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Atti del Convegno
INTERROGARE IL NOVECENTO
Ragusa, 21-22 Novembre 2015
A cura di
Giuseppe Nativo, Giovanni Occhipinti, Emanuele Schembari
5
Comune di Ragusa, Centro Servizi Culturali
Gruppo ″Mario Gori″.
Banca Agricola Popolare di Ragusa
Selinus University of Sciences and Literature, Bologna.
Convegno
INTERROGARE IL NOVECENTO
21-22 Novembre 2015
A cura di
Giuseppe Nativo, Giovanni Occhipinti, Emanuele Schembari
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RELATORI
Aldo Gerbino (Università di Palermo): "Cuore ombroso".
Fiori. Filippo de Pisis.
Antonio Di Silvestro (Università di Catania): Valerio
Magrelli dagli anni Ottanta in poi.
Francesco De Nicola (Università di Genova): Tre poeti
liguri dimenticati e il potere.
Zosi Zografidou (Università di Salonicco): Il '900 e la
poesia del Mediterraneo.
Emilio Coco (traduttore, poeta, ispanista): Tributo alla
poesia ispanica.
Rodolfo Di Biasio (poeta, narratore, saggista): Alcune
riflessioni sulla poesia di oggi.
Giovanni Occhipinti (poeta, critico letterario, narratore): Il
secolo che non c'è: uno sguardo dal terzo Millennio".
Mauro Macario (poeta, saggista): Dalla beat generation
alla digital degeneration.
Piero Longo (poeta e docente di Letteratura italiana e
Storia nei Licei): Mario Luzi e la Sicilia.
Carmelo Mezzasalma (saggista, poeta, teologo, scrittore):
Mario Specchio nella temperie del '900.
Emanuele Schembari (poeta, scrittore, giornalista,
saggista): Poeti del Secondo Novecento Siciliano.
Domenico Pisana (poeta, saggista, teologo): Verso un
nuovo umanesimo: dall'interiorità alla realtà.
Giuseppe Digiacomo (poeta, scrittore, uomo politico):
Ricordando un pezzo di Novecento.
Andrea Guastella (saggista, dottore di ricerca, poeta): Il
luogo delle origini.
Segretario: Giuseppe Nativo (giornalista letterario,
saggista e cultore di Storia patria):
8
Letture poetiche dell'attore Giovanni Arezzo e del
cantautore Giacomo Schembari.
I testi poetici letti sono di:
Salvatore Quasimodo, Giuseppe Bonafede, Enrico
Cavacchioli, Gesualdo Bufalino, Vann’Anto, Emanuele
Mandarà, Enzo Leopardi, Emanuele Giudice, Domenico
Cultrera, Raffaele Poidomani, Aldo Gerbino, Piero Longo,
Emilio Coco, Giovanni Occhipinti, Giuseppe Di Giacomo,
Andrea Guastella, Letizia Di Martino, Domenico Pisana,
Maria Teresa Verdirame, Dario Pepe, Giuseppe
Schembari, Pippo Di Noto, Giovanna Vindigni, Luigi
Carotenuto, Vincenzo Galvagno, Antonio Lanza,
Emanuele Schembari.
9
PREFAZIONE di Giovanni Occhipinti
Gli interventi di autori e studiosi italiani e stranieri sulla
situazione della poesia e dei poeti all'inizio del nostro
Terzo Millennio, con uno sguardo rivolto al trascorso
Novecento, hanno lo scopo di analizzare dati e questioni –
insomma, aspetti – di un bilancio consuntivo sullo status
della cultura letteraria italiana nel momento in cui la
dimensione umana si allarga, si arricchisce per il
fenomeno della migrazione dei popoli che fondono le loro
culture, contribuendo a modificare la nostra visione del
mondo in rapporto al pensiero della poesia, dell'arte, della
filosofia e delle immancabili innovazioni della nuova
antropo-sociologia e della sociologia della letteratura.
Trasmigreranno anche le poetiche, recando con sé temi
e motivi, ovvero nuove pagine di storia che d'ora in avanti
apparterranno alla globalità della terra: proprio così, un
tempo c'erano le scaramucce di confine o di quartiere
sedate dallo schioppo e dall'archibugio, poi quelle sedate
dalle bombe da una parte all'altra del mondo, e oggi basta
la bomba nucleare per mettere a tacere l'intero pianeta.
Tutto si modifica ed espande, nel bene come nel male,
legando l'umanità a un unico destino. E la letteratura,
l'arte, la filosofia non possono non alimentarsi a queste
nuove situazioni, di cultura e di rischi, determinate dai
popoli della terra, troppo piccola per l'umanità dei nostri
giorni. Delle trentatre popolazioni della terra si comincia
solo ora a viverne la promiscuità, ne segue l'inutilità dei
localismi, sempre più riduttivi, se non banalizzanti e
incapaci di esaltare i valori della grande poesia, quella che
esprime la mondità del mondo.
10
Nella nuova fase di presa di coscienza e di crescita, la
letteratura accoglie e modifica i nuovi strumenti di
espressione e certamente si differenzia dalla letteratura del
Novecento, la quale si è alimentata a ben altre esperienze:
vedi le due grandi guerre mondiali, il Futurismo, il
Fascismo, la Contestazione giovanile del Sessantotto, col
sequestro e la morte di Aldo Moro e così via.
Nell'attesa di assimilare la cultura del nuovo secolo, la
Narrativa si muove, insieme agli editori, sulla vecchia
solfa del già-detto e fa bella mostra di sé nelle vetrine
delle ″classifiche″ che non ci dicono niente. All'editoria
interessa produrre e vendere e quando si è assicurata
alcuni nomi non li molla. Punta sempre sugli stessi cavalli
vincenti. E' il complesso dell'ippodromo.
La Poesia, intanto, se ne sta a guardare. Ha ben altro da
dire. Muove dalla finitudine verso l'Assoluto. Nasce
dall'extrasistole del mondo. Sorta di aritmia della vita che
coinvolge l'essere di ognuno di noi. E' perciò che non si
esaurisce mai. E' parola che vuole mettere insieme il
particolare con l'universale; ed è, spesso, la stessa biologia
del poeta, formandosi all'interno dei suoi vissuti. E' lunga
quanto il Tempo, perché viene dal Tempo e porta al
Tempo; non ha soluzioni da proporre, perché il suo è il
canto dell'anima dell'uomo e ne è il dolore, la tensione al
sublime, il pianto, la caduta ad inferos...
Sì, la poesia se ne sta a guardare. Attende la novità del
pensiero nuovo, quello che sta maturando - non certo tra le
poltrone del nostro Parlamento -, ma tra uno sbarco e
l'altro di migranti tiranneggiati da scafisti briganti che
facilitano e alimentano il terrorismo internazionale. Qui, è
la nuova materia che andrà a confluire nei versi della
poesia o nelle pagine di narrativa dei prossimi anni.
Ma non è tutto! All'orizzonte si profila la politica
sinistra dell'espansionismo, fondata sulle annessioni dei
11
territori e dei confini; e questo ″giustifica″ la sopraffazione
dei popoli più deboli da parte, soprattutto, di una grande
potenza europea e mondiale, che non è certo difficile
individuare. Per non parlare della Corea del Nord e del suo
innominabile, quanto inaffidabile e megalomane capo, che
contempla, già, nella sua mente malata di despota, il gioco
d'artificio, da Apocalisse, che incenerirà il mondo.
Questi fatti, questi temi non possono non alimentare la
nuova storia – già in atto – dell'umanità e, di conseguenza,
l'arte che la esprime.
Questo, lo spirito del Convegno e degli Atti che lo
riassumono attraverso il lavoro di sintesi che troveremo in
apertura del libro, curato da Giuseppe Nativo e voluto da
Emanuele Schembari, presidente del Centro Servizi
Culturali di Ragusa, che, da autore, ha condiviso col
sottoscritto, insieme ad Aldo Gerbino, l'intenzione e l'idea
di ascoltare la voce di scrittori, poeti, saggisti sulla
situazione, oggi, della letteratura, guardando da un lato al
Novecento, dall'altro alla storia appena iniziata del Terzo
Millennio.
Giovanni Occhipinti
.
.
13
NOTIZIE BIBLIOGRAFICHE
FRANCESCO DE NICOLA
Nato a Genova nel 1946 é professore di Letteratura
Italiana Contemporanea nell’Università di Genova, dove
pure ha fondato e dirige 1a Scuola di lingua e cultura
italiana per stranieri. Studioso di autori e problemi della
letteratura italiana dell’Ottocento e del Novecento, é
autore di numerosi saggi monografici - Fenoglio,
partigiano e scrittore (Argileto, 1976), Introduzione a
Fenoglio (Laterza 1989), Introduzione a Vittorini (ivi,
1993), Neorealismo (Bibliografica, 1995) e Gli scrittori
italiani e l’emigrazione (Ghenomena, 2008) - e ha curato
l’edizione di importanti opere rare - I ponti di Schwerin
(Le Mani, 1998) di Liana Millu, Bandiera bianca a
Cefalonia (Mondadori, 2001) di Marcello Venturi,
Sull'Oceano (ivi, 2004) di Edmondo De Amicis e La
giovinezza (Editori Riuniti, 2011) di Francesco De Sanctis
-. Appena usciti il saggio-antologia, scritto con Maria
Teresa Caprile, Gli scrittori italiani e la Grande Guerra
(Ghenomena, 2014) e l’edizione delle Lettere dal fronte a
Mario Puccini di Giuseppe Ungaretti (Archinto, 2015).
MAURO MACARIO
Mauro Macario é nato a Santa Margherita ligure nel 1947.
E’ poeta, scrittore, regista.
Ha pubblicato sette volumi di poesia: Le ali della jena
(Lubrina, Bergamo 1990), Crimini naturali (Book editore,
Ro Ferrarese 1992), Cantico della resa mortale (Book
editore, Ro Ferrarese 1994), Il destino di essere altrove
14
(Campanotto, Pasian di Prato 2003), Silenzio a occidente
(Liberodiscrivere, Genova 2007), La screanza
(Liberodiscrivere, Genova 2012, Premio Eugenio Montale
Fuori di Casa 2012) e Metà di niente (Puntoacapo editrice,
Pasturana 2014, Premio Lerici Pea 2015 per l’Edito).
RODOLFO DI BIASIO
Poeta tra i più significativi del 2° Novecento, è nato a
Ventosa (Latina ) nel 1937 e vive a Formia. Giornalista,
critico letterario, narratore e autore di saggi critici e di
sillogi poetiche.
Collabora alla Rai e a riviste italiane e straniere.
ALDO GERBINO
Nasce a Milano nel 1947, da famiglia siciliana.
Morfologo, è professore ordinario di Istologia ed
Embriologia nell'Università di Palermo. Cultore di
antropologia culturale, si occupa di critica d'arte e
letteraria. Oltre a pubblicazioni scientifiche sono al suo
attivo libri di saggistica e volumi di poesia. Ha diretto e
dirige importanti riviste letterarie tra le quali ″Plumelia″
da lui fondata. Memorabile, nella storia della poesia in
Sicilia, l'antologia Sicilia, poesia dei mille anni (Sciascia
editore, 2001). E' redattore di ″Gradiva″.
EMANUELE SCHEMBARI .
Nato nel 1936 a Ragusa, dove abita. Poeta tra i più
significativi della sua generazione, giornalista
professionista, ha diretto per dieci anni una televisione
privata ed é stato corrispondente del quotidiano “L’ora″ di
Palermo. Ha pubblicato venti volumi tra poesia, narrativa
15
e saggistica. E’ stato per dodici anni Segretario Regionale
del Sindacato Nazionale Scrittori di Sicilia. Ha diretto otto
periodici e vinto quindici Premi Letterari. E’ Presidente
del Centro Servizi Culturali di Ragusa e del Gruppo
culturale “Mario Gori″. Con Giovanni Occhipinti ha
fondato le riviste letterarie ″Presenze″ e ″Cronorama″: è
stato, per un certo tempo, condirettore di quest'ultima.
ANDREA GUASTELLA
Nato nel 1973 a Ragusa, dove abita. E’ dottore di ricerca
in italianistica e cultore di letteratura italiana. Insegna
storia dell’arte nei Licei e si occupa di Letteratura,
pubblicando parecchie opere di saggistica Ha a1 suo attivo
anche due opere di versi. E’ direttore editoriale
dell’editrice Aurea Phoenix.
EMILIO COCO
Nato a San Marco in Lamis, 1940. Ispanista, traduttore,
editore. E' poeta, saggista e organizzatore di Convegni
mondiali finalizzati a tenere alto il rapporto tra i poeti
spagnoli e latino-americani con i poeti italiani. Tra le sue
opere di poesia vanno ricordate: Profanazione (1990), Le
parole di sempre (1994), Fingere la vita (2004), Il tardo
amore (2004), Notevole il suo studio sul teatro spagnolo
contemporaneo raccolto in tre volumi.
DOMENICO PISANA
Nato a Modica nel 1958. Fondatore e Presidente del
″Caffè Letterario Quasimodo″, è poeta, saggista e teologo.
Degni di nota e tradotti in alcune lingue europee i saggi:
Sulla tua parola getterò le reti e Quel Nobel venuto dal
Sud. Salvatore Quasimodo tra gloria e oblio. L'ottavo
16
volume di poesia, la sua opera più recente, è Tra naufragio
e speranza (2014). Nel 2006 è stato insignito della
Medaglia d'oro - ″Premio alla Modicanità″ - dall'Ammi-
nistrazione Comunale e dalla ProLoco dell'antica Contea.
PIERO LONGO
Piero Longo (Altavilla Milicia-Palermo 1943) vive ed
opera a Palermo dove ha insegnato Letteratura italiana e
Storia nei Licei; Storia del Teatro e metrica nella Scuola
del Teatro Biondo-Stabile di Palermo e Storia dell’Arte
Moderna presso la facoltà di Scienze della Formazione
dell’Universita di Palermo. In poesia ha pubblicato: Parole
in concertante (1970); Gli animali del cielo (1978);
Lampiridi e altri segni (1995); Dialoghi con Eleonora
(1999); Cofano di bellezza (2006); Haiku per violino
barocco (2010); Probabili orditure (2013).
ZOSI ZOGRAFIDOU
Nata a Salonicco nel 1962 è professore Ordinario presso il
Dipartimento di Lingua e Letteratura italiana
nell'Università ″Aristotele″ di Salonicco. Specialista di
Storia della Letteratura italiana e di traduzione letteraria.
Traduttrice e poetessa, coltiva la passione per l'arte
dell'iconografia, vivendo la simbiosi con l'obiettivo
nell'attimo di esaltare il paesaggio.
CARMELO MEZZASALMA
E' nato nel 1945 a Siracusa, é cresciuto a Ragusa, dove
abita la sua famiglia, ha studiato a Roma e a Firenze, dove
si é laureato in Filosofia. Organista e docente di
drammaturgia musicale, con Eugenio Garin ha pubblicato
17
opere di saggistica e due volumi di versi. Ha fondato e
diretto 1e riviste letterarie ″Hellas″ e ″Feeria″. Sacerdote,
vive in Toscana, dove ha fondato e dirige la Comunità di
San Leolino.
ANTONIO DI SILVESTRO
Nato a Scordia, insegna Filologia della Letteratura italiana
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di
Catania. E' autore di saggi sulla Letteratura ottocentesca,
particolarmente su Verga (va ricordato il volume, scritto
con Giuseppe Savoca, Lettere alla Famiglia: 1851-1880).
Ha condotto ricerche e analisi su Leopardi lettore di
Petrarca e su Sinisgalli, Gatto, Caproni, Montale.
GIOVANNI OCCHIPINTI
E’ nato a Santa Croce Camerina (Rg) nel 1936 e vive da
quasi sessant’anni a Ragusa, dove ha insegnato nelle
scuole elementari e medie. Ha pubblicato libri di narrativa,
saggistica letteraria e raccolte di versi. Ha fondato e diretto
le riviste letterarie ″Cronorama″ e ″Trasmigrazioni″. Ha
fondato il Premio di poesia “ Anni 70″ poi diventato “Un
ponte per l’Europa″, che si é concluso solo qualche anno
fa, dopo 25 anni. Per dieci anni é stato Presidente della
Giuria del Premio di poesia giovanile “Mario Gori″. E'
tradotto all'estero e ha partecipato a molti convegni
internazionali. Suoi scritti sono apparsi su riviste e giornali
italiani e stranieri.
GIUSEPPE DI GIACOMO
E’ nato a Comiso (Rg) nel 1957. Laureato in
giurisprudenza, é parlamentare regionale del PD,
presidente della Commissione Sanitaria, é stato assessore
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alla cultura del Comune di Comiso e, per quattro anni,
sindaco della città. E’ stato anche attore di prosa, a livello
amatoriale.
Ha pubblicato i libri di poesia: Alchimie per vivere, Il
giorno fariseo, Balena bianca, Canti di guerra e divine
inconcludenze, oltre all’instant book Io non sono il boss e
il libro di cronaca Come abbiamo fatto a fare l'aeroporto
di Comiso.
19
IL NOVECENTO,
IL MEDITERRANEO E OLTRE
di Giuseppe Nativo
Il Novecento è come una moneta che presenta due
facce. Da un lato può essere definito il “secolo breve” –
secondo la definizione dello storico Eric Hobsbawm –, che
comincia tardi con lo scoppio della prima guerra mondiale
nel 1914 e finisce presto con il crollo dell'URSS nel 1991.
“Breve” non solo per questa sua particolare collocazione
temporale all’interno delle due date fatidiche sopra
menzionate, ma anche per la densità di eventi che lo
caratterizza. Dall’altro si presenta “lungo” perché non
riesce a scrollarsi di dosso i resti della fin de siècle e non
vuole finire nemmeno a nuovo millennio già avviato. Il
Novecento, dunque, è il secolo che sembra non cominciare
e non finire mai.
In campo letterario emerge analogo andamento. In
Italia si riscontra una doppia anima “che, attraverso forti
contraddizioni, si manifesta in una fertile disarmonia per
coloro (letterati e non) che sono in grado di cogliere e di
far proprie le scintille generate da questi attriti dolorosi e
irrisolti”.1
I contributi raccolti nel presente volume, proposti du-
rante i lavori del Convegno, sono stati motivo di dialogo
intorno agli argomenti trattati. Inoltre, contribuiscono a
1 Filippo Milani, “La letteratura italiana del Novecento: un itinerario
europeo”, in http://www.letteraturaitalianaonline.com/novecento /let-
teratura-taliana-novecento-milani.html, Portale di letteratura on line,
Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica Alma Mater
Studiorum - Università di Bologna.
20
fornire una nutrita (anche se non esaustiva) mappatura
della letteratura del ‘900, con riferimento alla poesia, - e
non solo in Italia e nell’assolata Trinacria - attraverso una
sorta di ricognizione contraddistinta da itinerari compositi
e mai del tutto districabili gli uni dagli altri. In essi con-
fluiscono il pensiero riflessivo, esperienze poetiche, il
punto di vista dell’autore. Da qui un panorama letterario
variamente articolato in cui la geometria dei ricordi, talora,
si intreccia con il tempo del presente e del passato percor-
rendo lo spazio della memoria. Quest’ultima è il “patri-
monio di una società e di un’epoca, intorno a cui si snoda
il racconto della letteratura, della storia e del pensiero
umano poiché la letteratura è vita e la vita letteratura”.2
Zino Pecoraro, nel suo articolo pubblicato nel 2011 sul
quotidiano “La Sicilia”,3 ponendosi la domanda “a che
cosa serve la letteratura”, aggiunge che “non è un bene
indispensabile, una attività che concede onori e
benemerenze”. Eppure “la scrittura è l’attività più diffusa e
praticata, non conosce tregua, aspira sempre a qualcosa di
grande e di importante: è una continua sfida”.
Italo Calvino, in un bel passo delle Lezioni america-
ne,4 in una delle sei voci che contengono le “proposte per
2 Zosi Zografidou, “Introduzione”, in AAVV, Tempo, Spazio e
Memoria nella Letteratura italiana. Omaggio a Antonio Tabucchi, (a
cura di Zosi Zografidou), Roma, Aracne Editrice S.r.l. (responsabile
della distribuzione in Italia), 2012, University Studio Press, Università
‘Aristotele’ di Salonicco – Dipartimento di lingua e letteratura
italiana, p. 15 (atti del Convegno internazionale dall’omonimo titolo;
Salonicco, 13-14 maggio 2010). 3 Zino Pecoraro, “Letteratura e visione plurima del mondo”, La
Sicilia (quotidiano, edizione di Catania), 26.09.2011, p. 13, rubrica
“Oggi Cultura”. 4 Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo
millennio, Milano, Garzanti, 1988, pp. 121. Si tratta di un libro basato
su di una serie di lezioni preparate dall’autore nel 1985 nell’ambito
21
il prossimo millennio” esprime a chiare lettere la funzione
universale e completa della letteratura: “L’eccessiva ambi-
zione dei propositi può essere rimproverabile in molti
campi dell’attività, non in letteratura. La letteratura vive
solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là
d’ogni possibilità di realizzazione. Solo se poeti e scrittori
si proporranno imprese che nessun altro osa immaginare la
letteratura continuerà ad avere una sua funzione [...] la
grande sfida per la letteratura è il saper tessere insieme i
diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima,
sfaccettata del mondo”. Purtroppo, in questi ultimi decen-
ni, il panorama della letteratura, come prodotto industriale
e come appagamento dei gusti del pubblico, non mostra di
condividere quanto sostenuto da Italo Calvino.
C’è da dire che oggi a una geografia letteraria che dise-
gni una mappa delle correlazioni tra le tradizioni e i luoghi
in cui esse prendono consistenza e si sviluppano se ne
deve oramai sostituire un’altra, al di là della peculiarità
regionale ma anche al di là dei confini delle diverse nazio-
ni. Se si guarda all’ultimo scorcio del XX secolo e agli
inizi del nuovo millennio, la produzione e la circolazione
della letteratura sembrano fortemente condizionate sia dai
meccanismi e dalle leggi del mercato, sia dai mezzi di
comunicazione di un mondo che ormai può definirsi glo-
della programmazione di un ciclo di sei lezioni da tenere
all’Università di Harvard. Il ciclo, previsto per l’autunno di quello
stesso anno, non si è mai tenuto a causa del decesso di Calvino
avvenuto nel settembre del 1985. Alla data della morte, l’autore aveva
terminato tutte le lezioni. Il saggio ebbe un esito a stampa solo nel
1988 e con titolo in inglese. Il titolo Lezioni americane deriva dal
modo in cui lo scrittore e critico letterario, Pietro Citati, che era solito
visitare in quell’ultima estate l’amico Italo, aveva l’abitudine di
chiamarle (cfr. Alberto Asor Rosa, Stile Calvino: cinque studi,
Torino, Einaudi, 2001, pp. 65-66).
22
bale.5 Una fase epocale di “straordinaria mutazione” –
come sottolinea Giovanni Occhipinti col suo “Sguardo
dal terzo millennio” – in cui è possibile notare una “grande
confusione di voci che si affollano, si sovrappongono,
interagiscono babelicamente come nell’amplificazione di
un gigantesco interfono”. La letteratura da un lato si “pla-
netarizza” e dall’altro “diviene evanescente e stagionale”
assumendo un linguaggio che “tende a spegnersi in una
deriva di insignificanza” e dando così origine ad una
“letteratura di fuochi fatui”. Il professore padovano Pier
Vincenzo Mengaldo parla di “stasi creativa” osservando
che “la società sta creando le condizioni alla poesia per/di
tutti non in quanto sia stata liberata e rinnovata ma in
quanto al contrario s’impaluda e si sfilaccia sempre più”.6
Nell’informe “scarabocchio della comunicazione globa-
le”,7 in cui una “editoria da supermercato”,
8 e “senza
5 AAVV, Dal neorealismo alla globalizzazione, a cura di Gabriella
Fenocchio, Mondadori, 2004, p. 28 (il volume fa parte di La
letteratura italiana: il Novecento, diretta da Ezio Raimondi). 6 Pier Vincenzo Mengaldo, “Grande stile e lirica moderna”, in Id., La
tradizione del Novecento, Nuova serie, Firenze, Vallecchi, 1987, p. 14
[nuova ed., Torino, Einaudi, 2003]. 7 Grazia Calanna, “Giovani voci per la poesia contemporanea”, La
Sicilia (quotidiano, edizione di Catania), 12.11.2015, p. 16, rubrica
“Cultura” (intervista allo scrittore e critico letterario Orazio Caruso
in occasione della presentazione del numero inaugurale della collana
“Quadernetto di poesia contemporanea”, intitolato “4x10”, relatore
prof. Giuseppe Savoca, ordinario di Letteratura italiana moderna e
contemporanea all’Università di Catania). 8 Antonio Di Grado (ordinario di Letteratura italiana all’Università di
Catania), “Letteratura e web. Isole sconosciute nell’oceano-Internet”,
La Sicilia (quotidiano, edizione di Catania), 23.10.2010, p. 27, rubrica
“Cultura”.
23
patente di letterarietà”,9 si appresta a congedarsi dalla
poesia perché l’unico linguaggio che comprende è quello
della matematica finanziaria e l’unico critico che ascolta è
quello che fa pendere i bilanci dalla parte del guadagno, si
osserva quello che Giovanni Occhipinti chiama il trionfo
dei “silenzi letterari divulgati!”. Un paradosso surreale
che, purtroppo, è anche accompagnato dal fenomeno di
una “Sicilia letteraria” particolarmente penalizzata
“dall’arbitrio della dotta ignoranza di qualche antologia-
sta” che va approntando citazioni di autori di poesie la cui
provenienza territoriale è esclusivamente nordica.10
Nel Novecento e nei primi anni del Duemila, il numero
di poeti e di volumi stampati sembra essere più alto rispet-
to alla media dei secoli precedenti. Si osserva, altresì,
come l’infittirsi della schiera dei poeti diventi direttamente
9 Silvia De March, La passione della realtà, tesi di dottorato di
ricerca in Italianistica, Università degli Studi di Padova, Dipartimento
di Italianistica, anno accademico 2008-2009, p. 2. 10
E’ di qualche anno fa l’accesa polemica sollevata anche attraverso le
pagine del quotidiano “La Sicilia” (edizione di Catania) riguardante
un decreto del Ministero dell’istruzione risalente all’ottobre 2010, il
numero 211, e contenente le linee guida destinate ai docenti della
scuola superiore. In tale decreto, sarebbe stata inserita una
“epurazione” di autori siciliani e meridionali, quali Sciascia,
Quasimodo e Vittorini, dal nostro ’900 letterario. I non pochi autori
inclusi nella lista dei “fondamentali” del Novecento, con l’esclusione
di buona parte della letteratura meridionale, hanno suscitato una
rovente indignazione in quanto è stato fatto notare che nelle antologie
più recenti e nelle storie letterarie del Novecento solo il dieci per cento
dei poeti citati “era nato a Sud di Roma, e che la stragrande
maggioranza degli autori erano padani, toscani e romani”. Sulla
delicata questione hanno dedicato ampie riflessioni: Alessandra
Belfiore e Lorenzo Catania, rispettivamente con i seguenti contributi
giornalistici “Gli scrittori meridionali banditi dalle antologie” e
“L’autobiografia di una nazione”, entrambi in La Sicilia (quotidiano,
edizione di Catania), 10.04.2012, p. 29.
24
proporzionale all’aumento di antologie che, in modo non
infrequente, sono concepite per dare visibilità ad autori
altrimenti sommersi dalla massa di nomi e di titoli.11
Visi-
bilità oppure “openione o reputazione” - come fa rilevare
Rodolfo Di Biasio nelle sue puntuali “Riflessioni sulla
poesia” – che manca in numerosissimi casi al poeta del
Sud “perché non gli è stata attribuita da parte dei centri di
potere che non sono certo nel sud”. Eppure è necessario
porre la giusta attenzione “al lavoro continuo, ricco di
risultati di tanta poesia del sud”. Anche Di Biasio, come
Occhipinti, avverte un clima letterario sommerso da un
“flusso vorticoso degli eventi” in cui ogni poeta deve
portare la sua “scheggia di storia e di canto” sofferta ed
“esplorata da ogni prospettiva”. I problemi di questo pri-
mo scorcio di millennio chiedono lo sforzo di tutti, anche
del poeta che è chiamato a immettere nella sua opera il
grido di questo nostro tempo. Ma qual è la situazione
attuale della poesia? Si sono fatte e si fanno antologie, si
stabiliscono unilateralmente scale di valore, si anticipano
velleitarie storicizzazioni. Insomma si fa un gran baccano,
un eccessivo rumore tra gli addetti ai lavori, quando inve-
ce dietro il poeta c’è il vuoto. I lettori sembrano abbando-
nare i poeti. Anche i grandi poeti del passato rischiano di
essere dimenticati. Si privilegiano altri itinerari. Tutto ciò,
forse, è causato da un’interruzione del circuito poeta-
lettore, un distacco tra il testo e la sua memoria. Secondo
Di Biasio, una delle cause principali è da ascrivere alla
memorizzazione dei versi poetici che, oggigiorno, sembra
un esercizio in buona parte non contemplato dalla scuola.
11
Niccolò Scaffai, “Altri canzonieri. Sulle antologie della poesia
italiana (1903-2005)”, Paragrafo, rivista semestrale di letteratura
curata dall’Università degli Studi di Bergamo, I – 2006, pp. 75-98
(cfr. web site http://www.unibg.it/paragrafo).
25
Eppure tanta poesia del Sud riecheggia ancora nel cuore
di ciascuno. Nella seconda metà del ‘900 la tradizione
letteraria siciliana, fertile e nel contempo inquieta, rimane
legata all’adozione di un punto di vista periferico e critico,
da cui guardare alla storia con un senso spesso orgoglioso
della solitudine e con un geloso individualismo.12
Nella
prefazione alla raccolta poetica Vidi le Muse di Leonardo
Sinisgalli, il cui esito a stampa è nel 1943, Gianfranco
Contini13
identifica la presenza di una linea della poesia
italiana novecentesca, che si sarebbe ulteriormente
sviluppata subito dopo la seconda guerra mondiale e per
tutti gli anni ’50, la cosiddetta “linea meridionale”14
indicando quelli che in quel periodo sono i principali
esponenti (nella lista è compreso Salvatore Quasimodo,
“poeta di calda vena e di colorita nostalgia, dotato di una
tecnica verbale intensa e comunicante”).15
E proprio a
Quasimodo, definito “iniziatore della poesia meridionale”,
il poeta pugliese Vittorio Bodini dedica, nel 1955, un
importante articolo scrivendo che “le sue parole
raggiunsero paesi e oggetti reali, che erano d’un territorio
vergine nella geografia lirica italiana: il Mezzogiorno, anzi
12
AAVV, Dal neorealismo alla globalizzazione, op. cit., p.27. 13
Gianfranco Contini, Avvertenze al lettore di Sinisgalli, in L.
Sinisgalli, Vidi le Muse, Milano, Mondadori, 1943; ora in G. Contini,
Altri esercizi (1942-1971), Torino, Einaudi, 1978, p. 161. 14
Antonio Lucio Giannone (Università del Salento-Lecce), “La linea
meridionale nella poesia italiana del Novecento”, in AAVV, Lingua e
letteratura del Sud nell’Italia del Novecento, Ulla Åkerström (a cura
di), atti del Convegno internazionale, Università di Göteborg, 13-14-
15 settembre 2011, Roma, Aracne editrice S.r.l., 2013, pp. 13-32; Id.,
La “permanenza” della poesia. Studi di letteratura meridionale tra
Otto e Novecento, Cavallino di Lecce, Capone, 1989, pp. 35-63. 15
Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, Milano-Messina,
Casa Editrice Giuseppe Principato, 1968, p. 594.
26
il Sud […]”.16
Queste citazioni abbracciano l’intera
tematica che ruota attorno al fenomeno della poesia
meridionale della quale Emanuele Schembari, con i suoi
“Poeti del secondo Novecento siciliano”, fornisce un
ampio panorama, enucleando i vari poeti siciliani, e
osservando che accanto alla linea poetica meridionale di
tipo “tradizionale” (ovvero i poeti rimasti in Sicilia) si può
collocare – dopo gli anni ’50 - quella dei poeti meridionali
ma trapiantati altrove, i quali riflettono la memoria del
Sud. Tra i due gruppi esistono certamente punti di
contatto. Alla base è da ricercarsi una comune matrice di
tipo antropologico, che si rivela nella presenza
generalizzata di alcuni elementi caratteristici della civiltà e
della cultura meridionali.17
Tra queste peculiarità non va dimenticato l’accanito
impegno civile dei poeti siciliani che richiama non poco
l’impronta umana ed artistica dei poeti appartenenti a
quella “scarsa lingua di terra che orla il mare”,18
ovvero
alla Liguria, e che si configurano nella cosiddetta “linea
ligustica”19
della poesia italiana. A tale riguardo
16
Vittorio Bodini, “Quasimodo iniziatore della poesia meridionale.
Le sue terre d’uomo”, in La Fiera letteraria, a. X, n. 29, 17 luglio
1955, p. 5. 17
Antonio Lucio Giannone (Università del Salento-Lecce), “La linea
meridionale nella poesia italiana del Novecento”, op. cit, p. 16. 18
Camillo Sbarbaro (1888-1967), “Scarsa lingua di terra che orla il
mare”, da Pianissimo, raccolta “Poeti Italiani del ‘900”, a cura di Pier
Vincenzo Mengaldo, A. Mondadori ed., 1997. 19
Giorgio Caproni, Il mondo ha bisogno dei poeti. Interviste e auto
commenti 1948-1990, a cura di Melissa Rota, Firenze, University
Press, 2014, p. 460. Caproni parla di una “linea ligustica” nel 1954,
durante la trasmissione radiofonica “L’Approdo”, per tornare
sull’argomento nel 1956, in una serie di articoli sulla rivista “Il Caffè”
e in seguito sulla “Fiera Letteraria” e sul “Corriere mercantile” di
Genova. Per un approfondimento sul tema si veda Michela Baldini,
27
Francesco De Nicola, con le sue riflessioni sui “Tre poeti
liguri dimenticati e il potere”, si propone di riportare
all’attenzione tre figure: Gherardo Del Colle, combattivo
e tormentato frate francescano; Nicola Ghiglione, scrittore
trasgressivo e ruvido; infine, Adriano Guerrini,
professore di storia e filosofia nei licei. Sono tutti attivi
negli anni ’50 del Novecento, tutti liguri per nascita,
formazione o adozione, tutti sfuggiti non solo al successo -
così raro per i poeti – ma anche alla memoria, nonostante
ognuno di loro abbia pubblicato testi e ognuno di loro
abbia avuto davanti agli occhi la Liguria col suo corredo di
natura, fatica e cultura. La diversità delle rispettive identità
professionali pone l’accento sull’esigenza interiore di
scrivere, fissare sulla carta pensieri che possono nascere
aiutando i poveri col saio addosso, spiegando la letteratura
italiana dalla cattedra di un liceo, o scrivendo articoli su
varie testate senza mai trovare un punto fermo.
Denominatore comune ai tre poeti è il talento per il quale,
però, “non ebbero la fortuna che gli sarebbe spettata se
non si fossero imbattuti nell’avversione di differenti forme
di potere”. Un esempio per tutti Gherardo Del Colle che
non è un poeta esclusivamente religioso, dato che in lui si
agita una complessa e talvolta tormentata tematica, anche
di carattere sociale e aperta quindi alle problematiche del
proprio tempo, come testimoniano alcuni suoi testi. Egli è,
inoltre, un validissimo critico, che non esita per onestà
intellettuale ad andare talvolta contro corrente attraverso
l’espressione del proprio giudizio negativo nei confronti
anche dei maggiori esponenti della letteratura di quel
tempo.
“La linea ligustica della poesia”, in L’Approdo. Storia di un’aventura
mediatica, a cura di Anna Dolfi e Maria Carla Papini, Roma, Bulzoni,
2006, pp. 225-228.
28
Gli anni a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta rap-
presentano un periodo molto particolare per la poesia, in
parallelo al moltiplicarsi di iniziative editoriali e di occa-
sioni di partecipazione al dibattito pubblico. Si assiste alla
liberalizzazione di costumi e creatività: si impone il mito
di un’espressività spontaneistica, legittimata dal valore
assoluto della libertà di espressione soggettiva. Una sorta
di contestazione che porta ad un vuoto di produzione
editoriale fino al ’71, annus mirabilis,20
in cui escono in
concomitanza Satura di Montale, Trasumanar e organiz-
zar di Pasolini e in posizione appartata Su fondamenti
invisibili di Luzi.21
“Gli anni Sessanta – scrive Enrico
Testa nell’Introduzione a Dopo la lirica – costituiscono
una delle fasi più significative della storia del secondo
Novecento. In Italia sono, secondo l’analisi di Pasolini, il
momento del ‘trauma’ […]. In questo rivolgimento […] la
poesia interviene con una radicalità che forse non ha pre-
cedenti nel corso del Novecento. Ciò vale soprattutto sul
piano linguistico, dove [cadono le] ‘paratie della secolare
separazione di lingua della poesia e lingua della prosa’”.22
Sicuramente “una fase epocale dalle peculiarità uniche e
irripetibili”, come sostiene Mauro Macario con le sue
riflessioni “Dalla beat generation alla digital degenera-
tion”, gravida di innovazioni, di rivoluzioni, di “poesia
multiforme” che timbrerà in maniera indelebile la vita di
quella generazione immersa in un contesto socio-storico
che porterà un “cataclisma poetico e catartico”. Una “beat
generation” contraddistinta da scelte di vita libertarie da
parte degli esponenti più noti che rumorosamente si scon-
20
Andrea Afribo, Poesia contemporanea dal 1980 a oggi: storia
linguistica italiana, Roma, Carocci, 2007, pp. 238. 21
Silvia De March, La passione della realtà, op. cit., pp. 38-41. 22
Enrico Testa (a cura di), Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000,
Torino, Einaudi, 2005, pp. v-vi.
29
trano con i canoni socialmente accettati dell’epoca. Gio-
vani con la trasgressione nel sangue, e la mente altrove.
Alcuni geniali, altri solo a rimorchio. Pochi riescono ad
immaginare che quel movimento culturale sarebbe diven-
tato un brand, capace di imporsi in tutto il mondo. Un
marchio non si costruisce dal nulla. E’ necessaria intelli-
genza, intuito, capacità di leggere nel futuro. Il solo ad
avere queste caratteristiche è Allen Ginsberg (1926-
1997), il più adatto a raccontarne le gesta. Perché oltre a
essere un buon poeta, un discreto scrittore, è soprattutto
promotore infaticabile dell’immagine del gruppo. Se
ancora oggigiorno il termine beat generation evoca qual-
cosa e suscita emozione lo si deve al lavoro di diffusione
che Ginsberg ha modo di promuovere sui giornali, tra le
case editrici, con la gente dei paesi in cui era invitato. Egli
ama particolarmente l’Italia, dove, più che altrove, il mito
della “beat generation” riesce ad attecchire, grazie anche
al lavoro prezioso di Fernanda Pivano. Questa non è solo
la traduttrice dei suoi libri ma l’amica, la vestale,
l’interprete di quelle voci che cominciarono a circolare
nella metà degli anni Cinquanta. Per Ginsberg la droga fu
per lungo tempo la sua musa e la poesia il mezzo per
metterla in pagina. Ma cos’è un poeta? “Strana vita passa-
ta a bussare alla porta del significato delle parole, trascorsa
a comporre suoni nella speranza che svelino qualcosa”,
così scrive nell’introduzione a una sua raccolta di poesie.
Ne esce fuori un affresco vivido attraverso cui Macario
ricostruisce - con sensibilità, ricchezza d’animo e animosa
affabulazione di chi ha vissuto quel periodo - umori e
slanci di una stagione che ha segnato l’Italia. Sono anni di
tensioni e utopie, tra pacifismo, politica, buddismo,
letteratura, sesso, droga e rock and roll. Una vera e propria
epopea letteraria che è unica nel suo genere: popolare
come un fumetto, familiare per quelle generazioni che
30
hanno sognato e cantato la libertà.23
Un cruccio assilla
Macario quando riflette sul fatto che dalla beat generation
della nostra giovinezza ci siamo trovati, molti anni dopo,
da adulti, da vecchi, davanti alla digital degeneration, e in
particolare “nel vedere quei miti sostituiti da altri miti, i
nostri bersagli d’allora divenuti, al contrario, semidei
idolatrati?”. E con animo amareggiato va a constatare che
il “cordone ombelicale con il nostro più recente passato è
stato tagliato e gli ultimi umanisti vagano sospesi nel buio
epocale come astronauti fuori dall’abitacolo nell’oscurità
siderale dell’universo”.
Il raffronto della letteratura italiana con tradizioni e
contesti letterari stranieri offre sicuramente un panorama
critico-metodologico di ampio respiro. In questi anni si è
nutrita dalle voci della letteratura mondiale che
provengono anche dall’America latina. L’incremento delle
traduzioni porta ad una circolazione rapida dei testi che, in
tal guisa, sono coinvolti in un dialogo in cui ciascuno
sostiene la propria parte e la propria vocazione. In un
mondo che ormai può essere definito policentrico, dove le
periferie divengono in fondo altrettanti centri, la letteratura
si apre al gioco molteplice delle relazioni.24
Per dirla con
le parole di Rocco Mario Morano: “Il confronto costante
con le letterature straniere e l’esame degli influssi
reciproci culturalmente e artisticamente verificatisi tra
Paesi fra loro anche geograficamente lontani, permette
utilmente di ampliare gli orizzonti interpretativi e
metodologici e di superare le ristrette visioni
23
Antonio Gnoli, “Ginsberg. Scatti beat”, la Repubblica, 23.05.2010,
consultabile in http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repub-
blica /2010/05/23/ginsberg-scatti-beat.html?ref=search. 24
AAVV, Dal neorealismo alla globalizzazione, a cura di Gabriella
Fenocchio, op. cit., p. 29.
31
nazionalistiche”.25
Nel saggio intitolato La literatura
hispanoamericana por un testigo de vista (1988), Octavio
Paz annota: “E’ fuori discussione l’esistenza della
letteratura ispanoamericana: le opere sono lì, a portata
degli occhi e della mente. Molte di quelle opere sono
notevoli e alcune di esse sono veramente uniche”.26
I poeti
colombiani, ad esempio, sono la dimostrazione del grande
fervore creativo che pervade la loro terra e che emerge
dirompente dal loro animo. “Ma quanto conosciamo di
quella poesia in Italia?”, si chiede Emilio Coco col suo
contributo su “un’Antologia” che si rende “necessaria” per
parlare di “32 poeti colombiani d’oggi” e porre la giusta
luce “sulla realtà poetica contemporanea di questo
meraviglioso paese sudamericano [la Colombia]”,
purtroppo noto per il clima di violenza che ha reso
possibile, come scrive Luis Eduardo Celis, “la più grande
operazione di distorsione della democrazia”. Quella di
Coco non è un’antologia nel senso tradizionale della
parola, bensì una dimensione umanistica aperta in grado di
presentare i poeti “in carne viva, ciascuno con la propria
esasperata vitalità e individualità”. Si tratta di una
produzione letteraria che occupa un arco di tempo di poco
più di mezzo secolo e che si contraddistingue – confessa
Coco nel suo blog -27
per la verve poetica e “originalità di
temi e una freschezza di linguaggio” che difficilmente si
trovano in quella europea.
Una dimensione letteraria che il mare separa dal
25
AAVV, Strutture dell’immaginario. Profilo del Novecento
letterario italiano, a cura di Rocco Mario Morano, Soveria Mannelli
(Catanzaro), Rubbettino Editore, 2008, p. 13. 26
Emilio Coco, Dalla parola antica alla parola nuova, Rimini,
Raffaelle Editore, 2012, p. 6. 27
http://www.emiliococo.it/#!di-poesia-latinoamericana/cqlq
32
vecchio continente. Le diverse immagini relative
all’acqua, ed alle sue figurazioni, si intrecciano con la
poesia novecentesca. Il viaggio per acqua, il naufragio, il
rispecchiarsi dell’uomo nell’elemento liquido,
rappresentano archetipi culturali in senso lato (si veda il
loro ricorrere nei miti e nei racconti “genesiaci” delle più
diverse religioni), e di conseguenza poetici. E’
significativo come la stessa tematica, la stessa idea di
base, venga a trasformarsi a seconda del microcosmo
poetico in cui è chiamata ad attualizzarsi.28
Tra grecità e
destino, il Mediterraneo delle lettere è un lungo racconto.
Secondo Braudel è: “Non una cosa. Mille cose insieme.
Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un
mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una
serie di civiltà”. E il mare è “il luogo dell’avventura e
della ricerca, e il viaggio sul mare simboleggia il viaggio,
il cammino della vita dell’uomo”, come giustamente
sostiene Zosi Zografidou col suo contributo riguardante
“Il Novecento e la poesia del Mediterraneo. Verso una
Itaca poetica”.29
Il Mediterraneo è il mare di ieri e di oggi. E’ il “mare
bianco di mezzo”, come viene chiamato dal mondo arabo.
E’ il mare dei poeti che non appartengono a uno spazio
28
Virginia Di Martino, Figurazioni dell’acqua nella poesia italiana
del primo Novecento, tesi di dottorato di ricerca in Filologia moderna,
ciclo XIX (2004-2007), Università degli Studi di Napoli Federico II,
Dipartimento di Filologia moderna, 2007, pp. 244. 29
L’intervento della professoressa Zosi Zografidou è stato oggetto di
articolo/intervista da parte di Giuseppe Nativo, “Ulisse, il
Mediterraneo e noi. Intervista a Zosi Zografidou”, in rete sul
quotidiano on line www.ondaiblea.it in data 18.11.2015 (link:
www.ondaiblea.it/index.php/it/2014-07-02-22-38-36/cultura/ 6551-
ulisse-il-mediterraneo-e-noi-intervista-a-zosi-zografidou).
33
determinato perché, come dice Elitis, “la poesia è sempre
unica, quanto unico è il sole” dei poeti che portano dentro
di loro lo spirito del Mediterraneo, punto di riferimento
per tutti i paesi mediterranei, rappresentando l’elemento
che inquadra il loro paesaggio ed elemento della loro
cognizione. Il mare rappresenta anche il luogo
dell’avventura e della ricerca, e il viaggio sul mare
simboleggia l’itinerario della vita dell’uomo. È simbolo
della ricorrente lotta e della continuità. Itaca rappresenta
“l’inizio e la fine della lotta della vita umana”.
Nella letteratura mondiale l’opera che riassume i
significati concreti e simbolici legati al tema del viaggio è
l’Odissea di Omero. Nel corso dei secoli il mito di Ulisse
è stato variamente interpretato, si è riempito di nuovi
contenuti assumendo una valenza differente in relazione al
momento storico e agli ideali filosofici, politici e culturali
di ciascuna civiltà. Infatti ogni civiltà ha potuto
interpretarlo a suo modo e “il viaggio di Ulisse è destinato
a non finire mai, così come Ulisse, è rimasto sempre vivo
nel corso dei secoli”, come scrive Russo-Karali,
assumendo diversi ruoli e significati e avventurandosi in
nuovi viaggi, in cerca di una Itaca. Ulisse è un uomo
“bugiardo e capace di tutte le imposture”, scrive Ladrón
de Guevara, “che nonostante il suo apparente desiderio di
rientrare in patria ha un cuore che non lo vuole perché
rimane vincolato al mare”. Secondo Bernard Andreae
che definisce Ulisse “come il prototipo dell’uomo
dinamico, sicuro di sé, che riflette sul suo destino e
reagisce consapevolmente” è “il primo della letteratura
mondiale a decidere delle proprie azioni, e a non
dipendere più esclusivamente dal destino o dalla volontà
degli dei”. Anche il viaggio per Itaca ha un profondo
significato. Un momento particolare che, secondo il poeta
34
greco Odisseas Elitis (1911-1996), parlando della poesia
di Kavafis, non è quello dell’arrivo ad Itaca, ma la durata
stessa del viaggio. L’Itaca è l’ultima meta, che
simboleggia la morte, dove ci porta il viaggio della vita.
“Il viaggio – sostiene Tabucchi - trova senso solo in se
stesso, nell’essere viaggio”. E Umberto Saba sembra
continuare lo stesso discorso. Ma chi viaggia pensa alla
meta. Ma quale è la meta di Ulisse secondo Mario
Specchio? Tornare a Itaca a fare il re? Il marito? Il padre?
Secondo Zografidou “Ulisse è un avventuriero e rimarrà
sempre inquieto, pieno di voglia di cercare nuove mete e
nuove destinazioni” e il suo viaggio non potrà finire mai.
“Non durerà più di un momento il vento - scrive Specchio
- già raccoglie le forze alza le vele”. Ulisse sempre si
volge verso nuove avventure. Scrive Ladrón de Guevara:
“Ulisse è la giovinezza, l’ardire, l’osadia, la furbizia, ma
anche la stanchezza di chi ha viaggiato tanto e vuole
soltanto riposare in terra (seguendo l’interpretazione
dell’oracolo) - e al di là delle braccia di Penelope trova
pace all’interno dell’olivo, magico albero della nostra
mediterraneità”.
Una mediterraneità da cui trae linfa vitale tanta poesia
novecentesca il cui patrimonio poetico-letterario
rappresenta quasi una eredità che, in maniera non
infrequente, è lasciata “un po’ troppo nell’oblio”, come
sostiene Domenico Pisana con la sua relazione “Verso un
nuovo umanesimo: dall’interiorità alla realtà”. Ci si chiede
insistentemente se la poesia abbia ancora un ruolo nella
società. Il poeta irlandese Seamus Heaney (1939 – 2013),
nel corso della sua prolusione30
letta nel 1995, al momento
30
Seamus Heaney, Sia dato credito alla poesia, a cura di Marco
Sonzogni, Milano, Archinto, 1997, pp. 71.
35
di ritirare il premio Nobel per la letteratura, ebbe a dire
che la parola ha una funzione reale, concreta, di relazione,
ovvero, diretta con la realtà, col mondo vissuto, mentre la
poesia, “onesta e fedele” (come sostenne anche Saba),
riesce a “creare un ordine fedele all’impatto della realtà
esterna e rispondente alle leggi interne dell’essere del
poeta”. Per Pisana la poesia rappresenta “un’ancora di
riferimento importante, ancora oggi, nel passaggio al
Terzo Millennio”, ponendosi come una sorta di sfida
antropologica: quella di far comprendere il valore della
poesia rispetto alla condizione esistenziale dell’uomo. La
poesia non può più limitarsi a poetizzare la realtà, a
descrivere e narrare il mondo, ma deve ripensarsi e
rifondarsi. Da qui l’esigenza di ricercare orizzonti di
speranza e di cambiamento. La visione poetica di Pisana
sembra porsi quasi come una sorta di varco
“soteriologico” attraverso il quale spingere l’uomo di oggi
verso un neo-umanesino con una prospettiva in cui la
parola poetica diventi una sorta di “atto profetico” in
grado di aiutare l’uomo a leggere dal di dentro se stesso, i
suoi rapporti con l’altro e con la società. Quest’ultima,
sebbene sia contrassegnata da tante positività, presenta
non poche caratteristiche negative che Pisana, anch’egli
poeta, fa convergere nella metafora del naufragio dove
l’uomo è il naufrago stesso che perde motivazioni,
sentimento e valori; e a naufragare sono anche le
istituzioni cui si accompagna altresì lo sgretolarsi delle
fondamenta che sorreggono la coesione sociale.
Il poeta oggi è colui che con i suoi versi deve entrare
dentro le macerie interiori della vita per riorganizzarla,
mentre la poesia del nostro tempo è chiamata a suscitare
domande di senso sulla necessità per l’uomo di ritrovare
l’anima rubata da relazioni di solitudine. Ed è proprio
36
all’interno di questa visione che occorre aprire un nuovo
varco verso cui orientare la poesia del nuovo millennio,
quasi con l’intento di determinare il passaggio da una
“poesia elitaria” ad una “poesia per tutti” capace di
contribuire ad “innalzare il livello qualitativo dell’uomo
del nostro tempo”.
Un tempo, quello presente, contraddistinto da un rapido
susseguirsi di avvenimenti e che, comunque, si fa carico –
con una tendenza alla riflessione e all’introspezione
storica31
- di ricordare le nefandezze delle guerre e
stermini di massa che hanno marcato l’Europa del XX
secolo. Un continente “incendiato e distrutto, in seguito
ricostruito ma nuovamente disseminato di odi e di orrori
fino alla incredibile rinascita degli anni ‘60”, come fa
riflettere Carmelo Mezzasalma col suo contributo
“Mario Specchio (1946-2012) e il suo Novecento”. Una
civiltà, dunque, che ha sofferto nel suo itinerario ma che è
stata in grado di cambiare fisionomia seguendo la scia di
rivoluzioni industriali e tecnologiche contrassegnando
“l’avvento di una nuova era post moderna”. E la letteratura
creativa come ha vissuto le poliedriche trasformazioni del
‘900? Su tale problematica Mezzasalma si sofferma
ponendo l’accento su interrogativi e riflessioni che
prendono in considerazione quella “effervescenza”
letteraria in continua evoluzione a partire dalla prima metà
del secolo scorso e che attraversa i decenni successivi con
una prospettiva in cui si affacciano non pochi nomi
“consacrati e riconosciuti”. E’ un periodo di grande
31
Peter Carravetta, “La questione dell’identità nella formazione
dell’Europa”, in AAVV, La letteratura europea vista dagli altri,
Franca Sinopoli (a cura di), Roma, Meltemi editore srl, 2003, pp. 19
– 66.
37
fermento il cui itinerario conosce momenti di
“navigazione incerta” con la tragica scomparsa di Pier
Paolo Pasolini, figura di grande spessore e, come scrive
Alberto Moravia, “poeta che aveva segnato un’epoca, un
regista geniale, un saggista inesauribile”.32
Non è facile
tracciare un bilancio letterario, ma anche politico-morale,
del Novecento italiano. Il giudizio espresso da Cesare
Segre (1928-2014)33
si presenta “amaro e sconsolato” (pur
nella consapevolezza che si tratti, probabilmente, di una
fase “transitoria”), fotografando, per così dire, “la nostra
realtà e lo stato di indifferenza generale che circonda la
nostra idea cultura”, come annota Mezzasalma. Tra le
esperienze letterarie che hanno cercato di opporre
“resistenza” a tale declino, fornendo “un’immagine di
letteratura” diversa e più autentica, si può inserire la
“parabola letteraria” intensa e significativa di Mario
Specchio, scrittore e poeta della cerchia culturale e poetica
di Mario Luzi, docente dell’Università di Siena.
Ricercatore di Lingua e letteratura tedesca ad Urbino,
riesce a far convivere il suo spirito di studioso con quello
di raffinato saggista, narratore e creativo. La cifra, genuina
e intensa, di tutta la “parabola creativa” di Mario
Specchio è l’aver scelto una “dimensione tragica del fare
letterario in un tempo che fa di tutto per allontanare da sé
il tragico del vivere”. È la “resistenza romantica che il
32
Su “L’Espresso” del 9 novembre 1975, a pochi giorni dalla morte di
Pasolini, Alberto Moravia scrive un attento ritratto del grande poeta
che trova la morte in maniera tragica, ripercorrendone la storia e la
personalità (cfr. “Pasolini. Un ricordo di Alberto Moravia del
novembre 1975”, consultabile anche sul sito web : http://www.centro
studipierpaolopasolinicasarsa.it/molteniblog/pasolini-un-ricordo-di-
moravia-del-novembre-1975/). 33
Cesare Segre, Tempo di bilanci. La fine del Novecento, Torino,
Einaudi, 2005, pp. 322.
38
poeta ha perseguito e colto lungo le fasi della sua
avventura esistenziale” di uomo e di poeta, che ha saputo
mettere “il vino nuovo nei vecchi otri”34
seguendo alcuni
modelli ben riconoscibili in una linea cosiddetta “laterale”
della poesia del ‘900 formata da Umberto Saba, Camillo
Sbarbaro e Vincenzo Cardarelli.35
Uno dei più significativi e originali poeti contempora-
nei è Valerio Magrelli (classe 1957) la cui lirica è “attra-
versata da una forte tensione speculativa”. Una poesia –
come esordisce Antonio Di Silvestro con “Il corpo, il
testo, il pensiero: messaggi dalla poesia di Valerio Ma-
grelli” – che parla del “rapporto di distanza tra sé e il
mondo”. Il suo esordio è datato 1980 con Ora serrata
retinae (Feltrinelli, pp. 107), titolo che sembra l’emistichio
di un verso di Virgilio, ma in effetti è il “margine frasta-
gliato della retina”, ovvero la linea oltre la quale l’occhio
risulta percettivo. Motore primario della poesia è proprio
la percezione di sé. L’attenzione del poeta è, pertanto,
rivolta a sottolineare il rapporto ambiguo che c’è tra lo
sguardo e gli oggetti. Attraverso l’uso di un lessico preci-
so, che tenta di penetrare dentro gli oggetti, un lessico che,
in maniera non infrequente, si rivela scientifico e una
sintassi limpida, il poeta compie una sorta di investigazio-
ne razionale di ciò che lo sguardo riesce a vedere e perce-
pire. In effetti il tentativo è quello di tradurre in scrittura la
percezione visiva di un mondo assolutamente materiale.
34
Così scrive Mario Luzi nella prefazione al libro dell’allora giovane
poeta Mario Specchio A piene mani, Firenze, Nuovedizioni E.
Vallecchi, 1979, pp. 74. 35
Sandra Evangelisti, “Specchio Mario. Da un mondo all’altro”,
riflessioni critico-letterarie pubblicate in data 08.06.2010 sul sito web
http://www.lankelot.eu/letteratura/specchio-mario-da-un-mondo-all
altro.html#comment-58683.
39
Non a caso l’utilizzo delle parole “pensiero, corpo, carne,
membra” sono caratterizzate da una certa ricorsività.
Nell’ultima sua raccolta, Il sangue amaro (2014), affronta
un ampio ventaglio di argomenti. Si va da poesie su artisti,
poeti o amici, a una sorta di iper-testo sul tema della lettu-
ra. Quello di Magrelli è una sorta di “pensiero-corpo-
scrittura semantizzato nelle parole della poesia”. Nel fare
poesia, oltre che con le contraddizioni e le ferite della
quotidianità, egli fa i conti col mestiere del poeta.36
Un mestiere che, non di rado, si rivela molto articolato
e foriero di amicizie sincere anche fuori dal proprio
territorio di origine. E’ il caso del fiorentino Mario Luzi
(1914-2005), uno dei più grandi protagonisti della cultura
europea, testimone attento e acuto delle vicende che hanno
attraversato il Novecento, un poeta che con i versi
coltivava anche un autentico e profondo impegno civile.37
Commosso e coinvolgente si rivela il ricordo personale di
Piero Longo, suo amico ed estimatore, che con la
relazione “Palermo nella Poesia di Mario Luzi” offre
36
Illuminanti, a tale riguardo, sono le riflessioni riportate da:
Giovanni Accardo, “Valerio Magrelli: dal silenzio del poeta al
sangue amaro”, Minima&moralia, 25.05.2015, pubblicata on line su
http://www.minimaetmoralia.it/wp/valerio-magrelli/; Giorgio Lin-
guaglossa, “Poesie scelte di Valerio Magrelli da “Il sangue amaro”
(Einaudi,2014) con un commento di Giorgio Linguaglossa”,
27.09.2014, consultabile su https://lombradelleparole.wordpress.com
/2014/09/27/poesie-scelte-di-valerio-magrelli-da-il-sangue-amaro-
einaudi-2014-con-un-commento-di-giorgio-linguaglossa/. 37
Può risultare impresa ardua affrontare l’opera luziana. A tale
riguardo si rimanda a: Mario Luzi, L’opera poetica, a cura di Stefano
Verdino, Milano, Mondadori, 2001, 4ª edizione, pp. 1908; Antonio
Spadaro, “Il viaggio di un estremo principiante. La poesia di Mario
Luzi”, La Civiltà Cattolica, quaderno 3756, 16 dicembre 2006, IV, p.
554-567.
40
un’immagine privata e, nel contempo, piena di riferimenti
colti del poeta. Inevitabile il riferimento alle numerose
“memorie panormitane” presenti nella poesia luziana che
ancora dimorano nell’animo di Longo testimone del “suo
amore e abbaglio” per il capoluogo siciliano. Una Palermo
adorata per l’aspetto talora misterioso, enigmatico, quasi
esoterico, pur non ignorando i suoi mali38
(“[…] officina
di crimini e di morte”). Un vincolo affettivo forte e
schietto con la città, ma soprattutto con un gruppo di poeti
e scrittori palermitani che a Luzi guardano come un
maestro. E che Luzi considera veri amici. Gli piace
coltivare con familiarità i rapporti che ivi aveva saputo
intessere, anzi alcuni li rappresenta in celebri versi. Tali
rapporti si ampliano in maniera tale che finisce pure per
comporre due opere assolutamente palermitane: il Corale
della città di Palermo per Santa Rosalia (Rrrusulia, come
lui si divertiva a pronunziare con intonazione sicula) e il
Fiore del dolore, sulla vicenda del martirio di don Pino
Puglisi.39
Quello tra Mario Luzi e Palermo, pertanto, si
rivela come un rapporto così intenso che, nella fase
conclusiva della sua lunga vita, lo porta a prediligerla alla
sua Firenze.40
Percorrere il Novecento letterario e interrogarsi sulle
38
Salvatore Ferlita, “Mario Luzi palermitano di Firenze”,
quotidiano la Repubblica, 08.02.2007, consultabile on line in
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2007/02/08/
mario-luzi-palermitano-di-firenze.html. 39
Elio Giunta, “Mario Luzi, il ricordo del grande poeta che amava
Palermo”, pubblicato sulla testata giornalistica on line http://
palermomania.it, 22.10.2014. 40
Redazionale, “Omaggio, nel centenario della nascita, al poeta
Mario Luzi”, pubblicato sulla testata giornalistica periodica
http://trinacrianews.eu, 28.11.2014.
41
correlate implicazioni socio-culturali comporta uno sforzo
non indifferente anche in funzione del concetto di
“letteratura contemporanea”. Al riguardo Andrea
Guastella, con il suo contributo “Il luogo delle origini”,
propone delle riflessioni affermando che la “grande
letteratura è sempre contemporanea” perché rispecchia “un
mondo e ha in sé le domande – mai le risposte – più
urgenti che esso ci rivolge”. Il primo gruppo di quesiti
riguarderà “l’identità, l’appartenenza, il luogo delle
origini”. Il senso di appartenenza al luogo è un sentimento
complesso che non abbraccia semplicemente il paesaggio
quanto piuttosto il luogo in tutte le sue dinamiche e in tutti
i suoi aspetti.41
Ma qual è il nesso tra appartenenza e
identità? Per rispondere a questa domanda può essere
d’aiuto la riflessione del sociologo Gasparini, secondo il
quale l’appartenenza, definita come “un sentimento attivo
di legame, che implica attaccamento (emozionale), e
quindi sviluppa una lealtà a qualcosa cui si appartiene”, si
fa mezzo “di affermazione o di adesione a una identità”.42
Il territorio, dunque, è portatore di segni. Alla letteratura il
compito di interpretarli svolgendo il ruolo di intermediario
di eccezionale ricchezza.43
Si instaura, in tal modo, una
41
Alessia De Nardi, Il paesaggio nella costruzione dell’identità e del
senso di appartenenza al luogo: indagini e confronti tra adolescenti
italiani e di origine straniera, tesi discussa al Dipartimento di
Geografia “G. Morandini”, Scuola di dottorato in Territorio,
Ambiente, Risorse, Salute, indirizzo “Uomo e Ambiente, Università
degli Studi di Padova, 2010, pp. 40-105. 42
Alberto Gasparini, La sociologia degli spazi. Luoghi, città,
società, Roma, Carrocci Editore, 2000, p. 143. 43
Armand Frémont, La Région: espace vécu, tradotto in italiano con
La regione: uno spazio per vivere, edizione italiana a cura di Marica
Milanesi, Milano, F. Angeli, 1988, pp. 203; Fabio Lando, “La
geografia umanista: un’interpretazione”, Rivista Geografica Italiana,
119 (2012), n. 3, pp. 259-289.
42
sorta di “geografia umanistica” in cui la letteratura abbia
la capacità di sintetizzare l’oggettività del “senso del
luogo” e la soggettività culturale dell’uomo, quindi
quell’insieme di relazioni più o meno affettive che legano
gli esseri umani ai luoghi. Tale coinvolgimento, emotivo e
nel contempo affettivo, Guastella lo ritrova “leggendo qua
e là” tra i versi inediti del poeta ibleo Emanuele
Schembari.
Nel sottile confine tra letteratura e pittura, tra campo
poetico e quello delle arti figurative, si colloca la figura di
Luigi Filippo Tibertelli de Pisis (Ferrara 1896 – Milano
1956). Un uomo col pennello, i colori sul tavolo e una
notevole capacità lirica pronta ad emergere dirompente
dalla sua vivace ed inquieta anima letteraria. Peculiarità,
queste, inscindibili della personalità del “marchesino
pittore”, capace di utilizzare in modo quasi
interscambiabile sia l’arte del pennello sia la parola.44
A
sessant’anni dalla scomparsa, viene da chiedersi quanto la
ricca e poliedrica produzione letteraria dell’artista sia
effettivamente conosciuta e se la versatilità del suo
contributo trovi adeguato riscontro nelle storie letterarie
del Novecento italiano.45
A percorrere quell’orizzonte
“apparso subito frastagliato da quell’intima avversità
congenita per destino d’uomo”, in quel voyage
“mirabilmente sospinto dalla sua non indifferente forza
propulsiva nata, non da illuminanti verità, piuttosto dal
possesso di un estremo e pulsatile bagaglio di fragilità”, è
Aldo Gerbino con le sue riflessioni su “Cuore ombroso.
44
Federico Poletti, “Filippo de Pisis”, Minuti, n. 324, marzo 2006,
pp. 1-2. 45
Andrea Sisti, “Filippo de Pisis: postille a una bibliografia degli
scritti”, Nuova informazione bibliografica, ediz. Il Mulino, 1/2016,
gennaio-marzo, pp. 165 – 170.
43
Fiori. Filippo de Pisis: parole, pigmenti”. Quella
dell’artista è una pittura che si fa lirica, un segno che si
trasfigura in pura poesia.46
De Pisis è il pittore delle cose.
Intese, trasfigurate dall’ispirazione. Pesci, fiori, oggetti.
Gesti, apparenze, ombre “leggiere / sui muri bianchi e
grigi / del ricordo”. Nella sua città natale instaura il suo
sodalizio con De Chirico, Savinio e Carrà.
“Un’educazione ferrarese ben immersa nella sua città –
rileva Aldo Gerbino – tenendo presenti i maestri della
pittura a cavallo tra Otto e Novecento”. Poi la tappa
romana, nel ‘20, e quella parigina, dal ‘25 al ‘39, infine
Milano e Venezia (1943-’49), prima che il “male oscuro”
di cui soffriva si palesasse nella sua tragica violenza. E’ lo
scrittore Giovanni Comisso a registrare nel libro “Mio
sodalizio con De Pisis” (1954) l’incredibile storia artistica
di questo artista multimediale (almeno per quanto lo
consentivano i mezzi di allora). Comisso, con grande
abilità, trasforma un epistolario tra amici, de Pisis e lui, in
un coinvolgente racconto che attraversa due dopoguerra e
in mezzo una guerra mondiale, la seconda. Con
l’aggravarsi delle condizioni di salute di Filippo de Pisis
la storia finisce. Nel diario comissiano si legge: “Le nostre
opere sono le orme dei nostri passi mentre si cammina
nella vita. Egli non cammina più e non lascia più orme”.
I motivi non solo per amare, ma anche per studiare
l’arte di de Pisis non mancano, tanto più se si cerca di
assemblare i pezzi di questo Novecento. Secolo che sarà
anche stato “breve”, non lineare e confuso, ma che ricorda
tanto la Senna della poesia I fiumi47
di Ungaretti, cioè un
46
Laura Larcan, “Novecento italiano. De Pisis, il poeta”, in
http://www.repubblica.it, 07.03.2006. 47
Celebre poesia che compare nella raccolta L’Allegria (Milano,
Preda 1931, pp. 163) in cui Giuseppe Ungaretti rievoca, con i propri
ricordi personali, i fiumi che hanno accompagnato la sua vita.
44
fiume nelle cui acque torbide è necessario bagnarsi per
capire veramente chi siamo:
Questa è la Senna
E in quel suo torbido
Mi sono rimescolato
E mi sono conosciuto
45
IL SECOLO CHE NON C'E':
UNO SGUARDO DAL TERZO MILLENNIO
di Giovanni Occhipinti
I
Il mio intervento, un po' gridato, ma col graffio qua e
là, del pamphlet, è un excursus storico su un ″pezzo″ di
Novecento veicolato dall’incontro di oggi, che vuole
essere, in certo senso, un test sul secolo trascorso, ma
anche una riflessione sui motivi e i valori di quella
letteratura e dei Maestri della critica interessati allo
sperimentalismo strutturalista e della linguistica in un
momento in cui si manifestava il declino della civiltà
contadina e i braccianti della terra dal Sud andavano alla
ventura per inurbarsi al Nord, dove fioriva già la civiltà
dell'industria, improvvisandosi operai nelle fabbriche.
Rifletteremo anche sulla temperie storica nella quale i
poeti nati a partire dal 1935 (mi riferisco ai poeti della
cosiddetta ″Quinta Generazione″), passano spesso
inosservati dalla grande critica, specie quelli delle
″periferie″ geografiche della Penisola, e dai Centri del
potere editoriale.
Da quindici anni viviamo le problematiche, difficili e
complesse, del terzo millennio, il quale già affronta e
subisce l'accelerazione della Storia, come ricorda
l'antropologo Marc Augé (cfr: Genio del paganesimo,
Bollati Boringhieri, 2008; Où est passé l'avenir, edition
Panama, 2008). Siamo, dunque, in una fase nuova e
straordinaria di mutazione, una fase epocale, si direbbe; la
società occidentale rischia di implodere nella grande
46
confusione di voci che si affollano, si sovrappongono,
interagiscono babelicamente come nell'amplificazione di
un gigantesco interfono. Sono voci che chiedono e
vogliono soprattutto ″uniformarsi″ in una voce comune e
universale, come una grande lingua e un grande
linguaggio che siano allo stesso tempo di ″uno″ e di
″tutti″, animati dalla curiosità di conoscere e di conoscersi,
per finalmente riconoscersi nell'unica, insostituibile
dimensione umana.
″[...] pensiero e azione possono aiutarci a cercare il
bene comune, rinunciando a inseguire i piccoli egoismi e
le miserie legate al nostro particulare [...]″: ce lo ricorda
Pierre Hadot, sottolineando l'importanza di ″una vita più
razionale che ci consenta di aprirci agli altri e di sentirci
parte integrante dell'immensità del mondo″.
Traspare, qui, un concetto della cultura letteraria e
poetica già intuito da Heidegger e sviluppato nei Quaderni
neri, dove il filosofo accenna all'informazione planetaria
legata alla globalizzazione.
Ecco un tema a cui dovrebbe alimentarsi la poesia di
oggi. Urge, infatti, aprire gli occhi all'epica del mondo,
che già intravediamo dalla complessità delle nuove
poetiche globali. La letteratura si planetarizza e noi non
possiamo che prendere atto del fenomeno e favorirlo
attraverso strumenti più aperti -e di punta- dell'espressione
della parola del mondo, della sua voce e della sua
memoria. Oggi, non interessa tanto la lettura dell'uomo
regionale, come accadeva negli Anni Cinquanta-Sessanta-
Settanta, quanto invece la lettura dell'Uomo, tutto l'uomo,
proprio attraverso i poeti del mondo in una stessa epoca.
Una lettura sincronica che possa scendere nelle profondità
della poesia, passando, appunto, per la memoria del
mondo, scrutandolo nell'attualità della sua storia.
47
Non abbiamo ancora dimenticato la novità e
l'effervescenza di quella letteratura impegnata e
politicizzata e poi battagliera e d'attacco (alludo al
″Gruppo '63″), che ci indignò e ci fece fremere sfidando e
segnando la storia del Secondo Novecento, voltando le
spalle, con la sua controcultura, ai Maestri del Primo
Novecento e dissennatamente degenerando nella violenza
e nel terrore delle falangi sovversive e ordinoviste che
pretendevano di cambiare il mondo e riscrivere la
letteratura attraverso lallazioni, nevrosi sintattiche,
epilessie del verso, sperimentando una parola nuova e
destabilizzante, un linguaggio ribelle che suonasse come
sberleffo e scherno al sistema socio-storico e politico e alla
stessa poesia, ″superata″, dei Maestri che si erano opposti,
prima ai Crepuscolari e più tardi alla fanfara marinettiana
e futurista, che sarebbe divenuto oggetto della
pubblicistica fascista; non solo, ma rinunciando ai
maggiori rappresentanti della poesia del dopoguerra, che
nelle sue istanze e nei suoi traumi aveva percorso l'Europa.
II
Oggi, nell'oggi di questo nostro terzo millennio, la
letteratura sembra cercare il successo mediatico; anzi, è
tale se raggiunge il successo mediatico. Siamo convinti
che le Classifiche48
che favoriscono questo successo
nullificano il valore del pensiero critico, mentre la scena
letteraria si opacizza e tace. Tutto diviene evanescente e
stagionale, e il linguaggio tende a spegnersi in una deriva
48 Sul ″Corriere della Sera″ del 12 ottobre di quest'anno, leggo di un
libro di giardinaggio, scritto in un fine settimana e zeppo di errori,
arrivato ai primi posti della classifica dei bestseller della categoria.
Ciò, è scandalosamente fuorviante!
48
di insignificanza, ponendoci di fronte a una letteratura di
fuochi fatui...
Vorrei aggiungere, a queste riflessioni, una battuta di
un grande critico letterario, a livello mondiale: Harold
Bloom, il quale, non molto tempo fa, intervistato da
Alessandra Farkas a Manhattan, a proposito del destino,
oggi, della letteratura, risponde: ″Basta dare un'occhiata
alle classifiche dei libri più venduti per vedere che
bestseller e spazzatura sono ormai diventati sinonimi″;
sulla stessa linea è lo scrittore ed editore tedesco Michael
Krüger: ″[...] pubblicano tanta robaccia [...]″. Ma anche
Pier Vincenzo Mengaldo parla di ″stasi creativa″
nell'ambito della letteratura dei nostri giorni.
Chiediamoci, allora, se la tradizione novecentesca si sia
estesa, attraverso la memoria culturale, al terzo millennio e
se esista un risultato innovativo o la novità della
trasmissione culturale. In modo più esplicito: quali sono i
temi fondamentali della nostra epoca? Riepiloghiamoli
attraverso la scommessa dell'indagine, riaffacciandoci al
secolo trascorso. Per esempio, potrà mai dialogare la
poesia di oggi con quella di ieri? ha un senso, oggi, la
letteratura in un mondo non letterario, se non anti
letterario, nel quale vengono pubblicati tanti libri (una
vera e propria invasione, affinché si dica che il mercato
tiene) e se ne vendono pochissimi, ma col marchio di
garanzia della notorietà dell'autore (insapori, scialbi,
sciatti), che soffrono la patologia del blocco creativo dei
loro artefici? Gli addetti ai lavori giustificano il fenomeno
col dire che i libri, in fondo, non sono in grado di
modificare la nostra realtà culturale. Allo stato attuale
delle cose, ci convinciamo sempre più che l'editoria è
diventata incapace di darci il grande libro di questo secolo.
Gli editori storici sono rimasti confinati nel '900, mentre i
giovani editori cercano di inventarsi un'editoria nuova e
49
indipendente, che prenda le distanze dai Gruppi editoriali.
La mediocritas celebrata dalle trombe e dai tamburi di
tanta critica continuerà forse a imporsi, affermandosi a
sostegno e a gloria dell'effimero.49
Dovremo rassegnarci a leggere ciò che continueranno a
proporci troniste, veline, vallette, olgettine, cantautori,
cantanti, politici e ogni Cincinnato che dal proprio
orticello concluso si affanni a dirci la sua sul fallimento
della politica italiana davanti agli occhi di un'Europa
indifferente e insofferente, che sembra fare l'eco a un
mondo sempre più ostile e infido? Quanti fatti, quanti
problemi, quante trepidazioni per le pagine della nostra
letteratura di questo nuovo millennio, e noi che
continuiamo ad ascoltare i vagiti di tanti libri di nessuno,
avendo ancora dentro l'eco perdurante dei Maestri del
secolo trascorso e, insieme, il chiasso di un'editoria (molti
direttori editoriali andrebbero sostituiti per la loro inerzia e
indifferenza ai nuovi motivi che caratterizzano il 3°
millennio) che sbandiera i cosiddetti nuovi autori, che
dànno false risposte alle nuove domande e aspettative di
questo nuovo torno di tempo, le cui promesse viaggiano
sulle ali di un pensiero talora tracotante che finisce a
esaltare il calcolo, l'inconsistenza, l'inconcludenza,
l'aggressività. E in questo clima, si illude, l'editoria, di
soddisfare un mercato e una richiesta che però nella realtà
non possono esistere. Ne segue il condizionamento delle
voci poetiche e narrative del nostro tempo, alle quali viene
attribuita poca o nessuna considerazione. Una nuova
soluzione al problema ci porterebbe a pensare
49 Le recensioni non sono infatti indicative di niente, oggi, e la critica
letteraria dovrebbe essere affidata agli specialisti. E' voce corrente che
a Londra, per una manciata di euro, sia possibile ottenere una
recensione; tre recensioni per dieci dollari; due per cinque sterline.
50
all'opportunità di creare una forza d'urto contro l'attuale
cultura italiana, che ristagna nelle stanze dei fabbricanti di
libri e di conseguenza contro il prodotto, appunto,
dell'orientamento editoriale, che sembrerebbe avere una
sola mira: vanificare la grande opera di ricerca e
affermazione dei motivi che fecero grande, per novità e
intensità di vissuti, di stile e contenuti, la letteratura e
l'intellighenzia creativa del trascorso secolo.
Oggi, noi speriamo in una politica culturale più saggia
e con una ben precisa identità, che stimoli e conservi il
gusto per la lettura, e che non ci induca a ricorrere
all'alternativa della letteratura straniera: israeliana o
palestinese o latino-americana o francese o pakistana e
così via. In questo discorso rientra a pieno titolo la poesia,
quella, oggi, dei vecchi misconosciuti che subirono l'onta
dell'indifferenza da parte del manipolo avanguardista (il
riferimento è agli anni Sessanta -il '68, per la precisione -),
che per i suoi principî e programmi battaglieri, anche al di
là della questione linguistica, o stilistica e del linguaggio,
non sapeva cosa farsene di una poesia che aveva i suoi
ascendenti nei Maestri del Novecento. Una poesia di tal
fatta, mai sarebbe stata organica ai movimenti e
programmi della Nuova Avanguardia, la quale trasferiva
nell'ideologia, insieme ai suoi arrabbiati miagolii, l'azione
alla quale assisteremo ben chiaramente negli anni Settanta,
dopo gli sviluppi e l'affermazione della propaganda
politica sessantottesca.
Ne seguiva una scelta, da parte della ″Quinta
Generazione″, che si concludeva nell'isolamento e nel
rifiuto degli sperimentalismi in poesia (per esempio, lo
strutturalismo), peraltro confortati dal diffondersi di teorie
linguistiche (cfr. R. Barthes, Noam Chomsky, Ferdinand
de Saussure) che percorrevano l'Europa. La ″Quinta
Generazione″ di poeti italiani continuò per la sua strada,
51
ferma nel proposito di considerare la poesia come
inquietudine interiore e sguardo sull'aspetto segreto e
lontano delle cose e della terrestrità, in rapporto
all'invisibile della trascendenza, insomma una poesia
ferma nel proposito di respingere i manifesti anarcoidi
dello sperimentalismo della Neoavanguardia che negli
anni Settanta, come ricordavamo, sarebbe esplosa nel
ribellismo sociale e nell'azione sovversiva e terroristica
(Brigate rosse, caso Moro).
In altri termini, la poesia-manifesto dei neo-
avanguardisti ebbe il solo scopo di propagandare la sua
″rivoluzione″ contro un sistema socio-politico ritenuto non
più possibile e indigesto da tanti rampolli borghesi, che
giocavano occupando le Università e bivaccandovi perché
non avessero corso le lezioni. Non avevano certo il
problema dell'effimero dell'esistenza, ma l'ambizione del
comando sostenuto da un potere forte e magari nelle
poltrone dei centri di potere.
Non è dunque né fuori luogo né fuori tempo una
scorsa, oggi, al secolo che non c'è, attraverso le opere
letterarie che ne hanno segnato il corso insieme alle guerre
e alle tirannie e alla barbarie.
Da noi, il bubbone del Fascismo che nel ventennio
costruì -decostruendo- labirinti di utopie e incalcolabili
calamità: si pensi allo squadrismo, al confino, al sinistro
connubio Mussolini-Hitler, ai folli e sanguinari nazi-
fascisti, ai forni crematori di Auschwitz e Dachau, alla
risiera di San Sabba, lager nazista con forno crematorio in
Italia, ricordando Se questo è un uomo di Primo Levi, e si
pensi alla Seconda Guerra mondiale.
Al contrario, il terzo millennio, in Europa, ha solo
sentito parlare di guerre nelle lontane (ma non tanto,
oggi!), contrade mediorientali e afro-asiatiche e di
sanguinose, inumane dittature, da cui fuggono popolazioni
52
di migranti, i disperati senza domani e senza terra che
tentano la folle fuga, vittime e ostaggi dei Caronte briganti
che non temono di inabissarli nel nostro biblico mare o di
soffocarli nel fumo di monossido della stiva di carrette del
mare; fuggiaschi alla mercé di mostri trafficanti di anime,
nel nome di un dio complice e più di loro mostruoso.
Oggi tutto sembra essere concepito in maniera che il
mondo guardi altrove, onde dare tempo e modo a tanti
criminali mediorientali di sopprimere, cancellare l' ″altro″,
sperimentando l'efficacia di cinture esplosive e dei gas
nervino e sarin; o la precisione di mortai, i cui proietti
giungono silenziosi e improvvisi sul popolo inerme.
Ebbene, mi pare sia anche questa la materia prima da cui
dovrebbe trarre nutrimento la letteratura di oggi,
impegnata e civile.
III
Il malessere della poesia e della narrativa di questo
nostro tempo mette naturalmente in crisi di riflesso la
critica letteraria onesta per il disagio determinato e
aggravato da orientamenti editoriali interessati soltanto
alla domanda del mercato, peraltro, come si ricordava,
influenzato dalla stessa editoria. Il rischio che potrebbe
seguirne, e che ci pare già di intravedere, potrebbe essere
un prodotto narrativo, consumistico e omologato, e
dunque una paccottiglia ipocritamente accettata da quella
critica interessata e compromessa, al punto che non sa
ribellarsi all'andazzo editoriale e oserei dire ai dictat
dell'editoria che continua a contare, quella che dispone di
Testate importanti e altri mezzi di divulgazione, che fanno
gola soprattutto a critici di primo pelo, talvolta con
problemi assillanti di occupazione, perciò costretti a
53
ignorare i problemi cruciali della cultura e della storia
attuali.
Bisognerà prendere atto che il nuovo secolo rischia di
celebrare, suo malgrado, insieme a una moltitudine
incolore e anonima (anche in area politica), il trionfo dei
silenzî letterarî, che vivono l'azzardo di un'editoria che si
ostina a divulgarli. Sembrerebbe un paradosso surreale: i
silenzî letterarî divulgati! Epperò, come si fa a negare un
libro a un giocatore di pallone o a una spogliarellista o, per
esempio, a un politico decaduto e in vena di confessioni
circa i misteri di certa politica da Beati Paoli?!
C'è un'editoria giovane e con tanto desiderio di
emergere e onorare la letteratura che merita, ma che
alcuni vecchi direttori editoriali, purtroppo, fanno fatica a
considerare.
Concludiamo, osservando anche che, in tutto questo
azzuffarsi di situazioni e di fatti, la Sicilia letteraria è stata
particolarmente penalizzata, come non bastasse,
dall'arbitrio della dotta ignoranza di qualche antologiasta
che andava approntando vetrine e vetrinette di ″nordiche″
poesie, volutamente ignorando che l'Italia finisce a
Lampedusa.
Sorprende non poco, allora, l'articolo del siciliano
Paolo Di Stefano sul ″Corriere della Sera″ del 9 agosto
2015, a proposito della poesia del Novecento. Di Stefano è
bravo ed è uno dei pochi giornalisti letterati -oltre che
autore di apprezzabili romanzi-, che opera da pari suo
sulla ″terza″ del prestigioso giornale lombardo; tuttavia,
lascia l'amaro in bocca il suo elenco di poeti, che non solo
prende in considerazione la poesia inesistente di un certo
Cucchi e del compagno di strada Riccardi (entrambi, per
fortuna, non più alla Mondadori), ma dimentica, come
accade spesso al Nord, la presenza di poeti siciliani come
A. Maria Ripellino, Bartolo Cattafi, Santo Calì, Stefano
54
D'Arrigo, Giuseppe Zagarrio, Giuseppe Bonaviri, Stefano
Vilardo, Sebastiamo Addamo, Armando Patti, Alfonso
Campanile, tutti degli anni Venti; e nel suo elenco, a
proposito dei poeti degli Anni Trenta, cita soltanto la brava
Jolanda Insana. Dimentica, il Nostro, gli altri siciliani:
Antonino Cremona, Basilio Reale, Andrea Genovese,
Alfonso Zaccaria, Emilio Isgrò, Emanuele Schembari,
Lucio Zinna, Carmelo Pirrera e altri ancora; e tra i poeti
degli anni Quaranta salta Angelo Scandurra, Stefano
Lanuzza, Aldo Gerbino, Salvatore Martino, Donata
Passanisi, Carmelo Mezzasalma e altri. L'elenco sarebbe
lungo, ma preferisco fermarmi qui, non prima di aver
citato Letizia Dimartino. Sono certo che Di Stefano, da
buon avolese trapiantato a Milano, condivide con me
l'incompletezza dei suoi elenchi sui rappresentanti della
poesia del Novecento siciliano e italiano.
E' vero anche che la nostra geografia ci decentra
rispetto ai luoghi del potere editoriale, lasciandoci
dormicchiare in periferia. E' forse per questo che il
professore padovano, Pier Vincenzo Mengaldo (1936), che
negli anni Settanta dalla sua antologia escluse Bartolo
Cattafi, oggi non riesce a vedere altri poeti, oltre ai bravi
Milo De Angelis e Valerio Magrelli, sul cui spessore
naturalmente concordiamo.
Il mondo, nel frattempo, si è arricchito di altri poeti
che onorano la poesia anche di questo terzo millennio e
anche se... ″siciliani″ e anche se fuori dalle agende
editoriali che malgrado tutto continuano a contare, anche
se non sempre cantano!
L'attualità del terzo millennio è fatta dall'uomo della
realtà globale e letteratura, poesia, arte, politica, progresso
abbracciano ed esprimono queste realtà, già oggetto
d'indagine da parte della sociologia della letteratura,
55
soprattutto per ciò che concerne le nuove prospettive, nel
bene e nel male, della globalizzazione e del conseguente
flusso di circolazione di temi, motivi, fatti storici ed
esistenziali, provenienti dalle civiltà in cammino del
mondo e, nello specifico, dalla trasmigrazione delle
poetiche che distinguono questo nuovo secolo dal
trascorso Novecento.
57
TRE RIFLESSIONI SULLA POESIA
di Rodolo Di Biasio
Il mio intervento si articola in tre brevi e concise
riflessioni sullo stato della poesia oggi in Italia. Risalgono
a tempi diversi a partire dal 1984, ma denunziano ancora e
purtroppo una situazione che non è cambiata.
Ecco la prima. Si intitola: Tutti avanti in ordine sparso
Giuliano Manacorda nella sua Letteratura italiana
d'oggi, nella parte quarta dedicata agli scrittori degli anni
settanta, nel capitolo Verso gli anni ottanta: nuovi
dibattiti; nuovi scrittori, dopo aver rapidamente riassunto
gli avvenimenti più macroscopici della storia italiana e
internazionale così scrive:
"Sono pochi cenni e su alcuni aspetti macroscopici
della storia d' Italia e del globo, ma sufficienti a rivelare
una situazione di così alta conflittualità da suggerire per lo
più all'uomo e alle masse (salve,comunque sempre, le
eccezioni) nausea per la storia, fuga dalla cosa pubblica,
sfiducia nel potere (ogni potere), indifferenza,cinismo,
egoismo, qualunquismo. Si è già detto che il riflesso di
tutto ciò sull'animo e l'attività dello scrittore non è
meccanico, ma ci parrebbe storiograficamente un'eresia
distaccare la vita e la produzione dell'intellettuale dalle
condizioni concrete in cui opera; certamente egli le vive e
le soffre, e le restituisce, come può e come sa, in forma di
scrittura o altro mezzo per comunicare...".
La nausea della storia dunque e la necessità di essere
nella storia: è la condizione più schizofrenica, più lacerata
e più contraddittoria che mai il poeta abbia dovuto
affrontare, sicché egli è costretto a individuare oggi,
58
cadute le grandi utopie, cadute forse le utopie di ogni
sorta, le microspie che gli possano restituire le radici, che
lo possano agganciare al flusso vorticoso degli eventi, ad
un panta rei quale mai si è visto nel corso dei secoli e che
gli propone ogni volta una realtà franta, pulviscolare,
amebica. È questa condizione che rende oggi il lavoro
sulla poesia drammatico al massimo grado: il poeta sa che
la realtà è polivalente e polimorfa, eppure sa che gli si
chiede di consegnare il monolite, la summa, perché
intorno è palpabile, nel naufragio o solo nella dispersione
delle cose, il desiderio delle necessarie schematizzazioni e
delle necessarie definizioni.
Lacerazione inconciliabile, da cui emerge come fatto
artistico un fitto brusio, una sorta di coro dissonante,
perché ogni poeta porta la sua scheggia di storia (e non
può che essere una scheggia la sua) e di canto, scheggia
sofferta ed esplorata da ogni prospettiva, un frammento di
vita che trova la sua collocazione e la sua ragion d'essere
nelle altre voci che tutte insieme comunicano
l'impossibilità del poeta di oggi a farsi cantore totalizzante
di una condizione.
Il poeta vive un tempo, in cui l'accelerazione è alla base
del nostro esistere e quest'accelerazione lo pone di fronte
all'impossibilità di metabolizzare il reale e quindi di farlo
diventare canto, perché di esso gli giunge solo il
pulviscolo degli eventi e l'eco delle parole: da qui una
poesia che pare costretta a disattendere i maestri per essere
in sincronia con il farsi del reale, da qui un poeta che può e
sa parlare solo dal suo angolo angusto per una
auscultazione di sé affidandosi ad una comunicazione
orizzontale come quella della rete.
Per queste ragioni oggi in Italia il critico può forse solo
descrivere il fenomeno, può essere solo colui che registra
il lavoro in atto dei poeti, lasciando il giudizio a tempi
59
futuri, in cui da questo camminare in avanti in ordine
sparso (cito ancora Manacorda) possa in un poeta o in più
poeti emergere la traccia più profonda di questo nostro
tempo.
.O non si potrebbe anche scorgere proprio in questo
procedere in ordine sparso, il nuovo modo di essere del
poeta,consapevole che il suo prodotto non ha più il tempo
di stabilizzarsi e di autocertificarsi? O questo ordine
sparso rischia di trasformarsi in uno sparso disordine?
Può anche accadere però che il poeta scopra
nuovamente un'altra storia e tenti di farla sua, una storia
sottesa ancora, ma ben più drammatica: una storia che dica
la necessità dell'uomo di confrontarsi con le dimensioni
apocalittiche, globali in cui egli sarà chiamato a vivere,
che dica questo andare dell'uomo verso chissà dove e
verso chissà che cosa. Un mondo che non è stato ancora
sfiorato dal verso. Crocicchi celesti, spazi sterminati che
presuppongono il superamento del privato, il balzo al di là
delle piccole poetiche per tentare di dire in poesia il sentire
collettivo, cosa che del resto è registrata assai spesso in
poesia tra un arcadia e un'altra, tra un manierismo e l'altro.
Ecco il secondo. Si intitola Sud e poesia
In un articolo molto bello e coraggioso comparso su
Belfagor (Anno XXXIVII,I,3 I gennaio 1982) Edoardo
Esposito riprende e commenta un intervento di Giulio
Ferroni sulla poesia : "Osservava tempo fa Giulio Ferroni
che alla massiccia espansione quantitativa dei testi poetici
negli anni settanta si oppone un altrettanto atteggiamento
di non-lettura non certo nuovo ma preoccupante proprio se
coniugato a quella espansione: giacché di quei testi
naturalmente si parla, siano essi letti o no".
Nasce così quell'openione di cui parla appunto Ferroni:
60
"La consistenza di un testo nel mondo della
comunicazione letteraria è data insomma da quella che i
trattatisti cinquecenteschi definirebbero openione o
reputazione: il testo non vale per le sue possibilità di
essere letto, ma per il suo modo di porre se stesso nel
mondo degli addetti ai lavori, di produrre openione di sé e
dell'autore"
E' quest'openione o reputazione che manca in
moltissimi casi al poeta del sud, perché non gli è stata
attribuita da parte dei centri di potere che non sono certo
nel sud. Nelle Antologie, nella varia e vasta pubblicistica
eccetera egli entra raramente e se entra lo deve a canali
fortuiti, alla piccola openione che è stato in grado di
crearsi, ma lo stesso la sistematicità delle assenze rimane
piuttosto sconcertante.
Perciò pare opportuno che l'antologista o l'operatore
culturale in genere volgano finalmente la loro attenzione al
lavoro continuo, ricco di risultati di tanta poesia del sud,
che non è più solo la poesia del lamento e della protesta,
perché si innesta di prepotenza nella ricerca attuale sulla
poesia.
Non ha senso pertanto che essa continui ad essere
emarginata, che venga costretta ad una sopravvivenza
precaria, che venga lasciata fuori troppo spesso da
quell'openione, che pare alla fine conti più dell'essere della
poesia, della sua qualità: in questo modo certe esclusioni
divengono ancora più arbitrarie e sono da addebitare
all'improvvisazione con cui i curatori mettono insieme i
loro nomi senza avere la mappa completa della poesia di
questi anni, senza farsi completi lettori di poesia.
La confusione così aumenta. Il circolo è vizioso e gli
esclusi divengono sempre più esclusi, gli antologizzati
sempre più antologizzati, perché nel caso della poesia si
61
procede per silentium, che molto spesso si stabilisce
intorno ai nomi propter ignorantiam.
Né servono le promesse giustificatorie a coprire gli
errori di fondo che nascono, e va ribadito, da un lavoro di
indagine poco attenta, non capillare, non critica, quando
occorre invece essere attenti, capillari, critici non per non
sbagliare, perché il margine di errore in operazioni di tal
genere è ineliminabile, ma per sbagliare di meno e per non
creare, tra l'altro, una questione meridionale della poesia.
Ecco il terzo. Si intitola C’è una memoria della poesia?
Mai come in questi anni, ora anche attraverso il cinema, si
è celebrato Giacomo Leopardi come “il poeta più amato
dagli Italiani. Infatti Il passero solitario, Il sabato del
villaggio, A Silvia, La quiete dopo la tempesta hanno
significato per quanti ne hanno imparato i versi a memoria
altrettanti momenti di riflessione su quell’eterno cliché che
è la vita di ogni uomo: dalle speranze e dalle utopie della
giovinezza al dolore, alla vecchiaia, alla solitudine, al
tradimento della natura che ci inganna. Oggi le cose
stanno così? O si è verificata un’interruzione del circuito
poeta-lettore, un distacco tra il testo e la sua memoria?
Forse sì e per tante ragioni. La prima di queste è la scelta
della scuola di non contemplare quasi più la
memorizzazione della poesia. Certo ci sono insegnanti che
ancora la richiedono, ma nella maggior parte dei casi
l’esercizio della memoria è stato dismesso. Leopardi si
divertirebbe moltissimo nel constatare che proprio mentre
vengono alla luce su di lui saggi importanti e degnissimi, i
suoi versi si sono affievoliti nella memoria collettiva.
“L’infinita vanità del tutto”: forse così, autocitandosi,
commenterebbe questo progressivo lentissimo andare a
fondo della memoria della poesia. Se questa sembra essere
62
la situazione, potrà mai tornare la poesia ad essere
sillabata e risillabata perché possano essere memorizzati
quei versi che ad un certo punto e di diritto, diventano
patrimonio di tutti? Quei versi (o solo quel verso) che
anche l’uomo della strada, dimenticandone o ignorandone
l’autore, citerà come suoi, per dire di sé ? Ecco, mi
accanisco a sperare che ciò accada. La poesia è resistente.
63
POETI DEL SECONDO
NOVECENTO SICILIANO
di Emanuele Schembari
E’ indispensabile che si faccia un bilancio della poesia
del Novecento, con particolare riferimento a quello che
riguarda la seconda metà del secolo, per poter esaminare i
segnali che riguardano il futuro della poesia. E, se parlare
di poesia potrebbe sembrare anacronistico, in un mondo
che si occupa di tutt’altro, noi sappiamo perfettamente che
il futuro dell’uomo è collegato direttamente alla poesia. La
sua assenza segnerebbe il prevalere dell’animalità sui
sentimenti e sulle sensazioni. Giovanni Occhipinti nel suo
saggio Il mondo attorno a un verso? (Rubbettino 2000)
scrive: “La poesia esiste perché si possa parlare di tutte le cose che appartengono al genere umano… La poesia vive
il dramma della Storia e dell’uomo dal suo apparire ad
oggi. Cancellare questo dramma vuol dire cancellare la
Storia e rinunciare alla parola della poesia.”
Trattare la poesia italiana della seconda metà del
Novecento rappresenterebbe un discorso troppo vasto e
dispersivo, mi soffermerò, quindi solo ai poeti siciliani,
che, del resto, sono stati discriminati, parzialmente
ignorati dalla critica ufficiale, esclusi dalla grossa editoria,
con qualche eccezione (Sciascia, Bufalino, Camilleri )
solo per confermare la regola.
Nella prima metà del secolo operano poeti colti e
individualisti, a cui si alternano poeti dialettali e poeti
futuristi, tutti legati più ad aspetti formali che a differenze
contenutistiche, che si esauriscono in un ristretto numero
di anni e non lasciano molti ricordi. A parte i poeti della
64
linea classica, come i catanesi Giuseppe Villaroel (1889-
1965) e Antonio Corsaro (1909-1995), sono più numerosi
e più efficienti i poeti dialettali, che si dividono in poeti
popolari, estemporanei e spontanei e in poeti colti, che
seguono le linee tracciate da Giovanni Meli, da Micio
Tempio e da Nino Martoglio. In provincia di Ragusa un
epigono di questa linea è Serafino Amabile Guastella, che
muore nel 1899 e che è anche uno studioso di letteratura
popolare, mentre a Palermo si distingue dagli altri, per
cultura e impegno sociale, Alessio Di Giovanni (1872-
1946).
C’è da aggiungere che i poeti siciliani, dopo gli anni
‘50, si dividono in quelli che sono rimasti in Sicilia e
quelli che sono partiti, per i quali la Sicilia diventa una
sorta di proiezione a livello di ricordi, mentre nei primi si
alimenta un sentimento di diversità, in quanto vengono
regolarmente tagliati fuori dalle industrie culturali e
letterarie del nord.
Nell’immediato secondo dopoguerra i poeti siciliani
cominciano a sentirsi partecipi di una realtà più vasta, da
cui potrebbero derivare nuove prospettive. A livello
nazionale si affermano Rocco Scotellaro e Cesare Pavese,
poeti che evitano l’ermetismo e si caratterizzano per un
certo intimismo realistico. E’ lo scrittore più noto, fra i
siciliani, quel Salvatore Quasimodo (Modica 1901–Napoli
1968), che vive nel Nord e che è già affermato e che viene
considerato un epigono della linea ermetica, ad affrontare
tematiche più realistiche, a metà degli anni ‘40. Ed è
proprio per le sue ultime opere che si afferma in campo
internazionale e gli viene assegnato il Premio Nobel nel
1959. Il poeta si pone in una posizione di autocritica
rispetto al travaglio esistenziale e individualistico del suo
primo periodo, dopo una breve parentesi futuristica. Si
rende conto che non può sfuggire alla responsabilità
65
storica, manifestando la propria indignazione civile
rispetto al ventennio fascista.
Nello stesso periodo il friulano Danilo Dolci (1924–
1997), naturalizzato siciliano, diventa un rappresentante
della poesia sociale, operando anche come sindacalista,
protagonista di occupazione delle terre e di scioperi della
fame, in appoggio ai contadini. La sua è una poesia
essenziale, che, solo in un secondo periodo, si arricchisce
di moduli sperimentali.
Tra i numerosi poeti dialettali, quasi tutti di buon
livello, ma che si somigliano nei moduli e nelle tematiche,
spicca, nel dopoguerra, Ignazio Buttitta (1899–1997), che
raggiunge a Milano Quasimodo, il quale lo protegge e lo
aiuta. Le sue composizioni trattano temi di alto impegno
sociale tanto che Giuseppe Giacalone in Novecento
siciliano Ediz.Tifeo 1986, scrive che riesce “a
universalizzare in chiave lirica la sicilianità del suo
sentire, cioè nell’aver finalmente fatto il popolo siciliano,
nella sua millenaria e contraddittoria civiltà, oggetto della
sua rappresentazione e narrazione drammatica”. Buttitta
diventa il più conosciuto poeta siciliano e si afferma come
attore, recitando i propri versi nelle piazze e nelle feste
dell’Unità, favorito dalla sua posizione politica e
ideologica.
I poeti siciliani sono, nella maggior parte dei casi, degli
isolati, come Bartolo Cattafi, che, nel dopoguerra, vive a
Milano, colora un suo personalissimo surrealismo
stilisticamente di un alone metafisico, in quello che
Raboni definisce “viaggio nella metafora”. Poi, dopo
vent’anni di volontario esilio al Nord, torna a Terme
Vigliatore (Me), suo paese natale, si mantiene lontano da
gruppi e da moduli e muore a poco più di cinquant’anni
nel 1979, mantenendosi fedele alla sua trasfigurazione
poetica.
66
Altro caso isolato di poeta di grande statura è quello di
Lucio Piccolo (1903–1969), un aristocratico, cugino di
Tomasi di Lampedusa, vissuto sempre in Sicilia e che,
tardivamente, è scoperto da Montale. Angela Barbagallo in
Novecento siciliano (op cit.) scrive che il suo è “un dettato
lirico, colto, raffinato, comprensivo d’ampio respiro
letterario – filosofico - scientifico, ma chiuso, involuto,
accartocciato in una serie di fantasmagoriche psichiche ed
estetiche concretate dalle volute ad arco di costruzioni
barocche liquide e terse.”
Intanto, negli anni ’50, due siciliani emigrati in
Toscana, Giuseppe Zagarrio di Ravanusa (Ag) e Mario
Gori di Niscemi (Cl) mantengono i collegamenti con la
loro terra, creando iniziative culturali e determinando la
formazione e la crescita di altri poeti siciliani. Zagarrio, da
Firenze, partecipa all’esperienza della rivista “Quartiere” e
crea quella che, all’epoca, viene definita “poesia sociale”
che poi è una sorta di esistenzialismo storico e un
neorealismo, che riflette su se stesso, fra dubbi e
perplessità. Collabora a “Il ponte”, a “Quasi” e ad “Aut”,
importantissime riviste toscane e si afferma come uno dei
più validi e seri critici italiani, soprattutto realizzando
Febbre, furore e fiele (Mursia 1983) che è una rassegna
esaustiva di trent’anni di poesia italiana. Su Zagarrio
scrive il palermitano Salvatore Orilia su Inchiesta sulla
poesia (Ed. Bastogi 1979): “si avvia ad un discorso ampio
e drammaticamente mosso, pronto a scavare nel fondo
delle cose e a sentire quale crisi di coscienza è nella poesia
degli autori siciliani”. Muore a Firenze nel 1994, a
settantatre anni. Oggi è quasi dimenticato ma non da chi vi
parla, che, insieme a Giovanni Occhipinti, lo considera
uno dei suoi maestri.
Mario Gori (il cui vero cognome è Dipasquale) a Pisa,
dopo l’esperienza dialettale catanese della rivista “Sciara”
67
insieme a Salvatore Camilleri e alla corrente
“Trinachismo”, mette le basi per “La soffitta”, una rivista
che fonda negli anni ’50, quando fa ritorno definitivo a
Niscemi. Pubblica testi di autori di ogni parte d’Italia e
contribuisce a scoprire nuovi talenti. Fra tutti Alberto
Bevilacqua con i suoi primi componimenti poetici,
insieme al romano Elio Filippo Acrocca e al siciliano, che
vive a Roma, Ugo Reale. Fra i poeti da lui lanciati ci sono
Serafino Lo Piano, Bernardino Giuliana (che è anche un
attore) Fiore Torrisi, Federico Hoefer di Gela e, fra gli
iblei, il sottoscritto, Emanuele Mandarà ed Enzo Leopardi.
In pratica, lo scontro fra l’esperienza lirico-individuale e
post ermetica con quella a carattere storico-sociale, in
Gori, diventa coesistenza, anche se finisce col seguire una
linea più intimistica e più quasimodiana nella rivista
“Banditore Sud”, diretta insieme a Leopardi. Gori recita
nella piazza ai braccianti di Niscemi i suoi versi in dialetto
e organizza dei recitals di poesia in compagnia di Hoefer,
di Mandarà e dell’attrice Lydia Alfonsi. Muore a Catania
nel 1970, a quarantaquattro anni e a Ragusa, città a cui è
molto legato, lascia un Gruppo culturale a lui intitolato, di
cui io sono il presidente da trent’anni e un Premio di
poesia giovanile,che è vissuto per 25 anni, aprendo la
strada a giovani poeti, oggi affermati.
Federico Hoefer vivente, di Porto Empedocle e amico
d’infanzia di Andrea Camilleri, abitante a Gela, da
epigono di Gori, acquista una voce sempre più originale,
toccando varie corde, da quella lirica a quella ironica,
dalla verista alla ideologica, fino a quella colta ed
esoterica. Negli anni Settanta fonda i mensili “Fogli di
poesia” che ospitano alcuni validi poeti del secondo
Novecento e che fanno conoscere un quadro vasto ed
esaustivo della lirica siciliana, spesso condizionata dalla
difficoltà di distribuzione dell’editoria isolana.
68
Emanuele Mandarà nato e morto a Vittoria (1930-
1993), autore di una poesia raffinatissima, è seguace del
post ermetismo di Luzi e di Sereni, ma ha una sua
caratterizzazione e le sue descrizioni paesaggistiche sono
dotate di grande fascino.
Enzo Leopardi (1923–1999) di Santa Croce Camerina
(Rg), anche apprezzato critico d’arte, poeticamente
realizza le sue cose migliori nei suoi riferimenti alla
resistenza in Sicilia, all’invasione degli americani e
all’immediato dopoguerra, dove, scrive Zagarrio in
Febbre, furore e fiele (op.cit.): “c’è un certo paesaggio non
solo naturalistico… dove solitudine e morte (o assenza di
vita) fanno da elementi egemoni e totalizzanti”.
Angelo Maria Ripellino palermitano (1923–1978) è più
noto come saggista e storico della letteratura slava, ma è
un poeta notevolissimo, che è riuscito a fondere vari
moduli psicanalitici, futuristi, elegiaci, espressionisti, in
una sorta di poesia demoniaca, che sembra voler
esorcizzare i mostri della coscienza.
Ci sono pure dei poeti molto interessanti, che sono
rimasti più noti come narratori e sono il messinese Stefano
D’Arrigo, il lentinese Sebastiano Addamo, Giuseppe
Bonaviri di Mineo (Ct), Stefano Vilardo, amico fraterno di
Leonardo Sciascia, lo stesso Sciascia, che esordisce con un
volume di versi, come Andrea Camilleri, senza contare il
comisano Gesualdo Bufalino, che realizza un unico
volume di versi, mentre il modicano Raffaele Poidomani,
forse il miglior narratore della nostra provincia, pubblica
su riviste e giornali i suoi versi che, solo dopo la sua
morte, vengono raccolti in un volume, intitolato
Pellegrino dei sogni.
Fuori dalla Sicilia operano, con risultati interessanti,
Stefano Lanuzza a Firenze, che è anche saggista e che
segue una strada sperimentale linguisticamente e
69
protestataria tematicamente e il palermitano Mimmo
Morina (1933–2008), funzionario dell’Unione Europea in
Lussemburgo. Ci sono ancora quattro messinesi lo
scomparso Nino Pino e i viventi, Angelo Maugeri, che
abita in provincia di Como, Andrea Genovese, che vive a
Lione, Basilio Reale, stabilitosi da molti anni a Milano.
Rimane in Sicilia Antonino Cremona (1931–2004),
avvocato civilista di Agrigento dalla complessa e rilevante
personalità, in cui gli elementi ironici e di denuncia si
mescolano, motivati da una maturità culturale di assoluto
vigore, di chi ha assorbito le fondamentali della poesia
classica e di quella contemporanea europea.
Carmelo Pirrera nato nel 1932 e scomparso lo scorso
anno, oltre a svolgere ottima attività editoriale,
pubblicando, tra l’altro, per anni la rivista di testi “issimo”,
dimostra come poeta (ma è anche narratore) una sensibilità
sottile ed inquieta, che esprime, con felice connotazione
linguistica, un continuo e approfondito colloquio interiore,
stemperando il contenuto dei suoi versi con una felice
ironia, avvicendando spunti lirici a tematiche esistenziali.
Edoardo Cacciatore, nato in Sicilia e vissuto a Roma,
dove si è spento nel 1996, a 83 anni, è scarsamente
considerato e sottovalutato dalla critica ufficiale, ma,
secondo Giuliano Manacorda, si tratta di uno dei migliori
poeti siciliani. Zagarrio (op.cit.) considera “il laboratorio
espressivo di Cacciatore qualcosa a se stante, comunque
da rapportare al più vasto movimento dello
sperimentalismo europeo piuttosto che a quello
neoavanguardistico”.
La neoavanguardia del 1963 viene chiamata “La scuola
di Palermo” anche se formata da scrittori del nord
(Sanguineti, Balestrini, Giuliani, Pagliarani, Guglielmi)
vede la presenza di tre scrittori siciliani Perreira, Testa e
Roberto Di Marco, ma lascia poca traccia in Sicilia. Del
70
resto è un’operazione più formale che contenutistica,
assolutamente intellettualizzata e piuttosto sterile, anche se
dà una forte scossa a certo formalismo linguistico.
Un professore di Liceo di Linguaglossa sull’Etna, che
scrive sia in lingua che in dialetto è Santo Calì (1918–
1972), che si collega, a metà degli anni ’60, con un gruppo
di poeti di Palermo e di Trapani, fortemente impegnato sul
sociale e ne diventa, in un certo senso l’ideologo. Nasce
così l’Antigruppo, un movimento importantissimo, che
esamina criticamente le strutture socio-economiche della
Sicilia. Calì recita poesie ai popolani di Palermo, ai
contadini dei Peloritani, ai pescatori di Trapani e ai
minatori di Caltanissetta, insieme a Nat Scammacca,
Rolando Certa, Gianni Diecidue, Ignazio Navarra,
Crescenzo Cane, Pietro Bilieci e altri. Si tratta di
personaggi che rendono estremamente vivo il movimento
poetico che, sia Zagarrio che lo storico della letteratura
italiana Giuliano Manacorda, considerano il più
importante movimento del ‘900, con un sua precisa linea
politica progressista e anticonformista. In pratica è l’unico
gruppo compatto, che opera in Italia tra gli anni ’60 e ’70
e determina una poesia di denuncia, piena anche di rancore
e di rabbia, in una serie di interventi, anche con
ciclostilati, con varie pubblicazioni e con la terza pagina
del periodico “Trapani nuova”, curata da Nat Scammacca.
Salvatore Rossi su Novecento siciliano (op.cit.) scrive:
“L’attività di questi scrittori rappresenta una svolta
importante per la letteratura prodotta in Sicilia, se non
altro per lo sforzo per agitare le acque, rimettere tutto in
discussione, dare agli scrittori operanti nell’isola una
prospettiva di sprovincializzazione”.
Calì muore precocemente e non fa in tempo a veder
pubblicata l’antologia Antigruppo 73, realizzata da
Vincenzo Di Maria (poeta e tipografo catanese, vicino
71
all’Antigruppo) che raccoglie i poeti più validi dell’isola,
compresi giovani ancora sconosciuti, ma anche Roversi,
Zavattini e Ferlinghetti. E’ considerato il miglior poeta
dialettale siciliano, ma in lingua realizza un bellissimo
poemetto, che è La ballata di Jossip Shyrin, apparso
postumo nel 1980. Mescola il canto al racconto, la
polemica politica e sociale alla provocazione, l’invettiva
alla meditazione in uno scontro di tensione misurata e
sognante, nello stesso tempo, mentre, nell’ultimo periodo
della sua vita, prevale una linea di straordinario fascino.
Altro esponente dell’antigruppo, di cui diventa il
maggiore rappresentante, dopo la scomparsa di Calì è Nat
Scammacca (1924–2005), nato negli Stati Uniti,
trasferitosi a Trapani trentenne, è vicino a Ferlinghetti e a
Gregory Corso, esponenti della poesia beat. E’ un poeta
interessante, oltre che ottimo narratore e possiede una
straordinaria originalità. Fonda la rivista “Trinacria” e
oppone, anche dopo la scomparsa dell’Antigruppo una
cultura alternativa a quella nazionale.
Ad un certo punto l’Antigruppo si spacca nella linea
palermitana e linea trapanese, dove si ha l’egemonia di
Scammacca, che realizza l’antologia Antigruppo 75, che
continua il discorso di una poesia underground, fuori dai
soliti schemi editoriali, all’insegna della “sicilitudine”
(termine coniato da Crescenzio Cane e ripreso da Sciascia,
che vuole ricordare la “negritudine”) insieme allo stesso
Cane, a Certa, Diecidue, Navarra, Di Maio.
Nella seconda metà degli anni ’70 si ha un’ulteriore
spaccatura nell’Antigruppo. Rolando Certa (1931-1987),
di Mazara del Vallo (Tp), che è stato il miglior
organizzatore del movimento, fonda la rivista “Impegno
70”, avvalendosi della collaborazione di Antonino
Contiliano di Marsala e si accosta ai poeti del
Mediterraneo (greci, romeni, jugoslavi, egiziani, turchi)
72
organizzando dei convegni, chiamati “Incontri del
Mediterraneo”, ricchi di scambi culturali tra i popoli e
messaggi di fraternità. Anche la sua tematica personale, di
protesta e di aggressività si lega, al mito neo greco, si fa
più delicata e riflessiva e si apre a tematiche di respiro
europeo. Muore precocemente, mentre si trova in
Ungheria, per un convegno.
A Palermo, dai resti dell’Antigruppo nasce
l’Intergruppo, che privilegia una forma neosperimentale,
pur mantenendo, solo in parte, tematiche di polemica
social- politica. Il poeta più interessante, poi diventato
narratore sperimentale, è l’avvocato Ignazio Apolloni
(1932-2015) a cui si affiancano Pietro Terminelli di
Palermo e Nicola Di Maio (1949–2014), di Castel-
vetrano.
Anche in campo femminile ci sono presenze
interessanti,a cominciare dalla messinese Giorgia Stecher
(1926-1996) che comincia a pubblicare già quarantenne,
ma brucia le tappe, vince premi importanti, collabora a
riviste qualificate. La sua è una voce sommessa, con una
lirica giocata su sensazioni minime, immergendosi in una
piccola realtà, limitata in apparenza, che cresce
gradualmente, finendo col rappresentare la drammaticità
del vivere.
Oggi forse ci sono più donne che uomini a dedicarsi a
scrivere versi. Citiamo, su tutte Maria Attanasio, di
Caltagirone, nota anche in campo nazionale, per i suoi
romanzi, autrice di versi raffinatissimi, dove le metafore
sottolineano l’essenzialità di un lessico ambiguo e
profondo. Altra poetessa importante è Jolanda Insana, nata
a Messina ma abitante a Roma, che usa in linguaggio di
grande efficacia e che, come scrive Andrea Guastella su
Dalla lama del giorno (Ed. Nona 2002): “va trasformando
ogni immagine in visione, ogni viaggio in avventura”.
73
Tra le donne, che operano in Sicilia, ci limitiamo a
citarne due, abitanti a Ragusa: Letizia Di Martino, nata a
Messina, e Maria Teresa Verdirame, nata a Tripoli. La
prima pubblica vari volumi di versi ed è presente nello
“Specchio” di Mondadori, destando l’attenzione di alcuni
fra i maggiori critici italiani. La Verdirame, oltre a quattro
libri di poesia, pubblica un volume di haiku, un romanzo e
si appresta a pubblicarne un altro.
Tra i poeti siciliani operanti nella seconda metà del
Novecento i più validi sono gli scomparsi catanesi Rino
Giacone e Armando Patti, i cattolici palermitani Pietro
Mirabile e Giulio Palumbo, oltre ad Alfonso Zaccaria e
Mario Farinella.
Ricordiamo, per restringerci alla provincia di Ragusa
alcuni poeti scomparsi in tempi relativamente recenti: i
poeti dialettali Carmelo Assenza di Modica e Carmelo
Lauretta di Comiso, Carmelo Conti, nato a Scicli e morto a
Ragusa, dalla sintassi complessa e raffinata e due poeti
tardivi, entrambi vittoriesi, deceduti, rispettivamente nel
2012 e 2014, Domenico Cultrera ed Emanuele Giudice. Il
primo offre un sofferto e sensibile canto, espresso in un
barocco tutto interiore, il secondo ha una pluralità di
contenuti, dove prevale una pensosa riflessione
esistenziale.
Poeta ancora in attività in Sicilia è Lucio Zinna, nato a
Mazara del Vallo, ma abitante a Bagheria (Pa), oltre che
poeta e narratore, operatore culturale importantissimo che,
da anni, realizza la rivista letteraria “Arenaria”. La sua è
una poesia a verso lungo, colloquiale in apparenza e
complessa nella sostanza, che approfondisce, con vigoroso
scavo interiore, la tematica della quotidianità.
C’è Aldo Gerbino, tra i relatori di questo Convegno,
che vive a Palermo. E’ docente universitario, critico
letterario, oltre che poeta molto raffinato, il cui dettato è
74
centrato da una ricerca stilistica coerente, dove persiste
un’ironia sottile in un’atmosfera di raffinata sensibilità.
E ancora ci sono Antonio Di Mauro, Renato Pennisi,
Mario Grasso, Angelo Scandurra a Catania, Elio Giunta,
Nicola e Tommaso Romano, Emilio Paolo Taormina,
Salvatore Di Marco a Palermo, Sebastiano Burgaretta ad
Avola (Sr), Melo Freni di Messina, che vive a Roma,
Sebastiano Saglimbeni, Diego Guadagnino a Canicattì
(Ag), Antonino Contiliano e Nino De Vita a Marsala (Tp).
Rimane Giovanni Occhipinti, uno dei più importanti
poeti e scrittori italiani, autore di oltre cinquanta volumi. La
mia collaborazione con lui supera i quarant’anni: dalla
fondazione della rivista “Cronorama” nel 1973, al Premio
di poesia “Ragusa Anni ‘70”, che poi diventa “Un ponte per
l’Europa”, che premia alcuni tra i maggiori scrittori italiani
e stranieri e si interrompe qualche anno fa per mancata
elargizione di finanziamenti da parte delle istituzioni, dopo
oltre un trentennio. Fino all’organizzazione di questo
Convegno che, probabilmente, è la nostra ultima iniziativa
culturale di un certo spessore.
Per ciò che riguarda il presente e il futuro della poesia,
c’è da dire che molte cose sono cambiate, che su Internet
navigano migliaia di testi poetici, che non ci sono più
pubblicazioni letterarie specifiche e che la critica non
esiste più. Si sono persi gli strumenti per misurare il valore
della poesia. E tutto è molto confuso.
Nella provincia di Ragusa, fra i poeti che
parteciperanno al recital di queste due giornate, ci sono
due poeti quasi sessantenni con varie pubblicazioni e già
affermati come Giuseppe Di Giacomo di Comiso, deputato
regionale del PDI e Domenico Pisana, di Modica,
dirigente scolastico e presidente del “Caffè letterario
Quasimodo”. Abbiamo due cinquantenni di Ragusa:
Carmelo Arezzo e Giuseppe Schembari, tra i migliori.
75
Schembari, già poeta del dissenso negli anni passati, ha
testi molto interessanti per il suo ultimo libro, Naufragi.
Arezzo, importante funzionario di un ente pubblico, ha
pubblicato quarant’anni fa, ma ha molti inediti di grande
spessore. Una certezza è rappresentata dal quarantenne
Andrea Guastella, soprattutto critico letterario e quotato
critico d’arte, che, come poeta, è stimolante e originale. I
più validi poeti dialettali locali sono, senza dubbio, i
coniugi Pippo Di Noto e Giovanna Vindigni, che
esprimono temi di attualità con moduli freschi e moderni.
Io e Giovanni Occhipinti, puntiamo sul trentenne Dario
Pepe, che, nella sua prima pubblicazione, segue un filone
esistenziale su una strada di icastica classicità. Per il resto
ci guardiamo intorno e cerchiamo di aprire al futuro,
affinché la poesia resti, resista e continui il suo cammino.
Concludo con le stesse considerazioni del mio
intervento durante il Convegno sulla poesia siciliana, che
si è tenuto in questi locali nel 1997: “ Il poeta siciliano è
sempre più poeta del mondo e sempre meno caratterizzato,
sempre meno siciliano, ma questo sta avvenendo
dovunque. Il mondo si fa sempre più piccolo. Il poeta
siciliano è sempre più poeta internazionale e sempre meno
siciliano”.
77
TRE POETI LIGURI DIMENTICATI E IL POTERE:
GHERARDO DEL COLLE, NICOLA GHIGLIONE
E ADRIANO GUERRINI
di Francesco De Nicola
Nella serie di articoli dedicati ai poeti liguri, dai quali
ebbe origine l’impropria definizione di “linea ligustica
della poesia italiana”, pubblicati prima sulla “Fiera
Letteraria” nel 1956 e poi sul quotidiano genovese
“Corriere Mercantile” nel 1959, Giorgio Caproni aveva
concesso ampio e legittimo spazio ai poeti noti e
consacrati: da Montale a Sbarbaro; da quelli familiari
soprattutto ai cultori del genere: da Roccatagliata Ceccardi
ad Adriano Grande e ad Angelo Barile; e a quelli di più
recenti generazioni nei quali aveva colto qualità che li
avrebbero potuti far leggere ed apprezzare al di fuori della
ristretta cerchia locale. Tra questi ne rientravano tre il cui
talento Caproni non aveva esitato a riconoscere (e altri
prima e dopo di lui lo avevano o avrebbero riconosciuto) e
che tuttavia, pur senza tradire le aspettative, non ebbero la
fortuna che gli sarebbe spettata se non si fossero imbattuti
nell’avversione di differenti forme di potere: Gherardo Del
Colle, Nicola Ghiglione e Adriano Guerrini50
, poeti diversi
per storie personali, origini e generazioni. Il primo, nato
50
Le loro poesie si possono leggere rispettivamente in Gherardo Del
Colle, Il fresco presagio. Poesie 1937-77, a cura di Francesco De
Nicola, Genova, De Ferrari, 2008; Nicola Ghiglione, Finestre. Poesie
edite e inedite (1939-1988), a cura di Francesco De Nicola, ivi, 1991 e
Adriano Guerrini, Poesie (1941-1986), a cura di Francesco De Nicola,
ivi, 1996. Le informazioni qui riportate sono desunte dalle rispettive
introduzioni.
78
nel 1920 in un paese appenninico in provincia di Genova,
era un frate francescano fornito di solidi studi classici
(morirà nel 1978); il secondo, nato a Voltri, borgo sul mare
nella periferia di Genova nel 1915 (dove morirà nel 1990)
era l’incarnazione compiuta del “poeta maledetto”
irregolare e perciò avviato ad una vita difficile; e l’ultimo
infine, nato ad Alfonsine, in Romagna, ma trasferitosi da
bambino nel quartiere operaio di Sampierdarena,
all’interno del capoluogo ligure (dove morirà nel 1986) era
professore di storia e filosofia nei licei.
Gherardo Del Colle aveva cominciato a scrivere versi
poco più che ventenne ed ebbe la fortuna di conoscere
Angelo Barile, che divenne la sua guida, e poi suo
strettissimo amico come rivela il carteggio intercorso tra i
due dal 1940 al 196651
, leggendo e correggendo le sue
prime poesie ispirate dalle inquietudini di una vocazione
religiosa sicura ma non per questo priva di dubbi e
problemi. La raccolta di queste poesie giovanili fu
pubblicata, con il titolo ottimista di Rosso di sera, nel
1946 per le edizioni della rivista “Il Gallo”, fondata nel
dopoguerra a Genova (e tuttora attiva) da un gruppo d’
intellettuali cattolici sensibili ai problemi della società in
quel difficile dopoguerra e aperti al dialogo con chiunque
condividesse quell’attenzione. “Il Gallo” si conquistò in
breve un posto di rilievo tra i periodici del dopoguerra
(Montale nel maggio del 1947 vi pubblicò la Primavera
hitleriana) e padre Gherardo vi recitava un ruolo
fondamentale, pubblicando anche, tra il 1946 e il 1947,
una serie di letture di poeti tra le due guerre che includeva
tra gli altri Alfonso Gatto e Salvatore Quasimodo, e cioè il
51
Angelo Barile-Gherardo Del Colle, “Amor di poesia”. Lettere
(1940-1966), a cura di Francesco De Nicola, Genova, De Ferrari,
2010.
79
fronte ermetico, insieme ai più delicati Saba e Betocchi. E
intanto vi pubblicava anche le sue nuove poesie, che con
sempre maggiore assiduità affrontavano temi sociali con
particolare attenzione per i problemi dei lavoratori
rendendo protagonisti dei suoi versi “i braccianti avviliti /
e i licenziati dell’Ilva e i torvi ferrovieri. / Ricurvi sulle
scope, anche i macilenti spazzini / T’informeranno, o
Gesù, d’essere scesi in sciopero”, per dedicare più tardi
una poesia a Sandor Dèry ucciso a Budapest il 29 ottobre
1956 dai carri armati sovietici per essersi “gettato addosso
agli scherani / d’Erode con impavida innocenza”.
E su “Il Gallo” padre Gherardo, che ne era il
responsabile per la parte letteraria, teneva anche una
rubrica di recensioni e di opinioni e qui, nell’aprile del
1950 polemizzò vivacemente con Montale, che sul
“Corriere della Sera” aveva espresso giudizi negativi sui
critici incapaci di capire le sue recenti poesie; rilevato
“l’astio di Montale contro quelli stessi che, primi, hanno
manifestato consensi alla sua poesia”, il cappuccino aveva
osservato che se è accettabile che le pagine di tanti bei
libri di poesia siano oscure (e ciò non gli aveva impedito,
come si è appena sopra rilevato, di apprezzare gli ermetici)
“che un lettore debba battersi il petto quando
incolpevolmente non riesce a capire ciò che un poeta non
gli fa capire, questo è davvero pretendere troppo”; e
aggiungeva che la poesia non deve comunque risultare “un
indecifrabile rebus che celi trabocchetti per chi legge e un
pretesto di sollazzo per chi scrive”, concludendo che “la
torpidezza mentale di certi critici pure intelligenti e onesti
quasi sempre è determinata dalla torpidezza d’ingegno e di
cuore di certi illustri criticati”. Questa dura presa di
posizione in favore di una poesia non intellettualizzata e
non incomprensibile per i lettori era seguita sul mensile da
una nota del direttore Nando Fabro che, presagendo una
80
possibile bufera, intendeva ammorbidire la polemica
sollevata da padre Gherardo.
Ma Montale non mancò di intervenire e tuttavia invece
di replicare esponendo le sue ragioni in un articolo spedì
allo stesso Fabro una lettera (pubblicata nel numero di
giugno) addirittura sprezzante per l’estensore della nota
critica e invece aperta verso la presa di distanza del
direttore, il quale a sua volta scrisse una precisazione che
di fatto sconfessava padre Gherardo e si schierava dalla
parte del poeta celebrato (e oltretutto ormai giornalista
presso il più importante quotidiano italiano). Questo
episodio aveva segnato la fine del rapporto tra Gherardo
Del Colle e “Il Gallo”, ma soprattutto l’inizio del suo
progressivo distacco dalla “società letteraria” dominata dai
mostri sacri inattaccabili ai quali, nel marzo 1951,
dedicherà questo epigramma: Or che Saba montaleggia / e
Montal quasimodeggia / Salvatore et Ungaretti /
abbandonano i versetti: / Cardarelli l’impassibile / tenga
duro (se possibile). Padre Gherardo continuerà a
pubblicare brevi sillogi di poesie presso piccoli e minimi
editori, vivendo con grande impegno la sua missione
religiosa e quasi del tutto appartato dall’ambiente
letterario, dove però non mancavano gli estimatori
qualificati come Barile e appunto Caproni che lo definirà
“poeta ricco di passione non in esclusivo senso religioso,
ma soprattutto umano”, riconoscendo nei suoi versi “una
trasparenza, una tenerezza di luci che può anche qua e là
(come avviene di solito ai giovani) colorarsi e compiacersi
di malinconia, ma che più spesso si rialza a una vera
giocondità del cuore”.
Nello stesso articolo sui poeti liguri nel quale aveva
ricordato Gherardo Del Colle, Caproni aveva scritto anche
di Nicola Ghiglione, con il quale aveva condiviso alla fine
degli anni Trenta gli esordi poetici a Genova e del quale
81
aveva ammirato la pubblicazione, avvenuta all’inizio del
1945, del suo poemetto intitolato Canti civili. Era un’opera
originalissima, visionaria e realistica insieme, nella quale
si succedevano brevi liriche ricche di immagini di grande
forza e violenza che rappresentavano la misera condizione
di quanti, già emarginati in tempo di pace, durante la
guerra pativano un’esistenza difficilissima e stentata, tanto
che la parola gridata “Fame” era ricorrente in questi versi,
dedicati al venditore di caldarroste o all’arrotino, al
beccamorto o allo spazzino, al ladro di immondizie e
perfino allo spaventapasseri “miseri uomini del vento / con
abiti senza bottoni e con scodelle d’argento / […] che
battiamo strumento / per impaurire il cielo che ha segnato
sui nostri cappellacci / un chiodo per impiccarci”. Che si
trattasse di un’opera di grande significato, al di fuori
dell’ormai stantio ermetismo come pure all’ideologizzato
neorealismo, se ne accorse subito Carlo Bo, che nel
novembre del 1946 la recensì su “Costume” dedicandogli
una pagina intera esattamente come al romanzo di
Vittorini Uomini e no. E poco più tardi lo stesso Caproni
sulla “Fiera Letteraria” ed Enrico Falqui includendolo in
un’antologia di nuovi poeti (1956) colsero la forza degli
inconsueti versi di Ghiglione, il quale nella sua città
(patria di molti poeti importanti ma in genere piuttosto
sorda alla loro voce) cominciava a godere di
apprezzamento e notorietà, accresciuta anche dalla
frequente comparsa della sua firma sulla terza pagina del
giornale più letto di Genova, “Il Secolo XIX”, sulla quale
il direttore Umberto V. Cavassa, anch’egli scrittore anche
se di gusti tardo romantici, gli aveva affidato nel 1952 la
rubrica settimanale “La vetrina dei libri”, ospitando
peraltro anche altri suoi articoli. I tempi però cambiavano
in fretta e i gusti in campo letterario si stavano
modificando, anche per l’irrompere sulla scena nazionale
82
all’inizio degli anni Sessanta della neoavanguardia alla
quale, diversamente da altri e pur essendo anch’egli un
poeta in qualche modo sperimentale, Ghiglione non si
accodò ed anzi nel 1967 ripubblicò, in edizione riveduta, i
Canti civili ; ma l’anno dopo, a soddisfare l’esigenza di
rinnovamento anche nell’informazione, al vecchio
Cavassa alla direzione del “Secolo XIX” subentrò un
nuovo direttore, Piero Ottone, che in breve sostituì gran
parte dei precedenti collaboratori, tra i quali Ghiglione
che, vivendo fino ad allora dei proventi del suo lavoro
giornalistico, si trovò ad un tratto in una difficilissima
condizione, ma che, soprattutto, cominciò a vivere la
pesante condizione dell’emarginato e dell’escluso
(sebbene altri quotidiani genovesi, dal “Corriere
Mercantile” al “Giornale” al “Lavoro”, lo accettassero
come collaboratore); e l’emarginazione di Ghiglione
aumentò nei due decenni successivi anche perché il ritorno
di Edoardo Sanguineti a Genova alla metà degli anni
Settanta per insegnarvi Letteratura Italiana all’Università
aveva determinato una sua indiscutibile egemonia (e dei
suoi orientamenti sperimentali) nell’ambito delle
manifestazioni pubbliche sulla poesia. Beninteso, non che
l’autore di Laborintus fosse in prima persona responsabile
di scelte o di esclusioni (anche perché eletto consigliere
nel Comune di Genova nel 1976 non fu affidato a lui,
come forse supponeva, l’assessorato alla cultura), ma
quanti avevano questa responsabilità raramente si
sottraevano dal seguire i modelli del far poesia indicati da
Sanguineti. Ricordo lo sdegno di Ghiglione nel leggere i
manifesti di un grande convegno internazionale di poesia
organizzato a Genova negli anni Ottanta dalle istituzioni
pubbliche nel quale il suo nome non compariva: ma già
nella sua poesia Genova, uscita sulla “Fiera Letteraria” il
19 maggio 1957, aveva scritto negli ultimi tre versi:
83
“Genova antica, con la stecca alla persiana / all’insù, usa a
dannare gente di lettere: / arenile di sembianze domestiche
e di fatti”. Ma questa condizione di escluso in casa propria
non impedì a Ghiglione di continuare a scrivere poesie,
molte sullo sport e in particolare il ciclismo, raccolte nel
volumetto postumo Lunarietto sportivo52
, vivendo
appartato e povero negli ultimi anni della sua vita.
Non diversa fu la sorte di Adriano Guerrini, autore
apprezzato da Caproni sin dalla sua raccolta d’esordio del
1957 intitolata L’adolescente e poi soprattutto nella
successiva del 1959 L’età di ferro che, osservava l’autore
del Seme del piangere, “mostra un poeta maturo, dalla
voce virilmente ferma, nel quale le rovine della guerra
hanno lasciato l’ombra di una profonda disperazione,
sostenuta tuttavia da un concetto quasi stoico della vita”.
Oltre che poeta Guerrini era molto altro, a cominciare dal
suo ruolo di professore che nel 1971 gli aveva dettato il
pamphlet intitolato La rivoluzione al liceo che, per non
aver sposato la linea populista e protestataria del PCI,
venne contestato e censurato dalla sua stessa casa editrice
La Nuova Italia; e oltre a questo impegno pedagogico
Guerrini era anche un convito organizzatore culturale,
tanto da dar vita a due importanti periodici: il bimestrale
“Diogene”, fondato nel 1959 e vissuto fino al 1969, e
“Resine”, avviato nel 1972 e tutt’ora in vita sia pure dopo
alterne vicende. Su queste pagine Guerrini spesso rivestiva
il ruolo di polemista, recuperato poi in modo convinto in
due volumetti: Polemica (1965) e Prose politiche (1976).
Il primo si collocava nel quadro del dibattito sollevato
dalla nascita del Gruppo 63 che era il bersaglio della
polemica di Guerrini che, come aveva osteggiato
52
Nicola Ghiglione, Lunarietto sportivo, a cura di Francesco De
Nicola, Genova, De Ferrari, 1993.
84
l’ermetismo per la sua oscurità (già nell’articolo giovanile
Le parole non bastano a fare poesia uscito nel novembre
1950 sul “Giornale letterario”), così ora combatteva lo
sperimentalismo ritenuto velleitario ed essenzialmente
formalista, usando anche l’arma del sarcasmo nel calarsi
nei panni del poeta sperimentale che recita alcuni suoi
principi: “Ciò che importa è l’azione di rottura, / il rinnovo
dei moduli espressivi / (se no, sembro un tardone
sprovveduto”) e ancora “Quel che importa è il linguaggio.
/ Primum: sperimentare. / E morte al personaggio. / Zero e
neurologia: / questa è la poesia”. E dalla polemica con il
Gruppo 63 a quella con Sanguineti il passo era breve e
quasi obbligato; anch’egli, come Ghiglione, avvertiva la
sua presenza dominante, anche se non sempre materiale e
quasi sempre rappresentata da suoi epigoni, sulla vita
culturale della sua città che spesso non si accorgeva del
lavoro di Guerrini svolto anche come anima dei periodici
da lui (con altri intellettuali laici) fondati che anche
offrivano l’occasione, con le relative edizioncine, a
giovani poeti per farsi conoscere. E la polemica passò dal
piano del dibattito a quello della sua trasposizione in versi,
avendo un suo testo emblematico nella poesia intitolata
proprio A Edoardo Sanguineti scritta nell’ottobre del 1976
in occasione delle celebrazioni per gli ottant’anni di
Montale: “E’ giusto che l’angoscia d’Arsenio ora ti sembri
/ non quella dell’esistere, ma quella del borghese, / e che
da lui, non chierico rosso o nero, tu senta / d’essere offeso,
tu, chierico miope, e lo dica, / e che t’irriti Arsenio letto
ormai nelle scuole; / tu daresti ai ragazzi solo un breviario
di Mao”. La polemica proseguirà ancora in diverse
occasioni, sia in prosa, sia in versi di talora viscerale
anticomunismo, che certo non sono i migliori di Guerrini,
da ricercarsi invece nelle poesie segnate dal timore
dell’approssimarsi al baratro della fine della civiltà, ora
85
che viviamo in un’età di ferro ed è finito per sempre il
tempo dell’ “antica cortesia”. E in ogni caso, come per
Ghiglione anche per Guerrini, gli anni conclusivi della
loro vita a Genova era stata una continua (e spesso
perdente) lotta per non essere schiacciati dalla
prevaricante moda sperimentale.
87
DALLA BEAT GENERATION
ALLA DIGITAL DEGENERATION
di Mauro Macario
Solo adesso che il tempo utile dell’esistenza –utile a
farne qualcosa- stringe il suo cerchio a ridosso del
tramonto, torna a indorarci e ancora ci abbaglia la lucida
memoria dell’adolescenza dove si estendeva a perdita
d’occhio la terra promessa, una terra fresata e inseminata
di scoperte nascenti, di sogni esaltanti, di utopie sublimi.
Se poi l’adolescenza coincide con una fase epocale
dalle peculiarità uniche e irripetibili come quella degli
anni Sessanta, a mio avviso la più luminosa e struggente,
la più ricca di pulsioni umanistiche, dal dopoguerra a oggi,
ecco che quella età formativa, quella spugna assetata di
conoscenza, di innovazioni, di rivoluzioni, di poesia
multiforme, timbrerà per sempre la vita di quella
generazione, la condizionerà nelle scelte etiche, negli
imperativi morali, negli schieramenti ideologici, nelle
vocazioni artistiche, nell’ascesa e nella caduta di ogni
tensione onirica.
In quegli otto anni che vanno dal 1960 al 1968 è
accaduto tutto. La carne tenera della coscienza
adolescenziale come un tessuto assorbente s’è impregnata
di tutte le emanazioni e le trasformazioni metamorfiche di
un contesto socio-storico che assunse poi le caratteristiche
di un vero e proprio cambiamento epocale, di un
cataclisma poetico e catartico, creando la generazione
“contro”, la generazione utopica, la generazione che
credeva nell’altrove. L’altrove di Rimbaud.
Furono molti i richiami che ci fecero voltare la testa ai
quattro punti cardinali dove si trovava “la fantasia al
potere”: il rock, il movimento beat, tra musica e
88
letteratura, quello hippy, tra misticismo e nuovo
tribalismo, i poeti in musica cioè i cantautori, i poeti
letterari, i filosofi anarchici, i guerriglieri marxisti, la
rivolta del maggio francese: richiami diversi tra loro,
eppure sotterraneamente collegati da una visione sociale
destrutturata, reinventata, e unificante, da condividere tra
contest-azione e cultura antiaccademica, anzi cultura
underground, per dichiarare ogni arte non inferiore
all’altra, per volerla nelle strade tra le masse giovanili, per
affermare il valore estetico di ogni prodotto artistico nel
suo specifico, per abolire il classismo intellettuale
discriminante esistente allora e resistente oggi all’interno
dei pascoli creativi, per restituire priorità contenutistica
all’opera artistica come dovere morale dell’autore davanti
alla realtà sociale e politica planetaria.
Dunque scardinare le convenzioni borghesi, lottare
contro le istituzioni repressive, rifiutare l’intero Sistema,
“senza mai perdere la propria tenerezza”. Ma procediamo
per strati.
Alla fine degli anni Cinquanta, l’Italia del dopoguerra
aveva terminato l’opera di ricostruzione post-bellica,
impostandola su canoni di produttività dettati dalla civiltà
industriale e dal consumismo con il sostegno della politica
e del clero, così la rinnovata triade Dio Patria Famiglia
tornò in scena, mascherata di democrazia e benessere, a
rimettere in funzione i vecchi collaudati meccanismi dei
riferimenti nazional-popolari tra potere e massa.
Ma fin dai primi anni Sessanta, una generazione
inquieta e bisognosa di sogni, in crisi di rigetto con il
pragmatismo capitalistico dell’establishment filo-
americano in continua espansione al di qua dell’oceano,
stava per aggregarsi in tutti gli angoli del mondo seguendo
la percezione magica di un accordo universale; flussi
inestinguibili di giovani si interscambiavano di paese in
89
paese, affratellandosi, solidarizzando tra loro attraverso
una consanguineità spontanea ed elettiva. Il primo Big
Bang, il punto sorgivo primordiale, fu il rock che a tutto
questo fece da miccia ma che si rivelò essere subito un
ordigno antiborghese, la cui forza dirompente provocò
l’insanabile rottura dei giovani con l’autorità famigliare.
Ma fu soprattutto la beat generation, a creare questo
miracolo laico di fratellanza basato su comuni intenti
utopici e uno stile di vita on the road, “sulla strada”, intesa
come viaggio permanente in altre culture e all’interno del
sé, rifiutando i criteri convenzionali che prevedono il
concetto di progettualità e relative tappe esistenziali già
codificate, addirittura obbligate, come non ci fosse
un’alternativa felicemente improduttiva da scegliere e
poter perseguire.
Il movimento beat nacque e dilagò nel mondo per via
naturale come la crescita dell’erba o il passaggio delle
nubi. Antinuclearista, antimilitarista, pacifista, fece da
contro/canto alla guerra del Vietnam, ad ogni guerra
esistente sul pianeta, al terrore atomico. Milioni di giovani
stesi sul selciato nei sit-in di protesta, milioni di
manganelli ligi al dovere di massacrarli.
Naturalmente da noi arrivarono i simulacri più popolari
del beat: i complessi musicali con le loro canzoni che
sebbene commerciali avevano comunque la capacità di
sostenere un clima, una tematica, un’atmosfera, differenti
com’erano nei testi da quelle che solo poco tempo prima
gorgheggiavano in televisione. I grandi, tanto per
ricordarli, erano Bob Dylan, Joan Baez, Donovan.
Ma il beat fu prima ancora un movimento letterario già
vivo alla fine degli anni ’40. A noi fornì gli strumenti di
indagine Fernanda Pivano che fu la sola a importare
dall’America gli autori di quella corrente e ancora oggi
molti di noi continuano a nutrire verso “Nanda” una
90
profonda gratitudine e una autentica venerazione. Saggista
outsider, già allieva di Pavese, operò sempre “in direzione
ostinata e contraria” come cantava Fabrizio De André per
il quale curò la versione musicale di “Spoon river” di
Edgar Lee Masters: un vero capolavoro.
Dunque anteponiamo per un attimo alle gaudenti e
sfrenate serate degli anni Sessanta dove si consumava la
giusta voglia di vivere tra spiagge assolate, locali da ballo,
e corse azzardate su spyder lanciate oltre i limiti del buon
senso, anteponiamo le serate molto diverse che vivevamo
noi, l’altra faccia di quegli anni, quando fuggivamo il
chiasso e una ludica superficialità, ritirandoci in collina,
mirando il mare dall’alto, le lucine tremolanti, col
sottofondo di una musica che ci giungeva flebile, attutita
dalla distanza. Lì sì che parlando di Kerouac, di
Ferlinghetti, di Corso, o recitando i versi di Howl di Allen
Ginsberg, genio del ‘900, ci lasciavamo andare a
un’esaltazione mai provata, come visionari dilettanti senza
freni, facili prede di una smania inconfessabile di volerci
ritrovare poeti all’indomani… Adesso tutto questo ha un
sapore quasi commovente ma si vorrebbe ritrovarla quella
passione, anche se infantile, quel senso del sogno… anche
se decaduto, quando si pensava che i poeti avessero tanto
pubblico quanto le rockstars e che la poesia fosse in grado
di cambiare il mondo, come voleva Rimbaud… Ginsberg
operava una tale scomposizione del verso, un
accoltellamento delle strofe che dagli squarci ogni regola
ortodossa defluiva come un’emorragia inarrestabile, direi
un salasso benefico e letterariamente terapeutico… Nelle
notti estive ci pareva di assistere a uno spettacolo
pirotecnico ma non erano i fuochi artificiali a illuminare
l’oscurità, erano i versi di Ginsberg, le sue visioni come le
visoni degli indiani d’America a digiuno sulla montagna,
le sue rabbie politiche, la sua disperazione esistenziale, le
91
sue angosce metropolitane, erano quei versi a creare
l’arcobaleno psichedelico delle nostre folli notti di ragazzi
solitari e confusi.
A quel tempo eravamo assediati da tanti richiami ma
erano assedi d’amore, travasi straripanti di poesia, la
poesia ci colava addosso, nell’anima, nei calzini, fuori
dalle orecchie, in fondo agli occhi. Nel trambusto
assordante del rock e del beat all’improvviso si fecero
avanti voci più delicate, musiche più melodiose, testi più
intimisti: erano i cantautori italiani che qui chiamerò poeti
in musica. Gino Paoli, Luigi Tenco, Umberto Bindi,
Fabrizio De André, Bruno Lauzi, la cosiddetta “scuola
genovese” (senza dimenticare Piero Ciampi e Sergio
Endrigo) s’infiltrò nella nostra fragile ma intensa
sensibilità ricettiva creando un’identificazione empatica
che ci guidò nell’intricata foresta dei sensi amorosi
decriptandoli, rivestendoli d’incanto e di lirismo ma di un
incanto e di un lirismo asciutto e moderno senza fronzoli
né sospiri melò. Come il beat ci indusse a essere partecipi
degli eventi sociali del mondo e ad accogliere i giovani
nomadi che quel mondo lo percorrevano ad ogni
latitudine, scambiando informazioni, suggellando amicizie
transnazionali, così i poeti in musica ci portarono dentro il
mondo dei sentimenti privati, individuali, diventando gli
osservatori dei nostri primi incerti diagrammi ghiandolari,
equivocati per amori assoluti, i confessori segreti, i fratelli
maggiori, addirittura i genitori che avremmo voluto avere.
Come può oggi un poeta che tanto li ha amati da ragazzo e
da adulto e che continua ad amarli da vecchio, svilirli o
contrapporsi o denigrarli come molti fanno? Li
ascoltavamo con lo stesso coinvolgimento, lo stesso
struggimento che provavamo nel leggere le poesie di
Pavese, di Cardarelli, di Prevert… Eravamo una spugna
92
imbevuta di sogni… l’età della terra promessa… Se i poeti
letterari avessero risposto alle istanze interiori e sociali di
quella massa giovanile che chiedeva poesia e impegno, se
avessero partecipato a quella grande festa di vita, se
fossero stati capaci di creare una Woodstock poetica
invece di ritirarsi su un trespolo elitario guardando la
plebaglia con sprezzo aristocratico, non ci troveremmo
oggi a contarci in una nicchia sempre più ristretta, sempre
più vicina al rischio d’estinzione, in ogni caso meno
dolorosa del non essere ascoltati. Voglio ricordare che la
poesia in musica nacque a Parigi alla fine degli
anni’40…Un artista su tutti ne fu l’immaginifico fautore:
Léo Ferré.
Il destino mi offrì più tardi il privilegio di essergli
amico devoto negli ultimi dieci anni della sua vita e devo a
lui, al suo magico ascendente, se mi sono dedicato
totalmente alla poesia in questi venticinque anni di
creatività ininterrotta. Ferré, in quelle caves parigine,
anguste e fumose, aprì la via alla poesia in musica, seguito
da Georges Brassens, Jacques Brel, Juliette Greco,
Patachou, Barbara, Moustaki, Mouloudji…Non solo i suoi
testi rappresentavano di per sé una forma letteraria
qualitativamente alta a tal punto che Ferré oggi figura nel
Petit Larousse insieme ai più grandi poeti francesi del
‘900, ma il Maestro si spinse oltre e musicò e cantò
Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Apollinaire, Aragon,
Villon, Pavese, e Angiolieri. Un’operazione sublime e
coraggiosa che non ha eguali al mondo. Louis Aragon
proclamò: “ bisognerà riscrivere la storia della letteratura a
causa di Léo Ferré ”. E i letterati che frequentavano e
sostenevano con entusiasmo quegli artisti si chiamavano
Jean Paul Sartre, Albert Camus, André Breton, Simone De
Beauvoir, Jacques Prevert, Boris Vian…
93
I nostri cantautori, i poeti in musica, arrivarono circa
dieci anni dopo ma, ebbero dei “padri” di tutto rispetto,
delle fonti ispiratrici nobili e altissime che hanno dato
tanta poesia agli uomini.
Certo, se vogliamo circoscrivere la poesia al puro gesto
di scrittura su un foglio, allora chi canta non è un poeta.
Mi piace però pensare che sia la poesia ad
autodeterminarsi dove e quando vuole, come un’entità
indipendente che sceglie ogni volta la forma in cui
apparire: una volta sulla carta, un’altra volta attraverso la
macchina da presa di un regista, o sulla tela di un pittore, o
infine in una canzone d’autore. Non è il genere che la
determina, ma il tipo d’artista. Non ci sono arti maggiori o
arti minori, ma artisti maggiori e artisti minori.
Ma terminiamo la nostra breve incursione sugli anni
Sessanta. Dopo il rock, il beat, i poeti in musica, ecco che
arrivarono gli hippies, i figli dei fiori, costola transfuga del
beat ma con tendenze più misticheggianti, con uno
spiccato senso tribale a tal punto da formare “la comune
hippie”, l’abbandono della città e della civiltà,
organizzandosi in “famiglie allargate”, coltivando nei
campi il cibo per la sussistenza alimentare, sperimentando
in pratica la possibilità di sopravvivere senza cedere
all’integrazione forzata nel Sistema. Una forma di
condominio anarcopacifista alleggerita e sublimata dalla
sua inclinazione verso le dottrine filosofiche indiane e
orientali in genere e da una sessualità collettiva condivisa
all’interno della comunità stessa.
Ma è un’ultima trincea nel deserto. Siamo arrivati al
’68 dove le “istanze sociali ghandiane” espresse in libertà,
pacificamente, fuori da contesti teorici, vengono
risucchiate dalle ideologie marxiste che spazzano tutti quei
fenomeni giovanili precedenti dando il via alla rivolta di
maggio a Parigi e nel mondo. Il mondo prende fuoco ma
94
forse, al di là degli anni, sulle ceneri di quel falò utopico, è
proprio la cultura beat a resistere nel tempo, a significarsi
nella storia, grazie ai suoi scrittori, alla sua poesia, cantata
o scritta che sia. Dunque la nostra adolescenza, la
dinamica formativa di quell’età meravigliosa, s’è nutrita di
utopie, del senso del sogno, di poesia, dell’impeto
rivoluzionario . I miti d’allora erano miti artistici,
filosofici, politici. Li abbiamo seguiti come fossimo stati
generati da loro, da loro venuti alla luce per la seconda
volta.
Che dire dunque quando dalla beat generation della
nostra giovinezza ci siamo trovati, molti anni dopo, da
adulti, da vecchi, davanti alla digital degeneration? Che
dire nel vedere quei miti sostituiti da altri miti, i nostri
bersagli d’allora divenuti, al contrario, semidei idolatrati :
manager, aziendalisti, imprenditori, tecnocrati ?
L’involuzione antropologica spacca la bottiglia di
champagne allo scoccare degli anni Ottanta, quando il
Titanic umanistico inizia la sua tragica traversata
giungendo in pezzi ai giorni nostri, affondando nel mare
gelato e necrotico della cancellazione mnemonica ogni
volta che ci si dimentica di un autore d’appartenenza, ogni
volta che un arrembaggio corsaro neoliberista o
ipertecnologico trascina sul fondo dell’oblio i nostri padri,
la nostra identità culturale: Pavese, Vittorini, Fenoglio,
Soffici, Papini, Bobbio, Sbarbaro, Montale, Ungaretti,
Piovene, Pratolini, Pasolini, Morante, Lalla Romano, e
tanti tanti altri…
Domandate alla digital degeneration chi sono questi
padri appena citati, solo il pesante e agonico silenzio
d’occidente vi risponderà con eloquenza cimiteriale e
s’archivia s’archivia, verso su verso, riga dopo riga, come
in una necropoli museale. Una generazione seppellisce
l’altra e ricopre i nostri padri sotto un cumulo cartaceo
95
come sotto lenzuola di marmo. Le lotte d’allora, le utopie
lontane vengono schernite o addirittura demonizzate. Il
cordone ombelicale con il nostro più recente passato è
stato tagliato e gli ultimi umanisti vagano sospesi nel buio
epocale come astronauti fuori dall’abitacolo nell’oscurità
siderale dell’universo. Il trapianto globale è riuscito
perfettamente, la grande protesi è stata applicata
sostituendo i soggetti con gli oggetti. Oh si, l’uomo nuovo
è davvero nato ma non ha le caratteristiche che
auspicavamo, un uomo senza consapevolezza del passato
è un uomo – cicala, un organismo usa e getta fatto in
laboratorio e asservito a un sistema globale onnivoro e
mandibolare destinato a morire per anemia onirica. Ma il
danno non è solo nell’aver creato e nel continuare ad
alimentare i barbari del nuovo analfabetismo, il danno è
più profondo, più irreversibile. Il danno finale è di aver
rarefatto i sentimenti e i valori morali, di averli
desertificati a tal punto di averli espropriati dal DNA
collettivo, di aver leso il nucleo intimo dell’individuo,
desensibilizzandolo come in un’anestesia mondializzata.
Alcuni decenni fa Pasolini disse: “Credo nel progresso,
non credo nello sviluppo”. Nel 1965 il regista Jean-Luc
Godard realizzò un bellissimo film, altrettanto profetico,
intitolato Missione Alphaville che narrava l’avventura di
un agente segreto in missione sul pianeta Alphaville dove
uno scienziato –simbolo del potere assoluto- domina
l’intera società disumanizzandola, togliendo la capacità
alla gente di percepire e vivere i sentimenti, e rendendola
così asservita a un tirannico regime tecnologico. Tutti i
personaggi della storia vengono spogliati d’ogni umana
pulsione. L’agente Lemmy Caution, s’innamorerà di una
ragazza anch’essa inconsapevole della azione snaturante
subita e incapace di ricambiarlo. Quando, alla fine del
film, l’uomo riesce a strappare la ragazza ai suoi
96
sorveglianti e a fuggire con lei da Alphaville, la ritroviamo
all’interno della macchina mentre tiene tra le mani il libro
di Paul Eluard Capitale del dolore che Lemmy Caution gli
ha rifilato come ultima speranza. Solo attraverso la poesia
lei riuscirà a dire: “ io ti amo”.
Non so se sarà la poesia a salvarci, so che da Alphaville
dobbiamo tutti scappare.
97
UN’ANTOLOGIA NECESSARIA (Con il fuoco del sangue. 32 poeti colombiani d’oggi)
di Emilio Coco
Si dice da più parti che la Colombia è un paese di poeti,
come si afferma che il festival di poesia di Medellín è il
più importante del mondo. Ma quanto conosciamo di
quella poesia in Italia? Niente o quasi. A parte le poche
notizie di poeti colombiani apparse in riviste on-line o le
rare ma pregevoli traduzioni di qualche autore per conto di
piccole case editrici le cui pubblicazioni sono introvabili
anche nelle grandi librerie, non esiste in Italia un lavoro di
un certo spessore che ci informi sulla realtà poetica
contemporanea di questo meraviglioso paese
sudamericano noto, ahimè, in Italia soprattutto per i
numerosi casi di violenza e per i famigerati cartelli della
droga.
Un luogo comune che si sente ripetere spesso è che in
questa nazione si parla il migliore castigliano
dell’America latina per la sua pronuncia e la sua fedeltà al
senso originale della parola. Un’altra asserzione tipica è
che la poesia che si scrive in Colombia è superiore a
quella messicana o a quella di qualsiasi altro paese di quel
continente. Se il lettore curioso vuole verificare di persona
la veridicità di questa rivendicazione, ha a disposizione
un’ampia scelta di poeti messicani nell’antologia da me
curata tre anni fa presso lo stesso editore, dal titolo Dalla
parola antica alla parola nuova. Ventidue poeti messicani
d’oggi.
Mettendo da parte futili polemiche e contese, io penso,
anzi sono convinto, che la poesia che si scrive oggi in
America latina è la migliore del mondo e sto cercando di
dimostrarlo attraverso i diversi florilegi che sono venuto
98
compilando, a partire dal 2008, di poeti argentini,
ecuadoriani, nicaraguensi, della repubblica dominicana,
messicani fino a quest’ultimo di poeti colombiani che il
lettore ha adesso tra le mani, per non parlare delle
numerose altre pubblicazioni in libri o in riviste di poeti
cileni, peruviani, uruguaiani, paraguaiani, cubani,
salvadoregni, costaricani, boliviani, guatemaltechi,
venezuelani.
Il mio interesse per la poesia sudamericana ha preso
definitivamente corpo a partire dal 2008, anche se negli
anni precedenti c’era stata qualche breve incursione
attraverso traduzioni di poeti che avevo conosciuto in
festival di poesia spagnoli. Menziono per tutti il poeta
peruviano Arturo Corcuera. Ricordo con viva emozione il
mio primo viaggio in Messico, nell’ottobre del 2008,
quando fui invitato al “Festival de Poesía del Mundo
Latino”. Visitai, insieme ad altri poeti colombiani,
peruviani, cileni, cubani, uruguaiani e soprattutto
messicani, le splendide località di Morelia e Pátzcuaro e
m’immersi nell’illimitata e caotica Città del Messico. Qui
mi ha onorato della sua amicizia il grande Juan Gelman,
suggellandola con un abbraccio soffocante. Qui, sulla
scalinata del monumentale Palacio de Bellas Artes, mi
sono confuso nell’accalcarsi dei poeti abbagliati dai flash
della macchina fotografica dell’instancabile e generoso
José Ángel Leyva. Non ho visto mai tanto interesse e
amore per la poesia nella gente comune come in Messico.
A Morelia, nello splendido teatro cittadino, gremito fino
all’inverosimile, scrosciavano applausi entusiastici per i
poeti che si avvicendavano sul palcoscenico come se si
trattasse di grandi divi del cinema, della canzone o dello
sport. Qui mi sono visto avvicinare, all’uscita del teatro, la
sera della mia lettura poetica, da due fidanzatini che, con
voce rotta dall’emozione, mi chiesero un autografo,
99
professandosi miei fans e facendomi omaggio del libro di
un poeta locale. Mi commossi fino alle lacrime e li strinsi
entrambi in un solo abbraccio. Nella stanza dell’albergo,
sfogliando il libro, trovai un bigliettino con queste parole:
“Gracias por escribir palabras que vuelven más sensibles
a las almas de este mundo. Natalia y Adal. Morelia,
Michoacán, 2008”. Potevano avere sedici anni. Qui ho
conosciuto Marco Antonio Campos che accompagnava la
lettura dei testi suoi e di altri poeti col gesto lento e
delicato della mano quasi a sottolinearne l’intensa
musicalità. Qui ho stretto amicizia con i poeti colombiani
Juan Manuel Roca e Jotamario Arbeláez.
Appena tornato in Italia, dopo quella mia prima
indimenticabile esperienza, proposi alcuni testi di questi
tre poeti al direttore della rivista Pagine. Vincenzo Ananìa,
un altro grande e generoso amico che ci ha lasciati
qualche anno fa, rimase completamente affascinato da
quella poesia che trovò impetuosamente fresca, agile,
genuina, non viziata, come spesso quella italiana, da uno
sterile e narcisistico esibizionismo linguistico. Non mi
accade spesso di fare scoperte felici che mi compensino
della lunga e paziente fatica di ricerca tra le molte decine
di volumi che giorno dopo giorno aumentano le pile di
libri sulla mia scrivania. E quando capita, mi prende
gratitudine, come per un dono caro e inaspettato. E il bello
è che spesso queste consolanti illuminazioni mi vengono
non tanto dalle sillogi di poeti italiani, che pure leggo e
faccio conoscere all’estero attraverso le mie traduzioni,
quanto da testi di autori latino-americani spesso malnoti o
completamente sconosciuti in Italia e che stanno
scrivendo, a mio parere, una poesia che i tanti cultori di
letteratura nostrana si ostinano a non tenere in debito
conto.
È così che, dopo più di trent’anni dedicati alla
100
traduzione di poeti spagnoli, i miei interessi hanno
cambiato definitivamente rotta. Come dico in una poesia
di Ascoltami, Signore “... è meglio concentrarmi / su
qualche messicano / cileno o uruguaiano / da un anno a
questa parte / non m’intrigano più i castigliani”. Una
spiegazione a questo brusco cambiamento potrei darla in
questi termini: mi sono profondamente innamorato della
poesia sudamericana e l’amore, come ben si sa, richiede
una dedizione assoluta ed esclusiva. Essa mi ha succhiato
l’anima, mi ha come drogato. Non so fornire delle
motivazioni critiche a tutto ciò, anche perché, come ho
detto più volte in precedenti lavori, mi sento enormemente
a disagio nei panni del critico e lascio volentieri ad altri
questo ingrato mestiere che spesso costringe a nuotare in
un’acqua infida, melmosa, piena di trabocchetti e di
risucchi, soprattutto quando si lavora su una materia
incandescente qual è la poesia che si sta costruendo giorno
dopo giorno, non ancora sedimentata, che comporta il
pericolo della scommessa, ma anche, credo, la bellezza
della ricerca e la passione della scoperta.
Ha scritto il poeta spagnolo José Hierro: “La poesia è
magia e qualsiasi esplicitazione è come voler giustificare il
miracolo ricorrendo a procedimenti di illusionista”.
L’anno scorso sono stato invitato al festival
internazionale di poesia “Las líneas de su mano” che si è
svolto in Colombia, a Bogotá dal 2 al 6 settembre. In
questo paese, l’amabilità della gente è una distinzione
culturale. Il sorriso è spontaneo, l’abbraccio, avvolgente.
In Europa e in Italia, queste forme di comunicare le
abbiamo perse da tempo. E io questa gentilezza, questa
gioia di conversare con l’amico, quest’intimità di persone
che si sono appena conosciute ma che si comportano come
se si frequentassero da anni, l’ho vissuta pienamente in
101
quei pochi giorni trascorsi nella capitale colombiana. Da
quell’esperienza è nata l’idea di fissare sulla carta alcune
delle voci ascoltate nell’accogliente spazio del Gimnasio
Moderno insieme ad altre che sono andato scoprendo
grazie anche all’aiuto di vecchi e nuovi amici.
Al di là delle proposizioni dottrinarie, mi preme qui
sottolineare l’ambizione di questo lavoro. Esso in primo
luogo vuole offrire al lettore italiano la possibilità di
avvicinarsi a una poesia poco nota da noi e partire da lì per
ampliarne e approfondirne, qualora ne abbia voglia, la
conoscenza. In secondo luogo essa ha costituito per me
l’occasione di un rinnovato incontro con alcuni nomi
consacrati che avevo già avuto modo di apprezzare e che
si pongono, grazie alla loro forza e originalità creativa,
come modelli insostituibili del fare poesia. E accanto ad
essi altre voci, voci di poeti giovani e meno giovani che
reclamano giustamente il loro spazio di attenzione. La mia
è stata una lettura appassionante, persino entusiasmante.
Alla fine ho dovuto scegliere: trentadue poeti. Una scelta
condizionata soprattutto dal mio gusto personale, dalle mie
particolari convinzioni. Ogni antologista dovrebbe
ammettere onestamente che in ogni sua operazione c’è
una buona dose di soggettività. È in errore chi pretende di
aver scelto tra quanto vi è di più rappresentativo o di più
consolidato, senza lasciarsi influenzare dalle sue
preferenze, dalla sua personale “poetica”. Ma è soprattutto
in malafede chi non fa una scelta di qualità. In base ad
essa deve esprimere sempre il proprio consenso o il
proprio rifiuto.
Un altro punto che mi sta a cuore rimarcare è che non si
tratta di un’antologia nel senso tradizionale della parola.
Non è una storia, un resoconto più o meno esaustivo e
fedele di quello che è successo in Colombia in questi
ultimi decenni nel campo poetico. Non informa sulle
102
estetiche, le tendenze più forti, le varie generazioni. Di
simili storie, coniugate in formule diverse, ne circolano o
ne sono circolate abbastanza, alcune buone, altre meno
buone. Questa “antologia” è una resistenza alla tentazione
di catalogare, etichettare, produrre canoni per quanto la
pensino diversamente certi critici che giocano ad eliminare
o a includere nomi a seconda che rientrino o meno nei loro
schemi precostituiti. La lettura, per essere tale, deve essere
libera, plurale, e più che azzardare inquadramenti e
gabbie, è preferibile presentare i poeti in carne viva,
ciascuno con la propria esasperata vitalità e individualità,
con la sua voce inconfondibile.
Trentadue poeti viventi, dunque, la cui produzione
letteraria occupa un arco di tempo di poco più di
cinquant’anni se si considera la pubblicazione delle prime
poesie di Jaime Jaramillo Escobar (il più anziano dei poeti
presenti), pubblicate da Gonzalo Arango nell’antologia 13
poetas nadaístas (1963) e l’ultimo lavoro del più giovane
dei poeti, Luis Arturo Restrepo, uscito nel 2014, dal titolo
En el fuego, la mirada. Penso che sia un numero
sufficiente per un primo approccio alla poesia colombiana
di oggi. E’ questa un’antologia che si caratterizza per la
sua totale apertura e dispersione di voci. Lo scrittore (in
questo caso il poeta) è un solitario che si rivolge a un altro
solitario (il lettore), alla ricerca di un interlocutore con cui
condividere il suo mondo e le sue preoccupazioni. Per
quanto vasta e ambiziosa possa essere un’antologia (e
questa non lo è) resta sempre e comunque un’opera
frammentaria, una scelta di nomi. Nel 1997 Rogelio
Echavarría selezionò 219 poeti del XX secolo per la sua
Antología de la poesía colombiana, commissionatagli dal
Ministero della Cultura. E sono sicuro che anche in essa
mancavano dei nomi. La forza dell’antologista sta proprio
103
nella precarietà delle sue scelte. Il poeta messicano José
Ángel Leyva ricorda il caso emblematico di Volodia
Teitelboim che a diciannove anni si lanciò nell’avventura
di classificare i grandi poeti cileni, escludendo
olimpicamente Gabriela Mistral che poi avrebbe dato al
suo paese e all’America latina il primo premio Nobel di
letteratura nel 1945. Volodia si sarebbe portato addosso
fino ai suoi ultimi anni di vita il peso di quella decisione
viscerale o della sua giovanile ignoranza.
Forse i margini di errore sarebbero stati più ristretti se
avessi optato per un’antologia tematica, di quelle sulle più
belle poesie d’amore, sul padre, sulla madre, sul
paesaggio, sulla donna, sulla violenza, sull’eros, ma in
questo modo ne avrebbe sofferto il probabile lettore in
quanto gli si sarebbe propinata una visione a dir poco
parziale della realtà poetica di quel paese. O forse ancora
un’antologia ideale potrebbe sembrare quella
generazionale, che prende in considerazione gruppi ben
definiti, movimenti, estetiche. Ma anche qui i gruppi di
poeti sono più espressione di un corporativismo mafioso,
di un’associazione di mutuo soccorso che di un’identità
estetica. Poeti che si aggruppano lo fanno spesso per
sentirsi sicuri e protetti anche se diversi sono i loro esiti
stilistici e le loro dinamiche. D’altro canto non va
sottaciuto il fatto che in questo tipo di antologie si ripetono
in continuazione le stesse poesie e gli stessi nomi che
acquistano visibilità proprio grazie a simili operazioni.
Basta dare uno sguardo alle varie antologie pubblicate in
questi ultimi anni in Italia per avere una conferma di
quanto ho appena detto.
Dicevo prima che questo mio lavoro prende in
considerazione l’opera di trentadue poeti che si sono posti
in luce in varia misura e con una varia validità di risultati,
104
ma comunque sempre con un loro peso e con una loro
significazione, nell’ultimo cinquantennio. Sono stati anni
contrassegnati da una violenza inaudita a tutti i livelli che
ha fatto dire a qualcuno che la “democrazia” colombiana
ha causato più morti di qualsiasi altra dittatura degli altri
paesi sudamericani. Come scrive Luis Eduardo Celis “la
violenza dei narcotrafficanti, dei possidenti terrieri e delle
élite regionali che confluirono nel paramilitarismo degli
anni ‘90, rese possibile la più grande operazione di
distorsione della democrazia, attraverso il controllo delle
istituzioni statali a tutti i livelli”, a cui bisogna aggiungere
una nuova forma di violenza messa in atto dalla sinistra
armata in varie operazioni di guerriglia.
Di questa terribile realtà si trovano riferimenti più o
meno espliciti in più di un poeta. Si legga La estatua de
bronce di Juan Manuel Roca, o la poesia I morti di
Guillermo Martínez González, i quali “spuntavano per
strada col volto / di spavento alterato dalle mosche” o che
“scendevano in paese in groppa alle mule / sospesi come
animali da sacrificio”, mentre la violenza “passeggiava col
suo tamburo / di mezzanotte nei villaggi”. Migliaia di
morti e migliaia di scomparsi sui quali cala una cappa di
silenzio quasi obbligata nella “maligna” Bogotá su cui
brillano inutili le stelle del cielo, con i “suoi crimini
nascosti e i suoi giovani assassini / che cospirano nei bar”.
Ma è nei testi di Horacio Benavides dove il clima di
violenza è maggiormente palpabile e dove la morte aleggia
dappertutto, impregna l’aria e imbeve il paesaggio. È tutto
un susseguirsi di orride visioni di cadaveri e monconi di
corpi che galleggiano nei fiumi e che trasformano la
frescura dell’acqua chiarissima in un nero specchio di
morte. E sentiamo il bramire del mostro scuro, le grida
dei torturati e lo sguazzare dei caimani nel pozzo che si
contendono i cadaveri, le grida di spavento mentre la notte
105
scende sopra i morti orfani e gli assassini dormono
ubriachi sulle tavole nelle osterie, e ci sediamo insieme al
contadino su una panchina del parco dove aspetta invano i
suoi figli perché nessuno è mai tornato. Il poeta descrive
tutto ciò con una lievità di tocco e semplicità di
linguaggio, quasi fosse una favola brutta, con la piccola
speranza che tutto questo finisca un giorno e il mare possa
lavare tanto orrore e si ritorni a correre sulla spiaggia,
ruzzando con la gioia che si radica nei corpi distesi al sole
“brillanti e robusti come leoni marini”.
Di fronte a tanta terribile virulenza sociale, come
reagiscono i poeti? Essi vivono e soffrono il loro tempo
tormentato e inquieto, e la loro poesia, in più di un caso,
ha dato prova di un elevato spirito civico. È presente in
molti di loro un forte sentimento di speranza e
determinazione di costruire la pace, non con la forza delle
armi, ma con quella dell’intelligenza e delle parole. Ma è
anche vero che nessuno può suggerire i temi al poeta. La
vecchia idea romantica che la poesia possa cambiare il
mondo è da tempo che è entrata in crisi. Il poeta
messicano Marco Antonio Campos scrive dei versi
illuminanti a tal proposito. Nella poesia “Dichiarazione
d’inizio” possiamo leggere affermazioni devastanti come
queste: “La poesia non cambia / se non la forma di una
pagina, l’emozione, / una meditazione già scontata. / Ma,
in concreto, signori, niente cambia. / In concreto, cristiani,
/ non cambia una croce a nuovi monti, / non estirpa,
tedeschi, / la vergogna di un tempo e della sua crisi, / non
toglie, marxisti, / il pane dalla bocca al milionario. / La
poesia non fa niente. / E io scrivo queste pagine
sapendolo.” La forza del poeta potrebbe consistere semmai
nel denunciare, nell’indicare possibili soluzioni, ben
sapendo che tocca ai politici metterle in atto per il bene
della comunità. Ma i politici, si sa, non leggono poesia.
106
Egli è da tempo che ha smesso di essere la voce della
tribù, la voce di quelli che non possono parlare. La poesia
può solo cambiare il poeta e il possibile lettore che ad essa
si avvicina. Tutto il resto è demagogia.
Il tema della violenza, come il lettore potrà verificare,
non è l’unico presente in quest’antologia. La poesia
colombiana di questi ultimi decenni è caratterizzata da una
esplosione di voci, di forme, di estetiche, di registri, di
temi in continua ebollizione e arricchimento. Così accanto
a Jaime Jaramillo Escobar e Jotamario Arbeláez due tra i
più agguerriti rappresentanti del movimento nadaísta (una
forma di neovanguardia che nasce come risposta
all’imposizione culturale dell’accademismo), troviamo la
poesia di Juan Manuel Roca in cui la realtà più scontata si
colora di una magia onirica che ci invita a viverla come si
vive una passione. E non poteva mancare Giovanni
Quessep che ci canta la bellezza di un mondo perduto fatto
di leggende e favole, di castelli e giardini che ci tocca ed
emoziona in eguale misura nell’ambito umano e nel
dominio propriamente estetico. Juan Manuel Roca e
Giovanni Quessep sono due giganti della poesia
colombiana d’oggi, che hanno prodotto opere di altissimo
valore estetico e morale, contribuendo in maniera
determinante a definire le scelte di scrittura di tanti
giovani poeti, non disdegnando di confrontarsi con essi in
una leale e feconda competizione. Come non si può
passare sotto silenzio l’opera di un altro grande della lirica
colombiana, Darío Jaramillo con la sua poesia autoironica
che non soffre intoppi e deviazioni e opta per un
linguaggio conversato di cui si serve per narrarci la sua
esperienza d’uomo immerso nell’universo urbano; ma
sono i suoi versi d’amore, impetuosamente freschi, quelli
più conosciuti dai lettori di poesia e che hanno trovato in
107
Fabio Volo uno dei più entusiastici estimatori e diffusori.
Né si può fare a meno di ricordare la voce di Luis
Aguilera, creatore di inquietanti atmosfere di una rara
bellezza; o quella di José Luis Díaz-Granados, calda e
musicale; o la poesia di Rómulo Bustos, sottile, precisa ed
elusiva allo stesso tempo; o l’insinuante e sfavillante
erotismo di Raúl Henao, intriso di surrealismo; o ancora la
poesia di Piedad Bonnet, con la trasparenza delle sue
emozioni e dei suoi trasalimenti placati e risolti nel sereno
possesso della parola poetica, o quella di Armando
Romero, la cui vocazione narrativa ricorre a inusuali
associazioni che scombussolano gli ordini della visione
reale creando situazioni di alto potenziale poetico.
E qui mi fermo, lasciando al lettore che abbia la
pazienza e il gusto della letteratura volenterosa, non
prevenuta, di fare le sue scoperte e le sue considerazioni.
Poi verranno gli accademici e i critici di mestiere a
dissezionare, a integrare, a ricomporre, a confrontare
poetiche e personalità, a chiedere e a cercare spiegazioni.
Nel frattempo, il lettore si lasci prendere per mano dai
poeti e guidare nel fascinoso e caleidoscopico mondo della
poesia colombiana d’oggi.
109
IL NOVECENTO E LA POESIA DEL
MEDITERRANEO. VERSO UNA ITACA POETICA
di Zosi Zografidou
Il Mediterraneo, il mare che separa e unisce l’occidente
con l’oriente, che rappresenta il «crocevia tra Europa e
Africa, tra Europa e Asia»,53
il «mare bianco di mezzo»,
come viene chiamato dal mondo arabo54
è lo slargo umido
degli scambi fra tre continenti che va mischiando e
impostando processioni multiverse»,55
«il mare che
costituisce la più grande concentrazione di beni artistici
del mondo»,56
«l’immensa ‘platea’ intorno alla quale si
fronteggiano molteplici palcoscenici di diverse influenze
artistiche»,57
«il mare degli incontri e dei confronti fra
culture, religioni, società differenti»,58
è il mare del
viaggio di Ulisse, di Giasone, di Ercole, di Enea.
È l’infinito mare nostrum di tutti i popoli del bacino che
53
Giorgio OTRANTO, «Per un dialogo euromediterraneo: le ragioni
della storia», in Mediterraneo: mare di incontri interculturali, a cura
di Franca Pinto Minerva, Bari, Progedit, 2004, p.5. 54
Tahar Ben JELLUN, «Mediterraneo la poesia del lago di luce»,
traduzione in italiano Elisabetta Horvat, vd. http://ricerca. repubbli-
ca.it/repubblica/archivio/repubblica/2005/09/04/mediterraneo-la-poe-
sia e in http://www.eleaml.org/sud/meridiano/pm_mediterraneo
_lago_luce.html 55
Armando GNISCI, «Premessa in memoria di Dionyz Durisin», in Il
Mediterraneo. Una rete, cit., p.19. 56
Ettore CATALANO, «Saggio generale 1», in Letteratura del
Novecento in Puglia 1970-2008, a cura di Ettore Catalano, Bari,
Progredit, 2009. 57
Pasquale BELLINI, «Coordinate per uno spettacolo
‘mediterraneo’», in Il Mediterraneo. Una rete, cit., p.167. 58
Mediterraneo: mare di incontri interculturali, cit., p.VII.
110
apre la mente all’idea della partenza e dell’avventura,
dell’esperienza e della conoscenza.
È il mare delle letterature, di ieri e di oggi, il mare
senza confini, il mare dei poeti che non appartengono a
uno spazio determinato, perché come dice il poeta greco
Elitis, «la poesia è sempre unica, quanto unico è il sole»59
.
È il mare dei poeti greci, italiani, francesi, spagnoli, turchi,
libanesi, marocchini, egiziani che portano nel cuore lo
spirito del Mediterraneo, il calore del sole e la freschezza
delle acque e riescono con la loro voce a farsi sentire in
tutto il mondo celebrando la luce mediterranea fuori dal
tempo e dallo spazio. La loro poesia è la poesia
dell’azzurro del mare e del cielo, degli oliveti e delle
vigne, delle pietre e del vento. Il mare e il sole sono due
campi semantici ai quali vengono assegnate le forze più
potenti della natura mediterranea.
Il mare è il luogo dell’avventura e della ricerca, e il
viaggio sul mare simboleggia il viaggio, il cammino della
vita dell’uomo. È simbolo della costante lotta e della
continuità. Itaca rappresenta l’inizio e la fine della lotta
della vita umana. «Il desiderio di scoprire l’ignoto e di
acquisire conoscenza è sempre vivo nell’uomo».60
Il canto dolce che salmodia il mare, composto dai tre
grandi poeti della natura, come vengono definiti dal poeta
simbolista greco Constantinos Kavafis (1863-1933), il
sole, il vento e il cielo del Mediterraneo, è il canto che
emoziona i poeti di tutte le comunità interletterarie61
. Il
59
«Μυρίσαι το άριστον IV» O μικρός Ναυτίλος, Οdisseas ELITIS, in
Ποίηση, Αtene, Ikaros, 2002. 60
Sonia ILINSKAJA, «La ‘mediterraneità’ nella poesia», cit., p.80. 61
Zosi ZOGRAFIDOU, «La poesia del mare Egeo: immagini poetiche
del paesaggio mediterraneo», in Orizzonte Sud, a cura di Luigi
Cazzato, Bari, Besa, 2011, p.371; Ivan DOROVSKY, «Ιl centrismo
mediterraneo orientale», in Il Mediterraneo. Una rete interletteraria,
111
canto che riesce ad unificare tutte le voci poetiche e
trasformare il mare in un bacino pieno di sentimenti senza
confine.
Il Mediterraneo è il mare dei poeti che accolgono nel
cuore l’azzurro del cielo infinito, il vento che non ha patria
e il sole che da vita a ogni essere terreno.
Il destino dell’uomo è di viaggiare in cerca del suo
porto. I popoli del Mediterraneo, i popoli del Sud e
dell’Oriente, del Nord e dell’Occidente hanno attraversato
mari, pelaghi, oceani per conoscere l’“Altro”. E il mondo,
come dice Edgar Morin, «diviene sempre più un tutto, ma
nello stesso tempo diviene sempre più diviso».62
Non è
vero che il mondo è piccolo, dirà Antonio Tabucchi, anzi
«il mondo è grande e diverso. Per questo è bello: perchè è
bello e diverso».63
Viaggiare per terra o per mare per l’amore, per il
desiderio per la conoscenza, per l’esperienza, per
l’avventura, per la scoperta di nuove terre è un forte
bisogno della natura umana. L’uomo è interessato sempre
al viaggio, ha voluto conoscere nuovi luoghi, e il bisogno,
l’inquietudine continua provoca anche il bisogno di
collegarsi con un’altra terra diversa dalla terra natia e si
crea in questo modo la necessità di spostamento.
a cura di Dionyz Durisin - Armando Gnisci, Roma, Bulzoni, 2000,
p.59. 62
E. MORIN, I sette saperi necessari all’educazione del futuro,
Raffaello Cortina, Milano, 1999, p.69; Franca Pinto MINERVA,
L’intercultura, cit., p.123. 63
Antonio TABUCCHI, Viaggi e altri viaggi, a cura di Paolo Di
Paolo, Milano, Feltrinelli, 2010, p.14; Zosi ZOGRAFIDOU, Antonio
Tabucchi, un viaggiatore inquieto sempre altrove, in P.L.Ladrón de
Guevara-B.Hernández-Z.Zografidou (a cura di), Las huellas del
pasado en la cultura italiana contemporánea-Le tracce del passato
nella cultura italiana contemporanea, Università di Murcia, Edit,
2013, pp. 571-576.
112
Testimonianze di questi viaggi ce ne sono in tutta la
storia dell’umanità. «Non c’è viaggio senza che si
attraversino frontiere – politiche, linguistiche, sociali,
culturali, psicologiche, anche quelle invisibili che
separano un quartiere da un altro nella stessa città, quelle
tra le persone, quelle tortuose che nei nostri inferi sbarrano
la strada a noi stessi».64
«Viaggiare non vuol dire soltanto
andare dall’altra parte della frontiera, ma anche scoprire di
essere sempre pure dall’altra parte».65
Nella letteratura mondiale l’opera che riassume i
significati concreti e simbolici legati al tema del viaggio è
l’Odissea di Omero. L’Odissea è la testimonianza di un
amore per l'avventura e le esplorazioni di nuove terre e
spazi. Il viaggio di Ulisse è un viaggio di ritorno dalla
guerra di Troia alla sua nativa Itaca, la patria abbandonata
e ritrovata.
Nel corso dei secoli il mito di Ulisse è stato variamente
interpretato, si è riempito di nuovi contenuti ed «ha
assunto una valenza differente in relazione al momento
storico e agli ideali filosofici, politici e culturali di
ciascuna civiltà».66
Infatti ogni civiltà ha potuto
interpretarlo a suo modo e «il viaggio di Ulisse è destinato
a non finire mai, così come Ulisse, è rimasto sempre vivo
nel corso dei secoli»,67
come scrive Russo, assumendo
diversi ruoli e significati e avventurandosi in nuovi viaggi,
in cerca di un’Itaca.
Ulisse, «l’eroe epico dell’avventura, aperto verso
64
Claudio MAGRIS, L’infinito viaggiare, Milano, Mondadori, 2005,
p.XII. 65
Ibid, p.XIII. 66
Giovannina RUSSO-KARALI, L’ultimo viaggio di Ulisse nella
letteratura italiana, Salonicco, University Studio Press, 2006, p.11. 67
Ibid., pp.481-482.
113
l’inesplorato, il nuovo e l’ignoto»68
è una delle figure
letterarie più paradigmatica, «un modello forte che ha
trovato il suo sviluppo nei mille volti diversi con cui ci è
stato proposto dalle letterature di tutti i tempi»69
, «il
simbolo dell’instancabile ansia di ricerca, di conoscenza,
di attitudine al rischio e di fuga verso il futuro
dell’uomo»70
, un uomo «bugiardo e capace di tutte le
imposture», scrive Ladrón de Guevara, «che nonostante il
suo apparente desiderio di rientrare in patria ha un cuore
che non lo vuole perché rimane vincolato al mare».71
Itaca, la patria, è nella poesia «Odiseo» la terra
promessa.72
Nell’elaborazione del mito di Ulisse Dante propone nel
canto XXVI dell’Inferno della Divina Commedia, Ulisse
come il grande viaggiatore assetato di conoscenza e colpe-
vole di un desiderio che lo porta alla morte, legata al suo
peccato di superbia nei confronti dei decreti divini.
Secondo Bernard Andreae che definisce Ulisse «come
il prototipo dell’uomo dinamico, sicuro di sè, che riflette
sul suo destino e reagisce consapevolmente»73
è «il primo
della letteratura mondiale a decidere delle proprie azioni, e
68
«I mille volti di Ulisse» in Anna DE SIMONE - Catia GUSMINI,
Percorsi testuali tra ieri e oggi, vol.B’: Epica-Mito-Fiaba-Racconto,
Firenze, Le Monnier, 2002, p.86. 69
Ιbid., pp.86-87. 70
Ιbid., p.86. 71
Pedro Luis LADRóN DE GUEVARA, «Εl mito de Ulises-Odiseo en
la literatura italiana del siglo XX», in Las huellas del pasado en la
cultura italiana contemporánea, a cura di Pedro Luis Ladrón de
Guevara - María Belén Hernández González - Zosi Zografidou,
Murcia, Editum, 2013, pp.21-43. 72
Pedro Luis LADRóN DE GUEVARA, «Odiseo», in Id., Del sudor
de las sirenas, Madrid, Huerga & Fierro editores, 2015, p.17. 73
Bernard ANDREAE, L’immagine di Ulisse. Mito e archeologia,
Torino, Einaudi, 1983, p.190.
114
a non dipendere più esclusivamente dal destino o dalla
volontà degli dei».74
Ιl poeta greco Kavafis usa nei suoi versi tante allegorie.
Nella sua famosa poesia Itaca Ulisse è l’uomo che ha una
meta nella sua vita: fare il viaggio di ritorno in patria, la
sua Itaca.
Nel mare, in qualche luogo, dovrebbe trovarsi Itaca, la
luce, la speranza, la patria, l’ultima destinazione e il
simbolo complesso dell’approdo di ogni ricerca.75
«Il profondo significato del viaggio, dice il poeta greco
Odisseas Elitis (1911-1996), parlando della poesia di
Kavafis, non è il momento dell’arrivo ad Itaca, ma la
durata stessa del viaggio».76
L’ Itaca è l’ultima meta, che
simboleggia la morte, dove ci porta il viaggio della vita. È
inutile, per Kavafis, provare delusione per il triste finale,
ma dobbiamo vivere con gioia e pienezza il presente,
cercando di scoprire la ricchezza della vita la quale si
rivela quando non abbiamo paura e timore a goderci ogni
momento, ad avventurarci in cerca della conoscenza.
«Il viaggio - dice Tabucchi riprendendo il discorso -
trova senso solo in se stesso, nell’essere viaggio».77
Umberto Saba sembra continuare lo stesso discorso.
Elitis, poeta di esperienza intellettuale maturata nella
civiltà della Grecia di «larghissimo respiro e formazione
europea»78
ha nel suo sangue79
il mondo mediterraneo e
74
Id., cit., p.3. 75
Lucia MARCHESELLI, «La mitologia delle pietre», Omaggio a
Seferis, 1970, p.157. 76
Sonia ILINSKAJA, «La ‘mediterraneità’ nella poesia», cit., p.80. 77
Antonio TABUCCHI, Viaggi, cit., p.10. 78
Achille TARTARO, «Allocuzione del Prof. Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia», in Laurea ad Honorem in Lettere a Odisseas Elitis,
Facoltà di Lettere, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, 1987,
p.3. 79
Enrica FOLLIERI, «Elogio», cit., p.5.
115
l’amore per il mare, la luce e il sole che fanno nascere
dentro di lui le ‘visioni solari’ e mediterranee.80
Nei versi
di Elitis si va incontro allo splendore del sole, lo scintillio
del mare, la trama delicata degli oliveti, gli aromi
campestri, la libertà del sogno.81
La sua poesia è una
poesia vera che rappresenta, come dice il poeta stesso,
«una terza dimensione dello spirito dove gli opposti
cessano di esistere».82
Questo è il principio della
‘trasparenza’, un principio, che come dice il poeta greco,
«si basa sulla luce e sul mare mediterraneo».83
Il paesaggio mediterraneo della «Quiete» di Ungaretti
assomiglia al paesaggio di Elitis. che sembra riprendere il
discorso.
L’infinito del mare coincide con l’immortalità e la sua
durata con l’eternità.
Anche il poeta premio nobel greco Ghiorgos Seferis
(1900-1971) ha negli occhi le rupi, gli scogli, l’arida terra
argillosa screpolata e il modo di recepire la natura
comune a molti altri poeti come Montale.84
La poeticità di
Seferis è enfatizzata da numerose similitudini e
metafore85
. Seferis prosegue il suo percorso, il suo lungo
viaggio per ritrovare la via di Itaca, la patria dello spirito,
la patria di Ulisse.
Seferis descrive nei suoi versi la bellezza quotidiana del
Mediterraneo. La presenza del mare permea profonda-
mente l’atmosfera della poesia seferiana.
80
Achille TARTARO, «Allocuzione», cit., p.3. 81
Enrica FOLLIERI, «Elogio», cit., p.8. 82
Ibidem. 83
«Breve allocuzione nell’Aula Magna», cit., p.23. 84
Amalia CORRÀ, «Seferis e Montale: paralleli», in Omaggio a
Seferis, Padova, Liviana, 1970, p.200. 85
Mario VITTI, Storia della letteratura neogreca, Roma, Carocci,
2001, p.313.
116
Il mare non è soltanto inesauribile di vita e di benessere
ma ha anche significato di chiusura, di prigione e di
dolore. Ogni approdo è soltanto un momentaneo riposo
prima della nuova partenza e il viaggio è la realtà
quotidiana. «ll quadro omerico del mare si conserva
inalterato nel tempo, fino ai nostri giorni. Rimbaud lo
chiama ‘il mare mescolato al sole’ indentificandolo con
l’eternità».86
In tutte le poesie di Mario Specchio (1946-2012) si ri-
vela il bisogno che sente di andare oltre, di cercare, di
sperimentare, di approfondire, di tornare al passato e
rivivere momenti felici, pieni di serenità. L’opera del
poeta Mario Specchio è piena di nostalgia, di sentimenti
che vengono dal profondo, diffusi in viaggi vissuti o im-
maginari.87
Sogni, mari di corallo, la calma di notte, l’ondeggiare
su velieri di carta, con la penna dello scrittore tra le dita,
per viaggiare su mari innavigati e la giovinezza eterna nel
cuore.
La poesia di Specchio è una poesia di movimento che
sfugge come la vita, come quando Ulisse, in cerca di
amore e di luce, si sposta verso un nulla che si scioglie,
senza certezza, eccetto che la propria incertezza.88
Nell’opera di Specchio è presente un dolore, una certa
angoscia esistenziale, un senso di solitudine non
86
Sonia ILINSKAJA, «La ‘mediterraneità’ nella poesia», cit., p.73. 87
Vd. Zosi ZOGRAFIDOU, «L’Itaca di Mario Specchio. Nostalgia di
Ulisse», in Colloque international. Le travail de réécriture dans les
littératures romanes, Departement d’Etudes Romanes (Facultè des
Lettres classiques et modernes), Sofia, Università Saint Clement
d’Ohrid, 2014 (in corso di stampa) 88
Pedro Luis LADRóN DE GUEVARA - Zosi ZOGRAFIDOU, cit.,
p.447.
117
condivisa, tutta sua, che tormenta il suo essere umano89
. È
presente una delusione intrisa di amarezza ma anche
caricata di tenerezza e di pietà che si diffonde
nell’antologia Nostalgia di Ulisse, opera che ci trascina in
un viaggio immaginario nella mitologia greca con gli eroi
omerici verso una sua Itaca poetica.
Nel suo racconto «Ιl nonno» leggiamo storie con le
quali il poeta era cresciuto. Le storie omeriche assumono
un ruolo importante alla sua formazione classica,
diventano sue e si trasformano in opere specchiane
acquistando un’altra dimensione.90
Specchio diventa
Ulisse in carne ossa, come gli piace autodefinirsi, e Itaca,
l’isola amata di Ulisse, il rifugio del guerriero, la meta
dell’inquieto viaggiatore, diventa per Specchio tortura,
solitudine, malinconia, carcere, deserto come quando
Ulisse stanco dal viaggio arriva in patria.
Ulisse, il viaggiatore inquieto di Specchio, è legato alle
sirene, «simboli del desiderio mondano e del piacere dei
sensi»91
per Omero e per l’ellenismo intero, che sono una
tentazione per lui, ma anche un richiamo alla ‘conoscenza’
provocazione della sua curiosità.92
L’eroe guarda sempre verso il mare, desidera sempre
tornarci, vuole la sua libertà per poter sempre viaggiare,
rinunciando all’immortalità, al dono dell’eterna giovinezza
che gli è stato offerto da Calipso quando giunge morto
nell’isola della ninfa.
Mario Specchio, una sera dell’estate del 2010, dopo una
lunga conversazione sulla mitologia greca, sugli dei e
sugli eroi mitici, su Ulisse e Achille, sulla guerra di Troia,
89
Pedro Luis LADRÓN DE GUEVARA - Zosi ZOGRAFIDOU, cit.,
pp.447-448. 90
Mario SPECCHIO, Morte di un medico, cit., p.88. 91
Ibid., p.14. 92
Ibid., p.13.
118
argomenti da lui molto amati, mi spedisce due poesie,
«Itaca. Tanti anni dopo» e «Malinconia di Circe».
Non c’è nessuno ad aspettare l’Ulisse di Specchio, e
cerca di trovare le tracce come il cane che aspetta alla
porta della reggia o come il giallo cane di Goya, il cane
che hanno amato insieme, Mario Specchio, Antonio
Tabucchi e Pedro Luis Ladrón de Guevara quando
assettato chiedeva ai tre amici nel museo di Prado un po’
d’acqua per uscire, per salvarsi dalla sofferenza del sole,
quel cane che d’ora in poi sarà presente anche in altre sue
poesie e nell’opera di Tabucchi.93
Ulisse è tornato alla sua amata Itaca, ha mantenuto le
promesse, ma pare che sia pentito nonostante i rimorsi
che sente all’arrivo, «ti ho tradita ogni volta che ho
creduto fosse afferrabile il senso della vita», Itaca sembra
una gabbia dove l’avventuriero si annoia.
Dopo l’arrivo a Itaca c’è sempre la riflessione, che cosa
sia più vero del tempo vissuto con Penelope o il desiderio
di essere con lei. Tutto seccato e cambiato nel paese natio,
non sa più distinguere tra verità e sogno, le memorie del
passato non coincidono con le immagini del presente e
non possono far rinascere l’amore degli altri. I nemici
sono in casa, in palazzo, e niente può fermare il correre del
tempo e il mutare delle cose e dei sentimenti. Queste
immagini si completano e si confondono con le parole di
Circe: il cuore di Ulisse non voleva tornare, non poteva
dimenticare i giorni trascorsi insieme. «Le notti e la luna
che di vino bagnava i capelli», «il mare ti ha
accompagnato» -dice Circe con la voce di Specchio- ma il
93
«Δυο κείμενα του Μάριο Σπέκκιο για τον Αντόνιο Ταμπούκι (Due
testi di Mario Specchio per Antonio Tabucchi), a cura di Zosi
Zografidou, nella rivista elettronica ITI - Intercultural Translation
Intersemiotic < http://ejournals.lib.auth.gr /iti/issue/current > (data di
consultazione 30/6/2013)
119
ritorno a Itaca non ha portato la felicità che si aspettava.
Circe rimasta da sola sente la nostalgia dell’assenza di
Ulisse senza poter trovare rassegnazione, se non, quando
accarezzata dal sogno dell’Altrove.
La maga solo begli auguri può fare al viaggiatore
dell’oceano, a Ulisse che forse la sua ombra non avrà mai
pace, non scongiurerà la morte con la vita perchè non si
torna due volte nei luoghi che si sono amati.
Scrive Ladrón de Guevara: «Ulisse è la giovinezza,
l’ardire, l’osadia, la furbizia, ma anche la stanchezza di chi
ha viaggiato tanto e vuole soltanto riposare in terra
(seguendo l’interpretazione dell’oracolo)- e al di là delle
braccia di Penelope trova pace all’interno dell’olivo,
magico albero della nostra mediterraneità».94
Chi viaggia pensa alla meta ma quale è la meta di
Ulisse secondo Specchio? Tornare a Itaca a fare il re? Il
marito? Il padre? Ulisse è un avventuriero e rimarrà
sempre inquieto, pieno di voglia di cercare nuove mete e
nuove destinazioni, vuole aprire nuove strade inesplorate e
cavalcare nuove salite, il suo viaggio non potrà finire mai,
«non durerà più di un momento il vento -scrive Specchio-
già raccoglie le forze alza le vele».95
Ulisse sempre si
volge verso nuove avventure.
Mario Specchio ha viaggiato ed ha attraversato i mari
della poesia, e come l’Ulisse di Omero, è affondato nella
ricerca del passato in un tempo futuro. Nella sua ultima
poesia del libro Da un mondo all’altro guarda sempre
verso il mare cercando un’Utopia e ci parla come un
viaggiatore etereo.
Specchio è arrivato alla profonda giungerà sempre agli
94
Pedro Luis LADRÓN DE GUEVARA, «Εl mito de Ulises …», cit.,
pp.21-47. 95
Mario SPECCHIO, «V», in Id., Nostalgia di Ulisse, cit., p.40.
120
orecchi di chi l’ha conosciuto. Il poeta continuerà a
parlarci sempre da un paese «dove il sole/nasce dal mare/e
fioriscono stelle nei giardini, /qui dove i morti si nutrono
di latte».96
Itaca diventa la metafora della fine della vita
dell’uomo, della morte, e come dice Kavafis il viaggio si
compie con il raggiungere la meta desiderabile, con
l’arrivo alla destinazione, a Itaca.
96
Id., «A mio padre, da un altro paese», in Id., Da un mondo all’altro,
cit., p.92.
121
VERSO UN NUOVO UMANESIMO:
DALL’INTERIORITA’ ALLA REALTA’
di Domenico Pisana
Il tema di questo convegno, “Interrogare il Novecento”,
è intrigante e complesso nel contempo. Ho scelto di dare a
questo mio contributo il seguente titolo: “Verso un nuovo
umanesimo: dall’interiorità alla realtà”, che spero di
declinare lungo il mio discorso.
Questo nostro convenire ci spinge senza dubbio ad
inoltrarci all’interno del mondo della poesia tenendo
conto delle varie concettualizzazioni che si sono succedute
lungo il secolo scorso e che hanno descritto tale mondo
attraverso quella che è l’arte della parola poetica, che,
nonostante tutto, comunque resiste al tempo.
Desidero puntare l’attenzione sul fatto che la poesia,
nonostante sia stata sempre considerata un genere “di
nicchia”, a volte bistrattato dai lettori ed ignorato dalle
case editrici, in realtà rappresenta un’ancora di riferimento
importante, ancora oggi, nel passaggio al Terzo Millennio.
Il Novecento ci ha consegnato grandi poeti che hanno
interrogato il mistero della vita e che hanno fatto
interrogare la società su tematiche che hanno gettato le
basi della poesia stessa, mettendo la coscienza universale
di fronte a domande di senso molto forti.
La poesia contemporanea credo stia vivendo un certo
smarrimento, nel senso che il poeta comincia a chiedersi
che senso ha questo suo poetare. Egli si trova di fronte un
forte interrogativo: se la poesia del Novecento ha già
detto tutto, cosa possano dire di nuovo i poeti delle
generazioni contemporanee? Dagli anni ‘80 in poi in molti
hanno scritto versi e pubblicato testi di poesia, ma quasi
nessuno (tranne qualche eccezione) ha lasciato un segno;
122
tutti si sono aggiunti alle generazioni precedenti, alla
schiera di poeti più o meno noti dal punto di vista
mediatico sviluppando temi poetici già trattati. Non è così
emerso un chiaro orizzonte che dica dove va la poesia,
qual è la poesia di cui il nostro tempo ha bisogno, e chi è il
poeta oggi.
Ecco perché alcuni critici sostengono che la poesia
contemporanea è caduta in una sorta di paralisi e che è
diventato quasi impossibile fare anche critica, perché la
poesia si è troppo frastagliata, è divenuta troppa e
confusa, per cui qualcuno, come Davide Rondoni, ritiene
sia diventato quasi inutile parlarne in termini critici e
sistematici. Poiché chi vi parla si trova, di persona, dentro
questo meccanismo, non riesco a stabilire se questa ipotesi
abbia senso e sia davvero da prendere in considerazione.
Credo, comunque, che occorra “ri-partire”, a mio
giudizio, da una “ri-valorizzazione” di quel patrimonio
poetico-letterario, che costituisce quasi una eredità,
costruito dai poeti del secondo Novecento e forse lasciato
un po’ troppo nell’oblio; un compito questo che la critica
letteraria militante dovrebbe operare al fine di fare uscire
la poesia, nel suo insieme, da quella precomprensione che
la riduce a quel genere letterario un po’ astruso, intimista,
solipsistico ed autoconsolatorio che serve per esprimere
buoni sentimenti e dare sfogo alle proprie immaginazioni
creative.
C’è stata anche nel secolo scorso e vige tutt’oggi, a mio
avviso una forte precomprensione verso la poesia,
specialmente dell’ultimo Novecento, consolidatasi in due
idee-madri:
- l’idea che la poesia non abbia più nulla da dire e che
sia diventata una sorta di giuoco di parole per anime
delicate;
- l’idea che la poesia abbia perso il suo ruolo nella
123
società, divenendo uno strumento non più necessario per
conoscere la realtà e il mondo: ciò che serve – si afferma -
a far progredire le società sarebbe la scienza, la tecnica, la
politica, l’economia, non la poesia, che ha detto tutto in
passato con i grandi poeti e che oggi non avrebbe più nulla
da dire. Insomma ad un progresso della società in termini
scientifici, tecnici, economici, telematici,
corrisponderebbe un arretramento della poesia, confinata
nello spazio di pochi eletti rimasti chiusi in una
poetizzazione non più necessaria alla storia del nostro
tempo.
Su questo equivoco si è costruito, nel secondo
Novecento, l’ assenza della poesia nella grande editoria
italiana, la quale si è convinta che la poesia non vende,
nessuno la legge e quindi è inutile pubblicare. Giovanni
Raboni già agli inizi degli anni ’80 stigmatizzava “la forte
diminuzione delle uscite dello ‘Specchio’ Mondadori, ma
soprattutto “la scarsissima presenza, negli attuali
programmi della Mondadori, di un lavoro di ricerca e
valorizzazione di nuovi autori”.
In verità è proprio ciò che sta accadendo, perché in un
tempo di crisi di lettura, la poesia è quel che paga di più il
prezzo, ma il problema credo sia un altro: oggi non si
apprezza la poesia, non la si stima da parte del pubblico e
degli editori proprio a causa della precomprensione di cui
parlavo, in base alla quale la poesia non servirebbe alla
conoscenza della realtà.
Ecco allora che la poesia contemporanea si trova di
fronte ad una grande sfida antropologica: quella di
ripensare se stessa rispetto alla condizione esistenziale
dell’uomo di oggi. Ripensarsi in quale direzione! Questo è
il problema!
Io credo non sia più il tempo in cui la poesia possa
limitarsi ad abbellire o ad intrattenersi solipsisticamente
124
sulla realtà o a fare discorsi moralistici, ma deve andare
oltre l’economia, la scienza, la tecnica, la politica. La
poesia non può più limitarsi a poetizzare la realtà, a
descrivere e narrare il mondo, ma deve ripensarsi e
rifondarsi facendo tesoro della migliore eredità poetica
dell’ultimo Novecento al fine di fare venire alla luce il
“perché” questa nostra società post moderna sta andando
alla deriva.
Sono fermamente convinto che nell’attuale civiltà
consumistica, nella società dell’uomo oeconomicus,
dell’homo faber, dell’homo ludens la poesia non potrà mai
essere devastata da tempeste e che resisterà al tempo. Essa
però, ma è una mia prospettiva, deve adoperarsi per
procedere alla costruzione di una “nuova” poetica per
andare oltre quella visione minimalista secondo cui basta
un’emozione, un sentimento, un foglio, una penna per
buttare giù parole che vengono poi chiamate poesia.
Occorre superare l’assunto di partenza, è cioè che per
fare poesia non sia necessario avere alcuna idea di poetica;
al contrario io penso che senza questa riflessione di
fondo, la direzione verso cui la poesia rischia di continuare
a dirigersi, è quella della sua riduzione ad una entità
astratta e priva di radicamento nella storia, o
semplicemente ad un frutto autocompiacente
dell’esibizione di meri sentimenti, confinando così il
poeta nell’orizzonte di un ingenuo sognatore, di un
romantico della bellezza, di un declamatore di cose irreali,
le cui parole poetiche o diegetiche non interessano a
nessuno, anziché collocarlo nell’orizzonte di un
costruttore di bellezza, di civiltà e di umanesimo.
Se guardiamo oggi il nostro tempo, è sotto gli occhi di
tutti che esso presenta, al di là di tante positività,
parecchie caratteristiche negative che, nella mia poesia,
faccio convergere nella metafora del naufragio.
125
Quello che viviamo oggi, infatti, è il tempo
dell’individualismo: l’uomo non è più capace di “stare
insieme con”, di lavorare insieme agli altri per il bene
comune, di valorizzare l’alterità, di riconoscere l’altro
come portatore di ricchezza; la società sembra essere una
sorta di “Olimpo degli dei”, dove ognuno è diventato il
dio di se stesso.
Quello di oggi è il tempo del nichilismo: tutto è
relativo, tutto è un fluire mutevole, non ci sono valori
uguali per tutti, paletti di riferimento; c’è una
disgregazione valoriale e culturale che ha messo in
discussione la ricerca della verità; non c’è più una moralità
oggettiva, ma ognuno ha la sua verità, la sua idea di
morale in base alla quale il bene e il male sono divenuti
interscambiabili. E’ ancora il tempo della frammentazione
e della segmentazione: tutto è frammento, segmento; se
tutto è frammento, segmento, non serve più la storia, il
passato, la memoria; vale per l’uomo d’oggi solo l’attimo
che riesce a cogliere, il segmento esistenziale che può dare
la gioia del momento, che può soddisfare la voglia di
effimero. Quando tutto diventa segmento, immediatezza,
non serve più domandarsi chi sono, da dove vengo, chi era
mio nonno, cosa faceva, dove vado, ci sarà un futuro,
come sarà, cosa posso fare per renderlo migliore, per quali
idealità devo impegnare la mia vita.
Insomma, quello di oggi, è il tempo del naufragio:
naufragano le relazioni tra uomo e donna, tra genitori e
figli, tra marito e moglie; tra giovani e adulti; tra datori di
lavoro ed operai, tra nazioni, tra popoli e culture e tra le
religioni. E’ il tempo del naufragio delle istituzioni:
politica, aggregazioni sociali, culturali, sindacali, religiose,
partiti, scuola; è il tempo del naufragio delle motivazioni:
perché devo impegnarmi, chi me lo fa fare, non cambia
nulla! E’ ancora il tempo del naufragio dei sentimenti nel
126
quale si avverte malessere, conflitto, mancanza di pace
interiore; è il tempo del naufragio della coesione sociale:
viviamo di conflitti, scontri, polemiche, insulti,
aggressioni verbali, fisiche. E’ il tempo dei vaffa…
E allora mi domando: perché tutto questo? Dove è da
ricercare la causa di questo naufragio spirituale,
relazionale, sociale, morale? E la poesia può dire
qualcosa?
Già Montale prefigurava, a mio giudizio, questo tempo
della post modernità in una sua poesia quasi mai spiegata
nelle scuole: Incespicare, incepparsi /è necessario /per
destare la lingua /dal suo torpore./ Ma la balbuzie non
basta/se anche fa meno rumore/ è guasta lei pure./ Così
bisogna rassegnarsi/ a un mezzo parlare./ Una volta
qualcuno parlò per intero/ e fu incomprensibile. Certo
credeva di essere l’ultimo /parlante. Invece è accaduto/
che tutti ancora parlano/e il mondo da allora è muto. (Da:
Incespicare)
Montale evidenzia in questi versi due modalità del
parlare: il “mezzo parlare” e il “parlare per intero”. Il suo
esprimersi sembra risentire dell’influenza del filosofo
Ludwig Wittgenstein, il quale nel suo Tractatus Logicus-
Philosophicus affermava: “Di ciò di cui non si può parlare,
si deve tacere”; di trascendenza, di Dio non si può e non
si deve parlare, perché “Egli rimane inespresso”, come
affermava Meister Eckart. L’ultimo Montale in effetti
avverte che la causa dell’incomunicabilità e della
solitudine, del male di vivere, che oggi chiamiamo
nichilismo, relativismo, naufragio morale va ricercata nel
fatto che l’uomo si è illuso di “parlare per intero” e di
avere la verità in mano, mentre in realtà il suo è stato e
continua ad essere un “mezzo parlare” che ha reso “muto”
il mondo, cioè incapace di comunicare, a differenza del
parlare di quel “qualcuno (che) una volta parlò per intero”
127
e del quale l’uomo della modernità ha voluto che si
tacesse in quanto non afferrabile, misurabile e
verificabile.
Chi è questo “qualcuno che una volta parlò per intero”?
Questo qualcuno che è portatore di un parlare pieno e
totale che gli uomini non comprendono e non afferrano,
ma che racchiude in sé la verità delle cose e della vita?
L’uomo del nostro tempo parla, parla, parla, urla, urla,
urla, sembra avere la presunzione di volersi sostituire a
colui che “credeva di essere l’ultimo parlante”, al
“Verbum caro factum est”, al kai o logos sarx egeneto
aggiungo io da credente, e con questa opera di presunzione
ha innalzato muri di incomunicabilità tra gli uomini, tra i
popoli, al punto che dall’ “ultimo parlante” ad oggi il
mondo è divenuto “muto”.
Il poeta di oggi è un parlante che parla a chi? E per dire
cosa?
Rispetto a questo, bisogna chiedersi che senso può
avere il poetare, a che cosa serve un poeta, supposto che a
qualcosa serva. Se il poetare è il passatempo di anime
belle, lo sfogo di emozioni che coinvolgono il sentimento,
la denuncia o il lamento di cose che non vanno, pur fatto
con versi belli e accattivanti, credo sarà difficile per la
poesia lasciare un segno negli anni a venire. Occorre
andare oltre! E l’oltre ce lo ha indicato già molta poesia
del Novecento. Il poetare contemporaneo, secondo me, ha
senso se aiuta l’uomo ad andare oltre, cioè a ritrovare “il
parlare” di colui che “una volta parlò per intero” così da
uscire dal mutismo”, a trovare un “varco soteriologico”
che sia capace di avvicinarlo alla trascendenza, alla ricerca
del Mistero, orizzonti, questi, importanti anche se non
esclusivi. Ed è lo stesso Montale che In Diario del ’71 e
del ’72 ci offre un “varco” attraverso una lirica poco
conosciuta, ossia Come Zaccheo: Si tratta di arrampicarsi
128
sul sicomoro/ per vedere il Signore se mai passi./ Ahimé,
non sono un rampicante /ed anche stando in punta di piedi
non l’ho mai visto.
Lo spunto della lirica, una quartina, è preso dal vangelo
di Luca (Lc 19), dove viene descritta con ricchezza di
particolari la scena di Zaccheo, capo dei pubblicani, che
sale su un sicomoro per cercare di vedere Gesù mentre
entra nella città di Gerico.
Zaccheo, salendo sul sicomoro, non solo riesce a vedere
Gesù che passa, ma addirittura a farsi notare dal Maestro,
che lo invita a scendere perché vuole recarsi a casa sua.
Montale vede nell’atto dell’arrampicarsi un “varco” per
l’uomo; egli supera il negativismo iniziale e dichiara che
nella vita c’è la possibilità di accedere alla Conoscenza :
“si tratta di arrampicarsi sul sicomoro”. E’ un gesto che
l’uomo può o no fare per incontrare il Divino; non importa
“se mai passi” il Signore. Significativo appare poi il
contrasto esistenziale dei due versi conclusivi, dove il
pensiero montaliano sembra quasi dibattersi tra le istanze
del cuore che si rammarica e lo sforzo della ragione che
approda a conclusioni negative.
L’attenzione va anzitutto posta su quell’“Ahimé”,
l’esclamazione che esprime profondo dolore, intimo
rammarico e che va collegata con “rampicante”; il poeta
lamenta il suo smarrimento, le sue perplessità, la
mancanza del dono della fede, tant’è che, se da una parte
dichiara di non essere un “rampicante”, cioè uno che cerca
come Zaccheo il Signore, dall’altra lascia intravedere il
suo tentativo di ricerca in quel “stando in punta di piedi”.
Si tratta, però, di un tentativo senza esito, perché il
Signore - conclude il poeta - “non l’ho mai visto”.
Montale, dunque, non si “arrampica”, ma “sta in
punta di piedi”, cerca, ma non riesce a vedere: in questo
129
processo egli rivela come ci sia in lui, pur all’interno della
sua concezione negativa della vita, un bisogno di senso
inappagato, un desiderio di trascendenza che si nasconde
tra le pieghe dei suoi versi e che appare come un barlume
di trascendenza che sembra invocare la speranza. Se così
non fosse, risulterebbe alquanto strano che Montale scriva
una poesia mutuando un testo evangelico che è la chiara
attestazione della conversione di un uomo, Zaccheo
“pecorella smarrita”, il quale, ritrovata la fede, giunge alla
salvezza e ridà senso e significato alla sua esistenza, tant’è
che nell’episodio lucano Gesù afferma: “Oggi la salvezza
è entrata in questa casa...”.
Se è vero, come è vero, che la poesia non è – come
diceva ieri Aldo Gerbino – un “prodotto”, io aggiungo
una merce deperibile, un prodotto di mercato che il tempo
usura; se è vero invece che la poesia è un atto dello spirito
e la sua voce un messaggio di riflessione dal quale
nascono domande che il poeta pone anzitutto a se stesso,
e, quindi, a tutti, allora è altresì vero che tali domande che
egli fa risalire dall’abisso potranno essere oscure, ma
indipendentemente dal fatto di essere comprese, non
smettono di esercitare una forte influenza nella vita
sociale.
Insomma, io credo che il nuovo millennio debba
raccogliere dal secolo scorso la visione “soteriologica e
ri-costruttrice” della poesia, vale a dire quella prospettiva
ontologica grazie alla quale la parola poetica diventa “atto
profetico” in grado di aiutare l’uomo ad intus-legere, cioè
a leggere dal di dentro se stesso, i suoi rapporti con l’altro,
con la società: la poesia deve – e mi avvalgo delle parole
sempre attuali di Quasimodo- “ri-fare l’uomo dentro”:
questo è il problema capitale! – affermava il Premio
Nobel. Chiaramente non in senso moralistico, perché la
morale non può costituire poetica”. E allora di quale poeta
130
ha bisogno il nostro tempo? Di scrittori di versi ce ne
sono parecchi, ma credo che siamo nell’attesa che
riemergano e nascano poeti portatori di una forza
capace di “fare scuola” e lasciare un segno nel percorso
letterario del nostro Paese e dei nostri territori. La Sicilia,
la nostra area iblea credo abbia in sé figure di poeti ed
intellettuali che possano far sentire la loro voce in questa
direzione.
Chi è allora il poeta? Il poeta è colui che con i suoi
versi deve entrare dentro le macerie interiori della vita per
ricostruirla, rianimarla; occorre il passaggio dal poeta
che descrive o canta la vita al poeta che “ri-costruisce e
che butta un salvagente per aiutare l’uomo a salvare la
vita” come si legge in alcuni versi di Kahlil Gibran: “La
poesia è il salvagente/ cui mi aggrappo/ quando tutto
sembra svanire./ Quando il mio cuore gronda/ per lo
strazio delle parole che feriscono,/ dei silenzi che
trascinano/ verso il precipizio…”.
Il poeta è un ricostruttore, la poesia del nostro tempo è
chiamata a suscitare domande di senso sulla necessità per
l’uomo di “ritrovare l’anima” rubata da relazioni di
solitudine. E’ all’interno di questa visione che, secondo
me, occorre aprire un nuovo orizzonte dentro il quale
orientare la poesia del nuovo millennio, quasi con l’intento
di determinare il passaggio da una “poesia elitaria” ad una
“poesia per tutti” capace di contribuire ad innalzare il
livello qualitativo dell’uomo del nostro tempo.
Oggi, a mia avviso, c’è bisogno di una poesia che si
faccia ponte di unione con la “interioritas” di chi la legge,
che si faccia veicolo capace di dire parole non “sulla”
vita, ma “di” vita. Una poesia che si offra quasi come una
sorta di nuovo “veltro” di sapienza, amore e virtù di
dantesca memoria, una via di salvezza, una luce, una
speranza, una profezia capace rifare l’uomo dentro.
131
L’incontro tra “interiorità e realtà” costituisce una
nuova poetica nella direzione di un nuovo umanesimo,
poetica che supera una certa “cifra di razionalismo”
dispiegandosi come canto alla Bellezza nel secolo del
rapporto conflittuale fra poesia e trascendenza, come
meditazione sulla fragilità delle emozioni essenzializzata
in una “spiritualità dell’esistenza” che va oltre i confini
della confessionalità e che fa proprio il turbamento di un
tempo che si lacera tra essere e avere, tra l’apparire e il
bisogno di comunicare, fra la contrapposizione tra il Nulla
e l’Essere. E in questo quadro di assunzione della vita, la
scrittura poetica può diventare una luminosa
testimonianza della persistente “circolarità ermeneutica”
tra simbolo e realtà, analisi del fenomeno esperienziale e
sogno, ascolto dell’emozione e cifra lirica.
Urge una poesia che parta dalla vita, legga la vita e la
sublima dentro un “universo metafisico”, non tanto per
rispondere ad un “bisogno speculativo" o “lirico-estetico”,
ma per aprire la poesia alla verità. Quasimodo nel suo
saggio “L’uomo e la poesia” chiarisce che la poesia nasce
con l’uomo, quindi ne evidenzia le principali funzioni: non
deve dire, ma essere; deve portare una cosa dal non essere
all’essere; non deve raccontare, pena la decadenza; deve
esprimere la verità, perché l’uomo vuole la verità dalla
poesia: “La poesia non deve dire, ma essere… […] Poesia
è qualsiasi forza che porti una cosa dal non essere
all’essere… Quando la poesia comincia a raccontare…
comincia la decadenza, la vera decadenza…”
La poesia è, dunque, un “atto creativo”, un movimento
del cuore e della mente mediante il quale un sentimento,
un oggetto, una percezione, una visione, un sussurro, una
lacrima e quant’altro la vita offre all’uomo possono
giungere all’essere, cioè divenire espressione di poesia.
Il rapporto poesia- interiorità- verità è poi un’altra forte
132
esigenza del sentimento poetico del nostro tempo . L’uomo
contemporaneo dalla poesia non vuole la finzione come
costruzione lirica della mente, ma vuole la verità. E quale
la verità?
– la “verità di senso”: la poesia è chiamata a far
scoprire all’uomo la dimensione valoriale degli
accadimenti, lieti e tristi, della vita; deve aiutare l’uomo a
dare un significato alla gioia o al dolore in questa fuga
continua di giorni;
– la “verità morale”: fare poesia implica mettere l’uomo
nella condizione di discernere il bene e il male che è
dentro di lui, proprio perché – afferma il Nobel –l’uomo
nella sua verità non è altro che bene più male. È, pertanto,
all’interno dell’orizzonte di queste verità che ogni evento
della vita può essere meglio compreso nel suo più
profondo significato, come nel caso del dolore, che non è
da identificarsi con il pessimismo ma da interpretarsi come
forza che ha avuto sempre la capacità di frantumare
qualsiasi catena, forza che sta alla base della verità.
Conclusioni
Concludo rifacendomi ad una riflessione del poeta
Franco Loi: “Si parla tanto delle funzioni della poesia, ma
la poesia non ha le funzioni che le si attribuiscono -
ideologiche, pratiche, eccetera – la poesia ha una funzione
forte e importante: rivelare l'essere, e rivelare il rapporto
che l'essere ha con il mondo, con gli altri. Perché i Greci
chiamavano la poesia il “fare”? Perché è proprio un fare: è
un operare su se stessi. Non solo si disvela il nostro essere,
ma approfondisce il rapporto fra la nostra coscienza e il
nostro essere”. Ecco Il poeta non è un mero idealista, ma
uno che “incide e graffia”, disegnando le coordinate di
una umanità incapace di comunicare, di esprimersi, di
cantare, di cogliere la diversità, di una umanità che spesso
133
vive in un appiattimento desolante e privo di novità. Dalla
penna del poeta scaturiscono, è vero, sogni e costruzioni
di mondi che possono sembrare irrealizzabili, ma i suoi
versi possono diventare una lama a doppio taglio.
Il sogno non è la contrapposizione al realismo, e nei
miei versi io ritengo di essere un realista che apre la
parola alla storia, alla società, all’uomo che vive la sua
quotidianità esistenziale, dando all’ eloquio lirico un tono
di riflessione civile; la poesia, a mio avviso, diventa
salvifica quando sfugge alle alchimie concettuali fini a se
stesse, per trasformarsi, invece, in poesia che si fa canto,
che si fa “urlo” , “spia” capace di “rivelare l’etre”, cioè
l’essere e la condizione dell’interiorità umana, sia a livello
universale che sul piano personale.
135
MARIO SPECCHIO (1946-2012)
E IL SUO NOVECENTO
di Carmelo Mezzasalma
CESARE SEGRE, UN BILANCIO DEL NOVECENTO
Cesare Segre, della cui autorità letteraria e culturale
non possiamo dubitare, ha tentato un bilancio di questo
Novecento con una serie di annotazioni che a noi
sembrano esemplari e incontrovertibili. Egli esordisce con
una affermazione che non può essere saltata con una
semplice alzata di spalle tanto è precisa e drammatica
nella sua verità: «Crediamo si possa sostenere che questo è
stato il secolo più tragico della storia dell’uomo»97
. E
anche a prescindere dal fatto che, anche sul piano
letterario, occorrerebbe la competenza di uno storico
generale, di un antropologo e di un sociologo per
individuarne con esattezza gli specifici fatti letterari, è
fuori dubbio che questa affermazione vale davvero quanto
pesa e nessuno di noi potrà mai tenersene fuori. Continua
Segre: «Ma sono pochi i nostri scrittori che di questa
tragicità abbiano dato un’idea piena e motivata… Il dolore
ha sfiorato la tematica di qualcuno, ma nella forma di
dolore personale o familiare. D’altra parte, questo dolore
andrebbe scavato, per individuarne le componenti e le
motivazioni, eventualmente per dichiarare in modo
schietto una sconfitta. Forse è un momento in cui c’è
meno bisogno di poeti e di narratori che di pensatori o di
97
C. Segre, Note per un bilancio del Novecento, in Storia della
letteratura italiana, Vol. XVIII, cit., p. 1518.
136
investigatori del nostro essere nel mondo; ma l’Italia ne è
ben povera»98
.
Di fatto, il Novecento è sfociato in una
mondializzazione della finanza e delle intraprese che
hanno spento quasi tutte le “utopie” sorte nel dopoguerra,
mentre sono diventate altrettanto “globali” le spinte
emotive e spirituali dell’individuo. Il rifugio nel “privato”
non garantisce affatto che questo privato, anche
sentimentale, non sia diretto dall’esterno (pressione
sociale, influenza dei media, ecc.) e quindi, alla resa dei
conti, capace di intraprendere cammini nuovi di crescita e
di verità almeno umana. In questo stato di cose, la
letteratura sembra ormai diventata la realizzazione piena
della profezia di Hegel: l’arte ridotta a “dopolavoro” e a
tutto quel che ne consegue. Il mercato “globale” della
letteratura è lì a dimostrarlo, e d’altra parte la
“dipendenza” dell’artista nei confronti del mercato o della
autoaffermazione narcisistica mette in serissimo pericolo
la creatività dell’individuo e la sua capacità di dire
qualcosa di sensato e soprattutto di utile per il lettore.
E non è tutto: «Anche restando a traguardi più modesti
– aggiunge Segre –, non si vede chi cerchi di difendere
idealmente i molti successi ottenuti in quattro o cinque
millenni da quella che ancora chiamiamo cultura, e sappia
proporre le modalità per conservarla in un contesto in cui
essa è sempre meno valutata. Per fiacchezza o
indifferenza, assistiamo tutti senza muoverci al suo
declino. Non si profila nemmeno all’orizzonte un’entità
collettiva in grado di traghettare la nostra cultura per così
dire “umanistica” entro quella della multimedialità, che
per ora si espande senza incontrare ostacoli, e spinge a
prevedere la riduzione della nostra cultura a consolazione
98
Ivi.
137
di minoranze nostalgiche. Tanto meno si sente avvicinarsi
chi riesca a cavalcare l’innovazione tecnologica e
trasformarla in veicolo di una cultura rinnovata e
aggiornata»99
.
Occorrerebbe un nuovo Pico della Mirandola, un Max
Weber, forse un nuovo Nietzsche, e un Lacan per meditare
attentamente queste annotazioni di Cesare Segre che
fotografano, per così dire, la nostra realtà e lo stato di
indifferenza generale che circonda la nostra idea cultura. E
così trarne qualche, anche modesta, spinta ideale. Sta di
fatto che il “bilancio” di Segre è non solo vero, ma amaro
e sconsolato, sebbene consapevole che si tratta,
probabilmente, di una fase transitoria della nostra
situazione: «questo momento potrebbe essere seguito a
breve distanza da un nuovo fervore di idee e di iniziative:
l’istintivo vigore del solidarismo autorizzerebbe buone
speranze». Tuttavia, a nostro parere, occorre anche
preparare questa auspicabile rinascita con il tramandare
quelle esperienze letterarie che lungo il declino del
Novecento abbiano avuto coscienza della perdita di
identità della cultura letteraria e abbiano resistito, a modo
loro, anche nel silenzio o nella marginalità, ma fornendoci
un’immagine di letteratura almeno diversa e più autentica.
A questo tipo di “resistenza”, umana e spirituale, crediamo
che appartenga la parabola letteraria di Mario Specchio
che proponiamo a conclusione del nostro intervento.
UNA PARABOLA BREVE MA INTENSA
È vero, intanto, come avvertiva Octavio Paz, che il
rapporto tra società e letteratura che, dopo il Novecento è
99
Ivi.
138
diventato ineludibile, non è quello che intercorre tra causa
ed effetto. Il legame tra l’una e l’altra è al contempo
necessario, contraddittorio e imprevedibile. La letteratura
esprime la società e gli esseri umani che vi vivono;
esprimendola, la cambia, la contraddice o la nega.
Ritraendola, la inventa; inventandola, la rivela. Ma non è
detto che la società si riconosca nel ritratto che di lei fa la
letteratura. Eppure, quel ritratto fantastico o immaginato, è
reale: è quello dello sconosciuto che cammina al nostro
fianco fin dall’infanzia, e di cui non sappiamo nulla salvo
che è la nostra ombra (o siamo noi la sua?). Così la
letteratura è una risposta alle domande su se stessa che la
società si pone, ma questa risposta è quasi sempre inattesa:
all’oscurità di un’epoca risponde la forza abbagliante e
visionaria di un Lorca, alla chiarezza razionale di un
Illuminismo con le visioni “notturne” del romanticismo100
.
Allo stesso modo, al secolo più tragico della storia umana,
la letteratura risponde talvolta con i corsi e ricorsi di quella
idea di letteratura che, per comodità, chiamiamo romantica
ossia un’idea a tutto tondo, assoluta, e priva di
compromessi con l’attualità culturale più corriva e banale.
E parlando della testimonianza letteraria di Mario
Specchio (1946-2012) dobbiamo anche ricorrere ai nostri
ricordi personali.
Ho conosciuto, infatti, Mario Specchio in casa di Mario
Luzi negli anni Novanta del Novecento e lo stesso Luzi
non mi nascose la sua grande ammirazione per Specchio
che, tra l’altro, a quel tempo, lavorava con lui ad un libro-
intervista che sarebbe stato poi pubblicato con il nome di
Luzi e il titolo Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio
(Garzanti, Milano 1999). Questo libro, nella variegata e
100
O. Paz, Una terra, quattro o cinque mondi, Garzanti, Milano 1988,
p. 136.
139
folta bibliografia luziana, mi è sempre parso specialissimo
per l’intelligenza e la forza penetrante delle domande
nient’affatto compiacenti nei confronti di un grande poeta
riconosciuto e affermato come Luzi. Erano domande che
non solo incrociavano l’avventura di Luzi, ma anche
quella del Novecento a noi più vicino e stringente. In altre
parole, esprimevano anche il travaglio interiore dello
stesso Specchio che cercava nel poeta di Al fuoco della
controversia non tanto delle risposte, quanto piuttosto il
dialogo e il confronto, pur nel rispetto delle modalità e dei
tempi dell’avventura luziana. Così, nella conclusione del
voluminoso libro-intervista, ci sorprende ancora la
domanda di Specchio, soprattutto nelle parole finali, circa
il fatto che tra l’uomo e il poeta avviene non solo
un’osmosi, ma anche una sparizione dell’uomo tutta a
favore dell’opera e viceversa: «Ecco – chiudeva la sua
domanda Mario Specchio –, è questo forse che un tempo
avevi sperato, quando ti auguravi che la parola e la lingua
diventassero parola degli uomini, parola della natura,
parola delle cose, in qualche modo liberata dalla stessa
presenza di chi la pronunciava»101
.
È anche qui, oltre che in Luzi, quella visione della
letteratura che Mario Specchio aveva maturato
personalmente. Dunque una sua poetica precisa quale ha
testimoniato nelle sue quattro raccolte poetiche, mentre
non bisogna dimenticare che egli era un germanista
finissimo e agguerrito, studioso e traduttore di Goethe,
Rilke, Hesse e Celan. Il fior fiore delle letteratura tedesca
nei suoi snodi storici e culturali di grande esemplarità tra
101
Mario Luzi, Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio, Garzanti,
Milano 1999, p. 301.
140
“classicismo” e “romanticismo”102
, ma anche – con Hesse
e Celan – gli snodi del Novecento rappresentati dalla due
guerre mondiali. D’altronde, non è un caso che Specchio
abbia avuto l’amicizia di un germanista come Ferruccio
Masini, autore di un celebre saggio su Nietzsche, Lo
scriba del caos, nonché finissimo poeta lui stesso, e senza
contare l’altra con Antonio Tabucchi che lo ha confortato
negli anni della sua vita. In ogni caso breve, anche se
molto intensa e significativa, è stata la parabola creativa di
Mario Specchio. Quattro libri di poesia, ripetiamo, e un
libro di racconti: A piene mani (Vallecchi, Firenze 1976),
Nostalgia di Ulisse (Passigli, Firenze 1999), Da un mondo
all’altro (Passigli, Firenze 2007), Passione di Maria – con
quattordici tavole di Ernesto Piccolo, uscito postumo nel
2013 (Edizioni Feeria. Comunità di S. Leolino). A queste
raccolte si aggiunge il bellissimo libro di racconti Morte di
un medico (Sellerio, 2004).
La morte improvvisa di Mario Specchio, nel settembre
del 2012, ha interrotto sciaguratamente questa parabola
che si annunciava ancora più ricca a giudicare dalle
raccolte pubblicate e anche premiate da riconoscimenti
come il Premio “Fiore” per la poesia (2008) e il Premio
internazionale “Roberto Farina” dello stesso anno. Di
questa parabola creativa di Specchio, vorrei tentare, in
102
Ricordiamo i lavori di Specchio come germanista: traduzioni di
Urfaust di Goethe (1985), di L’ultima estate di Klingsor (Guanda,
1977), delle Poesie (Guanda, 1978), di Knulp: tre storie della vita di
Knulp (Marsilio, 1989), Vagabondaggio e Racconti brevi (Newton
Compton, 1992 e 1995), tutti di Hermann Hesse; e poi Poesie alla
notte, Lettere su Cézanne, Vita di Maria, Canto d’amore e morte
dell’alfiere Christoph Rilke, tutte opere di Rilke, e pubblicate con
l’Editore Passigli di Firenze (1999-2009). Tra i saggi: Paul Celan.
L’incantesimo dell’assurdo (Edizioni di Barbablù, 1986), Paesaggio
senza figure. Quattro saggi rilkiani (Artemide, 2011).
141
questa sede, non tanto una analisi critica circostanziata
sulle singole raccolte poetiche, quanto una lettura di
interpretazione complessiva per situarla nel panorama
letterario del Novecento. Nella speranza di rendergli un
omaggio profondo e motivato, come spero mi riuscirà di
fare.
NEL NOME DEL MITO
Il carattere del creatore, come lo ha analizzato
magistralmente Keats, è un modo dell’essere che apre un
ventaglio di nomi quali sensibilità, vulnerabilità, passività,
indolenza, accidia – termini tutti che non frenano, ma
esaltano l’audacia arrischiata e arrischiante di una creatura
che si offre, o si trova già da sempre offerta all’avventura
della creazione poetica. L’opera è, in questo senso,
qualcosa che accade. Un evento, e un avvento, come ha
detto giustamente Nadia Fusini103
. Una nascita e una
resurrezione. E colui, o colei, a cui l’opera accade, una
vittima e un eroe, condannato e prescelto a cucire i lembi
strappati dell’esistenza e della lingua.
Chi ha conosciuto personalmente Mario Specchio sa, al
di là di ogni dubbio, che tutta la sua personalità, la sua
straordinaria cultura letteraria, la sua sensibilità, perfino la
sua indolenza ed accidia – si svegliava ogni giorno a
mezzogiorno poiché lavorava, studiava e leggeva tutta la
notte! – contribuiva a fare di lui un “condannato e
prescelto a cucire i lembi strappati dell’esistenza e della
lingua”. Dunque, un creatore e un poeta. E quando sono
apparse le sue raccolte poetiche più illuminanti e
103
N. Fusini, Nomi. Dieci scritture femminili, Donzelli Editore, Roma
1996, p. VII.
142
significative, Nostalgia di Ulisse e Da un mondo all’altro,
ma con al centro il libro di racconti Morte di un medico,
ogni ombra di dubbio si è, a questo proposito, dileguata.
Mario Specchio teneva soprattutto a questa sua attività di
creatore, mentre la sua attività di germanista, pur amata e
seguita con acribia e intelligenza, quasi gli serviva per
portare acqua al mulino della creazione personale.
Non è senza significato, dunque, che la raccolta
Nostalgia di Ulisse sia nata e cresciuta all’insegna del
mito che è stato, sotto certi aspetti, la risposta, sia pure
drammatica e conflittuale, che molti scrittori e poeti del
Novecento hanno tentato di dare a quel secolo funestato da
lutti e sciagure. Il mito è, infatti, un serbatoio di immagini,
di significati e di avventure dello spirito, da sempre
presenti nel cuore umano, ma che risuscitati dall’artista o
dal cantore assumono tutto il loro carattere di universalità
e anche di universalità concreta, qui ed ora. Ma, al fondo
di questa resurrezione del mito, c’è sempre una ferita che
sanguina e che freme, e Mario Specchio ce ne dà
un’immagine bellissima e potente: «Il senso della storia,
della vita, / l’incantesimo cupo del pensiero / libri, parole,
grida, si contorce / l’angelo del peccato o della grazia / mi
chiedo ancora / ancora mi attanaglia / il ricordo di Eva
trasognata / in un giardino carico di frutti» (Nostalgia di
Ulisse, 19).
Così, il “nome” di Ulisse non deve ingannare a causa
della sua facile memoria – gran parte del Novecento lo ha
evocato, in un modo o nell’altro - , quel nome indica
piuttosto la fragile e perigliosa “navigazione” nell’atto
creativo e nell’auscultazione di quell’evento che è l’opera
poetica nel suo essere attesa e invocata. L’Itaca del sogno
o del viaggio tra memorie e ricordi, tra luoghi amati e
tuttavia sempre perduti, tra gli anni che franano nella
nostalgia di un impossibile ritorno a motivo dei venti
143
infausti della storia e delle vicissitudini umane e non solo
umane. Ed ecco l’Itaca di Mario Specchio: «Itaca, un
suono un nome una memoria / che risuonò nel fuoco dei
bivacchi / e il fortilizio agguerrito delle mura / di Troia era
una spina nella carne. / Danze di ulivi a picco sui vigneti /
fianchi colmi di ancelle nella reggia / Telemaco si esercita
con l’arco / paterno e la stanchezza si abbatte rovinosa /
col sole del meriggio sulle mandrie» (Nostalgia di Ulisse,
37). Dal che comprendiamo subito che il poeta, più che
identificarsi in Ulisse, scopre la sua condizione profonda
nel figlio Telemaco, in cerca del padre ossia di un grembo
universale nel quale riversare tutta la sua nostalgia, la
febbre di amare e di essere. Quel Padre che lascia
un’eredità da vivere e da coltivare è il grande assente del
Novecento (non solo letterario), dal momento che vi
hanno dominato Edipo e Narciso, il conflitto e la
negazione della differenza. Lo scacco è inevitabile e senza
redenzione. Che senso potrà avere la condizione umana
ferita e senza punti di riferimento? E dunque, anche del
creatore e dell’artista?: « Ho archiviato le carte del destino
/ non so leggerle e forse non mi importa / sapere quale
fosse il senso / che altri stabilirono per me» (Nostalgia di
Ulisse, 66).
Di fatto, come affermava Lacan, dopo il tramonto
dell’autorità simbolica del Nome del Padre, il mito
dell’espansione fine a se stessa ha condotto la nostra
millenaria cultura nel vicolo cieco delle guerre e della
scomparsa dell’etica, mentre, nella società dei consumi e
dello spettacolo, l’egemonia del figlio-Narciso ha fissato
la sterilizzazione di intere generazioni. Esiste, a questo
punto, un al di là del figlio-Edipo o del figlio-Narciso? Un
al di là delle guerre e di un individualismo senza porte né
finestre? E tuttavia, anche nel nostro mondo esiste la
domanda di Telemaco, il figlio di Ulisse, che attende il
144
ritorno del padre e prega e invoca affinché sia ristabilita,
nella sua casa invasa dai Proci, la legge della parola.
Molto tempo prima che Massimo Recalcati ci avesse
abituati con le sue analisi a sentire questa voce di
Telemaco, un poeta, come Mario Specchio, ha individuato
questa voce, anche se l’ha intesa al centro della sua
suprema interrogazione circa il senso di quel desiderio che
è all’origine della creatività.
E per un temperamento creativo, questa nostalgia del
padre ha il nome di “tradizione”, ereditarietà della parola e
del senso della parola, quella tradizione che la seconda
metà del Novecento ha inteso distruggere con le
retroguardie degli avanguardisti – il famoso Gruppo ’63 –
che ci ha lasciati tutti orfani o almeno in attesa del padre
Ulisse. «Se gli uomini potessero scegliere ogni cosa da
soli, per prima cosa vorrei il ritorno del padre», afferma
Telemaco nel canto di Omero (Odissea, XVI).
NELLA MEMORIA DELLA PAROLA
Non a caso, quindi, Nostalgia di Ulisse sembra
chiudersi con questo acceso e supremo interrogativo sul
destino della poesia e, allo stesso tempo, con la ferma
condanna di tutti gli avanguardisti di turno che vorrebbero,
ma soltanto esteriormente, rinnovare l’esercizio della
poesia: «Si scrivono poesie / scritte col sangue /ogni verso
una perdita / uno strappo / una vita rinchiusa in quattro
fogli. // Poi verranno le sanguisughe con gli occhiali /
verranno gli avanguardisti a tempo pieno / con in mano un
bicchiere di Martini / con tutte le loro tavole rotonde / per
concludere che in fondo, sì, però / si poteva far meglio / si
poteva “esperire” / un linguaggio più moderno» (Nostalgia
di Ulisse, 63).
145
Ben altra è la ferita che sente la nostra storia e ben altra,
per conseguenza, la ferita che sente in sé Mario Specchio.
Una ferita che va molto al di là dei propri fallimenti
esistenziali, delle proprie malinconie e scacchi della vita.
È la ferita di un’intera tradizione, di un’intera cultura, ben
testimoniata dal nostro Novecento, nella quale si
comprende perché l’ansia del futuro degli scrittori
modernisti (il futurismo di Marinetti ed altri), sia stata
soppiantata, negli scrittori del secondo dopoguerra,
dall’ansia per il passato. Ha scritto giustamente
Alessandro Piperno a questo proposito: «Profezia e
Memoria. Due facoltà antitetiche che spiegano molto del
secolo che da poco ci siamo lasciati alle spalle (il
Novecento). E, d’altronde, più in generale, due modi
alternativi di concepire il rapporto che ciascuno di noi
intrattiene con la propria genealogia e con il proprio
destino»104
. Mario Specchio, in questa prospettiva, sembra
appartenere alla seconda modalità, quella dell’ansia per il
passato, lasciandoci intravedere tutto il dramma che
accompagna questo destino legato alla memoria.
D’altra parte, Fernanda Caprilli, in un suo intervento
sulla raccolta Da un mondo all’altro, che raccoglie poesie
che vanno dal 2000 al 2006, coglie un’intuizione
illuminante e profonda nel mettere al centro dell’opera
proprio quel Lamento di Prometeo che, in realtà, è stato
scritto da Mario Specchio nel 1988. «Il lamento di
Prometeo – scrive – offre, a mio avviso, una chiave di
lettura interessante per capire la visione del mondo che è
alla base della riflessione e della poesia di Specchio.
Prometeo, come sappiamo, dà all’uomo la civiltà, gli dà
cioè la consapevolezza di essere uomo. Ma, nella
disubbidienza di Prometeo, nel suo essere un dio molto
104
A. Piperno, Contro la memoria, Fandango Roma 2012, p. 31.
146
simile agli uomini, è implicita anche la sua condanna.
Secondo alcuni studiosi infatti, il mito di Prometeo
rappresenta il superamento da parte della coscienza di uno
stadio “primitivo”; ma poiché il passaggio allo stadio
superiore viene attuato attraverso una trasgressione, l’atto
comporterebbe non solo la perdita di una ”innocenza
primitiva”, ma anche la convivenza con un perenne stato
di conflittualità: “ non dio, non Titano, non uomo – scrive
Goethe – bensì l’immortale prototipo dell’uomo quale il
Ribelle simile agli dei, primo abitante della terra”».
È decisiva questa annotazione di Fernanda Caprilli? Sì,
lo è infatti precisa subito dopo: «Il richiamo al mito è
niente più che una trasposizione in chiave simbolica della
condizione umana, in cui si avvertono, a mio avviso, echi
del titanismo leopardiano che porta l’uomo ad essere
consapevole della sua infelicità e, insieme, a resistere». Il
messaggio di Da un mondo all’altro è quindi: «la vita
richiede delle prove e non ci resta che opporsi, non ci resta
che resistere». E tuttavia, come resiste il poeta Mario
Specchio nel seguito di questo enigmatico e lancinante
inizio di Il Lamento di Prometeo? Gran parte di questa
raccolta poetica è fatta di memorie, ricordi di amici
scomparsi, luoghi, donne amate e perdute, il padre e la
madre, il che fa pensare che il poeta abbia cercato nella
poesia il modo di resistere alla distruzione del tempo e al
dominio incontrastato dell’Oblio. Scrivendo su
Carabiniere morto in Iraq, la poesia conclude: «Non
applaudite quando la mia bara / uscirà dalla chiesa. /
Lasciatemi al silenzio dei deserti» (Da un mondo all’altro,
91). L’oblio incalza anche nella poesia dedicata al padre,
assai suggestiva e scritta in Venezuela: «Ti parlo da
lontano e tu mi senti, / o forse no, / forse non sai neppure
più chi sono / e sotto questo cielo tropicale / mi trafiggono
gli occhi dei bambini…/ qui dove i morti si nutrono di
147
latte / nessuno sa che sei esistito un giorno, / e fosti tutto, /
solo per un giorno» (Da un mondo all’altro, 92).
Il passato, anche il proprio passato familiare è per il
poeta inaccessibile e la poesia è l’unica parola che lo fa
ancora esistere. Per questo motivo la poesia usa questo
tono drammatico quasi a sancire la distanza siderale tra il
presente e il passato. Così capiamo che la questione della
memoria, con tutto quello che significa, è stata per Mario
Specchio non solo centrale, ma soprattutto tragica. Ed è
qui la cifra, originale e profonda, di tutta la parabola
creativa di Mario: l’aver scelto una dimensione tragica del
fare letterario in un tempo che fa di tutto per allontanare
da sé il tragico del vivere. È la resistenza romantica che il
poeta ha perseguito e colto lungo le fasi della sua
avventura esistenziale e poetica. Ed ha ragione, tutto
sommato, Alejandro Oliveras allorché, scrivendo la
Prefazione a Da un mondo all’altro, ha potuto dire che è
un itinerario esistenziale ma anche metafisico: «… è la
cronaca di questo percorso, composta con una scrittura
mozartiana, discreta ed equilibrata. Specchio è il felice
inventore di un inaspettato “stile nuovo” nella lirica
italiana contemporanea. Qualcosa di straordinario e di
paradossale che si potrebbe definire come un
“romanticismo-classico”. Se questo stile dovesse fiorire,
Mario Specchio ne sarebbe senza dubbio il suo primo
maestro».
149
IL CORPO, IL TESTO, IL PENSIERO:
MESSAGGI DALLA POESIA
DI VALERIO MAGRELLI
di Antonio Di Silvestro
Cosa può dire una poesia come quella di Valerio
Magrelli, e quale traccia di lingua/pensiero può lasciare
una lirica attraversata da una forte tensione speculativa, da
un «ragionare freddo e gentile, aggraziato e implacabile
[…] sui meccanismi dell’esistere»?105
Una poesia che
parla del rapporto di distanza tra sé e il mondo, e che
attraverso la trasparenza delle parole sperimenta un lucido
esercizio della ragione: «Per me la ragione / della scrittura
/ è sempre scrittura / della ragione» (Io non conosco).106
Il primum di questa poesia è la percezione di sé, della
propria unità-dualità di corpo/mente-pensiero, e del
mondo circostante, in quanto pensabili e scrivibili sulla
pagina. E sono proprio parole come pensiero, corpo,
carne, membra ecc. che veicolano con la loro ricorsività il
tema del primo Magrelli, quello della visione legata alla
“superficie frastagliata dell’occhio” (sintagma che è
traduzione del titolo Ora serrata retinae). Che ne è ad
esempio, volendoci soffermare sul secondo sostantivo più
ricorrente,107
del corpo di chi scrive? Leggiamo la lirica
105
È un’opinione di Giorgio Manacorda, nella sezione dedicata a
Magrelli di La poesia italiana oggi. Un’antologia critica, Roma,
Castelvecchi, 2004, p. 303. 106
V. Magrelli, Ora serrata retinae, in Poesie (1980-1992) e altre
poesie, Torino, Einaudi, 1996, p. 93. 107
Per un’analisi in chiave lessicografica della poesia di Magrelli
rinvio a S. Jansen e P. Polito, Tema e metafora in testi poetici di
Leopardi, Montale, Magrelli. Saggi di lessicografia letteraria,
Firenze, Olschki, 2004, pp. 107-137.
150
‘manifesto’ del Magrelli anni Ottanta, confrontandola con
una prima versione a stampa, a sua volta derivante da un
autografo in cui la poesia reca il titolo Pozzo verticale:
Il corpo è chiuso come una
muraglia,
è come un pozzo immerso nella
carne
che non giunge ad avere
impressione di sé.
E le sue membra stanno
mute e cieco e fermo
nella gamba riposa il ginocchio.
Ma nella testa s’apre
l’alba del mondo:
l’osso si allarga, accoglie
dentro di sé lo sguardo.
Dolcemente si compie
il paziente travaso del vedere,
acquedotto di chiarore, strada
che porta l’essere a se stesso.
E nella radura della fronte il portale del ciglio ha la sua luce.
Splendido l’occhio.
Questo è il suo segreto.
Il corpo è chiuso come una
muraglia,
è un pozzo immerso nella carne.
Né potrei dare al ginocchio
l’impressione
di sé: giace muto, nell’incavo
che gli offre il giaciglio.
Ma nella testa, per un inaudito
malinteso,
s’apre l’alba del mondo.
L’osso si allarga e accoglie dentro
sé lo sguardo.
Dolcemente si compie
il paziente travaso del vedere,
acquedotto di chiarore, strada
che porta l’essere a se stesso.
E nella radura della fronte
il portale del ciglio ha la sua
luce.108
La contrapposizione che anima questi versi è quella tra
l’immobilità/chiusura del corpo (che in un’altra poesia
«vorrebbe chiudersi nel cervello / per dormire»; A
quest’ora l’occhio) e l’apertura, il dischiudersi della vita
che si compie, dolcemente, grazie allo sguardo, veicolo
dell’autocoscienza del soggetto («acquedotto di chiarore,
strada / che porta l’essere a se stesso»). Le parole e le
metafore significanti l’apertura e la comunicazione tra
108
V. Magrelli, Hylas e Philonous, in Quarto quaderno collettivo,
Parma, Guanda, febbraio 1979, p. 108.
151
interno ed esterno sono tuttavia prevalenti: s’apre, si
allarga, travaso, fronte, portale, alba, luce. Un’apertura
che è esplicitata dai due versi incipitari della prima
versione a stampa (e prima di quella autografa), incisi in
modo quasi epigrafico e a mo’ di prolessi: «Splendido
l’occhio. / Questo è il suo segreto». Altrettanto
interessante è il fatto che nel manoscritto figuri un appunto
che paragona la nudità della fronte («radura della fronte»)
alla facciata incompiuta di Santa Maria dei Sette dolori,
opera di Borromini, mostrando come l’autore metaforizzi
architettonicamente (seguendo certamente Valéry) ogni
declinazione della corporeità.
Il corpo sembra invece racchiudere l’immobilità,
l’invarianza (esso «non si perde / in una variazione
infinita»), e costituisce una espressione dell’esser-ci, un
paradigma di immutabilità attorno al cui «asse si
compiono / le stagioni della nostra carne» (Così il corpo
non si perde),109
sostantivo quest’ultimo che fa pendere la
bilancia esistenziale sul versante della mobilità, del
mutamento.
L’auspicio è allora quello di una trasformazione in
segno, funzionale a rimanere nella materialità dell’opera,
nel testo fatto di carta e di parole, in cui il bianco è
omologo alla forza dello sguardo («Foglio bianco / come
la cornea d’un occhio»).110
La poesia accampa un discorso
di apparente privazione della soggettività poietica, che
invece si trasfonde in una sequela metamorfica che non
comporta traumi di sorta (perché l’«eclissi della materia» è
anche questa volta dolce). Il trauma doloroso è invece
quello di chi rimane corpo, senza poter divenire «ossatura
/ esile del pensiero»:
109
Ivi, p. 44. 110
Ivi, p. 25.
152
Essere matita è segreta ambizione.
Bruciare sulla carta lentamente
e nella carta restare
in altra nuova forma suscitato.
Diventare così da carne segno,
da strumento ossatura
esile del pensiero.
Ma questa dolce
eclissi della materia
non sempre è concessa.
C’è chi tramonta solo col suo corpo:
allora più doloroso ne è il distacco.
Ma allora quella del corpo è una condizione non solo di
immobilità, ma anche di transito necessario, quasi di
pedaggio (parola adoperata in Se io venissi a mancare a
me stesso),111
mentre la carne si inscrive nell’ordine del
dinamismo, dell’élan vital, e in questo senso è parola che
tematizza profondamente questa poesia, anche perché in
essa convergono il soggetto scrivente e la materia con cui
esso scrive. Ma la presenza di carne è un vettore
semantico decisivo, e non è un caso che essa sia ricorrente
nella prima sezione di Ora serrata retinae, ossia Rima
palpebralis: «Superficie di carne [il quaderno] su cui
gratto / prima di prender sonno»; «Ma avevo ancora
attraversato il dolore, / e la carne era fresca / e tutto il
dubbio dissolto»; le «mutazioni della carne», ecc.
Nel suo testo più espressamente metapoetico Magrelli,
mediante la metafora del vetro della doccia, afferma che
«La scrittura / non è specchio», ma è piuttosto simile al
«vetro zigrinato delle docce, / dove il corpo si sgretola / e
111
Ivi, p. 34.
153
solo la sua ombra traspare / incerta ma reale» (Dieci
poesie scritte in un mese).112
A trasparire è solo il gesto,
non l’identità di chi lo compie. Pertanto «scrivere in
genere è nascondere», cioè rappresentare la realtà in
negativo, togliendole qualcosa «di cui sentirà la
mancanza» (Esistono libri che servono).113
La scrittura poetica ha dunque qualcosa di miope (e il
tema, o la poetica dello sguardo hanno un forte
addentellato biografico,114
a detta dell’autore, e dunque
precedono la ripetutamente sottolineata ascendenza con il
suo amato Valéry, studiato e tradotto),115
perché è
impegnata in una continua opera di decifrazione degli
oggetti (che è come «se parlassero per enigmi continui»
che la mente deve tradurre). Nell’opacizzarsi del segno,
dello sguardo che lo guida, nel disperdersi dei gesti
quotidiani legati allo scorrere del tempo, l’unica realtà
trasparente («l’unica cosa che si profila nitida») «è la
prodigiosa difficoltà della visione» (Sto rifacendo la punta
al pensiero).116
Si direbbe che il problema di linguaggio che la poesia
di Ora serrata retinae ci pone è la ricerca di un ubi
consistam delle parole, che, sembra dirci Magrelli, non
possono solo abitare nella pagina scritta, in quanto sono
traduzione del pensiero («La variazione della parola / fa
112
Ivi, p. 15. 113
Ivi, p. 68. 114
Lo sottolinea l’autore in un’intervista pubblicata in F. Napoli,
Novecento prossimo venturo. Conversazioni critiche sulla poesia,
Milano, Jaca Book, 2005, p. 121. 115
Ricordiamo la monografia Vedersi vedersi. Modelli e circuiti visivi
nell’opera di Paul Valéry, Torino, Einaudi, 2002, e le traduzioni di
L’idea fissa, Milano, Adelphi, 2008 e di Il mio Faust, trad. di V.
Magrelli e G. Pontiggia, con uno scritto di G. Pontiggia, Milano, SE,
1992. 116
V. Magrelli, Ora serrata retinae, cit., p. 37.
154
scivolare il pensiero / lungo la pagina»; La variazione
della parola).117
Esse vivono una condizione di erranza,
transitano sulla pagina (indicativa è nella stessa lirica la
paronomasia nomi…nomadi), e l’atto della loro fissazione
sulla carta (la scrittura) «è una morte serena» (Preferisco
venire dal silenzio).118
Per questo ritorna più volte nei
versi la metafora agronomica delle parole che vanno
coltivate («Ogni sera chino sul chiaro / orto delle pagine, /
colgo i frutti del giorno / e li raduno […]»; Ogni sera
chino sul chiaro),119
preparate con cura («Preparare la
parola / con cura, perché arrivi alla sua sponda /
scivolando sommessa come una barca, / mentre la scia del
pensiero / ne disegna la curva»).120
L’idea dunque di una
lingua in viaggio, che si cristallizza sulla pagina in una
«morte serena», ma che sottende l’autocoscienza di chi
l’adopera e che non si sente un demiurgo o un
privilegiato,121
e che per questo deve gestire questo
movimento della lingua che dalla pagina va al pensiero e
da questo al corpo.
Rimane di questa poesia un desiderio di identificazione,
espresso con immagini di sapore ungarettiano:
«distendermi nella pagina e dormire, / e diventare la mia
stessa reliquia» (Secondo le stagioni)122
, o ancor più di
scoprirsi perpetuamente «oggetto tra gli oggetti, / popolato
117
Ivi, p. 50. 118
Ivi, p. 10. 119
Ivi, p. 19. 120
Ivi, p. 10. 121
Magrelli ha sempre ritenuto che chi scrive «non abbia nessun
privilegio linguistico», indicando con privilegio «una facilità nei
rapporti con la lingua». Da qui l’idea di una scrittura che nasce da un
disturbo nei confronti del linguaggio (Scrittura e percezione: appunti
per un itinerario poetico, in «Il verri», s. IX, n. 1, marzo-giugno 1990,
p. 185. 122
Ivi, p. 20.
155
di oggetti».123
Una passione per le cose e delle cose che fa
pensare a Francis Ponge (autore molto amato da Magrelli).
Ma viene da chiedersi: desiderio di annullamento
dell’autore nell’opera?
Raccogliendo alla fine degli anni Novanta le sue prime
tre raccolte, Magrelli afferma che un libro nuovo è di
fronte al suo autore «come un bastardo che sollecita
l’adozione».124
Quindi quello di autore appare come un
concetto limite, legato a un fisiologico tasso di
smarrimento che accompagna ogni nuovo libro di uno
scrittore; nel caso opposto non si finisce col cercare un
autore, ma la sua ripetizione.125
Forse che questa poesia lascia intravedere una
sotterranea dissoluzione della nozione di autore, o ancor
meglio di autorship? E in quest’ottica, quanto del concetto
di testualità rimane? Magrelli sembra rimettere in
discussione la nozione di testo letterario, consegnando ai
lettori del terzo millennio un’immagine diversa di
tradizione. Per lui un’opera nuova è una sorta di
dispositivo attrezzato per esorcizzare «l’aggressione di
quella lingua madre costituita dal patrimonio ereditato»,
«dall’invasione di una voce-matrice proveniente dal
passato».126
La tradizione sarebbe dunque un disturbo
soggiacente all’atto dello scrivere, una sorta di
interferenza continua? Il lavoro del poeta è dunque quello
di ‘immunizzare’ il testo?
Non più allora bloomiana angoscia dell’influenza, ma
perturbanza, inquilino che si insinua, non più padre
pervasivo. Un concetto di intertestualità non più ad
123
Ivi, p. 34. 124
Dalla nota introduttiva a Poesie (1980-1992) e altre poesie. 125
Intervista a F. Napoli, cit., p. 131. 126
V. Magrelli, L’invasione degli ultratesti, in «Critica del testo», VI,
2, 2003, p. 806.
156
ascendenza unica, ma a «diffusione rizomatica»,127
di tipo
insomma virologico. Non è un caso che un nume tutelare
del nostro Novecento come Petrarca, estraneo alla
formazione di Magrelli, sia ‘fruito’ per un mero clic
stilistico come quello dell’enumeratio caotica, che
richiama i versi polinomici del Canzoniere.
Un testo annegato negli intertesti, o anche dissolto
negli ipertesti? Soffermandosi sul tema della lettura,
nell’ultima sua raccolta Il sangue amaro (2014) Magrelli
ha intitolato appunto La lettura crudele una sequenza di
«undici endecasillabi in forma di ipertesto», scaturiti da un
testo matrice ogni verso del quale ‘genera’, o meglio
‘apre’ una nuova pagina-testo.
È una poesia, questa, che, come le grandi
‘provocazioni’ novecentesche e post-avanguardiste,
sembra lasciarsi dietro e lasciarci più domande e questioni
aperte che messaggi che possano migrare (per riprendere il
tema pervicacemente ‘disseminato’ da Giovanni
Occhipinti nel suo recente Il mondo attorno a un verso?
[Rubbettino, 2010]) nel nuovo millennio. Due punti vorrei
tuttavia rimarcare, in margine all’ascolto ripetuto di un
libro così innovativo per le poetiche dominanti negli anni
Ottanta come Ora serrata retinae:
1) L’idea di una poesia che mette in parentesi il
soggetto (l’io lirico di derivazione romantica europea) per
privilegiare lo sguardo e l’atto mentale. In questo senso ci
si può chiedere: la de-soggettivizzazione è una strada da
percorrere per poter essere inclusivi, u-topici, globali?
2) Una poesia-pensiero, o meglio un pensiero-corpo-
scrittura semantizzato nelle parole della poesia. Qui si
sente nella scrittura di Magrelli l’insegnamento di Valéry,
che significa esercizio puro della ragione, parola depurata
127
Ivi, p. 808.
157
da ogni contingenza, da ogni traccia empirica, architettura
(della poesia, del linguaggio) come espressione
dell’immediatezza della presenza divina. Si può arrivare,
anche con inedite commistioni di linguaggi (penso tra tutti
a quello tra ‘parole’ poetiche e ‘termini’ della scienza) a
costruire una poesia-pensiero che parli non solo alla ragio-
ne ma anche alle emozioni?
È uno spiraglio che il primo Magrelli lascia
intravvedere, quando dice che «La prima gemmazione
dello spirito / è dunque nella lacrima, / parola trasparente e
lenta» (È specialmente nel pianto).128
128
V. Magrelli, Ora serrata retinae, cit., p. 26.
159
PALERMO NELLA POESIA DI MARIO LUZI
UNA TESTIMONIANZA, UN’AMICIZIA
di Piero Longo
Memorie panormite nella poesia di Mario Luzi se ne
possono trovare tante, direi anzi che la più parte sono
nascoste in versi che neppue i suoi amici “di là dal faro”
possono riconoscere e indicare se non abbiano vissuto con
lui i tanti giorni che il poeta trascorreva nella mia città,
non solo come Presidente Onorario del “Centro di Cultura
Siciliana Giuseppe Pitré” ma anche da amico e sodale
quando d’estate veniva a trovarci a Mondello e ci diceva
appena sceso dall’aereo “cca sugnu!”. Ospite nella villetta
del Presidente Mimmo Bruno, medico, poeta dialettale,
scrittore e cofondatore nel 1970 di quel Centro culturale
dove, negli anni tra il ’75 e il ’99 del secolo scorso, si
potevano incontrare intellettuali, poeti, scritttori e artisti
non soltanto italiani, restava intere settimane a scoprire
con noi i musei e gli angoli più segreti della città. Lo
incontravo di mattina quando tornava dal mare lungo il
viale Regina Margherita perché andava in spiaggia
prestissimo per sfuggire la grande calura e tornare a casa
prima del mezzogiorno. Girovagava con me nel
pomeriggio o si stava tutti insieme a conversare prima e
dopo la cena spesso servita a turno nelle nostre case nelle
quali le signore mogli facevano a gara per ospitarlo: a casa
di Elio Giunta, Rosalia che gli preparava le specialità
siciliane, a casa mia, Elide che serviva la “scorsonera” con
i gelsomini di cui egli era ghiotto. Nelle mattine più
fresche di settembre si scendeva invece in città. Palermo
viveva allora i suoi incubi e le sue quotidiane aggressioni e
delitti di mafia e le strade e i quartieri si dilatavano a vista
d’occhio fagocitando i giardini della Conca d’oro. Il
160
“sacco” però non era ancora pieno perché al di là delle
ville storiche già assediate e dei viali alberati, villette e
casone abusive si nascondevano rodendo anche il verde
della Piana dei Colli e fagocitando le antiche trazzere di
Pallavicino e Fondo Anfossi, mentre non esisteva ancora
l’odierno Viale Olimpo, divenuto in seguito strada
alternativa all’attraversamento del parco della Favorita.
Uccisi dal punteruolo rosso i palmizi che si alternavano
alle corìsie, ora quelle due grandi corsìe che hanno inizio
dopo la rotonda prossima a San Lorenzo colli in fuga
prospettica verso la direzione del monte Pellegrino,
confluiscono in altra più amplia e travagliata rotonda da
dove si dipartono anche le tre direzioni Mondello,
Partanna, Pallavicino. Queste ex borgate nelle quali ville
settecentesche, casine e villette Liberty raccontano ancora
la storia dell’espansione extra-urbana non pianificata della
città “bella e infìda”, come dice Annarosa in una delle
battute finali de Il fiore del dolore (2002), sono ormai
affogate nella cementificazione livellatrice che mortifica e
confonde una società che va sempre più perdendo la sua
identità. E, infatti, nel suo intervento la donna rivolgendosi
agli interlocutori afferma dolorosamente: “non la reggo
più, la rifiuto e intanto la desidero. Che strazio. Così è
Palermo per chi la ama e l’ammira e per chi la esecra.”
Battuta che fa eco a quei versi inquietanti di Palermo,
Aprile 1986 oggi confluiti in “Luzi L’opera Poetica”
(Mondadori 2015, Perse e Brade, pag.1210), che suonano
ancora oggi con la loro intonazione quasi profetica: “Gli
scatti e i morsi, / gli stolzi ed i sussulti della sua oscura
malattia / conoscono un inspiegabile letargo / …Si purga
dai suoi mali o altri ne prepara / Palermo in questa oasi /
se è un’oasi che si è aperta nel suo ventre, come pare, e
non un’officina di crimine e di morte / intenta a un più
subdolo lavoro che così si affina.” Ancora non erano
161
avvenute le stragi di Capaci e di via D’Amelio e la
tragedia di Padre Giuseppe Puglisi era impensabile. In una
delle sue prime visite, forse nel ’79, quando Paolo
Messina ed io presentammo agli Amici del Pitré il suo
Libro di Ipazia (Rizzoli, 1978) che nel ’71, come dramma
radiofonico, aveva ripreso il tema del sacro nel teatro e
aperto una nuova strada alla poesia drammaturgica,
dovrebbero risalire le prime immagini della Palermo
chiaramontana poi riprese nei versi dedicati a noi amici
alcuni anni dopo. Fu in occasione di un convegno sulla sua
poesia, o forse per la presentazione di Rosales (Rizzoli,
1983), ma certamente prima che a Villa Igea Elio Giunta
ed io presentassimo al pubblico palermitano il Viaggio
terrestre e celeste di Simone Martini (Garzanti 1994)
quando, visitando la chiesa della Martorana, mi chiese,
tornando da via Maqueda, che recitassi in greco il
Padrenostro mentre camminavamo ricordando Cristina
Campo e il rito greco-bizantino della tradizione ancora
viva in questa attuale chiesa dell’Ammiraglio Giorgio
d’Antiochia, che aveva fatto venire da Costantinopoli i
maestri comneni per la messa in opera dei cicli musivi
nella splendida Cappella Palatina di re Ruggero e
contemporaneamente in quello che era l’originario
oratorio privato del suo palazzo. Mario era stato con me a
Cefalù, a Monreale e più volte a Palazzo reale e fu
certamente dalla rievocazione di tutto quell’oro e azzurro e
dalla visita allo Steri che nacquero quei bellissimi versi a
noi dedicati con tanto affettuoso afflato: “Come pesci in
un’acqua luminosa / loro nel loro azzurro settembrino./ I
loro fiori ne sono umidi e lucenti, / lievi i palmizi, profondi
i loro ficus./ E lì / dentro si svisa / Palermo tra araba e
normanna / tra araba e angioina / o si erge a un tratto
dura chiaramontana. / Questo hanno, questo ti regalano /
essi e la loro liquida mattina.” I versi si trovano nella
162
raccolta Per il Battesimo dei nostri frammenti per la quale
gli fu assegnato il Premio Mondello 1985 e già i palmizi
dei mosaici della Sala di re Ruggero e quelli di Villa
Bonanno si erano assommati ai grandi ficus dominati dallo
Steri chiaramontano divenendo memoria poetica delle
passeggiate normanne che avevo tramato per le sue visite
e trasformato poi in un poemetto che gli avevo dedicato.
Quell’estate i nuovi ritmi furono marini e mondelliani
anche se erano stati turbati dall’imprevisto incontro con
Leonardo Sciascia cui era stato dato contemporaneamente
un premio speciale che aveva adombrato quello per la
poesia e messo in secondo piano il poeta i cui rapporti con
il nostro più famoso scrittore non erano mai stati felici. Ci
ridevamo su attribuendo al Consiglio d’Egitto e al solito
Abate Vella il misterioso complotto che aveva sortito
l’incontro inopportuno. E infatti, ritornando a Palermo,
aprile 1986, a proposito dei misteri panormiti, egli dice:
“interpellati i miei amici di qua / sono simili ad uomini di
mare / per cui nulla è imprevedibile / sono aperti a ogni
segnale e catafratti ad ogni male, sebbene sotto sotto /
amari, sebbene non rassegnati al peggio. / Saprò forse
domani che questo splendido torpore / era fitto di crude
operazioni,ed anche / questo abbaglio / ingannevole ci
ammalia… così è Palermo.” Proprio come concluderà
Annarosa nel dialogo con l’Opinionista che indagava
sull’omicidio di don Puglisi, nella tredicesima sequenza
del dramma andato in scena nella stagione 2002/2003 al
Teatro Biondo Stabile di Palermo con la regìa di Pietro
Carriglio. Gli abbagli panormiti Luzi li aveva rivissuti
ancora con me durante la lunga stesura del testo per la cui
sceneggiatura lavorammo insieme sia a Firenze che a
Palermo quando lo accompagnai a Brancaccio per visitare
i luoghi della tragedia e ci incontrammo con le persone
che avevano conosciuto don Pino e vissuto con lui
163
l’esperienza di una evangelizzazione i cui frutti si sono
cominciati a cogliere subito dopo la sua morte, causata
appunto da quel suo scomodo seminare. Durante quegli
incontri le sue riflessioni andavano lievitando e infatti
proprio nella sua preghiera il personaggio della suora,
Madre Vincenza, ruolo magistralmente interpretato da
Gianna Giachetti, così dice “Signore, cuoce lentamente /la
materia umana,/ deserta, desolata./ Cuoce nel suo dolore,
/ nella sua ignoranza./ Il suo greve spessore ne ritarda
l’incandescenza,/ ma tu mandi l’ardore / del Figlio ad
avvivare la fiamma. / A lei altri avvamperanno / abbagliati
dal tuo fulgore. / Proteggili, Padre con il tuo amore.”
L’abbaglio e la pietà per la desolazione e il deserto
sembrano descrivere il paesaggio umano della
degradazione di quel quartiere famigerato nel quale si
trova anche il palazzo di Maredolce col suo lago
prosciugato e la memoria del fasto della corte normanna
che egli aveva già descritto traducendo la famosa poesia di
Abd-ar-Rahman al trabanishi “Favara dai due mari ogni
valore e pregio” per l’antologia della Mondadori curata da
Francesca Corrao nella quale i poeti italiani
contemporanei si misuravano con i testi arabo-siciliani.
Ricordo le nostre diatribe fiorentine passeggiando lungo
l’Arno a Bellariva quando ci incontravamo a casa sua per
definire la sceneggiatura per la messa in scena, accurata in
ogni particolare ma spesso in conflitto con la regia
palermitana che richiedeva continui aggiustamenti per
venire incontro alle esigenze del compositore Matteo
D’Amico e alle necessità di raccordare i cori
dell’ensemble vocale del Conservatorio Bellini con la
sequenza delle scene e gli interventi del direttore
d’orchestra Carmelo Caruso. Furono per me viaggi e
abbagli fiorentini divenuti poi versi (ora editi nel mio
Probabili orditure, Plumelia 2013) e lettere nelle quali
164
Luzi mi indicava alcune soluzioni e mi raccomandava di
intervenire per non stravolgere la sequenza originaria
come era accaduto precedentemente, ma con altra regìa,
per quel suo testo su Santa Rosalia, Rrrusulia, come lui si
divertiva a pronunziare con intonazione sicula, noto come
“Corale” sponsorizzato dal Sindaco Orlando per il Festino
di Palermo, nel quale la visione miracolistica tradizionale
era sostituitada una indagine “corale” appunto che si
interrogava sulla fede e sul male del mondo secondo un
procedere che fonde poesia e andamento drammaturgico
nel lineare flusso della coscienza che distingue i
personaggi di tutto il suo teatro. E poi ci sarebbero i
ricordi sul chiodo di Mozia, trovato lungo la spiaggia
presso la porta dove giungeva la strada sommersa, la
ridanciana parodia sulla sua traduzione improvvisata del
testo di Ciullo quando mi chiese di recitargli il Contrasto
mentre passavamo da Calatubo sotto Alcamo per andare a
Partanna e visitare il paese di Mimmo Bruno. Rimase
esterrefatto dentro la distrutta matrice dove teste e braccia
dei putti serpottiani e montagnole di stucchi e stoffe e
parati da messa rivelavano l’antico fasto della religiosità
siciliana che nei templi abbattuti di Selinunte avevano il
loro antecedente in quel terremoto immane che aveva
creato una collina con le rovine del tempio di Giove che
gli aveva ricordato il viaggio e lo stupore di Goethe. Di
Palermo egli aveva memoria vivente nella pianta dei papiri
che gli erano nati (dal Papireto all’Arno!) nella sua
terrazza di Bellariva dopo che gli avevo preparato il
vasetto con il fiore stellato capovolto e già con le prime
radici bianche, avvolto e ben salvaguardato per il viaggio
in aereo! Anche le scarpe che gli misero per inumarlo e
che si è portato nella tomba, erano state comprate a
Palermo come regalo di noi amici, dopo una passeggiata
sotto la pioggia, perché non aveva un ricambio. Conservo
165
una foto di lui nella mia terrazza dei papiri che non ho mai
mostrato perché mi sembra che con la mia veste da camera
indossata dopo la doccia per riprendersi dall’acquazzone
che avevamo affrontato in 4 a piedi dalla Cattedrale fino a
piazza Bologni dove prendemmo un taxi, avrei potuto
offendere la sua signorile discrezione. Cercando nei suoi
ultimi versi si potrebbero riconoscere altre immagini che il
Presidente onorario del Centro Pitré aveva elaborato dalle
sue memorie e dal suo amore e abbaglio per Palermo di
cui anche lui, a suo modo, aveva cercato invano la chiave
perché, come farà dire all’opinionista del dramma sul
martirio di don Puglisi -Fiore del dolore - “mi piace
andare / in giro per questa Palermo / solare e assai
tenebricosa. /… È solo una invenzione dell’anima che ti
offrirà la chiave” e, come concludeva l’Eminenza:
“dobbiamo avere occhi / per questa visuale che si offre
alla nostra meditazione /se apriamo le finestre del presente
/ il quale tutto è, tutto contiene.” Nell’ultimo suo
soggiorno palermitano, quello della corsa sotto
l’acquazzone dopo la mattinata di sole e azzurro, Mario
Luzi era già senatore e aveva trascorso con noi il
Capodanno 2005, senatore a vita di questa Repubblica che
“ignominiosamente muore” come aveva scritto nel famoso
verso divenuto emblematico del suo impegno politico e
oggi per noi un monito e un segno di quella poesia
necessaria che illumina ogni vita spesa nella ricerca della
verità che agostinianamente abita nell’interiorità
dell’uomo.
167
IL LUOGO DELLE ORIGINI
di Andrea Guastella
Pensavo di parlare a braccio, ma stanotte mio figlio si è
svegliato e non c’è stato verso di farlo riaddormentare; tra
un cartone e una filastrocca, ho cercato quindi di far mente
locale sul titolo di questa rassegna, Interrogare il
Novecento. Un titolo – ce ne siamo accorti ieri durante
l’intervento di Giovanni Occhipinti – estremamente carico
di implicazioni culturali. Alcune, come quella che
Giovanni ha definito, non da ora, Trasmigrazione delle
poetiche, sono a mio avviso meritevoli di approfondimenti
ulteriori. Altre mi sembra vadano piuttosto rubricate sotto
la voce “sindacalismo letterario”. Se infatti è vero che non
solo i linguaggi ma addirittura le poetiche sono in
continuo movimento, che importanza può avere il mancato
riconoscimento di alcuni autori? La grande letteratura è
sempre contemporanea, ma non nel senso del successo o
del consumo. È contemporanea perché riflette un mondo e
ha in sé le domande – mai le risposte – più urgenti che
esso ci rivolge. Ma quali saranno mai queste domande?
Assodato, come scriveva Rimbaud, che Io è un altro, la
prima e fondamentale riguarderà l’identità, l’appartenenza
e il luogo delle origini. Non a caso, leggendo qua e là tra
gli inediti di Emanuele Schembari, poeta che amo molto e
a cui ho pensato di dedicare la mia breve relazione, ci si
imbatte subito in versi che evocano La casa dell’infanzia:
Nei miei ricordi le case dove ho abitato
in questi anni finiscono tutte col somigliarsi
ma soltanto la dimora della mia infanzia
che una ruspa ha distrutto tanti anni fa
torna nei miei sogni con alcune varianti
168
È come se, frequentandola, l’autore conservasse quella
freschezza di percezioni che consente ai fanciulli di
scoprire cose sempre nuove. Nulla di nuovo, lo sappiamo,
avviene sotto il sole. Non sono le cose a rinnovarsi ma chi
ad esse si raccorda, chi, attraverso un’esperienza
costantemente stimolata, pone le basi del suo carattere,
della sua personalità. Verrebbe da dire che la ricetta
dell’eterna giovinezza risiede proprio nella capacità di
sorprendersi e di trasformare in storie – perché l’uomo,
come ha affermato George Steiner, non è tanto un animale
politico: è un animale che racconta storie – gli
avvenimenti più consueti e banali. Solo ciò che non viene
narrato o poeticamente trasfigurato è destinato a
consumarsi nel tempo che “sfuma annullandosi / e gira
come una ruota come un tritacarne”.
Di qui l’esigenza pressante per Emanuele di evocare,
come Ungaretti i suoi fiumi, le dimore della sua vita.
Prima Palazzo Pennavaria, imponente edificio storico che
occupava un lato intero della principale piazza di Ragusa,
sacrificato alla speculazione edilizia degli anni Sessanta (a
queste vicende si riferisce la ruspa al quarto verso de La
casa dell’infanzia). Poi la campagna di Serramontone, la
casa delle vacanze “dove si giocava / imitando Tarzan con
le corde come liane”. Ma anche questa visione, come una
foto consunta, “si dissolve bruciata dal tempo / nel mito
dell’infanzia si popola di fantasmi”.
L’ultima immagine – drammatica – richiede una pausa
di riflessione. Navigando a ritroso nel tempo, il poeta
avverte il rischio di incagliarsi in una secca. Se infatti ogni
poesia che si rispetti è poesia della memoria, non lo è mai
in senso nostalgico o consolatorio. La memoria non è
infatti un serbatoio neutro cui attingere ricordi, ma una
sorta di equivalente della consapevolezza:
169
La memoria rimane il grande limite di ognuno
chi riesce a sbarazzarsi di essa potrebbe volare
per cieli sterminati al ronzio di un mite silenzio
in una pace infinita che viene dall’abbandonarsi
ognuno finalmente alla vera essenza di se stessi
perché chi ricorda torna di continuo all’indietro
non vive la vita ma rimane nel buio del passato
mentre tutte le cose diventano niente che naviga
nel mare del presente ognuno riprende se stesso
perdendo una dimensione della consapevolezza
solo dimenticando si conquista una vera identità
(La memoria)
“La meta”, scriveva Borges, “es el olvido. Yo he
llegado antes”: noi siamo ciò che ricordiamo, e siccome
non ricordiamo niente – a patto, ovviamente, di non
affidare la nostra avventura a una memoria fittizia – non
siamo niente:
solo il nulla si collega all’eternità
non si conosce che cosa ci attende
e forse è meglio così perché tutto
si semplifica e diventa trasparente
(La vita)
Il mondo di oggi, purtroppo, è cambiato (o almeno così
appare all’io invecchiato):
È un mondo verso il disfacimento
contorto come un ferro arrugginito
fra computer stampanti e cellulari
incomprensibili c’è gente che vuole
darti notizia di sé per sapere di te
170
e non t’importa nulla e di nessuno
se non per la tua vita che ti scivola
fra dita aperte a perdere significati
il vivere svapora e di ogni persona
rimangono solo le parti di un tutto
(Il mondo cambiato)
Dinnanzi a una simile frammentazione della personalità
individuale, al poeta non rimane che cavalcare la tigre,
volando, novello Palazzeschi, A bordo di un fax:
per seguire l’inconsistenza del pensiero
mi conviene viaggiare a bordo di un fax
dove premo un bottone e mi trasferisco
attraverso lo spazio nel posto che non so
o simulando, in una struggente, sciamanica
identificazione col suo oggetto, di soffrire di Alzheimer:
Io non sono più io cerco una strada
che non posso trovare mi trasformo
e mi nascondo dietro uno specchio
che non ha la mia faccia ma quella
di un altro che appartiene al passato
che non riesco a distinguere intanto
perdo l’orientamento e giro a vuoto
ascoltando il ticchettio dell’orologio
a pendolo che sta fissato alla parete
e se mi trovo a bussare ad una porta
qualcuno risponde ma nessuno apre
io vado via e un’angoscia mi stringe
con la sua mano attorno alla mia gola
divento tutti coloro che ho incontrato
una volta da qualche parte dei quali
171
ho dimenticato i volti e perso i nomi
nell’incredibile confusione della vita
(Alzheimer)
Malattia reale, l’Alzheimer, condivisa da milioni di
persone, ma pure metaforica. E se fosse proprio questo
morbo, l’incapacità di ricordare il luogo delle origini, il
male oscuro del nostro tempo disumano?
Forse è davvero così. O forse l’Alzheimer è solo un
nome per evocare la vecchiaia, il naturale coronamento
della vita. Cos’altro siamo, del resto, noi mortali, così
pronti a crederci speciali, venuti dalle stelle, se non “i figli
delle tartarughe”?
chiusi nel nostro involucro corazzato
guardiamo l’asfalto del cortile il vento
che scrolla gli alberi e le pozzanghere
per far passare il tempo come in attesa
e andare da qualche parte in direzione
di un posto che è del tutto inesistente
ma fingiamo di non saperlo aspettando
che spiova e che si arrestino i turbini
(In attesa)
Il nostro orizzonte non è il cielo ma l’asfalto. Stiamo
attaccati alla terra e procediamo in una direzione
imprecisata, senza una meta apparente, sino a perderci nel
nulla.
noi ci dirigiamo dove nessuno ci darà
il benvenuto e arriva la noia pensiamo
sempre di meno su programmi vuoti
di significato e una copertina di nebbia
s’innalza per nasconderci le cose che
172
possiamo solo immaginare e finiamo
con l’inventarle dando loro la forma
perdendo la dimensione degli oggetti
come nei sogni dove non si trova mai
la strada …
E tuttavia, se è esistita l’infanzia, sarà pure esistito,
oltre le nebbie del sogno, un paradiso cui tornare. A
cos’altro servirebbe interrogare il Novecento se non a
ritrovarlo?
La poesia sa che è impossibile, ma non esita a provarci.
E, come accade in queste ultime poesie di Emanuele,
talvolta ci riesce.
173
CUORE OMBROSO. FIORI
FILIPPO DE PISIS: PAROLE, PIGMENTI
di Aldo Gerbino
L’orizzonte desiderato dalla tormentosa esistenza di
Luigi Filippo Tibertelli de Pisis, – esistenza conclusasi, a
sessant’anni, quel 2 aprile del 1956 in un perlaceo cielo
della primavera milanese, – è, per sua stessa ammissione,
posto «Al di là di barriere ideali»129
. In vero, un orizzonte
apparso subito frastagliato da quell’intima avversità
congenita per destino d’uomo, potenziata per esasperata
dilatazione della sua sensibilità d’artista, e che non riesce a
trovar riposo, nemmeno nel mondo traslucido, cilestrino,
delle purità ideali. Piuttosto sembra che egli debba
forzosamente approdare oltre la stessa pedana del sogno
da cui un creativo puro come il “Marchesino pittore”,
possa attingere a un qualche sollievo. Al contrario di tanti
altri uomini d’arte e poeti plasmati in una simile pasta,
nessuna ragione di concreta pacificazione s’era formata in
de Pisis, né con l’uomo, né con il mondo in cui egli
navigava con estrema difficoltà. Però, oltre lo stesso
frangibile desiderio del sogno, egli ritiene, in quella veste
ricca di candore attestata dalla poesia omonima, che lì,
soltanto oltre quelle barriere può essere trovata l’unica
«pace» possibile da poter serbare. Ma cos’è stata la vita
percorsa da Filippo de Pisis, in quel viaggio mirabilmente
sospinto dalla sua non indifferente forza propulsiva nata,
non da illuminanti verità, piuttosto dal possesso di un
estremo e pulsatile bagaglio di fragilità? Certo un bagaglio
129 In: Filippo de Pisis, Poesie, Vallecchi, Firenze 1942; poi, con
prefazione di Giovanni Raboni, Garzanti, Milano 2003, p. 21.
174
assetato di rapporti, di sensitive affermazioni, di saperi
terrestri, di primitivi apprendistati dalla natura, capaci,
come egli stesso afferma, di giustificare la pienezza di tale
sua vita ben riconoscibile appena nell’essenza friabile
dell’«ombra di un fiore». Ombra, dunque, come riflesso
doglioso, fugace apparizione di un se stesso mostratosi
oltre una precisa volontà di redenzione, ricercata con
tenacia nell’alveo delle sue brucianti scollature dalla
società perbenista, e anche nello sforzo di confezionare,
oggetto precipuo della sua poetica, l’osmosi più pertinente
tra ‘vita’ e ‘anima’ (“L’ombra di un fiore è la mia vita”)
per dipanarla, in eccesso, nel divenire della vita stessa
quale «ombra taciturna su un prato a sera»130
. E, non a
caso, tale ombra si associa a “casti pensieri” trovando il
suo letto ideale “sull’onde del mare” fino a brillare,
colmata dagli umori delle esistenze, nella tremula lanterna
fatta da un’«ombra di una lucciola», quasi a riscaldare, pur
nel suo infinitesimo potere di calore, un amore
occasionale, il rimbrotto gemmato da un colloquio pronto
a restituire o perfino a tradire le memorie famigliari, a
riportarlo comunque e sempre, in qualunque parte
d’Europa egli si trovasse (soprattutto nella Parigi che
alimenta la sua maturità d’artista e di poeta), nella
atmosfera della sua Ferrara o ricondurlo, vagolo, tra le
acque palpitanti di Venezia. Quell’ombra – scrive –
proiettata «nel verde cupo / è la mia vita ora. / E che mi
importa del resto?»131
.
Un suo olio del 1925, Natura morta con ritrattino,
restituisce in tutta la sua pienezza creativa i temi che
avvincono mente e anima di de Pisis: gli immancabili fiori
selvatici, margherite, piccoli crisantemi ornamentali,
130 Ivi, p. 147. 131
Ibid. vv. 18-20.
175
mimose, qui posti come a simulare un domestico
boschetto floreale sul margine esterno del tavolo,
alimentati dall’acqua posta in due recipienti e che
incorniciano un ritrattino raffigurante un giovane uomo
che alza il calice, dai fianchi avvolti da una fusciacca
nerissima, mentre un sottile foulard scuro annoda il suo
collo e delle ‘ballerine’ nere inguainano dei piedi fusati,
quasi femminili. Un corpo oscillante in un fondale di
biacca addensata e che, per alcuni aspetti, rimanda a
quella foto di Filippo, quando, a 31 anni, per il Bal de
Caz’arts a Parigi (1927), indossa un singolare costume, e
che, pur nella sostanziale diversità, si avvicina
all’elemento pittorico, in virtù della postura generale, e,
forse ancor più, per quel naturale tentativo alla danza,
all’ascensione corporea. A tali elementi, al centro del
tavolo, si accostano una farfalla ed un cuore mollemente
adagiato su di un giaciglio di carta bianca. La farfalla è
una ‘Vanessa Atalanta’ (detta ‘Vulcano’) che ritroviamo
nell’interezza solare e malinconica della poesia dedicata a
Montale, Vanessa nel sole. Agli occhi del poeta è la
«sepoltura dell’estate», in una giornata novembrina, ad
accogliere la vanessa Atalanta; essa nel suo moto vibratile
«fugge entro pareti d’ocra / e polveri rare». Il lepidottero,
appartenente alla gloriosa famiglia Ninfalide (de Pisis
subiva il fascino delle curiosità botaniche ed
entomologiche), non è per il poeta che uno struggente
ectoplasma, non può far altro che riflettere i meriggi d’una
fanciullezza ormai tramontata, ma pronta ad affrontare
l’artista con l’urto della sua aerea forza, e, in quella sua
adorna delicatezza, gli fa dire in quale modo: «intesse con
raggi di sole / uno strano velario / fra me e il dolore»132
.
Ma in tale “velario di dolore” sta la rugginosa presenza del
132
Ivi, p. 23
176
cuore enucleato dal corpo, quel cuore che, come attesta in
Ombre133
, «non fa ombra» e dove il rapporto
entomologico con quello anatomico si fa stringente; e
insieme: ombre, lepidotteri, cuore e turbamenti, mente e
dolore s’inseguono agitati da una strenua ansia. Così
opportunamente rileggiamo: «Non son farfalle, son ombre
leggiere / sui muri bianchi e grigi / del ricordo. / Ombra
d’una mano / levata a benedire, / ombra di un fiore / che
non ebbe mai stelo / (il cuore non fa ombra). / Delicate
parvenze / profumi / melodie / che prendon palpito / solo
quando cala la sera. / Ombre caste / della nostra / felicità
apparente. / Non son farfalle, son ombre leggiere.»
Quel cuore, dunque, che “non fa ombra”, organo
sanguigno, pulsante, solitario e fremente, riappare più
tardi, agli opposti poli temporali d’un arco creativo teso
per oltre un ventennio, in altro breve componimento,
sempre col titolo di Ombre134
; e in questo caso l’aggettivo
che nutre il suo cuore inquieto è, opportunamente e
contraddittoriamente, “ombroso”: «Il fumo nero / sopra la
mite casa / vela la nuvola di rosa errante / ne la quieta
sera; così melanconia / la grazia del mio cuore ombroso.»
Ma qui, l’ombroso atteggiamento mostra la sua naturale
suscettibilità: egli è l’irritabile ai confini forzosi posti dalla
quotidianità, mentre il flusso continuo della melanconia
sommerge la sua anima. È, infatti, la melanconia, come
nella similitudine del cupo fumigare, a spegnere la grazia
di un cuore serrato al confine di un’ombra nata nel genio,
nella grazia della distinzione. La Vanessa ritorna ancora tra
i componimenti tardivi, ammantata di sole che,
attraversando l’antico crepaccio, sugge con la sua
spirotromba l’anima gentile e ventosa del fiore di cappero,
133
Ivi, p. 33 134
Ivi, p. 157
177
con quel suo incessante «moto d’ali senza posa / piccolo
vortice», simile all’affanno vorticoso che agita de Pisis;
essa tocca, in parallelo, ciò che Filippo invoca: «il mio
cuore», dice, «prigioniero indurito, / si volge turbato quasi
/ a questa leggerezza divina»135
Atalànta, è nel mito la
cacciatrice provocante, essa disegna, la volontà di stare “in
equilibrio”, un equilibrio poco stabile nell’ampiezza
creativa del ferrarese, eppure tanto stabile per quel saper
accordare, nel nastro delle sue produzioni poetiche e
pittoriche, i tattili elementi della natura con quelle ombre
spirituali che affliggono l’animo umano.
Nella ‘introduzione’ alle Memorie del marchesino
pittore, Sandro Zanotto, annota come tale opera letteraria
rimasta inedita e pubblicata postuma, fosse “soverchiata
da altre opere pittoriche che hanno attratto l’interesse del
pubblico e distratto le cure dell’autore.” D’altronde, scrive
il critico trevigiano136
, «l’equivoco persistente di
135
Ivi, p. 162. 136
Di Sandro Zanotto (1932-1996), molte sono le pubblicazioni
legate all’opera di de Pisis (1964; 1965 [Dipinti, disegni, litografie,
manoscritti inediti di Filippo de Pisis, con una poesia di Diego Valeri,
Neri Pozza];1969); cfr: Giuseppe Marchiori e Sandro Zanotto, 100
opere di Filippo de Pisis (Galleria d’Arte Moderna Falsetti, Prato
1969; Firenzelibri 1973); Novecento ferrarese (Silvana, Milano 1973),
lavori, questi, che sfociano nella mostra ferrarese su ‘De Pisis’
(Palazzo dei Diamanti, 1996). Di rilievo documentario si veda il
sostanzioso lavoro biografico Filippo de Pisis ogni giorno (Neri
Pozza, Vicenza 1996), oltre 600 pagine che tracciano l’esistenza di de
Pisis dalla fanciullezza ferrarese alla scomparsa, percorso elaborato su
documenti, scritti autografi dell’archivio De Pisis, epistolari (sulla
‘vita’ di de Pisis si rimanda, oltre al ‘sodalizio’ di Giovanni Comisso, a
Nico Naldini, il cugino di Pasolini, con De Pisis, vita solitaria di un
poeta pittore, Einaudi, Torino 1991). Ancora: Filippo de Pisis, Roma
al sole, a cura di Bona de Pisis e Sandro Zanotto (Neri Pozza, Vicenza
1993); Bona de Pisis, Sandro Zanotto (a cura di), De Pisis,
Passeggiate nel Lazio (Viviani, Roma 1993); Bona de Pisis, Sandro
178
considerare de Pisis esclusivamente quale pittore ha
generato la stortura di vederne le opere letterarie in
funzione biografica o come traduzioni letterarie di quadri
eseguiti o no, valide quindi quali chiarimenti della pittura,
non per se stesse. Eppure esiste una larga parte della vita
dell’artista spesa nello scrivere e nel dichiararsi poeta:
nelle innumerevoli carte di de Pisis, in ogni pagina
decisiva di diario balza questa intenzione di essere
scrittore, pur non considerando tutta la sua educazione
ferrarese che è letteraria137
.» Un’educazione ferrarese ben
immersa nella sua città tenendo presenti i maestri della
pittura a cavallo tra Otto e Novecento: dal voluttuoso
estetismo di Giovanni Boldini al corpo sociale di
Giuseppe Mentessi alla ludicità proto-futurista e
secessionista di Aroldo Bonzagni a Gaetano Previati e il
suo dilavare nel portato divisionista. Così, dai “Valori
Plastici” di Roberto Melli e Achille Funi alla ‘metafisica’:
ingredienti e spezie adsorbiti dal giovane de Pisis, in un
momento di formazione in cui egli si definisce ‘umanista’
ed inizia rapporti con intellettuali del tempo: da De
Chirico a Savinio a Nicola Lisi, da Marino Moretti a
Sandro Penna a Carlo Emilio Gadda. Dedica a Pascoli, da
giovanissimo, i suoi iniziatici Canti della Croara (Ferrara
Zanotto (a cura di), Filippo de Pisis, Impressioni sulla carta
(Firenzelibri 1974; Falsetti, Prato 1980 ca.); Filippo de Pisis, La città
delle 100 meraviglie, a cura di Bona de Pisis, Sandro Zanotto
(Abscondita, Carte d’Artisti,116 - nota di Claudia Gian Ferrari,
Milano 2009). Di Zanotto prosatore e poeta si ricordano: Miti e poemi
eroici (con Gianni Floriani; R.A.D.A.R, 1965); Delta di Venere
(Rusconi, Milano 1974); La Venere del Buttini (Scheiwiller, Milano
1979); Aque perse (Lunario nuovo, Catania 1985). 137
Cfr. Il Marchesino Pittore, romanzo autobiografico di De Pisis,
(Prefazione di Sandro Zanotto), Longanesi (‘La gaja scienza’, 300),
Milano 1969, p. 9.
179
1916), con una prefazione di Corrado Govoni, intridendosi
d’una avvolgente e coinvolgente letterarietà a nutrimento
del suo iniziale e poi maturo (a volte disordinato)
elaborato pittorico e poetico.
Sono, comunque, i ‘malinconici fiori’ che intessono
l’estensione completa della sua poesia così come il tessuto
pittorico; egli, suggestionato dalle cifre secentiste e
settecentiste della nostra civiltà figurativa, integra, nella
pienezza sincopata di un personale tratto, lo spirito del suo
e del nostro tempo. Proprio i fiori, che hanno
accompagnato in oltre un centinaio di prodotti (poesia, olî,
acquarelli, disegni), vita e pulsioni di Luigi Filippo
Tibertelli138
, non posseggono, come l’artista stesso
dichiara, nulla di spontaneo, di gestuale, considerando
quel suo misurato alone post-impressionista sempre
pungolato da impazienti scatti nervosi, e, nel governo
dello spazio rappresentativo, da giovanili reminiscenze.
D’altronde Montale esprime, con fermezza, la
convinzione, come già scrivemmo139
, che “le arti hanno un
fondo comune” (in un’intervista del 1962, e nella
recensione alla seconda edizione vallecchiana delle
Poesie140
). Ne troviamo esplicita traccia nelle sue parole di
presentazione per «il falò poetico di Beppe Bongi141
»,
pittore ‘occultatore’ dei suoi quadri e struggente quanto
138
Luigi Filippo Tibertelli de Pisis nasce a Ferrara l’11 maggio del
1896, lo stesso anno di E. Montale. Muore a Milano il 2 aprile del
1956. 139
Aldo Gerbino, Fiori gettati al fuoco, Plumelia, Bagheria-Palermo
2014, p. 8 e sgg. 140
In «Corriere della Sera», 1954, recensione di Eugenio Montale alle
Poesie di de Pisis, nuova ed. 1953 (Vallecchi, Firenze 1942). Altre
edizioni: Filippo de Pisis, Poesie, Garzanti, prefazione di Giovanni
Raboni, Milano 2003. 141
Si rimanda alla presentazione di Montale e ai suoi sei acquarelli in:
Giuseppe Bongi, Amo l’estate, Vallechi, Firenze 1968.
180
iniziatico poeta della natura maremmana. D’altronde se
Filippo, con la sua pittura ‘a zampa di mosca’, a favore del
quale aveva insistito l’amico di Montale, il critico Mario
Bonzi, col sottoporgli una cartolina del ferrarese inviata al
futurista Francesco Meriano142
, ecco che l’autore degli
Ossi di seppia si mostra in quel momento alquanto
guardingo affermando: «… Ciò dico nel caso che l’ottimo
Tibertelli (Luigi Filippo) ti avesse scritto qualche
insulsaggine143
». Ma dopo qualche anno, nelle Occasioni
(1928-1939), destina, invece, al Beccaccino (1932) di
Filippo, col peso delle parole di Lapo Gianni, “l’Arno
balsamo fino”, i cinque versi della calzante poesia “Alla
maniera di Filippo de Pisis nell’inviargli questo libro”:
«Una botta di stocco nel zig zag / del beccaccino- / e si
librano piume su uno scrìmolo. // (Poi discendono là,
sgorbiature / di rami, al freddo balsamo del fiume).»
Medesima tangibilità che ritroviamo, appunto ben
materiata, in questo C’est n’est pas tout del 1949144
,
certamente opera d’una drammatica intensità, a piene mani
142
Francesco Meriano (Torino 1896-Kabul 1934), fonda e dirige, con
Bino Binazzi, il mensile «La Brigata», a cui Ardengo Soffici, nei suoi
Ricordi di vita artistica e letteraria (1965), assegnava qualità di
“nobiltà, bontà e poesia”. 143
Cfr. la prefazione di Laura Barile in: Eugenio Montale, Lettere e
poesie a Bianca e Francesco Messina, Libri Scheiwiller, Milano 1995,
p. 9. 144
L’opera da me repertata nell’ambito di una ricognizione nei locali
dello Steri-Palazzo Chiaromonte, sede del Rettorato della Università
degli Studi di Palermo, e ora facente parte della “Quadreria
Mediterranea” (già inventariata con la dizione “Vaso con Fiori” col n.
675), porta, nel verso della tela, un’annotazione di pugno dell’artista,
scritta durante un ricovero bolognese in clinica psichiatrica, che inizia
con le parole “C’est n’est pas tout”. Tra le altre opere della Quadreria;
La Vucciria di Renato Guttuso, poi, tra le tante: Ottone Rosai,
Giovanni Omiccioli, Nino Garajo, Joaquín Vaquero, Sergio Ceccotti.
181
versata dalla sua architettura sentimentale. In essa vigono
tracce cinematiche caratteristiche di quell’incedere nella
intercapedine degli spazi (così nella versificazione) ove il
centro focale viene generosamente affidato alla florealità:
metafora del ciclo esistenziale, della casualità tragica della
vita, luttuosa, a segnare quella abilità “schermistica”
efficacemente messa in evidenza da Renato Barilli,
quando sottolinea per la sua opera, di «quel suo colpire di
punta, o del procedere con unghiate, con rapidi passaggi
del polpastrello; a patto che tutti questi interventi facciano
cagliare un grumo di materia145
». In tale palermitano ‘vaso
di fiori’ i grumi ‘cagliati’ si offrono nell’alveo della
morfologia botanica che de Pisis ama rappresentare come
agitata dal brado scompiglio delle sue visioni: bianche e
gialle margherite selvatiche, pansé, carnose bocche di
leone, da cui traspare l’arcana sensualità naturale, agile nel
ricondurci a quelle incise parole di Emilio Cecchi per cui
«l’amore pei fiori non è che un’oscura trasposizione di
lirismo sessuale»146
.
Sette anni dopo i “fiori” palermitani, la sua vita è
registrata dall’amico scrittore Giovanni Comisso come
esistenza di un segregato147
: «Sembrava considerasse
questa sua stanza di recluso, come una delle sue abituali e
bizzarre nelle passate stagioni d’avventura» – scrive –
«Non desiderava uscire da quella clinica, ritornare alla sua
casa veneziana, potere guarire e riprendere la sua vita
fatale e alata di un tempo, egli infine si crogiolava adattato
a quella clausura, come chi invescato in un imbrogliato
145
Renato Barilli, L’arte di de Pisis: collezione e montaggio, in De
Pisis, dalle avanguardie al “diario”, Mazzotta, Milano 1993, p. 23. 146
Emilio Cecchi, Corse al trotto e altre cose, Sansoni, Firenze 1952,
p. 140. 147
Cfr. Giovanni Comisso, Mio sodalizio con De Pisis, Neri Pozza,
Vicenza, 2010.
182
ingranaggio giudiziario passa da un processo all’altro, da
un carcere all’altro accettando oramai di non essere più
libero. Sembra impossibile, ma non vi è, più dell’anima
umana, elemento al mondo maggiormente pronto a
adattarsi a un vivere anche del tutto opposto a quello che
fu predominante, anche se fu tra i più ribelli e forsennati».
Poi, nel ‘diario’ comissiano, ai giorni 4-5-6 dicembre
1953148
, si legge: «A Milano: visto De Pisis: l’ò tratto
fuori dal sepolcro. Le nostre opere sono le orme dei nostri
passi mentre si cammina nella vita. Egli non cammina più
e non lascia piú orme»; e, lapidariamente, nel giorno 2
aprile 1956149
: «È morto De Pisis, mentre stavo scrivendo
su di lui. I suoi quadri si fanno più vivi». Così i suoi versi,
il suo «cuore che batte fuori ritmo150
», fluttuante come
«sughero leggero», come le sue «partenze gentili».
148
Giovanni Comisso, Diario 1951~1964, Longanesi, Milano 1969,
p.71. 149
Ivi, p. 109. 150
Da “Natura morta”, in Poesie, 2003. p. 44, vv. 2; 9-10.
183
INDICE
Relatori .............................................................................. 7
Prefazione .......................................................................... 9
Notizie bibliografiche ...................................................... 13
Il Novecento, il Mediterraneo e oltre ............................... 19
Il secolo che non c’è: uno sguardo dal terzo millennio ... 45
Tre riflessioni sulla poesia ............................................... 57
Poeti del secondo Novecento siciliano ............................ 63
Tre poeti liguri dimenticati e il potere: Gherardo Del
Colle, Nicola Ghiglione e Adriano Guerrini .................... 77
Dalla beat generation alla digital degeneration................ 87
Un’antologia necessaria ................................................... 97
Il Novecento e la poesia del Mediterraneo.
Verso una Itaca poetica .................................................. 109
Verso un nuovo umanesimo: dall’interiorità alla realtà . 121
Mario Specchio (1946-2012) e il suo Novecento .......... 135
Il corpo, il testo, il pensiero: messaggi dalla poesia
di Valerio Magrelli ......................................................... 149
Palermo nella Poesia di Mario Luzi
Una testimonianza, un’amicizia .................................... 159
Il luogo delle origini ...................................................... 167
184
Cuore ombroso. Fiori
Filippo de Pisis: parole, pigmenti ................................. 173
Indice dei nomi ………..………………………………185
185
INDICE DEI NOMI
Abd-ar-Rahman 163
Accardo G. 39
Accrocca E.F. 67
Addamo S. 54, 68
Afribo A. 28
Aguillera L. 107
Akerstrom U. 25
Alfonsi L. 67
Alighieri D. 113
Andreae B. 33, 113
Angiolieri C. 92
Apollinaire G. 92
Apolloni I. 72
Aragon 92
Arango G. 102
Arbelàez J. 99, 106
Arezzo C. 74, 75
Arezzo G. 8
Rosa A.A. 21
Assenza C. 73
Attanasio M. 72
Augè M. 45
Baez J. 89
Baldini M. 26
Balestrini N. 69
Barbagallo A. 66
Barbara 92
Barile A. 77, 78, 80
Barile L. 180
Barilli R. 181
Barthes R. 50
Baudelaire C. 92
Belfiore A. 23
Bellini P. 109
Benavides H. 104
Betocchi C. 79
Bevilacqua A. 67
Bilieci P. 70
Binazzi B.180
Bindi U. 91
Bloom A. 48
Bo C. 81
Bobbio E. 94
Bodini V. 25, 26
Boldini G. 178
Bongi B. 179.
Bonzi M. 180
Bonzagni A. 178
Boringhieri B. 45
Bonafede G. 8
Bonaviri G. 54, 68
Bonnet P. 107
Brassens G. 92
Braudel 32
Brel J. 92
Breton A. 92
Bruno M. 159
Bufalino G. 8, 63, 68
Burgaretta S. 74
Bustos R. 107
Buttitta I. 65
Cacciatore C. 69
Calanna G. 22
Calì S. 53, 70
Calvino I. 20, 21
Camilleri A. 63, 67, 68
Camilleri S. 67
Campanile A. 54
Campo C. 161
Campos M.A. 99, 105
Camus A. 92
Cane C. 70, 71
Caprile M.T. 13
Caprilli F. 145, 146.
186
Caproni G. 17, 26, 77, 80, 81, 83
Cardarelli V. 38, 80, 91
Carotenuto L. 8
Carrà C. 43
Carravetta P. 36
Caruso C. 163
Caruso O. 22
Catalano E. 109
Catania L. 23
Cattafi B. 53, 54, 65
Cavacchioli E. 8
Cavassa R.V. 81, 82
Cazzato L. 110
Ceccardi R. 77
Cecchi E. 181
Ceccotti S. 180
Celan P. 139, 140
Celis L.E. 31, 104
Certa R. 70, 71
Chomsky N. 50
Ciampi P. 91
Citati P. 21
Coco E. 7, 8, 15, 31, 97
Comisso G. 43, 177, 181, 182
Conti C. 73
Contiliano A. 71, 74
Contini G. 25
Corcuera A. 98
Corrà A. 115
Corrao F. 163
Corsaro A. 64
Corso G. 71, 90
Cortina R 111.
Cremona A. 54, 69
Cucchi M. 53
Cultrera D. 8, 73
D’Arrigo S. 54, 68
De Amicis E. 13
De Angelis M. 54
De Chirico G. 178
De Andrè F. 90, 91
De Beauvoir S. 92
Del Colle G. 27, 77, 78, 79, 80
della Mirandola P. 137
De March S. 23, 28
De Nardi A. 41
De Nicola F. 7, 13, 27, 77, 78, 83
de Pisis B. 177, 178
Dèry S. 79
De Sanctis F. 13
De Saussure F. 50
De Simone A. 113
De Sisti A. 42
De Vita N. 74
Diaz – Granados J.L. 107
Di Biasio R. 7, 14, 24, 57
Diecidue G. 70, 71
Di Giacomo G. 7, 8, 17, 74
Di Giovanni A. 64
Di Grado A. 22
Di Maio N. 71, 72
Di Marco R. 69
Di Marco S. 74
Di Maria V. 70
Di Martino L. 8, 54, 73
Di Martino V. 32
Di Mauro A. 74
Di Noto P. 8, 75
Di Paolo P. 111
Di Silvestro A. 7, 17, 38, 149
Di Stefano P. 53, 54
Dylan B. 89
Dolci D. 65
Dolfi A. 27
Donovan 89
Dorovsky I. 110
Durisin D. 111
Echevarrìa R. 102
Eckart M. 126
Elitis O. 33, 34, 110, 114, 115
Eluard P. 96
Endrigo S. 91
187
Escobar J.J. 106
Esposito E. 59
Evangelisti S. 38
Fabro N. 79, 80
Falqui E. 81
Farinella M. 73
Farkas A. 48
Fenocchio G. 22, 30
Fenoglio E. 94
Ferlinghetti L. 71, 90
Ferlita S. 40
Ferrari C.G. 178
Ferré L. 92
Ferroni G. 59
Floriani G. 178
Follieri E, 114, 115
Frèmont A. 41
Freni M. 74
Funi A. 178
Fusini N. 141
Gadda C.E. 178
Galvagno V. 8
Garajo N. 180
Garin E. 16
Gasparini A. 41
Gatto A. 17, 78
Genovese A. 54, 69
Gerbino A. 7, 8, 11, 14, 42,
43, 54,73, 129, 173, 179
Ghiglione N. 27, 77, 78, 80,
81, 82, 83, 84, 85
Giacalone G. 65
Giachetti G. 163
Giacone R. 73
Giannone A.L. 25, 26
Gibran K. 130
Gisberg A. 29, 90
Giudice E. 8, 73
Giuliana B.67
Giuliani A. 69
Giunta E. 40, 74, 161
Gnisci A. 109, 111
Gnoli A. 30
Godard J. L. 95
Goethe J.W. 139, 140, 146
Gori M. 66, 67
Grande A. 77
Grasso M. 74
Greco J. 92
Guadagnino D. 74
Guastella A. 7, 8, 15, 41, 42,
72, 75, 167
Guastella S.A. 41, 64
Guerrini A. 27, 77, 78, 83, 84, 85
Guglielmi G. 69
Gusmini C. 113
Guttuso R. 180
Heaney S. 34
Hegel G.W.F. 136
Heidegger M. 46
Henao R. 107
Hernandez B. 111
Hernandez Gonzalez M. B. 113
Hesse H. 139, 140
Hierro J. 100
Hoefer F. 67
Horvat E. 109
Ilinskaja S. 110, 114, 116
Insana J. 54, 72
Isgrò E. 54
Jansen S. 149
Jaramillo D. 106
Jiellun T.B. 109
Kavafis C. 34, 110, 114, 120
Keats J. 141
Kerouak J. 90
Kruger M. 48
Lacan J. 137
Lando F. 41
Landron De Guevara P.L. 33,
34, 113, 116, 117, 118, 119
Lanuzza S. 54, 68
188
Lanza A. 8
Larcan L. 43
Larousse P. 92
Lauretta C. 73
Lauzi B. 91
Leyva J.A. 98, 103
Leopardi E. 8, 61, 67, 68
Leopardi G. 17, 61
Linguaglossa G. 39
Lisi N. 178
Longo P. 7, 8, 16, 39, 40, 159
Lo Piano S. 67
Lorca G.. 138
Luzi M. 28, 37, 38, 39, 40, 68,
138, 139, 159, 160
Macario M. 7, 13, 28, 29, 30, 87
Magrelli V. 38, 39, 54, 149, 150,
152, 153, 154, 155, 156, 157
Magris C. 112
Manacorda G. 57, 59, 69, 70, 149
Mandarà E. 8, 67, 68
Mannelli S.
Marcheselli L. 114
Marchiori G. 177
Marinetti F.T. 145
Martinez Gonzàlez G. 104
Martino S. 54
Martoglio N. 64
Masini F. 140
Masters E.L. 90
Maugeri A. 69
Meli G. 64
Melli R. 178
Mengaldo P.V. 22, 26, 48, 54
Mentessi G. 178
Meriano F. 180
Messina F. 180
Messina P. 16
Mezzasalma C. 7, 16, 36, 37, 54
Milanese M. 41
Milani F. 19
Millu L. 13
Mirabile P. 73
Mistral G. 103
Montale E. 14, 17, 28, 66, 77,
79, 80, 84, 94, 115, 125, 127,
128, 129, 175, 179, 180
Morano R.M. 30, 31
Morante E. 94
Moravia A., 37
Moretti M. 178
Morin E. 111
Morina M. 69
Moro A. 10
Mouloudji 92
Moustaki 92
Naldini N. 177
Nativo G. 7, 11, 19, 32
Navarra I. 70, 71
Nietzesche F.W. 137
Occhipinti G. 7, 8, 11, 15,17, 22,
23, 45, 63, 66, 74, 75, 156, 167
Olivers A. 147
Omero 33, 111, 144
Omiccioli G. 180
Orilia S. 66
Ottone P. 82
Otranto G. 109
Pagliarani E. 69
Palazzeschi 170
Palumbo G.. 73
Paoli G. 91
Papini M.C. 27, 94
Pascoli G. 178
Pasolini P.P. 28, 37, 95, 177
Passanisi D. 54
Patachou 92
Patti A. 54, 73
Pavese C. 64, 90, 91, 92, 94
Paz O. 31, 137
Pecoraro Z. 20
Penna S. 178
189
Pennisi R. 74
Pepe D. 8, 75
Perreira M. 69
Petrarca F. 17, 156
Piccolo E. 140
Piccolo L. 66
Pino N. 69
Piovene G. 94
Pinto Minerva F. 109, 111
Piperno A. 145
Pirrera C. 54, 69
Pisana D. 7, 8, 15, 34, 35, 74, 121
Pitrè G. 159
Pivano F. 29, 89
Poidomani R. 8, 68
Poletti F. 42
Polito P. 149
Ponge F. 155
Pontiggia G. 153
Pratolini V. 94
Prevert J. 91, 92
Previati G. 178
Puglisi P. 40, 161, 162
Quessep G. 106
Quasimodo S. 8, 23, 25, 64,
65, 78, 129
Raboni G. 123, 173, 179
Raimondi E. 22
Recalcati M. 144
Reale B. 54, 69
Reale U. 67
Restrepo L.A. 102
Riccardi A. 53
Rilke R.M. 139, 140
Rimbaud A. 87, 90, 92, 167
Ripellino A.M. 53, 68
Roca J.M. 99, 104, 106
Romano L. 74, 94
Romano N. 74
Romano T. 74
Romero A. 107
Rondoni D.. 122
Rosai O. 180
Rossi S. 70
Rota M. 26
Roversi R. 71
Russo-Karali G. 33, 112
Saba U. 34, 38, 79, 80, 114
Saglimbeni S. 74
Sanguineti E, 69, 82, 84
Sansone M. 25
Sartre J.P. 92
Savinio A. 17, 43, 178
Savoca G. 17, 22
Sbarbaro C. 26, 38, 77, 94
Scaffai N. 20
Scammacca N. 70, 71
Scandurra A. 54, 74
Schembari G. 8
Schembari E. 7, 8, 11, 14, 26,
42, 54, 63, 167, 172
Schembari G. 8, 74, 75
Sciascia L. 23, 63, 68, 71, 162
Scotellaro R. 64
Seferis G. 115
Segre C. 37, 137
Sereni V. 68
Sinisgalli L. 17, 25
Sinopoli F. 36
Sisti A. 42
Soffici A. 94, 180
Sonzogni M. 34
Spadaro A. 39
Specchio M. 34, 36 . 37, 116,
117, 118, 119,137, 138, 139, 140,
142, 143, 144, 145, 146, 147
Stecher G. 72
Tabucchi A. 34, 111, 114, 118, 140
Taormina E.P. 74
Tartaro A. 114, 115
Teitelboim V. 103
Tempio M. 64
190
Tenco L. 91
Terminelli P. 72
Testa E. 28, 69
Tibertelli de Pisis L.F. 42, 43,
173, 175, 177, 178, 179, 180,
181, 182
Tomasi di Lampedusa G. 66
Torrisi F. 67
Tse Tung M. 84
Ungaretti G. 13, 43, 94
Valeri D. 177
Valery P. 156
Vann’Antò 8
Vaquero J. 180
Venturi M. 13
Verdino S. 39
Verdirame M.T. 8, 73
Verlaine P. 92
Vian B. 92
Vilardo S. 68
Villaroel G. 64
Villon F. 92
Vindigni G. 8, 75
Virgilio M.P. 38
Vitti M. 115
Vittorini E. 23, 81, 94
Volo F. 107
Weber M.137
Wittgenstein L. 126.
Zaccaria A. 54, 73
Zagarrio G. 54, 66, 68, 69, 70
Zanotto S. 177, 178
Zavattini C. 71
Zinna L. 54, 73
Zografidou Z. 7, 16, 20, 32, 34,
110, 111, 113, 116, 117, 118