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La parabola del neorealismo Oltre la cronaca: Dalla realtà alla trasfigurazione della realtà

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La parabola del neorealismo

Oltre la cronaca:

Dalla realtà alla trasfigurazione della realtà

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IL NEOREALISMO

• Quando si afferma e quanto dura?

• Si afferma con la fine della Seconda Guerra Mondiale e la liberazione nazionale avvenuta in seguito alla

Resistenza

• dura fino alla fine degli anni cinquanta del Novecento

• Cos’è il neorealismo?

• è una tendenza dell'arte, della letteratura e del cinema italiano che si volge a rappresentare gli aspetti quotidiani

della realtà

• La poetica?

• è caratterizzata da uno stile per lo più realista, animato da una visione del mondo e dei fatti sociali popolari e

spesso echeggianti temi marxisti

• esprimeva una concezione della cultura quale strumento capace di incidere sulle coscienze, di rappresentare

l'esperienza collettiva e le sue contraddizioni di carattere politico e sociale

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Le origini del neorealismo

• Il termine venne usato già negli anni ’30 per definire alcuni romanzi che prestavano maggior attenzione alla

realtà sociale: “Gli Indifferenti” di Moravia, “Gente in Aspromonte” di C. Alvaro

• Venne poi usato dopo il 43’ per definire il nuovo cinema italiano di Visconti, De Sica, Rossellini…

• Questi film ponevano l’accento sulla narrazione cruda della cronaca

• Subito dopo il termine passò alla letteratura per indicare i nuovi romanzi del tempo

• si basavano sulla documentazione della realtà della guerra e del dopoguerra

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Il realismo come esigenza storica

«In quel tempo gli uomini delle parole, gli scrittori, furono investiti da una incredibileresponsabilità pubblica. Insieme all’agitatore politico, al giornalista, al regista, lo scrittore fu,per tutte le categorie degli italiani che lo sconvolgimento della guerra civile aveva portato asinistra, un testimone e un formatore di speranze. Uomini come Vittorini o Levi e, in misuraminore, molti altri si trovarono ad avere una autorità morale che nessuno scrittore avevaavuto dai tempi del bardo della democrazia e del poeta soldato». (F. Fortini)

«L’esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico,esistenziale, collettivo. Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani – che avevamo fatto intempo a fare il partigiano – non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, «bruciati», ma vincitori,spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d’una suaeredità. Non era facile ottimismo, però, o gratuita euforia; tutt’altro: quello di cui cisentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, unrovello problematico generale, anche una nostra capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio;ma l’accento che vi mettevamo era quello di una spavalda allegria». (I. Calvino)

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Il neorelismo delle regioni e dei dialetti

«Il ‘neorealismo’ non fu una scuola … Fu un insieme di voci, ingran parte periferiche, una molteplice scoperta dellediverse Italie, anche - o specialmente - delle Italie finoallora più inedite per la letteratura. Senza la varietà di Italiesconosciute l'una all'altra - o che si supponevanosconosciute -, senza la varietà dei dialetti e dei gerghi da farlievitare e impastare nella lingua letteraria, non ci sarebbestato «neorealismo». Ma non fu paesano nel senso delverismo regionale ottocentesco. La caratterizzazione localevoleva dare sapore di verità a una rappresentazione in cuidoveva riconoscersi tutto il vasto mondo: come la provinciaamericana in quegli scrittori degli Anni Trenta di cui tanticritici ci rimproveravano d'essere gli allievi diretti oindiretti». (I. Calvino)

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I modelli stranieri

• Il Neorealismo italiano prendeva

spunto dalle idee di Sartre espresse

nella rivista Les Temps Modernes(Tempi moderni), la rivista politica, letteraria e filosofica francesefondata nel 1945

• In essa Sartre proponeva un nuovo

ruolo dell’intellettuale, più

impegnato nella vita politica e nella

ricostruzione della società

• I punti di riferimento erano gli autori

americani (Faulkner, Steinbeck,

Hemingway…) per la loro prosa

sintetica

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Autori principali

•Poeti:

•Cronachisti/ Saggisti

•Romanzieri

•Cineasti

• Pasolini, Pavese

• Primo Levi, Rigoni Stern / Sciascia, Vittorini, C. Levi

• Vittorini, Pavese, Pratolini, Calvino, Fenoglio, C. e P. Levi, A. Moravia

• De Sica, Rossellini, Visconti, Zavattini, Pasolini, Germi, De Santis, Lizzani

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Tematiche principali

Il Meridione e i suoi problemi C.Alvaro, C. Levi, E. Vittorini, A. Moravia,

L’olocausto e i lager P. Levi

Il mondo operaio e l’antifascismo V. Pratolini

La Resistenza C. Pavese, I. Calvino, B. Fenoglio, E. Vittorini, A.

Moravia

La borghesia sotto il Fascismo A. Moravia, V. Brancati,

La miseria del dopoguerra A. Moravia, P.P. Pasolini

•il neorealismo si pone in netta rottura col passato

• è un’esplosione di libertà dopo anni di censura

• è una dura critica ai disastri della guerra e della situazione italiana

• è la rivalutazione dell’uomo, della sua lotta disperata per resistere

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Neorealismo e politicaL’autonomia creatrice dello scrittore

E. Vittorini, Lettera a Togliatti, Il Politecnico 1947

Rivoluzionario è lo scrittore che riesce a porre attraverso la sua opera esigenzerivoluzionarie diverse da quelle che la politica pone; esigenze interne, segrete, reconditedell'uomo ch'egli soltanto sa scorgere nell'uomo, che è proprio di lui scrittore scorgere, e cheè proprio di lui scrittore rivoluzionario porre, e porre accanto alle esigenze che pone lapolitica, porre in più delle esigenze che pone la politica. Quando io parlo di sforzi in sensorivoluzionario da parte di noi scrittori, parlo di sforzi rivolti a porre simili esigenze. E se accusoil timore che i nostri sforzi in senso rivoluzionario non siano riconosciuti come tali dai nostricompagni politici, è perché vedo la tendenza dei nostri compagni politici a riconoscere comerivoluzionaria la letteratura arcadica di chi suona il piffero per la rivoluzione piuttosto che laletteratura in cui simili esigenze sono poste, la letteratura detta oggi di crisi.

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E. Vittorini, Una lezione di poeticaIo, gli scrittori li distinguo così: quelli che leggendoli mi fanno pensare “ecco, è propriovero”, e che cioè mi danno la conferma di ‘come’ so che è in genere sia la vita. E quelliche mi fanno pensare “perdio, non avevo mai supposto che potesse essere così”, checioè mi rivelano un nuovo particolare ‘come’ sia nella vita.

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La crisi della sinistra

Il 1956

Già nel 1948 = sconfitta della sinistra alle elezioni → declino del movimento

Nel 1956 si verificano due avvenimenti fondamentali:

1. Le rivelazioni di Kruscev sui delitti della dittatura di Stalin al XX congresso del partito comunista

• vengono alla luce i processi e condanne a morte o deportazioni nei guleg delle persone innocenti, onnipotenza della

polizia, «culto della persona» instaurato da Stalin

2. L’intervento militare dell’Unione Sovietica in Ungheria che stronca la rivolta degli operai e degli intellettuali

• questi due avvenimenti avranno conseguenze vastissime su tutta la sinistra europea

• molti membri del PCI (Partito comunista italiano) lasciano il partito

• In Italia nel PCI e PSI inizia un dibattito e processo di revisione dei principi ideologici e della prassi politica

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I. Calvino, Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno, 1964

[...] mai fu tanto chiaro che le storie che si raccontavano erano materialegrezzo: la carica esplosiva di libertà che animava il giovane scrittore nonera tanto nella sua volontà di documentare o informare, quanto in quelladi esprimere. Esprimere che cosa? Noi stessi, il sapore aspro della vitache avevamo appreso allora, tante cose che si credeva di sapere o diessere, e forse veramente in quel momento sapevamo ed eravamo.

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Letteratura e cinema

I film del Neorealismo• 1945: Roma città aperta (R. Rossellini)

• 1946: Paisà (R. Rossellini)

• 1946: Sciuscià (V. De Sica)

• 1948: Ladri di biciclette (V. De Sica) [OSCAR]

• 1951: Miracolo a Milano (V. De Sica)

• 1952: Umberto D. (V. De Sica)

• 1954: La strada (F. Fellini) [OSCAR]

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I film ispirati ai capolavori deI verismo e del Neorealismo

ROMANZO

• I Malavoglia (G.Verga)

• Gli indifferenti (A. Moravia)

• Cristo si è fermato a Eboli( C. Levi)

• Il bell’Antonio (V. Brancati)

• La ciociara (A.Moravia)

• Una vita violenta (P.P. Pasolini)

• L’isola di Arturo (E. Morante)

• Il Gattopardo (G. Tomasi diLampedusa)

• La ragazza di Bube (C. Cassola)

• Il giorno della civetta (L. Sciascia)

• La tregua (P. Levi)

• Il partigiano Johnny (B. Fenoglio)

FILM

• La terra trema (L. Visconti)

• Gli indifferenti (F. Maselli)

• Cristo si è fermato a Eboli (F. Rosi)

• Il bell’Antonio (M. Bolognini)

• La ciociara (V. De Sica)

• Accattone (P.Pasolini)

• L’isola di Arturo (D. Damiani)

• Il Gattopardo (L. Visconti)

• La ragazza di Bube (L. Comencini)

• Il giorno della civetta (D.Damiani)

• La tregua (F.Rosi)

• Il partigiano Johnny (G. Ghiesa)

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Cesare Zavattini (1902 – 1989)

• sceneggiatore, giornalista, commediografo, scrittore

e poeta italiano.

• una delle figure più rilevanti del neorealismo italiano

Io devo concentrare tutta la mia attenzione

sull'uomo d'oggi. Il fardello storico che io ho sulle

spalle non deve impedirmi di essere tutto nel

desiderio di liberare quest'uomo e non altri dalla

sua sofferenza servendomi dei mezzi che ho a

disposizione. Quest'uomo ha un nome e un

cognome, fa parte della società in un mondo che

mi riguarda senza equivoci e io sento il suo

fascino, lo devo sentire così forte, che voglio

parlare di lui, proprio di lui e non attribuirgli un

nome finto, perché quel nome finto è pur sempre

un velo fra me e la realtà, è qualcosa che mi

ritarda, anche di poco, ma mi ritarda il contatto

integrale con la sua realtà e di conseguenza la

spinta a intervenire per modificare questa realtà."

(Cesare Zavattini)

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Neorealismo letterario e cinematograficoF. D’Andrea

“Il cinema d’anteguerra era realizzato nei teatri di posa, si affidava alle capacità professionali di attori esperti, prediligeva contenuti fatui; il cinema neorealista utilizzava attori presi dalla strada che portassero impressi sul volto e nel loro modo di agire la condizione sociale e l’ambiente della vicenda di cui erano protagonisti, prima ancora che sullo schermo, nella vita; faceva uscire la macchina da presa dagli studi cinematografici nelle strade, nelle case popolari a contatto con i problemi quotidiani dell’uomo comune”.

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La ciociara

1956 1960

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La ciocara

• Romanzo di A. Moravia , pubblicato nel 1957

LA TRAMA:

• Cesira, una negoziante vedova, e sua figlia Rosetta,

adolescente bella, lottano per sopravvivere a Roma

durante la seconda guerra mondiale.

• Quando l'esercito tedesco si prepara a entrare in Roma,

Cesira prepara alcune provviste, cuce i risparmi di una

vita nelle fodere del vestito, e fugge a Sud con Rosetta

per tornare nella natale Ciociaria.

• Per nove mesi le due donne sopportano la fame, il

freddo, e la sporcizia mentre attendono l'arrivo delle

forze alleate

• la liberazione, quando arriva, porta un'inaspettata

tragedia

• sulla strada di casa, le due donne vengono attaccate e

Rosetta viene brutalmente violentata da un gruppo di

soldati marocchini in servizio nell'esercito francese

• questo atto di violenza sconvolgerà la vita di entrambe le donne

DAL TESTO AL FILM:

• la crudezza dei dettagli del romanzoè ben rappresentata

• la potenza evocatrice di un gesto, diuno sguardo, dei silenzi

• la figura materna

• la guerra non mortifica la forza deipoveri, ma la tempra

• la violenza e l’ingiustizia non vanno“mascherate”, ma dichiarate con energia

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Roma città aperta – R. Rossellini (1945)

CAST TECNICO ARTISTICO

Regia: Roberto RosselliniSceneggiatura: Celeste Negarville, Sergio Amidei, Federico Fellini, Roberto RosselliniFotografia: Ubaldo Arata Musica: Renzo RosselliniMontaggio: Eraldo Da Roma(Italia 1945)Durata: 98'Prodotto da: Roberto Rossellini, Ferruccio De Martino

PERSONAGGI E INTERPRETI

Don Pietro: Aldo FabriziPina: Anna Magnani Ing. Manfredi: Marcello PaglieroAkos TolnayAlberto Tavazzi

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Personaggi

– Don Pietro: prete che nasconde i partigiani dandogli asilo

– Pina: una popolana

– Manfredi: il partigiano

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Trama

– Durante l'occupazione, don Pietro protegge i partigiani e, tra gli altri, offre asilo ad un ingegnere comunista: Manfredi.

– Pina una popolana viene uccisa a colpi di mitra sotto gli occhi del figlioletto mentre tenta d'impedire l'arresto del suo uomo, trascinato via su un camion.

– Don Pietro e l'ingegnere vengono arrestati.

– torture inflittegli dai tedeschi per ottenere i nomi dei suoi compagni della Resistenza.

– Manfredi muore sotto le torture inflittegli dai tedeschi per ottenere i nomi dei suoi compagni della Resistenza.

– La sorte di Don Pietro è la stessa: il sacerdote viene fucilato davanti ai bambini della propria parrocchia, tra i quali il figlio ormai orfano di Pina.

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Le recensioni

Roma città aperta è sicuramente un film straordinario, con una sceneggiatura che inizialmente doveva puntare tutto sulla figura di don Pietro Pellegrini, ispirata a due preti vittime della barbarie nazista, don Giuseppe Morosini e don Pietro Pappagallo. Fu anche grazie all’intervento nello script di un giovane Federico Fellini che la pellicola ha assunto i suoi connotati definitivi di opera corale sulla resistenza italiana, dove quella di don Pietro è soltanto una delle tre figure chiave.Ma volendo essere un po’ critici, quello di Rossellini è anche un film con cui l’Italia e gli italiani cercavano di riabilitarsi agli occhi degli stranieri, dopo anni di un maggioritario cieco appoggio al fascismo.Gli stessi Rossellini e Fabrizi negli anni precedenti si erano compromessi con il fascismo, partecipando ad opere di propaganda antisovietica ed antialleata. Necessità di lavorare, potrebbe dire qualcuno, ma è pur vero che in quegli anni in cui i due si piegavano a qualcosa di forse più grande di loro, c’era gente che sacrificava le proprie esistenze nella lotta partigiana.La Roma di Rossellini sembra quasi interamente schierata contro i tedeschi e gli apparentemente pochi fascisti ancora in circolazione.Confrontandola con la Roma di Ettore Scola e del suo Una giornata particolare, ambientato sei anni prima degli episodi descritti da Rossellini, sembra trattarsi di due realtà e due città completamente differenti.Ciò sicuramente non può inficiare il giudizio su quello che è considerato uno dei massimi capolavori del cinema italiano, sicuramente non dal punto di vista artistico, magari un po’ da quello storico.Roma città aperta è il film con cui Rossellini si faceva voce di quell’Italia che voleva scusarsi davanti agli occhi della comunità internazionale, trincerandosi dietro le gesta dei propri campioni di eroismo: Pina, l’ingegnere, Don Pietro.

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Paisà • Diviso in sei episodi il film rievoca l'avanzata delle truppe alleate nella Penisola

durante la seconda guerra mondiale.

• Il primo episodio, ambientato in Sicilia, parla dello sbarco degli americani in Sicilia.

• Il secondo, parla di un soldato americano insegue per le strade della città un piccolo sciuscià che gli ha rubato le scarpe.

• nel terzo episodio, una prostituta riconosce, in un soldato americano ubriaco, l'uomo che l'aveva messa incinta poco tempo prima, ma che dopo poco riparte senza volerla rivedere.

• Nel quarto episodio un'infermiera inglese cerca disperatamente l'uomo che ama, capo dei partigiani.

• Nel quinto episodio, tre cappellani militari, uno cattolico e due di confessioni diverse, vengono ospitati in un convento; durante la permanenza dei religiosi, i frati francescani digiunano per convertire i due eretici.

• Nel sesto episodio,paracadutisti e partigiani sul delta del Po combattono, eroicamente contro i nemici, ma i nazisti hanno la meglio ed in molti vengono ferocemente massacrati.

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Il dramma dell’intellettuale di fronte all’esperienza della lotta partigiana: la Resistenza come emblema di una condizione esistenziale

nella narrativa anticelebrativa e antideologica del dopoguerra.

AUTORI OPERE/BRANI

C. Pavese

La casa in collina, 1948“Voialtri non potete capire” (cap. XI)

“Alzai le spalle anche stavolta” (cap. XII)

“Sai tante cose, e non fai niente per aiutarci” (cap. XII)

Il “male dentro” (cap. XV)

“Ogni guerra è una guerra civile” (cap. XXIII)

E. Vittorini

Uomini e no, 1945La rappresaglia nazista (cap. LXIII-LXIV)

“Fange ihn ! ” (cap. CI-CIII)

Berta, l’infanzia (cap. CXXIX)

B. Fenoglio

Una questione privata, 1963Milton va a rivedere la casa di Fulvia (cap.II)

“Solo quella verità”(cap. III)

La violenza (cap.6 ; cap. 9)

Milton uccide il sergente fascista (cap. X)

La corsa e la morte di Milton (cap. XIII)

Il partigiano Johnny, 1968“Un splendido inutile Robin Hood” (cap. XVII)

I. Calvino

Il sentiero dei nidi di ragno, 1947Tra storia e fiaba: Pin-Pollicino (cap.IV)

L’accampamento nel bosco (cap.VI)

La guerra e il comunismo (cap.VIII)

Le ansie e i sogni del commissario Kim (cap.IX)

Ultimo viene il corvo, 1949Ultimo viene il corvo

Campo di mine

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Tra uomini e non-uomini: il ruolo ‘terzo’ dei personaggi minori

1) Il prefetto (cap. XC)

“Pipino, tuttavia, riuscì a dire quello che lui non voleva. Lui non voleva prendersi laresponsabilità di consegnare la gente al plotone di esecuzione. Questa era unaresponsabilità che toccava ai tribunali. Era un tribunale, lui? Lui non era un tribunale. (…)

‘Mica loro’ disse Giuseppe-e-Maria ‘ti chiedono delle personalità. Ti chiedono un certo numerodi teste. Non altro’.

‘Possiamo dar loro degli operai?’

‘Ma si capisce. Possiamo dar loro solo degli operai’.

L’idea di poter consegnare al plotone di esecuzione solo degli operai sembrava confortante aPipino, quasi liberatrice. Anche il suo omiciattolo sembrava trovarla apprezzabile. Come unmale minore. Egli si soffiò con cura il lungo naso. Giuseppe-e-Maria rise. L’accordo furaggiunto.

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Tra uomini e non-uomini: il ruolo ‘terzo’ dei personaggi minori

2) Fange ihn!: i militi (cap. C)

Lentamente, Giulaj si spogliava, e il capitano prendeva i suoi stracci, li gettava ai cani.

‘Strano’ Manera disse. ‘Ma che gli vuol fare?’

‘Dicono’ disse il terzo ‘che sia un burlone’.

‘E che burla vuol fargli?’ Manera disse.

I cani annusavano gli indumenti; Gudrun si mise a lacerare la giacca.

‘Perché’ disse Giulaj ‘date la mia roba ai cani?’

Si chinò per togliere a Gudrun la sua giacca. ‘Me la strappano’ disse. Ma Gudrun saltò,ringhiando, contro di lui: lo fece indietreggiare.

‘Ja’ gridò il capitano ‘Fange ihn!’ (…)

‘Non ti preoccupare’ disse Manera a Giulaj. ‘Ti darà il capitano altro da vestirti’.

Tutti e cinque i militi si erano avvicinati per vedere; facevano ormai cerchio. Guardavano Giulaj,ormai seminudo, e avevano già voglia di riderne; guardavano i cani, Blut come annusava,Gudrun come lacerava; e già ridevano.

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Berta, ovvero dell’ignavia

1) il secondo incontro (cap. LXXXIII)‘Lascia che glielo dica prima’.‘Ma perché?’ disse Enne 2. ‘Vuoi parlargli come se non fossi ancora mia moglie? Non vuoi essere

ancora mia moglie? Vuoi essere ancora che cosa?’.Si era staccato da lei e si alzò in piedi.‘Vuoi essere ancora che cosa? Disse di nuovo. ‘Che cosa sei stata?’Berta era rimasta come lui l’aveva lasciata, appoggiata col gomito, e abbassò lo sguardo. Sembrava

avesse paura di poter vedere le montagne di ghiaccio fuori dalle finestre, o qualunque cosa già veduta, i fiori ch’erano sul tavolo, il suo stesso vestito di dieci anni prima, il fumo tra le macerie, gli occhi azzurri del vecchio, le facce dei morti sui marciapiedi.

Disse Enne 2: ‘E di nuovo è come sempre. Di nuovo è come sempre?’‘No’ Berta rispose. ‘Non è come sempre’‘è la stessa cosa che è stata sempre’.‘Non è la stessa cosa’.‘è come quando mi hai lasciato il vestito. La stessa cosa’.‘No. Non la stessa’.‘Eri venuta come oggi, e mi lasciasti il vestito. È come fu allora’.‘Non è come fu allora’.‘è come ogni volta che sei venuta’.

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Enne 2, ovvero ‘la morte come rimedio’

2) La fine (Cap. CXXVIII)

L’operaio se ne andò, la voce di Cane Nero era davanti alla casa, c’era anche il suo scudiscio chefischiava, e l’uomo Enne 2 era sicuro di fare la cosa più semplice che potesse fare.

Faceva una cosa come la cosa che avevano fatto lo spagnolo e Figlio-di-Dio. Si perdeva, macombatteva insieme. Non combatteva insieme? Mica c’era solo combattere e sopravvivere.C’era anche combattere e perdersi. E lui faceva questo con tanti altri che l’avevano fatto.

Non avrebbero potuto dire di lui che l’aveva voluto. Avrebbero potuto dire soltanto quello chelui aveva detto. Che essere in gamba era un buon rimedio.

Aveva in una mano la pistola dell’operaio, e prese la sua di sotto il cuscino.

‘E se arriva Berta?’ si chiese. ‘Ecco’ si chiese. ‘Se arriva? Se arriva un minuto prima di CaneNero?’ Pensò alla via dei tetti, come avrebbe potuto condurvi Berta. ‘Ma non arriva’ disse.

Tolse la sicura alle due pistole.

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Dal libro al film: il giudizio della critica

Il romanzo di Vittorini risente, con distaccato realismo, di questa Milano del 1944 (…) Più della storia e della cronaca, in questa città del dolore, distrutta, lacerata da attentati, da lotte clandestine, da vendette e persecuzioni, Vittorini preferisce addentrarsi in una filosofia del perché delle scelte personali, in una introspezione psicologica di questi uomini della Resistenza in opposizione alla barbarie nazifascista. E soprattutto segue, con più intensa partecipazione, il dramma privato del comandante partigiano Enne 2, un intellettuale di estrazione borghese, militante comunista (parafrasi di se stesso, dello stesso Vittorini), ricercato dalla polizia ed ora asserragliato nella sua stanza, dove attende il famigerato Cane Nero, il feroce capo dei repubblichini, che sta arrivando per arrestarlo. Enne 2 sa di andare incontro alla morte. Ha la possibilità di salvarsi, di fuggire. Ma, sfibrato nella volontà ed anche per ribadire la sua superiorità morale, rimane, aggrappato a un’ultima illusione: rivedere Berta, il suo grande e ricambiato amore, un amore tuttavia impossibile, vissuto in una esaltazione disperata, trasfigurata, irrazionale, mitizzata. Che va oltre la guerra, oltre la vita, oltre la morte. Perché da una parte c’è la violenza, dall’altra c’è l’umanità. Insomma “uomini e no”, chi è umano e chi non lo è. (…)

Anche il cinema volle appropriarsene, con un film girato, con feddo interesse, da Valentino Orsini, che, nel 1980, ne fece un lavoro di maniera, diseguale e di basso costo, mediocremente giudicato da pubblico e critici.

(Paolo A. Paganini)

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B. Fenoglio Una questione privata

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Milton: la gelosiacap. 2

• Il signorino Clerici, – disse allora, – mi fece inquietare e anche arrabbiare. Lo dico a lei perché ho stima di lei, lei è un ragazzo col viso tanto serio, mi lasci dire che non ho mai visto un ragazzo con una fisionomia cosí seria. Lei mi capisce. Io contavo poco o niente, ero solamente la custode della villa, ma la signora mamma di Fulvia, quando ce l’accompagnò, mi aveva pregato, mi aveva raccomandato...

• – Un po’ di governante, – suggerí Milton.• – Ecco, se la parola non è grossa. Quindi io dovevo stare un po’ attenta a quel che succedeva intorno alla ragazza. Lei mi capisce. Con lei

io stavo tranquilla, tanto tranquilla. Parlavate sempre, per ore. O meglio, lei parlava e Fulvia ascoltava. Non è vero?• – È vero. Era vero.• – Con Giorgio Clerici invece...• – Sí, – fece lui con la lingua secca.• – Ultimamente, l’ultima estate voglio dire, l’estate del ’43, lei era soldato, mi sembra.• – Sí.• – Ultimamente veniva troppo spesso, e quasi sempre di notte. A me francamente quelle ore non piacevano. Arrivava con la macchina

pubblica. Si ricorda quella che posteggiava sempre davanti al municipio? Quella bella macchina nera, poi con quel ridicolo impianto a gasogeno?

• – Sí. (…)• Nemmeno si voltò, ebbe solo una contrazione al sommo delle guance.• – E poi?• – E poi cosa? – fece la custode.• – Fulvia e... lui?• – Giorgio alla villa non si faceva piú vedere. Ma usciva lei. Si davano appuntamento. Lui aspettava a cinquanta metri, addossato alla

siepe per confondersi. Ma io ero all’erta e lo vedevo, lo tradivano i suoi capelli biondi. Quelle notti c’era una luna che spaccava.• – E questo fino a quando?• – Oh, fino ai primi dell’altro settembre. Poi successe il finimondo dell’armistizio e dei tedeschi. Poi Fulvia andò via da qui con suo padre.

E io, pur affezionata come le ero, fui contenta. Stavo troppo sulle spine. Non dico che abbiano fatto il male...• Eccolo lí, che tremava verga a verga nella sua fradicia divisa cachi, con la carabina che gli sussultava sulla spalla, la faccia grigia, la bocca

semiaperta e la lingua grossa e secca. Finse un• accesso di tosse, per darsi il tempo di ritrovare la voce.

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Milton: la gelosiacap. 3

• – Tornerò per mezzogiorno, – disse Milton con puntiglio e fece per ritirarsi.

• – Un momento. E di Alba che mi dici? Niente?

• – Non ho visto praticamente niente, – rispose Milton senza riavvicinarsi. – In tutto e per tutto ho visto una ronda sul viale di circonvallazione.

• – In che punto esattamente?

• – All’altezza del giardino vescovile.

• – Ah –. Gli occhi di Leo sfolgoravano bianchi nella vampa dell’acetilene. – Ah. E dove andavano? Verso la piazza nuova o verso la centrale elettrica?

• – Verso la centrale.

• – Ah, – rifece Leo acremente. – Non è pignoleria, Milton, ma puro masochismo. Il fatto è che sono follemente innamorato di Alba. A furia di pensarla come centro di gravità della mia brigata... sí, se tu permetti, io sono follemente innamorato della tua città e sento il bisogno, il porco bisogno di sapere dove, quando e come me la f... Ma che hai? Nevralgia?

• – Che nevralgia! – scattò Milton, ancora stralunato, con la smorfia di dolore ancora stampata netta in viso.

• – Avevi una faccia! Molti dei nostri soffrono di mal di denti. Dev’essere questa enorme umidità. Che altro hai visto? Hai dato un’occhiata al nuovo bunker di Porta Cherasca?

• E Milton: «Non ne posso piú, – pensava. – Se mi fa ancora domande io... io lo...! E si tratta di Leo. Di Leo! Figuriamoci con gli altri. Il fatto è che piú niente m’importa. Di colpo, piú niente. La guerra, la libertà, i compagni, i nemici. Solo piú quella verità».

• – Il bunker, Milton.

• – L’ho veduto, – sospirò.

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Milton e il sergentecap. 10

• A valle del costone un cane abbaiò, ma d’allegria, non per allarme. Erano già quasi a un terzo dell’erta.

• – Non passerà, – disse Milton, – ma se passasse un contadino, tu subito ti porti sul ciglio della strada, dalla parte della ripa. Cosí quello può passare senza nemmeno sfiorarti e a te non viene la pessima idea d’avvinghiarti a lui. Hai capito?

• Annuí con la testa.

• – È un’idea che può venire a chi sa di andare a morire. Ma tu non vai a morire. Attento a non scivolare. Io non sono rosso, sono badogliano. Questo ti solleva un pochino, eh? Spero tu ti sia già persuaso che io non ti ammazzerò. Non lo dico perché siamo ancora troppo vicini a Canelli e c’è ancora la possibilità di sbattere in una vostra pattuglia. Piú in là ti tratterò anche meglio, vedrai. Hai sentito? E non tremare. Ragiona, che motivo hai piú di tremare? Se è per lo shock della pistola nella schiena, a quest’ora dovresti averlo già superato. Sei o non sei un sergente della San Marco? Eri anche tu di quelli che stamattina facevano i gradassi a Santo Stefano?

• – No!

• – Non alzar la voce. Non m’interessa. E smettila di tremare, e di’ qualcosa.

• – E che vuoi che dica?

• – Andiamo già meglio.

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Milton uccide il sergentecap. 10

• – Tu ed io siamo a posto ormai, – disse.

• A quelle parole il sergente si arrestò netto e gemette.

• Milton si riscosse e strinse meglio la pistola. – Ma cos’hai capito? Hai capito male. Non tremare. Non ti voglio ammazzare. Né qui né altrove. Non ti ammazzerò mai. Non farmelo piú ripetere. Sei convinto? Parla.

• – Sí, sí.

• – Ricammina.

• Si inerpicarono sullo spiazzo e presero a percorrerlo. Pareva a Milton piú vasto di quel che gli fosse apparso nella mattina. Milton sbirciò alla casa solitaria, muta, chiusa e indifferente come nella mattina. Il sergente ora camminava alla cieca, sgambava nel fango senza evitare i cardi selvatici.

• – Aspetta, – disse Milton.

• – No, – fece quello, arrestandosi.

• – Piantala, eh? Stavo pensando a una cosa. Ascolta. Dovremmo passare in un paese che ha un nostro presidio. Naturalmente anche lí c’è gente scottata. In particolare ci sono due miei compagni ai quali avete ammazzato i fratelli. Non dico siate stati voi San Marco. Quelli vorranno mangiarti il cuore. Quindi noi scarteremo quel paese, lo aggireremo per un vallone che so io. Ma tu non farmi...

• Le dita del sergente si slacciarono da sulla nuca con uno schiocco terribile. Le braccia remigavano nel cielo bianco. Cosí sospeso, era tremendo e goffo. Volava di lato, verso il ciglio, e il corpo già pareva arcuarsi nel tuffo in giú.

• – No! – aveva gridato Milton, ma la Colt sparò, come se fosse stato il grido ad azionare il grilletto.

• Ricadde sulle ginocchia, e stette per un attimo, tutto contratto, con la testa appiattita e il naso piccolo e marcato come conficcato nel cielo. Pareva a Milton che la terra non c’entrasse, né per lui né per l’altro, che tutto accadesse in sospensione nel cielo bianco.

• – No! – urlò Milton e gli risparò, mirando alla grande macchia rossa che gli stava divorando la schiena.

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La corsa e la morte di Miltoncap. 13

Certo le fitte cortine di pioggia concorrevano a sfigurarla, ma egli la vide decisamente brutta, gravemente deteriorata e corrotta, quasi fosse decaduta di un secolo in quattro giorni. I muri erano grigiastri, i tetti ammuffiti, la vegetazione all’intorno marcia e sconquassata.

«Ci vado, ci vado ugualmente. Non saprei proprio che altro fare e non posso stare senza far niente. Manderò in città il ragazzo del contadino, per sapere di lui. Gli darò... gli darò le dieci lire che dovrebbero restarmi in tasca».

Si avventò giú per il pendio, perdendo immediatamente la vista della villa, e arrivò in scivolata sulla riva del torrente, a valle del ponte. L’acqua sommergeva di un palmo i massi collocati per il guado. Passò da un pietrone all’altro con l’acqua gelida e grassa alle caviglie. Poi imboccò la stradina percorsa al ritorno davanti a Ivan, quattro giorni prima. Al piano, camminò con furore, rispondendo al furore della pioggia. «In che stato sono. Sono fatto di fango, dentro e fuori. Mia madre non mi riconoscerebbe. Fulvia, non dovevi farmi questo. Specie pensando a ciò che mi stava davanti. Ma tu non potevi sapere che cosa stava davanti a me, ed anche a lui e a tutti i ragazzi. Tu non devi saper niente, solo che io ti amo. Io invece debbo sapere, solo se io ho la tua anima. Ti sto pensando, anche ora, anche in queste condizioni sto pensando a te. Lo sai che se cesso di pensarti, tu muori, istantaneamente? Ma non temere, io non cesserò mai di pensarti».

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La corsa e la morte di Miltoncap. 13

Correva, sempre piú veloce, piú sciolto, col cuore che bussava, ma dall’esterno verso l’interno come se smaniasse di riconquistare la sua sede. Correva come non aveva mai corso, come nessuno aveva mai corso, e le creste delle colline dirimpetto, annerite e sbavate dal diluvio, balenavano come vivo acciaio ai suoi occhi sgranati e semiciechi. Correva, e gli spari e gli urli scemavano, annegavano in un immenso, invalicabile stagno fra lui e i nemici.

Correva ancora, ma senza contatto con la terra, corpo, movimenti, respiro, fatica vanificati. Poi, mentre ancora correva, in posti nuovi o irriconoscibili dalla sua vista svanita, la mente riprese a funzionargli. Ma i pensieri venivano dal di fuori, lo colpivano in fronte come ciottoli scagliati da una fionda. «Sono vivo. Fulvia. Sono solo. Fulvia, a momenti mi ammazzi!»

Non finiva di correre. La terra saliva sensibilmente ma a lui sembrava di correre in piano, un piano asciutto, elastico, invitante. Poi d’improvviso gli si parò dinnanzi una borgata. Mugolando Milton la scartò, l’aggirò sempre correndo a piú non posso. Ma come l’ebbe sorpassata, improvvisamente tagliò a sinistra e l’aggirò di ritorno. Aveva bisogno di veder gente e d’esser visto, per convincersi che era vivo, non uno spirito che aliava nell’aria in attesa di incappare nelle reti degli angeli. Sempre a quel ritmo di corsa riguadagnò l’imbocco del borgo e l’attraversò nel bel mezzo. C’erano ragazzini che uscivano dalla scuola e al rimbombo di quel galoppo sul selciato si fermarono sugli scalini, fissi alla svolta. Irruppe Milton, come un cavallo, gli occhi tutti bianchi, la bocca spalancata e schiumosa, a ogni batter di piede saettava fango dai fianchi. Scoppiò un grido adulto, forse della maestra alla finestra, ma lui era già lontano, presso l’ultima casa, al margine della campagna che ondava.

Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo. Era perfettamente conscio della solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò.

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Il sentiero dei nidi di ragno –I. Calvino, 1948

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I ‘grandi’ agli occhi di Pin: “razza ambigua e traditrice” (cap. II)

• - Io, - dice il Francese agli altri, - con questi del comitato non mi comprometterei troppo. Non me la sento d'andar di mezzo per la faccia loro.

• - Ben, - dice Gian l'Autista. - Noi cosa s'è fatto? S'è detto: vedremo. Intanto è bene averci un collegamento con loro senza impegnarci e prendere tempo. Io coi tedeschi poi ci ho un conto da regolare da quando s'era al fronte insieme, e se c'è da battermi, mi batto volentieri.

• - Ben, - dice Miscèl. - Guarda che coi tedeschi non si scherza e non si sa come andrà a finire. Il comitato vuole che facciamo il gap; bene, noi facciamo il gap per conto nostro.

• - Intanto, - fa Giraffa, - gli facciamo vedere che siamo dalla loro, e ci armiamo. Una volta che siamo armati...

• Pin è armato: sente la pistola sotto la giacchetta e ci mette una mano sopra, come se gliela volessero portar via.

• - Ne avete armi, voi? — chiede.

• - Non ci stare a pensare, - fa il Giraffa. - Tu pensa a quella pistola del tedesco, siamo intesi.

• Pin rizza gli orecchi; ora dirà: indovinate, dirà.

• - Guarda un po' di non perderla d'occhio, se ti capita sottomano...

• Non è come Pin avrebbe voluto, perché importa loro tanto poco, adesso? Vorrebbe non aver ancora preso la pistola, vorrebbe tornar dal tedesco e rimetterla al suo posto.

• - Per una pistola, - dice Miscèl, - non vai la pena rischiare. Poi è un modello antiquato: pesante, s'inceppa.

• - Intanto, - dice Giraffa, - bisogna far vedere al comitato che facciamo qualcosa, questo è importante -. E continuano a parlottare sottovoce.

• Pin non sente più niente: ormai è sicuro che non darà loro la pistola; ha i lucciconi agli occhi e una rabbia gli stringe le gengive. I grandi sono una razza ambigua e traditrice, non hanno quella serietà terribile nei giochi propria dei ragazzi, pure hanno anch'essi i loro giochi, sempre più seri, un gioco dentro l'altro che non si riesce mai a capire qual è il gioco vero. Prima sembrava che giocassero con l'uomo sconosciuto contro il tedesco, adesso da soli contro l'uomo sconosciuto, non ci si può mai fidare di quel che dicono.

• - Ben, cantacene un po' una, Pin, - dicono adesso, come se nulla fosse successo, come se non ci fosse stato un patto severissimo tra lui e loro, un patto consacrato da una parola misteriosa: gap.

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L’interrogatorio: il tradimento del francese (cap. III)

• Allora l'ufficiale solleva il cinturone e gli da una frustata a una guancia con tutte le sue forze. Pin a momenti va per terra, sente come unvolo d'aghi che gli si conficcano nelle lentiggini, e il sangue scorrergli per la guancia già gonfia.• La sorella da un grido. Pin non può fare a meno di pensate a quante volte lei l'ha picchiato, forte quasi come adesso, e che è unabugiarda a far tanto la sensibile (…)• Pin in fondo preferirebbe essere amico con questi uomini; anche le guardie municipali gliele suonano sempre e poi si mettono ascherzare su sua sorella. Se ci si mettesse d'accordo sarebbe bello spiegare a costoro dove fanno il nido i ragni e che loro s'interessassero evenissero con lui, che mostrerebbe loro tutti i posti. Poi andrebbero insieme all'osteria a com-prare del vino e poi tutti in camera di sua sorellaa bere, fumare e vederla ballare. Ma i tedeschi e i fascisti sono razze imberbi o bluastre con cui non ci si può intendere, e continuano apicchiarlo e Pin non dirà mai loro dove sono i nidi di ragno, non l'ha mai detto agli amici, figuriamoci se lo dice a loro.• Piange, invece, un pianto enorme, esagerato, totale come il pianto dei neonati, misto a urli e imprecazioni e a pestate di piedi che lo sisente per tutto il casamento del comando tedesco. Non tradirà Miscèl, Giraffa, l'Attrista e gli altri: sono i suoi veri compagni. Pin ora è pienod'ammirazione per loro perché sono nemici di quelle razze bastarde. Miscèl può star sicuro che Pin non lo tradirà, di là certo sentirà i suoigridi e dirà: « Un ragazzo di ferro, Pin, resiste e non parla».• Difatti il baccano piantato da Pin si sente dappertutto, gli ufficiali degli altri uffici cominciano a essere seccati, al comando tedesco c'èsempre un viavai di gente per permessi e forniture, non è bene che tutti sentano che loro battono anche i bambini.• L'ufficiale con la faccia infantile riceve l'ordine di smettere l'interrogatorio; continuerà un altro giorno e in altra sede. Ma far stare zittoPin adesso è un problema. Loro vogliono spiegargli che tutto è finito ma Pin copre la loro voce coi suoi strilli. Gli si avvicinano in molti, percalmarlo, ma lui scappa e si divincola e raddoppia i piagnistei. Fanno entrare sua sorella che lo consoli e lui a momenti le salta addosso permorderla. Dopo un po' c'è un gruppetto di militi e di tedeschi attorno a lui che cercano di rabbonirlo, qualcuno gli fa una carezza, qualcunocerca d'asciugargli le lacrime.• Alla fine, stremato, Pin si cheta, ansimando senza più voce in gola. Ora un milite lo condurrà alla prigione e domani lo riaccompagneràall'interrogatorio.• Pin esce dall'ufficio col milite armato che lo segue; ha la faccia piccola piccola sotto l'ispido dei capelli, gli occhi strizzati e le lentigginilavate dal pianto.• Sulla porta incontrano Miscèl il Francese che esce, libero.• - Ciao, Pin, - dice, - vado a casa. Prendo servizio domani.• Pin lo smiccia con gli occhietti rossi, a bocca aperta.• - Si. Ho fatto domanda per la brigata nera. Mi hanno spiegato i vantaggi, lo stipendio che si piglia. Poi, sai, nei rastrellamenti puoi girareper le case a perquisire dove vuoi. Domani mi vestono e mi armano. In gamba, Pin.

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I partigiani: la disumanità (cap. VII)

• Un giorno torna all'accampamento Duca; era stato via con i suoi tre cognati per una delle loro spedizionimisteriose. Duca arriva con una sciarpa di lana nera attorno al collo e tiene in mano il berretto di pelo.

• - Compagni - dice - hanno ammazzato mio cognato Marchese.

• Gli uomini escono dal casolare e vedono arrivare Conte e Barone, pure con sciarpe di lana nera attorno alcollo, che portano una barella di pali da vigna e rami d'olivo, con dentro il loro cognato Marchese, uccisodalla brigata nera in un campo di garofani.

• I cognati posano la bara davanti al casolare e rimangono a testa scoperta e a capo chino. Alloras'accorgono dei due prigionieri. Ci sono due prigionieri fascisti catturati nell'azione del giorno prima, chese ne stanno lì scalzi e spettinati a pelare le patate, con la divisa dai fregi strappati, spiegando per lacentesima volta a ognuno che s'avvicina che loro ad arruolarsi erano stati obbligati.

• Duca ordina ai due prigionieri di prendere il picco e la pala, e di portare la bara ai prati per seppellire ilcognato. Cosi s'incamminano: i due fascisti portano il morto sulle spalle adagiato sulla barella di rami, poi itre cognati, Duca in mezzo, gli altri ai lati. Nella mano sinistra hanno il berretto tenuto sul petto all'altezzadel cuore: Duca il berretto tondo di pelò, Conte un passamontagna di lana, Barone il grande cappellocontadino nero; nella mano destra hanno ognuno una pistola puntata. Dietro, a una certa distanza,seguono tutti gli altri, in silenzio.

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I partigiani: la disumanità (cap. VII)

• Duca a un certo momento comincia a dire le preghiere per i morti: i versetti latini nella sua bocca suonanocarichi d'ira come bestemmie, e i due cognati gli fanno coro, sempre con le pistole puntate e i berrettitenuti sul petto; II funerale avanza cosi per i prati, a passo lento; Duca da brevi ordini ai fascisti, di andareadagio, di tenere dritta la barella e di girate quando si deve girare; poi ordina loro di fermarsi e di scavarela fossa.

• Anche gli uomini si fermano a una certa distanza e stanno a guardare. Vicino alla bara e ai due fascisti chescavano ci sono i tre cognati calabresi a capo scoperto, con le sciarpe di lana nera e le pistole puntate chedicono preghiere latine. I fascisti lavorano con fretta: hanno già scavato una fossa profonda e guardano icognati.

• - Ancora, - dice Duca.

• - Più profonda? - chiedono i fascisti.

• - No, - dice Duca, - più larga.

• I fascisti continuano a scavare e a buttare su terra; fanno una fossa due, tre volte più larga.

• - Basta, - dice Duca.

• I fascisti adagiano il cadavere di Marchese in mezzo alla fossa; poi escono per ributtare dentro la terra.

• - Giù, - dice Duca, - copritelo restando giù.

• I fascisti fanno cadere palate di terra solo sopra il morto e rimangono in due fosse separate ai lati delcadavere sotterrato. Ogni tanto si voltano per vedere se Duca permette loro di salire, ma Duca vuole checontinuino a buttare tetra sul cognato morto, terra che già forma un'alta tomba sul suo corpo.

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I partigiani: l’ignoranza politica (cap. VIII)

• Adesso Mancino si lagna con Giacinto che nel distaccamento nessuno parli mai agli uomini del perchéfanno il partigiano e di cos'è il comunismo. Giacinto ha i pidocchi annidati a grumi alla radice dei capelli enei peli del basso ventre. A ogni pelo sono appiccicate piccole uova bianche e Giacinto con un gestodiventato ormai meccanico continua a schiacciare uova e bestie fra le unghie dei pollici, facendo un piccolo«clic».

• - Ragazzi, - comincia a parlare, rassegnato, come se non volesse rassegnare nessuno, nemmeno Mancino, -ognuno lo sa perché fa il partigiano. Io facevo lo stagnino e giravo per le campagne, il mio grido si sentivada distante e le donne andavano a prendere le casseruole bucate per darmele da aggiustare. Io andavonelle case e scherzavo con le serve e alle volte mi davano uova e bicchieri di vino. Mi mettevo a stagnare irecipienti in un prato e intorno avevo sempre bambini che mi stavano a guardare. Adesso non posso piùgirare per le campagne perché mi arresterebbero e ci sono i bombardamenti che spaccano tutto. Perquesto facciamo i partigiani: per tornare a fare lo stagnino, e che ci sia il vino e le uova a buon prezzo, eche non ci arrestino più e non ci sia più l'allarme. E poi anche vogliamo il comunismo. Il comunismo è chenon ci siano più delle case dove ti sbattano la porta in faccia da esser costretti a entrarci per i pollai, lanotte. Il comunismo è che se entri in una casa e mangiano della minestra, ti diano della minestra, anche sesei stagnino, e se mangiano del panettone, a Natale, ti diano del panettone. Ecco cos'è il comunismo. Peresempio: qui siamo tutti pieni di pidocchi che ci muoviamo nel sonno perché quelli ci trascinano via. E iosono andato al comando di brigata e ho visto che avevano dell'insetticida in polvere. Allora ho detto: beicomunisti che siete; di questo in distaccamento non ne mandate. E loro hanno detto che ci manderannodell'insetticida in polvere. Ecco cos'è il comunismo.

• Gli uomini sono stati a sentire attenti e approvano: queste sono parole che capiscono bene tutti.

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Il discorso di Kim: perché i partigiani combattono (cap. IX)

• Kim si soffia nei baffi: - Questo non è un esercito, vedi, da dir loro: questo è il dovere. Non puoi parlar di dovere qui, nonpuoi parlare di ideali: patria, libertà, comunismo. Non ne vogliono sentir parlare di ideali, gli ideali son buoni tutti ad averli,anche dall'altra parte ne hanno di ideali. Vedi cosa succede quando quel cuoco estremista comincia le sue prediche? Gligridano contro, lo prendono a botte. Non hanno bisogno di ideali, di miti, di evviva da gridare. Qui si combatte e si muorecosi, senza gridare evviva.

• - E perché allora? - Ferriera sa perché combatte, tutto è perfettamente chiaro in lui.

• (…) Cosa li spinge a questa vita, cosa li spinge a combattere, dimmi? Vedi, ci sono i contadini, gli abitanti di queste montagne,per loro è già più facile. I tedeschi bruciano i paesi, portano via le mucche. È la prima guerra umana la loro, la difesa dellapatria, i contadini hanno una patria. Cosi li vedi con noialtri, vecchi e giovani, con i loro fucilacci e le cacciatore di fustagno,paesi interi che prendono le armi; noi difendiamo la loro patria, loro sono con noi. E la patria diventa un ideale sul serio perloro, li trascende, diventa la stessa cosa della lotta: loro sacrificano anche le case, anche le mucche pur di continuare acombattere. Per altri contadini invece la patria rimane una cosa egoistica: casa, mucche, raccolto. E per conservare tuttodiventano spie, fascisti; interi paesi nostri nemici... Poi, gli operai. Gli operai hanno una loro storia di salari, di scioperi, dilavoro e lotta a gomito a gomito. Sono una classe, gli operai. Sanno che c'è del meglio nella vita e che si deve lottare perquesto meglio. Hanno una patria anche loro, una patria ancora da conquistare, e combattono qui per conquistarla. Ci sonogli stabilimenti giù nelle città, che saranno loro; vedono già le scritte rosse sui capannoni e bandiere alzate sulle ciminiere.Ma non ci sono sentimentalismi, in loro. Capiscono la realtà e il modo di cambiarla. Poi c'è qualche intellettuale o studente,ma pochi, qua e là, con delle idee in testa, vaghe e spesso storte. Hanno una patria fatta di parole, o tutt'al più di qualchelibro. Ma combattendo troveranno che le parole non hanno più nessun significato, e scopriranno nuove cose nella lotta degliuomini e combatteranno cosi senza farsi domande, finché non cercheranno delle nuove parole e ritroveranno le antiche, macambiate, con significati insospettati. Poi chi c'è ancora? Dei prigionieri stranieri, scappati dai campi di concentramento evenuti con noi; quelli combattono per una patria vera e propria, una patria lontana che vogliono raggiungere e che è patriaappunto perché è lontana. Ma capisci che questa è tutta una lotta di simboli; che uno per uccidere un tedesco deve pensarenon a quel tedesco ma a un altro, con un gioco di trasposizioni da slogare il cervello, in cui ogni cosa o persona diventaun'ombra cinese, un mito?

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Il discorso di Kim: il distaccamento del Dritto (cap. IX)

Il distaccamento del Dritto: ladruncoli, carabinieri, militi, borsaneristi, girovaghi. Gente che s'ac-comoda nelle piaghe della società, e s'arrangia in mezzo alle storture, che non ha niente dadifendere è niente da cambiare. Oppure tarati fisicamente, o fissati, o fanatici. Un'idearivoluzionaria in loro non può nascere, legati come sono alla ruota che li macina. Oppurenascerà storta, figlia della rabbia, dell'umiliazione, come negli sproloqui del cuoco estremista.Perché combattono, allora? Noia hanno nessuna patria, né vera né inventata. Eppure tu saiche c'è coraggio, che c'è furore anche in loto. È l'offesa della loro vita, il buio della loro strada,il sudicio della loro casa, le parole oscene imparate fin da bambini, la fatica di dover esserecattivi. E basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell'anima e ci si trova dall'altraparte, come Pelle, dalla brigata nera, a sparare con lo stesso furore, con lo stesso odio, controgli uni o contro gli altri, fa lo stesso.

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Il discorso di Kim: noi e ‘gli altri’ (cap. IX)

• Ferriera mugola nella barba: - Quindi, lo spirito dei nostri... e quello della brigata nera... la stessa cosa?...

• — La stessa cosa, intendi cosa voglio dire, la stessa cosa... - Kim s'è fermato e indica con un dito come setenesse il segno leggendo; - la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nellosbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena. Quel peso di male che grava sugli uomini delDritto, quel peso che grava su tutti noi, su me, su te, quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga inspari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza dipurificazione, di riscatto. Ma allora c'è la storia. C'è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto,loro dall'altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m'intendi?uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un'umanitàsenza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L'altra è la parte dei gesti perduti; degli inutilifurori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripeteree perpetuare quel furore e quell'odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi eloro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi perredimercene, loro per restarne schiavi. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di làdei vari significati ufficiali. Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostreumiliazioni: per l'operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccoloborghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. Io credo che il nostro lavoro politico siaquesto, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, cosìcome i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l'uomo contro l'uomo.

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Le quattro giornate di Napoli –Nanni Loy, 1962

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Le Quattro Giornate di Napoli dalle foto di Capa al film di Loy: un moto spontaneo popolare

APOLLONIA STRIANO

Le Quattro Giornate durante le quali Napoli, alla fine del mese di settembre del 1943, riuscì ad affermare la propria urgenza dilibertà, ribellandosi alla brutale presenza dei tedeschi, da sempre hanno dato luogo ad intensi dibatti storiografici.

Gli studiosi si sono soffermati a lungo sulla natura dell'insurrezione, ricercando la sua matrice in una spontanea forma di rivoltapopolare, nello slancio anarcoide o nella consapevole affermazione di valori antifascisti, sostenuta dalle strategie dellapolitica strutturata. All'interpretazione dell'avvenimento e alla sua ricostruzione storica ha dato un contributo fondamentaleil film di Nanni Loy "Le Quattro giornate di Napoli", apparso nel 1962. Di esso, del proficuo rapporto tra storiografia ecinema, del racconto in letteratura di questo incredibile episodio sono tornati a parlare gli autori del volume collettivo"L'onda della libertà. Le Quattro Giornate di Napoli tra storia, letteratura e cinema", curato da Ugo Maria Olivieri, MarioRovinello, Paolo Speranza. Forse oggi, a distanza di 72 anni — osserva nell'introduzione Guido D'Agostino — è possibileprovare a tracciare un bilancio della ricezione/percezione nell'immaginario cittadino, nazionale, europeo, delle QuattroGiornate, partendo proprio dalla controversa accoglienza che ha avuto il film di Loy, a ridosso della sua uscita, presso lastampa tedesca. In una sorta di precipitoso revisionismo, in Germania la vicenda della rivolta napoletana era stata archiviatadagli studiosi come un fatto di lenoni e prostitute, un'estemporanea zuffa popolare senza alcuna progettualità. Il filmscardinava profondamente questa chiave di lettura: ideologicamente, dichiarava Loy, era iniziato per le suggestioni offertedalle geniali fotografie di Robert Capa. L'immagine dello scugnizzo sporco e stracciato con l'elmetto tedesco in testa avevaindotto il regista ad accostarsi ai fatti di Napoli come ad un unicum rispetto alle azioni partigiane, che sarebbero poimaturate liberamente nel resto d'Italia. In concreto, quella foto affermava che il primo significativo colpo al potente esercitodel Reich era stato inferto da un popolo bambino e poverissimo, disperato ma ancestralmente ansioso di libertà. SecondoLoy Napoli, nonostante gli «aspetti quasi intollerabili di disorganizzazione», proponeva inconsapevolmente un modellovincente, «correttivo» rispetto a società troppo organizzate, gravate da falsi miti e cattiva coscienza. In questa prospettiva, ilsuo film riusciva ad elaborare un'efficace ed inedita analisi dei fatti, soffermandosi su quanto — nelle dinamiche della Storia— viene compiuto per uno spontaneo moto popolare, in cui trovano espressione concreta le spinte del cambiamentoideologico.

Il regista sarebbe stato "spinto" a girare il film dai geniali scatti del fotografo americano. L'accoglienza in Germania e altri paesi europei

U. OLIVIERI M. ROVINELLO P.SPERANZA L'onda della libertà. Le Quattro Giornate di Napoli tra storia, letteratura e cinema (Esi)

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La casa in collina – C. Pavese, 1948

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La casa in collina - riassunto

Protagonista e narratore delle vicende è Corrado, un docente torinese che per sfuggire ai bombardamenti cheimperversano nella città si è trasferito in collina presso una donna, Elvira, e la madre di lei. Le colline torinesi sonoabitate da schietta gente del luogo e da persone di città che, come lui, hanno bisogno di un rifugio. Così, malgradoCorrado prediliga la solitudine e l’isolamento, si unisce ai frequentatori di un’osteria, le Fontane,che scopre esseregestita da un suo amore del passato, Cate, che ha un figlio, Corrado (chiamato da tutti Dino), che, per motivianagrafici, potrebbe essere addirittura suo figlio. Corrado infatti anni addietro aveva interrotto la relazione conCate per scansare le responsabilità di un rapporto maturo ed anche adesso, di fronte alla tragedia della guerra,vive con apparente indifferenza le vicende storiche che accadono intorno a lui.

Corrado si unisce al gruppo dell’osteria e, pur non scoprendo mai la verità circa la paternità di Dino, inizia a trascorreremolto tempo con lui (in maniera simile a quanto accadrà tra Anguilla e Cinto ne La luna e i falò). Nel frattempo ilprotagonista si interroga anche sul suo amore per Cate, che forse non si è del tutto estinto, e sul suo impegnostorico e civile in un drammatico frangente storico, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Tuttavia Corrado nonesterna mai le proprie idee e non si risolve mai all’azione, osservando da spettatore la barbarie della guerra, chedevasta il mondo delle Langhe, strettamente legato ai ricordi infantili di Corrado.

La situazione è sconvolta da una retata dei nazisti, che all’osteria arrestano Cate e gli altri amici di Corrado, che, diritorno da Torino, riesce fortunosamente a salvarsi assieme a Dino. Rifugiatosi prima da Elvira, innamorata di lui, epoi in un collegio a Chieri (nei pressi di Torino), Corrado affida Dino alle cure delle due donne. Il ragazzo in seguitoraggiungerà il protagonista al collegio ma presto sceglie di arruolarsi nelle fila partigiane. Corrado, insicuro eincapace di affrontare l’impegno di una scelta, decide di tornare al paese natale e alla sua “casa in collina”.Durante il viaggio di ritorno, incappa in un’imboscata partigiana e la vista dei cadaveri dei fascisti gli suggerisceamare e disilluse riflessioni sul senso della guerra, dell’esistenza umana e della sua crisi esistenziale che, nellaconclusione del romanzo, non è destinata a risolversi.

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Il dramma esistenziale dell’intellettuale di fronte alla necessità dell’impegno

La casa in collina indaga le conseguenze psicologiche e sociali del secondo conflitto mondiale e della Resistenza, cuiPavese stesso non partecipa, rifugiandosi, come il protagonista, in campagna. La narrazione è dunque fortementeintrisa di elementi autobiografici, che fanno trasparire alcune costanti della poetica di Pavese: il legamedisarmonico tra l’intellettuale e la realtà, il rapporto complesso con il mondo rurale delle Langhe contrapposto aquello della città, il ruolo della memoria individuale.

Pavese tratta una volta ancora quel dissidio tra la solitudine contemplativa dell’intellettuale e la presa di posizionestorica ed ideologica che gli eventi storici richiederebbero. Pavese avverte profondamente questo dissidio permotivi autobiografici e lo traspone, attraverso la scelta della narrazione in prima persona, nella figura di Corrado.Il protagonista, debole e irresoluto, è preso all’interno di una serie di antitesi tra cui non sa decidersi. La prima diqueste è quella tra la città e la collina: se Torino è devastata dai bombardamenti, inizialmente la campagna delleLanghe si presenta come un luogo sicuro e protetto, in cui Corrado può rivivere i ricordi dell’infanzia o l’amorepassato con Cate. Tuttavia, ben presto la Storia nullifica questa opposizione: dopo l’8 settembre, con lo scoppiodella guerra civile tra nazifascisti e partigiani, anche il mondo della campagna è attraversato dalla violenza e tuttisono chiamati a scelte drastiche e radicali. In questo senso, è significativa l’assenza di Corrado nel momentocruciale della retata e il suo successivo disimpegno, con la scelta di rimanere nascosto da Elvira prima e nelcollegio poi.

La seconda antitesi è appunto quella tra chi si impegna (mostrando un legame attivo tra sé e il mondo esterno) e chi,come Corrado, è vittima del dubbio e dell’incertezza. Bisogna notare che questa crisi riguarda sia la vita privatache quella pubblica di Corrado. Se egli infatti non sa decidersi ad aderire alla lotta partigiana contro i repubblichini,sul piano personale è succube di tormenti analoghi. Corrado infatti non sa se Dino è davvero figlio suo, ma provaad identificarsi in lui e a svolgere un ruolo paterno nei suoi confronti. Assai significativa in questo caso la decisionefinale di Dino di abbandonare la sicurezza del collegio per entrare tra i partigiani, abbandonando Corrado nella suaincapacità di agire. In secondo luogo, quando rivede Cate il protagonista si domanda se il loro amore sia davverofinito, ma non fa nulla per riallacciare davvero il loro legame; dopo la retata, Corrado non saprà più nulla deldestino della donna. In terzo luogo, Corrado preferisce quasi sempre la solitudine al rapporto con gli altri e con ilmondo: prova ne è prima il suo rifugio nel microcosmo familiare della casa di Elvira e della madre e poi la scelta diautoescludersi da tutto ritornando alla “casa in collina”.

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La vista dei cadaveri (cap. XXII)

Quando giunsi cautamente alla svolta, vidi il grosso autocarro. Lo vidi fermo, vuoto, per traverso. Una colata dibenzina anneriva la strada, ma non era soltanto benzina. Lungo le ruote, davanti alla macchina, erano stesicorpi umani, e via via che mi avvicinavo la benzina arrossava. Qualcuno in piedi, donne e un prete,s’aggirava là intorno. Vidi sangue sui corpi.

Uno – divisa grigioverde tigrata – era piombato sulla faccia, ma i pidei li aveva ancora sul camion. Gli usciva ilsangue col cervello da sotto la guancia. Un altro, piccolo, le mani sul ventre, guardava in su, giallo,imbrattato. Poi altri contorti, accasciati, bocconi, d’un livido sporco. Quelli distesi erano corti, un fagotto dicenci. Uno ce n’era in disparte sull’erba, ch’era saltato dalla strada per difendersi sparando: irrigiditoginocchioni contro il fil di ferro, pareva vivo, colava sangue dalla bocca e dagli occhi, ragazzo di ceracoronato di spine.

Chiesi al prete se i morti erano tutti quelli del furgone. Il prete energico, sudato, mi guardò stravolto e mi dissenon solo ma nelle case più avanti era pieno di feriti. – Chi aveva attaccato?

Partigiani di lassù, mi disse, che li aspettavano da giorni. – Loro ne avevano impiccati quattro, - strillò unavecchia che piangeba e agitava un rosario.

- E questo è il frutto, - disse il prete. – Adesso avremo rappresaglie da selvaggi. Di qui all’alta valle del Belbo saràun falò solo.

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L’uomo che verrà – Giorgio Diritti, 2009