta che la poesia non vende,

nessuno la legge e quindi è inutile pubblicare. Giovanni

Raboni già agli inizi degli anni ’80 stigmatizzava “la forte

diminuzione delle uscite dello ‘Specchio’ Mondadori, ma

soprattutto “la scarsissima presenza, negli attuali

programmi della Mondadori, di un lavoro di ricerca e

valorizzazione di nuovi autori”.

In verità è proprio ciò che sta accadendo, perché in un

tempo di crisi di lettura, la poesia è quel che paga di più il

prezzo, ma il problema credo sia un altro: oggi non si

apprezza la poesia, non la si stima da parte del pubblico e

degli editori proprio a causa della precomprensione di cui

parlavo, in base alla quale la poesia non servirebbe alla

conoscenza della realtà.

Ecco allora che la poesia contemporanea si trova di

fronte ad una grande sfida antropologica: quella di

ripensare se stessa rispetto alla condizione esistenziale

dell’uomo di oggi. Ripensarsi in quale direzione! Questo è

il problema!

Io credo non sia più il tempo in cui la poesia possa

limitarsi ad abbellire o ad intrattenersi solipsisticamente

124

sulla realtà o a fare discorsi moralistici, ma deve andare

oltre l’economia, la scienza, la tecnica, la politica. La

poesia non può più limitarsi a poetizzare la realtà, a

descrivere e narrare il mondo, ma deve ripensarsi e

rifondarsi facendo tesoro della migliore eredità poetica

dell’ultimo Novecento al fine di fare venire alla luce il

“perché” questa nostra società post moderna sta andando

alla deriva.

Sono fermamente convinto che nell’attuale civiltà

consumistica, nella società dell’uomo oeconomicus,

dell’homo faber, dell’homo ludens la poesia non potrà mai

essere devastata da tempeste e che resisterà al tempo. Essa

però, ma è una mia prospettiva, deve adoperarsi per

procedere alla costruzione di una “nuova” poetica per

andare oltre quella visione minimalista secondo cui basta

un’emozione, un sentimento, un foglio, una penna per

buttare giù parole che vengono poi chiamate poesia.

Occorre superare l’assunto di partenza, è cioè che per

fare poesia non sia necessario avere alcuna idea di poetica;

al contrario io penso che senza questa riflessione di

fondo, la direzione verso cui la poesia rischia di continuare

a dirigersi, è quella della sua riduzione ad una entità

astratta e priva di radicamento nella storia, o

semplicemente ad un frutto autocompiacente

dell’esibizione di meri sentimenti, confinando così il

poeta nell’orizzonte di un ingenuo sognatore, di un

romantico della bellezza, di un declamatore di cose irreali,

le cui parole poetiche o diegetiche non interessano a

nessuno, anziché collocarlo nell’orizzonte di un

costruttore di bellezza, di civiltà e di umanesimo.

Se guardiamo oggi il nostro tempo, è sotto gli occhi di

tutti che esso presenta, al di là di tante positività,

parecchie caratteristiche negative che, nella mia poesia,

faccio convergere nella metafora del naufragio.

125

Quello che viviamo oggi, infatti, è il tempo

dell’individualismo: l’uomo non è più capace di “stare

insieme con”, di lavorare insieme agli altri per il bene

comune, di valorizzare l’alterità, di riconoscere l’altro

come portatore di ricchezza; la società sembra essere una

sorta di “Olimpo degli dei”, dove ognuno è diventato il

dio di se stesso.

Quello di oggi è il tempo del nichilismo: tutto è

relativo, tutto è un fluire mutevole, non ci sono valori

uguali per tutti, paletti di riferimento; c’è una

disgregazione valoriale e culturale che ha messo in

discussione la ricerca della verità; non c’è più una moralità

oggettiva, ma ognuno ha la sua verità, la sua idea di

morale in base alla quale il bene e il male sono divenuti

interscambiabili. E’ ancora il tempo della frammentazione

e della segmentazione: tutto è frammento, segmento; se

tutto è frammento, segmento, non serve più la storia, il

passato, la memoria; vale per l’uomo d’oggi solo l’attimo

che riesce a cogliere, il segmento esistenziale che può dare

la gioia del momento, che può soddisfare la voglia di

effimero. Quando tutto diventa segmento, immediatezza,

non serve più domandarsi chi sono, da dove vengo, chi era

mio nonno, cosa faceva, dove vado, ci sarà un futuro,

come sarà, cosa posso fare per renderlo migliore, per quali

idealità devo impegnare la mia vita.

Insomma, quello di oggi, è il tempo del naufragio:

naufragano le relazioni tra uomo e donna, tra genitori e

figli, tra marito e moglie; tra giovani e adulti; tra datori di

lavoro ed operai, tra nazioni, tra popoli e culture e tra le

religioni. E’ il tempo del naufragio delle istituzioni:

politica, aggregazioni sociali, culturali, sindacali, religiose,

partiti, scuola; è il tempo del naufragio delle motivazioni:

perché devo impegnarmi, chi me lo fa fare, non cambia

nulla! E’ ancora il tempo del naufragio dei sentimenti nel

126

quale si avverte malessere, conflitto, mancanza di pace

interiore; è il tempo del naufragio della coesione sociale:

viviamo di conflitti, scontri, polemiche, insulti,

aggressioni verbali, fisiche. E’ il tempo dei vaffa…

E allora mi domando: perché tutto questo? Dove è da

ricercare la causa di questo naufragio spirituale,

relazionale, sociale, morale? E la poesia può dire

qualcosa?

Già Montale prefigurava, a mio giudizio, questo tempo

della post modernità in una sua poesia quasi mai spiegata

nelle scuole: Incespicare, incepparsi /è necessario /per

destare la lingua /dal suo torpore./ Ma la balbuzie non

basta/se anche fa meno rumore/ è guasta lei pure./ Così

bisogna rassegnarsi/ a un mezzo parlare./ Una volta

qualcuno parlò per intero/ e fu incomprensibile. Certo

credeva di essere l’ultimo /parlante. Invece è accaduto/

che tutti ancora parlano/e il mondo da allora è muto. (Da:

Incespicare)

Montale evidenzia in questi versi due modalità del

parlare: il “mezzo parlare” e il “parlare per intero”. Il suo

esprimersi sembra risentire dell’influenza del filosofo

Ludwig Wittgenstein, il quale nel suo Tractatus Logicus-

Philosophicus affermava: “Di ciò di cui non si può parlare,

si deve tacere”; di trascendenza, di Dio non si può e non

si deve parlare, perché “Egli rimane inespresso”, come

affermava Meister Eckart. L’ultimo Montale in effetti

avverte che la causa dell’incomunicabilità e della

solitudine, del male di vivere, che oggi chiamiamo

nichilismo, relativismo, naufragio morale va ricercata nel

fatto che l’uomo si è illuso di “parlare per intero” e di

avere la verità in mano, mentre in realtà il suo è stato e

continua ad essere un “mezzo parlare” che ha reso “muto”

il mondo, cioè incapace di comunicare, a differenza del

parlare di quel “qualcuno (che) una volta parlò per intero”

127

e del quale l’uomo della modernità ha voluto che si

tacesse in quanto non afferrabile, misurabile e

verificabile.

Chi è questo “qualcuno che una volta parlò per intero”?

Questo qualcuno che è portatore di un parlare pieno e

totale che gli uomini non comprendono e non afferrano,

ma che racchiude in sé la verità delle cose e della vita?

L’uomo del nostro tempo parla, parla, parla, urla, urla,

urla, sembra avere la presunzione di volersi sostituire a

colui che “credeva di essere l’ultimo parlante”, al

“Verbum caro factum est”, al kai o logos sarx egeneto

aggiungo io da credente, e con questa opera di presunzione

ha innalzato muri di incomunicabilità tra gli uomini, tra i

popoli, al punto che dall’ “ultimo parlante” ad oggi il

mondo è divenuto “muto”.

Il poeta di oggi è un parlante che parla a chi? E per dire

cosa?

Rispetto a questo, bisogna chiedersi che senso può

avere il poetare, a che cosa serve un poeta, supposto che a

qualcosa serva. Se il poetare è il passatempo di anime

belle, lo sfogo di emozioni che coinvolgono il sentimento,

la denuncia o il lamento di cose che non vanno, pur fatto

con versi belli e accattivanti, credo sarà difficile per la

poesia lasciare un segno negli anni a venire. Occorre

andare oltre! E l’oltre ce lo ha indicato già molta poesia

del Novecento. Il poetare contemporaneo, secondo me, ha

senso se aiuta l’uomo ad andare oltre, cioè a ritrovare “il

parlare” di colui che “una volta parlò per intero” così da

uscire dal mutismo”, a trovare un “varco soteriologico”

che sia capace di avvicinarlo alla trascendenza, alla ricerca

del Mistero, orizzonti, questi, importanti anche se non

esclusivi. Ed è lo stesso Montale che In Diario del ’71 e

del ’72 ci offre un “varco” attraverso una lirica poco

conosciuta, ossia Come Zaccheo: Si tratta di arrampicarsi

128

sul sicomoro/ per vedere il Signore se mai passi./ Ahimé,

non sono un rampicante /ed anche stando in punta di piedi

non l’ho mai visto.

Lo spunto della lirica, una quartina, è preso dal vangelo

di Luca (Lc 19), dove viene descritta con ricchezza di

particolari la scena di Zaccheo, capo dei pubblicani, che

sale su un sicomoro per cercare di vedere Gesù mentre

entra nella città di Gerico.

Zaccheo, salendo sul sicomoro, non solo riesce a vedere

Gesù che passa, ma addirittura a farsi notare dal Maestro,

che lo invita a scendere perché vuole recarsi a casa sua.

Montale vede nell’atto dell’arrampicarsi un “varco” per

l’uomo; egli supera il negativismo iniziale e dichiara che

nella vita c’è la possibilità di accedere alla Conoscenza :

“si tratta di arrampicarsi sul sicomoro”. E’ un gesto che

l’uomo può o no fare per incontrare il Divino; non importa

“se mai passi” il Signore. Significativo appare poi il

contrasto esistenziale dei due versi conclusivi, dove il

pensiero montaliano sembra quasi dibattersi tra le istanze

del cuore che si rammarica e lo sforzo della ragione che

approda a conclusioni negative.

L’attenzione va anzitutto posta su quell’“Ahimé”,

l’esclamazione che esprime profondo dolore, intimo

rammarico e che va collegata con “rampicante”; il poeta

lamenta il suo smarrimento, le sue perplessità, la

mancanza del dono della fede, tant’è che, se da una parte

dichiara di non essere un “rampicante”, cioè uno che cerca

come Zaccheo il Signore, dall’altra lascia intravedere il

suo tentativo di ricerca in quel “stando in punta di piedi”.

Si tratta, però, di un tentativo senza esito, perché il

Signore - conclude il poeta - “non l’ho mai visto”.

Montale, dunque, non si “arrampica”, ma “sta in

punta di piedi”, cerca, ma non riesce a vedere: in questo

129

processo egli rivela come ci sia in lui, pur all’interno della

sua concezione negativa della vita, un bisogno di senso

inappagato, un desiderio di trascendenza che si nasconde

tra le pieghe dei suoi versi e che appare come un barlume

di trascendenza che sembra invocare la speranza. Se così

non fosse, risulterebbe alquanto strano che Montale scriva

una poesia mutuando un testo evangelico che è la chiara

attestazione della conversione di un uomo, Zaccheo

“pecorella smarrita”, il quale, ritrovata la fede, giunge alla

salvezza e ridà senso e significato alla sua esistenza, tant’è

che nell’episodio lucano Gesù afferma: “Oggi la salvezza

è entrata in questa casa...”.

Se è vero, come è vero, che la poesia non è – come

diceva ieri Aldo Gerbino – un “prodotto”, io aggiungo

una merce deperibile, un prodotto di mercato che il tempo

usura; se è vero invece che la poesia è un atto dello spirito

e la sua voce un messaggio di riflessione dal quale

nascono domande che il poeta pone anzitutto a se stesso,

e, quindi, a tutti, allora è altresì vero che tali domande che

egli fa risalire dall’abisso potranno essere oscure, ma

indipendentemente dal fatto di essere comprese, non

smettono di esercitare una forte influenza nella vita

sociale.

Insomma, io credo che il nuovo millennio debba

raccogliere dal secolo scorso la visione “soteriologica e

ri-costruttrice” della poesia, vale a dire quella prospettiva

ontologica grazie alla quale la parola poetica diventa “atto

profetico” in grado di aiutare l’uomo ad intus-legere, cioè

a leggere dal di dentro se stesso, i suoi rapporti con l’altro,

con la società: la poesia deve – e mi avvalgo delle parole

sempre attuali di Quasimodo- “ri-fare l’uomo dentro”:

questo è il problema capitale! – affermava il Premio

Nobel. Chiaramente non in senso moralistico, perché la

morale non può costituire poetica”. E allora di quale poeta

130

ha bisogno il nostro tempo? Di scrittori di versi ce ne

sono parecchi, ma credo che siamo nell’attesa che

riemergano e nascano poeti portatori di una forza

capace di “fare scuola” e lasciare un segno nel percorso

letterario del nostro Paese e dei nostri territori. La Sicilia,

la nostra area iblea credo abbia in sé figure di poeti ed

intellettuali che possano far sentire la loro voce in questa

direzione.

Chi è allora il poeta? Il poeta è colui che con i suoi

versi deve entrare dentro le macerie interiori della vita per

ricostruirla, rianimarla; occorre il passaggio dal poeta

che descrive o canta la vita al poeta che “ri-costruisce e

che butta un salvagente per aiutare l’uomo a salvare la

vita” come si legge in alcuni versi di Kahlil Gibran: “La

poesia è il salvagente/ cui mi aggrappo/ quando tutto

sembra svanire./ Quando il mio cuore gronda/ per lo

strazio delle parole che feriscono,/ dei silenzi che

trascinano/ verso il precipizio…”.

Il poeta è un ricostruttore, la poesia del nostro tempo è

chiamata a suscitare domande di senso sulla necessità per

l’uomo di “ritrovare l’anima” rubata da relazioni di

solitudine. E’ all’interno di questa visione che, secondo

me, occorre aprire un nuovo orizzonte dentro il quale

orientare la poesia del nuovo millennio, quasi con l’intento

di determinare il passaggio da una “poesia elitaria” ad una

“poesia per tutti” capace di contribuire ad innalzare il

livello qualitativo dell’uomo del nostro tempo.

Oggi, a mia avviso, c’è bisogno di una poesia che si

faccia ponte di unione con la “interioritas” di chi la legge,

che si faccia veicolo capace di dire parole non “sulla”

vita, ma “di” vita. Una poesia che si offra quasi come una

sorta di nuovo “veltro” di sapienza, amore e virtù di

dantesca memoria, una via di salvezza, una luce, una

speranza, una profezia capace rifare l’uomo dentro.

131

L’incontro tra “interiorità e realtà” costituisce una

nuova poetica nella direzione di un nuovo umanesimo,

poetica che supera una certa “cifra di razionalismo”

dispiegandosi come canto alla Bellezza nel secolo del

rapporto conflittuale fra poesia e trascendenza, come

meditazione sulla fragilità delle emozioni essenzializzata

in una “spiritualità dell’esistenza” che va oltre i confini

della confessionalità e che fa proprio il turbamento di un

tempo che si lacera tra essere e avere, tra l’apparire e il

bisogno di comunicare, fra la contrapposizione tra il Nulla

e l’Essere. E in questo quadro di assunzione della vita, la

scrittura poetica può diventare una luminosa

testimonianza della persistente “circolarità ermeneutica”

tra simbolo e realtà, analisi del fenomeno esperienziale e

sogno, ascolto dell’emozione e cifra lirica.

Urge una poesia che parta dalla vita, legga la vita e la

sublima dentro un “universo metafisico”, non tanto per

rispondere ad un “bisogno speculativo" o “lirico-estetico”,

ma per aprire la poesia alla verità. Quasimodo nel suo

saggio “L’uomo e la poesia” chiarisce che la poesia nasce

con l’uomo, quindi ne evidenzia le principali funzioni: non

deve dire, ma essere; deve portare una cosa dal non essere

all’essere; non deve raccontare, pena la decadenza; deve

esprimere la verità, perché l’uomo vuole la verità dalla

poesia: “La poesia non deve dire, ma essere… […] Poesia

è qualsiasi forza che porti una cosa dal non essere

all’essere… Quando la poesia comincia a raccontare…

comincia la decadenza, la vera decadenza…”

La poesia è, dunque, un “atto creativo”, un movimento

del cuore e della mente mediante il quale un sentimento,

un oggetto, una percezione, una visione, un sussurro, una

lacrima e quant’altro la vita offre all’uomo possono

giungere all’essere, cioè divenire espressione di poesia.

Il rapporto poesia- interiorità- verità è poi un’altra forte

132

esigenza del sentimento poetico del nostro tempo . L’uomo

contemporaneo dalla poesia non vuole la finzione come

costruzione lirica della mente, ma vuole la verità. E quale

la verità?

– la “verità di senso”: la poesia è chiamata a far

scoprire all’uomo la dimensione valoriale degli

accadimenti, lieti e tristi, della vita; deve aiutare l’uomo a

dare un significato alla gioia o al dolore in questa fuga

continua di giorni;

– la “verità morale”: fare poesia implica mettere l’uomo

nella condizione di discernere il bene e il male che è

dentro di lui, proprio perché – afferma il Nobel –l’uomo

nella sua verità non è altro che bene più male. È, pertanto,

all’interno dell’orizzonte di queste verità che ogni evento

della vita può essere meglio compreso nel suo più

profondo significato, come nel caso del dolore, che non è

da identificarsi con il pessimismo ma da interpretarsi come

forza che ha avuto sempre la capacità di frantumare

qualsiasi catena, forza che sta alla base della verità.

Conclusioni

Concludo rifacendomi ad una riflessione del poeta

Franco Loi: “Si parla tanto delle funzioni della poesia, ma

la poesia non ha le funzioni che le si attribuiscono -

ideologiche, pratiche, eccetera – la poesia ha una funzione

forte e importante: rivelare l'essere, e rivelare il rapporto

che l'essere ha con il mondo, con gli altri. Perché i Greci

chiamavano la poesia il “fare”? Perché è proprio un fare: è

un operare su se stessi. Non solo si disvela il nostro essere,

ma approfondisce il rapporto fra la nostra coscienza e il

nostro essere”. Ecco Il poeta non è un mero idealista, ma

uno che “incide e graffia”, disegnando le coordinate di

una umanità incapace di comunicare, di esprimersi, di

cantare, di cogliere la diversità, di una umanità che spesso

133

vive in un appiattimento desolante e privo di novità. Dalla

penna del poeta scaturiscono, è vero, sogni e costruzioni

di mondi che possono sembrare irrealizzabili, ma i suoi

versi possono diventare una lama a doppio taglio.

Il sogno non è la contrapposizione al realismo, e nei

miei versi io ritengo di essere un realista che apre la

parola alla storia, alla società, all’uomo che vive la sua

quotidianità esistenziale, dando all’ eloquio lirico un tono

di riflessione civile; la poesia, a mio avviso, diventa

salvifica quando sfugge alle alchimie concettuali fini a se

stesse, per trasformarsi, invece, in poesia che si fa canto,

che si fa “urlo” , “spia” capace di “rivelare l’etre”, cioè

l’essere e la condizione dell’interiorità umana, sia a livello

universale che sul piano personale.

134

135

MARIO SPECCHIO (1946-2012)

E IL SUO NOVECENTO

di Carmelo Mezzasalma

CESARE SEGRE, UN BILANCIO DEL NOVECENTO

Cesare Segre, della cui autorità letteraria e culturale

non possiamo dubitare, ha tentato un bilancio di questo

Novecento con una serie di annotazioni che a noi

sembrano esemplari e incontrovertibili. Egli esordisce con

una affermazione che non può essere saltata con una

semplice alzata di spalle tanto è precisa e drammatica

nella sua verità: «Crediamo si possa sostenere che questo è

stato il secolo più tragico della storia dell’uomo»97

. E

anche a prescindere dal fatto che, anche sul piano

letterario, occorrerebbe la competenza di uno storico

generale, di un antropologo e di un sociologo per

individuarne con esattezza gli specifici fatti letterari, è

fuori dubbio che questa affermazione vale davvero quanto

pesa e nessuno di noi potrà mai tenersene fuori. Continua

Segre: «Ma sono pochi i nostri scrittori che di questa

tragicità abbiano dato un’idea piena e motivata… Il dolore

ha sfiorato la tematica di qualcuno, ma nella forma di

dolore personale o familiare. D’altra parte, questo dolore

andrebbe scavato, per individuarne le componenti e le

motivazioni, eventualmente per dichiarare in modo

schietto una sconfitta. Forse è un momento in cui c’è

meno bisogno di poeti e di narratori che di pensatori o di

97

C. Segre, Note per un bilancio del Novecento, in Storia della

letteratura italiana, Vol. XVIII, cit., p. 1518.

136

investigatori del nostro essere nel mondo; ma l’Italia ne è

ben povera»98

.

Di fatto, il Novecento è sfociato in una

mondializzazione della finanza e delle intraprese che

hanno spento quasi tutte le “utopie” sorte nel dopoguerra,

mentre sono diventate altrettanto “globali” le spinte

emotive e spirituali dell’individuo. Il rifugio nel “privato”

non garantisce affatto che questo privato, anche

sentimentale, non sia diretto dall’esterno (pressione

sociale, influenza dei media, ecc.) e quindi, alla resa dei

conti, capace di intraprendere cammini nuovi di crescita e

di verità almeno umana. In questo stato di cose, la

letteratura sembra ormai diventata la realizzazione piena

della profezia di Hegel: l’arte ridotta a “dopolavoro” e a

tutto quel che ne consegue. Il mercato “globale” della

letteratura è lì a dimostrarlo, e d’altra parte la

“dipendenza” dell’artista nei confronti del mercato o della

autoaffermazione narcisistica mette in serissimo pericolo

la creatività dell’individuo e la sua capacità di dire

qualcosa di sensato e soprattutto di utile per il lettore.

E non è tutto: «Anche restando a traguardi più modesti

– aggiunge Segre –, non si vede chi cerchi di difendere

idealmente i molti successi ottenuti in quattro o cinque

millenni da quella che ancora chiamiamo cultura, e sappia

proporre le modalità per conservarla in un contesto in cui

essa è sempre meno valutata. Per fiacchezza o

indifferenza, assistiamo tutti senza muoverci al suo

declino. Non si profila nemmeno all’orizzonte un’entità

collettiva in grado di traghettare la nostra cultura per così

dire “umanistica” entro quella della multimedialità, che

per ora si espande senza incontrare ostacoli, e spinge a

prevedere la riduzione della nostra cultura a consolazione

98

Ivi.

137

di minoranze nostalgiche. Tanto meno si sente avvicinarsi

chi riesca a cavalcare l’innovazione tecnologica e

trasformarla in veicolo di una cultura rinnovata e

aggiornata»99

.

Occorrerebbe un nuovo Pico della Mirandola, un Max

Weber, forse un nuovo Nietzsche, e un Lacan per meditare

attentamente queste annotazioni di Cesare Segre che

fotografano, per così dire, la nostra realtà e lo stato di

indifferenza generale che circonda la nostra idea cultura. E

così trarne qualche, anche modesta, spinta ideale. Sta di

fatto che il “bilancio” di Segre è non solo vero, ma amaro

e sconsolato, sebbene consapevole che si tratta,

probabilmente, di una fase transitoria della nostra

situazione: «questo momento potrebbe essere seguito a

breve distanza da un nuovo fervore di idee e di iniziative:

l’istintivo vigore del solidarismo autorizzerebbe buone

speranze». Tuttavia, a nostro parere, occorre anche

preparare questa auspicabile rinascita con il tramandare

quelle esperienze letterarie che lungo il declino del

Novecento abbiano avuto coscienza della perdita di

identità della cultura letteraria e abbiano resistito, a modo

loro, anche nel silenzio o nella marginalità, ma fornendoci

un’immagine di letteratura almeno diversa e più autentica.

A questo tipo di “resistenza”, umana e spirituale, crediamo

che appartenga la parabola letteraria di Mario Specchio

che proponiamo a conclusione del nostro intervento.

UNA PARABOLA BREVE MA INTENSA

È vero, intanto, come avvertiva Octavio Paz, che il

rapporto tra società e letteratura che, dopo il Novecento è

99

Ivi.

138

diventato ineludibile, non è quello che intercorre tra causa

ed effetto. Il legame tra l’una e l’altra è al contempo

necessario, contraddittorio e imprevedibile. La letteratura

esprime la società e gli esseri umani che vi vivono;

esprimendola, la cambia, la contraddice o la nega.

Ritraendola, la inventa; inventandola, la rivela. Ma non è

detto che la società si riconosca nel ritratto che di lei fa la

letteratura. Eppure, quel ritratto fantastico o immaginato, è

reale: è quello dello sconosciuto che cammina al nostro

fianco fin dall’infanzia, e di cui non sappiamo nulla salvo

che è la nostra ombra (o siamo noi la sua?). Così la

letteratura è una risposta alle domande su se stessa che la

società si pone, ma questa risposta è quasi sempre inattesa:

all’oscurità di un’epoca risponde la forza abbagliante e

visionaria di un Lorca, alla chiarezza razionale di un

Illuminismo con le visioni “notturne” del romanticismo100

.

Allo stesso modo, al secolo più tragico della storia umana,

la letteratura risponde talvolta con i corsi e ricorsi di quella

idea di letteratura che, per comodità, chiamiamo romantica

ossia un’idea a tutto tondo, assoluta, e priva di

compromessi con l’attualità culturale più corriva e banale.

E parlando della testimonianza letteraria di Mario

Specchio (1946-2012) dobbiamo anche ricorrere ai nostri

ricordi personali.

Ho conosciuto, infatti, Mario Specchio in casa di Mario

Luzi negli anni Novanta del Novecento e lo stesso Luzi

non mi nascose la sua grande ammirazione per Specchio

che, tra l’altro, a quel tempo, lavorava con lui ad un libro-

intervista che sarebbe stato poi pubblicato con il nome di

Luzi e il titolo Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio

(Garzanti, Milano 1999). Questo libro, nella variegata e

100

O. Paz, Una terra, quattro o cinque mondi, Garzanti, Milano 1988,

p. 136.

139

folta bibliografia luziana, mi è sempre parso specialissimo

per l’intelligenza e la forza penetrante delle domande

nient’affatto compiacenti nei confronti di un grande poeta

riconosciuto e affermato come Luzi. Erano domande che

non solo incrociavano l’avventura di Luzi, ma anche

quella del Novecento a noi più vicino e stringente. In altre

parole, esprimevano anche il travaglio interiore dello

stesso Specchio che cercava nel poeta di Al fuoco della

controversia non tanto delle risposte, quanto piuttosto il

dialogo e il confronto, pur nel rispetto delle modalità e dei

tempi dell’avventura luziana. Così, nella conclusione del

voluminoso libro-intervista, ci sorprende ancora la

domanda di Specchio, soprattutto nelle parole finali, circa

il fatto che tra l’uomo e il poeta avviene non solo

un’osmosi, ma anche una sparizione dell’uomo tutta a

favore dell’opera e viceversa: «Ecco – chiudeva la sua

domanda Mario Specchio –, è questo forse che un tempo

avevi sperato, quando ti auguravi che la parola e la lingua

diventassero parola degli uomini, parola della natura,

parola delle cose, in qualche modo liberata dalla stessa

presenza di chi la pronunciava»101

.

È anche qui, oltre che in Luzi, quella visione della

letteratura che Mario Specchio aveva maturato

personalmente. Dunque una sua poetica precisa quale ha

testimoniato nelle sue quattro raccolte poetiche, mentre

non bisogna dimenticare che egli era un germanista

finissimo e agguerrito, studioso e traduttore di Goethe,

Rilke, Hesse e Celan. Il fior fiore delle letteratura tedesca

nei suoi snodi storici e culturali di grande esemplarità tra

101

Mario Luzi, Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio, Garzanti,

Milano 1999, p. 301.

140

“classicismo” e “romanticismo”102

, ma anche – con Hesse

e Celan – gli snodi del Novecento rappresentati dalla due

guerre mondiali. D’altronde, non è un caso che Specchio

abbia avuto l’amicizia di un germanista come Ferruccio

Masini, autore di un celebre saggio su Nietzsche, Lo

scriba del caos, nonché finissimo poeta lui stesso, e senza

contare l’altra con Antonio Tabucchi che lo ha confortato

negli anni della sua vita. In ogni caso breve, anche se

molto intensa e significativa, è stata la parabola creativa di

Mario Specchio. Quattro libri di poesia, ripetiamo, e un

libro di racconti: A piene mani (Vallecchi, Firenze 1976),

Nostalgia di Ulisse (Passigli, Firenze 1999), Da un mondo

all’altro (Passigli, Firenze 2007), Passione di Maria – con

quattordici tavole di Ernesto Piccolo, uscito postumo nel

2013 (Edizioni Feeria. Comunità di S. Leolino). A queste

raccolte si aggiunge il bellissimo libro di racconti Morte di

un medico (Sellerio, 2004).

La morte improvvisa di Mario Specchio, nel settembre

del 2012, ha interrotto sciaguratamente questa parabola

che si annunciava ancora più ricca a giudicare dalle

raccolte pubblicate e anche premiate da riconoscimenti

come il Premio “Fiore” per la poesia (2008) e il Premio

internazionale “Roberto Farina” dello stesso anno. Di

questa parabola creativa di Specchio, vorrei tentare, in

102

Ricordiamo i lavori di Specchio come germanista: traduzioni di

Urfaust di Goethe (1985), di L’ultima estate di Klingsor (Guanda,

1977), delle Poesie (Guanda, 1978), di Knulp: tre storie della vita di

Knulp (Marsilio, 1989), Vagabondaggio e Racconti brevi (Newton

Compton, 1992 e 1995), tutti di Hermann Hesse; e poi Poesie alla

notte, Lettere su Cézanne, Vita di Maria, Canto d’amore e morte

dell’alfiere Christoph Rilke, tutte opere di Rilke, e pubblicate con

l’Editore Passigli di Firenze (1999-2009). Tra i saggi: Paul Celan.

L’incantesimo dell’assurdo (Edizioni di Barbablù, 1986), Paesaggio

senza figure. Quattro saggi rilkiani (Artemide, 2011).

141

questa sede, non tanto una analisi critica circostanziata

sulle singole raccolte poetiche, quanto una lettura di

interpretazione complessiva per situarla nel panorama

letterario del Novecento. Nella speranza di rendergli un

omaggio profondo e motivato, come spero mi riuscirà di

fare.

NEL NOME DEL MITO

Il carattere del creatore, come lo ha analizzato

magistralmente Keats, è un modo dell’essere che apre un

ventaglio di nomi quali sensibilità, vulnerabilità, passività,

indolenza, accidia – termini tutti che non frenano, ma

esaltano l’audacia arrischiata e arrischiante di una creatura

che si offre, o si trova già da sempre offerta all’avventura

della creazione poetica. L’opera è, in questo senso,

qualcosa che accade. Un evento, e un avvento, come ha

detto giustamente Nadia Fusini103

. Una nascita e una

resurrezione. E colui, o colei, a cui l’opera accade, una

vittima e un eroe, condannato e prescelto a cucire i lembi

strappati dell’esistenza e della lingua.

Chi ha conosciuto personalmente Mario Specchio sa, al

di là di ogni dubbio, che tutta la sua personalità, la sua

straordinaria cultura letteraria, la sua sensibilità, perfino la

sua indolenza ed accidia – si svegliava ogni giorno a

mezzogiorno poiché lavorava, studiava e leggeva tutta la

notte! – contribuiva a fare di lui un “condannato e

prescelto a cucire i lembi strappati dell’esistenza e della

lingua”. Dunque, un creatore e un poeta. E quando sono

apparse le sue raccolte poetiche più illuminanti e

103

N. Fusini, Nomi. Dieci scritture femminili, Donzelli Editore, Roma

1996, p. VII.

142

significative, Nostalgia di Ulisse e Da un mondo all’altro,

ma con al centro il libro di racconti Morte di un medico,

ogni ombra di dubbio si è, a questo proposito, dileguata.

Mario Specchio teneva soprattutto a questa sua attività di

creatore, mentre la sua attività di germanista, pur amata e

seguita con acribia e intelligenza, quasi gli serviva per

portare acqua al mulino della creazione personale.

Non è senza significato, dunque, che la raccolta

Nostalgia di Ulisse sia nata e cresciuta all’insegna del

mito che è stato, sotto certi aspetti, la risposta, sia pure

drammatica e conflittuale, che molti scrittori e poeti del

Novecento hanno tentato di dare a quel secolo funestato da

lutti e sciagure. Il mito è, infatti, un serbatoio di immagini,

di significati e di avventure dello spirito, da sempre

presenti nel cuore umano, ma che risuscitati dall’artista o

dal cantore assumono tutto il loro carattere di universalità

e anche di universalità concreta, qui ed ora. Ma, al fondo

di questa resurrezione del mito, c’è sempre una ferita che

sanguina e che freme, e Mario Specchio ce ne dà

un’immagine bellissima e potente: «Il senso della storia,

della vita, / l’incantesimo cupo del pensiero / libri, parole,

grida, si contorce / l’angelo del peccato o della grazia / mi

chiedo ancora / ancora mi attanaglia / il ricordo di Eva

trasognata / in un giardino carico di frutti» (Nostalgia di

Ulisse, 19).

Così, il “nome” di Ulisse non deve ingannare a causa

della sua facile memoria – gran parte del Novecento lo ha

evocato, in un modo o nell’altro - , quel nome indica

piuttosto la fragile e perigliosa “navigazione” nell’atto

creativo e nell’auscultazione di quell’evento che è l’opera

poetica nel suo essere attesa e invocata. L’Itaca del sogno

o del viaggio tra memorie e ricordi, tra luoghi amati e

tuttavia sempre perduti, tra gli anni che franano nella

nostalgia di un impossibile ritorno a motivo dei venti

143

infausti della storia e delle vicissitudini umane e non solo

umane. Ed ecco l’Itaca di Mario Specchio: «Itaca, un

suono un nome una memoria / che risuonò nel fuoco dei

bivacchi / e il fortilizio agguerrito delle mura / di Troia era

una spina nella carne. / Danze di ulivi a picco sui vigneti /

fianchi colmi di ancelle nella reggia / Telemaco si esercita

con l’arco / paterno e la stanchezza si abbatte rovinosa /

col sole del meriggio sulle mandrie» (Nostalgia di Ulisse,

37). Dal che comprendiamo subito che il poeta, più che

identificarsi in Ulisse, scopre la sua condizione profonda

nel figlio Telemaco, in cerca del padre ossia di un grembo

universale nel quale riversare tutta la sua nostalgia, la

febbre di amare e di essere. Quel Padre che lascia

un’eredità da vivere e da coltivare è il grande assente del

Novecento (non solo letterario), dal momento che vi

hanno dominato Edipo e Narciso, il conflitto e la

negazione della differenza. Lo scacco è inevitabile e senza

redenzione. Che senso potrà avere la condizione umana

ferita e senza punti di riferimento? E dunque, anche del

creatore e dell’artista?: « Ho archiviato le carte del destino

/ non so leggerle e forse non mi importa / sapere quale

fosse il senso / che altri stabilirono per me» (Nostalgia di

Ulisse, 66).

Di fatto, come affermava Lacan, dopo il tramonto

dell’autorità simbolica del Nome del Padre, il mito

dell’espansione fine a se stessa ha condotto la nostra

millenaria cultura nel vicolo cieco delle guerre e della

scomparsa dell’etica, mentre, nella società dei consumi e

dello spettacolo, l’egemonia del figlio-Narciso ha fissato

la sterilizzazione di intere generazioni. Esiste, a questo

punto, un al di là del figlio-Edipo o del figlio-Narciso? Un

al di là delle guerre e di un individualismo senza porte né

finestre? E tuttavia, anche nel nostro mondo esiste la

domanda di Telemaco, il figlio di Ulisse, che attende il

144

ritorno del padre e prega e invoca affinché sia ristabilita,

nella sua casa invasa dai Proci, la legge della parola.

Molto tempo prima che Massimo Recalcati ci avesse

abituati con le sue analisi a sentire questa voce di

Telemaco, un poeta, come Mario Specchio, ha individuato

questa voce, anche se l’ha intesa al centro della sua

suprema interrogazione circa il senso di quel desiderio che

è all’origine della creatività.

E per un temperamento creativo, questa nostalgia del

padre ha il nome di “tradizione”, ereditarietà della parola e

del senso della parola, quella tradizione che la seconda

metà del Novecento ha inteso distruggere con le

retroguardie degli avanguardisti – il famoso Gruppo ’63 –

che ci ha lasciati tutti orfani o almeno in attesa del padre

Ulisse. «Se gli uomini potessero scegliere ogni cosa da

soli, per prima cosa vorrei il ritorno del padre», afferma

Telemaco nel canto di Omero (Odissea, XVI).

NELLA MEMORIA DELLA PAROLA

Non a caso, quindi, Nostalgia di Ulisse sembra

chiudersi con questo acceso e supremo interrogativo sul

destino della poesia e, allo stesso tempo, con la ferma

condanna di tutti gli avanguardisti di turno che vorrebbero,

ma soltanto esteriormente, rinnovare l’esercizio della

poesia: «Si scrivono poesie / scritte col sangue /ogni verso

una perdita / uno strappo / una vita rinchiusa in quattro

fogli. // Poi verranno le sanguisughe con gli occhiali /

verranno gli avanguardisti a tempo pieno / con in mano un

bicchiere di Martini / con tutte le loro tavole rotonde / per

concludere che in fondo, sì, però / si poteva far meglio / si

poteva “esperire” / un linguaggio più moderno» (Nostalgia

di Ulisse, 63).

145

Ben altra è la ferita che sente la nostra storia e ben altra,

per conseguenza, la ferita che sente in sé Mario Specchio.

Una ferita che va molto al di là dei propri fallimenti

esistenziali, delle proprie malinconie e scacchi della vita.

È la ferita di un’intera tradizione, di un’intera cultura, ben

testimoniata dal nostro Novecento, nella quale si

comprende perché l’ansia del futuro degli scrittori

modernisti (il futurismo di Marinetti ed altri), sia stata

soppiantata, negli scrittori del secondo dopoguerra,

dall’ansia per il passato. Ha scritto giustamente

Alessandro Piperno a questo proposito: «Profezia e

Memoria. Due facoltà antitetiche che spiegano molto del

secolo che da poco ci siamo lasciati alle spalle (il

Novecento). E, d’altronde, più in generale, due modi

alternativi di concepire il rapporto che ciascuno di noi

intrattiene con la propria genealogia e con il proprio

destino»104

. Mario Specchio, in questa prospettiva, sembra

appartenere alla seconda modalità, quella dell’ansia per il

passato, lasciandoci intravedere tutto il dramma che

accompagna questo destino legato alla memoria.

D’altra parte, Fernanda Caprilli, in un suo intervento

sulla raccolta Da un mondo all’altro, che raccoglie poesie

che vanno dal 2000 al 2006, coglie un’intuizione

illuminante e profonda nel mettere al centro dell’opera

proprio quel Lamento di Prometeo che, in realtà, è stato

scritto da Mario Specchio nel 1988. «Il lamento di

Prometeo – scrive – offre, a mio avviso, una chiave di

lettura interessante per capire la visione del mondo che è

alla base della riflessione e della poesia di Specchio.

Prometeo, come sappiamo, dà all’uomo la civiltà, gli dà

cioè la consapevolezza di essere uomo. Ma, nella

disubbidienza di Prometeo, nel suo essere un dio molto

104

A. Piperno, Contro la memoria, Fandango Roma 2012, p. 31.

146

simile agli uomini, è implicita anche la sua condanna.

Secondo alcuni studiosi infatti, il mito di Prometeo

rappresenta il superamento da parte della coscienza di uno

stadio “primitivo”; ma poiché il passaggio allo stadio

superiore viene attuato attraverso una trasgressione, l’atto

comporterebbe non solo la perdita di una ”innocenza

primitiva”, ma anche la convivenza con un perenne stato

di conflittualità: “ non dio, non Titano, non uomo – scrive

Goethe – bensì l’immortale prototipo dell’uomo quale il

Ribelle simile agli dei, primo abitante della terra”».

È decisiva questa annotazione di Fernanda Caprilli? Sì,

lo è infatti precisa subito dopo: «Il richiamo al mito è

niente più che una trasposizione in chiave simbolica della

condizione umana, in cui si avvertono, a mio avviso, echi

del titanismo leopardiano che porta l’uomo ad essere

consapevole della sua infelicità e, insieme, a resistere». Il

messaggio di Da un mondo all’altro è quindi: «la vita

richiede delle prove e non ci resta che opporsi, non ci resta

che resistere». E tuttavia, come resiste il poeta Mario

Specchio nel seguito di questo enigmatico e lancinante

inizio di Il Lamento di Prometeo? Gran parte di questa

raccolta poetica è fatta di memorie, ricordi di amici

scomparsi, luoghi, donne amate e perdute, il padre e la

madre, il che fa pensare che il poeta abbia cercato nella

poesia il modo di resistere alla distruzione del tempo e al

dominio incontrastato dell’Oblio. Scrivendo su

Carabiniere morto in Iraq, la poesia conclude: «Non

applaudite quando la mia bara / uscirà dalla chiesa. /

Lasciatemi al silenzio dei deserti» (Da un mondo all’altro,

91). L’oblio incalza anche nella poesia dedicata al padre,

assai suggestiva e scritta in Venezuela: «Ti parlo da

lontano e tu mi senti, / o forse no, / forse non sai neppure

più chi sono / e sotto questo cielo tropicale / mi trafiggono

gli occhi dei bambini…/ qui dove i morti si nutrono di

147

latte / nessuno sa che sei esistito un giorno, / e fosti tutto, /

solo per un giorno» (Da un mondo all’altro, 92).

Il passato, anche il proprio passato familiare è per il

poeta inaccessibile e la poesia è l’unica parola che lo fa

ancora esistere. Per questo motivo la poesia usa questo

tono drammatico quasi a sancire la distanza siderale tra il

presente e il passato. Così capiamo che la questione della

memoria, con tutto quello che significa, è stata per Mario

Specchio non solo centrale, ma soprattutto tragica. Ed è

qui la cifra, originale e profonda, di tutta la parabola

creativa di Mario: l’aver scelto una dimensione tragica del

fare letterario in un tempo che fa di tutto per allontanare

da sé il tragico del vivere. È la resistenza romantica che il

poeta ha perseguito e colto lungo le fasi della sua

avventura esistenziale e poetica. Ed ha ragione, tutto

sommato, Alejandro Oliveras allorché, scrivendo la

Prefazione a Da un mondo all’altro, ha potuto dire che è

un itinerario esistenziale ma anche metafisico: «… è la

cronaca di questo percorso, composta con una scrittura

mozartiana, discreta ed equilibrata. Specchio è il felice

inventore di un inaspettato “stile nuovo” nella lirica

italiana contemporanea. Qualcosa di straordinario e di

paradossale che si potrebbe definire come un

“romanticismo-classico”. Se questo stile dovesse fiorire,

Mario Specchio ne sarebbe senza dubbio il suo primo

maestro».

148

149

IL CORPO, IL TESTO, IL PENSIERO:

MESSAGGI DALLA POESIA

DI VALERIO MAGRELLI

di Antonio Di Silvestro

Cosa può dire una poesia come quella di Valerio

Magrelli, e quale traccia di lingua/pensiero può lasciare

una lirica attraversata da una forte tensione speculativa, da

un «ragionare freddo e gentile, aggraziato e implacabile

[…] sui meccanismi dell’esistere»?105

Una poesia che

parla del rapporto di distanza tra sé e il mondo, e che

attraverso la trasparenza delle parole sperimenta un lucido

esercizio della ragione: «Per me la ragione / della scrittura

/ è sempre scrittura / della ragione» (Io non conosco).106

Il primum di questa poesia è la percezione di sé, della

propria unità-dualità di corpo/mente-pensiero, e del

mondo circostante, in quanto pensabili e scrivibili sulla

pagina. E sono proprio parole come pensiero, corpo,

carne, membra ecc. che veicolano con la loro ricorsività il

tema del primo Magrelli, quello della visione legata alla

“superficie frastagliata dell’occhio” (sintagma che è

traduzione del titolo Ora serrata retinae). Che ne è ad

esempio, volendoci soffermare sul secondo sostantivo più

ricorrente,107

del corpo di chi scrive? Leggiamo la lirica

105

È un’opinione di Giorgio Manacorda, nella sezione dedicata a

Magrelli di La poesia italiana oggi. Un’antologia critica, Roma,

Castelvecchi, 2004, p. 303. 106

V. Magrelli, Ora serrata retinae, in Poesie (1980-1992) e altre

poesie, Torino, Einaudi, 1996, p. 93. 107

Per un’analisi in chiave lessicografica della poesia di Magrelli

rinvio a S. Jansen e P. Polito, Tema e metafora in testi poetici di

Leopardi, Montale, Magrelli. Saggi di lessicografia letteraria,

Firenze, Olschki, 2004, pp. 107-137.

150

‘manifesto’ del Magrelli anni Ottanta, confrontandola con

una prima versione a stampa, a sua volta derivante da un

autografo in cui la poesia reca il titolo Pozzo verticale:

Il corpo è chiuso come una

muraglia,

è come un pozzo immerso nella

carne

che non giunge ad avere

impressione di sé.

E le sue membra stanno

mute e cieco e fermo

nella gamba riposa il ginocchio.

Ma nella testa s’apre

l’alba del mondo:

l’osso si allarga, accoglie

dentro di sé lo sguardo.

Dolcemente si compie

il paziente travaso del vedere,

acquedotto di chiarore, strada

che porta l’essere a se stesso.

E nella radura della fronte il portale del ciglio ha la sua luce.

Splendido l’occhio.

Questo è il suo segreto.

Il corpo è chiuso come una

muraglia,

è un pozzo immerso nella carne.

Né potrei dare al ginocchio

l’impressione

di sé: giace muto, nell’incavo

che gli offre il giaciglio.

Ma nella testa, per un inaudito

malinteso,

s’apre l’alba del mondo.

L’osso si allarga e accoglie dentro

sé lo sguardo.

Dolcemente si compie

il paziente travaso del vedere,

acquedotto di chiarore, strada

che porta l’essere a se stesso.

E nella radura della fronte

il portale del ciglio ha la sua

luce.108

La contrapposizione che anima questi versi è quella tra

l’immobilità/chiusura del corpo (che in un’altra poesia

«vorrebbe chiudersi nel cervello / per dormire»; A

quest’ora l’occhio) e l’apertura, il dischiudersi della vita

che si compie, dolcemente, grazie allo sguardo, veicolo

dell’autocoscienza del soggetto («acquedotto di chiarore,

strada / che porta l’essere a se stesso»). Le parole e le

metafore significanti l’apertura e la comunicazione tra

108

V. Magrelli, Hylas e Philonous, in Quarto quaderno collettivo,

Parma, Guanda, febbraio 1979, p. 108.

151

interno ed esterno sono tuttavia prevalenti: s’apre, si

allarga, travaso, fronte, portale, alba, luce. Un’apertura

che è esplicitata dai due versi incipitari della prima

versione a stampa (e prima di quella autografa), incisi in

modo quasi epigrafico e a mo’ di prolessi: «Splendido

l’occhio. / Questo è il suo segreto». Altrettanto

interessante è il fatto che nel manoscritto figuri un appunto

che paragona la nudità della fronte («radura della fronte»)

alla facciata incompiuta di Santa Maria dei Sette dolori,

opera di Borromini, mostrando come l’autore metaforizzi

architettonicamente (seguendo certamente Valéry) ogni

declinazione della corporeità.

Il corpo sembra invece racchiudere l’immobilità,

l’invarianza (esso «non si perde / in una variazione

infinita»), e costituisce una espressione dell’esser-ci, un

paradigma di immutabilità attorno al cui «asse si

compiono / le stagioni della nostra carne» (Così il corpo

non si perde),109

sostantivo quest’ultimo che fa pendere la

bilancia esistenziale sul versante della mobilità, del

mutamento.

L’auspicio è allora quello di una trasformazione in

segno, funzionale a rimanere nella materialità dell’opera,

nel testo fatto di carta e di parole, in cui il bianco è

omologo alla forza dello sguardo («Foglio bianco / come

la cornea d’un occhio»).110

La poesia accampa un discorso

di apparente privazione della soggettività poietica, che

invece si trasfonde in una sequela metamorfica che non

comporta traumi di sorta (perché l’«eclissi della materia» è

anche questa volta dolce). Il trauma doloroso è invece

quello di chi rimane corpo, senza poter divenire «ossatura

/ esile del pensiero»:

109

Ivi, p. 44. 110

Ivi, p. 25.

152

Essere matita è segreta ambizione.

Bruciare sulla carta lentamente

e nella carta restare

in altra nuova forma suscitato.

Diventare così da carne segno,

da strumento ossatura

esile del pensiero.

Ma questa dolce

eclissi della materia

non sempre è concessa.

C’è chi tramonta solo col suo corpo:

allora più doloroso ne è il distacco.

Ma allora quella del corpo è una condizione non solo di

immobilità, ma anche di transito necessario, quasi di

pedaggio (parola adoperata in Se io venissi a mancare a

me stesso),111

mentre la carne si inscrive nell’ordine del

dinamismo, dell’élan vital, e in questo senso è parola che

tematizza profondamente questa poesia, anche perché in

essa convergono il soggetto scrivente e la materia con cui

esso scrive. Ma la presenza di carne è un vettore

semantico decisivo, e non è un caso che essa sia ricorrente

nella prima sezione di Ora serrata retinae, ossia Rima

palpebralis: «Superficie di carne [il quaderno] su cui

gratto / prima di prender sonno»; «Ma avevo ancora

attraversato il dolore, / e la carne era fresca / e tutto il

dubbio dissolto»; le «mutazioni della carne», ecc.

Nel suo testo più espressamente metapoetico Magrelli,

mediante la metafora del vetro della doccia, afferma che

«La scrittura / non è specchio», ma è piuttosto simile al

«vetro zigrinato delle docce, / dove il corpo si sgretola / e

111

Ivi, p. 34.

153

solo la sua ombra traspare / incerta ma reale» (Dieci

poesie scritte in un mese).112

A trasparire è solo il gesto,

non l’identità di chi lo compie. Pertanto «scrivere in

genere è nascondere», cioè rappresentare la realtà in

negativo, togliendole qualcosa «di cui sentirà la

mancanza» (Esistono libri che servono).113

La scrittura poetica ha dunque qualcosa di miope (e il

tema, o la poetica dello sguardo hanno un forte

addentellato biografico,114

a detta dell’autore, e dunque

precedono la ripetutamente sottolineata ascendenza con il

suo amato Valéry, studiato e tradotto),115

perché è

impegnata in una continua opera di decifrazione degli

oggetti (che è come «se parlassero per enigmi continui»

che la mente deve tradurre). Nell’opacizzarsi del segno,

dello sguardo che lo guida, nel disperdersi dei gesti

quotidiani legati allo scorrere del tempo, l’unica realtà

trasparente («l’unica cosa che si profila nitida») «è la

prodigiosa difficoltà della visione» (Sto rifacendo la punta

al pensiero).116

Si direbbe che il problema di linguaggio che la poesia

di Ora serrata retinae ci pone è la ricerca di un ubi

consistam delle parole, che, sembra dirci Magrelli, non

possono solo abitare nella pagina scritta, in quanto sono

traduzione del pensiero («La variazione della parola / fa

112

Ivi, p. 15. 113

Ivi, p. 68. 114

Lo sottolinea l’autore in un’intervista pubblicata in F. Napoli,

Novecento prossimo venturo. Conversazioni critiche sulla poesia,

Milano, Jaca Book, 2005, p. 121. 115

Ricordiamo la monografia Vedersi vedersi. Modelli e circuiti visivi

nell’opera di Paul Valéry, Torino, Einaudi, 2002, e le traduzioni di

L’idea fissa, Milano, Adelphi, 2008 e di Il mio Faust, trad. di V.

Magrelli e G. Pontiggia, con uno scritto di G. Pontiggia, Milano, SE,

1992. 116

V. Magrelli, Ora serrata retinae, cit., p. 37.

154

scivolare il pensiero / lungo la pagina»; La variazione

della parola).117

Esse vivono una condizione di erranza,

transitano sulla pagina (indicativa è nella stessa lirica la

paronomasia nomi…nomadi), e l’atto della loro fissazione

sulla carta (la scrittura) «è una morte serena» (Preferisco

venire dal silenzio).118

Per questo ritorna più volte nei

versi la metafora agronomica delle parole che vanno

coltivate («Ogni sera chino sul chiaro / orto delle pagine, /

colgo i frutti del giorno / e li raduno […]»; Ogni sera

chino sul chiaro),119

preparate con cura («Preparare la

parola / con cura, perché arrivi alla sua sponda /

scivolando sommessa come una barca, / mentre la scia del

pensiero / ne disegna la curva»).120

L’idea dunque di una

lingua in viaggio, che si cristallizza sulla pagina in una

«morte serena», ma che sottende l’autocoscienza di chi

l’adopera e che non si sente un demiurgo o un

privilegiato,121

e che per questo deve gestire questo

movimento della lingua che dalla pagina va al pensiero e

da questo al corpo.

Rimane di questa poesia un desiderio di identificazione,

espresso con immagini di sapore ungarettiano:

«distendermi nella pagina e dormire, / e diventare la mia

stessa reliquia» (Secondo le stagioni)122

, o ancor più di

scoprirsi perpetuamente «oggetto tra gli oggetti, / popolato

117

Ivi, p. 50. 118

Ivi, p. 10. 119

Ivi, p. 19. 120

Ivi, p. 10. 121

Magrelli ha sempre ritenuto che chi scrive «non abbia nessun

privilegio linguistico», indicando con privilegio «una facilità nei

rapporti con la lingua». Da qui l’idea di una scrittura che nasce da un

disturbo nei confronti del linguaggio (Scrittura e percezione: appunti

per un itinerario poetico, in «Il verri», s. IX, n. 1, marzo-giugno 1990,

p. 185. 122

Ivi, p. 20.

155

di oggetti».123

Una passione per le cose e delle cose che fa

pensare a Francis Ponge (autore molto amato da Magrelli).

Ma viene da chiedersi: desiderio di annullamento

dell’autore nell’opera?

Raccogliendo alla fine degli anni Novanta le sue prime

tre raccolte, Magrelli afferma che un libro nuovo è di

fronte al suo autore «come un bastardo che sollecita

l’adozione».124

Quindi quello di autore appare come un

concetto limite, legato a un fisiologico tasso di

smarrimento che accompagna ogni nuovo libro di uno

scrittore; nel caso opposto non si finisce col cercare un

autore, ma la sua ripetizione.125

Forse che questa poesia lascia intravedere una

sotterranea dissoluzione della nozione di autore, o ancor

meglio di autorship? E in quest’ottica, quanto del concetto

di testualità rimane? Magrelli sembra rimettere in

discussione la nozione di testo letterario, consegnando ai

lettori del terzo millennio un’immagine diversa di

tradizione. Per lui un’opera nuova è una sorta di

dispositivo attrezzato per esorcizzare «l’aggressione di

quella lingua madre costituita dal patrimonio ereditato»,

«dall’invasione di una voce-matrice proveniente dal

passato».126

La tradizione sarebbe dunque un disturbo

soggiacente all’atto dello scrivere, una sorta di

interferenza continua? Il lavoro del poeta è dunque quello

di ‘immunizzare’ il testo?

Non più allora bloomiana angoscia dell’influenza, ma

perturbanza, inquilino che si insinua, non più padre

pervasivo. Un concetto di intertestualità non più ad

123

Ivi, p. 34. 124

Dalla nota introduttiva a Poesie (1980-1992) e altre poesie. 125

Intervista a F. Napoli, cit., p. 131. 126

V. Magrelli, L’invasione degli ultratesti, in «Critica del testo», VI,

2, 2003, p. 806.

156

ascendenza unica, ma a «diffusione rizomatica»,127

di tipo

insomma virologico. Non è un caso che un nume tutelare

del nostro Novecento come Petrarca, estraneo alla

formazione di Magrelli, sia ‘fruito’ per un mero clic

stilistico come quello dell’enumeratio caotica, che

richiama i versi polinomici del Canzoniere.

Un testo annegato negli intertesti, o anche dissolto

negli ipertesti? Soffermandosi sul tema della lettura,

nell’ultima sua raccolta Il sangue amaro (2014) Magrelli

ha intitolato appunto La lettura crudele una sequenza di

«undici endecasillabi in forma di ipertesto», scaturiti da un

testo matrice ogni verso del quale ‘genera’, o meglio

‘apre’ una nuova pagina-testo.

È una poesia, questa, che, come le grandi

‘provocazioni’ novecentesche e post-avanguardiste,

sembra lasciarsi dietro e lasciarci più domande e questioni

aperte che messaggi che possano migrare (per riprendere il

tema pervicacemente ‘disseminato’ da Giovanni

Occhipinti nel suo recente Il mondo attorno a un verso?

[Rubbettino, 2010]) nel nuovo millennio. Due punti vorrei

tuttavia rimarcare, in margine all’ascolto ripetuto di un

libro così innovativo per le poetiche dominanti negli anni

Ottanta come Ora serrata retinae:

1) L’idea di una poesia che mette in parentesi il

soggetto (l’io lirico di derivazione romantica europea) per

privilegiare lo sguardo e l’atto mentale. In questo senso ci

si può chiedere: la de-soggettivizzazione è una strada da

percorrere per poter essere inclusivi, u-topici, globali?

2) Una poesia-pensiero, o meglio un pensiero-corpo-

scrittura semantizzato nelle parole della poesia. Qui si

sente nella scrittura di Magrelli l’insegnamento di Valéry,

che significa esercizio puro della ragione, parola depurata

127

Ivi, p. 808.

157

da ogni contingenza, da ogni traccia empirica, architettura

(della poesia, del linguaggio) come espressione

dell’immediatezza della presenza divina. Si può arrivare,

anche con inedite commistioni di linguaggi (penso tra tutti

a quello tra ‘parole’ poetiche e ‘termini’ della scienza) a

costruire una poesia-pensiero che parli non solo alla ragio-

ne ma anche alle emozioni?

È uno spiraglio che il primo Magrelli lascia

intravvedere, quando dice che «La prima gemmazione

dello spirito / è dunque nella lacrima, / parola trasparente e

lenta» (È specialmente nel pianto).128

128

V. Magrelli, Ora serrata retinae, cit., p. 26.

158

159

PALERMO NELLA POESIA DI MARIO LUZI

UNA TESTIMONIANZA, UN’AMICIZIA

di Piero Longo

Memorie panormite nella poesia di Mario Luzi se ne

possono trovare tante, direi anzi che la più parte sono

nascoste in versi che neppue i suoi amici “di là dal faro”

possono riconoscere e indicare se non abbiano vissuto con

lui i tanti giorni che il poeta trascorreva nella mia città,

non solo come Presidente Onorario del “Centro di Cultura

Siciliana Giuseppe Pitré” ma anche da amico e sodale

quando d’estate veniva a trovarci a Mondello e ci diceva

appena sceso dall’aereo “cca sugnu!”. Ospite nella villetta

del Presidente Mimmo Bruno, medico, poeta dialettale,

scrittore e cofondatore nel 1970 di quel Centro culturale

dove, negli anni tra il ’75 e il ’99 del secolo scorso, si

potevano incontrare intellettuali, poeti, scritttori e artisti

non soltanto italiani, restava intere settimane a scoprire

con noi i musei e gli angoli più segreti della città. Lo

incontravo di mattina quando tornava dal mare lungo il

viale Regina Margherita perché andava in spiaggia

prestissimo per sfuggire la grande calura e tornare a casa

prima del mezzogiorno. Girovagava con me nel

pomeriggio o si stava tutti insieme a conversare prima e

dopo la cena spesso servita a turno nelle nostre case nelle

quali le signore mogli facevano a gara per ospitarlo: a casa

di Elio Giunta, Rosalia che gli preparava le specialità

siciliane, a casa mia, Elide che serviva la “scorsonera” con

i gelsomini di cui egli era ghiotto. Nelle mattine più

fresche di settembre si scendeva invece in città. Palermo

viveva allora i suoi incubi e le sue quotidiane aggressioni e

delitti di mafia e le strade e i quartieri si dilatavano a vista

d’occhio fagocitando i giardini della Conca d’oro. Il

160

“sacco” però non era ancora pieno perché al di là delle

ville storiche già assediate e dei viali alberati, villette e

casone abusive si nascondevano rodendo anche il verde

della Piana dei Colli e fagocitando le antiche trazzere di

Pallavicino e Fondo Anfossi, mentre non esisteva ancora

l’odierno Viale Olimpo, divenuto in seguito strada

alternativa all’attraversamento del parco della Favorita.

Uccisi dal punteruolo rosso i palmizi che si alternavano

alle corìsie, ora quelle due grandi corsìe che hanno inizio

dopo la rotonda prossima a San Lorenzo colli in fuga

prospettica verso la direzione del monte Pellegrino,

confluiscono in altra più amplia e travagliata rotonda da

dove si dipartono anche le tre direzioni Mondello,

Partanna, Pallavicino. Queste ex borgate nelle quali ville

settecentesche, casine e villette Liberty raccontano ancora

la storia dell’espansione extra-urbana non pianificata della

città “bella e infìda”, come dice Annarosa in una delle

battute finali de Il fiore del dolore (2002), sono ormai

affogate nella cementificazione livellatrice che mortifica e

confonde una società che va sempre più perdendo la sua

identità. E, infatti, nel suo intervento la donna rivolgendosi

agli interlocutori afferma dolorosamente: “non la reggo

più, la rifiuto e intanto la desidero. Che strazio. Così è

Palermo per chi la ama e l’ammira e per chi la esecra.”

Battuta che fa eco a quei versi inquietanti di Palermo,

Aprile 1986 oggi confluiti in “Luzi L’opera Poetica”

(Mondadori 2015, Perse e Brade, pag.1210), che suonano

ancora oggi con la loro intonazione quasi profetica: “Gli

scatti e i morsi, / gli stolzi ed i sussulti della sua oscura

malattia / conoscono un inspiegabile letargo / …Si purga

dai suoi mali o altri ne prepara / Palermo in questa oasi /

se è un’oasi che si è aperta nel suo ventre, come pare, e

non un’officina di crimine e di morte / intenta a un più

subdolo lavoro che così si affina.” Ancora non erano

161

avvenute le stragi di Capaci e di via D’Amelio e la

tragedia di Padre Giuseppe Puglisi era impensabile. In una

delle sue prime visite, forse nel ’79, quando Paolo

Messina ed io presentammo agli Amici del Pitré il suo

Libro di Ipazia (Rizzoli, 1978) che nel ’71, come dramma

radiofonico, aveva ripreso il tema del sacro nel teatro e

aperto una nuova strada alla poesia drammaturgica,

dovrebbero risalire le prime immagini della Palermo

chiaramontana poi riprese nei versi dedicati a noi amici

alcuni anni dopo. Fu in occasione di un convegno sulla sua

poesia, o forse per la presentazione di Rosales (Rizzoli,

1983), ma certamente prima che a Villa Igea Elio Giunta

ed io presentassimo al pubblico palermitano il Viaggio

terrestre e celeste di Simone Martini (Garzanti 1994)

quando, visitando la chiesa della Martorana, mi chiese,

tornando da via Maqueda, che recitassi in greco il

Padrenostro mentre camminavamo ricordando Cristina

Campo e il rito greco-bizantino della tradizione ancora

viva in questa attuale chiesa dell’Ammiraglio Giorgio

d’Antiochia, che aveva fatto venire da Costantinopoli i

maestri comneni per la messa in opera dei cicli musivi

nella splendida Cappella Palatina di re Ruggero e

contemporaneamente in quello che era l’originario

oratorio privato del suo palazzo. Mario era stato con me a

Cefalù, a Monreale e più volte a Palazzo reale e fu

certamente dalla rievocazione di tutto quell’oro e azzurro e

dalla visita allo Steri che nacquero quei bellissimi versi a

noi dedicati con tanto affettuoso afflato: “Come pesci in

un’acqua luminosa / loro nel loro azzurro settembrino./ I

loro fiori ne sono umidi e lucenti, / lievi i palmizi, profondi

i loro ficus./ E lì / dentro si svisa / Palermo tra araba e

normanna / tra araba e angioina / o si erge a un tratto

dura chiaramontana. / Questo hanno, questo ti regalano /

essi e la loro liquida mattina.” I versi si trovano nella

162

raccolta Per il Battesimo dei nostri frammenti per la quale

gli fu assegnato il Premio Mondello 1985 e già i palmizi

dei mosaici della Sala di re Ruggero e quelli di Villa

Bonanno si erano assommati ai grandi ficus dominati dallo

Steri chiaramontano divenendo memoria poetica delle

passeggiate normanne che avevo tramato per le sue visite

e trasformato poi in un poemetto che gli avevo dedicato.

Quell’estate i nuovi ritmi furono marini e mondelliani

anche se erano stati turbati dall’imprevisto incontro con

Leonardo Sciascia cui era stato dato contemporaneamente

un premio speciale che aveva adombrato quello per la

poesia e messo in secondo piano il poeta i cui rapporti con

il nostro più famoso scrittore non erano mai stati felici. Ci

ridevamo su attribuendo al Consiglio d’Egitto e al solito

Abate Vella il misterioso complotto che aveva sortito

l’incontro inopportuno. E infatti, ritornando a Palermo,

aprile 1986, a proposito dei misteri panormiti, egli dice:

“interpellati i miei amici di qua / sono simili ad uomini di

mare / per cui nulla è imprevedibile / sono aperti a ogni

segnale e catafratti ad ogni male, sebbene sotto sotto /

amari, sebbene non rassegnati al peggio. / Saprò forse

domani che questo splendido torpore / era fitto di crude

operazioni,ed anche / questo abbaglio / ingannevole ci

ammalia… così è Palermo.” Proprio come concluderà

Annarosa nel dialogo con l’Opinionista che indagava

sull’omicidio di don Puglisi, nella tredicesima sequenza

del dramma andato in scena nella stagione 2002/2003 al

Teatro Biondo Stabile di Palermo con la regìa di Pietro

Carriglio. Gli abbagli panormiti Luzi li aveva rivissuti

ancora con me durante la lunga stesura del testo per la cui

sceneggiatura lavorammo insieme sia a Firenze che a

Palermo quando lo accompagnai a Brancaccio per visitare

i luoghi della tragedia e ci incontrammo con le persone

che avevano conosciuto don Pino e vissuto con lui

163

l’esperienza di una evangelizzazione i cui frutti si sono

cominciati a cogliere subito dopo la sua morte, causata

appunto da quel suo scomodo seminare. Durante quegli

incontri le sue riflessioni andavano lievitando e infatti

proprio nella sua preghiera il personaggio della suora,

Madre Vincenza, ruolo magistralmente interpretato da

Gianna Giachetti, così dice “Signore, cuoce lentamente /la

materia umana,/ deserta, desolata./ Cuoce nel suo dolore,

/ nella sua ignoranza./ Il suo greve spessore ne ritarda

l’incandescenza,/ ma tu mandi l’ardore / del Figlio ad

avvivare la fiamma. / A lei altri avvamperanno / abbagliati

dal tuo fulgore. / Proteggili, Padre con il tuo amore.”

L’abbaglio e la pietà per la desolazione e il deserto

sembrano descrivere il paesaggio umano della

degradazione di quel quartiere famigerato nel quale si

trova anche il palazzo di Maredolce col suo lago

prosciugato e la memoria del fasto della corte normanna

che egli aveva già descritto traducendo la famosa poesia di

Abd-ar-Rahman al trabanishi “Favara dai due mari ogni

valore e pregio” per l’antologia della Mondadori curata da

Francesca Corrao nella quale i poeti italiani

contemporanei si misuravano con i testi arabo-siciliani.

Ricordo le nostre diatribe fiorentine passeggiando lungo

l’Arno a Bellariva quando ci incontravamo a casa sua per

definire la sceneggiatura per la messa in scena, accurata in

ogni particolare ma spesso in conflitto con la regia

palermitana che richiedeva continui aggiustamenti per

venire incontro alle esigenze del compositore Matteo

D’Amico e alle necessità di raccordare i cori

dell’ensemble vocale del Conservatorio Bellini con la

sequenza delle scene e gli interventi del direttore

d’orchestra Carmelo Caruso. Furono per me viaggi e

abbagli fiorentini divenuti poi versi (ora editi nel mio

Probabili orditure, Plumelia 2013) e lettere nelle quali

164

Luzi mi indicava alcune soluzioni e mi raccomandava di

intervenire per non stravolgere la sequenza originaria

come era accaduto precedentemente, ma con altra regìa,

per quel suo testo su Santa Rosalia, Rrrusulia, come lui si

divertiva a pronunziare con intonazione sicula, noto come

“Corale” sponsorizzato dal Sindaco Orlando per il Festino

di Palermo, nel quale la visione miracolistica tradizionale

era sostituitada una indagine “corale” appunto che si

interrogava sulla fede e sul male del mondo secondo un

procedere che fonde poesia e andamento drammaturgico

nel lineare flusso della coscienza che distingue i

personaggi di tutto il suo teatro. E poi ci sarebbero i

ricordi sul chiodo di Mozia, trovato lungo la spiaggia

presso la porta dove giungeva la strada sommersa, la

ridanciana parodia sulla sua traduzione improvvisata del

testo di Ciullo quando mi chiese di recitargli il Contrasto

mentre passavamo da Calatubo sotto Alcamo per andare a

Partanna e visitare il paese di Mimmo Bruno. Rimase

esterrefatto dentro la distrutta matrice dove teste e braccia

dei putti serpottiani e montagnole di stucchi e stoffe e

parati da messa rivelavano l’antico fasto della religiosità

siciliana che nei templi abbattuti di Selinunte avevano il

loro antecedente in quel terremoto immane che aveva

creato una collina con le rovine del tempio di Giove che

gli aveva ricordato il viaggio e lo stupore di Goethe. Di

Palermo egli aveva memoria vivente nella pianta dei papiri

che gli erano nati (dal Papireto all’Arno!) nella sua

terrazza di Bellariva dopo che gli avevo preparato il

vasetto con il fiore stellato capovolto e già con le prime

radici bianche, avvolto e ben salvaguardato per il viaggio

in aereo! Anche le scarpe che gli misero per inumarlo e

che si è portato nella tomba, erano state comprate a

Palermo come regalo di noi amici, dopo una passeggiata

sotto la pioggia, perché non aveva un ricambio. Conservo

165

una foto di lui nella mia terrazza dei papiri che non ho mai

mostrato perché mi sembra che con la mia veste da camera

indossata dopo la doccia per riprendersi dall’acquazzone

che avevamo affrontato in 4 a piedi dalla Cattedrale fino a

piazza Bologni dove prendemmo un taxi, avrei potuto

offendere la sua signorile discrezione. Cercando nei suoi

ultimi versi si potrebbero riconoscere altre immagini che il

Presidente onorario del Centro Pitré aveva elaborato dalle

sue memorie e dal suo amore e abbaglio per Palermo di

cui anche lui, a suo modo, aveva cercato invano la chiave

perché, come farà dire all’opinionista del dramma sul

martirio di don Puglisi -Fiore del dolore - “mi piace

andare / in giro per questa Palermo / solare e assai

tenebricosa. /… È solo una invenzione dell’anima che ti

offrirà la chiave” e, come concludeva l’Eminenza:

“dobbiamo avere occhi / per questa visuale che si offre

alla nostra meditazione /se apriamo le finestre del presente

/ il quale tutto è, tutto contiene.” Nell’ultimo suo

soggiorno palermitano, quello della corsa sotto

l’acquazzone dopo la mattinata di sole e azzurro, Mario

Luzi era già senatore e aveva trascorso con noi il

Capodanno 2005, senatore a vita di questa Repubblica che

“ignominiosamente muore” come aveva scritto nel famoso

verso divenuto emblematico del suo impegno politico e

oggi per noi un monito e un segno di quella poesia

necessaria che illumina ogni vita spesa nella ricerca della

verità che agostinianamente abita nell’interiorità

dell’uomo.

166

167

IL LUOGO DELLE ORIGINI

di Andrea Guastella

Pensavo di parlare a braccio, ma stanotte mio figlio si è

svegliato e non c’è stato verso di farlo riaddormentare; tra

un cartone e una filastrocca, ho cercato quindi di far mente

locale sul titolo di questa rassegna, Interrogare il

Novecento. Un titolo – ce ne siamo accorti ieri durante

l’intervento di Giovanni Occhipinti – estremamente carico

di implicazioni culturali. Alcune, come quella che

Giovanni ha definito, non da ora, Trasmigrazione delle

poetiche, sono a mio avviso meritevoli di approfondimenti

ulteriori. Altre mi sembra vadano piuttosto rubricate sotto

la voce “sindacalismo letterario”. Se infatti è vero che non

solo i linguaggi ma addirittura le poetiche sono in

continuo movimento, che importanza può avere il mancato

riconoscimento di alcuni autori? La grande letteratura è

sempre contemporanea, ma non nel senso del successo o

del consumo. È contemporanea perché riflette un mondo e

ha in sé le domande – mai le risposte – più urgenti che

esso ci rivolge. Ma quali saranno mai queste domande?

Assodato, come scriveva Rimbaud, che Io è un altro, la

prima e fondamentale riguarderà l’identità, l’appartenenza

e il luogo delle origini. Non a caso, leggendo qua e là tra

gli inediti di Emanuele Schembari, poeta che amo molto e

a cui ho pensato di dedicare la mia breve relazione, ci si

imbatte subito in versi che evocano La casa dell’infanzia:

Nei miei ricordi le case dove ho abitato

in questi anni finiscono tutte col somigliarsi

ma soltanto la dimora della mia infanzia

che una ruspa ha distrutto tanti anni fa

torna nei miei sogni con alcune varianti

168

È come se, frequentandola, l’autore conservasse quella

freschezza di percezioni che consente ai fanciulli di

scoprire cose sempre nuove. Nulla di nuovo, lo sappiamo,

avviene sotto il sole. Non sono le cose a rinnovarsi ma chi

ad esse si raccorda, chi, attraverso un’esperienza

costantemente stimolata, pone le basi del suo carattere,

della sua personalità. Verrebbe da dire che la ricetta

dell’eterna giovinezza risiede proprio nella capacità di

sorprendersi e di trasformare in storie – perché l’uomo,

come ha affermato George Steiner, non è tanto un animale

politico: è un animale che racconta storie – gli

avvenimenti più consueti e banali. Solo ciò che non viene

narrato o poeticamente trasfigurato è destinato a

consumarsi nel tempo che “sfuma annullandosi / e gira

come una ruota come un tritacarne”.

Di qui l’esigenza pressante per Emanuele di evocare,

come Ungaretti i suoi fiumi, le dimore della sua vita.

Prima Palazzo Pennavaria, imponente edificio storico che

occupava un lato intero della principale piazza di Ragusa,

sacrificato alla speculazione edilizia degli anni Sessanta (a

queste vicende si riferisce la ruspa al quarto verso de La

casa dell’infanzia). Poi la campagna di Serramontone, la

casa delle vacanze “dove si giocava / imitando Tarzan con

le corde come liane”. Ma anche questa visione, come una

foto consunta, “si dissolve bruciata dal tempo / nel mito

dell’infanzia si popola di fantasmi”.

L’ultima immagine – drammatica – richiede una pausa

di riflessione. Navigando a ritroso nel tempo, il poeta

avverte il rischio di incagliarsi in una secca. Se infatti ogni

poesia che si rispetti è poesia della memoria, non lo è mai

in senso nostalgico o consolatorio. La memoria non è

infatti un serbatoio neutro cui attingere ricordi, ma una

sorta di equivalente della consapevolezza:

169

La memoria rimane il grande limite di ognuno

chi riesce a sbarazzarsi di essa potrebbe volare

per cieli sterminati al ronzio di un mite silenzio

in una pace infinita che viene dall’abbandonarsi

ognuno finalmente alla vera essenza di se stessi

perché chi ricorda torna di continuo all’indietro

non vive la vita ma rimane nel buio del passato

mentre tutte le cose diventano niente che naviga

nel mare del presente ognuno riprende se stesso

perdendo una dimensione della consapevolezza

solo dimenticando si conquista una vera identità

(La memoria)

“La meta”, scriveva Borges, “es el olvido. Yo he

llegado antes”: noi siamo ciò che ricordiamo, e siccome

non ricordiamo niente – a patto, ovviamente, di non

affidare la nostra avventura a una memoria fittizia – non

siamo niente:

solo il nulla si collega all’eternità

non si conosce che cosa ci attende

e forse è meglio così perché tutto

si semplifica e diventa trasparente

(La vita)

Il mondo di oggi, purtroppo, è cambiato (o almeno così

appare all’io invecchiato):

È un mondo verso il disfacimento

contorto come un ferro arrugginito

fra computer stampanti e cellulari

incomprensibili c’è gente che vuole

darti notizia di sé per sapere di te

170

e non t’importa nulla e di nessuno

se non per la tua vita che ti scivola

fra dita aperte a perdere significati

il vivere svapora e di ogni persona

rimangono solo le parti di un tutto

(Il mondo cambiato)

Dinnanzi a una simile frammentazione della personalità

individuale, al poeta non rimane che cavalcare la tigre,

volando, novello Palazzeschi, A bordo di un fax:

per seguire l’inconsistenza del pensiero

mi conviene viaggiare a bordo di un fax

dove premo un bottone e mi trasferisco

attraverso lo spazio nel posto che non so

o simulando, in una struggente, sciamanica

identificazione col suo oggetto, di soffrire di Alzheimer:

Io non sono più io cerco una strada

che non posso trovare mi trasformo

e mi nascondo dietro uno specchio

che non ha la mia faccia ma quella

di un altro che appartiene al passato

che non riesco a distinguere intanto

perdo l’orientamento e giro a vuoto

ascoltando il ticchettio dell’orologio

a pendolo che sta fissato alla parete

e se mi trovo a bussare ad una porta

qualcuno risponde ma nessuno apre

io vado via e un’angoscia mi stringe

con la sua mano attorno alla mia gola

divento tutti coloro che ho incontrato

una volta da qualche parte dei quali

171

ho dimenticato i volti e perso i nomi

nell’incredibile confusione della vita

(Alzheimer)

Malattia reale, l’Alzheimer, condivisa da milioni di

persone, ma pure metaforica. E se fosse proprio questo

morbo, l’incapacità di ricordare il luogo delle origini, il

male oscuro del nostro tempo disumano?

Forse è davvero così. O forse l’Alzheimer è solo un

nome per evocare la vecchiaia, il naturale coronamento

della vita. Cos’altro siamo, del resto, noi mortali, così

pronti a crederci speciali, venuti dalle stelle, se non “i figli

delle tartarughe”?

chiusi nel nostro involucro corazzato

guardiamo l’asfalto del cortile il vento

che scrolla gli alberi e le pozzanghere

per far passare il tempo come in attesa

e andare da qualche parte in direzione

di un posto che è del tutto inesistente

ma fingiamo di non saperlo aspettando

che spiova e che si arrestino i turbini

(In attesa)

Il nostro orizzonte non è il cielo ma l’asfalto. Stiamo

attaccati alla terra e procediamo in una direzione

imprecisata, senza una meta apparente, sino a perderci nel

nulla.

noi ci dirigiamo dove nessuno ci darà

il benvenuto e arriva la noia pensiamo

sempre di meno su programmi vuoti

di significato e una copertina di nebbia

s’innalza per nasconderci le cose che

172

possiamo solo immaginare e finiamo

con l’inventarle dando loro la forma

perdendo la dimensione degli oggetti

come nei sogni dove non si trova mai

la strada …

E tuttavia, se è esistita l’infanzia, sarà pure esistito,

oltre le nebbie del sogno, un paradiso cui tornare. A

cos’altro servirebbe interrogare il Novecento se non a

ritrovarlo?

La poesia sa che è impossibile, ma non esita a provarci.

E, come accade in queste ultime poesie di Emanuele,

talvolta ci riesce.

173

CUORE OMBROSO. FIORI

FILIPPO DE PISIS: PAROLE, PIGMENTI

di Aldo Gerbino

L’orizzonte desiderato dalla tormentosa esistenza di

Luigi Filippo Tibertelli de Pisis, – esistenza conclusasi, a

sessant’anni, quel 2 aprile del 1956 in un perlaceo cielo

della primavera milanese, – è, per sua stessa ammissione,

posto «Al di là di barriere ideali»129

. In vero, un orizzonte

apparso subito frastagliato da quell’intima avversità

congenita per destino d’uomo, potenziata per esasperata

dilatazione della sua sensibilità d’artista, e che non riesce a

trovar riposo, nemmeno nel mondo traslucido, cilestrino,

delle purità ideali. Piuttosto sembra che egli debba

forzosamente approdare oltre la stessa pedana del sogno

da cui un creativo puro come il “Marchesino pittore”,

possa attingere a un qualche sollievo. Al contrario di tanti

altri uomini d’arte e poeti plasmati in una simile pasta,

nessuna ragione di concreta pacificazione s’era formata in

de Pisis, né con l’uomo, né con il mondo in cui egli

navigava con estrema difficoltà. Però, oltre lo stesso

frangibile desiderio del sogno, egli ritiene, in quella veste

ricca di candore attestata dalla poesia omonima, che lì,

soltanto oltre quelle barriere può essere trovata l’unica

«pace» possibile da poter serbare. Ma cos’è stata la vita

percorsa da Filippo de Pisis, in quel viaggio mirabilmente

sospinto dalla sua non indifferente forza propulsiva nata,

non da illuminanti verità, piuttosto dal possesso di un

estremo e pulsatile bagaglio di fragilità? Certo un bagaglio

129 In: Filippo de Pisis, Poesie, Vallecchi, Firenze 1942; poi, con

prefazione di Giovanni Raboni, Garzanti, Milano 2003, p. 21.

174

assetato di rapporti, di sensitive affermazioni, di saperi

terrestri, di primitivi apprendistati dalla natura, capaci,

come egli stesso afferma, di giustificare la pienezza di tale

sua vita ben riconoscibile appena nell’essenza friabile

dell’«ombra di un fiore». Ombra, dunque, come riflesso

doglioso, fugace apparizione di un se stesso mostratosi

oltre una precisa volontà di redenzione, ricercata con

tenacia nell’alveo delle sue brucianti scollature dalla

società perbenista, e anche nello sforzo di confezionare,

oggetto precipuo della sua poetica, l’osmosi più pertinente

tra ‘vita’ e ‘anima’ (“L’ombra di un fiore è la mia vita”)

per dipanarla, in eccesso, nel divenire della vita stessa

quale «ombra taciturna su un prato a sera»130

. E, non a

caso, tale ombra si associa a “casti pensieri” trovando il

suo letto ideale “sull’onde del mare” fino a brillare,

colmata dagli umori delle esistenze, nella tremula lanterna

fatta da un’«ombra di una lucciola», quasi a riscaldare, pur

nel suo infinitesimo potere di calore, un amore

occasionale, il rimbrotto gemmato da un colloquio pronto

a restituire o perfino a tradire le memorie famigliari, a

riportarlo comunque e sempre, in qualunque parte

d’Europa egli si trovasse (soprattutto nella Parigi che

alimenta la sua maturità d’artista e di poeta), nella

atmosfera della sua Ferrara o ricondurlo, vagolo, tra le

acque palpitanti di Venezia. Quell’ombra – scrive –

proiettata «nel verde cupo / è la mia vita ora. / E che mi

importa del resto?»131

.

Un suo olio del 1925, Natura morta con ritrattino,

restituisce in tutta la sua pienezza creativa i temi che

avvincono mente e anima di de Pisis: gli immancabili fiori

selvatici, margherite, piccoli crisantemi ornamentali,

130 Ivi, p. 147. 131

Ibid. vv. 18-20.

175

mimose, qui posti come a simulare un domestico

boschetto floreale sul margine esterno del tavolo,

alimentati dall’acqua posta in due recipienti e che

incorniciano un ritrattino raffigurante un giovane uomo

che alza il calice, dai fianchi avvolti da una fusciacca

nerissima, mentre un sottile foulard scuro annoda il suo

collo e delle ‘ballerine’ nere inguainano dei piedi fusati,

quasi femminili. Un corpo oscillante in un fondale di

biacca addensata e che, per alcuni aspetti, rimanda a

quella foto di Filippo, quando, a 31 anni, per il Bal de

Caz’arts a Parigi (1927), indossa un singolare costume, e

che, pur nella sostanziale diversità, si avvicina

all’elemento pittorico, in virtù della postura generale, e,

forse ancor più, per quel naturale tentativo alla danza,

all’ascensione corporea. A tali elementi, al centro del

tavolo, si accostano una farfalla ed un cuore mollemente

adagiato su di un giaciglio di carta bianca. La farfalla è

una ‘Vanessa Atalanta’ (detta ‘Vulcano’) che ritroviamo

nell’interezza solare e malinconica della poesia dedicata a

Montale, Vanessa nel sole. Agli occhi del poeta è la

«sepoltura dell’estate», in una giornata novembrina, ad

accogliere la vanessa Atalanta; essa nel suo moto vibratile

«fugge entro pareti d’ocra / e polveri rare». Il lepidottero,

appartenente alla gloriosa famiglia Ninfalide (de Pisis

subiva il fascino delle curiosità botaniche ed

entomologiche), non è per il poeta che uno struggente

ectoplasma, non può far altro che riflettere i meriggi d’una

fanciullezza ormai tramontata, ma pronta ad affrontare

l’artista con l’urto della sua aerea forza, e, in quella sua

adorna delicatezza, gli fa dire in quale modo: «intesse con

raggi di sole / uno strano velario / fra me e il dolore»132

.

Ma in tale “velario di dolore” sta la rugginosa presenza del

132

Ivi, p. 23

176

cuore enucleato dal corpo, quel cuore che, come attesta in

Ombre133

, «non fa ombra» e dove il rapporto

entomologico con quello anatomico si fa stringente; e

insieme: ombre, lepidotteri, cuore e turbamenti, mente e

dolore s’inseguono agitati da una strenua ansia. Così

opportunamente rileggiamo: «Non son farfalle, son ombre

leggiere / sui muri bianchi e grigi / del ricordo. / Ombra

d’una mano / levata a benedire, / ombra di un fiore / che

non ebbe mai stelo / (il cuore non fa ombra). / Delicate

parvenze / profumi / melodie / che prendon palpito / solo

quando cala la sera. / Ombre caste / della nostra / felicità

apparente. / Non son farfalle, son ombre leggiere.»

Quel cuore, dunque, che “non fa ombra”, organo

sanguigno, pulsante, solitario e fremente, riappare più

tardi, agli opposti poli temporali d’un arco creativo teso

per oltre un ventennio, in altro breve componimento,

sempre col titolo di Ombre134

; e in questo caso l’aggettivo

che nutre il suo cuore inquieto è, opportunamente e

contraddittoriamente, “ombroso”: «Il fumo nero / sopra la

mite casa / vela la nuvola di rosa errante / ne la quieta

sera; così melanconia / la grazia del mio cuore ombroso.»

Ma qui, l’ombroso atteggiamento mostra la sua naturale

suscettibilità: egli è l’irritabile ai confini forzosi posti dalla

quotidianità, mentre il flusso continuo della melanconia

sommerge la sua anima. È, infatti, la melanconia, come

nella similitudine del cupo fumigare, a spegnere la grazia

di un cuore serrato al confine di un’ombra nata nel genio,

nella grazia della distinzione. La Vanessa ritorna ancora tra

i componimenti tardivi, ammantata di sole che,

attraversando l’antico crepaccio, sugge con la sua

spirotromba l’anima gentile e ventosa del fiore di cappero,

133

Ivi, p. 33 134

Ivi, p. 157

177

con quel suo incessante «moto d’ali senza posa / piccolo

vortice», simile all’affanno vorticoso che agita de Pisis;

essa tocca, in parallelo, ciò che Filippo invoca: «il mio

cuore», dice, «prigioniero indurito, / si volge turbato quasi

/ a questa leggerezza divina»135

Atalànta, è nel mito la

cacciatrice provocante, essa disegna, la volontà di stare “in

equilibrio”, un equilibrio poco stabile nell’ampiezza

creativa del ferrarese, eppure tanto stabile per quel saper

accordare, nel nastro delle sue produzioni poetiche e

pittoriche, i tattili elementi della natura con quelle ombre

spirituali che affliggono l’animo umano.

Nella ‘introduzione’ alle Memorie del marchesino

pittore, Sandro Zanotto, annota come tale opera letteraria

rimasta inedita e pubblicata postuma, fosse “soverchiata

da altre opere pittoriche che hanno attratto l’interesse del

pubblico e distratto le cure dell’autore.” D’altronde, scrive

il critico trevigiano136

, «l’equivoco persistente di

135

Ivi, p. 162. 136

Di Sandro Zanotto (1932-1996), molte sono le pubblicazioni

legate all’opera di de Pisis (1964; 1965 [Dipinti, disegni, litografie,

manoscritti inediti di Filippo de Pisis, con una poesia di Diego Valeri,

Neri Pozza];1969); cfr: Giuseppe Marchiori e Sandro Zanotto, 100

opere di Filippo de Pisis (Galleria d’Arte Moderna Falsetti, Prato

1969; Firenzelibri 1973); Novecento ferrarese (Silvana, Milano 1973),

lavori, questi, che sfociano nella mostra ferrarese su ‘De Pisis’

(Palazzo dei Diamanti, 1996). Di rilievo documentario si veda il

sostanzioso lavoro biografico Filippo de Pisis ogni giorno (Neri

Pozza, Vicenza 1996), oltre 600 pagine che tracciano l’esistenza di de

Pisis dalla fanciullezza ferrarese alla scomparsa, percorso elaborato su

documenti, scritti autografi dell’archivio De Pisis, epistolari (sulla

‘vita’ di de Pisis si rimanda, oltre al ‘sodalizio’ di Giovanni Comisso, a

Nico Naldini, il cugino di Pasolini, con De Pisis, vita solitaria di un

poeta pittore, Einaudi, Torino 1991). Ancora: Filippo de Pisis, Roma

al sole, a cura di Bona de Pisis e Sandro Zanotto (Neri Pozza, Vicenza

1993); Bona de Pisis, Sandro Zanotto (a cura di), De Pisis,

Passeggiate nel Lazio (Viviani, Roma 1993); Bona de Pisis, Sandro

178

considerare de Pisis esclusivamente quale pittore ha

generato la stortura di vederne le opere letterarie in

funzione biografica o come traduzioni letterarie di quadri

eseguiti o no, valide quindi quali chiarimenti della pittura,

non per se stesse. Eppure esiste una larga parte della vita

dell’artista spesa nello scrivere e nel dichiararsi poeta:

nelle innumerevoli carte di de Pisis, in ogni pagina

decisiva di diario balza questa intenzione di essere

scrittore, pur non considerando tutta la sua educazione

ferrarese che è letteraria137

.» Un’educazione ferrarese ben

immersa nella sua città tenendo presenti i maestri della

pittura a cavallo tra Otto e Novecento: dal voluttuoso

estetismo di Giovanni Boldini al corpo sociale di

Giuseppe Mentessi alla ludicità proto-futurista e

secessionista di Aroldo Bonzagni a Gaetano Previati e il

suo dilavare nel portato divisionista. Così, dai “Valori

Plastici” di Roberto Melli e Achille Funi alla ‘metafisica’:

ingredienti e spezie adsorbiti dal giovane de Pisis, in un

momento di formazione in cui egli si definisce ‘umanista’

ed inizia rapporti con intellettuali del tempo: da De

Chirico a Savinio a Nicola Lisi, da Marino Moretti a

Sandro Penna a Carlo Emilio Gadda. Dedica a Pascoli, da

giovanissimo, i suoi iniziatici Canti della Croara (Ferrara

Zanotto (a cura di), Filippo de Pisis, Impressioni sulla carta

(Firenzelibri 1974; Falsetti, Prato 1980 ca.); Filippo de Pisis, La città

delle 100 meraviglie, a cura di Bona de Pisis, Sandro Zanotto

(Abscondita, Carte d’Artisti,116 - nota di Claudia Gian Ferrari,

Milano 2009). Di Zanotto prosatore e poeta si ricordano: Miti e poemi

eroici (con Gianni Floriani; R.A.D.A.R, 1965); Delta di Venere

(Rusconi, Milano 1974); La Venere del Buttini (Scheiwiller, Milano

1979); Aque perse (Lunario nuovo, Catania 1985). 137

Cfr. Il Marchesino Pittore, romanzo autobiografico di De Pisis,

(Prefazione di Sandro Zanotto), Longanesi (‘La gaja scienza’, 300),

Milano 1969, p. 9.

179

1916), con una prefazione di Corrado Govoni, intridendosi

d’una avvolgente e coinvolgente letterarietà a nutrimento

del suo iniziale e poi maturo (a volte disordinato)

elaborato pittorico e poetico.

Sono, comunque, i ‘malinconici fiori’ che intessono

l’estensione completa della sua poesia così come il tessuto

pittorico; egli, suggestionato dalle cifre secentiste e

settecentiste della nostra civiltà figurativa, integra, nella

pienezza sincopata di un personale tratto, lo spirito del suo

e del nostro tempo. Proprio i fiori, che hanno

accompagnato in oltre un centinaio di prodotti (poesia, olî,

acquarelli, disegni), vita e pulsioni di Luigi Filippo

Tibertelli138

, non posseggono, come l’artista stesso

dichiara, nulla di spontaneo, di gestuale, considerando

quel suo misurato alone post-impressionista sempre

pungolato da impazienti scatti nervosi, e, nel governo

dello spazio rappresentativo, da giovanili reminiscenze.

D’altronde Montale esprime, con fermezza, la

convinzione, come già scrivemmo139

, che “le arti hanno un

fondo comune” (in un’intervista del 1962, e nella

recensione alla seconda edizione vallecchiana delle

Poesie140

). Ne troviamo esplicita traccia nelle sue parole di

presentazione per «il falò poetico di Beppe Bongi141

»,

pittore ‘occultatore’ dei suoi quadri e struggente quanto

138

Luigi Filippo Tibertelli de Pisis nasce a Ferrara l’11 maggio del

1896, lo stesso anno di E. Montale. Muore a Milano il 2 aprile del

1956. 139

Aldo Gerbino, Fiori gettati al fuoco, Plumelia, Bagheria-Palermo

2014, p. 8 e sgg. 140

In «Corriere della Sera», 1954, recensione di Eugenio Montale alle

Poesie di de Pisis, nuova ed. 1953 (Vallecchi, Firenze 1942). Altre

edizioni: Filippo de Pisis, Poesie, Garzanti, prefazione di Giovanni

Raboni, Milano 2003. 141

Si rimanda alla presentazione di Montale e ai suoi sei acquarelli in:

Giuseppe Bongi, Amo l’estate, Vallechi, Firenze 1968.

180

iniziatico poeta della natura maremmana. D’altronde se

Filippo, con la sua pittura ‘a zampa di mosca’, a favore del

quale aveva insistito l’amico di Montale, il critico Mario

Bonzi, col sottoporgli una cartolina del ferrarese inviata al

futurista Francesco Meriano142

, ecco che l’autore degli

Ossi di seppia si mostra in quel momento alquanto

guardingo affermando: «… Ciò dico nel caso che l’ottimo

Tibertelli (Luigi Filippo) ti avesse scritto qualche

insulsaggine143

». Ma dopo qualche anno, nelle Occasioni

(1928-1939), destina, invece, al Beccaccino (1932) di

Filippo, col peso delle parole di Lapo Gianni, “l’Arno

balsamo fino”, i cinque versi della calzante poesia “Alla

maniera di Filippo de Pisis nell’inviargli questo libro”:

«Una botta di stocco nel zig zag / del beccaccino- / e si

librano piume su uno scrìmolo. // (Poi discendono là,

sgorbiature / di rami, al freddo balsamo del fiume).»

Medesima tangibilità che ritroviamo, appunto ben

materiata, in questo C’est n’est pas tout del 1949144

,

certamente opera d’una drammatica intensità, a piene mani

142

Francesco Meriano (Torino 1896-Kabul 1934), fonda e dirige, con

Bino Binazzi, il mensile «La Brigata», a cui Ardengo Soffici, nei suoi

Ricordi di vita artistica e letteraria (1965), assegnava qualità di

“nobiltà, bontà e poesia”. 143

Cfr. la prefazione di Laura Barile in: Eugenio Montale, Lettere e

poesie a Bianca e Francesco Messina, Libri Scheiwiller, Milano 1995,

p. 9. 144

L’opera da me repertata nell’ambito di una ricognizione nei locali

dello Steri-Palazzo Chiaromonte, sede del Rettorato della Università

degli Studi di Palermo, e ora facente parte della “Quadreria

Mediterranea” (già inventariata con la dizione “Vaso con Fiori” col n.

675), porta, nel verso della tela, un’annotazione di pugno dell’artista,

scritta durante un ricovero bolognese in clinica psichiatrica, che inizia

con le parole “C’est n’est pas tout”. Tra le altre opere della Quadreria;

La Vucciria di Renato Guttuso, poi, tra le tante: Ottone Rosai,

Giovanni Omiccioli, Nino Garajo, Joaquín Vaquero, Sergio Ceccotti.

181

versata dalla sua architettura sentimentale. In essa vigono

tracce cinematiche caratteristiche di quell’incedere nella

intercapedine degli spazi (così nella versificazione) ove il

centro focale viene generosamente affidato alla florealità:

metafora del ciclo esistenziale, della casualità tragica della

vita, luttuosa, a segnare quella abilità “schermistica”

efficacemente messa in evidenza da Renato Barilli,

quando sottolinea per la sua opera, di «quel suo colpire di

punta, o del procedere con unghiate, con rapidi passaggi

del polpastrello; a patto che tutti questi interventi facciano

cagliare un grumo di materia145

». In tale palermitano ‘vaso

di fiori’ i grumi ‘cagliati’ si offrono nell’alveo della

morfologia botanica che de Pisis ama rappresentare come

agitata dal brado scompiglio delle sue visioni: bianche e

gialle margherite selvatiche, pansé, carnose bocche di

leone, da cui traspare l’arcana sensualità naturale, agile nel

ricondurci a quelle incise parole di Emilio Cecchi per cui

«l’amore pei fiori non è che un’oscura trasposizione di

lirismo sessuale»146

.

Sette anni dopo i “fiori” palermitani, la sua vita è

registrata dall’amico scrittore Giovanni Comisso come

esistenza di un segregato147

: «Sembrava considerasse

questa sua stanza di recluso, come una delle sue abituali e

bizzarre nelle passate stagioni d’avventura» – scrive –

«Non desiderava uscire da quella clinica, ritornare alla sua

casa veneziana, potere guarire e riprendere la sua vita

fatale e alata di un tempo, egli infine si crogiolava adattato

a quella clausura, come chi invescato in un imbrogliato

145

Renato Barilli, L’arte di de Pisis: collezione e montaggio, in De

Pisis, dalle avanguardie al “diario”, Mazzotta, Milano 1993, p. 23. 146

Emilio Cecchi, Corse al trotto e altre cose, Sansoni, Firenze 1952,

p. 140. 147

Cfr. Giovanni Comisso, Mio sodalizio con De Pisis, Neri Pozza,

Vicenza, 2010.

182

ingranaggio giudiziario passa da un processo all’altro, da

un carcere all’altro accettando oramai di non essere più

libero. Sembra impossibile, ma non vi è, più dell’anima

umana, elemento al mondo maggiormente pronto a

adattarsi a un vivere anche del tutto opposto a quello che

fu predominante, anche se fu tra i più ribelli e forsennati».

Poi, nel ‘diario’ comissiano, ai giorni 4-5-6 dicembre

1953148

, si legge: «A Milano: visto De Pisis: l’ò tratto

fuori dal sepolcro. Le nostre opere sono le orme dei nostri

passi mentre si cammina nella vita. Egli non cammina più

e non lascia piú orme»; e, lapidariamente, nel giorno 2

aprile 1956149

: «È morto De Pisis, mentre stavo scrivendo

su di lui. I suoi quadri si fanno più vivi». Così i suoi versi,

il suo «cuore che batte fuori ritmo150

», fluttuante come

«sughero leggero», come le sue «partenze gentili».

148

Giovanni Comisso, Diario 1951~1964, Longanesi, Milano 1969,

p.71. 149

Ivi, p. 109. 150

Da “Natura morta”, in Poesie, 2003. p. 44, vv. 2; 9-10.

183

INDICE

Relatori .............................................................................. 7

Prefazione .......................................................................... 9

Notizie bibliografiche ...................................................... 13

Il Novecento, il Mediterraneo e oltre ............................... 19

Il secolo che non c’è: uno sguardo dal terzo millennio ... 45

Tre riflessioni sulla poesia ............................................... 57

Poeti del secondo Novecento siciliano ............................ 63

Tre poeti liguri dimenticati e il potere: Gherardo Del

Colle, Nicola Ghiglione e Adriano Guerrini .................... 77

Dalla beat generation alla digital degeneration................ 87

Un’antologia necessaria ................................................... 97

Il Novecento e la poesia del Mediterraneo.

Verso una Itaca poetica .................................................. 109

Verso un nuovo umanesimo: dall’interiorità alla realtà . 121

Mario Specchio (1946-2012) e il suo Novecento .......... 135

Il corpo, il testo, il pensiero: messaggi dalla poesia

di Valerio Magrelli ......................................................... 149

Palermo nella Poesia di Mario Luzi

Una testimonianza, un’amicizia .................................... 159

Il luogo delle origini ...................................................... 167

184

Cuore ombroso. Fiori

Filippo de Pisis: parole, pigmenti ................................. 173

Indice dei nomi ………..………………………………185

185

INDICE DEI NOMI

Abd-ar-Rahman 163

Accardo G. 39

Accrocca E.F. 67

Addamo S. 54, 68

Afribo A. 28

Aguillera L. 107

Akerstrom U. 25

Alfonsi L. 67

Alighieri D. 113

Andreae B. 33, 113

Angiolieri C. 92

Apollinaire G. 92

Apolloni I. 72

Aragon 92

Arango G. 102

Arbelàez J. 99, 106

Arezzo C. 74, 75

Arezzo G. 8

Rosa A.A. 21

Assenza C. 73

Attanasio M. 72

Augè M. 45

Baez J. 89

Baldini M. 26

Balestrini N. 69

Barbagallo A. 66

Barbara 92

Barile A. 77, 78, 80

Barile L. 180

Barilli R. 181

Barthes R. 50

Baudelaire C. 92

Belfiore A. 23

Bellini P. 109

Benavides H. 104

Betocchi C. 79

Bevilacqua A. 67

Bilieci P. 70

Binazzi B.180

Bindi U. 91

Bloom A. 48

Bo C. 81

Bobbio E. 94

Bodini V. 25, 26

Boldini G. 178

Bongi B. 179.

Bonzi M. 180

Bonzagni A. 178

Boringhieri B. 45

Bonafede G. 8

Bonaviri G. 54, 68

Bonnet P. 107

Brassens G. 92

Braudel 32

Brel J. 92

Breton A. 92

Bruno M. 159

Bufalino G. 8, 63, 68

Burgaretta S. 74

Bustos R. 107

Buttitta I. 65

Cacciatore C. 69

Calanna G. 22

Calì S. 53, 70

Calvino I. 20, 21

Camilleri A. 63, 67, 68

Camilleri S. 67

Campanile A. 54

Campo C. 161

Campos M.A. 99, 105

Camus A. 92

Cane C. 70, 71

Caprile M.T. 13

Caprilli F. 145, 146.

186

Caproni G. 17, 26, 77, 80, 81, 83

Cardarelli V. 38, 80, 91

Carotenuto L. 8

Carrà C. 43

Carravetta P. 36

Caruso C. 163

Caruso O. 22

Catalano E. 109

Catania L. 23

Cattafi B. 53, 54, 65

Cavacchioli E. 8

Cavassa R.V. 81, 82

Cazzato L. 110

Ceccardi R. 77

Cecchi E. 181

Ceccotti S. 180

Celan P. 139, 140

Celis L.E. 31, 104

Certa R. 70, 71

Chomsky N. 50

Ciampi P. 91

Citati P. 21

Coco E. 7, 8, 15, 31, 97

Comisso G. 43, 177, 181, 182

Conti C. 73

Contiliano A. 71, 74

Contini G. 25

Corcuera A. 98

Corrà A. 115

Corrao F. 163

Corsaro A. 64

Corso G. 71, 90

Cortina R 111.

Cremona A. 54, 69

Cucchi M. 53

Cultrera D. 8, 73

D’Arrigo S. 54, 68

De Amicis E. 13

De Angelis M. 54

De Chirico G. 178

De Andrè F. 90, 91

De Beauvoir S. 92

Del Colle G. 27, 77, 78, 79, 80

della Mirandola P. 137

De March S. 23, 28

De Nardi A. 41

De Nicola F. 7, 13, 27, 77, 78, 83

de Pisis B. 177, 178

Dèry S. 79

De Sanctis F. 13

De Saussure F. 50

De Simone A. 113

De Sisti A. 42

De Vita N. 74

Diaz – Granados J.L. 107

Di Biasio R. 7, 14, 24, 57

Diecidue G. 70, 71

Di Giacomo G. 7, 8, 17, 74

Di Giovanni A. 64

Di Grado A. 22

Di Maio N. 71, 72

Di Marco R. 69

Di Marco S. 74

Di Maria V. 70

Di Martino L. 8, 54, 73

Di Martino V. 32

Di Mauro A. 74

Di Noto P. 8, 75

Di Paolo P. 111

Di Silvestro A. 7, 17, 38, 149

Di Stefano P. 53, 54

Dylan B. 89

Dolci D. 65

Dolfi A. 27

Donovan 89

Dorovsky I. 110

Durisin D. 111

Echevarrìa R. 102

Eckart M. 126

Elitis O. 33, 34, 110, 114, 115

Eluard P. 96

Endrigo S. 91

187

Escobar J.J. 106

Esposito E. 59

Evangelisti S. 38

Fabro N. 79, 80

Falqui E. 81

Farinella M. 73

Farkas A. 48

Fenocchio G. 22, 30

Fenoglio E. 94

Ferlinghetti L. 71, 90

Ferlita S. 40

Ferrari C.G. 178

Ferré L. 92

Ferroni G. 59

Floriani G. 178

Follieri E, 114, 115

Frèmont A. 41

Freni M. 74

Funi A. 178

Fusini N. 141

Gadda C.E. 178

Galvagno V. 8

Garajo N. 180

Garin E. 16

Gasparini A. 41

Gatto A. 17, 78

Genovese A. 54, 69

Gerbino A. 7, 8, 11, 14, 42,

43, 54,73, 129, 173, 179

Ghiglione N. 27, 77, 78, 80,

81, 82, 83, 84, 85

Giacalone G. 65

Giachetti G. 163

Giacone R. 73

Giannone A.L. 25, 26

Gibran K. 130

Gisberg A. 29, 90

Giudice E. 8, 73

Giuliana B.67

Giuliani A. 69

Giunta E. 40, 74, 161

Gnisci A. 109, 111

Gnoli A. 30

Godard J. L. 95

Goethe J.W. 139, 140, 146

Gori M. 66, 67

Grande A. 77

Grasso M. 74

Greco J. 92

Guadagnino D. 74

Guastella A. 7, 8, 15, 41, 42,

72, 75, 167

Guastella S.A. 41, 64

Guerrini A. 27, 77, 78, 83, 84, 85

Guglielmi G. 69

Gusmini C. 113

Guttuso R. 180

Heaney S. 34

Hegel G.W.F. 136

Heidegger M. 46

Henao R. 107

Hernandez B. 111

Hernandez Gonzalez M. B. 113

Hesse H. 139, 140

Hierro J. 100

Hoefer F. 67

Horvat E. 109

Ilinskaja S. 110, 114, 116

Insana J. 54, 72

Isgrò E. 54

Jansen S. 149

Jaramillo D. 106

Jiellun T.B. 109

Kavafis C. 34, 110, 114, 120

Keats J. 141

Kerouak J. 90

Kruger M. 48

Lacan J. 137

Lando F. 41

Landron De Guevara P.L. 33,

34, 113, 116, 117, 118, 119

Lanuzza S. 54, 68

188

Lanza A. 8

Larcan L. 43

Larousse P. 92

Lauretta C. 73

Lauzi B. 91

Leyva J.A. 98, 103

Leopardi E. 8, 61, 67, 68

Leopardi G. 17, 61

Linguaglossa G. 39

Lisi N. 178

Longo P. 7, 8, 16, 39, 40, 159

Lo Piano S. 67

Lorca G.. 138

Luzi M. 28, 37, 38, 39, 40, 68,

138, 139, 159, 160

Macario M. 7, 13, 28, 29, 30, 87

Magrelli V. 38, 39, 54, 149, 150,

152, 153, 154, 155, 156, 157

Magris C. 112

Manacorda G. 57, 59, 69, 70, 149

Mandarà E. 8, 67, 68

Mannelli S.

Marcheselli L. 114

Marchiori G. 177

Marinetti F.T. 145

Martinez Gonzàlez G. 104

Martino S. 54

Martoglio N. 64

Masini F. 140

Masters E.L. 90

Maugeri A. 69

Meli G. 64

Melli R. 178

Mengaldo P.V. 22, 26, 48, 54

Mentessi G. 178

Meriano F. 180

Messina F. 180

Messina P. 16

Mezzasalma C. 7, 16, 36, 37, 54

Milanese M. 41

Milani F. 19

Millu L. 13

Mirabile P. 73

Mistral G. 103

Montale E. 14, 17, 28, 66, 77,

79, 80, 84, 94, 115, 125, 127,

128, 129, 175, 179, 180

Morano R.M. 30, 31

Morante E. 94

Moravia A., 37

Moretti M. 178

Morin E. 111

Morina M. 69

Moro A. 10

Mouloudji 92

Moustaki 92

Naldini N. 177

Nativo G. 7, 11, 19, 32

Navarra I. 70, 71

Nietzesche F.W. 137

Occhipinti G. 7, 8, 11, 15,17, 22,

23, 45, 63, 66, 74, 75, 156, 167

Olivers A. 147

Omero 33, 111, 144

Omiccioli G. 180

Orilia S. 66

Ottone P. 82

Otranto G. 109

Pagliarani E. 69

Palazzeschi 170

Palumbo G.. 73

Paoli G. 91

Papini M.C. 27, 94

Pascoli G. 178

Pasolini P.P. 28, 37, 95, 177

Passanisi D. 54

Patachou 92

Patti A. 54, 73

Pavese C. 64, 90, 91, 92, 94

Paz O. 31, 137

Pecoraro Z. 20

Penna S. 178

189

Pennisi R. 74

Pepe D. 8, 75

Perreira M. 69

Petrarca F. 17, 156

Piccolo E. 140

Piccolo L. 66

Pino N. 69

Piovene G. 94

Pinto Minerva F. 109, 111

Piperno A. 145

Pirrera C. 54, 69

Pisana D. 7, 8, 15, 34, 35, 74, 121

Pitrè G. 159

Pivano F. 29, 89

Poidomani R. 8, 68

Poletti F. 42

Polito P. 149

Ponge F. 155

Pontiggia G. 153

Pratolini V. 94

Prevert J. 91, 92

Previati G. 178

Puglisi P. 40, 161, 162

Quessep G. 106

Quasimodo S. 8, 23, 25, 64,

65, 78, 129

Raboni G. 123, 173, 179

Raimondi E. 22

Recalcati M. 144

Reale B. 54, 69

Reale U. 67

Restrepo L.A. 102

Riccardi A. 53

Rilke R.M. 139, 140

Rimbaud A. 87, 90, 92, 167

Ripellino A.M. 53, 68

Roca J.M. 99, 104, 106

Romano L. 74, 94

Romano N. 74

Romano T. 74

Romero A. 107

Rondoni D.. 122

Rosai O. 180

Rossi S. 70

Rota M. 26

Roversi R. 71

Russo-Karali G. 33, 112

Saba U. 34, 38, 79, 80, 114

Saglimbeni S. 74

Sanguineti E, 69, 82, 84

Sansone M. 25

Sartre J.P. 92

Savinio A. 17, 43, 178

Savoca G. 17, 22

Sbarbaro C. 26, 38, 77, 94

Scaffai N. 20

Scammacca N. 70, 71

Scandurra A. 54, 74

Schembari G. 8

Schembari E. 7, 8, 11, 14, 26,

42, 54, 63, 167, 172

Schembari G. 8, 74, 75

Sciascia L. 23, 63, 68, 71, 162

Scotellaro R. 64

Seferis G. 115

Segre C. 37, 137

Sereni V. 68

Sinisgalli L. 17, 25

Sinopoli F. 36

Sisti A. 42

Soffici A. 94, 180

Sonzogni M. 34

Spadaro A. 39

Specchio M. 34, 36 . 37, 116,

117, 118, 119,137, 138, 139, 140,

142, 143, 144, 145, 146, 147

Stecher G. 72

Tabucchi A. 34, 111, 114, 118, 140

Taormina E.P. 74

Tartaro A. 114, 115

Teitelboim V. 103

Tempio M. 64

190

Tenco L. 91

Terminelli P. 72

Testa E. 28, 69

Tibertelli de Pisis L.F. 42, 43,

173, 175, 177, 178, 179, 180,

181, 182

Tomasi di Lampedusa G. 66

Torrisi F. 67

Tse Tung M. 84

Ungaretti G. 13, 43, 94

Valeri D. 177

Valery P. 156

Vann’Antò 8

Vaquero J. 180

Venturi M. 13

Verdino S. 39

Verdirame M.T. 8, 73

Verlaine P. 92

Vian B. 92

Vilardo S. 68

Villaroel G. 64

Villon F. 92

Vindigni G. 8, 75

Virgilio M.P. 38

Vitti M. 115

Vittorini E. 23, 81, 94

Volo F. 107

Weber M.137

Wittgenstein L. 126.

Zaccaria A. 54, 73

Zagarrio G. 54, 66, 68, 69, 70

Zanotto S. 177, 178

Zavattini C. 71

Zinna L. 54, 73

Zografidou Z. 7, 16, 20, 32, 34,

110, 111, 113, 116, 117, 118