aspetti del mito

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Centro Internazionale Studi sul Mito Delegazione Siciliana ASPETTI DEL MITO Incontri culturali 2008 -2009 A cura di Gianfranco Romagnoli Immagine di copertina: La Primavera, di Carla Amirante - Acquarello - Collezione privata.

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Centro Internazionale Studi sul Mito Delegazione Siciliana

ASPETTI DEL MITO

Incontri culturali 2008 -2009

A cura di Gianfranco Romagnoli

Immagine di copertina: La Primavera, di Carla Amirante - Acquarello - Collezione privata.

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GLI AUTORI

• Carmelo CARUSO Direttore Conservatorio Musicale Statale “V. Bellini” Palermo

• Gianfranco ROMAGNOLI Prefetto, Vicepresidente del Centro

Internazionale di Studi sul Mito

• Carla AMIRANTE Pittrice, Componente Consiglio d’Amministrazione del CISM

• Giovanni ISGRO’ Docente di Semiologia dello Spettacolo – Università

di Palermo

• Luigi LUCINI Viceparroco di S. Nicolò dei Greci alla Martorana, cultore di bizantinologia

• Diego ROMAGNOLI Socio CISM, cultore di Storia delle Religioni

• Alfonso GIORDANO Presidente Onorario Corte di Cassazione

• Antonio OSNATO Sostituto Procuratore Generale, Palermo

• Claudia COSTANTINO Docente di Religione

• Lavinia SCOLARI Dottoranda Università di Siena

• Antonio ALONGI Dottore in Giurisprudenza, socio CISM

• Giuseppe BARBACCIA Docente di Filosofia della Politica – Università

di Palermo

• Zef CHIARAMONTE Cultore di Lingua e Letteratura Albanese

• Franca CUCCI Docente nei Licei a r.

• Ernesto SCHIRO’ Ingegnere

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PRESENTAZIONE L’attuale situazione di crisi finanziaria degli Enti pubblici regionali e locali ha reso impossibile, per il momento, reperire i finanziamenti ad hoc che nel passato hanno consentito l’edizione a stampa dei libri che, anno dopo anno, testimoniano l’intensa attività scientifica svolta dalla Delegazione Siciliana del Centro Internazionale di Studi sul Mito, la quale peraltro, come è noto, non gode di alcuna altra forma di sovvenzione pubblica, né di entrate diverse dalle quote associative - peraltro di irrisoria entità - e si regge sul volontariato di soci ed amici, che qui desidero sentitamente ringraziare. Al fine di non mandare disperso il materiale prodotto nella stagione 2008-2009, ci risolviamo a pubblicarlo sotto forma di e- book, che sarà affiancato da un ridotto numero di copie cartacee autoprodotte che riserveremo ai soci in regola con il pagamento dell’ annuale quota sociale. Questa forma di diffusione dei testi degli incontri culturali non esclude la pubblicazione a stampa quando, come è auspicabile, sarà superato il presente momento critico. Non arrendiamoci, dunque: manteniamo, tutti insieme, accesa la fiaccola che, in un mondo sempre più globalizzato ed indifferente ai valori della cultura, porta il lume di valori dalle radici profonde, senza i quali diventa difficile, se non impossibile, interpretare l’oggi e progettare il futuro. Gianfranco Romagnoli Vicepresidente e Delegato per la Sicilia del Centro Internazionale di Studi sul Mito

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CONFERENZA IN FORMA DI LEZIONE CONCERTO DEL M° CARMELO CARUSO: LA SONATA PER VIOLINO E PIANOFORTE IN FA MAGGIORE OP. 24 DI L. V. BEETHOVEN DETTA “LA PRIMAVERA” A cura di Gianfranco Romagnoli Il giorno 23 ottobre 2008 in Palermo, presso il Conservatorio Musicale Statale “V. Bellini”, il Direttore M° Carmelo Caruso ha inaugurato il terzo ciclo di incontri culturali del Centro Internazionale di Studi sul Mito (CISM)-Delegazione Siciliana con una conferenza in forma di Lezione Concerto sul tema La sonata per violino e pianoforte in fa maggiore, op.24 di L.v. Beethoven, detta “La Primavera”. La manifestazione è stata realizzata nell’ambito della collaborazione stabilita con protocollo d’intesa tra il Centro Internazionale di Studi sul Mito e il Conservatorio. Erano presenti, tra gli altri, il Presidente di Sezione Onorario della Corte di Cassazione Alfonso Giordano ed il Sostituto Procuratore Generale Antonio Osnato; i Prefetti Piero Marcellino, Pietro Massocco e Guido Palazzo Adriano; il Presidente dell’AGIMUS di Palermo Maria Di Francesco. Coadiuvato da due valenti musicisti, la violinista Cristina Enna ed il pianista Davide Cirritto, il M° Caruso ha compiuto un’ampia analisi della sonata beethoveniana, evidenziando la sorprendente modernità del grande compositore non soltanto rispetto alla musica del suo tempo, ma anche in funzione anticipatrice degli sviluppi successivi. In particolare, la sonata stessa si basa su tre note (ciò che richiama il moderno minimalismo), sulle quali viene costruito un mirabile risultato attraverso il procedimento della variazione, che investe tanto la melodia quanto il ritmo ed è coniugato con un uso geniale dell’alternanza tra gli strumenti. Beethoven precorre i risultati sia dei compositori romantici, sia, con la sua potenza compositiva, di musicisti più recenti come Stravinskj e Bela Bartòk e si esprime con l’uso di particolari strutture musicali, in cui possiamo ritrovare in nuce anche quelle usate dai primi dodecafonici. Al termine della conferenza e dell’esecuzione musicale, che hanno riscosso vivo interesse e successo, è intervenuto il M° Fortunato Patti evidenziando la necessità che conferenze di tale spessore siano seguite anche dagli allievi dei corsi di composizione. Infine, il Vicepresidente e Delegato per la Sicilia del CISM Prefetto Gianfranco Romagnoli, in segno di gratitudine ha offerto al M° Caruso un acquerello della pittrice Carla Amirante raffigurante la Primavera in veste di fanciulla danzante, e ai due musicisti un gagliardetto recante il logo del CISM.

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HISPANIDAD: COLORI, PAROLE E MUSICHE A cura di Gianfranco Romagnoli Il giorno 23 novembre 2008 presso il Circolo Ufficiali di Palermo, si è svolto l’incontro culturale Hispanidad: colori, parole e musiche. L’evento, frutto della collaborazione tra il Centro Internazionale di Studi sul Mito e l’AGIMUS di Palermo, si è articolato in una mostra delle belle tavole realizzate dalla pittrice Carla Amirante per i libri di Gianfranco Romagnoli sulle commedie spagnole del seicento di ambiente americano e siciliano, nonché in uno spettacolo ideato e diretto da Carmen Cutrera, nel quale la lettura a più voci di alcune scene di quelle commedie si è alternata con l’esecuzione di musiche barocche. In particolare le letture, tratte da Il nuovo mondo scoperto da Cristoforo Colombo di Lope de Vega, L’Aurora a Copacabana di Calderón de la Barca, Amazzoni nelle Indie di Tirso de Molina, L’Araucania domata di Lope de Vega, Lo schiavo del miglior padrone di Antonio Mira de Amescua e Il più bel fiore di Sicilia: Santa Rosalia di Agustín de Salazar sono state rese con passione ed efficacia da Gianni Ammirata, Lucina Gandolfo, Santo Grasso, Pietro Manzella, Vittoria Milazzo, Patrizia Riccardi, Carmen Cutrera e Maria Di Francesco. Per la parte musicale, il valente pianista Giuseppe Rossi ha eseguito musiche di Galuppi, Alessandro Scarlatti e Lebegue, mentre il Maestro Sergio Valenza ha accompagnato al pianoforte con grande bravura il soprano Miriam Alasia, dotata di voce bella ed espressiva, nell’esecuzione di musiche barocche di Galuppi e di Alessandro e Domenico Scarlatti. Tanto la mostra quanto lo spettacolo hanno riscosso il più vivo consenso e gradimento da parte del numeroso e qualificato pubblico intervenuto, tra cui il Procuratore Generale Salvatore Celesti ed i Prefetti Piero Marcellino e Pietro Massocco. Presentiamo qui appresso la sintesi delle commedie di cui si è dato lettura. AMAZZONI NELLE INDIE di Tirso de Molina Amazzoni nelle Indie è un dramma storico, scritto tra il 1626 e il 1631 dal grande autore teatrale spagnolo Tirso de Molina. Ambientato in Perù, tratta della vita del più giovane dei fratelli Pizarro, Gonzalo. La piéce inizia con un combattimento tra gli spagnoli e le amazzoni: Gonzalo si batte contro la regina Menalipe ma, affascinato dalla sua bellezza, si rifiuta di colpirla e, riuscendo ad abbracciarla, le dichiara il suo amore, che l’amazzone ammette di ricambiare. Frattanto la sacerdotessa Martesia, sorella di Menalipe, che sta battendosi contro Caravajal, gli propone di sposarlo facendolo partecipe dei suoi poteri magici, ma lo spagnolo cristiano rifiuta l’offerta. Menalipe racconta a Gonzalo come le amazzoni giunsero in America: dopo aver dominato gran parte del mondo antico, sconfitte da Teseo, armarono una nave e partirono alla volta di Atene per vendicarsi, ma una tempesta le

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trascinò fino alle coste americane dove, risalendo il fiume Marañon, fondarono il loro regno vietato agli uomini, ma che ella gli offre se la sposerà. Gonzalo si disimpegna adducendo di dover prima tornare in Spagna, per aiutare il fratello Hernando ingiustamente detenuto e per ottenere il consenso del re alle nozze. Frattanto Diego de Almagro il Giovane si mette a capo di una ribellione rivendicando per sé il trono del Perù, ma è sconfitto dal Governatore Vaca de Castro. Questi, al quale Caravajal narra l’ardita spedizione nel corso della quale avvenne lo scontro con le amazzoni, affida a Gonzalo la tutela della nipote Francisca, orfana del marchese Francisco Pizarro e gli promette di sostenere il suo diritto ad essere nominato governatore del Perù, trasmessogli dal marchese come a suo tempo gli aveva consentito il sovrano, il quale però sta ora inviando in Perù un viceré. Gonzalo propone a Francisca di sposarlo, ma le due amazzoni, giunte magicamente in volo, hanno assistito di nascosto alla scena: Menalipe rimprovera a Gonzalo la sua infedeltà, predicendogli che Francisca sposerà suo fratello Hernando. Gonzalo si ritira in una sua tenuta di campagna in attesa che il suo diritto venga riconosciuto. Qui è raggiunto da Caravajal e Almendra che, per conto di Vaca de Castro, gli chiedono di mettersi a capo della rivolta dei proprietari spagnoli contro gli abusi del viceré: Gonzalo rifiuta volendo attendere il responso del re sui suoi diritti, ma al racconto delle malversazioni e saputo che Francisca, recatasi dal vicerè a perorare la causa dei proprietari contro l’ordinanza che aboliva i loro privilegi, è stata arrestata e rispedita brutalmente in Spagna su una nave, indignato prende le armi. Tornano le due amazzoni e, conoscendo il triste destino che attende Gonzalo, cercano di persuadere lui e Caravajal a seguirle nel loro regno, ma la proposta è respinta. Gonzalo frattanto, vinto il viceré, si proclama governatore del Perù, ma contro di lui muove un esercito con un comandante inviato dalla Spagna per porre fine alla rivolta. Prima dello scontro, Caravajal fa presente a Gonzalo che i suoi lo seguiranno solo se si proclamerà re e li riempirà di titoli, benefici e prebende: altrimenti, accetteranno il perdono offerto dal comandante spagnolo a chi si arrende. Gonzalo rifiuta di tradire il re e, abbandonato da tutti, si prepara ad essere consegnato e ucciso, mentre le amazzoni piangono la sua sorte. L’ARAUCANIA DOMATA di Lope de Vega La commedia storica L’Araucania domata di Lope de Vega, pubblicata nel 1625, narra la riconquista di questa provincia ribelle del Cile, avvenuta nel 1557 ad opera del giovane condottiero don García Hurtado de Mendoza. Giunto in Cile, Mendoza partecipa a una processione nella quale il Santissimo viene riportato nella cattedrale, che ne era rimasta priva a seguito della ribellione.

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Nella foresta, il capo dei ribelli Caupolicán fa il bagno nel fiume con la moglie Fresia: frattanto, nei pressi, alcuni capi indigeni mediante il sacerdote Pillalonco, evocano il dio Pillán per sapere cosa li attende. Il responso è per la vittoria spagnola. Arriva Caupolicán al quale il dio è apparso mentre faceva il bagno, provocandogli invisibili ustioni: insieme decidono di continuare la lotta. Mendoza, attestatosi in un fortino in attesa di rinforzi, è assalito da un gran numero. Araucani, ma l’assalto è respinto. Temendo un nuovo attacco notturno, mette di guardia il soldato Rebolledo, che si addormenta due volte e scampa alle ire del comandante con la sua arguzia. In seguito Mendoza riporta una vittoria con una ardita incursione. Rebolledo è catturato dagli indigeni che vogliono mangiarlo, ma si libera facendo credere di avere nel sangue un veleno che ucciderebbe chi lo mangiasse. Persuade poi Gualeva, che lo desiderava, ad incontrare Mendoza, il quale la colma di onori e la rimanda con ricchi doni, mutandola da irriducibile nemica in fautrice della pace. Gli Araucani, incerti se arrendersi, decidono di tentare un assalto notturno al campo nemico, ma gli spagnoli, svegli per preparare la festa di S.Andrea per il giorno seguente, li sconfiggono. Caupolicán, ferito e propenso ormai ad abbandonare la lotta, incontra nella foresta lo spettro del precedente comandante Lautaro, che lo convince a resistere. Intanto Fresia, saputo che il marito è vinto e ferito, si sdegna perché non si è battuto fino alla morte e manda il figlio giovinetto Ongol per dirgli il suo disprezzo o, se morto, per vendicarlo. Gli spagnoli fanno prigioniero il cacicco Galbarino e lo rimandano libero dopo avergli mozzato le mani come monito, ma egli, che ha subito stoicamente il supplizio, giunto tra i suoi li esorta a continuare la lotta alla quale parteciperà benché mutilato. In un convegno segreto gli Indios preparano l’ultimo attacco: saputolo, Mendoza piomba su di loro facendo prigioniero Caupolicán. Mentre lo interroga, Fresia, apparsa su un alta rupe con il figlio minore in braccio, si offre di giustiziare lei stessa il marito e minaccia di precipitare giù il bambino perché non gli ricordi il padre vile. Condannato a morte, Caupolicán si converte e riceve il battesimo avendo per padrino Mendoza. La commedia termina con i festeggiamenti nel campo spagnolo per l’ascesa al trono di Filippo II. IL NUOVO MONDO SCOPERTO DA CRISTOFORO COLOMBO di Lope de Vega La commedia Il nuovo mondo scoperto da Cristoforo Colombo fu scritta tra il 1598 e il 1603 da Lope de Vega, il massimo esponente del teatro spagnolo del Siglo de oro. La piéce inizia con un dialogo tra il grande genovese e suo fratello Bartolomeo sugli inutili tentativi fatti presso varie corti europee per far

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finanziare l’impresa sognata. Passa poi a descrivere gli ultimi giorni di Granada, capitale dell’ultimo regno musulmano in Spagna, la resa del suo giovane sovrano Mohamed Boabdil ai re cattolici Ferdinando ed Isabella nel 1492 ed il suo addio alla città. Colombo, scoraggiato per i vani tentativi di far sponsorizzare il suo progetto dai sovrani spagnoli, viene trascinato dalla sua Immaginazione personificata in un processo, di cui sono protagonisti personaggi allegorici: la Provvidenza, in veste di giudice, accoglie le ragioni della Fede che rivendica le nuove terre per convertire gli indigeni, respingendo la pretesa di possesso dell’Idolatria e le argomentazioni del Demonio, il quale attribuisce il desiderio di conquista del nuovo mondo all’avidità di ricchezze, piuttosto che alla religiosità. Spronato da questa visione, Colombo riesce finalmente ad ottenere dai Re Cattolici, ormai liberi dagli oneri della guerra contro i mori, il consenso alla sua impresa e salpa da Palos: dopo molti giorni di inutile navigazione l’equipaggio, guidato da Pinzón, Arana e Terrazas, si ribella e minaccia di gettare in mare il capitano, che viene a stento salvato dal fratello Bartolomeo e dal benedettino Fra Buyl. Poco dopo le caravelle raggiungono la terra e Colombo ne prende possesso in nome della Spagna, piantando una croce sulla spiaggia. Frattanto il capo indigeno Dulcanquellin, mentre sta festeggiando le sue nozze con la bella Tacuana, che ha rapito, viene raggiunto e sfidato dal promesso sposo Tapirazú. Il duello è però interrotto dai colpi di arma da fuoco degli spagnoli che giungono dal mare.. Gli indigeni, arrivando alla spiaggia, si interrogano sul significato della croce e vogliono strapparla dal suolo, ma ne sono trattenuti da un religioso terrore. Ha quindi luogo l’incontro tra gli indigeni e gli spagnoli, che mostrano intenzioni amichevoli e iniziano l’opera di conversione. Colombo riparte per la Spagna, lasciando al suo posto il fratello Bartolomeo. La bella Tacuana, approfittando di questi amichevoli rapporti e del suo fascino, chiede a Terrazas di riportala al promesso sposo Tapirazù, ma in realtà desidera unirsi con lo spagnolo: i due fuggono insieme. Il giorno successivo deve celebrarsi la prima Messa sull’isola: il capo Dulcanquellín, al quale lo stesso Terrazas aveva spiegato i fondamenti della religione cristiana, benché riluttante accetta di presenziarvi; però il Demonio, travestito da indigeno, lo informa che il suo “catechista” Terrazas, tradendolo, è fuggito con sua moglie. Furente il capo indio denuncia ai suoi uomini la falsità degli spagnoli, li fa massacrare e si reca sulla spiaggia, ordinando di strappare via la croce: ma questa ricresce miracolosamente sotto i loro occhi, convincendoli di avere sbagliato, sicchè il Demonio ammette la sua sconfitta e la Messa viene celebrata. La commedia si conclude con il trionfo di Colombo alla Corte di Spagna.

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L’AURORA A COPACABANA di Calder?n de la Barca L’Aurora a Copacabana, scritta dal grande commediografo spagnolo Calderón de la Barca e pubblicata nel 1672, tratta della conquista e cristianizzazione del Perù. L’imperatore Huascár con il suo popolo sta celebrando la festa del Sole, quando arriva correndo la sacerdotessa del Sole Guacolda, spaventata per aver visto giungere un vascello spagnolo che ha scambiato per un mostro marino. Ella invita alla fuga l’Inca, il quale si rifiuta e si appresta a fronteggiare l’ignota bestia insieme al principe Yupanguì che, segretamente ricambiato, ama la bella sacerdotessa. Attraccata la nave Pizarro, prima di ripartire per tornare con una spedizione più forte, incarica il duca di Candia di scendere a terra e piantarvi una croce. Questi, appena sbarcato, è assalito dalle belve che gli indios gli hanno scatenato contro, ma esse, per la miracolosa virtù della Croce, si accucciano docili ai suoi piedi. Anche Yupanguí, mentre tenta di colpirlo con una freccia, si sente il braccio paralizzato, sicchè Candia può compiere la missione e ripartire con la nave, portando con sé prigioniero Tucapel, servo del principe. Tornano in forze gli spagnoli ed occupano Cuzco. Gli indios assediano la città e la incendiano, ma mentre gli assediati, sul punto di soccombere, invocano Maria, ella appare in cielo con Gesù Bambino in braccio e, con una nevicata miracolosa, spegne le fiamme. Nessun indio vede l’apparizione, tranne Yupanguí. L’Idolatria, per ostacolare l’ingresso della religione cristiana in Perù, suggerisce a Huascár, che ha riunito a consiglio Yupanguí e i sacerdoti, di placare l’ira del dio Sole con il sacrificio di una delle sue sacerdotesse: viene estratta a sorte Guacolda, con gran dolore dell’Inca e di Yupanguí, entrambi innamorati di lei. Yupanguí organizza la fuga di Guacolda e la nasconde nella capanna del suo servitore Tucapel, tornato con gli spagnoli e poi rapito dall’Idolatria, che lo ha reso suo passivo esecutore. Egli, rientrando improvvisamente a casa, riconosce la sacerdotessa e chiama tutti i vicini a vederla. Sopraggiunge l’Imperatore che ordina di trafiggere lei e Yupanguí con le frecce, ma i due, avvinghiandosi l’uno alla Croce e l’altra a un albero sacro a Maria, scompaiono all’interno dei legni. Nel Perù ormai ispanizzato e cristianizzato Yupanguí, che ha sposato Guacolda, vuole forgiare per la cappella della sua Confraternita una statua di Maria simile alla sua visione, ma non riesce e la sua opera è oggetto di aspre critiche e contrasti. Istigato dall’Idolatria, Tucapel si introduce nel laboratorio e fa a pezzi la statua: Yupanguí la riassembla e la porta a dorare, ma anche così la statua è brutta. Per ordine del Governatore viene ugualmente portata nella cappella, dove gli angeli intervengono a correggerne tutti i difetti, sicchè al momento della processione appare bellissima alla gente stupita. L’Idolatria si dichiara sconfitta, Tucapel è liberato dalla possessione e molti si

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convertono. Con l’avvento del Cristianesimo, una nuova aurora è sorta su Copacabana, che prima era il centro principale del culto pagano. LO SCHIAVO DEL MIGLIOR PADRONE di Antonio Mira de Amescua La commedia di Antonio Mira de Amescua Lo schiavo del miglior padrone, pubblicata nel 1631, narra in forma romanzata la vita di San Benedetto il Moro. L’autore immagina che il santo, in una prima parte della sua vita, sia stato un temibile corsaro turco di nome Rosambuco, catturato in una battaglia navale da don Pedro Portocarrero grazie all’intervento di un frate che, impugnando contro di lui una croce, ne annullò ogni resistenza. Condotto schiavo dal suo vincitore in Sicilia, viene usato dal padrone come “bravo”, divenendo il terrore di Palermo. Don Pedro è costretto a rifugiarsi insieme a lui nel convento di Gesù del Monte perché minacciato da un conte, al quale ha ucciso il fratello in duello e che lo ricerca con i suoi sgherri per vendicarsi: peraltro è innamorato della sorella del suo persecutore, mentre questi ama la sorella di don Pedro. Ciò, oltre a costituire un ulteriore motivo di inimicizia, è causa di varie peripezie, tra cui un tentativo di rapimento, che mettono a repentaglio l’onore delle due dame, difeso da Rosambuco anche contro il suo stesso padrone. Rosambuco, fermo nella fede musulmana, inizia un cammino di conversione quando una notte gli parla la statua di Benedetto Sforza, fondatore del convento; ma il moro, pur atterrito, non recede dalle sue imprese ribalde. In seguito gli appare Gesù Bambino con le cinque piaghe e la croce sulle spalle, lasciandolo attonito e adorante: ciò non gli impedisce tuttavia di trovarsi volontariamente coinvolto con don Pedro in un altro episodio della faida familiare nel quale, rimasto gravemente ferito, invoca l’aiuto di Gesù e di San Francesco, che appaiono armati mettendo in fuga gli aggressori. Trascinatosi morente fino al convento chiede il battesimo, e l’acqua lustrale lo risana istantaneamente nell’anima e nel corpo. Rosambuco vorrebbe farsi frate, ma lo stato di schiavo glie lo impedisce: allora San Francesco e Gesù, in veste di monaci, ottengono la sua libertà pagando un riscatto a don Pedro, che lo devolve al convento avendo alla fine riconosciuto i suoi celesti interlocutori. Presa la veste monacale col nome di Benedetto, Rosambuco, ora schiavo di Dio che è il miglior padrone, rimane a vivere santamente nel convento, che un giorno viene assalito dai pirati turchi. Gesù Bambino gli appare e, con la promessa di accoglierlo presto in Paradiso, fa appello ai suoi trascorsi talenti guerrieri ponendolo a capo dei frati che, in armi, respingono gli aggressori, aiutati dallo stesso Gesù e da San Francesco che combattono al loro fianco. Benedetto, ferito a morte nella battaglia, si fa trasportare ai piedi dell’altare maggiore dove, esaudendo il suo ultimo desiderio, Gesù Bambino gli mostra San Francesco mentre riceve le stimmate. Il morente spira santamente dopo avere ottenuto la riappacificazione tra don Pedro e il conte, lì

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misteriosamente giunti per diverse vie e che finalmente potranno sposare le loro amate. IL PIÚ BEL FIORE DI SICILIA: SANTA ROSALIA di Agustin de Salazar La commedia Il più bel fiore di Sicilia: Santa Rosalia fu scritta a Palermo tra il 1667 e il 1670 da Agustín de Salazar, poeta di corte del viceré Duca di Albuquerque. A quanto risulta, mai rappresentata, fu edita postuma a Madrid nel 1676. La commedia riprende, in chiave colta, la tradizionale versione popolare della storia della Santa. Rosalia, nipote del re normanno Ruggero e destinata al trono in quanto fidanzata a Baldovino, erede del re, vive immersa nella mondanità della corte, ma improvvisamente avverte la vanità della sua vita, grazie all’apparizione di Gesù Bambino nello specchio, davanti al quale si stava adornando. Benchè il Demonio cerchi di dissuaderla, la giovane, incoraggiata dall’Angelo custode, decide di rinunziare a tutto e dedicarsi ad una vita eremitica di preghiera e penitenza. Frattanto il generale Eduardo, anch’egli innamorato di Rosalia, con l’aiuto di una ancella infedele mette in atto un piano per rapirla, ma gli Angeli la fanno fuggire in tempo e l’accompagnano alla grotta di Quisquina. Il Demonio è furente ma, rinviando a tempi più propizi un nuovo attacco a Rosalia, decide di seminare la discordia a Palazzo, dove infatti tutti si accusano reciprocamente della fuga della giovane e si affrontano violentemente. Il re Ruggero giunge a darne la colpa al vecchio precettore di Rosalia, il nobile Cirillo, il quale, sdegnato, decide di seguire le orme dell’ amata discepola dedicandosi alla vita ascetica. Frattanto Rosalia, con un semplice bastoncino, incide miracolosamente sulle pareti di dura roccia della grotta le espressioni del suo amore per Gesù, che ancora oggi si possono leggere in quel romitorio. Il Demonio escogita un nuovo inganno per tentare Rosalia: assume l’aspetto del suo fidanzato Baldovino e, accompagnato da spiriti infernali che hanno preso le sembianze dei cortigiani, raggiunge la Santa e cerca di farla recedere dalla sua decisione affermando che rinuncia a lei, che però deve sollevare i genitori dal dolore che ha loro arrecato, riprendendo il suo posto a corte ed offrendo ai sudditi il quotidiano esempio delle sue virtù. Ma Rosalia resiste a ogni lusinga con l’aiuto degli Angeli, che la trasportano in volo sul Monte Pellegrino. L’Arcangelo Raffaele ed il Demonio discutono sulla santità di Rosalia in una sorta di processo di canonizzazione, ma le argomentazioni del Maligno sono smontate facilmente dal celeste protettore. Rosalia giunge al termine della sua vita e spira assistita dalle quattro Sante di Palermo (Agata, Cristina, Ninfa e Oliva). Esse, mentre i cortigiani che hanno ripreso le ricerche stanno sopraggiungendo, la accompagnano in cielo insieme agli Angeli.

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I MITI DEL NUOVO MONDO NEL TEATRO SPAGNOLO E INDIGENO di Gianfranco Romagnoli Contributo alla tavola rotonda Il mito rappresentato, 9 dicembre 2009, Liceo Garibaldi, Palermo 1. Il mio contributo a questa tavola rotonda verterà sulla rappresentazione scenica, nel teatro spagnolo e in quello indigeno, dei miti legati al Nuovo Mondo. In questo primo giro di interventi, mi intratterrò sul teatro spagnolo. La Spagna, come è noto, conobbe un periodo di grande ed irripetibile splendore letterario in quello che, giustamente, viene ricordato come il Siglo de oro, un’epoca che va dagli ultimi decenni del Cinquecento a quelli corrispondenti del Seicento; uno splendore che si espresse sia nel romanzo, sia, soprattutto, nel genere teatrale. I grandi caposcuola Lope de Vega e Calderón de la Barca diedero vita, infatti. alla Comedia Nueva la quale, pur nella forma barocca, innestava sul precedente accademismo (mi limito a citare Góngora) elementi più vivi e popolari, derivati anche dalle compagnie di giro italiane della Commedia dell’arte. L’avvenimento principe che diede una svolta alla storia mondiale, cioè la scoperta con successiva conquista dell’America, non mancò di divenire materia per i grandi commediografi spagnoli. Essi, nel loro ruolo di servizio alla Corona ed avvalendosi di un mezzo di largo consumo come il teatro, che attraverso le rappresentazioni nei cortili attrezzati a teatro o corrales, raggiungeva un vasto pubblico, ne trassero spunto per consolidare nel popolo un largo consenso verso la monarchia, la quale, con quell’impresa, aveva dato un ruolo di impero universale a un Paese, fino a pochi decenni innanzi ancora diviso e, in parte, in mano araba. Peraltro, il lussureggiante scenario mitico-esotico americano risultava particolarmente funzionale alla messa in scena barocca. Nacque così un gruppo di commedie ambientato nel Nuovo Mondo, che vado ad elencare: - El Nuevo Mundo descubierto por Cristóbal Colón di Lope de Vega (1598-1603); - Arauco domado, pure di Lope de Vega (1625), ambientata in Cile; - Amazonas en las Indias di Tirso de Molina (1626-1631), che si svolge in Perù; - La aurora en Copacabana di Calderón de la Barca (1672), anch’essa ambientata in Perù. A queste commedie, che ho tradotto e pubblicato, si aggiunge un’altra che sto traducendo: - La conquista de Mexico di Fernando de Zárate, nome d’arte assunto dal converso Antonio Enríquez Gómez per evitare problemi con l’Inquisizione (1650 - 1668). Cito per ultima e solo per completezza El Brasil restituido di Lope de Vega (1625), perché non è direttamente connessa al tema di oggi, trattando di una

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controversia armata tra Spagna e Portogallo per il possesso del porto di Bahia de los Santos. In quale senso queste commedie si riportano a tematiche mitiche? Mi sembrano individuabili due diversi profili. Il primo profilo, che si riscontra in queste opere teatrali, è la mitizzazione di quella grande saga nazionale che fu la Conquista : essa e i suoi protagonisti vengono infatti riproposti in una dimensione epico-mitica, a configurare la quale, accanto al racconto dei fatti eroici, concorre in misura determinante il mito cristiano, ossia la continua assistenza divina, manifestata agli spagnoli attraverso numerosi miracoli. Questa assistenza, quasi una sorta di premio alla buona causa, che i Conquistadores si erano assunti, di portare la vera fede a un vasto mondo pagano, cioè, nella loro visione, a un emisfero sotto il regno del demonio, questa assistenza, dicevo, viene addotta come causa prima del successo di un’impresa, da ritenersi altrimenti impossibile a giudicare soltanto in termini umani. Sembrerebbe infatti inspiegabile, senza riconoscere che vi fu aiuto celeste, il fatto che poche centinaia di spagnoli riuscirono in pochi anni ad abbattere potenti imperi e ad impadronirsi di vastissimi territori. Il Cristianesimo, fattore unificante del vasto impero spagnolo, svolse, nella fase della conquista, la sua funzione attraverso il ruolo di deus ex machina attribuito alla Croce di Cristo ed a Maria in tante difficili situazioni. Anche se, nella realtà, la vittoria fu dovuta alla superiorità degli armamenti e all’abilità dei condottieri spagnoli nello sfruttare le rivalità tra le varie popolazioni, oltrechè alla spinta a conquistare gloria e ricchezze, ebbe indubbiamente una parte importante anche la suggestione che i simboli della cristianità esercitarono sugli indigeni. Porterò ora qualche esempio di quanto ho detto. Cristoforo Colombo, appena sbarcato, fa piantare sulla spiaggia una croce che gli indigeni non osano, pur desiderandolo, strappare dal suolo; e anche quando, in seguito, si rompe violentemente l’armonia tra gli spagnoli e gli indios e questi la strappano, essa ricresce sotto i loro occhi, convincendoli a convertirsi. Nell’Arauco domado il fiero condottiero araucano, sconfitto e condannato a morte, è convinto dal condottiero spagnolo, che già ha dato prove di grande religiosità, a convertirsi, per salvare, se non il corpo «che è terra», almeno l’anima «che è cielo», «che è di più». Ciò è dovuto al riconoscimento da parte degli indios, citato in varie commedie, che la divinità solare che adoravano era creato, e non creatore. Nell’Aurora a Copacabana vediamo ancora il potere magico della Croce, ma prevale il ruolo determinante di Maria che, apparsa in cielo, salva gli spagnoli assediati in Cuzco dall’incendio appiccato alla città dagli indios assedianti, spargendo con le sue mani abbondante neve che spegne le fiamme. Ancora Maria salva la sacerdotessa Guacolda ed il suo innamorato Yupanguí dalle ire dell’Inca, facendoli sparire rispettivamente nella Croce e in un albero a lei sacro, che essi avevano abbracciato. Infine gli angeli, con i

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loro pennelli, correggono gli errori di una statua della Vergine che il convertito Yupanguí aveva maldestramente forgiato, riportando la pace tra fazioni avverse. Il secondo profilo mitico è quello della messa in scena dei miti che gli spagnoli trovarono nelle popolazioni indigene o, perlomeno, di quanto di questi miti essi compresero: le commedie in esame contengono infatti varie notizie sugli déi locali e sui centri del culto idolatrico, primo tra i quali Copacabana. Ho già sottolineato che nelle religioni locali, animiste, politeiste e spesso nutrite di sacrifici umani, i conquistatori cristiani videro l’opera del demonio. E’ con questo conturbante personaggio, che rivendica il possesso dell’America, che si misura Colombo, in un processo tra personaggi simbolici che si conclude a suo favore, ed è ancora il demonio a dichiarare, alla fine della commedia, la sua sconfitta. Nell’Arauco domado, a fomentare la ribellione contro gli spagnoli appare «il demonio in forma di un idolo». Un ruolo demoniaco è rivestito nell’Aurora a Copacabana dall’Idolatria, personaggio simbolico che sollecita sacrifici umani e pone in essere ogni insidia per impedire il trionfo della vera religione, ma che deve del pari, alla fine, dichiararsi sconfitta. Una singolare commistione tra i due aspetti che abbiamo illustrato la troviamo in Amazonas en las Indias, dove, al divenire dei fatti storici ed alla mitizzazione dei protagonisti della conquista, si intreccia strettamente la autonoma dimensione sacrale del mito americano, sia pure “europeizzato”: qui, infatti, la narrazione dell’infelice tentativo di Gonzalo Pizarro di governare il Perù al posto del viceré nominato da Carlo V, scorre parallelamente al dipanarsi della trama del suo incontro con le amazzoni, trascinate in America nell’antichità da una tempesta e fatte uniche rappresentanti di un mondo magico-mitico, anch’esso opera del demonio, che con la sua suggestiva bellezza tenta e respinge i cristiani conquistatori spagnoli.

* * *

2. La seconda parte del mio contributo verte, specularmene alla prima, sul teatro indigeno quale rivelatore dei miti locali. L’espressione “teatro indigeno” può creare, a tutta prima, perplessità: è noto infatti che tra i popoli precolombiani alcuni (come gli Incas) non possedevano la scrittura, mentre altri (come gli Aztechi) la possedevano nella forma embrionale dei pittogrammi; i Maya, che avevano un sistema più evoluto di simboli alfabetico- sillabici, produssero molti libri ma di essi fece un gran rogo l’inquisitore Diego de Landa sicché ci restano solo quattro codici superstiti, di carattere storico-religioso, oltre a frammenti di poesia riportati dallo stesso inquisitore, che è, paradossalmente, una importante fonte relativa alla civiltà che egli stesso distrusse.

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Non abbiamo, quindi, testi teatrali originali precolombiani: tuttavia, attraverso le evidenze archeologiche e da quanto riferito da religiosi spagnoli, sappiamo che, almeno presso i Maya, il teatro era molto praticato. Lo stesso Diego de Landa riferisce che «i loro attori recitavano con grande maestria»; i termini maya trovati nei vecchi dizionari compilati dai missionari mostrano, come riporta Von Hagen, che nei loro repertori teatrali vi erano personaggi fissi satirici, come il parassita, il venditore ambulante di vasi, il coltivatore di cacao. I drammi, sempre strettamente intrecciati alla musica e alla danza, venivano rappresentati su palcoscenici eretti sia in interni che all’esterno. Secondo la testimonianza di Landa, a Chichén Itzà ce n’erano due in pietra, lastricati e con quattro scalinate di accesso: uno è la cosiddetta “Piattaforma del cono”, alta venti piedi; l’altro è il Tzompatli, decorato da tutti i lati con teschi umani. Entrambi, restaurati, sono ancora visibili. L’unica finestra che ci consente di affacciarci oggi sul teatro Maya è il dramma Rabinal Achì dei Maya Quiché, popolazione del periodo postclassico maya-tolteco, insediatasi negli altipiani del Guatemala. Tramandato in forma orale e recitato saltuariamente e nascostamente dagli indios per timore degli spagnoli, che avevano vietato le rappresentazioni «di una volta», fu raccolto nel 1855-56 dall’Abate Brasseur di Bourbourg, parroco di Rabinal (l’antica capitale dei quiché Chichicastenango), che avendovi assistito, fece trascrivere in caratteri latini il testo quiché. Alle traduzioni ottocentesche in spagnolo e in francese si è aggiunta in anni recenti la mia versione in italiano, pubblicata a Palermo. Il dramma, meglio definito dal primo traduttore “balletto-dramma” per la presenza in esso di musiche e danze, è sicuramente preispanico risalendo, secondo Brasseur, al 12° secolo (ma secondo la critica più recente all’inizio del 15°); la sua forma epico-arcaica ne attesta l’autenticità. Originariamente, come si deduce da molti indizi, era di carattere sacro: però questo carattere fu velato per influssi spagnoli, come dimostra il fatto che nella rappresentazione cui assistette Brasseur, i riferimenti diretti alla religione pagana erano già stati espunti dagli indios, per timore dei nuovi dominatori cristiani. Per fare un esempio, il sacrificio finale è compiuto da guerrieri anziché da sacerdoti: resta però il sacrificio umano del nemico, vinto in battaglia e catturato proprio per nutrire col suo sangue gli déi, come era usanza dei Maya, ed è richiamata, relativamente a vari eventi, la durata dell’anno sacro, pari a 260 giorni. Anche l’esaudimento degli ultimi desideri del condannato si riporta alla credenza del legame sacro, che lo univa a colui che lo aveva destinato al sacrificio, nonchè alla conseguente convinzione che la sua persona fosse sacra e che dovesse essere onorata, perché non avesse a testimoniare contro i suoi carnefici agli déi, che avrebbe presto incontrato. In ogni caso, le vicende dei personaggi, eroi protagonisti di leggendarie imprese, esprimono una dimensione epica, che insieme a quella religiosa pagana, pur velata, ci trasporta efficacemente nella sfera del mito.

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Sotto un profilo formale, ciò che più colpisce il lettore è la sorprendente similitudine della struttura del dramma a quella della tragedia greca, che si rivela nell’uso di maschere di legno, consone al carattere dei personaggi; nella presenza di tre soli attori (come nella tragedia greca il protagonista e i più tardi deuteragonista e tritagonista), di cui soltanto due contemporaneamente recitanti (pur se è presente qualche raro altro personaggio minore, che recita una sola battuta o funge soltanto da figurante); e ancora nella presenza del coro, del quale però il testo non specifica la parte. Altre similitudini sono da ritenere coincidenze, come la scena fondamentale del duello, al termine di una lunga guerra tra due popoli, combattuto tra i rispettivi eroi, che peraltro ci ricorda quello tra Ettore e Achille nel poema omerico. Per questi motivi, è mia opinione che sarebbe appropriata una messa in scena attuale di questo dramma maya in un teatro greco. Dall’area Inca ci è pervenuto un altro dramma: si tratta di Ollanta (o Apu Ollantay), scritto in lingua quechua, anch’esso da me tradotto e pubblicato. Sull’autenticità di questa piéce ci sono molti dubbi, generati specialmente dall’uso di forme tipiche del teatro spagnolo, che vanno dall’uso del verso ottonario alla divisione in atti e scene. Raccolto in forma scritta alla fine del Settecento da una pretesa tradizione orale, viene invece, dai più, ritenuto opera di Padre Antonio Valdez, autore di altri lavori teatrali in lingua Quechua, che la compose sulla scia di un risorgente nazionalismo. E’ stato, tuttavia, giustamente rilevato che alcune parti di esso sembrano più antiche, per cui è da ritenere che Valdez, se ne è lui l’autore, abbia utilizzato materiali risalenti all’epoca precolombiana. Una seria analisi stilistica potrebbe chiarire quanto vi è nel dramma di originale e quanto di costruito dopo. In ogni caso, conformemente alla tesi dell’origine “neonazionalista”, il testo teatrale in questione non fa mistero dei riti pagani degli Incas: già nella prima scena si parla del Tempio del Sole ed appare la figura di un sacerdote che si appresta a compiere il sacrificio di alcuni lama; un ruolo importante gioca poi, nella trama, il monastero delle sacerdotesse del sole, nel quale la protagonista, figlia dell’imperatore, viene rinchiusa dal padre per contrastare il suo amore per il generale Ollanta, che non può sposare perché di modeste origini. Questi elementi non bastano certamente a classificare l’Ollanta come dramma sacro perché la trama è un intreccio di vicende guerresche ed amorose, nelle quali la religione pagana ha un ruolo marginale; né si può pensare, dati i richiami assolutamente espliciti a quei culti, che tale marginalità sia dovuta al fatto che il testo abbia subito un processo di autocensura da parte degli indios, come abbiamo visto nel Rabinal Achí, per evitare le ire cristiane. Ma indubbiamente il racconto dei fatti storici e guerreschi, che riflettono le vicende dell’ultimo periodo dell’impero inca, fa assurgere anche quest’opera teatrale alla dimensione epico-mitica, nella quale il lettore-spettatore viene efficacemente trascinato.

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Spero di avere chiarito, con il mio sommario intervento, i motivi per i quali è da rimpiangere il fatto che del teatro indigeno siano rimaste, oltre alle due commedie cui ci siamo sommariamente riferiti, soltanto scarsi frammenti, a testimonianza di civiltà vive ed originali, traumaticamente interrotte dai conquistatori, ma sostituite peraltro degnamente dalla nuova, grande civiltà ispano-americana.

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FERRANTE GONZAGA E L’AVVIO DEL TEATRO FESTIVO URBANO A PALERMO di Giovanni Isgrò Contributo alla tavola rotonda Il mito rappresentato, 9 dicembre 2009, Liceo Garibaldi, Palermo

L’idea di Palermo città/teatro si manifesta per la prima volta con il viceregno di Ferrante Gonzaga. Giunto nella capitale dell’isola al seguito di Carlo V nel 1535, gli fu affidato dall’imperatore l’incarico di avviare, fra le altre cose, il processo di trasformazione dell’immagine artistico-culturale dell’urbe. Il viceré di Sicilia assolse il suo compito grazie anche all’introduzione di nuove forme di spettacolo importate dal circuito continentale che, oltre ad essere compatibili con l’impianto urbanistico-architettonico esistente, esaltarono gli orientamenti della politica imperiale volti a creare nel Mediterraneo nuovi importanti centri di rappresentanza del potere ispanico. I primi interventi del viceré mantovano in qualità di committente, e in alcuni casi di ideatore se non di “regista”, risalgono all’inizio del 1538. Era da pochi mesi giunto a Palermo da Messina per organizzare l’opera di fortificazione della città, seguito a distanza di poco tempo dalla moglie Isabella di Capua, e già in onore della viceregina veniva allestito un grande spettacolo, assolutamente nuovo per la tradizione palermitana. Anche se comunemente questa rappresentazione è stata tramandata col nome di “caccia artificiale”, in realtà si trattò della successione di due forme di spettacolo di genere diverso che pure utilizzarono lo stesso spazio scenico (la piazza) e la stessa messa in scena (un bosco artificiale). La prima fu in effetti una “caccia” del tipo di quelle molto diffuse nelle corti continentali, e in special modo a Ferrara, Roma e Venezia. La seconda fu invece una successione di azioni cavalleresche verisimilmente ispirate all’Orlando Furioso, fatte di inseguimenti e di duelli da parte di cavalieri attratti da una ninfa, con l’intervento nella parte finale di dodici uomini “selvaggi” armati di bastoni, a loro volta contrastati da altrettante “amazzoni” armate di rotelle e caroselli. Alla fine del gioco la viceregina e le dame spettatrici furono oggetto, da parte degli “attori”, di un fitto lancio di 3.000 uova colme d’acqua profumata. Lo spettacolo ebbe luogo nel grande piano della Marina, una scelta motivata non soltanto dall’ampiezza della piazza, ma anche dalla vicinanza alla dimora della coppia vicereale. In un certo senso si può dire, sin da questo primo episodio, che l’individuazione degli spazi destinati alla celebrazione diventava una prosecuzione ideale, o comunque una significativa integrazione, di quelli utilizzati per i festeggiamenti in onore di Carlo V. Nel 1535 tutto il versante della città vicino allo spazio marino era stato tagliato fuori dalla interruzione della strada del Cassaro, destinata a diventare, dopo gli interventi esemplari di Ferrante, asse di parata che collegava il palazzo reale al mare. Adesso Ferrante Gonzaga volgeva

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emblematicamente l’attenzione proprio in prossimità dello specchio marino antistante l’area urbana, sottolineando in questo modo l’importanza dell’opera di fortificazione esterna da lui stesso voluta. Non a caso l’ingresso ufficiale della viceregina, che pure era arrivata da Catania via terra, era avvenuto presso il litorale dove era stato alzato “un bellissimo ponte, dove l’andarono a incontrare 12 dame bene in ordine vestite, chi di broccato, chi di tela d’oro e d’argento, con sue scuffie d’oro ben fatte, e suoi berretti in testa con pennacchi. Andavano tutte a cavallo sopra a chinee ben guarite. E poi nel castello vi erano di 20 altre dame vestite come sopra; e si spararono diverse artiglierie per mare e per terra. Poi la città le mandò un presente di 24 piatti di confezione, con sue banderuole con l’armi della città”.1 Rispetto alla cerimonia dell’ingresso della viceregina e dell’accoglienza presso il Castello a mare, sostanzialmente in linea col rituale tradizionale, lo spettacolo composito del piano della Marina fece registrare, come già si è cominciato a vedere, la presenza di una cultura sovranazionale che il viceré e sua moglie portavano nell’isola secondo il gusto delle corti continentali e in particolare di Mantova e di Ferrara, dalle quali direttamente o indirettamente provenivano. La stessa sistemazione del palco vicereale dove presero posto anche le dame più titolate e poi degli altri loggiati in legno, opportunamente bene in vista al popolo minuto disposto dietro gli steccati, ripropose l’immagine edificante della corte e del suo signore, mentre per quanto riguarda la messa in scena e lo sviluppo della rappresentazione, la realizzazione del bosco artificiale dovette richiedere la presenza di una esperienza non certamente autoctona, così come anche di una “regia” capace di dirigere le azioni che, soprattutto per quanto riguarda le scene cavalleresche, si svolgevano alla maniera teatrale, secondo una trama ben precisa. Per quanto un po’ giostra (le ninfe in realtà erano dei cavalieri vestiti con costumi femminili), un po’ esibizione di virtù venatorie (particolarmente applaudita fu l’abilità di don Pietro Bologna), ma soprattutto pantomima, lo spettacolo fu dunque allestito per essere goduto come una vera e propria rappresentazione in una atmosfera di non usuale mondanità. Lo stesso lancio delle uova colme di acqua profumata alla fine della pantomima, se da un lato contribuiva a connotare il clima del carnevale nel quale venne dato lo spettacolo, peraltro nel pieno rispetto del tempo tradizionale della festa, dall’altro suggeriva ad un pubblico ancora cosi provinciale (titolati compresi) il gusto patrizio di una sequenza raffinata anche per la voluta spregiudicatezza con cui l’azione veniva rivolta verso la disinvolta viceregina. È innegabile che il successo politico che derivava dall’operazione della committenza vicereale anche nel campo della spettacolarità doveva essere estremamente incoraggiante se Ferrante Gonzaga, prima di lasciare Palermo (agosto 1538) per unirsi all’armata di Andrea Doria diretta verso Corfù, volle che si

1 PARUTA-PALMERINO, Diari, s. d. 21 ottobre 1537, in «Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia I», Palermo 1879.

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rappresentasse un altro spettacolo di genere assai diverso, destinato a rimanere memorabile e ad essere ripreso nella seconda parte del secolo con grande successo, ossia l’Atto della Pinta . La forse non casuale presenza del benedettino Teofilo Folengo, conterraneo del viceré, venuto a soggiornare proprio in quell’anno presso la vicina abbazia di S. Martino delle Scale, fu davvero determinante in questa direzione. Al monaco cassinese, più noto alla cultura rinascimentale per le sue “Maccheronee” e col nome di Merlin Coccaio, il viceré diede l’incarico non solo di elaborare il testo dell’opera, ma anche di curarne l’allestimento scenico. Anche se non abbiamo documenti che possano aiutarci a ricostruire esaurientemente lo spettacolo del 1538 (testimonianze dirette si hanno invece per le riprese del 1562 e del 1581), non si può ignorare l’importanza di questa rappresentazione. E non tanto per il contenuto dell’opera che, trattando della creazione del mondo, si collegava alla tradizione della drammatica sacra medievale, quanto invece per la messa in scena, per la cui realizzazione l’“ingegniero” Teofilo Folengo mise verosimilmente a frutto l’esperienza nel campo della scenotecnica accumulata in ambiente continentale, al punto che le soluzioni portanti di quella “prima” dovettero, almeno in parte, essere riprese nelle edizioni successive. Luogo della rappresentazione, in mancanza di altri spazi al chiuso adeguati ad uno spettacolo che per certi aspetti assumeva la connotazione di una vera e propria opera teatrale, fu, come è noto, la chiesa di S. Maria della Pinta.2 La scelta di questo tempio era suggerito alla committenza più che dalla vicinanza al palazzo reale, che rimaneva ancora fuori dall’attenzione politica del viceré, soprattutto dalla particolare sua configurazione che apparve molto adatta a quel tipo di rappresentazione. Per quanto non molto grande (la pianta era quadrata con lati di circa 30 passi), la chiesa, sorta per volontà di Belisario nel 451 in ringraziamento per la vittoria contro i Goti, non era recintata da muri ma presentava all’esterno colonne di pietra alla maniera dei templi pagani, attigue alle quali vi era un ampio giardino circondato da un’alta muraglia. In questo giardino, e soprattutto negli spazi vuoti delle navate laterali, dovevano prendere posto verisimilmente gli attori quando non erano impegnati in “scena”, mentre il più dell’azione si sviluppava all’interno della navata maggiore sfruttando in altezza anche lo spazio aereo, fino al tetto, per il movimento della corte celeste. Dopo la ribellione di Lucifero e dei diavoli suoi seguaci e il combattimento con gli angeli guidati dall’arcangelo Michele, questi infatti abbandonavano la sommità della macchina scenica alzata all’ingresso della chiesa per recarsi in volo, grazie ad un sistema di carrucole e funi sospese sulla testa degli spettatori, verso il catafalco raffigurante nella quota più alta il Paradiso. Tutto ciò, intanto che i diavoli scomparivano dalla vista degli spettatori sprofondando nel baratro attraverso il sistema di cataratte che consentiva la discesa nella quota più bassa della macchina

2 Per una descrizione completa e minuziosa di questa chiesa, cfr. A. INVEGES, Degli annali di Palermo II, Palermo 1649-51, 424-425.

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opportunamente coperta da teli. Iniziavano, a questo punto, le scene della “creazione del mondo”, fino a quelle del “peccato originale” e alla discesa di Adamo ed Eva nel paradiso terrestre situato nella quota più bassa della grande macchina collocata in corrispondenza del catino absidale. Sulla quota terra, un praticabile alzato per tutta la lunghezza della navata a mo’ di passerella, consentiva agli spettatori seduti ai due lati di assistere ai cortei dei padri santi, delle sibille, dei re e delle regine, dei profeti. La rappresentazione terminava con la scena dell’Annunciazione. Per quanto sotto la competente e interessata attenzione della committenza vicereale, l’allestimento dell’opera, compresa la recitazione e l’azione dei figuranti fu quasi interamente affidata ai monaci benedettini diretti dal Folengo, che diventarono depositari della tradizione di questo spettacolo. Per quanto l’opera nascesse in un contesto religioso, le sue finalità furono, tuttavia, mondane e al tempo stesso volte a garantire il consenso del popolo ammesso ad assistere alle diverse repliche. Fu così che l’Atto della Pinta rappresentò in modo archetipico lo spirito del governo vicereale cinquecentesco del quale Ferrante Gonzaga fu geniale interprete coniugando in una perfetta sintesi l’esperienza aristocratica e curtense del Rinascimento e la politica dell’hispanidad, promotrice di spettacoli destinati a suscitare sensi di meraviglia nelle masse. E in effetti spirito di autocontemplazione (da parte della committenza) e contemplazione del meraviglioso (da parte degli spettatori) convissero in questa rappresentazione volta a privilegiare l’aspetto visivo fra lo splendore dei costumi e lo scenario delle straordinarie figurazioni. Al tempo stesso, si trattò di una celebrazione simbolica nel corso della quale l’atto di sottomissione di tutti i personaggi all’Eterno non poteva non suscitare sentimenti di ordine e di obbedienza verso il potere imperiale legittimato dalla sua vicinanza alla Chiesa. Non si era spenta intanto l’eco del successo dell’Atto della Pinta che gli impegni politici e militari, cui si accennava prima, costringevano il viceré a lasciare Palermo. Bisogna attendere così il ritorno di Ferrante Gonzaga in Sicilia per assistere ad un’importante ripresa dello spettacolo urbano. All’inizio del 1541, furono messi in opera, infatti, nel Piano della Marina le rappresentazioni carnevalesche secondo l’uso avviato per lo spettacolo della “caccia artificiale” del 1538.3 Ben più impegnativa fu però la macchina organizzativa che il vicere mise im movimento per i festeggiamenti per le nozze del figlio Cesare con donna Diana Cardona nel 1542. In quella occasione Ferrante ricorse al contributo artistico di Domenico Giunti che mise in campo l’esperienza classicista acquisita nel periodo romano anche nel campo dell’effimero. I suoi interventi da questo punto di vista possono essere interpretati come testimonianza significativa del profondo contrasto fra la concezione rusticana e medievale

3 Cfr. la lettera del 23 febbraio del 1541 indirizzata da Ferrante Gonzaga, in A. S. PA., Conservatoria, Fortilizi, vol. 1053 (1540-1541).

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dello spettacolo siciliano e quella umanistico-rinascimentale importata dalla committenza vicereale.4 Anche se le strade del corteo nuziale apparvero ancora adornate di mirto, alloro e fiori di vario tipo, secondo la consuetudine di memoria medievale si cercò di rendere più varia e più ricca del solito l’addobbatura dei frontespizi delle case, non soltanto con coperte e arazzi ma anche con elementi scenografici costruiti, originali in particolare, tele rosse, “d’argento” e “d’oro” confezionate per l’occasione sì da offrire ampie visioni sceniche omogenee. Negozianti e artigiani esposero nelle botteghe la loro merce migliore e in particolare si ammirarono vasellami e preziose creazioni di orefici e argentieri. Ci furono spettacoli di danza, peraltro già in uso nelle epoche precedenti e ci furono giostre e caroselli nel Piano della Marina, la piazza ormai indicata definitivamente da Ferrante Gonzaga come il luogo più adatto per i giochi cavallereschi. All’interno di questi giochi medievali il viceré tuttavia inserì delle varianti. Il carosello ad esempio, terminò con l’inseguimento e il combattimento del toro da parte dei cavalieri giostratori, secondo l’uso importato dalla Spagna e acquisito dalle corti continentali. Le novità più clamorose furono però costituite da due generi di spettacolo totalmente diversi uno dall’altro e al tempo stesso collegati alla tradizione rinascimentale. Il primo, come del resto tutti quelli che abbiamo finora menzionato avvenne di giorno; e si trattò di una vera e propria naumachia. Come è noto, questo genere di spettacolo, molto diffuso in età classica,5 avrebbe riacquistato particolare diffusione nella nostra penisola negli ultimi decenni del secolo con l’inserimento di ingegnosi artifici e varianti spettacolari.6 Tuttavia faceva già parte da tempo del repertorio delle feste tradizionali di alcune città lo svolgimento di naumachie più rudimentali,7 in cui i contendenti, quasi sempre esponenti di rioni o di maestranze artigianali, prendendo posto su vascelli da carico o da guerra davano vita, tra il suono assordante e continuo delle trombe, a finti combattimenti con sparo di bombarde, di mortaretti e altri fuochi artificiali, ma spesso anche con uso di sassi e di bastoni, proprio alla maniera delle “battagliole” e dei bagordi di memoria medievale. Per la naumachia del 1542 Ferrante Gonzaga, che era stato assiduo e 4 L’unica descrizione dei festeggiamenti per le nozze di Cesare Gonzaga dalla quale abbiamo ricavato le notizie che qui riportiamo, è quella di F. GAMBACORTA, Epithalamium, in nuptiis Caesaris Gonzaga et Dianae Cardona, in R. GAMBACORTA, Foro christiano, Palermo 1594, 194-196. Per quanto si tratti di una descrizione in forma poetica, si riescono bene a individuare gli aspetti e le sequenze fondamentali di questa festa cinquecentesca. 5 La prima naumachia artificiale avvenne, come è noto, sotto Giulio Cesare nel 46 a.C. nel Campo Marzio. 6 Particolarmente frequenti nelle città di mare e in quelle fluviali e lacustri (soprattutto Firenze, Venezia e Ferrara), naumachie ebbero luogo anche in bacini artificiali, in cortili (Firenze, Palazzo Pitti) in piazze (Bologna) e persino in teatri (Parma, teatro Farnese) adattati all’occasione con pavimentazioni incatramate e altri accorgimenti. Non sempre improntate o limitate alla riproduzione letterale della battaglia navale, si fecero ammirare per il vasto impiego di fuochi artificiali per le decorazioni e i mascheramenti dei natanti, e l’uso di macchine (Ferrara, fossato della città collegato con l’estuario dei Po anno 1569) e/o per l’articolazione dei finti combattimenti (Firenze, Palazzo Pitti anno 1589). Per ulteriori notizie cfr. per tutti le voci «naumachia» e «galleggiante» dell’Enciclopedia dello Spettacolo curate da Elena Povoledo. 7 Fra queste ricordiamo Firenze «palio delle fregate» sull’Arno per la festa di S. Jacopo (15 luglio) Ferrara, «corso delle barchette» sul Po di Volano per la festa di S. Maurilio (5 maggio), e talvolta anche Bologna in piazza Maggiore per la festa della porchetta (24 agosto).

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appassionato spettatore proprio di queste forme, se non altro nella Ferrara di sua madre, presso il Po, e che conosceva tutte le caratteristiche dell’organizzazione dello spettacolo, diede egli stesso le disposizioni necessarie. Nella fase iniziale le dodici triremi impegnate nel combattimento avanzarono frontalmente su una stessa linea in segno di saluto ai nuovi coniugi e alla coppia vicereale che assistevano all’esibizione fra il suono delle trombe e gli applausi della folla. Subito dopo questo atto di omaggio, improvvisamente la concordia discors scatenò la battaglia. Dalle navi armate l’una contro l’altra iniziarono allora a volare pietre, lance, bastoni, palle di fuoco, mentre le bombarde, caricate a salve, non cessavano di cannoneggiare. Si videro allora delle navi avvicinarsi alle altre e agganciarle con catene come per preparare l’arrembaggio, mentre da quelle attaccate, risultato vano il tentativo di liberarsi, furono lanciate numerose palle di fuoco fatte di zolfo e di pece, tali da continuare a bruciare anche a contatto con l’acqua, fra gli applausi e lo stupore gli spettatori. Lo spazio scelto per questa naumachia, eccezionale quanto unica nella tradizione dello spettacolo in Sicilia, non poté non essere quello marino antistante il Castello a mare, dove furono accolti per l’occasione oltre ai parenti della sposa, i maggiori titolati presenti in città. Ferrante Gonzaga in questo modo imponeva emblematicamente lì, nella sede del potere, e nello spazio marino i due punti di fuga per l’occhio ammirato della folla; come dire che il clima augurale dei festeggiamenti per le nozze, di per sé chiaramente connotato, secondo l’ispirazione della cultura umanistica, dallo spettacolo dell’acqua e del fuoco, diventava al tempo stesso pretesto per indicare alla sudditanza nel valore della flotta navale e nella robustezza delle fortificazioni i due punti di riferimento del prestigio della monarchia spagnola. Il tutto in un’atmosfera di spettacolarità estremamente godibile e catturante, se pensiamo alla tempestiva successione delle sequenze, agli effetti visivi, soprattutto delle fiamme e del fumo, e al martellante succedersi e mescolarsi di suoni e di rumori. Purtroppo la partenza di Ferrante Gonzaga quasi subito dopo i festeggiamenti impedì lo sviluppo e la continuità dell’attività nel campo che potesse in qualche modo essere assimilata e quindi integrarsi con la tradizione autoctona. Eppure gli interventi del viceré, come si è visto, avevano dato almeno tre fondamentali indicazioni che qui è opportuno riassumere: a) l’importanza del versante della città rivolto verso il mare a integrazione di quello già utilizzato nelle celebrazioni precedenti, come espressione diretta degli orientamenti della politica imperiale di Carlo V; b) l’opportunità di aprire Palermo a forme di spettacolo collegate con la cultura continentale e sovranazionale, al fine di arricchire il patrimonio ormai superato e monocorde della tradizione medievale; c) la necessità della ricerca di spazi scenici adeguati ai vari generi di spettacolo. Ferrante Gonzaga, in questo modo, nel corso del suo mandato vicereale in Sicilia, e a Palermo in particolare, aggiungeva alle note doti di uomo d’armi e

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di governante, anche quella di competente conoscitore dei problemi della messa in scena, e persino di urbanista. Dopo di lui altri viceré si sarebbero succeduti in Sicilia, fedeli interpreti della politica culturale della monarchia ispanica. Fu così che Palermo alla fine del ‘500 si presentava definitivamente come città/teatro a spazio totale, centro fra i più attrezzati per esprimere al meglio il teatro festivo urbano come forma scenica ideologicamente contrapposta alla dominante del teatro al chiuso di matrice umanistico-rinascimentale. Specificità, questa, che seppe mantenere nei secoli successivi per tutta l’età moderna e oltre, e che non a caso consentì nel secolo XX, con l’avvento del cinema, un naturale approdo alla configurazione di città/set.

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IL MITO DELLA DEA MADRE E LA SUA EVOLUZIONE NEL TEMPO di Carla Amirante Contributo alla tavola rotonda Il mito rappresentato, 9 dicembre 2009, Liceo Garibaldi, Palermo

La Signora degli animali nel paleolitico Già in epoca preistorica gli uomini furono i primi creatori dei miti e sentirono la necessità di rappresentarli al meglio con canti, danze, musica e colori, ma quale sia stato il primo linguaggio usato da loro per narrarli non possiamo saperlo, forse la parola e poi gli altri a seguire. Non avendo ancora inventata la scrittura, i primitivi considerarono insufficiente raccontare gli avvenimenti religiosi propri della loro tribù, usando solo questi mezzi, pensarono allora di raffigurarli fissandoli per sempre, a memoria delle generazioni future nelle pitture, nei graffiti rupestri, nei totem, nelle sculture di pietra ed altro. Quegli oggetti e quei disegni stanno a testimoniare una fede vera ed un ragionamento ben sviluppato perché quelle opere hanno svolto egregiamente il loro compito, hanno sfidato i millenni giungendo fino a noi, che viviamo nel XXI secolo, e sono la preziosa testimonianza visiva dell’esistenza di quei mitici racconti. Si può dire che quei manufatti, anche se presentano grosse difficoltà per una corretta interpretazione, comunque sono una prima rappresentazione del racconto sacro; prendendo ad esempio le prime testimonianze delle Veneri steatopige, ci si rende conto che esse rappresentavano un mito: la divinizzazione della donna come madre in quanto datrice della vita e della fecondità. L’uomo primitivo, per la scarsa conoscenza scientifica del tempo, finché non ebbe coscienza della sua funzione creatrice, considerò la donna l’unica in grado di procreare e passò facilmente a credere che anche l’esistenza degli animali fosse l’opera fecondatrice di una figura femminile, che identificò nella Terra dove le bestie nascevano e si alimentavano mangiando o l’erba del suolo od altre bestie. Ma questo processo di divinizzazione della Terra come Madre di tutto e di tutti avvenne gradualmente perché inizialmente l’uomo paleolitico, nomade e cacciatore, venerava quegli animali da lui inseguiti ed uccisi, in quanto essi rappresentavano la sua più importante fonte di sostentamento; solo, in un secondo momento, divinizzò la Terra e la considerò come l’unica in grado di soddisfare i suoi bisogni, dandogli sempre nuovi animali da predare. Questa divinità, in genere femminile, andava pregata ed onorata con sacrifici perché divenisse benevola e concedesse sempre nuova selvaggina da uccidere; essa rappresentò un’evoluzione del pensiero religioso degli uomini perché segnò il passaggio da una teismo teriotropico o totemico ad un teismo silvestre più complesso dove questa entità femminile fu vista come la “Signora degli animali”.

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Fu così che, sia la Terra che la donna divennero il simbolo cosmico in cui la vita e la morte, anche se fenomeni naturali, divennero un fenomeno religioso e favorirono una sorta di matriarcato presso molte società primitive, che ancora non avevano compreso la paternità dell’uomo. Questa figura femminile, sorta forse verso il 35.000 a.C., fu venerata con nomi diversi, che per comodità indicheremo con l’unico appellativo di Dea Madre, i termini Grande o Terra o Dea sono delle varianti aggiuntive che ne indicano la medesima essenza. Il suo potere si estendeva su tutto ciò che viveva sulla terra: piante, animali, uomini, ed essa fu presente come divinità principale tra quasi tutte le popolazioni del tempo, ma in particolare fu venerata dall’Africa all’Asia e all’Europa, e la sua presenza nell’area del bacino mediterraneo ed in medio oriente è ampiamente documentata dai molti reperti ritrovati che la raffigurano. La Dea Madre nel neolitico Altro passaggio importante nell’evoluzione religiosa di questa divinità avvenne durante l’epoca neolitica con l’invenzione dell’agricoltura dove si definì pienamente la sua figura sempre come Dea Madre. Molte furono quelle piccole statuette che la riproducevano nel paleolitico e molte di più furono quelle a lei dedicate nel neolitico; queste statuette la raffiguravano come una donna obesa con gli attributi materni esasperati, come i seni ed i fianchi molto sviluppati, proprio perché fosse evidente la sua funzione procreativa; queste piccole effigie venivano conservate come amuleti perché portassero fecondità alle donne, proteggessero le gestanti e favorissero i parti. La Dea Madre venne ad accentuare quelle caratteristiche che già le erano state attribuite all’inizio della sua creazione, continuò ad essere vista come colei che donava vita e nutrimento agli animali ed agli uomini, ma anche come colei che dava la morte, per restituire di nuovo la vita; così pure il suo dominio si allargò sulla vegetazione che faceva fiorire in primavera e poi lasciava perire in inverno. Essa controllava inoltre la luna, identificandosi con essa, in quanto ogni fase lunare rappresentava una stagione della vita femminile ed era spesso presentata insieme al simbolo proprio della luna, la falce, ora posta tra le sue mani ora sulla sua testa e tale simbologia con poche modifiche continuò nel tempo: in lei si realizzava quel ciclo perenne del continuo alternarsi di vita e di morte, dal suo grembo si nasceva ed al suo grembo si tornava per poi rinascere. Sembra che la donna praticasse già dal paleolitico la raccolta di radici, erbe, semi e che col tempo fosse stata proprio lei a scoprire l’agricoltura con la coltivazione di ortaggi, questa prima scoperta, anche se di dimensione modeste, fu il preludio per quella scoperta fondamentale che fu per l’uomo l’agricoltura, avvenuta durante l’epoca neolitica. Anche in questo caso il merito fu attribuito alla figura femminile della Dea Madre, che venne vista come colei che controllava l’intero ciclo produttivo agricolo con il seme che doveva morire ed essere interrato sul finire dell’estate per poi rinascere e crescere a

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primavera, come già avveniva per le altre piante. La Dea Madre divenne così protagonista di altri miti che sopravvissero nelle civiltà più progredite che vennero dopo. In seguito dal V millennio in poi vi furono, sia in Asia che in Europa, delle periodiche invasioni di popoli nomadi bellicosi, provenienti dalle steppe dell’Asia centrale, che ebbero facile gioco sulle più miti popolazioni di agricoltori stanziati nel bacino mediterraneo e lungo la mezzaluna fertile del Tigri e dell’Eufrate. Questi invasori erano cacciatori bellicosi, che facevano affidamento sulla loro forza fisica e sulle proprie armi, erano organizzati secondo una società patriarcale e per questo adoravano divinità più simili a loro dalle caratteristiche tipicamente maschili; essi sottomisero facilmente le pacifiche popolazioni contadine, che veneravano la Dea Madre ed imposero a queste le loro divinità maschili cercando di escludere quelle femminili: l’operazione riuscì solo parzialmente. Le ipostasi della Dea Madre Dalla primordiale figura della Signora degli animali dei paleolitici, confluita in quella della Dea Madre degli agricoltori neolitici, presero vita, anche per l’affermarsi di nuove civiltà più evolute, altre dee con caratteri spesso simili a quelle prime divinità femminili e queste furono: le sumeriche Tiamat, Inanna e le babilonesi Ishtar ed Ereshkigal, così pure in Egitto Iside, Hator, Mut e la dea gatto Bastet, in Grecia Gea, Demetra, Hera, Artemide, ed Afrodite, al tempo stessa dea della bellezza e dell’amore, presso gli Etruschi le dee Uni, Aritini e Cel, molto simili tra di loro, presso i Latini, corrispondenti alle dee greche, ci furono Cerere, Giunone, Diana, Venere ed inoltre la più antica divinità locale Maia, in Anatolia Cibele, in India Kalì dal duplice aspetto positivo negativo e molte altre ancora. Tutte queste dee furono poste in relazione solo con alcuni aspetti, ora negativi ora positivi, che caratterizzavano la Dea Madre, la quale invece li possedeva tutti. Anche la Madonna può ricordarla, perché a lei con l’avvento del cristianesimo, furono attribuite tutte le qualità positive proprie della Grande Madre e che vi sia questo forte legame tra la Madre di Dio e l’antica divinità lo si può rilevare dal culto diffuso in molti luoghi e nazioni delle Madonne nere, favorito dalla stessa chiesa ai suoi inizi e che continua ai giorni nostri. Con l’avvento della Madonna tutte le dee precedenti persero la loro sacralità, divenendo un ricordo del passato e quando sopravvisse qualche rituale misterico in precedenza legato ad esse, questo si caricò di valenze profondamente negative, che vennero in molti casi ostacolate e perseguitate. Delle dee sumeriche e babilonesi, già ne ho parlato in un saggio precedente che analizzava le divinità mesopotamiche. Tra le dee, che più possono ricordare la figura della Dea Madre, ne ho preso solo alcune come esempio esplicativo: per l’area europea le dee greche di Artemide e Demetra, per l’area asiatica la divinità anatolica di Cibele e per quella africana la dea egiziana Iside.

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ARTEMIDE Poche divinità come Artemide per i greci e Diana per i latini possono ricordare la “Signora degli animali”; ella era la dea della primavera, che dava la vita a tutta la natura, dominava le montagne, le foreste, le pietre, gli animali ed anche le acque termali; viveva nelle foreste, selvagge e vergini come lei, circondata da cervi e cani ed insieme alle ninfe, sue compagne, cacciava ogni genere di preda scagliando le sue mortali frecce dorate: per questo, secondo Pausania II sec. d.C., la dea riceveva in sacrific io ogni genere di animale selvatico. Inoltre ella era anche la protettrice dei parti, sia dei bambini che dei cuccioli di animali; è da notare inoltre che la pianta d’artemisia, il cui nome deriva da quello della dea, è un’erba medicinale che favorisce le doglie. In Arcadia era venerata come kallisto, “la più bella”, o come agrotera, colei che proteggeva i cacciatori, ed altri suoi appellativi erano “Signora delle fiere” e, secondo Omero, Potnia Theron “ patrona degli animali selvaggi”, e molti erano gli animali sue epifanie come l’ape, la farfalla, la rana, il rospo, il porcospino, tutti animali che già nel neolitico erano simboli del divino, specialmente l’ape e la farfalla. La prima era associata al culto della dea nel cui tempio ad Efeso, una delle sette meraviglie del mondo, l’organizzazione del santuario ricordava quello dell’alveare con le sacerdotesse, le melissai, simili agli sciami di questo insetto ed i sacerdoti eunuchi, gli esseni, i fuchi; la seconda, la farfalla era un immagine di origine neolitica e minoica cretese. Nell’arte greca arcaica spesso Artemide veniva ritratta come una dea alata che reggeva per mano un cervo ed un leopardo, in seguito nell’arte del periodo classico si preferì ritrarla come una vergine cacciatrice, con la gonna corta, l’arco e la faretra che conteneva frecce d’argento; altre volte la troviamo effigiata mentre, seguita da un cane od un cervo, scocca le sue frecce oppure una lancia. Altre rappresentazioni della dea la ritraggono mentre danza con le sue ninfe mentre suona la lira oppure con due torce accese strette in mano per il suo legame con la luce od ancora con la corona lunare sulla testa come simbolo della sua identificazione con la luna. DEMETRA La figura di questa dea ricorda molto la Dea Madre del neolitico agricolo, il suo stesso nome greco ??µ?t?? ricorda quello di “madre terra “, veniva raffigurata come una donna sempre bella, perché le divinità non potevano che essere belle, ma non più giovane, come spesso erano scolpite le antiche divinità femminili; ella, come regina del grano, era ritratta spesso mentre reggeva nella mano delle spighe, il suo simbolo, perché gli uomini avevano scoperto l’agricoltura ed avevano coltivato il grano per merito suo. Negli Inni omerici viene citata come la “portatrice di stagioni”, caratteristica che lega strettamente la figura di Demetra a quella della figlia Persefone, conosciuta anche come kore, la fanciulla; è da notare che il termine kore è la versione

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femminile di koros, che significa tanto fanciullo quanto germoglio. Il loro culto sembra avere avuto origini molto antiche, antecedente a quello degli dei olimpici, e le due dee, “t? ?e? ?”, erano solitamente invocate insieme, come si può rilevare dalle iscrizioni in scrittura lineare B di epoca micenea trovate a Pilo e così pure erano celebrate insieme nei famosi Misteri eleusini, così detti dalla città di Efeso vicino ad Atene dove si trovava il tempio più importante a loro dedicato. Persefone, come ben si comprende dal suo arcinoto mito, poteva essere vista sia come la fanciulla del grano, quindi del risveglio della natura in primavera, sia come la regina dei morti essendo la consorte di Ade che era il dio dell’oltretomba. Nelle religioni neolitiche spesso, accanto alla figura della Dea Madre che, con il suo dominio controllava tutto il ciclo stagionale e vegetativo, era stata posta un'altra divinità, in genere una figura maschile, che poteva essere lo sposo, come il sumerico Dumuzi, legato alla figura di Inanna, o il babilonese Tammuz, riferito a quella di Ishtar, oppure il figlio, spesso anche amante della dea, il quale moriva o era ucciso per simboleggiare il seme che veniva sepolto in terra e poi dalla terra rinasceva germogliando. Nel mito greco di Demetra ci sono due novità: la prima che il rapporto donna-sposo o madre-figlio è sostituito da quello madre-figlia e la seconda che nella storia si inserisce un terzo protagonista, che è Ade. Il mito narrato dal poeta Claudiano (370-408) si volge in Sicilia e narra che il dio vide la bellissima fanciulla mentre giocava con le ninfe, sue compagne, presso il lago di Pergusa, l’ingresso al mondo dei morti, se ne invaghì e la rapì sul suo carro guidato da quattro cavalli neri per portarla nel suo regno e farne la sua sposa. Demetra, disperata, punì le ninfe, perché non avevano difeso la figlia, trasformandole in sirene mentre Ciane, l’unica ninfa, che aveva cercato di difendere Persefone, era stata trasformata da Ade nella fonte che bagna Siracusa. La madre iniziò a vagare disperata per la terra, che, abbandonata al suo destino dalla dea in lutto, deperì finché Zeus, padre della fanciulla e fratello di Ade, intervenne trovando una soluzione soddisfacente per tutti: Persefone restò, durante l’anno, i quattro mesi dell’inverno nell’Ade, con lo sposo, e gli altri otto mesi, nelle altre tre stagioni, sulla terra con la madre e così la terra sopravvisse. Molti sono i simboli con cui era ritratta Demetra e che facevano riferimento alla terra come la frutta, raccolta in un cesto, i favi, le pannocchie, il papavero, fiore del sonno e della morte, tra gli animali sacri alla dea vi erano le vacche, le scrofe ed il serpente che mutando periodicamente la pelle è segno del continuo rinascere, tra gli oggetti vi era la fiaccola, che poteva ricordare il suo vagare alla ricerca della figlia ed il regno dell’oltretomba. Persefone era raffigurata seduta su di un trono perché regina dell’Ade, con in mano una colomba, una melagrana, per gli antichi il frutto della fedeltà coniugale, una torcia, delle spighe di grano, questi ultimi due erano simboli

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comuni con quelli della madre, e, tra i fiori, il narciso, che stava cogliendo quando fu rapita: tutti simboli legati al cupo e tenebroso mondo dei morti. CIBELE Anche questa divinità fu venerata come Grande Dea della natura, della fecondità, degli animali e dei luoghi selvaggi, originaria della Anatolia aveva come sede principale del suo culto la città di Pessinunte, nella Frigia. Cibele, dal greco ??ß???, era una dea che aveva dato origine all’universo senza l’intervento maschile, ella era al tempo stesso vergine inviolata e madre degli dei, dura come la roccia ad essa simile per essere caduta dal cielo come Pietra nera : per questa sua caratteristica era adorata come tale presso la scogliera deserta di Agdo in Plafagonia. Spesso veniva raffigurata coperta da un velo od un mantello mentre reggeva uno specchio nella mano e con altri simboli come la melagrana e, simile a Demetra, le spighe d’orzo, da cui si ricavava una bevanda allucinogena; In alcune immagini può ricordare la divinità anatolica, già presente nel 6.000 a.C., come quella di Çatal Hoyuk, quando la ritraggono seduta su di un trono tra due leoni o leopardi, con un tamburello nella mano e con una corona turrita sul capo. Altre volte veniva ritratta sul carro divino, trainato da leoni, insieme al giovane Attis, forse figlio o forse no,- vi sono leggende diverse-, mentre intorno era circondata dai suoi sacerdoti, i Coribanti ed gli eunuchi Galli, una processione avanzava suonando a ritmo frenetico tamburi, timpani, cembali, flauti e cantava in estasi orgiastica. Molti sono i racconti mitologici fioriti intorno alla divinità di Attis, anche Ovidio riporta la storia del giovane in una versione un po’ più sintetica ma precisa nei passaggi essenziali: il dio era un giovane bellissimo che fu amato dalla dea di un casto amore e preso a servizio come sacerdote purché rimanesse a lei fedele e vergine, ma Attis tradì l’amore puro della dea per una donna mortale e, scoperto l’inganno, per punizione fu reso così pazzo che per la vergogna si evirò e morì dissanguato sotto un pino, il quale, bagnato dal sangue fece fiorire delle viole. Impietositosi per la triste vicenda del giovane, Zeus lo riportò in vita od almeno concesse che il suo corpo divenisse incorruttibile ed a ricordo della vicenda i sacerdoti nel rito orgiastico e barbaro, dedicato alla loro dea, si flagellavano e si eviravano, in seguito si limitarono ad automutilarsi. Fu la presenza di Attis, che, con la sua morte e resurrezione simboleggiante il ciclo vegetativo, diede, nel tempo, al culto della dea una connotazione misterica e soteriologica; questa divinità, come anche quella di Mitra fu messa in relazione con quella di Cristo per alcune analogie come la funzione salvifica, la morte e resurrezione ed altre somiglianze contro cui si scagliò san Paolo nella Epistola ai Galati. Dal VII sec.a.C. in poi il culto di Cibele fu accolto prima nelle colonie greche e poi sul continente ad opera di quest’ultime giunse anche in Italia ed a Roma nel 204 a.C..

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ISIDE In Egitto erede dell’antica figura della Dea Madre fu Iside che, nel tempo, si venne ad identificare anche con la più antica Hathor, dea cosmica del cielo e datrice della vita, perché entrambe si nascondevano sulla terra sotto le sembianze di una vacca. Iside era la sposa fedele di Osiride, ucciso dal fratello Seth e divenuto dio dei morti, ed era anche la madre di Horo od Horus: la loro triade, Iside,Osiride ed Horo rappresentavano la continuità della vita, della vittoria sulla morte e della vita oltre la morte. Quando si diffuse il suo culto fuori dell’Egitto, in particolare nell’Europa occidentale verso la fine del IV sec.a.C., la dea divenne l’esempio di quel rapporto amoroso che lega la sposa fedele al coniuge e la madre al figlio, e venne anche identificata per i suoi molteplici aspetti con altre dee del pantheon greco-romano come quelle di Persefone di Demetra di Cibele, di Teti e di Atena. Osiride invece fu assimilato ad Ade e Dionisio ed altre divinità legate al ciclo stagionale, perché era lui, che con la sua la rinascita assicurava la fertilità dell’Egitto favorendo le inondazioni del Nilo. Ciò avvenne per quella capacità propria dell’epoca ellenistica di operare un sincretismo tra le civiltà del mondo mediterraneo a livello culturale e religioso; Iside poteva ricordare Persefone per il suo legame con l’aldilà, Demetra per la sofferenza e l’affannosa ricerca a causa della perdita dello sposo, Teti perché proteggeva i naviganti e Atena perché aveva aiutato gli uomini a civilizzarsi. Plutarco (46-120 d.C.) ci ha tramandato alcuni aspetti rituali del suo culto, che, per quelle caratteristiche magiche e ultraterrene che Iside possedeva, fu di tipo misterico e per questo il suo culto all’inizio fu in parte ostacolato, ma in seguito, in epoca ellenistica, venne accettato ed anzi potenziato. Il risultato fu che Roma, tra il I ed il III sec d.C., divenne il centro maggiore della sua devozione e che i fedeli la venerarono due volte all’anno, in primavera ed inverno, con feste ricche e fastose, in cui si celebravano allegoricamente la morte di Osiride, la sofferenza e la tristezza di Iside fino alla nascita del figlio Horus, in modo da superare anch’essi il proprio dolore e raggiungere l’immortalità. Iside era la divinità dai diecimila nomi e dalle molteplici rappresentazioni; in genere la dea era raffigurata come una donna vestita all’egizia che regge nella mano un loto, simbolo della fertilità, e porta sulla testa il simbolo del trono, perché il suo nome in lingua egizia ha proprio questo significato. Spesso indossava una acconciatura con un avvoltoio sulla testa o portava in una mano lo scettro di papiro e nell’altra l’Ank, simbolo della vita; più famoso ancora di quelli era il thet, il nodo, detto anche il fermaglio di Iside con il quale la dea aveva il potere di legare e dare il sangue e la vita. Altre sue immagine erano quelle della dea raffigurata come vacca, in associazione ad Hathor, con in mezza alle corna racchiuso il sole, oppure come una donna con le ali di uccello per simboleggiare il vento; quando veniva dipinta sui sarcofaghi era sempre raffigurata con le ali nell’atto di prendere l’anima del defunto e condurla a nuova vita. Diffusissime inoltre erano le immagini di lei, seduta in trono, mentre allattava il figlio Horo, questa immagine fu in seguito

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ripresa dal cristianesimo per rappresentare la Madonna insieme a Gesù bambino. LE MADONNE NERE In tutto il mondo si trovano rappresentazione della Madonna con il volto scuro, sono immagini sacre oggetto di una devozione molto sentita proprio per quell’aspetto particolare della Vergine di cui non si comprende il perché, dato che ella era una ragazza della Palestina di razza semita. Inoltre il colore nero dell’incarnato non si può attribuire all’invecchiamento del dipinto o della statua perché il resto dell’opera non sembra aver subito un analogo fenomeno; si è voluta attribuire una valenza particolare al colore quasi nero del volto e delle mani ponendo in relazione la figura di Maria con quella della Dea Madre (Stefen Benko), e con tutte le sue ipostasi come Demetra, alias Cerere ed Iside in quanto la tinta bruna ricorda la terra, specialmente quella fertile. Si dice anche, ma non è provato, che all’origine di questo modo di raffigurare la Madonna sia stato dovuto al ritrovamento di una statua della dea Iside, ritratta in scuro, che per errore era stata confusa con la Madre di Dio; é da aggiungere che il colore nero ha sempre indicato lutto e dolore. Il tutto può spiegarsi con quel processo di inculturazione seguito dalla Chiesa Cattolica dopo l’editto di Costantino del 313 d.C. ed in seguito teorizzato in una sua lettera da papa Gregorio Magno nel 601 in modo da far sì che le feste pagane gradualmente rifluissero in quelle cristiane, e come avvenne per la festa pagana del 25 dicembre, nella quale si celebrava il Solis invictus e che fu trasformata nel Natale di Gesù, così può essere avvenuto qualcosa di simile anche per la Madonna, che, con l’accettazione alla nascita di Cristo, aveva partecipato alla creazione della nuova umanità divenendone la madre. Come gli antichi templi, usciti indenni dai saccheggi ed dalle devastazioni furono riadattati a chiese, così pure sarà successo con alcune statue di divinità femminili che saranno state riusate, con le dovute modifiche, per rappresentare la Madonna ed in particolare con le statue della dea Iside che allatta il figlio; del resto quelle statue erano opere di notevole valore artistico che, abbatterle, sarebbe stato un vero peccato e spreco di materiale e, in particolare, simboleggiavano un sentimento eterno e fondamentale come è sempre stato l’amore materno, che per il cristianesimo la massima espressione era rappresentata da Maria e bene si addicevano al culto mariano.

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IL CONVITO, FRA EROS E AGAPE, NELLA LETTERATURA E NELLA SPIRITUALITA’ PAGANA E CRISTIANA DELL’EUROPA MEDITERRANEA di Luigi Lucini Conferenza tenuta il 21 gennaio 2009 presso il Conservatorio Musicale Statale “V. Bellini”, Palermo

Il banchetto nel mondo classico Nella civiltà europea, la cultura ellenistica occupa un posto di massimo interesse e rappresenta la base di partenza per ogni indagine sia storica che letteraria, giuridica e filosofica. Oggi affronteremo un tema che pur sembrando frivolo riveste un grandissimo interesse sia per la filosofia che per la storiografia. Un proverbio giunto fino ai giorni nostri recita: “a tavola non si invecchia”. Tale assioma sarà al fondamento dell’odierna trattazione; ci accosteremo infatti alla filosofia ed all’antropologia, non attraverso trattati avulsi dalle realtà del vivere umano, ma attraverso le pagine di scrittori che hanno spezzato il pane della sapienza allo stesso tavolo dello spezzar del pane quotidiano. Tali furono i filosofi giustamente appellati da Ateneo di Naucrati, i Dipnosofisti. Questo attributo composto ci indica gli amici della Sapienza riuniti intorno ad una mensa. Prima di entrare più propriamente nel tema che oggi ci siamo proposti, sarà bene ricordare alcune modalità dei banchetti della Grecia classica. Gli Ellenici hanno sempre concepito il piacere come un qualcosa di armonioso, volto alla crescita umana e culturale dell’individuo secondo l’assioma del “Kalòs Kai Agathòs”; in cui ciò che è bello deve necessariamente portare al buono e viceversa. Entriamo ora nel vivo del tema che ci siamo proposti e sin dalle prime battute incontriamo due termini che al giorno d’oggi, pur considerati desueti, vengono ritenuti ambivalenti ma che in realtà al loro nascere indicavano due azioni diverse anche se complementari, i termini sono: Convivio e Simposio. Come dicevo dianzi ai giorni nostri i termini quasi si equivalgono anche se la parola Convivio resta più legata alla consumazione di cibi mentre la parola Simposio indica spesso un’asettica riunione culturale. Nella cultura Ellenistica il Convito (dìpnon) era una semplice ed a volte sbrigativa consumazione di cibi che precedeva il Simposio (sympòsion) il quale invece rappresentava la parte più conviviale della riunione; in essa veniva consumato il vino sotto la direzione di un simposiarca, o capo del banchetto, a cui spettava la direzione sia della parte libativa, ad esempio il numero delle coppe da consumarsi durante il Simposio, che la conduzione della discussione e la scelta dei temi che potevano essere letterari, poetici, filosofici o financo gastronomici e medici; sempre al simposiarca spettava indire quelli che fra noi vengono chiamati giochi di società, che dovevano inframezzare le discussioni e le coppe di vino, ed aver cura che non si

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trascendesse aldilà della sensibilità dei partecipanti alla riunione, imponendo nel caso dei simbolici pegni ai trasgressori. Ordinariamente al Simposio facevano corona citaredi, cantanti e ballerini d’ambo i sessi ma di condizione servile in quanto alle donne libere tale presenza era interdetta a meno che non fossero eteree di professione. Lo svolgimento del Simposio solitamente aveva questo corso. I convitati incoronati di edera e fiori specie rose e viole, il cui profumo era considerato antidoto per l’ubriachezza, prendevano posto sui triclini ornati di drappi e di rami odorosi quindi intonavano canti liturgici in onore di Apollo e di altre divinità ma soprattutto di Diòniso chiamato Liberatore ed Affrancatore; poi veniva offerta agli Dei di cui sopra una libazione di vino aromatizzato, lo stesso vino veniva quindi religiosamente consumato dai presenti che si passavano l’un l’altro la coppa di inizio. Cominciava poi la consumazione del vino e fra una coppa e l’altra v’era l’uso che ciascun partecipante venisse invitato dal Simposiarca ad eseguire un canto conviviale (scolio), l’invito avveniva recapitando al prescelto un ramo di mirto che non poteva essere rifiutato, pena il pagamento di un pegno. Prima abbiamo parlato di giochi di società, ora uno dei giochi più in voga nell’epoca classica era il Cottabo, esso consisteva nel lanciare le ultime gocce del vino, rimasto nella coppa, in un vaso posto al centro della sala senza muoversi dal proprio posto, cercando di centrare l’obbiettivo e pronunciando al contempo il nome di una persona presente che si desiderava possedere. Era questo un gioco proveniente dalle colonie ioniche di Sicilia che si diffuse in tutta l’Ecumene ellenistica a partire dal V sec. a. C. ed ancora in uso alla fine del III sec. a. C. Tratteremo di seguito sommariamente, per brevità di tempo, il Simposio quale appare in alcuni testi della letteratura greca per passare poi a quelli della letteratura romana. Un discorso a parte sarà quello che si riferisce ai conviti evangelici, come a suo tempo diremo. I Simposi nella letteratura greca e romana Ordinariamente si pensa che il genere letterario dei saggi a convito sia stato introdotto in letteratura dal grande filosofo Platone (428/7 – 348 a. C.); in realtà tale primato potrebbe essergli contestato dal suo condiscepolo Senofonte (430 – 355 a. C.), autore anch’egli di un opera strutturata quale convito fra saggi. Come sempre la realtà sta nella via di mezzo in quanto ambedue, discepoli di Socrate non hanno fatto altro che mettere in iscritto ciò che il grande padre della filosofia aveva detto e fatto nella sua pedèia. Di fatto lo stesso Platone fa comparire il suo maestro quale maieutico dei commensali, aiutando le loro menti a partorire i concetti fondanti della loro filosofia di vita. Non va però dimenticato un illustre prodromo di tale esperienza letteraria, parlo di Omero, il cantore di Troia, infatti il poeta già 400 anni prima (fra il 9° e l’8° sec. a. C.) aveva posto l’accento sulla funzione sociale, politica e filosofica dei banchetti dei suoi eroi. Ogni discussione, anche la più spinosa,

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vedi la disputa fra Achille ed Agamennone viene risolta o comunque affrontata nel corso dei banchetti dei capi dell’esercito Acheo. Resta indubbio però che l’opera di più duraturo successo fu il Convivio di Platone. Quale genere letterario il Convito continuerà ad avere cultori in tutta la letteratura classica della Koinè Ellenistica lo ritroviamo infatti nei canti conviviali di Anacreonte (4° sec. a. C.), in Epicuro (343-270 a. C.) sino a giungere a Plutarco (5° sec. d. C.) che scriverà “Il banchetto dei sette sapienti” e le “Questioni conviviali” ma l’epigone di questa scuola letteraria può considerarsi Ateneo con la sua opera enciclopedica intitolata “I Deipnosofisti” ovvero “I dotti a banchetto” . Ateneo è un tipico esponente della cultura Ellenistica, nasce a Naucratis, che con Tolemaide ed Alessandria rappresenta una delle più vivaci colonie greche d’Egitto. L’opera di Ateneo può essere considerata un’Enciclopedia ante litteram essa è infatti un compendio di tutto lo scibile umano dell’epoca ed in quindici corposi libri riporta brani di opere precedenti molte delle quali oggi sarebbero totalmente perdute. Egli cita circa ottocento scrittori e riporta più di diecimila versi. L’opera di Ateneo pur nella sua vastità, oserei dire caotica, segue un filo conduttore che se dal punto di vista letterario e filosofico può sembrare di poca importanza, dal punto di vista antropologico oserei dire che è di vitale importanza. Le discussioni che si svolgono alla tavola di Larenzio, l’anfitrione di Ateneo vertono infatti sui cibi e sulle bevande che di passo in passo vengono servite alla tavola del ricco funzionario romano. Ma quì sta la grandezza del nostro autore, dal singolo cibo prendono le mosse discorsi che ci portano in terre o tempi lontani, in fatti storici accaduti, in considerazioni mediche, fisiologiche e scientifiche; il tutto con una leggerezza che conquista il lettore ammaliandolo con i colori ed i sapori delle varie vivande. Tutto il bacino mediterraneo è presente con i suoi prodotti e le sue specialità; quest’opera rispecchia più di molte altre l’unità culturale che univa le sponde del “mare nostrum”, una unità mediata da una cultura, quella Ellenistica, che riuscì a fondere popoli diversi in un'unica Ecumene Imperiale da Marsiglia ad Efeso, da Alessandria ad Atene, da Tessalonica a Ippona. Anche gli scrittori latini sono ricorsi a questo genere letterario pur se in forma oserei dire di parodia, fra costoro vanno accennati:

• Petronio Arbitro, che nella sua opera Satyricon ci descrive la cena in casa di Trimalcione, ricco liberto che mostra le sue basse origini nell’ostentazione della propria ricchezza, per cui ne segue la narrazione di una cena atta a stupire e confondere i commensali;

• Apuleio , autore dell’Asino d’oro ci mostra il degenerare in orgia della

cena dei Sacerdoti di Cibele e di Attis, i quali non riescono nemmeno a salvare le forme esterne del convivio, ma degenerano subito nell’incontinenza delle proprie voglie;

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Fra i poeti anacreontici latini spiccano in particolare Ovidio e Lucrezio. Questa se pur breve carrellata di scrittori greco-latini ha evidenziato il ruolo dell’Eros nella teoria e nella prassi pagana, un ruolo sempre più importante e coinvolgente mano a mano che ci si avvicini al termine dell’era pagana. La Filia (l’amore fraterno o amicale) vede sempre più restringersi i suoi spazi di azione, gli esempi letterari di amicizia della vecchia Roma repubblicana trovano sempre minore spazio man mano che ci avviamo alla fine dell’impero romano d’occidente. Di fronte a tale involuzione degenerativa però si comincia ad intravedere una reazione moralizzante già in larghi strati del paganesimo, parlo dei culti misterici ed in particolare di quello di Mitra. Quest’ultimo culto troverà la maggiore quantità di adepti proprio nell’esercito, la parte più sana dell’impero, dove la milizia ed i pericoli della battaglia hanno sempre dato grande spazio al sentimento dell’amicizia, quale salvaguardia del commilitone che in ultima analisi rappresenta salvaguardia per se stessi. Anche fra i fedeli di Mitra il banchetto assume una grande importanza, infatti, rispetto ai banchetti del paganesimo, che restano manifestazioni laiche seppure le libazioni di inizio vengono dedicate agli Dei, nel Mitraismo il banchetto si avvia a rivestire il ruolo di Mistero liturgico, quasi di Sacramento. Di esso possiamo parlare quale “Sacramentum unitatis”. I commensali, riuniti quali fratelli alla stessa mensa, spezzano il pane e bevono l’acqua inframezzando tali azioni col canto di inni al Sole-Invitto ed a Mitra, sua jerofanìa. La scelta del pane e dell’acqua quali cibo e bevanda sacri ci riporta all’essenzialità della vita militare ma prelude pure all’immagine, sviluppata in seguito dai Padri della Chiesa, del frumento che raccolto anche da luoghi lontani perde la propria individualità di chicco per fondersi con gli altri chicchi e formare un unico pane; così il fedele nell’elevarsi verso Dio abbandona la propria individualità per formare un unicum con i fratelli. Ma un nuovo culto sorge ad oriente, un culto che vede nella donazione di se stessi l’obbiettivo finale della propria vita; parlo del culto cristiano che ci introdurrà nel concetto di Agàpe cioè di amore oblativo. Il Convito cristiano Sin dal suo nascere il culto cristiano si è incentrato proprio sul pasto comune, inteso come esperienza di amore fraterno e di condivisione. Provenendo il cristianesimo dall’ebraismo il banchetto liturgico presenta forti assonanze con la celebrazione del pasto serale di apertura del sabato ed in particolare con la cena commemorativa della Pasqua. Una particolarità però lo distingue dal pasto ebraico; Gesù infatti aveva detto: “chi mangia la mia carne e bene il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv. 6,54) in seguito aveva poi chiarito, nel corso della Mistica Cena, che il pane spezzato in sua memoria diveniva il suo Corpo mentre il vino della coppa comune diveniva il suo Sangue.

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Si raggiungeva così per l’uomo quella unione deificante che nessuna religione aveva ancora sperimentato; sia ebrei che pagani stabilivano un contatto con la divinità partecipando al banchetto sacrificale incentrato sulle carni immolate; non così per il cristiano che nella sua fede si ciba dello stesso Cristo-Dio.

A livello umano poi Cristo usa il convito quale strumento didattico nei confronti dei propri discepoli e quale segno di condiscendenza e di amore verso i peccatori , per la salvezza dei quali egli opera. Restano famose infatti le sue parole “è venuto Giovanni, che non mangia e non bene, e hanno detto: ha un demonio. E’ venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve e dicono: ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. Ma alla sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere” (Mt. 11,18-19). Proprio in queste ultimissime parole troviamo l’assunto di quanto andiamo dicendo; dall’opera di Cristo infatti che non si astiene dalla convivialità e dalla socializzazione con ogni categoria di uomini e donne viene resa giustizia alla sapienza divina proprio per il suo farsi tutto a tutti, donando a ciascuno una parola di salvezza.

Dopo questa premessa necessaria scorriamo ora alcuni esempi di banchetti evangelici:

• Le nozze di Cana (Gv. 2,1-11). Il racconto ci porta ad un banchetto di nozze e ci mostra la condiscendenza di Cristo, che si prende cura di cose apparentemente materiali per trarne un ammaestramento per i suoi discepoli, infatti la narrazione termina con le parole: “così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”. Pocanzi ho usato le parole “apparentemente materiali” perché si trattava dell’acqua mutata in vino ma qui bisogna intravederne il senso mistico. L’acqua infatti per la sua necessità essenziale rappresenta la piatta quotidianità mentre tutti i testi vetero-testamentari ci portano a considerare il vino quale novità di vita e simbolo di amore.

• La cena di Levi (Mc 2,15-17). Sin dall’inizio della predicazione Gesù

mostra quella che può chiamarsi una novità sconvolgente, se messa a raffronto con l’agire dei grandi maestri del fariseismo ebraico, non contento infatti di scegliere i suoi discepoli fra gente umile e spesso indotta (vedi i pescatori) aggrega alla sua sequela pure coloro che l’ebraismo ortodosso considerava pubblici peccatori ed uomini privi di ogni purità legale, quali i pubblicani, coloro che cioè esigevano dal popolo eletto le tasse a favore degli odiati romani. E’ questo il caso di Levi (Matteo) che per ricambiare a Cristo tanto beneficio lo invita ad una cena festosa; Cristo accetta, incurante delle critiche anzi risponde ai malevoli che non sono i sani ad aver bisogno del medico, ma i malati

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e che Lui è venuto non per chiamare i giusti ma i peccatori ed a prova i ciò ricorda il verso del profeta Osea: “Misericordia io voglio e non sacrificio” (Cfr. Osea 6,6).

• La cena di Betania (Mt. 26,6-13). (Lc. 7,36-50). Nel paragrafo

precedente, parlando dei peccatori quali interlocutori privilegiati di Cristo ho accennato che egli si rivolgeva indifferentemente a omini e donne. In questo caso l’interlocutrice primaria è una donna di malaffare. Gesù siede a tavola nella casa di Simeone quando viene avvicinato da una prostituta che piangendo gli versa sul capo un profumo costosissimo sollevando un mormorio di disapprovazione nei confronti della donna, accusata di spreco, Gesù però leggendo in lei il dolore per la vita passata la difende profetando una volta in più la sua futura dipartita con il particolare che il suo corpo non avrebbe ricevuto l’unzione prescritta per i defunti e, dando alla donna il merito di questa unzione preventiva, la rimanda assolta dai suoi peccati.

Questi tre esempi ci mostrano a sufficienza l’aspetto didattico delle prime mense cristiane ma in esse gioca anche un fattore di trascendenza che va aldilà dei limiti della conoscenza umana; questo risalta particolarmente in Emmaus, quando i discepoli riconobbero Gesù allo spezzare del pane (Lc. 24, 13-35). Un discorso a parte merita invece la Mistica Cena, più conosciuta in occidente come Ultima Cena. La prevità del tempo concesso ci costringe però ad essere più sintetici di quanto sarebbe opportuno dato il tema proposto. Ci limiteremo soltanto a sottolineare i due momenti particolari della didattica del Maestro:

• la Filìa, ovvero l’amore amicale. Gesù prima di raggiungere il Padre amò i suoi sino alla fine (Cfr. Gv. 13,1) e lavando i piedi a ciascuno mostra con i fatti cosa significhi la fraternità e l’amicizia, che rende gli uomini uguali fra di loro e dove si è per servire e non per essere serviti.

• L’Agàpe, ovvero l’amore oblativo. Gesù dona se stesso, corpo e

sangue per la salvezza di tutti inoltre sale al Padre per mandarci lo Spirito. Quello Spirito che guiderà gli uomini ad acquisire la Verità tutta intera.

Siamo così giunti alla fine del nostro incontro ed il nostro spirito sente ripetere per ciascuno le parole dell’Apocalisse alla Chiesa di Laudicèa “Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap. 3,20). Sarà questo quindi il convito cardine della spiritualità cristiana dagli inizi ai nostri giorni ed a questa mensa si nutrirà un popolo senza fine per realizzare la benedizione che l’Altissimo aveva riservato ad Abramo “Renderò numerosa la tua discendenza, come le stelle

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del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare… saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra” (Gn. 22,17-18).

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LA FIGURA DI MITRA IN INDIA di Diego Romagnoli Conferenza tenuta il 22 febbraio 2009 presso l’Associazione Biotos, Palermo Premessa Nell’Induismo le figure di dei si moltiplicano, a volte sono o lo stesso dio, o sue diverse manifestazioni con diverso o diversi nomi o epiteti, poi personificate (il Sole, occhio di Mitra, Surya), ovvero dei che si sovrappongono, frutto, come dice Eliade nella sua Storia delle Credenze ed Idee religiose, di variazioni della tradizione che avvengono nel tempo creando nuove figure spirituali, di prestiti, simbiosi o recriminazione, fusioni, sostituzioni. E’ chiaro che l’induismo attuale è molto diverso da quello delle origini e dalla religione vedica: esso infatti, pur basandosi sui medesimi testi sacri, nei secoli ha subito influenze, interpretazioni, revisioni, nuove redazioni, nascite (anche a tutt’ora) di nuove correnti filosofiche, tanto che dare un’interpretazione della sua natura è arduo e difficile. E’ chiaro poi che tutte queste serie di dei possono creare confusione alla mente ed al pensiero occidentale: gli dei possono a volte apparire come persone diverse delo stesso dio, come Mitra, Surya e Savitar, o come diversi dei, oppure come aspetti della luce emanata dal sole, che nella tarda mitologia vedica e/o induista si fusero (ciò permette di notare il continuum nell’identificazione tra Mitra e il sole, dall’India fino alla Britannia romana). Trattando della religione, certe figure o racconti possono a volte apparire antitetici e contradditori rispetto ad un determinato argomento (un dio) oggetto d’indagine. Ciò genera ancora più confusione senza che si possa venirne a capo, specialmente perché in Occidente ciascuno, per millenaria comune impostazione mentale, è naturalmente abituato a ragionare per categorie di pensiero platoniche e per principi aristotelici di non contraddizione, che sono l’anima della civiltà occidentale e la base delle sue creazioni nei secoli. Soprattutto, oltre ad risultare difficile comprendere una sensibilità, un modo di sentire l’esistenza, un senso della vita e dell’esserci, assai distante dal nostro,1 la difficoltà aumenta quando si deve trattare una sensibilità più antica e differente anche da quella indiana attuale. In questa sede si cercherà di definire alcuni caratteri essenziali dell’induismo e, progressivamente, basandosi su di essi ai fini della ricerca, in quale contesto Mitra e Surya e Savitar s’inseriscano e rappresentino la ierofania del sole.

1 Ad esempio circa la differenza tra Roma e India: Roma pensa intermini storici e nazionali, il pensiero è empirico, relativista (nel senso di res – cosa - oggetto), politico e giuridico; l’India pensa in termini cosmici e di leggenda, il pensiero è filosofico, assoluto, dogmatico, morale, mistico.

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Induismo L’induismo o Sanathana Dharma (Eterna Legge Morale) non è una religione organizzata e strutturata nel senso in cui s’intende in Occidente, è un modo di vivere e di pensare, è dato da una serie di correnti devozionali e/o metafisiche e/o filosofico- speculative eterogenee che, pur avendo un comune nucleo di valori e di credenze, differiscono tra loro nell’interpretazione della tradizione e in base all’oggetto che viene trattato e focalizzato; come è stato accennato prima, questi aspetti nella visione filosofica occidentale possono apparire contraddittori ed antitetici. Sul piano della fede e delle credenze, l’induismo non è né politeista né monoteista ma enoteista o monolatrico, cioè una forma di culto intermedia tra politeismo e monoteismo in cui viene venerata in particolar modo una singola divinità senza tuttavia negare, accanto ad essa, l'esistenza di altre dette Avatar, parola derivante dal sanscrito che significa ‘disceso’ dove Dio, o uno dei Suoi aspetti, assume un corpo fisico (come Dio con Gesù nella veste/attributo di Figlio). Dei ed Avatar sono forme diverse del Brahman, l’Uno, il Dio Supremo, fonte ultima di ogni energia divina.2 Secondo i Veda il Brahman (/br?h m?n/) è la Realtà Ultima, l'Anima Assoluta ed Universale, un panteistico Spirito Cosmico, indescrivibile, incorporeo, originale, infinito, assoluto, trascendente ed immanente, eterno, principio ultimo che non ha avuto inizio e non ha una fine; uno stato indifferenziato di puro essere, eternità e beatitudine, situato al di là di qualsiasi speculazione filosofica o moto devozionale, nascosto in tutte le cose; la causa, la fonte, la materia e l'effetto di tutta la creazione conosciuta e sconosciuta; origine di tutti i Deva (esseri celesti), rappresenta la base del manifesto e dell'immanifesto. Nell’induismo Dio include la totalità dei suoi singoli aspetti, può apparire personale o impersonale; deva e/o asura, creatore o distruttore; femminile o maschile, femminile creatore e materno come Devi e Bhavani (Colei che dà vita) o nell’aspetto terribile e distruttore come Kali, che per amore del devoto uccide i demoni o è la morte stessa; Shiva nel suo aspetto maschile, creatore e paterno è chiamato Shankara (Benefico), mentre nell’aspetto terribile è Hara (Distruttore). Nel caso ci si riferisca a Dio come Dio-persona si parla di Isvara, (‘il Signore Supremo’), o il Dio con una sua individualità, con specifici attributi, con Nomi (in sanscrito, nama-rupa) e Forme (murti), il Dio dotato di tutti i poteri, al tempo stesso immanente e trascendente, il Dio che per amore dell'uomo si incarna come Avatar ed impartisce gli insegnamenti necessari per raggiungere la realizzazione spirituale. Ai fini di una comprensione, per quanto possibile corretta, di tali fenomeni, contradditori o meno, dal punto di vista filosofico, religioso e mistico occidentale, l’induismo è un monismo o non-dualismo, cioè la sostanziale 2 La differenza tra Brahman, la fonte ultima di ogni energia divina, e Brahma il creatore del nostro universo particolare, presenta un parallelismo con la distinzione che fa Platone tra l’Iperuranio (la zona al di là del cielo , da cui il nome, dove risiedono le idee ed il Bene) e il Demiurgo, in greco d?µ???????, composto da "d?µ???", cioè "del popolo", ed "?????", cioè "lavoratore", quindi lavoratore pubblico o compositamente artigiano).

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unità dell’Essere-Uno- Tutto, unico principio ontologico (dal greco ??t??, genitivo singolare del participio presente ? ? di e??a?, più ?????, letteralmente ‘discorso sull'essere’), essenza, sostanza o energia divina in questo universo e in altre dimensioni metafisiche.3 Infatti l’induismo come monismo o non-dualismo non nega la molteplicità dei fenomeni, solo che essi vengono considerati come manifestazioni non sostanziali4 di un unico essere, essi sono parte unica della sostanza e da essa inscindibili. Pur se distintamente percepita dagli esseri umani, la molteplicità dei fenomeni e il dualismo (es. bene e male, o l’uno e il molteplice) non negano di per sé l’unità del tutto, essi in realtà sono frutto di una parvenza illusoria. Inoltre, per l’induismo, nella dicotomia (dal greco dùichos ‘di due’ e ‘tomé’ taglio) luce e tenebre, queste ultime sono luce che non si è manifestata, com’è inteso in un area che va dall’Afghanistan e dal Pakistan fino alle coste occidentali dell’Oceano Pacifico, e non un qualcosa di antagonista, per il principio di non contraddizione. Il Rg Veda inneggia appunto ad un essere-non-essere o Bhraman, ad un respiro privo di respiro, forza immanente che viene auto proiettata nell’esistenza cosmica e, successivamente, si estende alla meditazione o ad altri sistemi spirituali come lo Yoga e il Tantra. La natura monistica o non dualista dell’induismo forse potrebbe ricercarsi proprio nella religiosità della più evoluta civiltà Dravida, espressa nelle culture di Harappa e di Mohenjo-Daro precedente l’arrivo delle tribù indo-iraniche. L’incontro di quelle culture con le culture precedenti e con gli indoeuropei ha generato la simbiosi tra i vecchi ed i nuovi déi (similmente a quanto è avvenuto nella società dell’antica Grecia nel Mediterraneo),5 una sorta di ierogamia (specchio della fusione tra popoli; generalmente la fusione avviene quando

3 Per il Monismo visto come non-dualismo la realtà non è né fisica né mentale ma consiste piuttosto in uno stato indescrivibile stato di realizzazione superiore e quindi non è possibile spiegare e descrivere la non dualità in termini oggettivi come soggetto/oggetto e osservatore/osservato, però questo stato di consapevolezza non dualistica si può raggiungere tramite percorsi filosofici, religiosi e mistici. 4 In filosofia per sostanza, dal latino substantia, derivazione dal greco ?p????µ???? (hyupokeimenon), letteralmente traducibile con ‘ciò che sta sotto’, si intende ciò che è nascosto all'interno della cosa sensibile e che non muta e quindi ciò che propriamente e primariamente è inteso come elemento ineliminabile, costitutivo di ogni cosa per cui lo si distingue da ciò che è accessorio, contingente. Per sostanza, in altre parole, si intende ciò che è causa sui, ovvero ha la causa di sé in se stessa e non in altro. Il termine ‘sostanza’ viene spesso utilizzato al posto di essenza: i due termini che rimandano ai due aggettivi corrispondenti di essenziale e sostanziale, nel linguaggio comune significano la stessa cosa: ciò che è fondamentale alla costituzione di ciò a cui ci si riferisce. Il termine essenza, vuol dire ‘ciò che realmente è’, e corrisponde al greco ousìa, cioè natura costitutiva di un ente, ciò per cui una cosa è quel che è anziché un'altra cosa, come l'insieme delle determinazioni che caratterizzano una certa cosa in quanto tale. O ancora: il nucleo fondamentale e immutabile dell'essere specifico, contrapposto alle affezioni o accidenti, che sono inessenziali. Per questo, in base alla sostanza ed all’essenza, nell’Induismo la molteplicità dei fenomeni è non contingente e non sostanziale in quanto essa è manifestazione del Brahman. Inoltre i fenomeni, anche se hanno determinate specificazioni, essendo mutevoli sono, appunto, affezioni o accidenti, accessori e inessenziali. Il Buddhismo, col termine sanscrito anicca (impermanenza), ossia che tutto quanto è composto di aggregati (fisici o mentali) è soggetto alla nascita ed è quindi soggetto a decadenza ed estinzione degli aggregati che lo sostengono (una delle verità del Buddha), affermerà, spingendosi oltre, che i fenomeni sono illusione e l’attaccamento ad essi è all’origine della sofferenza. 5 Come accennato al capitolo precedente, in Genesi di un dio, Indra presenta tracce pre-arie di Rudra, padre dei Maruts, anch’egli associato ai fenomeni atmosferici.

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alcuni conquistatori e/o loro figli sposino principesse dei popoli assoggettati, come è avvenuto nelle Americhe tramite i Conquistadores). Ai fini di questo studio, una volta chiariti e compresi i determinanti aspetti dell’induismo e delle sue più antiche radici, va notato che spesso nei testi vedici che gli stessi déi appaiono a volte coi nomi di Deva o Asura, di Aditi e di Adityas. Deva e Asura.6 I Deva e gli Asura sono i figli di Prajapati, ?signore della creazione’, creatore e sostegno dell'universo e degli dei.7 Deva (maschile) o Devi (femminile), ‘colui/colei che emana luce’, derivano dalla radice sanscrita div,8 ‘brillare’, ‘splendere’, ‘emettere luce’.9 Deva/Devi è il termine sanscrito per indicare dio, divinità, ma anche, in senso lato, essere celeste, semidio, angelo. Ognuno ha un nome e determinati attributi (come Surya per il sole). Deva si lega a Dyaus, il cielo sereno e luminoso. All’inizio i Deva erano le divinizzazioni, personificazioni maschili delle forze e dei fenomeni della natura; successivamente, con l’influsso dei culti indigeni delle Dee Madri, sono state incluse le figure femminili di Urmya e Usas (Alba), Ila (Parola e Azione Sacra), Sarasvati (Fiumi e Musica), Mahi la grande, Nirrti (Morte e Distruzione). Inoltre, nell’induismo capita che tra i Deva avvengano assimilazioni e scambi di attributi, per cui le stesse qualità e imprese appaiono in diverse divinità, che diventano tra loro indistinte nei caratteri. Quando gli dei si mostrano agli uomini, non sudano, né battono i piedi, non hanno ombra (tranne Rama in un luogo chiamato Subhumika) e indossano ornamenti floreali che non appassiscono mai (tranne, in altre fonti, quando essi hanno paura). Asura pare derivi da as (essere, esistere) o da asu (respiro, vita), oppure da svar (splendere),10 ovvero dalla comune origine *ansu (spirito, fantasma, 6 James Stutley e Margret Stutley Dizionario dell’Induismo, pgg. 34,.103,. 108; Edizioni Astrolabio - Ubaldini, 1980. 7 Prajapati è il ‘signore della creazione’, creatore e sostegno dell'universo e degli dei. Epiteto di Brahma e talvolta di Indra. Più tardi questo titolo fu assegnato a Manu e ai sette Rishi (Angiras, Bhrigu, Daksha, Kashyapa, Narada, Vasishtha e Visvamitra) che in seguito divennero dieci o ventuno, se si segue il Mahabharata. 8 Il sanscrito vedico possiede una serie di fonemi cerebrali e precisamente le consonanti cerebrali degli aborigeni (che si sforzavano a parlare la lingua dei padroni) che non si trovano in nessun altro idioma indoeuropeo. Questo processo di simbiosi razziale, culturale e religiosa sin dall’epoca più antica avvenne man mano gli arii avanzavano nel bassopiano gangetico. (Nel Rg Veda il gioco popolare è quello dei dadi -parallelismo con Giulio Cesare che dice il dado è tratto-: ad esso è dedicato un intero inno ?,34 o). Nel Rg Veda VIII, 46, 32 Dasa è lodato perché protegge i Bhramani, i matrimoni con gli autoctoni lasciano tracce nella lingua. 9 Nella mitologia del Rig Veda i deva sono 33 esseri celesti che si contrappongo ai malvagi demoni asura, in fonti successive il numero dei deva conosciuti è di 330 milioni, forse un numero simbolico a dimostrare la presenza dei 33 esseri celesti in tutte le loro molteplici forme nel creato. 10 I linguisti hanno trovato un’affinità tra Asura - Ahura - Ouranos. N.d.a: a meno che non si tratti di sincope linguistica, cioè di eliminazione di una lettera o di una sillaba all’interno di una parola tra Asura - Ahura pare difficile riscontrare tale affinità in quanto A-sura significa in realtà ‘non splendere’ e quindi gli Asura successivamente hanno sviluppato il carattere negativo e sono stati identificati coi demoni. Bisogna dire che

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dio, demone, a seconda del contesto, ma comunque il soffio vitale) come Julius Pokorny ricostruisce nel suo Indogermanische Etymologisches Wörterbuch.11 Gli Asura, a cui spesso ci si riferisce come demoni, sono un gruppo di deità alla ricerca di potere. Essi compaiono soprattutto nelle Ithasa (lett. Racconti) o nei Purana (lett. Completamento) e nei poemi epici Ramayana (lett. Il viaggio di Rama, Rama è il settimo Avatar – Incarnazione di Vishnu) e Mahabharata (lett. La grande storia dei figli di Bharata). Asura significa letteralmente ‘senza sole’. Essendo il Sole da sempre il simbolo Divino Assoluto, la parola Asura identifica qualunque essere che si oppone a Dio, ossia tutte le forze e le entità che operano per fini malvagi. Gli Asura sono i figli primogeniti di Prajapati e rappresentano i vecchi déi (probabilmente le divinità pre-vediche non arie), Indra, appartenente ai Devas, guidò gli Dei giovani nella lotta contro i primi:12 Indra trionfò su Dasyu e da allora gli Asura furono mandati nelle tenebre. La credenza nella discendenza comune delle figure antagoniste costituisce uno dei temi favoriti per illustrare l’unità primordiale. Gli Asura sono forze non perfettamente individuate ma legate o a fertilità o a fenomeni naturali o altri quali malattia e siccità nel Rg Veda. Però nei Veda Asura viene impiegato per esprimere potenze sacre specifiche di una situazione primordiale, prima dell’organizzazione del mondo. Attuando un passaggio in termini cosmogonici e passando dallo stato caotico allo stato organizzato, i Deva si appropriano di queste potenze sacre usufruendo dell’epiteto Asura, finché alla fine Deva e Asura diventarono sinonimi per indicare entrambe le vitali energie creative (l’una legata alla luce e al principio d’ordine cosmico, che guida e/o contiene l’altra, unita alla forza cieca, caotica) o meglio (proprio per la natura monistica dell’induismo) l’aspetto diurno e quello notturno dimoranti in uno stesso dio: ad esempio Varuna, come Deva è Grande Sovrano e, come Asura, assume (legandosi alla terra) l’aspetto di fecondatore nella pioggia, nelle acque, nell’oceano o in altri fenomeni naturali come Vayu, il vento (che invece è un’epifania cosmica). invece Asura è affine ad Aesir (da cui per sincope linguistica, perdita di una lettera o sillaba, l’inglese Sir o il più comune Sire - il re, ad un caso di sincope è succeduto come opposto l’epentesi, acquisto di lettera o sillaba. Un’ attinenza potrebbe esserci con Æsir o Asi, gli dèi signori assoluti del cielo nella mitologia nordica e forse col latino axis: in tale contesto la divinità come asse centrale da cui parte la luce). In Iran gli Ahuras sono gli Yazatas che difendono Asha, la verità, e quindi Ahura e Ouranos sono più affini perché legati al Cielo che ad Asura; non si spiegherebbe altrimenti perche Ahura in Iran è un termine positivo e Asura in India un valore negativo. Forse tra le stesse tribù Indo-Iraniche, a seguito di faide tra loro, vi è stato uno scontro tra le due diverse concezioni Monista e Dualista e perciò all’origine dell’inversione della moralità, oppure, come dice Eliade nella Storia delle Credenze e delle Idee Religiose, vi siano state delle sostituzioni come avvengono nelle tradizioni. Tutto ciò è un mistero a meno che la risposta non sia come ha affermato Julius Pokorny nel suo libro Indogermanische Etymologisches Wörterbuch, che le parole Ahura e Asura derivino da ansu (spirito, fantasma, dio, demone, a seconda del contesto ma comunque il soffio vitale). Non è escluso che per simbiosi o per estrapolazione i caratteri Ahura e di Asura come anche as - essere, esistere o asu - respiro si siano fusi, tali commistioni e polisemie (tanti significati) sono normali nell’induismo, ciò fa pensare che esso è una credenza in continuo divenire. 11 Indogermanische Etymologisches Wörterbuch, pubblicato dall’Editore Francke Berna 1959 (testo citato anche in Dizionario dell’Induismo di James Stutley e Margret Stutley) 12 Nel Rg Veda i Pani rubano le vacche e rifiutano il culto vedico. Nei Veda compaiono i termini rovine (arma, armata), dasa (schiavo).

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Aditi e gli Adityas Aditi13 e gli Adityas sono un gruppo di divinità vediche. Gli Adityas sono figli di Aditi e di Kashyapa. Aditi, il cui nome vuol dire A (non) Diti (limitata) e quindi illimitata, senza legami, libera, larga, sconfinata, simboleggia l’energia o la potenza cosmica, è la forma femminilizzata di Brahma principio dell’universo, mentre dalla e nella sua matrice cosmica nacquero tutti i corpi celesti. Come vergine celeste e madre di ogni forma ed essere esistente, è la sintesi di tutte le cose, di tutto ciò che è stato e che deve ancora essere (Rg Veda I, 89,10). Aditi nel Rig Veda è identificata anche con Vâc (la parola mistica) e nel Vedanta con la Prakriti (la materia base di cui consiste l’Universo, come l’atomo) o Mulaprakriti (base della materia, come il quark). Come grembo dello spazio, nel Rig Vedaè detto che «Daksha14 era stato originato da Aditi e Aditi era stata generata da Daksha» (RV 10.72.4): ciò si riferisce al «l’eterno ciclo di ri-nascita della stessa essenza divina» (un tentativo dei rsi di definire l’astratta natura dell’esistenza, nel momento in cui non c’era ogni cosa né il nulla). In uno dei maggiori aspetti mistici, Aditi è la divina saggezza. Aditi è la dea dello spazio, della conoscenza, il passato, il futuro, dea della fertilità, vacca cosmica; è Devamitri – Madre di tutti gli dei, colei nella quali tutti gli altri dei sono contenuti. In origine Aditi era una grande Dea madre che, senza essere dimenticata, ha trasmesso le qualità e le sue funzioni ai suoi figli. Kashyapa (il cui nome pare sia l’anagramma di pashiaka - veggente) era un antico saggio (rishis), uno dei Saptarishis (sette saggi) nel presente Manvantara (una misura astronomica del tempo) insieme agli altri esseri Atri, Vashishtha, Vashvamitra, Gautama, Jamadagni, Bharadvaja. Egli è il padre dei Devas, degli Asuras, dei Nagas (i serpenti) e di tutta l’umanità. Nel Mahabharata e nei Purana unito ad Aditi, è il padre di Agni, degli Adityas, mentre unito alla seconda moglie, Diti, generò i Daityas (i giganti). Egli rappresenta il tempo e lo spazio. Aditya è la personificazione di determinati aspetti della natura (tradizione cosmogonica sul tipo degli Asura) che simboleggiano, ognuno e collettivamente, l’intera gamma di manifestazioni fenomeniche, sono aspetti della luce e vengono assimilati al sole col nome di Aditya. Nel Rg Veda, variano da cinque a sette (RV IX, 114,3); sono otto se s’include Martanda (poi cacciato via da Aditi che rivivrà in RV. X 72 – 78 come Vivasvana, con un verso «Così coi suoi Sette Figli Aditi andò avanti ad incontrare la prima età. Ella portò Martanda ovunque per generare alla vita e alla morte di nuovo»). Gli otto sono Mitra, Varuna, Dhatar, Aryaman, Amsa, Bhaga Vivasvat,

13 Vedi nota 5 14 Daksha, ‘l’abile’, è un antico dio creatore, uno dei Prjapatis, dei Rishis e degli Adityas ed un figlio di Aditi e Brahma. (In Kashyapa, un’altra fonte, egli si dice di essere padre di Diti (limitata) e Aditi, mogli Kashyapa e sorelle di Sati.

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Aditya15 (in Surya RV II, p,478 .9 e nello Yajur Veda - Taittiriya Samhita). Nello Satapatha Bhramana (XI. 6.3, 8) le divinità solari sono dodici, rappresentano i dodici mesi dell’anno e sono: Amsa, Aryaman, Bhaga, Daksha, Dhatr, Indra, Mitra, Ravi, Savitr, Surya, Varuna,Yama. Il Vishna Purana invece li enumera cosi: Visnu, Sakrea, Aryaman, Dhuti, Tvastr, Pusan, Vivasvat, Mitra, Varuna, Amsa e Bhaga. Definiti gli Adityas si potranno esaminare adesso, sempre in tale contesto, le figure di Varuna e Mitra e il loro rapporto, fino ad arrivare a trattare quest’ultimo più diffusamente. Varuna16 e Mitra17 La figura di Varuna è stata già ampiamente trattata [alla nota 3 del precedente capitolo]: nei Veda, Varuna è Dio, grande Asura (titolo relativo alla più antica famiglia di dei), Signore e Grande Sovrano. Varuna è il custode delle norme e dell’ordine cosmico, è Sahasraksa (dai mille occhi) e niente è a lui nascosto. Si noti che nel Rg Veda vi sono tracce dello spodestamento di Dyauspitar da parte di Varuna promosso a Re Universale, tracce che appaiono come un riflesso o la prosecuzione di un processo molto più antico di cui non si conoscono bene le tappe.18 Pur mantenendo i caratteri uranici di Dyauspitar, ha (come abbiamo visto) quelli della fecondità, è Visva – Darsata visibile in ogni luogo (RV VIII, 41, 3), il vento è il suo respiro (Rg V VII, 87, 2), si mostra al primo rombo di tuono e fa piovere il cielo con miracolo divino, con nuvole diversamente dipinte.19 Inoltre Varuna è unione degli opposti (ambivalenza ed unione dei contrari) legato a rta (ordine) e maya (da may

15 Nel Buddhismo Aditya è il nome di un Buddha, da qui l’epiteto di amico del sole; (Encyclopaedia of Buddhism, a cura di G.P. Malasekera, fascicolo 1). 16 Storia delle Credenze e delle Idee Religiose cap.VIII e Trattato di Storia delle Religioni, pgg. 65-71. 17 Vedi nota 5, pgg.280 -282. 18 Se esiste una comune origine dei popoli indoeuropei e delle loro tradizioni, non è da escludere che le tappe dello spodestamento di Dyauspitar da parte di Veruna, che assurge a Re Universale, possano trovarsi come eco del mito di Urano. Nella mitologia greca, Urano (in greco ? ??a???, ‘cielo stellato, firmamento’) è una divinità primordiale, personificazione del Cielo in quanto elemento fecondo. Nell'opera di Esiodo, Teogonia, egli è figlio di Gaia (la Terra). Altri poemi e racconti ne fanno il figlio di Etere (il Cielo superiore), senza che, in questa tradizione risalente alla Titanomachia, ci sia rivelato il nome della madre. Molto probabilmente quest'ultima era Emera (la personificazione del Giorno). Secondo la teogonia orfica, Urano e Gaia sono due figli della Notte. Urano era figlio di Gea, la Madre Terra, con la quale si unì dando vita ai Titani, ai Ciclopi ed agli Ecatonchiri (o Giganti Centimani) . I Giganti Centimani furono generati dalla pioggia che Urano fece cadere sulla Gea, la Terra Feconda. Vennero imprigionati nel Tartaro, assieme ai Ciclopi. Gea (detta anche Gaia) allora persuase il figlio Crono, l'ultimo dei dodici Titani che generò da Urano, a prendere il posto del padre. Urano, colto nel sonno, fu così evirato e dal suo sangue caduto sulla terra nacquero le Erinni. I genitali vennero lanciati in mare generando la dea dell’amore, Afrodite. Ora il luogo di questa mutilazione è stato situato in diverse parti del Mediterraneo: solitamente si identifica con Capo Drepano (difatti

in greco significa ‘falce’ da cui Trapani); talvolta si colloca questo luogo nell'isola dei Feaci, che sarebbe stata il falcetto di Crono gettato in mare e radicatosi in quel luogo. infatti si diceva che i Feaci fossero nati dal sangue del dio); ed infine alcuni lo collocavano in Sicilia, la quale, fecondata dal sangue del dio, sarebbe divenuta davvero fertile. 19 Vento e Sole (come vedremo) presentano i tratti caratteristici degli dei sovrani.

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cambiare)20. La figura del dio, in seguito, andrà in declino ed egli diventerà, come Dyauspitar, un deus otiosus. Mitra,21 (Mitrin ‘unito da amicizia’, Mitrya ‘amichevolmente’ e Mithuna ‘Coppia’, 22 in senso politico rapporto tra sovrano ed alleato, cui si offre burro), nel Satapatha Bhramana (V, 3. 2, 6-7) non arreca offesa. La sua importanza nell’attività e nel pensiero religioso si manifesta soprattutto quando è invocato insieme a Varuna come sua antitesi e complemento. Infatti la forma Mitra - Varuna svolgeva un ruolo di primo piano come massima espressione della sovranità divina (potenti e sublimi padroni del cielo), formula esemplare per tutti i tipi di coppie antagoniste e di opposizioni complementari. Per gli antichi Indiani Mitra è il dio sovrano nel suo aspetto di Deva perché pacifico, razionale, chiaro, regolato, calmo, benevolo, giuridico e sacerdotale; come dice il suo nome è il contratto personificato, il sole è il suo occhio (Taitt. Bragi III, 1,5,1) e nulla sfugge alla sua onniveggenza; mentre Varuna è considerato nel suo aspetto di Asura perché aggressivo, cupo, ispirato, violento, terribile, guerriero. In altre fonti Mitra-Varuna sono un unica figura, due giovani affascinanti, splendenti come il sole e tremendi, per loro viene spremuta la bevanda del Soma. Nei Veda a Mitra e Varuna sono associati Aryaman (protettore degli Arii) e Bhaga (vuol dire parte, assicura la distribuzione delle ricchezze): insieme (a volte con altri Dei) formano lo stretto gruppo degli Aditya. Nello Shatapata Brahamana23 Mitra e Varuna sono Dvamdva24 (Mitra rappresenta il Consiglio - Sacerdozio e Varuna il potere, anche quello regale.25 In un tardo rituale vedico viene prescritto per il sacrificio una vittima bianca per Mitra (il giorno) e una nera per Varuna (la notte). Mitra è comunque isolato da Varuna e svolge un ruolo secondario. I versi dedicati a lui nei Veda26 Rg Veda 3.59. 1-2 e Ky 3.4.11 sono i seguenti (la traduzione risulta piuttosto approssimativa): 20 Nel Rg Veda Maya è il cambiamento che distrugge i buoni meccanismi, demoniaco e ingannatore e anche alterazione dell’alterazione. Ci sono maya buone (contromaya) che Indra usa per misurarsi contro gli esseri demoniaci e quelle creatrici di forme e di esseri, privilegio degli dei sovrani in primo luogo di Varuna (potenza creatrice di Varuna) che ristabilisce la rta (ordine). Maya (specie nel Buddhismo) significherà l’illusione cosmica. 21 Vedi nota 5 22 Calendario Indù: ve ne sono diversi, uno solare diviso in Saur Maas o Mesi solari, dove l’anno solare è diviso in dodici parti/rashi. Il mese di Mithuna corrisponderebbe al mese Jyaishtha del calendario nazionale indiano, inizia il 23 maggio e termina il 21 giugno del calendario gregoriano, solstizio d’estate (tale data avrà significato specie nei culti zoroastriani in Iran e nei culti misterici, specie in quello di Mitra, nell’Impero Romano). 23 Il Brahamana è un testo posteriore ai Veda e rappresenta la loro seconda parte, significa ‘relativo al Brahaman’ e parte degli Shruti - sacri testi, nome affine al latino scriptum e al tedesco schriften. Lo Shatapata Brahamana letteralmente significa ‘I cento sentieri di Brahamana’ dove Shata-cento è affine con l’estone sada, col finnico sata, col rumeno suta e con diverse lingue slave, mentre patha è affine con l’inglese path – sentiero. 24 Che vuol dire, in tale contesto, coppia di opposti;deriva dal sanscrito dva-due. 25 Collegandosi a rta. 26 (Letteralmente ‘Sapienza’ dal sanscrito vid -sapere affine al latino videre). I Veda constano di quattro testi sacri: Yajur Veda, Sama Veda, Rg Veda (Sapienza degl’inni; vi sono 1028 Sukta, cioè ben detto) dove a lui sono dedicati dei versi), Atharva Veda. Vennero elaborati in sanscrito (samskrta - perfetto) tra il 1500 e il

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Ecco Mitra quando parla, si risveglia uomo alla fatica: Mitra sostiene tutt’e due, Cielo e Terra. Ecco Mihtra uomo che non chiude occhio. Mitra che con olio sacro porta l’offerta. Il Sole guida tutto conoscendo tutto. Egli sostiene la Terra e il Cielo. Guarda tutta la creazione. Da noi che espressamente offriamo inni per ottenere gli elargiti frutti eterni. O Sole che sei Mitra, colui che viene ad adorarti con scrupolo ottenga il completo beneficio della rettitudine. Mitra, qui, è: 1) la luce dell’alba 2) Mitrasya: dei raggi di luce 3) Devasya: divinità che origina lo splendore dell’universo27 Mitra è lodato come un dio dell’ordine, della stabilità (vedi radice mi) e come legislatore,28 è colui che regge l’umanità29 e tutti gli dei.30 Pare che la radice Mi abbia attinenza con Me - Meru, il monte Meru che fu creato da Brahman (divinità suprema dell’induismo, creatore universale, impersonale da cui tutto origina e tutto ritorna). Il monte Meru è l’asse dell’universo da cui originano le otto direzioni più altre due (il sopra e il sotto); una delle otto direzioni che parte dal monte è Mitra, la luce del giorno.31 Infine, nel Buddhismo pare che Mitra sia collegato con Maitreya il Buddha futuro dopo Siddharta Gautama detto Shakyamuni. Egli otterrà l’illuminazione (collegamento con Mitra, la luce), libererà (suffisso tra) gli uomini e reggerà (radice Mih) il mondo. Pare che il nome di Mitra compaia anche in Cina, forse nel Sinkiang o Xinjiang Uygiro o Tibet, forse giunto attraverso i commerci con l’India, la Persia e, più tardi, con i commercianti provenienti dall’Impero Romano attraverso la Via della Seta. Ma in un documento del 13 gennaio del 2006 pubblicato su Internet,32 Frantz Grenet (accademico dell’Ecole Normale

1200 a.C. a seguito delle invasioni Arya e redatti definitivamente nel 1000 a.C. quando queste popolazioni si stanziarono definitivamente. Gli Arya (Nobili) erano tribù barbare seminomadi appartenenti alla famiglia delle lingue indoeuropee o indogermaniche che avevano origine dall’arco orientale del Mar Nero (partendo poco più ad ovest della Crimea fino alle coste della Cappadocia; est della Turchia), dall’area del Khurgan, dalla regione montuosa del Caucaso situata tra il Mar Nero e il Mar Caspio e dall’Iran (che vuol dire appunto terra degli Arya). Coi loro carri da guerra raggiunsero e valicarono la catena dell’Hindu Kush, invasero e distrussero i siti della valle dell’Indo abitata dai Dravidi (primi abitanti dell’India, le cui civiltà si ricollegano a quelle della Mesopotamia, che fondarono lungo il corso dell’Indo Harappa e Mohenjo-Daro e avevano già una scrittura, ancora oggi non ancora decifrata) fino a raggiungere la pianura del Gange. 27 Deva + sya o asya. Deva è affine al latino dDivus che è affine anche a dies – il giorno e quindi la luce e tutto il bene che ne scaturisce; infatti gli dèi stanno davanti agli uomini avvolti dalla luce. In sanscrito, la desinenza sya è il genitivo/qualità-attributo del nome terminante in “a”. 28 Vrata, affine a ciò che si è detto di rta e al latino vereo/or, vertum, veritas. 29 carani – dhrt: carani affine a caro – carne, polpa e dhrta affine al latino di rictus; carani (radice) – dhrt (possesso) vuol dire ‘del coltivatore’ colui che possiede la radice. 30 Devan Vishvan, dio compenetrato del suo suono/di sé; devan è affine a divus e vish, persuadere, affine al latino vis – forza anche interiore o distruttiva di elementi naturali, vigore, energia. 31 La continuità tra il Mitra Vedico e il Mithra Zoroastriano sta nel fatto che entrambi vengono detti degni di venerazione (nel proto-iraniano Yazatah In Persiano Medio Yazad o Yazd, in Neo Persian Izad che vuol dire appunto degno di venerazione dalla radice del verbo yaz – adorare, onorare adorare). 32 http://www.iranica.com/newsite/articles/ot_grp10/ot_mithraicon_20060113.html.

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Supérieure-Laboratoire de Archéologie di Parigi (http://frantz.grenet.free.fr/index.php?choix=cv), afferma che è stato trovato a Xi’an un ossario di espatriati Sogdiani (originari dell’odierno Tajikistan che confina ad est con la Cina). Nei rilievi del sarcofago in pietra di Yu Hong, un Iraniano o Centrasiatico proveniente da un non identificato paese (probabilmente del Tajikistan) che morì in Cina nel 593, è comunque probabile che sia Mitra il dio che, cavalcando, va incontro ad un cavallo scarificale (Marshak, 2001, pp. 254-56). Riflessioni Se Varuna è diventato col tempo un deus otiosus e, come affermano James e Margaret Stutley nel Dizionario dell’Induismo, gli Adityas sono aspetti della luce assimilati al sole che assume il nome di Aditya, ciò spiegherebbe perché Mitra, nella tarda mitologia induista, si è fuso (per simbiosi e/o fusioni come direbbe Eliade) con Savitar e Surya, come afferma Sri RhamaKrishna33 nell’opera in tre volumi The Cultural Heritage of India34, pur essendo essi in precedenza divinità individuali. Non dimentichiamo che il sole, come “occhio di Mitra”, è una epifania (manifestazione divina) da cui successivamente è originata la figura divina di Surya e/o Savitar (molti sono i nomi del sole e nel Mahabharata, Dhaumya, recita i 108 differenti nomi del sole tra cui Mitra, Surya e Savitar). Come dice anche il Rg Veda (X, 93, 4) «Mitra è il fulgore del sole». E’ indicativo come una civiltà indoeuropea protostorica e successivamente storica, parta dal concetto divino del cielo e poi, venendo a contatto con altre tribù e soggiogandole, faccia nuove esperienze e nel frattempo, sviluppandosi a tutti i livelli, da uno stato più caotico e confuso dove ogni aspetto della realtà confluisce in un unicum a società sempre più complessa, crei nuove figure divine, specchio magari di figure specifiche della realtà quotidiana (da Dyauspitar si origina Varuna - la regalità, da Varuna si originano Mitra e Indra, originariamente aspetti di uno stesso dio come il patto e la forza guerriera ecc o, come in area mediterranea, Efesto/Vulcano, la divinizzazione di colui che lavora il ferro e i metalli, il fabbro); finchè una moltiplicazione degli dei e delle figure divine per eccesso di specializzazione di una società che diventa sempre più complessa, genera alla fine confusione ed oppressione (un parallelismo, ad essere prosaici, lo vediamo in Italia con le migliaia di enti inutili che generano sperpero di denaro). Ecco che nasce, allora, un bisogno di semplificazione per fare chiarezza: infatti Buddha, pur non negando gli antichi dei, li spazzerà via nella predicazione della sua dottrina in quanto Maya (illusione cosmica).

33 Saggio e mistico indù, nato a Khudiram nel 1775 e morto a Cossipore nel 1886. 34 The Cultural Heritage.of India, Sri RhamaKrishna Centenary Memorial vol.1, p. 26. Una prova è è data dal Mahabharata. all’inizio del libro 12 Santi Parva, Sezione 314, dove Mitra e Surya coincidono; sembra chiaro che l’assimilazione delle figure sia avvenuta in periodo tardo vedico (redazione del Mahabharata tra l’VIII sec. a.C e il IV sec. d.C.); sicuramente c’era già nei Vedanta, gli ultimi scritti vedici.

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Similmente avverrà con Mitra, Surya e/o Savitar nella tarda mitologia induista. Tutto questo ci introduce alla figure di Surya e Savitar. Surya e Savitar Come afferma Eliade nei suoi testi Trattato di Storia delle Religioni e Storia delle Credenze ed Idee religiose, il sole predomina dove, grazie ai re, (sole = sovranità), agli eroi, agli imperi, la storia è in cammino. Il regime diurno dello spirito è dominato del simbolismo solare, le ierofanie arcaiche del sole rivelano una certa intelligenza globale del reale, senza mancare di rievocare contemporaneamente una struttura coerente intellegibile col sacro. La solarizzazione progressiva delle divinità celesti corrisponde allo stesso processo di erosione che, in altri contesti, portò alla trasformazione delle divinità celesti in déi atmosferici fecondatori, dove gli esseri supremi sono apparentemente indipendenti dalla vita umana. Già negli strati arcaici delle culture primitive si rivelano sia il movimento di trapasso degli attributi del dio uranico a divinità solare (specie in Africa), sia la fusione dell’essere supremo col dio solare.35 Surya,36 dio vedico di seconda categoria, è figlio di Dyaus ma è chiamato occhio del cielo od occhio di Mitra e di Varuna, e vede sia da lontano che il mondo intero. Secondo il Purusa Sukta (lett. inno a Purusa dove puru vuol dire uomo) il sole nacque dall’occhio del gigante cosmico Purusa (dopo la morte, il corpo e l’anima dell’uomo rientrano in Purusa)37. Surya è tirato da un cavallo, Et?sa (lett. ‘splendente’, di vari colori) e sette altri cavalli, ed il sole è, egli stesso, uno stallone o un uccello, un avvoltoio o un toro, o s’identifica in Mitra e Varuna. Altra variante è Savitri38 identificato in Surya, psicopompo (conduce le anime alla sede dei giusti) e ierofante (che conferisce l’immortalità), Prasavita Nivesanah (colui che descrive sia il suo itinerario notturno, sia il giorno). Il sole (tradendo valenze ctonio-funerarie) è anche morte per gli uomini che stanno sulla terra, mentre quelli che sono in cielo nella zona dov’egli si trova, sono immortali (Satapatha Bhramana II, 3,37). La notte e il giorno inaktosasa, sono sorelle, come dei e demoni asura sono fratelli: Dvaya Ha Prajapatya Devas Casurasca (di due specie son i figli di Prajapati, déi e asura sono fratelli). Il sole si integra in questa bi-unità divina, in certi miti ha un aspetto ofidico (cioè serpentino, figuratamente, tenebroso e indistinto) opposto all’essere manifesto. Il sole, sprovvisto di piedi per camminare, li riceve da Varuna apade padapratidhatave (lett. ‘senza piede lungo passo posto su’), è sacerdote di tutti gli Asura e i Deva, è seme nella matrice ed anche morte, genera i propri figli e li divora. Nello Satapatha Bhramana VIII 3,2, 13 tutti i mondi sono uniti ad Aditya (Sole, Surya, Savitar) per mezzo dei fili come le perle di una collana (il cui filo è Varuna, n.d.a.). 35 Tra le varie manifestazioni del divino l’arcobaleno, associato al sole, in tanti luoghi viene ritenuto un’epifania uranica (le gocce della pioggia illuminate dalla luce solare). 36 Vedi nota n.5, pg. 399 e pgg. 423 – 424. 37 Purusa (affine a Ymir delle saghe nordiche) è il macroantropo cosmico il cui corpo viene alla sua morte smembrato, 38 Ibidem

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Nello Satapatha Bhramana XI, 4,4,1 il sole è una delle sei porte verso il Bhraman impersonale (le altre sono fuoco, vento, acqua, luna e fulmine). Nel Mahabharata III, 3, 26 M. quando il mondo svanirà, gli Aditya appariranno come dodici soli. Mitra – Surya – Savitar, chiavi di lettura e continuum della ierofania del sole nelle tradizioni indoeuropee dall’India alla Britannia Riassumendo, dall’analisi svolta risulta che: - gli Aditya (in numero da sette a dodici) sono aspetti della luce e assimilati al sole che assume il nome di Aditya; - il sole come “occhio di Mitra” è una epifania uranica (manifestazione divina celeste); - nel Rg Veda (X, 93, 4) «Mitra è il fulgore del sole», - nel Mahabharata molti sono i nomi del sole e Dhaumya, recita i 108 differenti nomi del sole tra cui Mitra, Surya e Savitar. - nello Satapatha Bhramana tutti i mondi sono uniti ad Aditya (Sole, Surya, Savitar, VIII 3,2, 13) ed il sole è una delle sei porte verso il Bhraman impersonale XI, 4,4,1); - nel Mahabharata (III, 3, 26 M.) quando il mondo svanirà, gli Aditya appariranno come dodici soli; e nello stesso Mahabharata al libro 12 Santi Parva Sezione 314 Mitra e Surya coincidono; - come afferma Sri RhamaKrishna nell’opera in tre volumi di The Cultural Heritage of India Centenary Memorial al vol.1, p. 26, nella tarda mitologia induista Mitra, Surya e Savitar, dapprima divinità individuali, si sono fuse in quanto tra i Deva avvengono assimilazioni e scambi di attributi per cui le stesse qualità e imprese che sono in alcune divinità appaiono anche in altre diventando così indistinte tra loro nei caratteri. - il monismo o non dualismo è la sostanziale unità dell’Essere – Uno – Tutto, unico principio ontologico, essenza, sostanza o energia divina in questo universo e in altre dimensioni metafisiche. Esso non nega la molteplicità dei fenomeni, solo che questi vengono considerati come manifestazioni non sostanziali di un unico essere (in questo caso il Bhraman), e parte unica della sostanza e da essa inscindibili. Se pur percepiti dagli esseri umani, la molteplicità dei fenomeni e il dualismo (es. bene e male o l’uno e il molteplice) non negano di per sé l’unità del tutto, essi in realtà sono frutto di una parvenza illusoria, di conseguenza nell’induismo una cosa può/non può/potrebbe/non potrebbe essere singola/l’altra e/o più cose e, viceversa, esse, come un Deva e/o i suoi attributi, possono assumere diverse murti - forme (di quell’altro dio, oggetto, forma ecc.), in un abbraccio (come si direbbe in Occidente, ma è improprio) panteistico; - il dualismo, alla luce del principio aristotelico di non contraddizione, può essere visto nelle categorie antitetiche e opposte e sostanziali come la dicotomia: l’uno e il molteplice, luce e tenebre, bene e male. Pertanto le figure di Mitra, Surya e/o Savitar si possono vedere: - sia da un punto di vista dualistico, per principio d’identità, come diverse figure divine

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- sia da un punto di vista monistico, in cui i tre dei sono sia tre persone differenti, sia teofania e ierofania del sole: in quanto assimilati alla luce essi si sovrappongono o si fondono in un unico essere, Aditya, il sole. Anche se questo studio non pretende di essere la verità, i due punti di vista potrebbero essere un tentativo d’interpretazione circa la continuità delle tradizioni indoeuropee e della ierofania del Sole/Mitra che parte dall’India ed arriva all’Oceano Atlantico (portando in seguito questi caratteri nel Cristianesimo e giungendo fino alle coste occidentali dell’Oceano Pacifico), sempre tenendo conto delle origini che affondano nel Paleolitico e probabilmente in Iperborea (suffragando così le leggende).39 Ma di questo parlerò in un’opera più completa. BIBLIOGRAFIA Abbagnano, Nicola Dizionario di filosofia, UTET, Torino 1971 Aristotele La metafisica / G. Giannantoni, W. Kullmann, E. Lledò. - [Roma] : Rai Trade, [2006?]. - 1 DVD (62 min.) Aristotele Metafisica 2005 Torino, Aristotele teoretico. - Roma Istituto della enciclopedia italiana, 1993. -.: Aristotele teoretico, di Giovanni Reale. - Aristotele teoretico: interviste a Gabriele Giannantoni, AA.VV. Enciclopedia Garzanti di Filosofia, 1981 Milano, Garzanti, Brezzi, F. Dizionario dei termini e dei concetti filosofici, Newton & Compton, Roma 1995 Campbell, Joseph (1964). Occidental Mythology: The Masks of God. New York: Penguin Group. ISBN 0-14-004306-3. Cassirer, Ernst Da Talete a Platone 1992 Roma-Bari, Laterza Centro Studi Filosofici di Gallarate, Dizionario dei filosofi , Sansoni, Firenze 1976. Centro Studi Filosofici di Gallarate, Dizionario delle idee, Sansoni, Firenze 1976.

39 Dall’esame/disanima compiuto in questo studio l’autore ha constatato, ben a ragione, che i miti del tardo XIX secolo e XX secolo relativi al Sangue ed alla Razza non hanno fondamento e sono tipiche di una civiltà decadente avviata alla sua vecchiaia.

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ORIGINI MITICHE E SACRALI DEL DIRITTO (Giustizia, potere e diritto) di Antonio Osnato Contributo alla tavola rotonda Origini mitiche e sacrali del diritto, Palermo 28 maggio 2009, Liceo Garibaldi Nel’Antico Testamento Dio ama, preferisce il diritto e la giustizia: «Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia». Ingiustizia è per tutti coloro a cui non è stata fatta giustizia e tra costoro possiamo trovarci anche noi. La difesa della legge comporta dei rischi. Per servire la giustizia ci vuole coraggio. Per difendere i deboli contro i forti, per sostenere le ragioni dell’innocenza, per allontanare le ingerenze, per scacciare le seduzioni della ricchezza, le promesse di onori, le intimidazioni, al solo scopo di rispettare le leggi; per fare tutto ciò occorre forte solidità morale che può dare all’esercizio delle professioni legali la nobiltà di un apostolato. La fede nel diritto, il senso del diritto sembrano oggi vuote frasi. Nelle nuove generazioni c’è una diffusa tendenza a svalutare l’importanza del diritto ed a sopravvalutare l’importanza del fatto compiuto. Due popoli lottano per la conquista dell’Aventino: ma il diritto qual è, quello del vincitore o quello del vinto, quello che vuole mantenere le prprie leggi o quello che vuole instaurare un ordine nuovo in luogo delle leggi abbattute? In questa tormentosa storia sembra avere conferma la dottrina che risale ai Sofisti, secondo la quale come diceva Trasimaco “la giustizia è ciò che giova al più forte”. Non è forse vero che dalla forza bruta delle armi esce quell’ordine apparente che i vincitori chiamano diritto? Le proposte di riforme mirano sempre a porre leggi che si credono giuste al posto di quelle di cui si afferma il contrario. Anche le leggi, dunque, possono essere discusse e giudicate: e se una legge può essere giudicata ingiusta vuol dire che il diritto, che si prende come criterio per giudicare la legge, sta fuori della legge. E dove sta dunque questo diritto se non nella forza che abbatte le leggi, se non nel fatto che le rimuove? Ecco così che il giurista che un tempo si considerava la voce del giusto è scaduto nella opinione comune al livello di un equilibrista della dialettica che si esercita sul trapezio delle pure formule. A chi non è giurista il diritto appare un insieme di vuote formalità che sembrano fatte per tenere lontana la gente comune, per scoraggiarla dal voler capire qualcosa. Anche la terminologia quando si parla di legge o di diritto non consente equivoci. Qualcuno ricorderà quando nel 1960, nel carcere di San Quintino negli U.S.A fu eseguita la condanna a morte a carico di Cheryl Chessman. Il corrispondente da New York iniziò il suo servizio con le parole: “Ieri, Cheryl Chessman è stato assassinato.”

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La parola “assassinato” in luogo di quella “giustiziato” fu l’occasione di molte discussioni. La questione era la seguente: è lecito qualificare come assassinio l’esecuzione di una sentenza pronunciata da un tribunale in applicazione di una legge dopo un regolare processo? Alla legge si può riconoscere questo straordinario potere di trasformare il delitto in diritto? D’altra parte, sovente accade che quando sui quotidiani apprendiamo di feroci esecuzioni di uomini appartenenti alla delinquenza comune od organizzata, il cronista anziché scrivere che l’uomo è stato assassinato usa il temine giustiziato, seppure usando a volte le virgolette. Il conflitto tra la giustizia e la certezza del diritto sembra che sia divenuto di difficile soluzione perché nello Stato moderno il diritto è divenuto monopolio della legge, una legge prodotta dalla volontà di un legislatore sovrano che pretende di non avere nulla sopra di sé. Purtroppo questa tentazione si realizza anche in soggetti che agiscono al di fuori della legalità o che si oppongono alla legalità. La scienza giuridica è una di quelle di cui i potenti cercano il favore. Quando i giuristi si fanno sedurre o diventano “organici”, quando cioè il loro lavoro intellettuale viene messo a servizio, il tradimento è consumato (così si è espresso Gustavo Zagrebelsky nell’intervista rilasciata al Prof: Geminello Preterossi. Questa tentazione a diventare organici è espressa molto bene da Trasimaco, il contraddittore di Socrate nella Repubblica di Platone: giusto è l’utile del più forte, la giustizia si rovescia nel potere. Chi dispone delle leggi dispone della giustizia. La legge trasforma la forza ingiusta. A conclusione della Repubblica (Politéia) Platone pone il “mito di Er”. Er è un uomo che muore in guerra e compie un viaggio nell’aldilà. Ad Er è concesso di vedere cosa accade dopo la morte e di poter tornare su questa terra a raccontare quanto ha visto. Le anime, dopo la morte, giungono in un prato dove si aprono quattro vie. Una via conduce in alto verso il cielo ed una via discende dal cielo. Una via conduce in basso verso le profondità della terra ed una via risale dalla profondità. In mezzo alle quattro vie siedono i giudici delle anime. Azioni giuste ed ingiuste vengono valutate. Le anime giudicate giuste prendono la via verso l’alto, le ingiuste la via verso il basso. Dalla via che scende dal cielo arrivano le anime pure, dopo aver passato un periodo in cui hanno potuto contemplare visioni di beatitudine e di straordinaria bellezza. Vediamo così come i miti hanno sempre svolto una fondamentale funzione trainante nella storia della civiltà. Particolare interesse è dato dalla storia definita “Giudizio di Salomone” in cui il Signore dà a Salomone la capacità di distinguere il bene dal male. Salomone è considerato come un giudice al quale due donne si rivolgono affinchè regoli il loro litigio. Sono due prostitute senza marito, entrambe generano un figlio a distanza di tre giorni l’una dall’altra. Non c’è nessun testimone di questo fatto: nessuno che possa testimoniare né della nascita né della morte di uno dei due bambini. La posta in gioco è costituita dall’altro

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bambino: Questo bambino sembra essere considerato, almeno da una delle due donne, più come l’espressione della maternità che come un vero soggetto. Queste due donne si possono considerare come la metafora della nostra natura umana e del rapporto ambivalente che essa intrattiene con la vita e con la morte, con la menzogna e la verità. Una delle due donne mente, ma non sappiamo chi è, né il perché del suo gesto. Il compito del re è quello di fare emergere il desiderio di vita della vera madre. Salomone non può basarsi su quello che conosce delle due donne: l’assenza di testimoni rende vana ogni inchiesta. Ordinando di tagliare il bambino in due parti, il re mostra che cosa significhi per il bambino l’atteggiamento di rivendicazione delle due donne. Il re mostra alle donne qual è l’esito del loro gioco perverso e cioè la vita del bambino conteso. L’ordine del re provoca nelle donne reazioni opposte, perché una si pronuncia per la vita del bambino, l’altra per la sua morte. Nel momento in cui la decisione del re mette in evidenza che il suo atteggiamento conduce il bambino alla morte, per la prima volta una delle due donne abbandona il linguaggio dell’avidità e del possesso esclusivo per parlare il linguaggio del dono. Piuttosto che rivendicare per sé stessa il bambino, ella lo dona all’altra e quindi da al figlio la possibilità di vivere. L’altra donna immutevole nella sua posizione esclama: “Non sia né mio, né tuo”, così tradendosi poiché è mossa dall’invidia e dalla gelosia. La sola cosa che conta per lei è di possedere quello che l’altra possiede, accettando di esserne privata a condizione che la stessa cosa accada anche all’altra. Ma come potrebbe essere la madre del bambino, lei che non vuole che il bambino viva? Così l’ordine del re fa sì che ciascuna delle donne fa una richiesta contraria a quella che avevano fatto all’inizio. La prima rinuncia al bambino preferendo darlo all’altra piuttosto che vederlo morire; l’altra reclama la sua morte piuttosto che cederlo alla rivale. Così la verità appare nel momento in cui viene spezzato lo specchio delle apparenze. Il re definisce che cosa è una madre: è una donna che abbandona ogni forma di avidità nei confronti del figlio, per non soffocarlo, è coleì che rinuncia a trattare il bambino come un oggetto da possedere e che gli consente di condurre una vita autonoma. Il racconto non ha una finalità moraleggiante. Si tratta di un giudizio che libera l’innocente dalla morte ed il giusto dal caos, dalla confusione instaurata dalla menzogna; il re va al di là delle apparenze perché appaia ciò che è vero. Apprendendo il giudizio del re il popolo riconosce il segno della sua sapienza. Il desiderio che Salomone aveva manifestato nella preghiera di avere un cuore capace di discrnere il bene dal male per poter governare, è confermato davanti agli occhi di tutti. A Roma visitando la mostra dei dipinti di Giotto ho letto un pensiero di Vincent Van Gogh nelle lettere ad Emil Bernard nel 1890: «Il fatto è che

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Giotto e Cimabue vivevano in una civiltà fatta a piramide con un’ossatura interna costruita architettonicamente in cui ciascun individuo era una pietra, e tutti collegati formavano una civiltà monumentale. Noi, invece, viviamo in anarchico abbandono; noi artisti innamorati dell’ordine e della simmetria, siamo isolati». Che dire oggi dei giuristi e dei magistrati italiani che piatiscono una nicchia nelle segreterie o negli uffici di gabinetto di ministri o deputati e che fanno passerella in programmi televisivi?

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LE RAFFIGURAZIONI SIMBOLICHE DELLA GIUSTIZIA di Alfonso Giordano Contributo alla tavola rotonda Origini mitiche e sacrali del diritto, Palermo 28 maggio 2009, Liceo Garibaldi Nella mitologia grecoromana la giustizia è posta sotto la diretta tutela di Zeus, padre degli dèi. A lui il compito di amministrarla, imponendone il rispetto agli stessi immortali sia agli uomini e dispensando le leggi che ne permettono l’applicazione nella vita pratica. Questa discendenza divina e la consegna delle leggi a Minosse nell’isola di Creta preludono alla concezione cristiana espressa da Dante («Giustizia mosse il mio alto fattore») e alle tavole della legge dettate da Dio sul monte Sinai, testimoniando la sussistenza di una sintomatica ricorrenza nei grandi temi religiosi. Ma ecco che nel ruolo di amministratore della Giustizia Zeus ha bisogno d’essere affiancato da Temi e da Dike. La prima, il cui nome significa propriamente norma, regola, afferma la necessità della regolamentazione legislativa perché giustizia si compia; e la seconda, figlia di Giove e di Temi, è vindice nei confronti dei giudizi ingiusti. Ma, intanto, va segnalata la preponderanza delle figure femminili, giacché la presenza del padre degli dèi funge da termine di riferimento e la figura di Temi, in particolare, attraverso i tempi ha preso il sopravvento, in considerazione anche della concezione Omerica, sicché i giudici vennero definiti per antonomasia come sacerdoti di quella dea. Potrebbe esser questa una delle ragioni della personificazione al femminile dell’iconografia della giustizia, la quale è anche consonante col genere del sostantivo cui si riferisce. Sta di fatto che tale caratteristica è costante nei secoli, così come costante è la presenza della bilancia, la quale a sua volta, simboleggia l’accuratezza dell’indagine da parte di chi la giustizia deve amministrare. Ma c’è un elemento che, al contrario, non è sempre ricorrente e a ben guardare confligge con la presenza della bilancia, ed è la benda sugli occhi della donna eletta a raffigurare la Giustizia. Senza benda è la statua posta di fronte alla Suprema Corte di Washington, quella del palazzo di Giustizia di Brasilia, e in quelli di Milano e di Palermo. Serio, pacato e sereno è il volto della Giustizia Grottesca nella cappella degli Scrovegni di Padova. A tale immagine severa, dallo sguardo impenetrabile si può associare quella che Ambrogio Lorenzetti pone a sinistra del suo grande affresco Gli effetti del buono e cattivo governo. Anche qui a raffigurare la Giustizia è una figura femminile la quale guarda in alto verso la Sapienza che la sovrasta e l’ispira. Per contro, bendata, anche se bellissima è la Giustizia descritta da Edgard Lee Master nella famosa Antologia di Spoon River: Io vidi una donna bellissima con gli occhi bendati ritta sui gradini d’un blocco marmoreo

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Una gran folla le passava dinanzi. Nella sinistra impugnava una spada Brandiva questa spada colpendo ora un bimbo, ora un operaio ora una donna che cercava di ritrarsi, ora un folle nella destra teneva una bilancia nella bilancia venivano gettate monete d’oro da coloro che schivavano i colpi di spada. Un uomo in toga nera lesse da un manoscritto: NON GUARDA IN FACCIA NESSUNO. Poi venne un giovane col berretto rosso, balzò al suo fianco e le strappò la benda. Si vide allora che le ciglia erano corrose sulle palpebre marce le pupille bruciate da un muco latteo: la follia di un’anima morente le era scritta sul volto. Ma la folla vide perché portava la benda. La Giustizia bendata ricorda il Briglialoca del Gargantua e Pantagruele che affidava ai dadi la decisione dei casi presentatigli. E nelle illustrazioni della Nave dei folli di Albert Dürer la Giustizia è bendata da un pazzo con il berretto a sonagli che la sorprende alle spalle. L’ultimo elemento ricorrente è la spada. Lorenzetti dipinge la Giustizia con la spada ben dritta che sembra aver da poco mozzato la testa del tiranno che tiene ancora in grembo, sorreggendola con una mano. E’ palese che la spada rappresenta la forza necessaria perché la Giustizia possa essere imposta nei confronti dei renitenti. Scrisse il grande Pascal: «La giustizia senza la forza è impotente; la forza senza la giustizia è tirannica. La giustizia senza forza è contestata poiché i cattivi esistono sempre; la forza senza la giustizia è messa sotto accusa. Occorre dunque congiungere giustizia e forza e per questo bisogna far in modo che ciò che è giusto sia forte e ciò che è forte sia giusto». In conclusione, se la bilancia vale a rassicurare gli umili, i perseguitati coloro che hanno fame e sete della giustizia (Matteo, Il discorso della Montagna) e si rivolgono al giudice perché contrasti e vinca la forza che ottunde i loro diritti, la spada difficilmente viene adoperata in loro favore. Perciò essi sono beati. Resta, dunque, quale topos prevalente la femminilità della Giustizia. Perché femmina? A mio parere le ragioni sono molteplici e tutte valide. La donna, la figura femminile sembrano rappresentare con evidenza l’equilibrio dei rapporti che si svolgono nella natura sociale e biologica. E poi la stessa bellezza è certamente attributo femminile più che maschile. E il carattere muliebre indulge alla rappresentazione della grazia, dell’armonia, della serenità. Di più, un’imperiosa, indomita facoltà di caratterizzarsi, di rompere gli schemi, di esternarsi in mille forme tutte affascinanti e inconsuete. Quando

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si discuteva se il termine automobile dovesse considerarsi maschile o femminile, Gabriele d’Annunzio a chi chiedeva il suo parere, dopo aver acceso il motore della sua auto, ne saggiò il rombo, e rispose: – Senti? Senti? E’ femmina! Perciò, ancora una volta, ha ragione il poeta: «Donna, mistero senza fine bello!»

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ROMOLO E LA DISCESA DAL CIELO DEL DIRITTO Contributo alla tavola rotonda Origini mitiche e sacrali del diritto, Palermo 28 maggio 2009, Liceo Garibaldi Romolo, eponimo fondatore e primo mitico re di Roma, è considerato, anche, colui che dettò i primi ordinamenti dell’Urbe: e non avrebbe potuto essere altrimenti, perché fondare una città non significa soltanto tracciarne il solco del pomerio, erigerne le mura, costruirne i principali edifici civili e religiosi, raccogliere nel suo spazio materiale un gruppo di persone in comunità d’intenti con il fondatore; ma, pur nell’indispensabilità di questi presupposti, significa anche dettare le regole, alle quali coloro che si riuniscono tra quelle mura devono attenersi. E non solo: significa anche stabilire la condizione di coloro che vogliano aggregarsi alla nuova comunità e regolare i rapporti con le popolazioni vicine, in pace e in guerra, sulla base di un progetto politico. Ogni fondatore è quindi, di necessità, anche un legislatore: in base a quanto accennato, la sua attività normativa - se vogliamo riferirci alla ripartizione del diritto in branche, quale è venuta in uso in epoche di molto successive - spazia nel campo del diritto pubblico quando stabilisce gli organismi fondamentali per il governo della collettività e le loro regole di funzionamento; si estende al diritto privato e al diritto penale per la necessità di regolare i rapporti interpersonali tra i cives; per giungere infine al diritto internazionale nel regolare il rapporto tra la nuova entità politica e le popolazioni con cui essa entra in rapporti, pacifici o bellicosi che siano. Ma l’autorevolezza del corpus legislativo dettato da ciascun fondatore, nel comune sentire di chi, anche a distanza di tempo, lo riconosce come tale, affonda le radici e riceve sanzione dall’alto: ossia dalla convinzione che le norme, in quanto portatrici d’ordine ove prima regnava il caos, siano in qualche modo discese dal cielo come prolungamento del processo creatore. Da questa esigenza si originano i racconti mitici che avvolgono ogni figura di fondatore-legislatore collocata in epoca pre-storica, quando cioè non c’è ancora la scrittura a fissare la memoria di come nacque un ordinamento giuridico - in realtà formatosi, generalmente, in più fasi temporali - ed è pertanto necessario ricorrere a spiegazioni mitiche. Il mito, infatti, ha sempre una sua logica e corrisponde a una necessità: nel caso dei miti fondativi, il racconto mitico «appaga un desiderio di sapere mettendo in scena dèi … eroi … o eponimi fondatori di città e donatori di leggi», fornendo così una risposta all’ «esigenza di conoscenza di come si fissino le relazioni umane sotto la specie della stabilità di un ordinamento collettivo».1

1 M. Corselli: La fondazione della città nel mito veterotestamentario, in G. Romagnoli (a cura di) Il mito in Sicilia, Palermo, Carlo Saladino Editore, 2007, p. 73

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Rimanendo, dunque, sul terreno del mito, è da rilevare, su un piano generale e preliminare, la linea ascendente che intercorre tra: diritto - mitico legislatore - origine divina del legislatore stesso - divinità; linea che, per la proprietà transitiva e rovesciando l’ordine per farla partire dall’alto, comporta una origine divina del diritto, una sua discesa dal cielo, ossia una sua natura sacrale riconducibile non solamente ai riti che lo circondano e lo custodiscono, ma alla sua fonte stessa. Questo processo di discesa dal cielo del diritto si manifesta, nelle diverse mitologie, religioni e fasi storiche, attraverso differenti modalità, avvicinandosi sempre più all’uomo per poi risalire, come vedremo, al cielo da cui si era originato. In una prima, più antica fase, è il dio stesso ad essere il legislatore: ne troviamo un esempio nella religione vedica, laddove la figura della divinità come legislatore ed ordinatore è identificata in Mitra, “dio del patto” o del contratto sociale per eccellenza, che regge l’ordine cosmico e quello terrestre e che «dona le leggi» (RigVeda 3, 52, 2b).2 In una fase posteriore e in altri contesti, si delinea una diversa modalità: la divinità, pur rimanendo sempre legislatore e fonte del diritto, si serve di un intermediario. Nella Bibbia, invero, Dio stesso viene indicato come primo legislatore del popolo ebraico, ma si avvale di Mosè, un personaggio storico ancorché dai contorni mitici, che l’Antico Testamento presenta come colui che da un lato conversava con Dio, e dall’altro aveva autorità sul popolo per averlo condotto fuori dalla schiavitù d’Egitto: perfetta figura perciò di mediatore tra divino e umano. In un primo tempo, come racconta il Libro dell’Esodo, lo stesso Mosè, ascoltate le prescrizioni che Dio gli diede sul Monte Sinai, «scrisse tutte le parole del Signore» nel libro dell’alleanza e le lesse al popolo, che giurò di osservarle (Es. 24, 4-7); ma questa compilazione “umana”, agli occhi di un popolo «di dura cervice», non risultò abbastanza autorevole da non farlo contravvenire molto presto al giuramento. Ciò comportò una seconda visita di Mosè sul Sinai, dove il Signore stesso, assumendo anche in modo materiale la paternità delle sue leggi, «gli diede le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra scritte dal dito di Dio» (Es. 31, 18);. E Dio le riscrisse una seconda volta, dopo che Mosè, adirato per la deriva idolatrica del popolo, aveva spezzato le prime: una autografia divina insistita - esse, si ribadisce, «erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio, scolpita sulle tavole» (Es, 32, 15) - al fine di conferire alle leggi l’autorevolezza che era mancata al “codice” di Mosè. La definitiva sanzione della sacralità del diritto è data dall’affidamento della custodia delle tavole ad Aronne ed al diritto sacerdotale che ne seguì, applicato dal Sinedrio. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi (basterebbe citare l’islamica Sharia), ma veniamo a Romolo, che rappresenta una fase ed una modalità ulteriore di

2 D. Romagnoli: Il mitraismo dalle origini all’età imperiale romana, ibid., p.177

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avvicinamento alla terra della fonte del diritto, senza che però esso perda il carattere di sacertà. Con lui, infatti, è egli stesso, ossia un re terreno, e non più la divinità o un suo diretto intermediario, a dare le leggi; tuttavia, queste sono pur sempre dettate da un personaggio di origine divina. La discendenza dei gemelli Romolo e Remo, invero, è divina sia dal lato paterno che da quello materno. Come è noto, la madre, la vestale Rea Silvia, era figlia di Numitore, re della dinastia albana discendente dal fondatore Ascanio, figlio di Enea, che a sua volta era figlio di Venere; in un’altra variante della leggenda «si sopprimeva la serie dei re albani facendo di Rea Silvia la figlia di Enea», e quindi, la nipote diretta di Venere.3 Padre dei gemelli era Marte, che sedusse Rea durante il sonno, o, secondo altra versione, nel bosco sacro in cui ella era andata ad attingere acqua per il sacrificio a Vesta. Romolo, in effetti, è importante, in quanto attraverso la sua attività di fondatore e di legislatore si pone come tipica figura di eroe culturale, che «simboleggia il drammatico trapasso dal caos selvaggio - di cui anch’egli era parte, in quanto violento predone - all’ordine cittadino, mediante istituzioni militari, religiose e legali».4 In questo intervento non affronto, se non occasionalmente e di sfuggita, il tema della storicità della figura di Romolo o dell’epoca, certamente alquanto successiva all’ottavo secolo, nella quale questo mito si è formato nelle sue diverse componenti, né quello della attribuibilità della fondazione ad un preciso momento storico o ad un processo variamente configurato: su questo punto, tralasciando volutamente di occuparmi delle contrastanti teorie che tuttora dividono gli studiosi, mi limiterò a ricordare che, mentre le indagini archeologiche hanno confermato la sostanziale coincidenza dell’epoca dei primi insediamenti sul Palatino con la data assegnata dalla tradizione alla fondazione di Roma, l’esistenza in essa di un primitivo ordinamento monarchico è attestata dal lapis niger, probabilmente risalente all’ultimo periodo monarchico o forse anche anteriore, rinvenuto tra i più antichi reperti dell’area del Foro: una pietra sulla quale si legge un’iscrizione, che comprende la parola recei ( = regi, dativo di rex). C’è, poi, un’ altra iscrizione altrettanto antica, proveniente dalla Regia,5 in cui si legge la parola rex. Queste iscrizioni, benchè in esse la parola rex sia assunta nell’originario senso religioso di rex sacrorum, ben possono riallacciarsi, attraverso la figura del re sacerdote, alla tradizione dei sette re di Roma riportata da Tito Livio, pur se l’autenticità, quando non anche l’esistenza stessa delle fonti alle quali egli dichiarò di avere attinto (i Grandi Annali dei pontefici, i Libri lintei, le Tavole dei Censori e le Memorie delle Famiglie), già messe in dubbio fin dal

3 L’Universale - Antichità classica, Milano, Garzanti 2004, p.1226 4 R. Agizza: Miti e leggende dell’antica Roma, Roma, Newton Compton 2007, p. 215 5 Regia, tradizionalmente casa di Numa Pompilio, edificio situato sulla Vía Sacra unito alla aedes Vestae e alla casa delle Vestali, sede abituale delle riunioni dei pontífices e centro rituale per eccellenza di Roma.

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Rinascimento, furono radicalmente contestate nel Settecento,6 finchè la scuola tedesca dell’Ottocento non rivalutò le leggende delle origini.7 Ci baseremo, invece, sulle fonti classiche che narrano queste leggende: in primis, le Storie Tito Livio, appunto, e poi le Antichità romane di Dionigi d’Alicarnasso e i Fasti di Ovidio . Scegliamo, cioè, di rimanere sul terreno del mito, che costituisce d’altronde la nostra “ragione sociale”, per cercare di cogliere con riferimento al nostro campo di indagine ciò che è peculiare della funzione del racconto mitico, ossia quella di essere strumento per spiegare la realtà sottostante, formatasi in un’epoca, nella quale le fonti scritte non soccorrevano a tale esigenza. In questa logica, considereremo acriticamente la paternità, che il mito imputa a Romolo, di istituti giuridici che sono probabilmente nati, o quanto meno si sono precisati, in epoche anche abbastanza successive. E’ assai nota la leggenda della fondazione di Roma, con tutte le sue varianti, perché valga la pena di ripeterla qui, ciò che non sarebbe neppure funzionale rispetto al tema che stiamo trattando. Basterà annotarne alcuni elementi, rilevanti ai nostri fini. Il primo è che attraverso l’episodio della uccisione del gemello Remo, sia che essa fosse stata eseguita direttamente da Romolo, sia che in esecuzione di una sua disposizione di carattere generale ne fosse stato autore Celere, si rifiuta un coesercizio del potere tra i due gemelli, fino ad allora associati nell’impresa, e si afferma invece un ordinamento monarchico monocratico dell’Urbe, preludio alla successione dei re che seguirono. Questa forma di governo a base personale è legittimata, sostanzialmente, soltanto dalla autoproclamazione del fratello vincitore, pur se suffragata dal celeste auspicio degli uccelli, che gli erano apparsi in numero maggiore che a Remo (fatto di cui quest’ultimo, secondo una delle tante versioni della leggenda, contestò la veridicità). Il secondo elemento importante è che viene istituita la pena di morte per chiunque violi la cinta cittadina: dare la morte al nemico non è più, quindi, frutto di una violenza reattiva estemporanea ed incontrollata, ma di un giuridico collegamento tra azione dichiarata illecita dal rex e sanzione stabilita per la fattispecie criminosa, ciò che appare con maggiore evidenza nella versione della leggenda, in cui l’uccisore è Celere. Sotto un profilo al tempo stesso giuridico e simbolico, questa uccisione rappresenta anche l’affermarsi dell’ordine cittadino, istituito e impersonato da Romolo, contro il precedente anarchismo caotico, di cui anch’egli, come si è accennato, faceva parte ma che, dopo l’attuazione della scelta di far nascere un nuovo ordinamento, resta rappresentato dal solo Remo. Una volta superata questa prima fase fondativa, il più urgente problema che si pose a Romolo fu quello di popolare la città di nuova fondazione: infatti, il limitato numero di seguaci che erano con lui sin dall’inizio non poteva, in 6 Cfr. L. de Beaufort: Dissertation sur l'incertitude des cinq prèmiers siècles de l'histoire romaine, Utrecht, 1735 7 G. Dumézil: La religione romana arcaica, Milano, BUR 2007, pp. 21-22

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alcun modo, risultare funzionale ad una affermazione ed espansione della nuova comunità ed entità politica. Inoltre Roma, per la zona paludosa in cui sorse e «per scarsità di materie prime, non costituiva certo l’ambita meta di avventurieri e coloni»,8 come lo fu, oltre due millenni più tardi, l’America per i Conquistadores. Per ovviare a questo inconveniente, potenzialmente esiziale per la vita della nuova comunità, Romolo “inventa” il diritto d’asilo: crea cioè sul Campidoglio un’area destinata ad accogliere «ladri, fuorilegge, debitori insolventi, malfattori e schiavi fuggitivi: era l’Arx, la cittadella, quel territorio neutrale posto fra due boschi sacri che avrebbe accolto con magnanima - anche se interessata - compiacenza i reietti della società».9 Peraltro, questa nuova immissione di siffatti cittadini non risultava disarmonica rispetto al gruppo originario dei seguaci di Romolo, che era visto dalle popolazioni vicine, non a torto, come una banda di rapaci malfattori. La scarsità di donne, tuttavia, impediva ancora una congrua espansione demografica, territoriale e politica della nuova comunità. Subentra a questo punto il noto racconto del ratto delle Sabine, che fu causa della guerra tra Romani e Sabini e che, a seguito della pace poi raggiunta, diede luogo ad un rilevante mutamento istituzionale: la diarchia nel governo dell’Urbe, già rifiutata da Romolo nei riguardi di Remo, si attuò tra Romolo stesso e il re sabino della città di Cures Tito Tazio, cessando però dopo cinque anni con la morte di quest’ultimo. La fusione tra Romani e Sabini che, come dice Livio (1, 13, 4), «civitatem unam ex duabus faciunt» (anche se forse, in una prima fase, senza piena parità di diritti), dà luogo alla istituzione delle tribù (pur se il Mommsen respinge il collegamento tra i due eventi e riporta la stessa fondazione di Roma non a un momento determinato, ma alla sinoichia tra queste componenti).10 L’istituzione, volta ad evitare problemi di integrazione tra le diverse etnie, suddivide la popolazione in tre tribù, che rispecchiano l’origine multietnica della città: quella dei Ramnes, formata dai Latini, che rimane in qualche modo la più importante, anche nel dare il nomen urbis; quella dei Tities, formata dai sabini; quella dei Luceres, forse anch’essa latina,11 o secondo la vulgata più comune formata dagli etruschi, che in seguito prevarranno, dando luogo alla monarchia etrusca assolutista degli ultimi tre re di Roma. Ogni tribù venne divisa in dieci curie, che si riunivano nei comizi curiati, assemblee che a maggioranza prendevano le decisioni più importanti per la comunità. Le curie erano la base dell’ordinamento dell’esercito: ognuna di esse doveva fornire una centuria di fanti e una decuria di cavalieri, per cui

8 R. Agizza: op cit, ibid 9 R. Agizza, op cit, ibid 10 T. Mommsem Storia di Roma, Milano, Dall’Oglio, 1971, I, p.63 11 T. Mommsem, ibid., p.64

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l’esercito in origine era formato da tremila fanti e trecento cavalieri ed era sotto l’imperium (comando militare) del re. Il re era coadiuvato nel governo dal consiglio degli anziani, responsabile dell’elezione del sovrano, che da cento fu successivamente portato a duecento membri. Formato dai capi delle famiglie più importanti, chiamati patres, prese il nome di Senato.

A Romolo si attribuisce anche l'introduzione a Roma dei dodici littori, che precedevano e proteggevano il sovrano; in realtà l'istituzione era già presente nelle città etrusche, dalle quali fu probabilmente ripresa ed introdotta in Roma in epoca storica.

Romolo divise la popolazione in due classi, i patrizi e i plebei, in base alle origini e non alla ricchezza: questi ultimi erano privi di diritti politici. Ad ogni pater familias assegnò bina iugera di terreno, istituendo così il diritto di proprietà nella forma della proprietà fondiaria gentilizia. Sul piano dello ius civile, ma anche del diritto internazionale, si sviluppa parallelamente, attraverso la via d’acqua del Tevere ed i suoi approdi, lo ius commercii con le comunità vicine. La sacralità degli ordinamenti romani è strettamente collegata alla figura di Romolo che, oltre ad essere legislatore e capo militare, fu un re sacerdote. Il rex era infatti l'organo sovrano che riuniva in se tutte le funzioni più importanti della città: oltrechè capo dell'esercito, rappresentante della città nei rapporti internazionali e sommo giudice, era perciò anche supremo sacerdote. In particolare il rex, figura probabilmente nata come rex sacrorum , era anche pontifex maximus, ed il collegio sacerdotale dei pontifices - oltre alla determinazione del calendario annuale, alla compilazione dei fasti consolari ed alla registrazione, negli annales, delle res gestae del popolo romano - aveva tra le sue attribuzioni la conservazione nel proprio archivio delle leges regiae, dei libri e dei commentarii dei re e delle primitive regole dello ius civile. D’altronde, distinguere il potere civile da quello religioso sarà un punto di arrivo assai tardo di un lungo processo evolutivo, non in tutto il mondo ancora giunto a compimento. La divinizzazione di Romolo, sulle cui notissime modalità leggendarie non è il caso di intrattenerci, è l’ultimo e decisivo passo nel processo di sacralizzazione del diritto, che rendendo circolare un movimento sino allora apparentemente rettilineo, sale nuovamente, come si è già accennato, al cielo, dal quale era disceso per avvicinarsi gradualmente agli uomini. Sotto il nome di Quirino, originariamente dio sabino della fecondità, Romolo viene inserito, insieme a Marte e Giove, nella Triade Capitolina e fatto oggetto di culto. A questo punto, anche il diritto discende non più da un uomo di origine divina, ma direttamente da un dio. Ciò trova rispondenza anche in altre culture, dove mitici re e legislatori, come Minosse, vengono poi, per i loro meriti, divinizzati.

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Dopo quanto si è detto, è d’obbligo una breve considerazione conclusiva: trascorso il primo periodo istituzionale di Roma monarchica, avvolto nell’incertezza del dato storico ed attestato prevalentemente dal mito, subentra l’epoca repubblicana, con la quale entriamo pienamente nella storia. Si perde la mentalità monarchica, sostituita dagli austeri costumi repubblicani basati su virtù civili, derivanti peraltro da quelle militari delle origini; ma non si perde il senso della sacralità del diritto nel continuum del suo sviluppo. L’epoca imperiale vedrà il riprendere nuovo vigore e significato, in forme adeguate al mutare dei tempi, di titoli, istituti e concezioni politiche aventi radici nel periodo regio: l’ imperium militare come titolo scelto a designare la nuova istituzione monocratica; l’imperator che è al tempo steso pontifex maximus, dei cui paramenti è vestito Augusto, nel noto ritratto scultoreo, al pari di altri successivi imperatori; le constitutiones imperiali e i rescripta principis come fonti del diritto, sia pure accanto alle altre fonti tradizionali; ed infine, a chiudere il cerchio, la divinizzazione dell’imperatore, che, come già per Romolo, riporta il diritto imperiale al concetto dell’origine divina. Un recupero della forma monarchica che, collegata all’affermarsi dell’assolutismo imperiale con la conseguente decadenza degli istituiti tradizionali, quale in primis il Senato, e con la perdita delle virtù repubblicane, fu strumento della massima espansione della potenza di Roma, ma anche germe della sua dissoluzione.

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TAVOLA ROTONDA: CONCORDIA DISCORS TRA MITO E SCIENZA COME GENERATRICE DI CONOSCENZA Il giorno 2 aprile 2009 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo si è tenuta una tavola rotonda sull’argomento Concordia discors tra mito e scienza come generatrice di conoscenza, moderata dal Prefetto Gianfranco Romagnoli e con la partecipazione della Prof. Marina Alfano, della Prof. Paola Argentino, del Prof. Rosolino Buccheri e del Prof. Pietro Palumbo. Al fine di evitare problemi circa l’autorizzazione alla pubblicazione dei testi delle relazioni, peraltro rese per il Centro Internazionale di Studi sul Mito, che sarebbero tuttavia già state pubblicate altrove in forma di e-book, li si ricerchi attraverso il sito: www.akousmata.orizzontidellascolto.org (N.d.R.)

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I RITI INIZIATICI PRE – CRISTIANI (ISRAELE – PERSIA) di Claudia Costantino Conferenza tenuta il 19 aprile 2009 presso l’Associazione Biotos, Palermo Introduzione La storia dell’origini dei popoli di tutti i tempi ha sempre mostrato come nel raccontare e nel raccontarsi siano tante le componenti che entrano in gioco: origine legata ad eventi naturali, opera di divinità, frutto di gesta eroiche etc. La stessa riflessione sull’origine dell’uomo, mostra svariatati elementi che sono già stati oggetto di studio di moltissime discipline scientifiche, oggetto di riflessione filosofica e non ultima teologica. Nell’osservare più da vicino un popolo non si può certo non tenere conto di questi aspetti, ma è anche vero che all’interno di ogni popolo esiste un livello che è comune a tutte le realtà può presentandosi sotto forme diverse. Mi riferisco all’aspetto storico liturgico o meglio ancora di ciò che è il vissuto rituale. Anzitutto una esemplificazione di natura terminologica per quanto riguarda il rito. Secondo l’etimologica sanscrita, questo termine designa ciò che è conforme all’ordine ma nelle esplicitazioni descrittive di natura antropologica, pur emergendo da sempre un qualsiasi riferimento al regolato al ritmato, sembra preferire l’uso del termine rito. Nel linguaggio comune, infatti, spesso richiama ad un comportamento sociale, ripetitivo etc.1 Tra le caratteristiche che esso presenta una fra tutte e la ripetitività nel senso che è qualcosa che torna sempre presente con le stesse caratteristiche o significato, ma è certamente innegabile che esso costituisca per l’uomo un fenomeno coinvolgente in maniera totale e perché no, anche totalizzante. Attraverso il rito in tutte le sue forme e quindi gesti, simboli, segni, si rende manifesto o si attualizzano circostanze, episodi, avvenimenti che riguardano la vita dell’uomo, di un popolo. Tali gesti a volte si interiorizzano a tal punto da diventare gesti automatici o addirittura in un contesto che va ben oltre l’aspetto celebrativo, diventano gesti quotidiani: chi potrebbe dire non conoscere qualcuno che nella sua vita non abbia mai compiuto un gesto che a furia di ripeterlo sia diventato un “rito” e lo etichetti come tale!!! e su questo potremmo spendere fiumi di inchiostro e trovare migliaia di esempi in ogni tempo e in ogni luogo al mondo. La vita di ogni individuo si scandisce in tempi o meglio ancora per tappe di crescita che scandiscono il suo percorso vitale: lo stesso Freud, padre della psicanalisi, scandisce le tappe della crescita evolutiva a partire dalla nascita. Ma non è proprio questo l’orizzonte di riflessione. Eventi significativi della vita dell’uomo che divengono poi oggetto delle varie forme rituali sono anzitutto:

1 S. Maggiani, s.v. Rito, In Dizionario di Liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001 p. 1667

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La nascita, intesa non solo dal punto di vista biologico (o inserimento in un contesto sociale) ma anche come ingresso in un popolo determinando l’appartenenza e quindi si parla di riti di iniziazione. Il passaggio da una condizione di vita ad una nuova, come ad esempio il passaggio alla maggiore età, o il matrimonio. Anche la morte è intesa come passaggio da una dimensione vitale ad un’altra diversa ma non meno vitale. Appare chiaro, come questi esempi mostrino il fatto che, anche se sotto forme e significati diversi, essi siano delle costanti presenti in ogni civiltà e in ogni vissuto non solo sociale ma anche religioso. Ad esempio, la stessa nascita e crescita del fedele cristiano è scandita dalla vita sacramentale: attraverso il battesimo (che a sua a volta avviene in un contesto liturgico e quindi celebrativo che è fatto di gesti, segni , simboli, inseriti in un rito che esprimono gli effetti della grazia sacramentale) si viene conformati a Cristo e inseriti nella comunità dei credenti e quindi nella Chiesa come suoi membri: essendo figli di Dio diveniamo membra del corpo della Chiesa di cui Cristo è Capo.2 Ai credenti, membra del suo corpo, Cristo comunica la sua vita, e li unisce misteriosamente ma realmente alla sua morte e risurrezione mediante i sacramenti. Per mezzo del battesimo infatti veniamo conformati a Cristo.3 A questo sacramento vanno certamente aggiunti la Confermazione e l’ Eucaristia, che uniti insieme al Battesimo costituiscono i tre sacramenti che vanno sotto il nome di iniziazione cristiana, di cui diremo più avanti. Questo mostra ancora una volta come il rito coinvolga il singolo individuo ma anche l’intera comunità, che sia credente o dubbiosa. Passiamo ora a chiarire con quale metodo si procederà nell’accostarci a questo tema: eliminata questa esemplificazione semantica e sommaria della realtà rituale si passerà in rassegna, anche se per grandi linee, la ritualità iniziatica nel contesto pre-cristiano e nelle aree geografiche di Israele e della Persia. In fine, uno sguardo alla ritualità iniziatica cristiana per giungere ad alcune considerazioni circa la realtà rituale in quanto tale. I riti iniziatici in Israele Come già premesso sopra, le tappe che scandiscono il vissuto delle diverse generazioni sono fissate attraverso i riti. Nel contesto del popolo di Israele si riconoscono, tra le forme rituali, i sacrifici la cui esistenza è in ragione dono o della purificazione. Le tappe della vita, invece, sono fissate attraverso riti che vanno sotto il nome di:

• Berit milan ( circoncisione), celebrata l’ ottavo giorno, nel quale poi si impone il nome;

2 H. Denzinger, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, edizione bilingue, a cura di P. Hunermann, EDB Bologna 2003 n.4112 3 Op. cit. n. 4113

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• Pydion ( riscatto del primogenito) a un mese di vita (Esodo 13, 1-2. 12; Numeri. 18, 26);

• Bar miz wah (figlio del precetto), celebra il raggiungimento della maggiore età del maschio (13 anni) e della femmina (12 anni ) dal punto vista religioso.

Focalizzando l’iniziazione, ci si sofferma sul primo dei tre rituali, ossia la circoncisione. Essa come pratica, si rintraccia per la realtà di Israele, nei testi dell’Antico Testamento. Inoltre circa l’origine della pratica si rintracciano due grandi tradizioni. La prima si fonda sul testo di Esodo capitolo 4, 25- 26 in cui si dice: Allora Zippora prese una selce tagliente, recise il prepuzio del figlio e con quello toccò i suoi piedi e disse: “tu per me sei sposo di sangue” . Allora si ritirò da lui . essa aveva detto sposo di sangue a causa della circoncisione.4 Childs, nel commento al testo, afferma anzitutto che le poche righe forniscono informazioni precise e dettagliate sul rito eseguito; tuttavia riuscire a comprendere il significato delle parole pronunciate da Zippora e soprattutto su chi fossero i destinatari risulta essere un indagine piuttosto enigmatica.5 Inoltre, circa il termine sangue bisogna anche aggiungere che esso assume un significato particolare in diverse realtà religiose e non solo. Esso pervade tutto il corpo ed è detentore di forza, ai popoli antichi esso appariva come materializzazione della vita. Secondo le tradizioni mesopotamiche il sangue è stato creato dal sangue delle divinità uccise ( immolate) (Levitico 1, 4)6 L’altra tradizione si fonda invece sul testo di Genesi cap. 17, 9-14 nel quale leggiamo: E Dio disse ad Abramo: “da parte tua devi osservare la mia alleanza tu e tua discendenza dopo di te di generazione in generazione. Questa è la mia alleanza che dovete osservare tra me e voi e la tua discendenza dopo di te: sia circonciso tra di voi ogni maschio. Vi lascerete circoncidere la carne del vostro membro e ciò sarà segno dell’alleanza tra me e voi . Quando avrà otto giorni, sarà circonciso tra di voi ogni maschio di generazione in generazione, tanto quello nato in casa come quello comperato con denaro da qualunque straniero che non sia di quella stirpe. Deve essere circonciso chi è nato e chi viene comperato con denaro così la mia alleanza sussisterà nella vostra carne come alleanza perenne. Il maschio non circonciso, di cui cioè non è stata circoncisa la carne del membro, sia eliminato dal suo popolo: ha violato la mia alleanza”. Claus Westermann, scrive nel suo commento esegetico: i versetti 9 - 14 consistono nel comando della circoncisione. Questa norma nacque quando, con il crollo politico e con l’esilio, la circoncisione diventò segno dell’appartenenza al popolo di Jahvè, un segno di riconoscimento. Attraverso

4 Bibbia di Gerusalemme, EDB Bologna 2002 5 B. S. Childs, Il Libro dell’Esodo, commentario critico teologico, Casale Monferrato 1995 pp.138-140 6 M. Lunker, s.v. sangue in, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici,Cinisello Balsamo 2006 pp. 68-69

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questo comando e la sua esecuzione l’alleanza diventa un evento religioso fra Dio e il suo popolo. La circoncisione è propriamente un atto extra cultuale; era molto diffuso nell’antichità, la si trova in Anatolia, in Africa, in America, in Australia, non tra i gruppi indo germanici e mongoli. L’usanza è molto antica, come dimostra già l’uso dei coltelli di pietra (Esodo 4, 25). Ci sono così tante spiegazioni sulle motivazioni del rito che è impossibile accettarne quale sia il significato originario.7 Quest’ultima tradizione sostiene inoltre che questo rito venisse praticato non solo ai bambini in tenera età ma anche che secondo fonti più antiche fosse un rito messo in relazione alle condizioni per il quale fosse possibile un matrimonio con una donna israelita come si legge in Genesi 34 secondo cui Dina, rapita da Sichem, figli di Camor l’Eveo, principe di quel paese (un antico popolo di Canaan) viene chiesta un moglie al padre Giacobbe ed essendo ella israelita si rende necessario che Sichem venga circonciso. O ancora Mosè, in Esodo 4,25 (già citato) viene definito hatan damin (sposo di sangue), come per indicare come l’affinità trasmessa mediante il matrimonio deriva proprio dall’ Hatan ossia dallo sposo. Un'altra attestazione biblica circa questa pratica, esercitata nei bambini in tenera età si trova in Levitico 12, 3: “L’ottavo giorno si circonciderà il bambino”. Ciò che è detto valido per il popolo di Israele è confermato a validità per tutti i discendenti di Abramo secondo la legge coranica. Infatti Ismaele capostipite degli Ismaeliti (leggi arabi) venne circonciso dal Padre. In Giosuè 5,9: “Allora il Signore disse a Giosuè: ho allontanato l’ infamia d’Egitto” . L’attestazione si riferisce all’uso della circoncisione non solo nel contesto israelita e arabo ma anche in Egitto, e dove il termine infamia cioè disonore si intende l’essere non circonciso. Inoltre in Giuditta 14,10 si fa riferimento alla circoncisione degli Ammoniti.8 È però in Genesi 17, 9 che il termine circoncisione si riferisce all’appartenenza al popolo di Jahvè ma anche al popolo di Israele. Un ulteriore significato è quello che tocca una sfera più intima dell’uomo, infatti in Deuteronomio 10, 16 ss si parla di circoncisione del cuore, come per dire che la circoncisone come appartenenza deve raggiungere anche le facoltà spirituali. A proposito dell’espressione “cuore” e del suo significato. Nel linguaggio comune dei nostri tempi questo termine si riferisce certamente non solo ad un organo di vitale importanza ma anche a quella che è la sede dei sentimenti. Tuttavia nella fede dei popoli il cuore occupa sempre una posizione centrale. Esso designa tutto l’uomo interiore , che si contrappone alla persona esteriore. Gli egiziani consideravano il cuore come centro di tutti i nodi dello spirito. Esso era la sede dell’intelletto della volontà del sentimento

7 C. Westermann, Genesi, Casale Monferrato 1989 p.140 8 H. Ringreen, Israele, i Padri, l’epoca dei re, il giudaismo, Milano 1987 pp. 233-234

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anzi era il simbolo della vita stessa. Senza questo organo centrale non era pensabile una sopravvivenza oltre la morte; durante l’imbalsamazione mentre tutti gli organi interni venivano eliminati il cuore restava al suo posto. Il dio primordiale Ptah progettò l’universo nel suo cuore prima di dargli consistenza con la sua parola creatrice. Nell’antico testamento la vera essenza dell’uomo non sta nel suo aspetto esteriore nella bellezza nella sua forza, ma nell’intimo. Perciò il Signore non guarda “ciò che guarda l’uomo. Il signore guarda il cuore” (I Samuele 16, 7). Nei tempi antichi i sentimenti dell’uomo venivano attribuiti anche a Dio; si dice così che il Signore si addolora in cuor suo (Genesi 6, 6) e si sceglie un uomo “ secondo il suo cuore” (I Samuele 13, 14). Inoltre nel nuovo testamento il cuore designa il centro della psiche e dello spirito. San Paolo scriveva in un momento di grande afflizione e con il cuore angosciato (1 Corinzi 2, 4). La fede non riguarda il pensiero o il sentimento, ma soltanto il cuore (Romani 10,10). Il cuore che ci rimprovera non è altro che la coscienza.9 I riti iniziatici, praticati secondo diverse forme e riti, non sono una realtà presente solo nel contesto del popolo di Israele ma anche ad esempio in Palestina dove si svilupparono dei movimenti religiosi del tutto particolari. Si tratta delle comunità religiose degli Esseni e dei Terapeuti. Notizie di queste comunità sono riportate da Giuseppe Flavio, storico nato a Gerusalemme intorno al 37 d. C. che conobbe uno dopo l’altro i gruppi di farisei, sadducei e degli esseni. Giuseppe, che proveniva dal giudaismo palestinese visse anche nella diaspora; fu autore di diversi scritti, addirittura di una sua personale biografia. Ma è nelle “Antiquitates Iudaicae” che troviamo notizie dettagliate sugli esseni. Molto meno precisa, ma altrettanto significativa è l’opera di Filone di Alessandria, quasi contemporaneo di Giuseppe Flavio; egli nasce intorno al 25 d. C., conducendo una vita ritirata in Alessandria, ma non tirando si indietro di fronte alle necessità dei Giudei.10 Nell’opera Quod omnes liber si”, presenta alcune notizie circa la comunità degli esseni, di cui afferma una presenza di quattromila elementi nei villaggi della Siria e della Palestina.11 A tal proposito scrive: Anche la Siria e la Palestina, ove si trova una parte importante della numerosa nazione degli Ebrei, non è sterile in quanto ad eccellenza nella virtù morale. Alcuni di essi, a quanto si dice, più di quattromila sono chiamati esseni (essaioi): sebbene strettamente parlando questo nome non sia greco, può essere avvicinato alla santità, (aghiotes) giacchè si sono votati specialmente al servizio di Dio, non sacrificando animali, ma riservandosi a santificare i loro pensieri.

9 M. Lunker, s.v. cuore in Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Cinisello Balsamo 2006, pp.67-68 10E. Lohse, L’ambiente del nuovo testamento, Brescia 1993 pp. 107-109 11AA.VV. I Classici Utet , I manoscritti di Qumran, Torino 1986 p. 57

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La prima cosa su costoro, è che abitano in villaggi fuggendo dalla città a motivo dell’empietà che abitualmente in esse si commettono dagli abitanti, ben sapendo che loro compagnia avrebbe effetto deleterio sulle loro anime come una malattia portata da una atmosfera pestilenziale. Fra di loro non vi è neppure uno schiavo: tutti sono liberi e si aiutano l’un l’altro. A proposito della filosofia, essi lasciano anzitutto la logica ai giocolieri di parole, dato che è inutile per l’acquisizione della virtù, la fisica ai visionari ciarlatani, dato che supera le capacità dell’umana natura, salvo però quanto essa insegna sulla essenza divina e sulla natura dell’universo. Studiano invece l’etica con grande impegno servendosi costantemente delle leggi dei loro padri , che l’anima umana non avrebbe potuto concepire senza la divina ispirazione. In queste leggi si istruiscono in ogni tempo, ma soprattutto nel settimo giorno. Il settimo giorno è infatti, giudicato sacro e in esso si astengono da tutte le altre occupazioni per radunarsi in luoghi sacri che chiamano sinagoghe. Imparano la pietà, la santità, la giustizia, le virtù domestiche e civiche, la conoscenza di ciò che è bene e ciò che è male o indifferente., la scelta di ciò che si deve fare e di ciò che si può evitare.12 Come si può notare da questi piccoli stralci, questa comunità oltre ad essere particolarmente unita è ben organizzata è anche molto attenta alle pratiche di purità, attenzione nei confronti dell’altro e alla condivisione di beni e del lavoro, in questa comunità non c’ è spazio per l’egoismo o per la prepotenza. Tornando nel campo delle notizie sulla comunità, possiamo affermare con certezza che l’opera di Giuseppe Flavio è sicuramente molto più dettagliata. Egli presenta infatti anche la struttura dell’ rito di iniziazione comprensivo anche del periodo precedente a questo momento. In “Bellum Iudaicum”, opera scritta tra il 75 – 79 d. C. trattando delle sette giudaiche, così riferisce degli Esseni nel libro II; 119- 161: presso gli Ebrei la filosofia è coltivata sotto tre forme: i seguaci della prima sono detti farisei, quelli della seconda sadducei e quelli della terza esseni. Gli esseni in particolare hanno fama di praticare la santità.13 Coloro che desiderano entrare nella loro setta non ne ottengono accesso immediato. Al postulante impongono per un anno la stessa norma di vita, benché ne rimanga fuori: gli consegnano una piccola scure, la cintura sopramenzionata, e una veste bianca. Dopochè egli in questo tempo avrà dato prova di temperanza, si inoltra più addentro nella norma di vita ed è fatto partecipe di acque di purificazione ancora più pure, ma non è ancora accolto nella vita comune. E infatti, dopo la dimostrazione di costanza, altri due anni se ne mette a prova il carattere; e allora se appare degno è accolto nella società. Tuttavia, prima che possa toccare il cibo comune, deve pronunciare davanti ai fratelli giuramenti terribili: in primo luogo di essere pio verso la Divinità, poi osservare la giustizia verso gli uomini, e di non recare danno ad alcuno ne spontaneamente né per ordine, di odiare sempre gli ingiusti e di venire in aiuto dei giusti, di mantenere sempre fedeltà verso tutti e specialmente verso coloro che sono investiti di potere, giacché l’autorità non si posa mai su di uno senza volere di Dio , di non insolentire nel potere, qualora egli giunga a

12 Op. cit. p.57 13 Op. cit. p.57

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comandare , ne di distinguersi pomposamente dai sudditi per il vestito o per altri speciali ornamenti, di dire sempre la verità e di confondere i menzogneri, di custodire le mani dal furto e l’anima dal guadagno empio, di non nascondere nulla a quelli della setta e non rivelare alcunché di loro a estranei quand’anche egli venga torturato fino alla morte. Oltre a questi, il giuramento di trasmettere ad alcuno dottrine della setta diverse da quelle che egli stesso ha ricevuto, di astenersi dal brigantaggio, di custodire ugualmente sia i libri della setta che i nomi degli angeli. Con siffa tti giuramenti si assicurano la fedeltà di coloro che entrano. Quelli che sono colti in mancanze gravi sono espulsi dalla corporazione: e lo scacciato finisce i suoi giorni con una sorte di miserabile. Astretto, dai giuramenti e dalle abitudini, non può neppure prendere parte al vitto degli altri: ridotto a mangiare erbe, consuma il suo corpo con la fame, finisce col morire. Perciò mossi da compassione, al loro ultimo respiro hanno riammesso molti, giudicando sufficiente per le loro mancanze questa tortura che li aveva condotti fin presso la morte.14 Possiamo a questo punto, sulla base delle notizie fornite da G. Flavio, tracciare il percorso iniziatico gli esseni che può essere riassunto come segue. Esso consta di tre fasi:

- Un anno di postulantato con l’imposizione della veste, e del corredo personale.

- Due anni successivi di prove, purificazioni che ne attestino l’idoneità. - Giuramento di fedeltà attraverso varie forme.

Più avanti, in altra opera intitolata le “Antiquitates Iudaicae”, riporterà sempre brevemente diverse notizie circa la comunità, a proposito della gestione interna della vita comunitaria, dell’idea che si aveva della realtà matrimoniale e procreativa; ma non ultima anche della questione della condivisione dei beni. Rimanendo sempre nell’ambito delle comunità religiose, diamo un accenno alla comunità dei Terapeuti. Di essi ci da notizia Filone di Alessandria. Questa comunità viene da lui contrapposta a quella operosa degli esseni, poiché pare che praticassero vita contemplativa. I terapeuti vivevano in una sorta di monastero presso il lago di Mareotide, non lontano da Alessandria . il loro nome significa servi o schiavi (di Dio). Essi rinunciavano a ogni proprietà personale, disposti a vivere una vita semplice da eremiti in piccole capanne, dove passavano le loro giornate nello studio della scrittura e nella meditazione. Il frugale pasto quotidiano veniva consumato solo dopo il tramonto. Al sabato i membri della comunità si riunivano in vesti bianche per il culto e il pasto comuni, ai quali seguiva la celebrazione della santa veglia. Anche questa comunità professava una totale sottomissione alla legge e intendeva vivere secondo i suoi dettami . probabilmente, questa comunità era una diramazione del movimento essenico. Più tardi i Padri della Chiesa vedranno nel racconto di Filone la descrizione della vita dei primi monaci cristiani (Eusebio, Historia Ecclesiastica 2, 17). Anche se non si escludono rapporti tra

14 Op. cit. pp. 59-60

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quelle comunità giudaiche e gli inizi del monachesimo cristiano, mancavano tuttavia notizie sicure per riuscire ad avvalorare una simile ipotesi.15 Generalmente, in virtù di quanto detto a proposito di queste tre diverse comunità, possiamo dire che il significato che assume l’iniziazione, ha certamente pesi diversi nelle realtà in cui essa si colloca: abbiamo visto come nel popolo di Israele la circoncisione segni l’appartenenza in relazione all’alleanza e come questa sia suggellata da un gesto che la contraddistingue. Ma nonostante questo sembri essere un rito esclusivamente giudaico, in realtà esso viene praticato in varie popolazioni anche dell’Egitto ma riservato solo ai sacerdoti. Oggi questo rito oltre perdurare per la componente musulmana della popolazione, è accettato, direi, imposto anche dai cristiani della Chiesa Copta, che a loro volta l’hanno asportato fino in Etiopia e Abissinia. Al tempo di Gesù dove questo gesto era poi seguito dall’imposizione del nome. Sempre relativamente alle tappe che scandiscono la vita oltre l’appartenenza, va aggiunto che nel caso del Bar mizvah, ossia il momento nel quale si attesta la maturità del ragazzo o ragazza, il rituale prevedeva oltre all’istruzione anche la lettura, da parte del candidato maschio, di una pagina della scrittura sulla quale si lasciava cadere una goccia di miele. Questa veniva poi assunta attraverso il bacio della pagina al termine della lettura. Tutto ciò per simboleggiare la dolcezza della parola Dio che adesso il giovane era in grado di leggere oltre che ascoltare. Oltre a questo aspetto abbiamo visto anche altre comunità dove l’appartenenza è scandita da percorsi più o meno lunghi e / o faticosi. L’elemento comune resta comunque l’aspetto rituale, che in questa o quella comunità o movimento rende presente e da forma alla vita personale e comunitaria non ultimo mette in contatto con la divinità che essa di chiami Jahvè, Osiride, Mithra. I riti iniziatici in Persia (Mithra e le religioni misteriche) Entrando nel campo delle religioni misteriche sviluppatesi in epoca ellenistica, E. Lohse, fa notare come esse si siano sviluppate in un momento nel quale il fenomeno magico, il superstizioso e l’astrologia avevano trovato spazio e soprattutto numerosi adepti. Questo grande consenso è motivato dal fatto che gli uomini vivevano in una condizione di inquietudine e insicurezza di vita. Ci si chiedeva come sfuggire a una oscura fine ed essere liberati dall’angoscia. La risposta venne da parte di religioni misteriche, che promettevano agli uomini la salvezza, offrendo una forza risanatrice che doveva far fronte alla sofferenza e persino alla morte. Si parla di misteri perché le comunità religiose che si riunivano per precise azioni cultuali conservavano sul loro contenuto e sul loro senso il segreto, che non poteva

15 Op. cit. p. 68

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essere infranto davanti a chi non era iniziato.16 A motivo di ciò le notizie che ci giungono sono sporadiche. Tra i vari culti presenti, abbiamo ad esempio quello di Osiride in Egitto, di Mithra per la Persia. Nonostante in una stessa zona fossero presenti diversi culti, c’è da dire che tra essi non vi era un atteggiamento di lotta, bensì di tolleranza reciproca. Così si poteva considerare lecito far parte contemporaneamente di più comunità religiose, per entrare in contatto con la divinità ed esserne anche ricolmati. Le società religiose misteriche si costituivano sulla base della libera adesione: vi si accettavano tutti schiavi e liberi, uomini o donne senza badare alle differenze sociali.17Tutti infatti sapevano di essere riuniti nell’unica divinità. Per cui la diversità non porta alla separazione e la divinità costituisce l’elemento di unione nell’azione cultuale a prescindere dal fine per il quale venisse messa in atto. E ancora una volta, mediante il rito si tengono unite comunità intere di persone che possono anche non condividere la stessa ed unica fede in unica e sola divinità. Ci sono inoltre dei tratti specifici che possono essere rintracciati nelle diverse religioni misteriche ma che sono comuni a tutte. Nell’azione cultuale viene illustrato il destino delle divinità che i credenti confessano. Momento centrale non è la predicazione della parola ma la rappresentazione drammatica. Alle celebrazioni della comunità è ammesso solo l’iniziato.18 Quest’ultimo in genere è ammesso dopo il passaggio di una serie di segni che lo porta dallo stato di profano a quello di “misto” o “fotizomeno” cioè illuminato e quasi sempre in tutte le comunità, fatta eccezione ad esempio per Eleusi dove nè i barbari nè gli assassini poteva farne parte. Chi è stato introdotto ai misteri è già distinto dalla massa dei non iniziati. Gli vengono comunicate le formule sacre e i segni simbolici con l’aiuto dei quali i misti possono reciprocamente riconoscersi. La forma della consacrazione variava a seconda delle religioni misteriche; comune però era l’idea che con esse si compisse la rinascita dell’uomo all’immortalità.19 Per quanto riguarda nello specifico il culto di Mithra, questo nome si riferisce al dio della luce, ed era rappresentato come un lottatore che uccide il toro, eroe vittorioso che ha al suo fianco la luce che scaccia le tenebre. A differenza degli altri culti misterici, alla religione mitraica potevano essere iniziati solo gli uomini, che venivano marchiati a fuoco sulla fronte come combattenti di dio. Essi venivano accolti mediante un rito battesimale, potevano quindi partecipare alla celebrazione dei sacri banchetti per i quali la comunità si riuniva. Poiché i combattenti di Mithra lottavano con lui per la vittoria della luce, essi erano obbligati all’osservanza di precetti morali. Tutti dopo la morte dovevano rendere conto di sé ad un tribunale divino, dinanzi al quali tutti 16 E. Lohse, L’ambiente del nuovo testamento, Brescia 1993 p. 178 17 Op. cit. p. 180 18 Op. cit. p. 180 19 Op. cit. p. 181

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saebbero stati pesati prima che ai credenti venisse schiuso l’ingresso nel mondo della luce.20 Inoltre il cammino dell’iniziato era determinato da sette tappe o livelli che sono rispettivamente: Corax (corvo); Ninphus (sposo); Miles (soldato); Leo (leone); Perses (persiano); Heliodromus (cammino del sole); Pater ( padre). Ogni grado iniziatico si trovava sotto la protezione di un corpo celeste: rispettivamente, Mercurio, Venere, Marte, Giove, Luna, Sole e Saturno.21 Per via sempre del riscatto dato dalla lotta contro le tenebre per la vittoria della luce e all’impegno morale a cui ogni adepto era tenuto, la religione mithraica esercitò una grande forza di attrazione, giungendo ad un aspro scontro con il cristianesimo in progressiva espansione: la lotta ebbe poi fine nel IV secolo con la vittoria di quest’ultimo.22 L’iniziazione cristiana Anche per l’iniziazione cristiana il punto di partenza è certamente, così come si è fatto in precedenza, la questione terminologica. Il termine iniziazione non ricorre nella Bibbia. Ma vi è un certo numero di riti e atti che rientrano nella definizione di iniziazione, date da etnologi e storici delle religioni che distinguono iniziazione collettiva e individuale.23 Inoltre questo termine ci rimanda istintivamente alle religioni misteriche dell’epoca ellenistica ad esempio al culto di Mithra, quasi contemporaneo al cristianesimo di Roma. Questo non significa che il cristianesimo abbia copiato da i riti pagani per costruire la sua iniziazione. Certe similitudini e simbolismi, si pensi all’acqua, sono connaturali a tutte le culture per esprimere la purificazione. In realtà l’iniziazione cristiana si riferisce alle tappe indispensabili per entrare nella comunità ecclesiale e nel suo culto in Spirito e verità. Iniziazione significa anche inizio, vita nuova, quella appunto dell’uomo nuovo in seno alla Chiesa.24 Diventare cristiano, come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica, richiede fin dal tempo degli Apostoli un cammino di iniziazione in diverse tappe. Questo itinerario può essere percorso rapidamente o lentamente. Dovrà in ogni caso comportare alcuni elementi essenziali: annuncio della Parola, l’accoglienza del Vangelo che provoca la conversione, l’effusione dello Spirito Santo, l’accesso alla Comunione Eucaristica.25 In queste poche righe introduttive, appare chiaro come l’iniziazione cristiana sia composta: essa consta dei tre sacramenti del Battesimo, della

20 Op. cit. p. 185 21AA.VV. Enciclopedia delle religioni, Religioni del mediterraneo del vicino Oriente antico, s.v. Mithra, Milano 2002 pp.408-409 22 E. Lohse, l’ambiente del nuovo testamento, Brescia 1993 p. 181 23 M. Lunker, s.v. Iniziazione in Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, San Paolo, Cinisello Balsamo 2006 pp. 720-722 24 A. Nocent, s.v. Iniziazione cristiana, in Dizionario diLiturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001 p. 969 25 AA.VV. Catechismo della Chiesa Cattolica, libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997 n. 1229

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Confermazione o Cresima, e della Eucaristia. È chiaro che il conferimento di tali sacramenti avviene attraverso tempi e modi ben precisi che sono ben consolidati nel nostro vissuto non solo religioso. Tenuto conto che sull’argomento le fonti sono innumerevoli,in questa sede ci limiteremo a mostrare, dal punto di vista storico- liturgico, e l’evoluzione dei singoli sacramenti per poi osservarli nel loro insieme. Il battesimo. Già nel paganesimo e nell’ebraismo emergono gli elementi del rito: l’acqua viene utilizzata per purificare gli uomini e le cose. Già lo stesso termine battesimo deriva da bapto e baptizo, che letteralmente vuole dire appunto lavarsi , purificarsi.26 L’acqua, elemento liquido che scende dal cielo o si presenta in sorgenti e ruscelli, è il mezzo più ovvio per rinfrescare l’assetato, eliminare le impurità combattere il fuoco. L’acqua è materia primordiale, è sostanza madre, dalla quale attraverso la parola- spirito di Dio Padre, venne generato il cosmo. Secondo la mitologia egiziana è da Nun, il pigro elemento acquoso che emerge la terra. Nell’epopea Babilonese della creazione, Tiamat, il mostro che nelle impronte dei sigilli è spesso rappresentato sotto forma di drago, viene vinto da Marduk e dal suo corpo vengono formati il cielo e la terra.27 La Mishna, nel trattato Jevamot descrive il battesimo di due rabbini, dopo la circoncisione del candidato, il quale viene in seguito istruito sul modo in cui deve condursi. Nel Nuovo Testamento sono moltissime le fonti che riportano l’esperienza del battesimo, ma vi è anzitutto una distinzione da fare, quando si usa il termine Batismos ci si riferisce ai riti di purificazione mentre con il termine baptisma ci si riferisce al battesimo cristiano. In Atti 1,5 Gesù distingue tra il battesimo di acqua, ricevuto da Giovanni Battista, e il battesimo nello spirito che sarà dopo il giorno di Pentecoste. Gli apostoli hanno ricevuto il battesimo dell’acqua, conferito dal Battista che si inscrive di più nella linea della purificazione: è un battesimo per la remissione dei peccati; il battesimo nello Spirito è, piuttosto, nella linea della santificazione. Inoltre bisogna notare che non è facile vedere a quale momento e con quale legame a tale o altro gesto, acqua o imposizione delle mani, sia legato il dono dello Spirito. Sembrerebbe che lo Spirito, rispetto all’acqua, fosse l’elemento che la rende santificante; mentre l’imposizione delle mani conferirebbe lo Spirito in se stesso. Per quanto riguarda San Paolo, il testo di Romani 6, 3-7 che è considerato il testo centrale sul Battesimo, non è tanto un esposizione della liturgia battesimale, quanto del suo significato dottrinale. Nel Battesimo il neofita riceve lo Spirito, che è spirito di vita nuova (Romani 6, 4). Tutti segnati dallo

26 A. Nocent, Anamnesis, la liturgia , i sacramenti,la storia della celebrazione, Genova 1986, p.20 27 M. Lunker , s.v. Acqua in Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, San Paolo, Cinisello Balsamo 2006, pp.4-6

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Spirito, dallo stesso sigillo, formano un solo Corpo nello stesso Spirito(1 Corinzi 12, 13). Più avanti, negli scritti giudeo-cristiani troviamo altre notizie sul Battesimo, per esempio nella Didachè al cap.7, in cui emergono chiari elementi sul rito, quali: battezzare in acqua viva e che ci si prepari a riceverlo anche con delle giornate di digiuno precedenti al battesimo. Appare chiaro come si tratta prevalentemente del battesimo degli adulti, anche se il battesimo dei bambini era a sua volta previsto nella antica prassi, ovviamente con una organizzazione diversa. Andando sempre avanti, a proposito della organizzazione catecumenale, ossia il processo di preparazione al quale i candidati al battesimo si sottoponevano, abbiamo notizie da diverse fonti. San Giustino nella prima Apologia, ai capitoli 61- 62, descrive la preparazione al battesimo e il battesimo stesso. Ireneo di Lione, pur non fornendo una descrizione dal punto di vista liturgico mostra tuttavia la catechesi vigente nel suo tempo (Adversus Hereses; la dimostrazione Apostolica). Tertulliano scrive il trattato “De Baptismo”, che è un apologia contro un certo dualismo manicheo: la materia è cattiva e perversa, dunque non bisogna utilizzare l’acqua nel battesimo, ma è sufficiente la fede. Questo trattato comprende due parti: La prima,il simbolismo dell’acqua (3-6), il rituale del battesimo commentato(7-8), una tipologia biblica. La seconda parte diversi problemi teologici(10 -16) e disciplinari ( 17 -20). Il battesimo suppone la preparazione del candidato e il giorno ideale è la Pasqua.28 Ippolito di Roma, fornisce una descrizione dettagliata della liturgia dell’iniziazione, nella tradizione apostolica ai capitoli da l5-22. Questa può essere riassunta in cinque tappe: la presentazione dei candidati, il periodo del catecumenato, la preparazione prossima al battesimo, l’iniziazione e la mistagogia. Prima tappa: presentazione dei candidati (cap.15-16), nella quale i candidati si presentano davanti al didascalos, per l’insegnamento che desiderano ricevere. Seconda tappa: periodo del catecumenato (cap. 17-19), in cui se l’inchiesta è stata favorevole, il simpatizzante comincia a seguire una catechesi che dura tre anni e che provoca una inchiesta sul proprio comportamento. I catecumeni pregano separatamente e non con i fedeli. Terza tappa: la preparazione prossima al battesimo (cap. 20), questa avviene dopo tre anni di catecumenato, il quale dopo essere stato interrogato può ascoltare il Vangelo. Da qui in poi il catecumeno prenderà il nome di

28 A. Nocent , Anamnesis, la liturgia , i sacramenti,la storia della celebrazione, vol. 3/1 Genova 1986 p.31

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electus. Non solo ma riceve anche l’imposizione delle mani quotidiana ed è esorcizzato. Quarta tappa: l’iniziazione (cap. 21), qui abbiamo la descrizione di tutti e tre i sacramenti dell’iniziazione. I futuri battezzati portano solo il necessari o per l’eucaristia, poiché saranno degni di offrire. L’acqua viene benedetta al canto del gallo. Il battesimo avviene con qualsiasi acqua. Poi i candidati si tolgono i vestiti e vengono battezzati i bambini che sono in grado di rispondere alle domande sulla fede, diversamente lo faranno per loro i genitori o i parenti prossimi. Abbiamo poi la benedizione degli oli sacri ossia “l’olio d’azione di grazie” e “l’olio di esorcismo”. Quest’ultimo servirà per l’unzione del candidato dopo rinuncia a Satana attraverso una formula. Il candidato entra nell’acqua e colui che lo battezza, imponendogli la mano, lo interroga sulla fede a cui risponde con” Credo”. Dopo il battesimo viene unto con l’olio dell’azione di grazie. A ciò segue la confermazione, che avviene all’interno della chiesa, nella quale i neofiti entrano vestiti. Il vescovo impone loro la mano pronunciando la formula.29 Poi sempre il vescovo unge la testa del neofita e traccia il segno della fronte sulla croce e gli da il bacio di pace. Adesso il neofita può accostarsi alla santa eucaristia : i diaconi presentano l’oblazione al vescovo il quale rende grazie sul pane, affinché sia simbolo del corpo di Cristo; sul calice del vino, affinché sia l'immagine del sangue che è stato versato per chiunque crede in Lui; sul latte e miele, per indicare la promessa fatta ai nostri Padri nella quale si parla della terra dove scorre latte e miele: su questa terra Cristo ha offerto la sua carne della quale, come bambini, si nutrono coloro che credono in Lui; sull’acqua offerta per significare il bagno purificatore, affinché l’uomo interiore, cioè l’anima, ottenga gli stessi effetti del corpo. Di tutte queste cose il vescovo parlerà a coloro che ricevono la comunione. Quando egli ha spezzato il pane lo presenta a ciascuno e dice: “il pane del cielo in Cristo Gesù”, colui che riceve il pane risponde: “Amen”. Se i sacerdoti non sono sufficienti, i diaconi tengono il calice. Il primo presenta l’acqua; il secondo, il latte e il terzo, il vino. Colui che presenta il calice dice: “in Dio Padre onnipotente”. E chi lo riceve risponde “Amen”; “e nel Signore Gesù Cristo” e si risponde “Amen”; “e nello Spirito Santo della Chiesa” e si risponde “ Amen”. Quinta Tappa: la mistagogia, nella quale ognuno dopo aver terminato tutto si impegna a comportarsi bene e ad essere pieno di zelo per la Chiesa, mettendo in pratica quanto appreso e progredendo nella pietà.30 29 Op. cit. pp. 34-35 30 Op. cit. p. 36

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Conclusioni Il percorso appena compiuto ci ha permesso, anche se in grandi linee, di vedere come “essere iniziati” assuma significati diversi nelle varie aree geografiche e comunità. In Israele, abbiamo osservato la “circoncisione” che ha come diretto riferimento quello all’alleanza e l’appartenenza ad un popolo e non uno tra tanti ma il popolo di Jahvè. Comunità ancora più ristrette, quelle degli “Esseni” e dei “Terapeuti” si muovono più o meno sulla stessa linea ma con un rito diverso: qui il percorso iniziatico che ha il suo culmine nell’appartenenza alla comunità avviene attraverso prove e giuramenti. Stessa cosa si può dire per il culto di Mithra, anche se esso è caratterizzato da un aspetto misterico e per le particolari riserve ai suoi adepti (solo gli uomini ammessi). Infine l’iniziazione cristiana, che nelle sue prime forme, mostra già chiaramente il suo orizzonte: diventare Cristiani, di cui dicevamo all’inizio, figli di Dio, membra di un corpo in cui Cristo è capo, per dirlo con le parole di San Paolo: tutti segnati dallo Spirito, dallo stesso sigillo, formano un solo corpo nello stesso Spirito (I Corinzi 12,13). Quindi, tutte queste realtà, che sono tra di loro diverse in ragione dell’origine, della collocazione geografia, e dell’organizzazione interna, hanno tuttavia un elemento di coesione: il rito, anche se è chiaro che i suoi elementi variano, come abbiamo visto per svariate ragioni. Ancora una volta ci si rende conto come, anche se nella diversità, ci può essere un unità: individui diversi nella loro origine cercano tuttavia un contatto con la divinità attraverso il rito e per accedervi devono essere ammessi in una comunità (esseni, terapeuti). In linea generale si può comunque dire che il rito è certamente un punto di unione e non di separazione, come più volte è già stato affermato. BIBLIOGRAFIA GENERALE § Bibbia di Gerusalemme, EDB Bologna 2002 § AA. VV. Dizionario di Liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001 § AA.VV. Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, San Paolo,

Cinisello Balsamo 2006 § AA.VV. I Classici Utet, I manoscritti di Qumran, Torino 1986 § AA.VV. Catechismo della Chiesa Cattolica, libreria editrice Vaticana,

Città del Vaticano 1997 § AA. VV. Enciclopedia delle religioni, Religioni del mediterraneo del vicino

Oriente antico, Milano 2002 § B. S. Childs, Il Libro dell’Esodo, commentario critico teologico, Casale

Monferrato 1995

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§ H. Denzinger, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, edizione bilingue, a cura di P. Hunermann, EDB Bologna 2003

§ E. Lohse, L’ambiente del nuovo testamento , Brescia 1993 § A. Nocent, Anamnesis, la liturgia , i sacramenti,la storia della

celebrazione, Genova 1986 vol. 3/1 § H. Ringreen, Israele, i Padri, l’epoca dei re, il giudaismo, Milano1987 § C. Westermann, Genesi, Casale Monferrato 1989

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MASCHERAMENTO E SOGNO: VISIONI ONIRICHE ED EPIFANIE DIVINE NELL’ENEIDE. di Lavinia Scolari Conferenza tenuta il 14 maggio 2009 presso il Liceo Garibaldi, Palermo L’indagine della struttura compositiva dell’Eneide e della rielaborazione del repertorio mitico sotteso spinge a chiedersi perché e in che modo, in un epos volto a celebrare la grandezza del princeps e di Roma, il poeta configuri un dialogo narrativo tra dimensioni diverse: quella dei viventi, degli dèi e delle ombre, mettendo in comunicazione la mortalità, l’immortalità e la morte.

I canali letterari attraverso i quali Virgilio sviluppa tali relazioni ontologiche possono essere ricondotti a due tipologie: il mascheramento e il sogno, di cui la presente indagine tenterà di delineare modalità, forme e finalità narrative. In primo luogo è dunque necessario fornire una definizione convenzionale di quel modulo formale che abbiamo denominato “mascheramento”: per mascheramento, in questa sede, intenderemo qualsiasi condotta o azione di occultamento o alterazione dei tratti pertinenti e identitari di un singolo soggetto o oggetto, finalizzata al raggiungimento di un obiettivo specifico, sia esso salvifico o contaminante.

Gli attori principali del mascheramento epico, coloro, cioè, che ideano, comandano o effettuano l’alterazione o l’occultamento dei tratti specifici di un personaggio o di una situazione vigente nella quale intendono intervenire, sono gli dèi: essi attengono alla dimensione dell’immortalità e si manifestano occultando il loro nume con un habitus e una facies umani al fine di istituire relazioni “ordinate” (non caotiche o profane) con dimensioni altre come quella della mortalità rappresentata dai viventi. Il mascheramento divino virgiliano si distingue in due categorie, individuabili tramite l’esame dello scopo cui esso è volto: il mascheramento salvifico e il mascheramento contaminante.

Virgilio sembra prediligere, per frequenza di adozione, il mascheramento salvifico, il cui scopo è la difesa dell’eletto del Fato e la sua protezione da ogni pericolo o corruzione. L’ esempio per eccellenza di mascheramento salvifico virgiliano, inteso come epifania divina, è quello compiuto da Venere, che si rivelerà principale attrice di questa tipologia di dolus benevolo (cfr. Ae., I, 314-334).

Enea è appena approdato in Libia, sede del rifondato regno di Didone, ed è ancora ignaro del luogo e desideroso di riceverne notizie. Così, occultate le navi, si reca in esplorazione.

cui mater media sese tulit obvia silva

virginis os habitumque gerens et virginis arma

Spartanae, vel qualis equos Threissa fatigat

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Harpalyce volucremque fuga praevertitur Hebrum.

Gli si fece incontro la madre nel mezzo della selva, recando di vergine il viso e l’aspetto e di vergine Spartana le armi, o quale incalza i cavalli la tracia Arpalice e con la sua fuga vince l’alato Ebro. (Ae. I, 314-317)

Venere si manifesta al figlio nelle vesti di vergine cacciatrice paragonata ad Arpalice e rivolge la parola ai forestieri che ha di fronte chiedendo loro informazioni sulle sue stesse sorelle, se mai le abbiano viste. La ricerca di una rivelazione da parte della dea fa risaltare il contrasto tra l’esordio dell’incontro e il suo prosieguo, giacché Venere, avviluppata nel suo mascheramento, tenta di ottenere da Enea una verità che lei stessa nasconde, ma si prepara a fornirne un’altra dischiudendo ai Dardanidi l’intera vicenda di Didone. Da questo primo esame emerge la modalità di composizione del mascheramento virgiliano, che gioca formalmente sull’antitesi, conforme alla sua natura di doppio e ambivalente. Qui l’ambivalenza non è volta all’inganno, ma si rivela cifra stilistica dell’epifania della dea.

Sic Venus et Veneris contra sic filius orsus:

‘nulla tuarum audita mihi neque visa sororum,

o quam te memorem, virgo? namque haud tibi vultus

mortalis, nec vox hominem sonat; o, dea certe

(an Phoebi soror? an Nympharum sanguinis una?)

sis felix nostrumque leves, quaecumque, laborem

et quo sub caelo tandem, quibus orbis in oris

iactemur doceas: ignari hominumque locorumque

erramus vento huc vastis et fluctibus acti.

multa tibi ante aras nostra cadet hostia dextra.’

Così parlò Venere, e di contro il figlio di Venere iniziò così: “Non ho udito né visto nessuna delle tue sorelle, o… Come ti potrei chiamare, vergine? E infatti non hai volto mortale né umana risuona la tua voce; o, dea di certo (o forse sorella di Febo? O una del lignaggio delle Ninfe?) Sii propizia verso di noi, chiunque tu sia, allevia le nostre fatiche e infine spiegaci sotto quale cielo, in quali sponde del mondo veniamo scagliati: ignari degli uomini e dei luoghi erriamo, spinti qui dal vento e dai vasti flutti. In tuo onore, davanti agli altari, molte vittime cadranno per mano mia.” (Ae. I, 325-334)

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Venere appare sotto mentite spoglie, eppure Enea riconosce in lei un vultus e una vox sovrumani senza dover investigare oltre sulla sua identità; così la supplica subito di essere propizia verso di lui e gli altri Frigi, di alleviare i loro affanni e di rivelare (cfr. docere, Ae. I 332) in quale spiagge siano approdati.

Enea è dotato della capacità di discernimento del vero, forte di una visione penetrante che disvela il mascheramento e gli permette di rimanere pius e rispettoso dinanzi ad una dea celata, ch’egli riconosce come tale. Nonostante os e habitus siano quelli di una virgo, il vultus riluce di un alone divino e la vox riecheggia della sua immortalità. Le due coppie di sostantivi, dunque, creano un’antitesi semantica che trova il suo carattere distintivo nell’apparenza: os e habitus sembrano indicare un’esteriorità, un’immagine anche legata all’aspetto del volto, mentre vultus segnala non solo il viso, ma anche un atteggiamento dello sguardo.1 La voce e gli occhi divengono importanti strumenti di evocazione e di comunicazione che lasciano filtrare la loro reale essenza solo a chi sa scorgere in essi, poiché finiscono per instaurare con l’altro una relazione biunivoca che il mero aspetto non può realizzare. Dunque vox e vultus, voce ed espressione dello sguardo, si muovono verso l’interlocutore creando un rapporto in grado di trasmettere una disposizione interiore e un pensiero cui si dà consistenza vocale, mentre os e habitus si offrono sì alla vista dell’altro (secondo la concezione latina per cui la visione sia un processo di movimento dall’oggetto al soggetto che guarda), ma non attivano nessun rimando poiché non gettano alcun ponte verso la propria sfera interiore, schermati come sono dalla loro apparenza. Pertanto, Enea, in un primo approccio con la virgo, ne osserva la maschera costituita dal volto illusorio di cui Venere si riveste, poiché altrimenti l’incommensurabilità del divino non potrebbe mai entrare in relazione con la finitezza dell’umano.2 Successivamente, però, la voce di lei e lo sguardo immortale conducono l’eroe all’identificazione dell’identità nascosta.

L’epifania della divinità, anche se filtrata dall’inevitabile mascheramento, offre l’occasione ai Troiani di richiedere un aiuto soprannaturale, e questo consiste in due suppliche: l’attenuamento delle fatiche (cfr. levare laborem , Ae. I 330) e la rivelazione delle proprie “coordinate”. In altre parole, Enea domanda un intervento sul piano identitario; la sua richiesta è quella di 1 Di certo esiste un legame sinonimico tra i lemmi sostantivali os e vultus; il primo assume il significato di “bocca come organo della parola”, ma per un’estensione di senso paragonabile a quella di vultus significa anche “espressione del viso, faccia, viso” e “maschera”. Queste ultime sfumature semantiche, specie nell’accostamento con habitus, mi sembra siano da considerarsi nella traduzione del termine al v. I, 315, giacché os, in questo contesto, esprime un aspetto del viso del tutto esteriore, vicino alla maschera, che la dea indossa per poter manifestarsi ai mortali. Il termine vultus (Ae. I 327), invece, indica il “volto come traduttore delle emozioni dell’animo”, e in tal senso subisce uno slittamento semantico e passa a significare “gli occhi”, intesi come “organo della visione”. Cfr. ERNOUT A., MEILLET A., Dictionnaire étymologique de la langue latine. Histoire des mots, Paris 2001, s. v. 2 Un esempio immediato della pericolosità del contatto fra la sfera divina e quella umana è dato dal mito di Semele, madre di Dioniso, la quale chiese a Zeus di mostrarle la sua verace essenza e dinanzi a quest’ultima, abbacinante e incontenibile, fu incenerita. La contemplazione di una divinità è un nefas, come dimostrano anche gli episodi mitici di Atteone e di Tiresia, che per un malaugurato caso scorsero delle divinità ignude, rispettivamente Diana e Pallade, e furono severamente castigati.

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affievolire i travagli e accrescere la consapevolezza dei profughi. Dalla dea si reclama parte di due condizioni di cui ella gode pienamente: l’assenza di turbamento e la conoscenza. L’adempimento della richiesta viene bilanciato con la promessa di sacrifici in suo onore.3

Il brano è costruito formalmente sull’intreccio di mascheramento e visione, in modo che le due componenti si scambino con giochi contrastanti di grande efficacia poetica: la dea è mascherata e si cela alla loro vista, ma chiede ai Frigi di monstrare (cfr. Ae. I, 321) ciò che essi hanno visto; quelli errano da molto tempo, e lei domanda delle sue erranti sorelle (cfr. Ae. I, 322). Chiede loro di rivelarsi e di rivelare, mentre sarà lei a dispiegare l’intera tragedia di Didone e la fondazione di Cartagine; dopo essersi smascherata dal suo camuffamento umano, fa in modo che sia Enea ad essere occultato alla vista dei Cartaginesi. Questo conferma quanto anticipato: è l’antitesi la figura letteraria che sorregge sul piano formale il mascheramento salvifico.

Esortata a parlare, Venere dapprima presenta brevemente il luogo dove i profughi Troiani hanno naufragato come Punica regna (Ae. I 338), città dei Tirii e di Agenore, fondatore di Sidone e antenato della regina cartaginese. Il primo scopo del mascheramento è dunque quello della rivelazione: attraverso la sua forma mascherata Venere fornisce al figlio una conoscenza utile al proseguimento del suo tribolato cammino. Quindi alla dea viene assegnato il compito di narrare la tragica vicenda di Didone; le viene così riconosciuta la funzione di rivelatrice, permessa dal filtro del mascheramento. Inoltre, dopo aver domandato ad Enea notizie sul suo conto fingendo di ignorarne la storia, Venere non riesce a tollerare il lamento del figlio e così il suo disvelamento, precedentemente concentrato sul passato di Didone e sulla situazione contingente di Cartagine, si estende al futuro imminente che aspetta Enea nella reggia libica.

Citerea finge di decifrare i segni di buon auspicio di uno stormo di cigni sopravvissuti all’attacco di un’aquila, inserendo un ulteriore disvelamento simbolico di un omen e riconducendo l’arte della divinazione (augurium , Ae. I 392) all’insegnamento paterno. La rivelazione della dea camuffata non riguarda soltanto il passato e il presente, ma si estende fino a coinvolgere il futuro, che la dea scorge tramite la scienza augurale.

Dixit et avertens rosea cervice refulsit,

ambrosiaeque comae divinum vertice odorem

spiravere; pedes vestis defluxit ad imos,

3 Nonostante quello di Venere non sia un semplice mascheramento ‘profetico’, bensì rivelatore, come si esporrà nel corso della presente trattazione, la richiesta che Enea le rivolge, certo che la sua interlocutrice sia una divinità, si chiude come una “preghiera di supplice” suggellata dalla promessa di “ringraziamento tramite sacrifici”. Questo comportamento è ascrivibile ad una delle ultime fasi dello svolgimento degli episodi profetici virgiliani studiati da O’HARA J. J., Death and optimistic prophecy in Vergil’s Aeneid, Princeton 1990, p. 15.

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et vera incessu patuit dea. ille ubi matrem

agnovit tali fugientem est voce secutus:

‘quid natum totiens, crudelis tu quoque, falsis

ludis imaginibus? cur dextrae iungere dextram

non datur ac veras audire et reddere voces?’

Disse così e voltandosi rifulse nel roseo collo e la chioma effuse dal capo un divino profumo d’ambrosia; la veste le ricadde giù fino ai piedi, e nell’incedere si rivelò vera dea. Quello, non appena riconobbe la madre, la inseguì mentre fuggiva con tali parole: “Perché tante volte, anche tu crudele, inganni tuo figlio con false immagini? Perché non mi è dato di congiungere la destra alla destra e di ascoltare e ricambiare parole autentiche?” Ae. I, 402-409)

Al detentore del potere, e più in generale al mortale, il dio si manifesta attraverso una facies altra per potere risolvere l’ineludibile distanza tra la sua divinità e la mortalità di quello, al fine di rivolgergli un’ingiunzione o un monito.

Lo schermo di cui Venere fa uso per incontrare il figlio è dunque quello del mascheramento, inteso come mutamento della propria identità esteriore attraverso l’assunzione di un habitus umano che le permetta di avvicinarsi ad Enea con naturalezza.4 A conferma dell’intervento di questo accorgimento vi è la presenza dell’ultima fase tipica del mascheramento, ovvero sia il disvelamento. Nel caso di Venere, non è la vittima dell’inganno visivo a smascherare l’autore della fraus, ma è la stessa dea che si rivela, dando luogo ad una manifestazione divina che funge da disvelamento “atipico”, peculiare di una divinità mascherata. La verace essenza di Venere “si apre” agli occhi di Enea (et vera incessu patuit dea, Ae. I 405) in un quadro dal profondo effetto visivo: la descrizione della dea rivelata dipinge la scena del suo allontanamento nella sfumatura dei tratti umani; Venere si riappropria del chiarore divino e del profumo di ambrosia, e manifesta la sua divinità solo dopo essersi scostata dal figlio. Ciò conferma lo scopo del mascheramento e la sua funzione in questo contesto: esso serve alla dea per entrare in relazione con Enea attraverso un indispensabile filtro comunicativo che, pur avviluppandone l’identità celeste, in realtà favorisce, e non contrasta, la concessione di riposte e, pertanto, la rivelazione di alcune verità prima celate. In modo apparentemente paradossale, è solo attraverso il mascheramento, sia esso quello dell’enigma profetico o dell’identità divina, che gli dèi rendono i mortali partecipi di una porzione di verità e di conoscenza. Non tutti, però, 4 Enea parla di falsae imagines (cfr. Ae. I 407-408) in riferimento al mascheramento di Venere, tuttavia il termine falsus, come osservano puntualmente KOPFF E. C., KOPFF N. M., Aeneas; false dream or messenger of the Manes? (Aeneid. 6. 893 ff.), “Philologus” CXX, 1976, p. 250 qui non designa, come accade per lo più negli altri luoghi del poema in cui si trova, il carattere di “irrealtà”, ma uno stato di ingannevole illusione: “Falsus is used here of the deceptive reality when contrasted in the context of the word verus.”

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sono in grado di decifrare i messaggi presaghi o la loro provenienza divina, ma Enea ne ha la facoltà, e questa dote lo rende capace di giungere all’agnizione della madre (cfr. agnoscere , Ae. I, 406). Il mascheramento di quest’ultima, come Enea stesso afferma, è un’alterazione della imago divina che inganna l’occhio umano (cfr. falsis / ludis imaginibus?, Ae. I, 407-408), ma, nonostante questa falsificazione, Venere non mente al figlio, infatti Enea apprende la verità dalla madre, benché da una voce che non appartiene alla dea (cfr. Ae. I 408-409).

at Venus obscuro gradientis aëre saepsit,

et multo nebulae circum dea fudit amictu,

cernere ne quis eos neu quis contingere posset

molirive moram aut veniendi poscere causas.

Ma la dea Venere li cinse mentre avanzavano di un’oscura aria e riversò intorno a loro un fitto manto di nebbia, perché nessuno potesse distinguerli o toccarli, o causar loro indugio o domandare le ragioni della loro venuta. (Ae. I, 411- 414)

Dopo essersi svelata agli occhi del figlio, Venere lo occulta agli occhi dei Cartaginesi affinché nessun impedimento si frapponga tra lui e la reggia di Didone.5 Il mascheramento non è quindi uno strumento di frode, ma una modalità di protezione per l’eletto del Fato (cfr. saepire , che oltre al senso di “cingere con una siepe”, “chiudere”, ha anche quello di “proteggere”, “difendere”, Ae. I, 411); esso non è un drappo sotto al quale si nascondono rovina e morte, ma uno scudo che, nell’invisibilità che circonfonde l’eroe, gli consente di superare incolume qualsiasi intralcio (cfr. mora, Ae. I, 414).

Dunque, quello che Enea esperisce inconsapevolmente non è un vero e proprio mascheramento, giacché la sua identità non viene alterata o contraffatta, ma un occultamento che lo riveste d’una coltre di nebbia. Inoltre, non è l’eroe della pietas ad operare l’obnubilamento, ma la sua divina madre, che, come Giove e Minerva, ma in minor grado, possiede una µ? t ?? tutta volta alla seduzione. Infatti, anche Venere/Afrodite partecipa di un tipo di astuzia, quella amorosa, assieme ad un’ambiguità ingannevole che si mostra icasticamente nell’obliquità del suo sguardo.6

5 Sulla funzione di Venere, ma anche di Giunone, in rapporto alle vicende cartaginesi, cfr. BANDINI M., Didone, Enea, gli dei e il motivo dell’inganno in Virgilio, Eneide IV. Il poeta e i suoi personaggi, “Euphrosyne” XV, 1987, pp. 89-108. 6 Va segnalato che il lemma aggettivale che in greco indica quell’aspetto dello sguardo, il cosiddetto “strabismo di Venere” è ?????, cioè “obliquo”, “storto”, e dunque “ambiguo”. Non a caso la divinità enigmatica e ambigua per antonomasia, Apollo, è anche chiamato il Lossia. La rappresentazione dell’ambiguità e della µ? t?? viene dunque espressa per mezzo del concetto di doppiezza e ambivalenza che, in Venere, si riflette nello sguardo.

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Lo scopo dell’occultamento di Enea è quello di sottrarlo alla vista altrui (cfr. cernere , Ae. I, 413, atto a indicare una visione carica della capacità di distinguere e osservare) e ai pericoli che corre chiunque sia visto e riconosciuto come straniero.

infert se seaptus nebula (mirabile dictu)

per medios, miscetque viris neque cernitur ulli.

Cinto di nebbia (mirabile a dirsi) si porta in mezzo

alla gente e ad essa si mescola senza che alcuno lo scorga. (Ae. I, 439-440)

Il mascheramento di Enea rientra nel modello salvifico che Venere ha sperimentato su di sé, giacché è attraverso la sua azione che l’eroe si palesa davanti ai Tirii ottenendo il favore, l’aiuto, e perfino l’amore della loro regina.

Ai mascheramenti divini con finalità salvifiche, Virgilio affianca un mascheramento divino con finalità contaminatrici, la cui azione sovversiva e fallace è assegnata alle divinità infere della contaminazione per antonomasia: le Furie. La Furia Aletto, invocata da Giunone in persona per seminare i crimina belli, decide di scendere ella stessa sulla terra per istigare Turno alla guerra contro Enea, che si appresta a sottrargli il regno di Latino assieme alla sposa promessa. Ma per avvicinare il suo aspetto infero al mortale Rutulo la tristis dea si avviluppa in un mascheramento, assumendo il sembiante di una anus Iunonis e sacerdotessa del tempio.

Alecto torvam faciem et furialia membra exuit, in vultus sese transformat anilis et frontem obscenam rugis arat, induit albos cum vitta crinis, tum ramum innectit olivae; fit Calybe Iunonis anus templique sacerdos, et iuveni ante oculos his se cum vocibus offert ‘Turne, tot incassum fusos patiere labores, et tua Dardaniis transcribi sceptra colonis?

Aletto si spoglia del suo torvo aspetto e delle membra di Furia, si trasforma in volto di vecchia, e di rughe solca la turpe fronte, avvolge con una benda sacra i canuti capelli e fra questi intreccia un ramoscello d’olivo; diventa Calibe, vecchia consacrata a Giunone, sacerdotessa del tempio, e si mostra davanti agli occhi del giovane con queste parole: “Turno, sopporterai che tante fatiche siano state vanamente effuse, e che il tuo scettro passi ai coloni Dardanidi?”

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(Ae. VII, 415-422)

La relazione tra una notturna creatura dell’Ade e un vivente va vissuta attraverso un filtro che ne permetta l’incontro senza suscitare nel mortale turbamento o smarrimento. Aletto vuole sì contaminare l’animo del Rutulo, infiammarlo e spronarlo ad assecondare i piani di Giunone, ma senza inserirsi in maniera evidente all’interno della complessa sequela di eventi ch’ella ha il compito di muovere dall’esterno, non di esperire come una dei protagonisti. Pertanto risulta necessario ed essenziale il mascheramento come filtro comunicativo per persuadere sin nel profondo il Rutulo senza che la rovinosa identità della Furia emerga e atterrisca l’eroe. Quindi Aletto si spoglia della torva facies e dei furialia membra (Ae. VII, 415) per rivestirsi di un vultus anilis (Ae. VII, 416) che, solcando di rughe la obscena frons (Ae. VII, 417), le permetta di passare da una forma all’altra (cfr. transformare, Ae. VII, 316), in un cambiamento esteriore7 ingannevole e fallace che punti, al fine di persuadere, sulla capacità relazionale del vultus, inteso come espressione di una disposizione interiore, in questo caso indirizzata alla fraus. Ma il mero mascheramento, allo scopo della contaminazione, si rivela assai poco efficace. Aletto si dichiara inviata dalla Saturnia omnipotens (Ae. VII, 428) a pungolare l’animo di Turno alla guerra e alla vendetta contro quel rex che, infrangendo la promessa, gli nega il coniugium con la figlia e gli sottrae ingiustamente quegli sceptra (Ae., VII 422) che gli spettano di diritto e che Latino trasferisce ai profughi Dardanidi. La Furia tenta di circuire il Rutulo offrendogli la rappresentazione di un comportamento irrispettoso e iniquo tenuto da Latino ai suoi danni, per infondere nel giovane un naturale sentimento di vendetta e rivalsa. Ma Turno non cade subito nella rete della sacerdotessa di Giunone, sotto le cui mentite spoglie si cela Aletto, e così viene dimostrata la vacuità del mascheramento esteriore come strumento di contaminazione. In realtà non è il mascheramento in quanto tale ad essere inefficace e inadatto alla contaminazione, bensì la forma che la Furia assume, non idonea allo scopo da lei ricercato. L’oscurità, le fiamme, il veleno dei suoi serpenti e l’aspetto infero e raccapricciante che la Furia possiede per nascita e stirpe si rivelano assai più idonei a trasmettere il furor di quanto non lo sia il debole e decrepito sembiante di una ianus, benché consacrata a Giunone. Alle orecchie di Turno, le parole della vecchia non risuonano della necessaria autorità, vanamente invocano la Saturnia e tentano di spronare il Rutulo enfatizzando i torti subiti e l’ingiustizia che Latino si prepara a commettere contro di lui. Turno giudica vani i timori della donna, una falsa formido la illude e inganna (Ae. VII 442), come è naturale per la trepidante vecchiezza, così l’assonnato Rutulo l’ammonisce di badare ai suoi 7 Le parti di sé che Aletto rende soggette al mascheramento sono relative alla sfera dell’apparenza (cfr. facies, frons, vultus: la forma, l’aspetto e il volto) per cui il mascheramento è esteriore, del tutto volto a mutare l’apparenza della dea, non la sua natura.

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sacri uffici e di non curarsi degli affari della guerra e della pace, prerogativa dei reges, inappropriata ad un’anziana sacerdotessa.

Talibus Alecto dictis exarsit in iras at iuveni oranti subitus tremor occupat artus, deriguere oculi: tot Erinys sibilat hydris tantaque se facies aperit; tum flammea torquens lumina cunctantem et quaerentem dicere plura reppulit, et geminos erexit crinibus anguis, verberaque insonuit rabidoque haec addidit ore: ‘en ego victa situ, quam veri effeta senectus arma inter regum falsa formidine ludit. respice ad haec: adsum dirarum ab sede sororum, bella manu letumque gero.’ sic effata facem iuveni coniecit et atro lumine fumantis fixit sub pectore taedas.

A tali parole Aletto avvampò d’ira. Ma un improvviso tremore coglie le membra del giovane mentre sta parlando, gli si irrigidirono gli occhi: di quante idre sibila l’Erinni, tanto grande l’aspetto si rivela; allora torcendo lo sguardo infiammato respinse quello, che tentennava e cercava di dire di più, rizzò dalla chioma due serpenti, schioccò le fruste e soggiunse così con voce rabbiosa: “Eccomi, avvinta dal torpore, me che la vecchiaia, sgravata del senso del vero, tra le armi dei re inganna con false paure; guarda a costei: vengo dalla sede delle funeste sorelle e di mia mano reco guerre e morte.” Così dicendo scagliò una face contro il giovane e gli infisse nel petto fiaccole fumanti di fosca luce. (Ae. VII, 445-457)

L’ira scuote la dea della Rabies, che si sveste del pallido mascheramento facendo rabbrividire Turno dinanzi alla vera facies della Furia che gli si svela. Il disvelamento dell’aspetto repellente del mostro, segnalato dall’espressione tanta se facies aperit (letteralmente “tanto grande l’aspetto si rivela”, Ae. VII, 448), si mostra assai più incisivo del travestimento: due serpi si drizzano tra gli immondi capelli, i flammea lumina (Ae. VII, 448-449) si volgono ardenti e la frusta schiocca nell’aria: solo questo basta alla Furia per terrorizzare Turno e governarne la volontà: mostrare la propria natura infernale e gli attributi della sua essenza contaminatrice. Sono essi a concedere ad Aletto il titolo di apportatrice di guerra e morte (bella manu letumque gero, “di mia mano reco guerra e morte”, Ae. VII, 455); nasconderli, invece, equivale a sminuire la potenza contagiosa della divinità ctonia. Questo fallimento conferma il ruolo contaminatore dell’aspetto esteriore delle Erinni: le fiamme, i serpenti e la frusta cooperano alla sua funzione di esortazione al delitto e all’eccesso, di sovversione e di contagio esiziale. Infatti, spogliatasi del suo travestimento, la

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Furia incita Turno ad osservarla (cfr. respice, Ae. VII, 454), poiché questi deve guardare gli attributi e le forme dell’ira distruttiva che la Furia incarna per esserne contagiato. Il furor passa attraverso la vista e si imprime nella mente e nell’animo.

Il mascheramento divino di contaminazione, nel poema virgiliano, mostra la sua efficacia nella fase del disvelamento. Solo quando Turno viene atterrito dall’aspetto mostruoso di Aletto la contaminazione si infonde in lui e i germi della guerra vengono gettati.

La Furia, obbediente ai dettami di Giunone, ha spronato il Rutulo alla guerra, ma una sovranità più alta e incontestabile, Giove, le ordina infine di tornare a contaminare Turno, ma stavolta per decretarne l’attesa sconfitta, come il destino ha prescritto.

postquam acies videt Iliacas atque agmina Turni, alitis in parvae subitam collecta figuram, quae quondam in bustis aut culminibus desertis nocte sedens serum canit importuna per umbras - hanc versa in faciem Turni se pestis ob ora fertque refertque sonans clipeumque everberat alis. illi membra novus solvit formidine torpor, arrectaeque horrore comae et vox faucibus haesit.

Dopo che vide gli eserciti Iliaci e le schiere di Turno, si rimpicciolì ad un tratto nella figura del piccolo volatile che talvolta, posandosi a tarda notte sulle tombe e sui tetti deserti, di cattivo augurio canta nell’ombra - tramutatosi in questo sembiante, il flagello si volge qua e là sibilando contro il viso di Turno, e gli sferza con le ali il clipeo. Un insolito torpore sciolse le membra di quello, i capelli gli si rizzarono per l’orrore e la voce gli si fermò in gola. (Ae. XII, 861-868)

La Dira si avvicina a Turno dopo essersi mascherata (alitis in parvae subitam collecta figuram , Ae. XII, 862), in modo da poter accostarsi visibilmente al Rutulo senza rivelare palesemente il suo reale aspetto. Il mascheramento dell’infera creatura è una trasformazione che consiste nella riduzione della sue dimensioni nel pieno rispetto dei tratti pertinenti, legati alla notte e alla morte. Anche di fronte al mutamento formale (cfr. figura, Ae. XII, 862; hanc versa in faciem , Ae. XII, 865) l’essenza della Furia deve essere rispettata nell’interesse dell’esecuzione del compito assegnatole da Giove. La scelta della civetta come maschera da indossare risponde ai requisiti di omen funesto e macabro, poiché permette alla figlia della Notte di mantenere quei caratteri tipici che la inseriscono in una cornice fatta di oscurità notturna (cfr. nocte serum , Ae. XII, 864), contaminazione e cattivo presagio di morte (cfr. in bustis, Ae. XII, 863; importuna, Ae. XII, 864).

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L’intervento della Dira scardina le membra di Turno e infiacchisce l’avversario di Enea, decretandone la sconfitta. Il guerriero tenta vanamente di scagliare contro il nemico un grosso macigno, ma la Furia impedisce ogni movimento, ne costringe la forza come paralizzandola, e il Rutulo si trova prigioniero di un languore irreale, la sua volontà e il suo vigore sembrano chetati come accade nei sogni.8

Il mascheramento della Furia favorisce il suo compito di contaminazione, che è volto alla sbarramento di qualsiasi via di successo (successum dea dira negat, Ae. XII, 914). Se il mascheramento delle dee olimpiche salva e illumina la verità, conducendo al buon esito del proprio cammino, quello delle dee dell’Ade frena e intorpidisce, occludendo ogni via di fuga e conducendo alla morte più nefasta.

Una tipologia peculiare di mascheramento è il sogno: una solida struttura narrativa che fa di una specifica condizione della visione, quella onirica, uno dei moduli compositivi di maggiore fortuna letteraria. Il sogno, infatti, assume una duplice valenza, sul piano del racconto come su quello della costruzione poetica, divenendo filtro comunicativo tra sfere ontologiche e letterarie distinte. Infatti, l’unica modalità di comunicazione tra il regno dei defunti e quello dei viventi è il sogno, che, nella sua essenza illusoria ed effimera, si pone come necessario filtro al rapporto straordinario tra ombre dell’Ade e uomini ancora in vita.9

Il sogno diventa l’unico “luogo” di incontro fra i due mondi, quello dei vivi e quello dei morti, soglia evanescente capace di segnare il confine tra la vita e l’oblio, eppure uno dei pochi canali di raccordo tra le ombre e coloro che esse hanno lasciato nel mondo. Questa possibilità di comunicazione tra due creature appartenenti a stati opposti (quello dell’esistenza e della sua negazione) è offerta dal sottile vincolo che unisce la dimensione del sonno a quella della morte. Infatti spesso il sonno è paragonato alla morte, e la morte può essere definita come “estremizzazione del sonno” per durata e profondità.10

8 Sul sogno come metafora di una condizione di annichilimento esperita da Turno in seguito all’intervento della Furia, cfr. DI BENEDETTO V., I paragoni del cervo e del sogno nel XII dell’Eneide, “RFIC” 124 (3) 1996, pp. 290-299, che affronta gli schemi formali della similitudine del cervo e dello stato di incoscienza onirica. 9 In relazione alle Porte del Sonno, alle verae umbrae e ai falsa insomnia che le attraversano KOPFF E. C. e KOPFF N. M. avanzano alcune considerazioni di ordine escatologico da non trascurare: “The verae umbrae are going to the Upper World to be reincarnated in physical bodies (6.724-51). These shades have been the subject of memorable narration shortly before Aeneas’ exit and the reader may easily make the association. The falsa insomnia, on the other hand, are visions that look like the spirits in the Underworld and that are sent by the Manes to visit the living.” (cfr. KOPFF E. C., KOPFF N. M., cit., p. 248) 10 A conferma di ciò, anche sul piano linguistico vengono utilizzate perifrasi o lemmi relativi al campo semantico del sonno, del riposo o della quiete “estremizzati” al fine di indicare in modo eufemistico la morte: perifrasi come longus somnus , lemmi quali quies nel senso di sonno eterno e dunque morte, fino al neologismo cristiano di requies aeterna. Sul piano dei rapporti mitici, la relazione diretta fra Sonno e Morte è evidenziata nella Teogonia di Esiodo, dove Hypnos (il Sonno) è presentato come fratello di Thanatos (la Morte), entrambi figli di Nyx (la Notte).

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Pertanto, l’analogia fra il sonno e la morte crea le condizioni necessarie e sufficienti affinché vivo e defunto possano entrare in relazione senza che l’uno sia contaminato o alterato nella sua essenza dall’altro. Detto altrimenti, il sonno e la sua visione specifica (il sogno) diventano ambiente adeguato al “contenimento” di entrambe le condizioni di esistenza senza che la loro vicinanza ne intacchi i tratti pertinenti.

Il primo caso di apparizione onirica di una umbra nell’Eneide è quello di Sicheo, marito di Didone ucciso dal fratello di lei, che le rivela in sogno lo scelus compiuto ai suoi danni.11

‘ipsa sed in somnis inhumati venit imago

coniugis ora modis attollens pallida miris;

crudelis aras traiectaque pectora ferro

nudavit, caecumque domus scelus omne retexit.

tum celerare fugam patriaque excedere suadet

auxiliumque viae veteres tellure recludit

thesauros, ignotum argenti pondus et auri.

his commota fugam Dido sociosque parabat.’

“Ma in sogno le apparve proprio l’immagine dello sposo insepolto che sollevava il pallido viso in modo mirabile: svelò le crudeli are e il petto trapassato dal ferro, e scoprì ogni cieco delitto di quella casa. Allora la persuase ad affrettare la fuga e ad allontanarsi dalla patria, e schiuse dal grembo della terra gli antichi tesori come aiuto per il viaggio, un carico sconosciuto d’oro e d’argento. Spinta da queste rivelazioni, Didone preparava i compagni e la fuga.” (Ae. I, 353-360)

Nel sogno, è l’ombra del trapassato a esprimere l’istanza di consegnare un messaggio, un avvertimento o un monito a colui che sogna.

Il modulo narrativo del sogno, che si configura come espediente formale del disvelamento dell’inganno di Pigmalione (cfr. nudare, Ae. I 356, termine che, oltre al senso concreto, segnala lo svolgimento dello smascheramento; a completarne il valore cfr. retegere, Ae. I, 356, che marca propriamente l’azione di “scoprire”, “svelare”), crea un’occasione di relazione positiva tra il vivente e il defunto, in grado di fornire a Didone la verità ch’ella ignora. 11 Sicheo, Ettore e Anchise sono considerati da KOPFF E. C., KOPFF N. M., cit., p. 248 come appartenenti alla categoria delle apparizioni vere e proprie e dunque certe, mentre Creusa, ad esempio, sembra assumere un dubbio significato. In altre parole è difficile stabilire con precisione se Creusa appaia ad Enea come ombra mentre questi è in stato di veglia o in sogno. Riguardo invece alle apparizioni certe di ombre di defunti: «They are visions on definite missions of warning or admonition». Sull’effettiva esistenza del fantasma di Creusa e di quello di Ettore, al di fuori di una cornice onirica, si esprime CLARK R. J., The reality of Hector’s ghost in Aeneas’ dream, “Latomus” 57 (4), 1998, pp. 836 e sgg.

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L’ombra di Sicheo la visita attraverso una visione onirica (in somnis inhumati imago, Ae. I, 353) che le permette di scorgere l’altra faccia di Pigmalione e di prevenire eventuali insidiosi progetti.

Il sogno, dunque, si fa strumento della visione conoscitiva e della scoperta, oltre ad essere uno schema compositivo di grande utilità strutturale: capace di far voltare il percorso della fabula in nuove direzioni e di risolverne i nodi. Nel sogno, il personaggio addormentato si accosta ad una dimensione a sé aliena e insondabile (quella delle ombre) per trarre da essa non contaminazione, evitata dallo scudo del canale onirico, bensì conoscenza e preveggenza. Coloro che sono dipartiti dal mondo e “non vedono più”, diventano attanti sul piano morfologico, figure “straordinarie” detentrici di una visione “altra”, più ampia nel tempo e nello spazio. L’imago di Sicheo, come detto, viene ad illuminare la comprensione di Didone svelando il caecum domus scelus (“il cieco delitto della reggia”, Ae. I, 356): il sogno salvifico e l’agnizione spingono Didone all’ultima tappa che il potere, indirettamente, le impone: l’esilio e la nuova fondazione.

Entrambe le altre due figure di mortali protagonisti di epifanie oniriche si rivolgono ad Enea: il primo di questi è il più grande eroe di Ilio.

Tempus erat quo prima quies mortalibus aegris

incipit et dono divum gratissima serpit.

in somnis, ecce, ante oculos maestissimus Hector

visus adesse mihi largosque effundere fletus,

raptatus bigis ut quondam, aterque cruento

pulvere perque pedes traiectus lora tumentis.

Era il tempo in cui il primo riposo inizia per gli afflitti mortali e serpeggia gradevolissimo per dono divino. Ecco che in sogno davanti agli occhi mi par che mi si presenti assai mesto Ettore ed effonde copiose lacrime, come un tempo venne trascinato dalla biga, nero di polvere insanguinata e trafitto nei piedi rigonfi da cinghie. (Ae. II, 268-273)

Quando ormai il pericolo incombe e i Greci si sono infiltrati nella rocca di Troia, nel sonno appare ad Enea l’ombra di Ettore per avvertirlo di quanto sta accadendo mentre la città è assopita e per esortarlo ad una rapida fuga.

Alla situazione di totale assenza di strumenti comunicativi che caratterizza l’ombra, la quale è niente altro che una larva, vacua immagine di se stessa, si pone rimedio attraverso quel “cerchio magico” del sogno, capace di dotare uno spettro, cieco e silente, di voce, corporeità e visione, benché quest’ultima sia certamente un dato assai più enfatizzato nel vivo che sogna (cfr. oculi,

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Ae. II, 270; visus, Ae. II 271; videri Ae. II 279; aspicere , Ae. II 285; cernere, Ae. II, 286; tutti in qualche modo riferiti ad Enea, che fruisce di una “visione apparente” cioè di uno sguardo onirico che coglie un soggetto che “appare”, “sembra” assumere un determinato volto e aspetto).12

Ma qual è l’aspetto con cui Ettore si manifesta nel sogno ammonitore?

Nel caso dell’eroe troiano, la facies che Enea contempla è quella con cui egli abbandonò tragicamente il mondo dei vivi. L’assassinato o il defunto per morte cruenta tende a presentarsi devastato dalle piaghe e dalle ferite che lo condussero al trapasso, incrostato di sangue e segnato nel volto. Così accade ad Ettore, che appare maestissimus (Ae. II, 270) e in lacrime (cfr. largosque effondere fletus, Ae. II, 271), cosparso di polvere e sangue (aterque cruento / polvere , Ae. II 272-273), e coi piedi trafitti dalle cinghie che lo tenevano stretto alla biga mentre veniva trascinato (cfr. raptatus bigis, Ae. II, 272) intorno alle mura della patria. Anche l’aspetto dell’ombra e l’habitus con cui si manifesta sono indicativi di un avvertimento che il morto desidera comunicare con un segno visivo nel quale è profondamente coinvolto. Dolore, pianto, sangue e ferite di certo non esprimono successo, ma morte e rovina, sofferenza e caduta.13

‘o lux Dardaniae, spes o fidissima Teucrum,

quae tantae tenuere morae? quibus Hector ab oris

exspectate venis? ut te post multa tuorum

funera, post varios hominumque urbisque labores

defessi aspicimus! quae causa indigna serenos

foedavit vultus? aut cur haec vulnera cerno?’ 12 La domanda di fondo dello studio di CLARK R. J., cit., p. 834 è: l’ombra di Ettore sembra apparire in sogno al personaggio che dorme o è davvero presente? Per rispondere CLARK volge lo sguardo dapprima brevemente al modello onirico di Omero, costituito dal sogno di Patroclo, appoggiandosi su alcune considerazioni sul sogno in ambito greco avanzate da E. Dodds: “The dream-figure (? ?e????) can be a god, a ghost, a pre-existing dream-messenger, or an “image” e?d???? created specially for the occasion. As in Homer, so in Vergil, it visits the sleeping dreamer: the ghost of Hector enters the bedroom of the dreamer, plants itself at the hand of Aeneas’ bed so as to be present (adesse) before the eyes (ante oculos) of Aeneas in sleep, and delivers its message.” Sin dalla composizione del sogno omerico, l’apparizione onirica si mescola ai tratti di una vera e propria “visione”, i cui effetti sul piano formale costituiscono una prova di grande poesia anche in Virgilio (cfr. Ibid., p. 836). In relazione al tema del sogno come manifestazione di una particolare tipologia di visione, sono da considerare le espressioni quali visus in somnis e simili: “Austin lets the phrase visus in somnis be understood as conventional for indicating access by ghosts to the upper world through the medium of dreams, and a hypothetical critic of my argument might take Livy 2, 36, 4 (eadem illa in somnis obversata species visa est rogitare), cited by Austin, as carefully locating the ghost in an “unreal” dimension; this critic might then infer, given the standard ancient doubt about whether the world of ghost actually existed or not (e. g. Propertius 4, 7, 1), that Vergil is leaving the issue open.” (cfr. Ibid., p. 836) 13 Al v. 277 si parla anche della squalens barba, che di certo indica la “barba incolta”, ma con l’uso di un verbo al participio presente (squalere) che possiede anche il senso di “essere in lutto”. Il riferimento alla morte è evidente, ma non solo a quella di Ettore. L’ombra appare per stornare la morte di coloro che sono ancora in vita, e il suo aspetto consunto è espressione di dolore per quanto sta avvenendo e potrebbe ancora succedere.

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“O luce Dardania, o speranza assai fidata dei Teucri, quali tanto grandi indugi ti trattennero? Da quali regioni vieni, atteso Ettore? Come ti rivediamo, spossati, dopo molti lutti dei tuoi, dopo svariate fatiche degli uomini e della città! Quale indegna causa ha deturpato il tuo volto sereno? O perché mi tocca osservare queste ferite?”

(Ae. II, 281-286)

Il primo a parlare è proprio Enea, che domanda il motivo dell’apparizione dell’eroe, delle ferite a lui mostrate e del cordoglio palese nello sguardo. Enea, dunque, comprende il valore segnico della manifestazione di cui è spettatore. Ettore è lux e spes fidissima (Ae. cfr. II, 281) per i Teucri e la salvaguardia della loro stirpe.

Nell’apparizione onirica, il morto, che per antonomasia non ha più alcuna speranza, la consegna e la rafforza; egli, che non vede e vive immerso nell’oscurità della notte eterna, dona luce e schiude la vista di un vivo, svolgendo dinanzi a lui non solo un presente ancora in atto, ma in special modo la prescrizione dei fata e il destino di rinascita per la sua città giunta al tramonto.

‘heu fuge, nate dea, teque his’ ait ‘eripe flammis.

hostis habet muros; ruit alto a culmine Troia.

sat patriae Priamoque datum: si Pergama dextra

defendi possent, etiam hac defensa fuissent.

sacra suosque tibi commendat Troia penatis;

hos cape fatorum comites, his moenia quaere

magna pererrato statues quae denique ponto.’

sic ait et manibus vittas Vestamque potentem

aeternumque adytis effert penetralibus ignem.

“Ohimè fuggi, figlio della dea,” mi dice “e strappa te stesso da queste fiamme. Il nemico tiene le mura; Troia rovina dall’alto della sua sommità. A sufficienza hai dato alla patria e a Priamo: se una mano avesse potuto difendere Pergamo, allora sarebbe stata difesa da questa mia mano. Troia ti affida gli oggetti di culto e i suoi Penati; prendili come compagni di destino, con questi cerca le grandi mura che stabilirai infine, dopo aver errato per il mare.” Disse così e con le mani solleva le bende, la potente Vesta e il fuoco eterno portati via dai penetrali del santuario. (Ae. II, 289-297)

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E così Ettore, benché defunto, interviene ancora per salvare la vita dei suoi, per proteggere la stirpe e garantirne la prosecuzione. Egli è campione di Troia e suo protettore anche nei recessi dell’Ade.

Un terzo episodio di “apparizione onirica” di un mortale defunto ha come protagonista l’ombra di Creusa.14 La modalità di manifestazione della umbra, però, non si inserisce nell’ambientazione di un sogno, ma può definirsi “onirica”, poiché ne ricalca le caratteristiche, lasciando che la donna, appena spirata, si mostri al marito come se fosse la visione di un sogno.

Mentre Ilio è assediata e i nemici si riversano nella città, Enea torna indietro per cercare la sua sposa, risucchiata dal tumultuoso scompiglio dell’insidia achea. Tra i saccheggi e le urla risuonano anche le grida di Enea, che a gran voce chiama il nome dell’amata.

quaerenti et tectis urbis sine fine ruenti

infelix simulacrum atque ipsius umbra Creusae

visa mihi ante oculos et nota maior imago.

obstipui, steteruntque comae et vox faucibus haesit.

Mentre mi lamentavo e correvo senza sosta tra le case della città, l’infelice simulacro e l’ombra di Creusa stessa mi parve di vedere davanti ai miei occhi e la sua nota immagine più grande. Sussultai, i capelli mi si drizzarono e la voce mi si fermò in gola. (Ae. II, 771-774)

Creusa appare allo sposo scevra della cornice del sogno, appena liberatasi della prigione del corpo, ed Enea, alla vista incredibile della sua immagine incorporea, stupisce attonito e la voce gli si spezza dallo sgomento.

La figura della donna ormai defunta viene definita in tre modi diversi all’interno della porzione di testo presa in esame: come simulacrum , umbra e imago.

Il primo termine, simulacrum (Ae. II, 772) senza limitarsi a marcare l’opposizione al corpo come realtà (res) rispetto alla sua rappresentazione fenomenica, marca la somiglianza dell’effigie di Creusa con la persona che ella era in vita.15 Con il sostantivo umbra (Ae. II, 772) si indica il sembiante

14 PEROTTI P. A. Creusa: solo un fantasma, “Aufidus” 19 N° 56-57, 2005, pp. 125-126, esaminando la figura di Creusa, individua una costante dei personaggi che profetizzano, quella della provenienza infera: Creusa, Ettore e Anchise sono tutte umbrae. Fa eccezione soltanto Eleno, il cui intervento divinatore è giustificato dal suo statuto specifico di profeta. 15 Infatti il termine simulacrum è un derivato dell’aggettivo similis indicante “immagine”, rappresentazione”, e come lemma filosofico corrisponde al greco e?d????. Cfr. ERNOUT A., MEILLET A., cit., s. v. Sembrerebbe anche esistere un rapporto etimologico col verbo simulare che inserirebbe simulacrum in una sfera semantica legata alla finzione e all’illusione, cui di certo e?d???? appartiene almeno sul piano logico.

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impalpabile del defunto, l’inconsistenza della sua immagine, che si manifesta nell’evanescenza delle ombre di cui entra a far parte. Infine con imago (Ae. II, 773) affiora il tratto della “rappresentazione” e della “apparenza” già presente in simulacrum , l’oggetto di una visione che si contrappone alla sua autenticità.16 In definitiva, i tre sostantivi rimandano ad una sfaccettata ma omogenea idea di apparenza, impalpabilità e inconsistenza di un’immagine che riproduce in modo quasi ingannevole una realtà ormai perduta.

Sebbene secondo una strutturazione dei lemmi differente, l’apparizione di Creusa riproduce le movenze di quella di Ettore, poiché adopera gli stessi termini (cfr. visa mihi ante oculos, Ae. II, 773; ante oculos…/ visus adesse mihi, Ae. II, 270-271).17 Il verbo videre, nella forma, nella costruzione e nella sfumatura adoperata finisce per segnalare una visione di cui si evidenzia il tratto fenomenico, legato all’apparenza così come si offre allo sguardo (cfr. l’insistenza su ante oculos, Ae. II, 773, 270, espressione comoda anche a fini metrici); l’aggiunta del dativo mihi (Ae. II, 773, 271) crea e rafforza il rapporto diretto tra l’oggetto della visione e il suo soggetto contemplatore.

‘quid tantum insano iuvat indulgere dolori,

o dulcis coniunx? non haec sine numine divuum

eveniunt; nec te comitem hinc portare Creusam

fas, aut ille sinit superi regnator Olympi.

longa tibi exsilia et vastum maris aequor arandum,

et terram Hesperiam venies, ubi Lydius arva

inter opima virum leni fluit agmine Thybris.

illic res laetae regnumque et regia coniunx

parta tibi; lacrimas dilectae pelle Creusae.’

“A che ti giova indulgere tanto in un folle rimorso, o dolce sposo? Questi eventi non accadono senza il volere degli dèi; non ti è lecito portare via Creusa come compagna, né lo permette il reggitore del superno Olimpo. Avrai lunghi esili e ti toccherà solcare la vasta distesa del mare, e giungerai alla terra Esperia, dove il Lidio Tevere scorre tra floridi campi con la sua dolce corrente. Lì eventi propizi, il

Inoltre sul modello enniano del simulacrum nella strutturazione virgiliana del sogno, in particolare di quello di Ettore, cfr. CLARK R. J., cit., p. 839. 16 Con umbra si tende a significare “l’ombra in opposizione al corpo che la produce, da cui ‘immagine senza consistenza, sembiante.’ Al plurale ‘le ombre dei morti.’ Per quanto concerne imago, il lemma si usa per di più nel senso di “immagine”, “rappresentazione”, “ritratto”, ma qui indica il “fantasma” di Creusa, sottolineando la dimensione dell’apparenza rispetto a quella del reale. Cfr. ERNOUT A., MEILLET A., cit., s. vv. 17 Ettore appare in una modalità che viene dal poeta medesimo definita come la stessa di quella della umbra di Creusa, come rammenta CLARK R. J., cit., pp. 836 e sgg. (cfr. ipsius umbra Creusae / visa mihi ante oculos, Ae. II, 772 e sgg.).

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regno e una regale sposa sono pronti per te; frena le lacrime per la diletta Creusa.” (Ae. II, 776-784)

Come nel caso di Ettore, anche Creusa svolge una funzione esortativa per Enea, ma se l’ombra dell’eroe Troiano svelava una verità in corso (l’inganno del cavallo), Creusa spinge più avanti nel tempo il suo ammonimento, profetizzando il destino che i Fati designano all’eroe, per il compimento dei quali risulta indispensabile la morte della donna.18 Le sponde d’Esperia, un regnum come rinascita di questo che ormai crolla sotto ai loro occhi, e una nuova sposa regina: per queste promesse Creusa è sacrificata dagli dèi, che la trattengono a Troia senza infierire con schiavitù e disonore sulla sua breve e infelice sorte.

ter conatus ibi collo dare bracchia circum;

ter frustra comprensa manus effugit imago,

par levibus ventis volucrique simillima somno.

Tre volte tentai allora di cingerle con le braccia il collo; tre volte stretta invano la mano, l’immagine sfuggì, pari a vento leggero e assai simile ad un sogno alato. (Ae. II, 792-794)

Così l’ombra svanisce, come vento che fugge, come un sogno che vola lontano, leggera ed effimera, e benché Enea sia desto dinanzi alla sua velata immagine, tutto è avvinto da un’onirica atmosfera.19

L’analisi delle visioni oniriche fin qui svolta si è concentrata sulle ombre dei defunti, ma Enea riceve anche consigli e moniti dalle divinità, che si offrono alla sua vista nella consueta cornice del sogno. I primi a svelarsi all’eroe per dirigerlo verso la terra che lo attende sono i Penati.

18 Nonostante l’ambiguità delle parole di Creusa, la funzione della sua ombra si dimostra fortemente consolatoria nei riguardi di Enea: l’eroe infatti necessita di essere confortato non solo riguardo al destino che lo attende, ma soprattutto rispetto alla sorte stessa di Creusa, che assicura di non avere né risentimento verso di lui né rammarico per la prematura morte. Ella appare ad Enea in una forma quasi divina, che trascende il normale statuto umano (cfr. KHAN H. A., Exile and the kingdom: Creusa’s revelations and Aeneas’ departure from Troy, “Latomus” 60 (4), 2001, pp. 908 e sgg. 19 I vv. Ae. II, 792-794 costituiscono uno stilema presente più volte nell’Eneide, specie in riferimento alle impalpabili ombre dei morti, come quelle di Anchise e di Didone incontrate nell’Ade. Al riguardo SEGAL Ch. P., cit., pp. 97-101 si propone di esaminare i passi in cui le ombre, come Creusa o Anchise in contesti diversi, scompaiono sfuggendo all’abbraccio dei vivi, motivo stilistico e formale che, secondo lo studioso, incarna la vera essenza dell’arte virgiliana. Suggerendo alcune affinità con l’epillio di Orfeo ed Euridice delle Georgiche (IV.453-527, cfr. Ibid., p. 97), ci si sofferma brevemente sul motivo del “grasping”, ovvero del vacuo tentativo di stringere le umbrae, di afferrarle, ma Creusa, come Anchise e gli altri, è “a vainly grasped wraith”, uno spettro vanamente afferrato (cfr. Ibid., p. 98): “The contrast between the three-fold attempt (ter conatus...) and the three-fold failure (ter frustra comprensa...) widens the gulf between the flesh-and-blood mortal and the evanescent shade and sets off even more powerfully the shade’s elusiveness.”

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Nox erat et terris animalia somnus habebat:

effigies sacrae divum Phrygiique penates,

quos mecum a Troia mediisque ex ignibus urbis

extuleram, visi ante oculos adstare iacentis

in somnis multo manifesti lumine, qua se

plena per insertas fundebat luna fenestras;

[…]

Era notte e in terra il sonno teneva gli esseri viventi: le sacre immagini degli dèi e i Frigi Penati, che avevo portato via con me dal cuore dell’incendio della città, mi sembra si presentino davanti ai miei occhi in sogno, mentre giacevo, manifesti in una gran luce, da dove la luna piena filtrava attraverso le finestre aperte. (Ae. III, 147-152)

I Penati si manifestano in sogno al loro pupillo, mostrandosi nel loro aspetto luminoso davanti ai suoi occhi sopiti (visi ante oculos adstare , Ae. III, 150).20

Il passato, fondante della genia troiana e rappresentato dagli antenati, si propone attraverso il filtro onirico per gettare un ponte verso il futuro e parlare al padre fondatore di un nuovo inizio. Nel sogno di Enea le dimensioni temporali si fondono e schiudono per rivelarsi a lui solo, l’eletto del fato, affinché, conosciuta la destinazione, le vada incontro senza altro indugio.

‘mutandae sedes. non haec tibi litora suasit

Delius aut Cretae iussit considere Apollo.

est locus, Hesperiam Grai cognomine dicunt,

terra antiqua, potens armis atque ubere glaebae;

Oenotri coluere viri; nunc fama minores

Italiam dixisse ducis de nomine gentem.

hae nobis propriae sedes, hinc Dardanus ortus

Iasiusque pater, genus a quo principe nostrum.

surge age et haec laetus longaevo dicta parenti

haud dubitanda refer: Corythum terrasque requirat

Ausonias; Dictaea negat tibi Iuppiter arva.’

“Le sedi devono essere cambiate. Apollo Delio non ti persuase a queste spiagge, né ti ordinò di fermarti a Creta. C’è un luogo, i Greci

20 Cfr. la similare costruzione usata per designare l’apparizione onirica in Ae. II, 773; II, 270-271.

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lo chiamano col nome di Esperia, terra antica, potente per le armi e la fertilità del terreno; la coltivarono uomini Enotri; ora vi è fama che i discendenti abbiano chiamato il popolo Italia dal nome di un capo. Queste sedi ci sono proprie, da qui sorse Dardano e il padre Iasio, dal quale capostipite deriva la nostra stirpe. Orsù alzati e lieto riferisci al padre longevo queste parole di cui non si può dubitare. Ricerchi Corito e le terre d’Ausonia; Giove ti nega i campi Dittei.”

(Ae. III, 161-171)

L’Esperia è la terra da raggiungere, nonché Corito, l’etrusca Cortona, la città che diede i natali a Dardano e che offre ai Troiani la possibilità di ricostituire una potenza maggiore di quella Frigia, ormai svanita nella polvere d’una guerra tumultuosa. Gli dèi e i Frigi Penati rivolgono queste parole indubitabili ad Enea (cfr. dicta / haud dubitanda, Ae. III, 169-170), perché nessuna incertezza si insinui nel suo animo e la corsa verso l’Italia sia spedita e sicura.

talibus attonitus visis et voce deorum

(nec sopor illud erat, sed coram agnoscere vultus

velatasque comas praesentiaque ora videbar;

tum gelidus toto manabat corpore sudor)

corripio e stratis corpus tendoque supinas

ad caelum cum voce manus et munera libo

intemerata focis.

Attonito per tali visioni e per le parole degli dèi (quello non era un sogno, ma chiaramente mi sembrava di riconoscere i volti e le velate chiome e i visi presenti; allora un freddo sudore grondava da tutto il mio corpo) trascino via il corpo dal giaciglio e tendo al cielo le mani volte in su con la voce, e libo ai focolari offerte incontaminate.

(Ae. III, 172-178)

Enea si sveglia di soprassalto dopo la sovrumana visione di cui comprende il ruolo e l’importanza. Non è di certo un normale sogno (cfr. nec sopor illud erat, Ae. III, 173) quello che ha appena avuto, giacché nitide immagini di volti illusori, ma presenti, si palesano ai suoi occhi increduli. Esso è una visione onirica, uno dei canali attraverso i quali più di frequente il divino si manifesta al mortale per ammonirlo o permettergli di accedere ad una dimensione conoscitiva superiore e di diradare la fitta nube dell’error.

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Senza perdere altro tempo Enea rivela il sogno profetico al padre e insieme salpano da Creta fiduciosi nella sua veridicità. Ma alla luminosità degli dèi propizi e dei Penati, foriera di conoscenza e di verità, si oppone un’implacabile oscurità che scende sul mare e sfocia in una tempesta che fa vorticare le onde.

La rotta viene dunque deviata ed Enea esperisce un nuovo error, forse quello che più lo metterà alla prova: quello in terra Libica. Giove, pertanto, non potendo permettere che l’eroe si abbandoni alle libiche mollezze e alla regina Didone, alla quale si è legato per un sincero sentimento, invia Mercurio, in modo da stimolare Enea a riprendere il cammino voluto dal fato. Questi si palesa ad Enea sotto spoglie mortali, ma senza avvalersi del filtro del sogno, e Virgilio tace sull’habitus che il dio assume: egli non si maschera, ma indossa gli attributi che gli pertengono: gli alati calzari e la verga leggera. Solo quando, esortato il Teucro, il Cillenio si diparte da lui, si può riscontrare nella sua partenza un modulo formale debitore dell’espediente del sogno.

tali Cyllenius ore locutus

mortalis visus medio sermone reliquit

et procul in tenuem ex oculis evanuit auram.

Il Cillenio, proferite tali parole, abbandonò l’aspetto mortale a metà del discorso e svanì lungi dagli occhi in una brezza sottile. (Ae. IV, 276-278)

Dopo le apparizioni oniriche, si assiste ad un dissolvimento divino che ripropone uno schema dell’epifania che insiste sul lessico della visione (cfr. visus, procul ex oculis evanuit, Ae. IV, 277, 278), dove la variatio sintattica (procul ex oculis) è in linea con un movimento contrario a quelli precedentemente analizzati: il dio scompare dalla vista sottraendosi ad essa e uscendo dal campo visivo di Enea, mentre prima si manifestava davanti agli occhi, in un movimento di avvicinamento o di proposizione alla vista.

At vero Aeneas aspectu obmutuit amens,

arrectaeque horrore comae et vox faucibus haesit.

Ma Enea ammutolì alla vista come fuori di sé, gli si rizzarono le chiome per l’orrore e la voce gli si fermò in gola. (Ae. IV, 279-280)

La visita di Mercurio, oltre alla durezza delle sue parole, è tanto più sconvolgente per Enea giacché del tutto priva del filtro del sogno. Il dio si

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palesa all’eroe Troiano senza sfumare la sua grandezza nei contorni evanescenti di un notturno sopore, e questi rimane attonito alla vista senza schermi del messaggero degli dèi.

Quello di Mercurio è un caso isolato: l’assenza di filtri, costituiti generalmente dal sogno o dal mascheramento della divinità che si manifesta, dipende dall’esigenza di scuotere con forza l’eroe perché abbandoni la Libia e ritorni ai suoi doveri che sembra aver dimenticato.

Diversa, invece, è la funzione che svolge il dio Tiberino, che appare ad Enea nella forma del sogno e nel cuore della notte. La dimensione notturna contribuisce alla creazione letteraria di un momento di sospensione del racconto bellico al fine di riconfermare il favore dei fata nei confronti del compito assegnato ad Enea. Così, mentre un naturale sopor avvolge tutti gli esseri viventi, Enea infine si addormenta abbandonandosi ad una sera quies (Ae. VIII, 30).

La cornice temporale della notte descrive spesso un’interruzione del movimento narrativo con la quale inserire riflessioni, angosce e paure dei personaggi coinvolti dalla catena di eventi, determinando sul piano poetico una concentrazione interiorizzante sugli stessi. Altrettanto spesso la notte serve ad accompagnare e introdurre quelle apparizioni oniriche di creature sovrannaturali, la cui funzione narrativa svolge un ruolo centrale per riconfermare o motivare la missione intrapresa dagli eroi, nonché indirizzarne nuovamente il cammino.

Il sogno profetico assume dunque una valenza attiva essenziale nella struttura epica, giacché puntella il sentiero del personaggio mitico di una serie di luci che ne chiariscono il senso e la direzione. Ma se questo aspetto riguarda il piano interno alla narrazione, sul versante della struttura poetica dell’opera tali visioni esplicative tessono i nodi della rete compositiva atti a delineare i punti salienti del percorso narrativo: profezie che anticipano il compito assunto dall’eroe e le modalità di attuazione dello stesso, esortazioni alla sua esecuzione, spiegazione degli eventi in svolgimento e infine disvelamento delle profezie iniziali. In altre parole ogni “sogno rivelatore” è una tappa privilegiata del viaggio sia mitico che letterario, in grado di aggiungere un nuovo tassello al suo compimento.

huic deus ipse loci fluvio Tiberinus amoeno populeas inter senior se attollere frondes visus (eum tenuis glauco velabat amictu carbasus, et crinis umbrosa tegebat harundo) [...]

A lui sembrò che il dio stesso del luogo, Tiberino, si levasse vegliardo dall’ameno fiume tra fronde di pioppo (tenue carbaso lo velava d’un glauco mantello e ombrosa canna gli copriva la chioma).

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(Ae. VIII, 31-34)

Dinanzi agli occhi di Enea compare il deus loci, che sembra innalzarsi dalla corrente stessa del fiume Tevere, baluardo vitale e fecondo della gens Latina e sua culla delle origini. Sebbene la descrizione che lo introduce lasci supporre un assopimento di Enea, i tratti e le modalità con cui la divinità fluviale appare all’eroe sono ambigui, a metà tra sogno e apparizione vera e propria. Il dio stesso tenta di fugare il sospetto che la sua presenza sia un onirico inganno (cfr. ne vana putes haec fingere somnum, Ae. VIII 42), tuttavia ciò non induce a ritenere esclusa la cornice del somnium, ma la riqualifica come verace canale di comunicazione tra il dio ed Enea. Se la relazione tra un defunto e un vivente necessita di iscriversi nell’ambito del sogno per allontanare la contaminazione della morte da chi ancora partecipa della vita, quella fra un dio e un uomo (per quanto nato da dea) usa allo stesso modo il filtro onirico, ma per veicolare la più alta complessità divina a misura mortale.

Il sonno, però, per suo carattere naturale, è artefice di immagini vane e illusorie (cfr. vana haec fingere somnum , Ae. VIII, 42) e dunque di inganno, per cui il dio Tiberino, pur non negando la sua volontà di profittare del canale del sogno, ne ristruttura i lineamenti perché la visione che attraverso di esso fornisce non sia scambiata per una fraus onirica, tipica dell’ambito di pertinenza della notte e delle sue fallaci ombre. La sua epifania al cospetto di Enea recupera il lemma verbale della visione apparente (visus, Ae. VIII, 33) ma senza caricarlo di un significato negativo: il dio mostra un suo volto fenomenico che possa essere percettibile alla natura umana, e dunque l’essenza di questa sua manifestazione sensibile viene segnalata attraverso il verbo videri . Tuttavia, poiché tale predicato non contempla una visione universalmente verace e genuina, il dio si fa garante di quella offrendo la prova della sua autenticità divina con la formulazione della profezia che da lì a poco troverà compimento.

Conclusioni

L’analisi qui esposta consente di sottolineare come la riscrittura del mito virgiliano sia sostenuta dalla struttura formale e narrativa del mascheramento, veste compositiva attraverso la quale Virgilio inserisce nella storia due differenti modalità di “apparizioni”: le epifanie divine e le visioni oniriche.

Il ruolo attivo delle divinità, le quali intervengono nelle vicende per mezzo del mascheramento della loro verace essenza (camuffamento o assunzione di forma umana) o del messaggio che intendono recare ai mortali (la profezia), è essenziale nell’Eneide. Il modulo in cui esse vengono calate dal poeta nella narrazione epica veicola per lo più un intervento esterno e superiore (propriamente divino), di segno positivo (salvifico) o negativo

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(contaminante), che si propone generalmente di agevolare e soccorrere l’eletto del fato.

Se alcune divinità si manifestano all’eroe o ai suoi nemici tramite l’espediente del mascheramento, che funge da filtro comunicativo, altre apparizioni, siano esse di dèi e di umbrae, utilizzano lo schema strutturale del somnium : foriere di messaggi divinatori e di conforto, esse per lo più scelgono la visione onirica per entrare in relazione “ordinata” con i viventi, in modo da tenere distinte le due dimensioni in contatto nel sogno: quella della morte o della immortalità e quella della vita mortale.

Tali accorgimenti compositivi puntellano l’intero racconto epico, indirizzando il cammino di Enea e permettendo all’eroe di assurgere a forme di conoscenza divina e salvifica. Queste ultime sono volte a stornare il figlio di Anchise dagli errores e dalle loro contaminazioni, ivi compresa quella che deriverebbe dal contatto caotico fra dimensioni esistenziali divergenti. Il mortale, per sua stessa natura, non può entrare in relazione con la sfera ontologica della morte o dell’inviolabile natura divina senza subirne contagio e necessitare di purificarsi. Pertanto, il filtro comunicativo rappresentato dal mascheramento e dalla visione onirica è indispensabile al fine di mantenere inalterata la pietas e la purezza dell’eroe troiano, padre della stirpe romana e modello di devozione verso gli dèi e i Penati.

Ne consegue che il mascheramento possa essere a buon diritto ritenuto uno schema compositivo e contenutistico di ampia potenzialità poetica e narrativa, giustificato dalla preoccupazione del poeta di presentare il padre fondatore di Roma come un uomo devoto e puro, senza macchia di contaminazione o di empietà, bisognoso dunque di quel canale narrativo che si fa nucleo di temi mitologici e struttura formale di essi.

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UNA COSMOGONIA AL FEMMINILE di Antonio Alongi Conferenza tenuta il 7 giugno 2009 presso l’Associazione Biotos, Palermo Sommario: - 1. La cosmogonia; 2. – Premessa; - 3. Il Kalevala, epica nazionale finlandese; - 4. Miti principali e miti accessori; - 4.1. I Miti principali: Il mito di Ilmatar; - 4.2. La Folaga; - 5. I miti accessori: Il vento fecondante e l’uovo cosmogonico; - 5.1. Il vento fecondante; - 5.2. L’uovo cosmogonico. 1. LA COSMOGONIA Le inevitabili lacune della conoscenza umana si prestarono da sempre ad essere riempite da credenze irrazionali che portano a miti. La cosmogonia, è l’unione di miti e teorie che ogni popolo ha elaborato per spiegare l’origine dell’Universo. La “cosmologia” invece è il complesso di dottrine scientifiche o filosofiche che studiano l’ordine, i fenomeni e le leggi dell’universo. Oggi al termine “cosmogonia”, in molti testi, è attribuito il significato di “mito della creazione”. In contrasto con le cosmologie scientifiche, che spiegano la creazione mediante l’operare di leggi eternamente valide, le cosmologie mitiche lo spiegano narrativamente – come il risultato del processo volitivo di un Nume. In ambito mitologico l’ordine, a differenza di quello scientifico che è necessario in quanto eterno, è qualcosa avvenuto successivamente. Esso non c’è sempre stato e non ci sarà per sempre. Per la maggioranza delle cosmogonie il cosmo primordiale è composto da due principi contrapposti ma complementari. Essi o si trovano eccessivamente vicini e quindi durante la creazione si allontanano o sono eccessivamente lontani, ed in tal caso si avvicinano. Il risultato finale è identico: una combinazione ottimale di congiunzione e separazione che è appunto il principio basilare dell’ordine del mondo. I due principi sono spesso o il cielo e la terra, o il cielo e l’oceano, o l’acqua salata e quella dolce. Fatte queste necessarie preliminari affermazioni nella presente conferenza tratteremo il mito cosmogonico al femminile, descritto nel Kalevala, epica nazionale finlandese. 2. PREMESSA Da più autori esso è stato descritto come un capitolo di storia letteraria de' più curiosi e interessanti. In tale poema popolare, verso per verso, episodio per episodio, canto per canto è stato descritto il nascere ed il crescere dell’origine del mondo. Il Kalevala è un poema epico composto da Elias Lönnrot nel 1849 sulla base di preesistenti poemi e canti popolari della Finlandia. Il termine Kalevala deriva

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da Kaleva, il nome del mitico progenitore e patriarca della stirpe finnica. Kalevala significa letteralmente Terra di Kaleva, ossia la Finlandia (fonte Wikipedia). Esso comprende 50 nini e 22.795 versi. Esso è composto da canti singoli e brevi, espressi oralmente da cantori popolari finlandesi, i c.d. laulajat, che ne conservano la memoria di padre in figlio. Essi raramente lo cantano nell’identica forma, poiché vi aggiungono o tolgono versi, o sostituiscono un personaggio con un altro. Lònnrot1 infatti nella prefazione al vecchio Kalevala ( 1835) afferma che i canti sono combinati secondo il suo parere e riconosce che probabilmente potrebbero essere combinati in modo migliore. Lonnrot è in certo modo l'ultimo e il più grande dei laulajat. Un dotto, senza dubbio; ma un dotto sui generis, che, nato dal popolo, quasi sempre visse in mezzo ad esso, condottovi anche dalla sua professione di medico, lungamente e nobilmente esercitata. Tutta la poesia tradizionale finnica, composta da canti epici, magici, lirici, e da proverbi ed indovinelli, è redatta in un metro unico: il cosiddetto runo. In tal modo Lònnrot senza alcuna difficoltà e senza la minima alterazione inserì nel Kalevala numerosi brani di vario carattere e provenienza. Runo inizialmente era il poeta "cantore". Poi assunse in modo più specifico il significato di canto composto in ottonario trocaico allitterante, che è appunto il metro nazionale finnico. La cosa che più colpisce nel sentir cantare un runo è la monotonia, in quanto ciascuna coppia di versi" ha un'identica cadenza musicale. Si osserva che i laulajat non cantano poemi o poemetti, ma semplici e brevi brani, epici o lirici. Il Kalevala essendo una combinazione di canti collegati fra loro in unità poetica, non pone una questione circa la sua età, ma tante questioni circa l'epoca cui risalgono i vari canti che lo compongono2. Tale epoca non sembra, anche per i più antichi di essi, molto remota. Con certezza si afferma che gli antichi racconti sono intrecciati con elementi cristiani Ricordiamo alcuni esempi caratteristici3: In un canto il seminatore degli alberi (2,12 segg.) è Gesù in persona. Inoltre, l'episodio della madre di Lemminkàinen ricercante il figlio perduto (15,127-88) è ricalcato da leggende" intorno a Maria in cerca di Gesù (v. nell'ultimo runo); [il nino 16 narrava originariamente la discesa del Cristo all'inferno; nel nino 39 e 40 in principio, il racconto del Viaggio per mare risale al Canto del Lago di Genezaret, con Gesù, Pietro e Andrea per personaggi; in 47-49 la liberazione del Sole è in origine opera «del figlio unigenito di Dio, Gesù», il quale lo tolse dal nascondiglio di 1 «... / canti sono ben combinati, secondo il mio parere, nell'ordine che ho loro dato, ma forse si potrebbero combinare anche meglio in un altro ordine». 2 La composizione della poesia popolare che è alla base del Kalevala non risale ad un unico periodo storico ma è stratificata nel tempo. Nel 1845 Jakob Grimm osservò che lo strato più antico del materiale del Kalevala doveva essere mitologico, mentre la poesia eroica ne rappresentava una elaborazione successiva. 3 Si vedano anche 15,215-38.54-56.307-76, in cui sono presenti riferimenti cristiani.

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Pohja, sfuggendo poi ai suoi persecutori con mezzi simili a quelli adoprati da Lemminkàinen (26, 425-segg.) in una delle sue perigliose avventure. La madre di Lemminkàinen può essere paragonata a Maria madre di Gesù, soprattutto quando piange la desolata madre di Aino (4,435-518).] 3. IL KALEVALA EPICA NAZIONALE FINLANDESE Il Kalevala è un poema importante dal punto di vista letterario ed antropologico in quanto all'estero, rese nota la cultura finlandese. Esso incoraggiò gli stessi finlandesi verso la valorizzazione della propria lingua e del proprio patrimonio culturale. È stato calcolato che la prima edizione del Kalevala venne letta solo da una minoranza di finlandesi perché pochi di loro, nel 1835, erano padroni della lingua. Tuttavia l'opera che divenne subito molto famosa è considerata un passo importante nella storia del Paese. Ad essa ad esempio si ispirarono, Henry Wadsworth Longfellow che compose uno dei più celebri poemi della letteratura angloamericana, The Song of Hiawatha (1855) e Dvoràk che compose la Sinfonia del Nuovo Mondo (1893). All'estero, il Kalevala fu conosciuto soprattutto grazie al compositore Jean Sibelius (1865-1957) che compose la Sinfonia di Kulervo (1892). E’ al Kalevala che dobbiamo l’idea tolkieniana4 di una nuova mitologia, la nascita del c.d. legendarium5. In Italia il primo saggio sul aKalevala è stato scritto da Domenico Comparetti nel 1890. Il mito della cosmogonia al femminile, nel Kalevala è descritto nel primo runo dal verso 103 al verso 344. Esso racconta che all'inizio del tempo, nell'aria, sotto un cielo infinito, si muoveva una eterea e leggiadra fanciulla. Essa è Ilmatar, la Figlia dell'Aria, così chiamata perché aveva preso vita spontaneamente nell'elemento aereo. Altri la chiamano Luonnotar, la Figlia della Natura, in quanto la sua essenza si confondeva con gli elementi di cui era parte. Ilmatar era completamente sola. Per lungo tempo, rimase vergine, galleggiando nell'aria limpida. Si racconta che Ilmatar si annoiò di questa vita e discese lentamente verso il basso, calandosi sulle onde di un mare infinito. A quel punto soffiò un vento di tempesta, le onde si levarono e Ilmatar fu spinta tra i flutti e dalla spuma marina. II vento la fecondò, il mare la ingravidò. Così Ilmatar, la figlia dell'aria, concepì un figlio. 4 Nel 1911, durante l’ultimo semestre alla King Edward’s School di Birmingham, un ancora adolescente J.R.R. Tolkien si applicava allo studio del Kalevala. Per il futuro professore di Oxford quell’antico poema fu una rivelazione. 5 L’influenza del poema finnico sul giovane studente non è tutta qui (e già non sarebbe poco). Lo stesso Tolkien raccontò in una lettera di come la storia di Kullervo, unico personaggio irrimediabilmente tragico della mitologia finlandese, avesse ispirato il personaggio di Túrin Turambar e le vicende a lui legate.

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La sua gravidanza fu lunga e penosa. Per settecento anni, cioè per nove vite di eroi, lei portò quel peso nel grembo, senza riuscire ad alleviare i dolori. Divenuta ormai la madre delle acque, Ilmatar nuotava, col ventre gonfio, in tutte le direzioni. Le doglie la angosciavano, in quanto non riusciva a dare alla luce la creatura che portava in seno. Comparve allora tra le nubi un uccello. Secondo alcuni doveva trattarsi di un'anatra, per altri di un gabbiano. Molti la definiscono una folaga, che volava al di sopra delle onde, cercando dove fermarsi. A lungo il povero uccello aveva volato da sud a nord, da est a ovest, ma non aveva trovato un solo posto dove posarsi e riposarsi dal suo volo. Dovunque, infatti, si stendeva il mare così la folaga continuava a volare, cercando un luogo solido su cui fare il nido e deporre le uova. Ma non v'era altro che le onde. Allora Ilmatar, la madre delle acque, sollevò la sua gamba dai flutti. La folaga vide il ginocchio che gli porgeva IlMatar e, credendo si trattasse di un monticello, si librò sopra di esso con un volo lento vi si posò. Sul ginocchio di Ilmatar, la folaga fece il suo nido e, dopo aver deposto sei uova d'oro e un uovo di ferro, cominciò a covare. Per tre giorni la folaga covò le sue uova e Ilmatar sentì presto un gran calore che dal ginocchio si estendeva su tutta la gamba. Pertanto scosse forte il ginocchio. Il nido si rovesciò, le uova rotolarono nell'acqua e subito andarono in frantumi, rompendosi in una miriade di pezzettini... I frantumi non perdendosi tra l'acqua e il fango, presero nuova forma. La metà inferiore del guscio divenne la terra, la metà superiore la volta del cielo e il firmamento. Il giallo tuorlo divenne il sole, il bianco dell'uovo la luna splendente. Quel che c'era di screziato dentro l'uovo si sparse tutto intorno creando le stelle. Infine, la parte scura dell'uovo si stese formando le dense nubi dell'aria. Così nacquero il cielo e la terra, il sole e la luna, le stelle e le nubi. Così ebbe inizio l'universo. Dopo nove anni giunta la decima estate, Ilmatar sollevò la testa dal mare, alzò il capo sopra le onde. E d'un tratto cominciò la sua opera creatrice. Dove stendeva la mano, sorgevano i promontori; dove premeva i piedi, creava i fondali marini; dove si tuffava si scavavano, i profondi abissi. I suoi gesti evocavano dal nulla la terra, con le sponde ed i golfi, le scogliere e le isole. Così Ilmatar creò la terra. 4. IN GENERALE: MITI PRINCIPALI E MITI ACCESSORI Come esposto Lonnrot assembla vari episodi, che hanno autentico valore mitico. Nel Kalevala quindi non si deve individuare un determinato mito, ma un insieme di miti. Nel mito cosmogonico narrato sono individuabili miti principali ed accessori.

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I primi consistono nel mito della dea primordiale, che scendendo dal cielo trova solamente un'infinita distesa d'acqua, ed il mito dell'uccello, che vola al di sopra dell’elemento acqueo e non trovando un luogo dove posarsi, dà l'avvio alla creazione. Miti accessori sono il vento, dal quale Ilmatar è ingravidata e l’uovo cosmico i cui frammenti danno vita al cielo ed alla terra. 4.1 IL MITO DI ILMATAR Nel poema in esame il mito della creazione viene descritto in modo progressivo. Si parte dall’elemento dell’aria per poi passare all’elemento dell’acqua ed infine a quello della terra. Secondo il tradizionale linguaggio simbolico del mito, il passaggio dall'aereo al liquido, e dal liquido al solido, non va esaminato come un semplice mutamento dello stato di aggregazione della materia, ma come progressione metafisica, cioè come regola assoluta che da spiegazione delle cause prime della realtà prescindendo per principio da qualsiasi dato d’esperienza. Non si tratta dunque - come potrebbe parere alla nostra mentalità materialistica - di una «costruzione» progressiva degli elementi del mondo, bensì di una meditata e profonda interrogazione sulla natura della realtà. Secondo il mito in esame, la progressione degli elementi parte dal caos primordiale. L’aria non deve essere vista come semplice elemento ma come una sorta di definizione naturalistica del caos. Il caos primordiale, è quello spazio comprendente vari elementi confusi fra loro di cui parla anche Ovidio in Metamorfosi6. Per Ovidio, il caos primordiale è composto da terra, mare e aria. Essi non erano distinti l’uno dal’altro di conseguenza la loro natura non era definita. La terra era instabile, l'onda non navigabile, l'aria era priva di luce. Nessuna cosa poteva dirsi calda o fredda, umida o asciutta, molle o dura. Si legge: «Prima del mare e della terra e del cielo che tutto ricopre, unico e indistinto era l'aspetto della natura in tutto l'universo, e lo dissero caos, mole informe e confusa, nient'altro che peso inerte, ammasso di germi discordi di cose mal combinate». Ovidio ha un'idea teologica del caos. Ciò si evince quando dice: Un dio, e una più benigna disposizione della natura, sanò questi contrasti: separò dal cielo la terra, dalla terra le onde, e distinse dall'aria spessa il cielo puro. E dopo aver districato e liberato queste cose dall'ammasso informe, dissociatene le sedi, le riunì in un tutto concorde. Il fuoco, imponderabile energia della volta celeste, sprizzò e si stabilì nella regione più alta. Subito sotto, per sede e leggerezza, c'è l'aria. La terra, più densa, assorbì gli elementi più grossi e rimase premuta in basso dal proprio peso. L'acqua, fluida, occupò gli ultimi spazi avvolgendo tutto in giro la massa solida del mondo .

6 Ovidio: Metamorfosi [I: 5-20]; [I: 21-31]

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Il mito della creazione nel Kalevala prende avvio dalla nascita di Ilmatar. Il Caos, infatti, viene definito in tal modo solo quando si verifica la sua nascita. Un simile procedimento di creazione lo troviamo anche nella Teogonia7 di Esiodo. Il caos primordiale non è spiegabile in modo dettagliato. Esso è definito come una situazione di immobilità che, nel caso specifico, viene interrotta con la nascita di Ilmatar. Quando Ilmatar prende coscienza di se si attua il primo passaggio del processo creativo. Dall’elemento areiforme di passa a quello liquido. Ilmatar, infatti si lascia cadere dall’aria per andare sulle acque di un oceano infinito. Dalla lettura del poema la prima cosa che si percepisce sono le onde soltanto in un secondo momento Ilmatar si rende conto che esse appartengono al mare. merito al passaggio dall’aria all’acqua e soprattutto con riferimento a quest’ultimo elemento si evidenzia un omologia con altri miti. Nella mitologia mesopotamica, si parte da una realtà caotica e senza forma. Successivamente, per opera della divinità si da vita alla creazione di cielo, terra ed abisso. In principio vi era il Mare Primordiale (dea madre Nammu), probabilmente mai creato, e quindi eterno. Dal Mare ebbe origine la Montagna Cosmica, che aveva per base gli strati più bassi della terra, e per cima la sommità del cielo. La Montagna era formata da Cielo e Terra, ancora uniti insieme e non distinti. Il Cielo, nella personificazione del dio An, e la Terra, nella personificazione della dea Ki, generarono il dio dell'Aria Enlil. A questo punto avvenne la separazione: An "tirò" il Cielo verso di sé, mentre Enlil "tirava" la Terra, sua madre. Dall'unione di Enlil e Ki nacquero tutti gli esseri viventi, dei, uomini, animali e piante. Per i sumeri l'universo ha forma di una sfera, avente per base la Terra e per calotta il Cielo (An-Ki). La Terra era un disco piatto circondato dal mare (Abzu) e galleggiante su di esso. Al di sotto della terra stava un'altra semisfera diametralmente opposta a quella del cielo, non visibile, che conteneva le regioni infernali (Kur). Tra il Cielo e la Terra esisteva un terzo elemento, una sorta di "vento", o "soffio" (lil), le cui caratteristiche erano l'espansione e il moto (caratteristiche che noi oggi consideriamo proprie dell'atmosfera). Gli elementi cosmici come Sole, Luna e stelle si ritenevano composti della stessa materia, ma in questo caso luminosa. All'esterno della sfera dell'universo si stendeva all'infinito un Oceano Cosmico, un Mare primordiale misterioso ed invisibile.

7 Teogonia, Le divinità primigenie (vv. 116-122) « In principio, dunque, vi era Caos soltanto; ma poi nacquero Gea dall'ampio seno, salda dimora per sempre di tutti gli immortali che abitano le cime del nevoso Olimpo; e il caliginoso Tartaro, che è nel profondo della terra 120 spaziosa ed Eros, il bellissimo fra gli dèi immortali, che spossa le membra e che di tutti gli dèi e di tutti gli uomini domina i cuori nel petto e scombussola il senno».

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Nella mitologia egiziana, la Prima Volta, il c.d. momento zero, è descritto come distesa liquida illuminata, immersa nelle tenebre: il Nun. Esso, secondo tale mitologia, non è acqua. Il Nun è anteriore a tale elemento. In particolare è “il non esistente”, in esso non vi né spazio né tempo, non vi né movimento né luce. Il non-esistente per gli antichi Egiziani non coincide dunque con il nulla, ma con la materia sottratta alle leggi dell’universo spazio-temporale e aggregata in un’unica unità compatta. Tutto è già presente da sempre, ma in uno stato di sonnolenza. Questo il quadro, immobile, del non-tempo che precedette la Prima Volta. Le cosmologie del mondo classico arcaico ritenevano che la Terra fosse costituita da un disco circolare circondato dal grande Fiume Oceano, sormontato dalla conca emisferica del cielo. Nelle opere di Omero appare chiaramente questo modello cosmologico. Il piatto della terra é circondato dall'oceano e alla periferia di questo mare sorge la cupola fissa del cielo. Per le cosmologie primitive, come principio viene posto un caos o il mare. Per esempio per gli indigeni delle isole Marshall in principio tutto era mare, al disopra del quale scorreva la divinità. Da quella posizione la divinità ordinò la creazione del mondo. Inizialmente nacque il primo scoglio, quindi della sabbia e poi delle piante, degli uccelli e così via. La cosmogonia di Nauru (Pleasant Island, Indonesia) ha invece aspetti più strettamente “primitivi”: tutto ha origine da un grosso ragno, che volteggia al di sopra del mare infinito. Esso trova una conchiglia, e dopo vari tentativi, riesce ad aprirla ma non può tenere separate le due valve. In quest’ultimo caso è evidente il riferimento all’uovo cosmogonico. Un esempio di cosmogonia femminile è descritta nella tradizione induista. I testi fondamentali di tale tradizione sono i Veda, da qui il termine cosmogonia vedica. Negli inni del Rg Veda8 si legge: «da Aditi (principio creativo femminile) nacque Daksa (principio creativo maschile) e da Daksa Aditi nacque». L’elemento acqueo è riscontrabile anche nelle leggende della tradizione ebraica9. Nei testi che la descrivono si legge, che Dio, al momento della Creazione, dal suo trono getto una pietra preziosa nell’abisso. Chiaro anche in questo mito è il riferimento all’acqua come primo elemento creativo. Dall’elemento acqueo si passa a quello solido, quando un’estremità della pietra si conficca nell’abisso e l’altra emerge dal caos. Questa estremità formò un punto che cominciò ad estendersi, creando così la distesa al disopra di cui fu stabilito il mondo. Ecco perché questa pietra si chiama shethiyah, che vuol dire «pietra fondamentale».

8 Rg Veda 10. 72. 3-4 9 Jean Hani, Il simbolismo del tempio cristiano, ed. Arkeios, p. 122.

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È evidente come tutte queste leggende prendono spunto dalla Genesi. In essa è scritto che “In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”. Poi, Dio separa la terra dalle acque e la rende feconda dicendo: «Le acque che sono sotto il cielo, si raccolgano in un solo luogo e appaia l'asciutto». E così avvenne. Dio chiamò l'asciutto terra e la massa delle acque mare. Lo Spirito di Dio che aleggiava sopra le acque, può essere confrontato con la scena di Ilmatar che cala fluttuando sulla superficie del mare. È interessante notare, come la parola Spirito, “Ruhà” in ebraico, è sostantivo di genere femminile. All'inizio non c'era niente di piacevole da vedere, perché il mondo era vuoto; c'era solo confusione e vuotezza. In particolare c'è disordine, confusione. Dal caos Dio crea la terra, raccogliendo in un solo punto le acque. La progressione del processo creativo continua mediante il passaggio dall’elemento liquido a quello solido. In questa fase evolutiva Ilmatar crea la terraferma. La creazione nel racconto del Kalevala non avviene allo stesso modo di come è spiegata nella Bibbia. La differenza risiede nella mancanza della volontà creatrice. Si osserva che Ilmatar non progetta di creare il mondo. La sua opera creatrice avviene per caso, cioè improvvisamente. Ulteriore differenza rispetto alla Bibbia consiste nelle modalità usate per la creazione. Nella Bibbia Dio crea la materia dal nulla, si realizza quindi qualcosa di nuovo. Ilmatar, con gesti ed azioni, si limita a liberare il mondo, già esistente, dal caos tracciandone contorni e forme. 4.2 LA FOLAGA La spiegazione del mito della creazione nel Kalevala è stata arricchita integrandola con un altro mito quello secondo il quale l’universo è stato creato dai frantumi di un uovo deposto da una folaga. Con molta probabilità il mito di Ilmatar e quello della Folaga inizialmente erano due miti diversi, che nel poema in esame sono stati sistematicamente intersecati fra di loro in modo da creare un unico mito della creazione. Il mito dell’uccello creatore è presente anche nelle leggende dei altri popoli. In genere in questi miti l’uccello è visto come strumento che contribuisce alla creazione del mondo o che l’ostacola. Presso gli Jenisseiani, il potente sciamano Doh volava sulle acque primordiali con cigni, pettirossi, e altri uccelli acquatici; poiché non vi era terra dove essi potessero posarsi, il pettirosso si immerse e portò del fango col quale lo sciamano creò un'isola. I Buriati di Balagansk dicono che Sombol-Burxan incontrò sulle acque un uccello con i suoi dodici piccoli; ordinò all'uccello di portargli la terra nera nel becco e il fango rosso con le zampe e, ricevutili, creò la terra.

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L’uccello creatore si contrappone alla creazione del mondo nella leggenda degli Jacutii. In particolare si racconta che il “Bianco signore creatore” mentre avanza sopra le acque, vede emergerne una bolla ed apprende che era il diavolo. Tale leggenda è diffusa nei diversi popoli della Siberia con delle varianti. Alcuni popoli, raccontano che il «diavolo» acquisisce forma di uccello. Gli stessi Jacutii nelle loro leggende raccontano che il diavolo, per riuscire a trasportare la terra dal fondo del mare, si trasforma in una rondine. In una leggenda diffusa nell'Altai, vediamo Dio e il diavolo volare sul mare primordiale in forma di oche nere, dopodiché il diavolo si immerge nelle acque e riporta a Dio del fango, con il quale Dio crea la terraferma. I Voguli, raccontano che il diavolo quando emerge assume la forma di uccello. 5. I MITI ACCESSORI: IL VENTO FECONDANTE E L’UOVO

COSMOGONICO Il mito della creazione del Kaleva si interseca con altri due miti che potremmo definire accessori, in quanto sono strumentali a quelli principali. Essi sono Il vento fecondante e l’uovo cosmogonico. 5.1. Il vento fecondante IlMatar nel racconto in esame è stata ingravidata dal vento. Il mito del vento fecondante richiama elementi biblici. Nella Genesi lo Spirito Divino è descritto come il vento che aleggia sulle acque dell’abisso. Sempre nella Genesi Dio soffia un alito di vita nelle narici della statua di fango e la rende uomo. 5.2. L’uovo cosmogonico Il mito della creazione nel Kalevala prosegue raccontando, come esposto, l’arrivo di una folaga che, depone sei uova d’oro ed uno di ferro. L’uovo da sempre è considerato simbolo sacro universale e rimarchevole. Il valore simbolico si deduce dalla sua funzione, consistente nell’assicurare la permanenza della vita e della specie nella successione degli individui. L’uovo, in buona sostanza, simbolicamente rappresenta lo stato primitivo dell’uomo. L’uovo cosmogonico, mitologicamente è usato per rappresentare la creazione totale. L’elemento dell’uovo cosmico si riscontra in diverse cosmogonie10. In Egitto si adorava l’uovo luminoso deposto dall’oca celeste. In particolare il dio creatore, Kneph, veniva raffigurato con un uovo che gli usciva dalla bocca. Simbolicamente ciò significava che il mondo usciva dalla bocca di dio, cioè dal suo verbo.

10 Jean Hani il simbolismo del tempio cristiano, 1996 Roma, Arkeios, pp. 188 – 189.

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In Fenicia , l’uovo primordiale è generato tramite l’intermediazione dell’Aria e del Respiro. In Grecia, si raccontava che Zeus, dio del cielo, prendendo le sembianze di un cigno, feconda Leda, raffigurante la natura. Essa depone un uovo da cui nascono Castore e Polluce, due gemelli che rappresentano i due poli della creazione. In India è ancora presente la tradizione dell’uovo cosmogonico. In tali luoghi si racconta, secondo le leggi di Manu, che all’inizio del mondo, apparve Swayambhu, che creò le acque dove depose un seme sotto forma di uovo d’oro, c.d. Hiranyagarbha, che conteneva Brahmâ. Quest’ultimo ruppe l’uovo in due metà, dalle quali scaturirono la terra ed il cielo. Successivamente procedette alla creazione di tutti gli esseri. La tradizione ebraica apocrifa, racconta che Dio creò il modo prendendo due metà di un uovo e fecondando l’una con l’altra. In un mito accolto da Porapora e Mo’orea, Isole della Società, si narra che dio Ta’aroa si forma all’interno di un uovo dai molteplici gusci sovrapposti e rimane rinchiuso in esso per innumerevoli età finché, stanco della sua solitudine, rompe i gusci. Un guscio diventa il cielo, l’altro il fondamento della terra. Nella Bibbia11 l’uovo cosmico simboleggia la resurrezione di Cristo e di tutta la natura, che di conseguenza si rinnova e quindi viene ricreata. Infine interessante notare che nelle Chiese orientali, si trovano uova di struzzo appese davanti all’iconostasi o al di sopra dell’altare alternate con le sante lampade. Da questa breve analisi risulta evidente che l’uovo cosmogonico costituisce un mito della creazione indipendente. I laulajat lo sovrappongono al mito di Ilmatar e parallelamente lo associano al mito della folaga, per ragioni di ordine esteriore, in quanto sono gli uccelli a deporre le uova. Inizialmente, con buone probabilità tali miti dovevano essere distinti. Alcuni autori ritengono che il mito dell’uovo cosmogonico, nell’interpretazione del Kalevala, non deve essere messo in rapporto con la folaga, ma con la gravidanza di Ilmatar. A fondamento sono richiamati diversi antichi miti, da cui sono tratti interessanti parallelismi. Nel mito orfico, si racconta che Nýx, la notte dalle nere ali, fosse amata dal vento e depose un uovo d'argento nel grembo dell'oscurità; da quell'uovo sarebbe poi nato Éros, detto anche Phánes, che avrebbe messo in moto l'universo. Tale mito è descritto anche dalle cosmogonie fenice citate da Filone di Biblo e da Damasco. L’elemento dell’Aria e dell’Etere ricorda Ilmatar, quando viene fecondata dal vento e dall'acqua.

11 Ibid., p. 190

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Le diverse rielaborazioni ed aggiustamenti dei miti sottesi al poema in esame, impediscono l’individuazione di quale possa essere stato il mito originale da cui è derivato tale poema. Non possiamo non prendere atto che tali rielaborazioni e fusioni di diversi miti hanno dato vita a questa splendida cosmogonia finlandese, il Kalevala. BIBLIOGRAFIA AA.VV. Prospettive cosmiche, 1991 Padova, Franco Muzzio Editore AA.VV. Cosmogonie. Miti della creazione dell’Universo 2001 Roma, Manifestolibri Barbieri, L. Storia della Cosmologia, 1992 Bologna, Editrice CLUEB Bastian, A. Vorgeschichtliche Schöpfungslieder 1893 Berlino Bottero, J e Kramer, S.N. Uomini e dei della Mesopotamia: alle origini della mitologia 1992 Torino, Einaudi Capra, F. Il tao della fisica 1982 Milano, Adelphi D’Agostino, F. Gilgamesh alla conquista dell’immortalità 1997 Torino, piemme Dampier, W. C. Storia della scienza 1953 Torino, Edizioni Scientifiche Einaudi Doniger O’ Flaherty, W. The Rig Veda, 1981 Harmondsworth, Penguin Frazer, J. Creation and Evolution in Primitive Cosmogonies, 1967 Freeport Books for Libraries Press Gabbiani, E. L’universo ingenuo - Tra Mito e Cosmologia, in www. Lfns.it Jordan, M. Miti di tutto il mondo, 1998 Milano, Mondadori Knight, D. A. Cosmogony and Order in the Hebrew Tradition in Cosmogony and Social Order: New Studies in Comparative Ethics 1985 Chicago The University of Chicago Press Kramer, S. N. I Sumeri, 1997 Roma, Newton Leach, E. R. Genesis as Myth 1969 London, Cape Lukas, F. Die Grundbegriffe der Kosmogonien der alten Völker 1893 Lipsia Mc Call, H. Miti mesopotamici 1995 Milano, Mondadori Papasso, I. Cosmologia. Dalle origini ad Einstein. 1983 Milano, Ulrico Hoepli Editore Pettinato, G. La saga di Gilgamesh 1992 Milano,Rusconi Libri Planck, M. La conoscenza del mondo fisico 1954 Torino, Edizioni Scientifiche Einaudi Reichen, C. A. Storia dell’astronomia, 1964 Milano, Mursia Editore Valeri,V. Miti cosmogonici ed ordine, in www.fondazionebasso.it SITOGRAFIA http://www2.smumn.edu/deptpages/~physics/cosmology/cosmology.htm http://www.egypt-tehuti.org/articles/animated- universe.html http://www.mayadiscovery.com/es/historia/default.htm

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CULTURA E MITO ALBANESE di Giuseppe Barbaccia Contributo alla tavola rotonda Albanesi per lingua, bizantini per rito, Italiani per adozione: gli Arbëreshë, Palermo, 12 giugno 2009 (abstract a cura di Gianfranco Romagnoli) Nell’aprire la serie degli interventi, il Prof. Barbaccia ha, tra l’altro, evidenziato come agli Arbëreshë si debba il mantenimento del rito bizantino con la sua caratterizzazione della fedeltà a Roma, sentito da essi sin dall’inizio del loro radicamento in Italia quale il pressoché esclusivo connotato identitario; e come insieme al rito, attraverso il culto delle sante icone e l’iconologia, essi abbiano re-innestato nella Chiesa cattolica la spiritualità orientale, dando luogo ad un arricchimento, non soltanto formale e rituale, del cattolicesimo e dell’intera cristianità. Ciò, insieme al successivo recupero, attraverso la cultura, del sentimento identitario nazionale, fa sì che non si debba più guardare al mondo arbëreshë come ad un reperto archeologico da coltivare sul piano della nostalgia, ma ad una identità che ha un preciso significato nel contesto della nuova Europa e del recupero e valorizzazione delle sue radici cristiane

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GLI ISTITUTI DI CULTURA DEGLI ARBËRESHË di Franca Cucci Contributo alla tavola rotonda Albanesi per lingua, bizantini per rito, Italiani per adozione: gli Arbëreshë, Palermo, 12 giugno 2009 Premessa Parlare degli Istituti di cultura degli Arbëreshë è come parlare della loro storia. Queste istituzioni sono il frutto della dura lotta da essi sostenuta per la difesa della loro identità etnico-culturale. Non dimentichiamo che i profughi albanesi, giunti in Italia, come del resto capita a chi è immigrato e si trova nella condizione di minoranza, hanno subito l’umiliazione della discriminazione sia religiosa, provenendo prevalentemente dall’Albania del sud e professando la fede cristiana secondo la tradizione bizantina tipica di quella regione, furono avversati dal clero e dai vescovi latini locali che li sospettavano di scisma, sia civile e sociale in quanto spesso considerati rozzi ed incolti e quindi sfruttati da parte dei principi e baroni locali. Solo dopo qualche secolo ascesero ai diritti civili della nuova patria. C’è da sottolineare anche che: 1) la creazione degli Istituti di cultura è dovuta all’opera encomiabile del clero arbëresh, col patrocinio della S. Sede che, con l’istituzione nel 1622 della S. Congregazione di Propaganda Fide, era venuta a conoscenza più da vicino dello stato di decadenza spirituale e culturale in cui versavano le colonie albanesi; 2) l’elemento religioso-liturgico fu tra i valori costituenti le comunità arbëreshe quello distintivo e predominante che ha determinato una forte coesione tra gli Italo-albanesi. Non a caso il forestiero veniva e viene chiamato litiri , cioè il latino (e non l’italiano o il calabrese o il siciliano), proprio per distinguerlo dall’albanese di rito greco. La caparbietà e la tenacia, con cui essi hanno difeso la propria identità ecclesiale, sono dovute al fatto che la consideravano, fin dall’inizio della loro venuta in Italia, la sola identità etnico-culturale nella totalità dei suoi valori. In proposito voglio riportare due testimonianze: una di mons. Modaffari, arcivescovo di Bova, Visitatore Apostolico dei Greci nel Regno di Napoli, che, in una sua lettera alla Propaganda Fide (1624), sottolineava come sarebbero sorte “grandissime difficoltà”, nel costringere gli Albanesi a passare al rito latino1; l’altra del sacerdote greco Giovanni Camilli che, in una sua relazione sugli Italo-greci (1674) sempre nel Regno di Napoli, così si esprime: “Essi (gli

1 Archivio della Sacra Congregazione di Propaganda Fide, Istruzioni diverse dal 1623 al 1638, fol. 17. Lo stesso mons. Modaffari segnala (foll. 16-18) che nel Regno di Napoli si trovano tre tipi di Greci: i primi di lingua greca sono i discendenti della Magna Grecia i quali “non si conformano in tutto agli orientali”, i secondi non sono greci, né parlano il greco, ma sono albanesi che seguono “l’istessi riti” degli orientali e mostrano attaccamento “verso il Patriarca costantinopolitano quanto quelli moderni, e perciò bisognerà fare particolare diligenza”, poiché mostrano “molte superstizioni et errori”, i terzi sono latini che officiano in chiese greche.

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Albanesi) sono così tenacemente attaccati al loro rito, che piuttosto che rinunciarvi preferirebbero lasciare la loro istessa vita”2.

Erezione e scopi Solo dopo molte suppliche, richieste, relazioni e denunce rivolte con insistenza e vigore a papi, vescovi e re, per la salvaguardia del rito greco, furono eretti due Seminari, uno in Calabria (1732) con sede a S. Benedetto Ullano, con Bolla Inter multiplices emanata da Papa Clemente XII (Lorenzo Corsini), dietro le numerose istanze dei sacerdoti Stefano e Felice Samuele Rodotà di S. Benedetto Ullano, e l’altro in Sicilia (1734) a Palermo da p. Giorgio Guzzetta originario di Piana degli Albanesi, dell’Oratorio Filippino di Palermo. Il permesso di apertura fu concesso dall’arcivescovo di Palermo, dietro il consenso del re Carlo III di Borbone. Le Regole furono approvate, per il Collegio Corsini, con successiva Bolla Ex iniuncto del 1736, mentre per il Collegio di Palermo furono approvate più tardi (1757) da Papa Benedetto XIV, con Bolla Ad pastoralis dignitatis. Le regole del Seminario di Palermo sono improntate allo spirito filippino e ispirate a quelle del Collegio Greco di Roma, mentre per il Corsini riflettono di più quelle del Collegio di Propaganda Fide, anche se poi per ambedue non mancano influenze delle Regole dei gesuiti. Alla fondazione dei due Istituti è legata anche la nomina di vescovi ordinanti che non avevano alcuna giurisdizione sugli Italo-albanesi, sparsi in varie diocesi latine, il loro compito era limitato alle cresime, alle ordinazioni sacre, alla vita dei seminari e a vigilare sulla osservanza del rito greco nelle colonie. Nel 1735, con Bolla Superna dispositione di Papa Clemente XII, fu creato un vescovo ordinante per la Calabria, il quale aveva l’obbligo di risiedere nel Collegio di cui sarebbe stato anche il presidente, per la Sicilia fu nominato solo più tardi, nel 1784 con Bolla Commissa nobis di Papa Pio VI. I vescovi ordinanti (10 per la Calabria e 7 per la Sicilia) durarono in carica fino alla istituzione delle rispettive eparchie di Lungro (1919) e di Piana degli Albanesi (1937). Quali gli scopi della fondazione dei due Seminari? - L’educazione della gioventù albanese; - l’istruzione specie nelle lettere latine e greche; - la formazione nel culto, nella liturgia, nella pietà, nella filosofia, nella

teologia orientale, nel canto liturgico dei futuri sacerdoti a servizio delle colonie italo-albanesi3;

- la promozione di qualificati missionari per richiamare in seno alla Chiesa cattolica i greci scismatici.

2 Ibidem, Scritture originali riferite nelle Congregazioni Generali, 9 e 12 febbraio 1674, fol. 330. 3 Per ulteriori approfondimenti in proposito, cfr. M. F. CUCCI, Il Pontificio Collegio Corsini degli Albanesi di Calabria - Evoluzione storica e processo di laicizzazione, Brenner Editore, Cosenza 2008 e D. MORELLI, P. Giorgio Gazzetta e gli inizi del Seminario siculo-albanese di Palermo, in “Oriente Cristiano”. Numero speciale – 250° del Seminario greco-albanese di Palermo, Anno XXV, 1985, n. 2-3.

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Questi due Istituti presentano perciò carattere esclusivamente ecclesiastico, anche se ben presto ai seminaristi si affiancarono i convittori che vi entrarono per ricevere una solida formazione culturale, senza necessariamente ascendere agli ordini sacri. Così in realtà essi hanno esercitato di fatto una funzione più ampia di quella esplicitamente prevista nel fine della loro istituzione. Essendo uniche scuole di formazione per gli Italo-albanesi, non si sono limitate solo all’istruzione del clero, ma hanno influito decisamente sulla cultura generale albanese in Italia e anche nella stessa Albania. Essi hanno aperto nuovi orizzonti, maturando nelle comunità arbëreshe una nuova identità etnico-culturale nella totalità dei suoi valori. Tale identità, che nel passato era rappresentata principalmente dall’appartenenza ad una particolare tradizione ecclesiale, quella bizantina, si è progressivamente estesa agli altri aspetti culturali, assumendo una dimensione globale. Ciò anche per merito dei grandi movimenti storico-culturali, Illuminismo, Romanticismo, Risorgimento, che accompagnarono la vita di questi Istituti. Differenze tra i due Seminari “I due Collegi presentano dunque una storia simile, “sia nelle vicende che hanno preceduto la loro fondazione, sia nei travagli interni, sia nelle finalità”4 (ad es. il Rodotà e il Guzzetta sono accomunati dallo stesso spirito, pur vivendo pienamente inseriti nel mondo latino, avvertono la loro particolare identità ecclesiale ed etnico-culturale che si esprime nella ricchezza di forme e tradizioni diverse)5, mentre presentano caratteristiche differenti, sia dal punto di vista giuridico della loro istituzione, sia nello sviluppo della loro vicenda storica. - Il Collegio Corsini era di fondazione pontificia (ben sei le Bolle di erezione), esente da qualunque giurisdizione di vescovi latini, sottoposto al solo vescovo greco, al quale erano state date ampie facoltà nella gestione dell’Istituto, immediatamente soggetto alla S. Sede, a cui avrebbe dovuto inviare, tramite la mediazione di Propaganda Fide, il rendiconto annuale e consultarla per la nomina dei superiori e dei professori. - Il Seminario greco-albanese di Palermo era sottoposto invece all’arcivescovo di Palermo per governo economico e disciplinare e ad una deputazione di quattro membri: preposito generale della Congregazione di S. Filippo Neri di Palermo, prefetto degli studi del Collegio dei Gesuiti di Palermo, preposito della Congregazione dell’oratorio di rito greco di Piana degli Albanesi e il rettore del Seminario

4 I. C. FORTINO, Funzione dei Seminari di rito greco di Calabria e di Sicilia nella formazione del laicato italo-albanese, in “Oriente Cristiano”. Numero speciale – 250° del Seminario greco-albanese di Palermo, Anno XXV, 1985, n. 2-3, p. 62. 5 I. C. FORTINO, Ibidem, p. 63.

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- Il rettore del Collegio Corsini poteva conferire la laurea in teologia e filosofia a tutti quegli alunni che avessero frequentato per cinque anni un corso di filosofia e teologia e negli ultimi due anni assistito alle lezioni di S. Scrittura. Questa laurea fu equiparata a qualsiasi altra conseguita negli Atenei pontifici romani (Bolla Praeclara Romanorum 1739). - Al rettore del Seminario di Palermo non era concessa tale facoltà. - Il Collegio Corsini non ebbe la sua sede sempre a S. Benedetto Ullano. A poco più di 50 anni dalla sua erezione, fu trasferito per decreto del re di Napoli a S. Demetrio Corone nel monastero di S. Adriano (1794). - Il Collegio di Palermo rimase molto più a lungo nella sua sede; fu trasferito a Piana in tempi recenti (1950). - Il Collegio Corsini ebbe la sua sede sempre in due paesi italo-albanesi e quindi più a diretto contatto con la realtà arbëreshe e con tutte le implicazioni che tale contatto comportava. - Il Collegio siciliano ebbe la sua residenza a Palermo (almeno fino al 1950), città di antiche e fiorenti tradizioni storico-culturali e religiose, e quindi proiettato nell’ambiente cittadino che offriva sicuramente più ampie esperienze; perciò non fu proprio a diretto contatto quotidiano con la realtà arbëreshe locale, anche se ovviamente in stretta relazione con essa, poiché da lì provenivano alunni e professori. - Il Collegio Corsini subì, specie dopo l’unità d’Italia ad opera della Massoneria a cui avevano aderito alunni, professori e perfino il clero, un lento processo di secolarizzazione, che lo sottrasse al governo del vescovo-presidente e quindi della S. Sede, snaturandolo dal fine della sua fondazione. Esso divenne un Istituto laico. Fu dapprima sottoposto alla tutela del Ministro dei Culti, nel 1903, sotto il patrocinio del Ministero degli Esteri, fu trasformato in Istituto Internazionale con il pareggio delle scuole e l’accoglienza di giovani albanesi d’oltre Adriatico e nel 1923 fu trasformato in liceo-ginnasio governativo, passando alle dipendenze del Ministero della Pubblica Istruzione. - Il Collegio di Palermo non ha perduto la sua fisionomia di Seminario, anche se, mi sembra, andò incontro ad un periodo di crisi. Non so se la Massoneria vi ebbe qualche influsso. Credo che di questo Collegio manchi una monografia documentata. Durante le mie ricerche sul Corsini mi sono imbattuta in vari documenti che riguardano anche il Seminario di Palermo. Sarebbe utile ricostruirne la storia.

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Contributo alla cultura Come già accennato prima, i due Istituti svolsero un ruolo più ampio rispetto al fine della loro fondazione. In effetti essi offrirono una solida formazione culturale anche a quei giovani non destinati a seguire la via ecclesiastica. Le idee romantiche e risorgimentali, nel dare impulso a sentimenti nazionalistici, contribuirono allo sviluppo di tante culture particolari ed anche tra gli Italo-albanesi venne delineandosi il concetto di appartenenza ad una propria individualità etnico-culturale, che fino a quel momento si era identificata nell’elemento religioso e rituale. Molte furono le figure di illustri italo-albanesi, educati nei due Istituti, che primeggiarono per il loro contributo offerto in campo letterario, linguistico, etnografico, storico, politico, sociale, civile, patriottico, con numerosi pregevoli scritti anche in albanese, che consolidarono la cultura arbëreshe, e con la loro attiva partecipazione ai moti risorgimentali, tanto da sacrificare la loro stessa vita al servizio della libertà. Le loro idee e la loro azione ebbero ripercussioni persino oltre Adriatico, maturando la coscienza politica e nazionale nei fratelli albanesi ancora oppressi dai Turchi (Rilindja). E dopo l’unità d’Italia occuparono posti di prestigio nelle istituzioni del Regno d’Italia. Non è possibile citarli tutti, ma parleremo dei più importanti. Per la Sicilia: Nicolò Chetta di Contessa Entellina, alunno e poi rettore del Seminario, dotto ellenista e orientalista, autore di opere di carattere storico, etnografico e teologico, con particolare attenzione alla lingua albanese e promotore della rinascita albanese. Fu anche patriota. Gabriele Dara (il giovane) di Palazzo Adriano, letterato e poeta, giornalista, archeologo, patriota, si riappropria di canti tradizionali e con vivo estro poetico scopre il significato e la ricchezza del patrimonio orale arbëresh e lo trasfonde nella sua opera poetica. Anche lui fautore della rinascita albanese, pensa al riscatto della madrepatria6. Giuseppe Schirò (senior) di Piana degli Albanesi, che, come il De Rada, auspicò la formazione di una lingua albanese comune. Autore di pregevoli rapsodie in lingua albanese, fondatore della rivista Arbri i rii (La nuova Albania), scrisse anche interessanti articoli sulle tradizioni e sulla letteratura siculo-albanese. Conoscitore profondo del greco e del latino, appassionato cultore della filologia e della glottologia, è considerato il maggior rappresentante della tradizione culturale letteraria degli Albanesi di Sicilia. Demetrio e Giuseppe Camarda di Piana degli Albanesi, sacerdoti, patrioti e letterati. Gaetano Petrotta di Piana degli Albanesi, sacerdote, scrittore e linguista. Alessandro Borgia di Piana degli Albanesi, patriota. Gabriele Buccola di Mezzoiuso, stimato medico, psichiatra di fama europea.

6 I. C. FORTINO, Ibidem, p. 71

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Giuseppe Spata di Palazzo Adriano, magistrato e autore di parecchi saggi. Nicolò Spata di Palazzo Adriano, sacerdote, dotto ellenista, raccolse i canti greco-albanesi. Pietro Chiara di Palazzo Adriano, deputato al Parlamento, poeta e giornalista. Francesco Crispi originario di Palazzo Adriano, deputato al Parlamento italiano, ministro e poi per ben due volte Presidente del Consiglio per circa un decennio nel Regno d’Italia. Per la Calabria: Giulio Varibobba di S. Giorgio Albanese, alunno e rettore del Collegio Corsini, autore della prima significativa opera di letteratura albanese riflessa o popolareggiante, Gjella e Shën Mërisë Virgjër (La vita di S. Maria Vergine), di indiscusso pregio artistico, in cui sono inseriti canti popolari sacri, raccolti dalla voce del popolo o tradotti dal latino. Pasquale Baffi di S. Sofia, letterato, illustre giurista, giustiziato per aver fatto parte della repubblica partenopea (1789). Angelo Masci di S. Sofia, autore di scritti di carattere sociale e politico, ricoprì a Napoli la carica di Consigliere di Stato. Giuseppe Serembe di S. Cosmo, illustre poeta. Vincenzo Dorsa di Frascineto, patriota e scrittore. Pietro Camodeca di Castroregio, sacerdote, studioso della lingua albanese e illustre grecista. Domenico Mauro di S. Demetrio, animatore e capo del movimento rivoluzionario calabrese del 1848. Giuseppe Angelo Nociti di Spezzano Albanese, storico e letterato. Agesilao Milano di S. Benedetto Ullano, patriota, giustiziato nel 1856 per aver attentato alla vita del re di Napoli, Ferdinando II. Gennaro Mortati di Spezzano Albanese, patriota e scrittore, militò nella spedizione dei Mille. Domenico Damis di Lungro, patriota, divenuto dopo l’unità d’Italia tenente generale dell’esercito regio. Girolamo de Rada di Macchia Albanese, il più grande tra i poeti e letterati arbëresh calabresi. E non solo. Fu “il primo a porre la questione albanese e ad elevarla a tanta dignità, da obbligare popoli e parlamenti a discuterla” (Petrotta). La sua ricca produzione poetica e letteraria scritta in italiano e in albanese, di grande pregio artistico (il trittico: Milosao, I canti di Serafina Topia, Skanderbeku i pa faan), risultò efficacissima sul piano politico, in virtù della propaganda da lui promossa sull’idea nazionale albanese, richiamando l’attenzione sulla derelitta e sconosciuta terra di Skanderbeg e divenendo esempio e sprone per tutti gli altri poeti fuori e dentro l’Albania. Fu anche pubblicista. Fondò alcuni periodici, promosse due Congressi linguistici, tenne la cattedra di lingua albanese nel Collegio Corsini a S. Demetrio. La grandezza del De Rada sta nell’aver sostenuto con forza la bellezza e la capacità della lingua albanese di esprimere “i motivi della vita in genere e

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l’anima di un popolo in particolare” (Gradilone). Egli ne diede la dimostrazione attraverso le sue composizioni nelle quali l’Albania, prima di essere una realtà politica è già una realtà poetica, quando riproduce la voce e l’anima del suo popolo, nel rivalutare le tradizioni della sua patria, mettendo in risalto la storia e le qualità guerriere degli Albanesi. Il fine politico però non è l’unico motivo ispiratore della sua poesia, ma sono evidenti anche gli influssi romantici: autobiografismo, inquietudine, ansia religiosa, rievocazione storica, spontaneità e popolarità della poesia.

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TRA BALCANI E ITALIA UN POPOLO SENZA FRONTIERE di Zef Chiaramonte Contributo alla tavola rotonda Albanesi per lingua, bizantini per rito, Italiani per adozione: gli Arbëreshë, Palermo, 12 giugno 2009

Erede degli Illiri, il popolo Albanese vive oggi in diverse compagini geopolitiche dei Balcani: Albania, Kosovo, Macedonia, Serbia, Montenegro. Queste regioni, dal 168 a. C. al 1912, fecero parte di grandi contesti multietnici e multireligiosi: gli Imperi Romano, Bizantino, Ottomano, con brevi intermezzi fra Impero Bulgaro e Impero Serbo. Illiri e Albanesi sostennero lunghi periodi di resistenza e momenti di aperta ribellione contro i dominatori, ma diedero anche il contributo di personalità insigni a tutte le formazioni statali cui appartennero: Diocleziano, Costantino il Grande, Giustiniano …, Mohamed Köprülü, il gran visir che salvò l’Impero Ottomano dalla grave crisi profilatasi a metà del sec. XVII, Mehmet Alì Pascià, fondatore dell’Egitto moderno, Kemal Atatürk, fondatore della Turchia repubblicana. Evangelizzati da San Paolo, rimasero legati al Patriarcato Romano sino alla crisi iconoclasta, apertasi nel 726, quando ne furono violentemente staccati, insieme alla Sicilia e all’Italia meridionale, dall’imperatore Leone III, l’Isaurico. Alla Chiesa indivisa, Greca e Latina, diedero significativi apporti soprattutto nella musica sacra. Erano di origine albanese papa Clemente XI Albani, il patriarca di Costantinopoli Atenagoras I, Madre Teresa di Calcutta. Nello Stato Bizantino, sino all’epoca dei Comneno, gli Albanoí godevano dell’isopoliteía , una forma di ampia autonomia, già concessa a Venezia, che permise loro, tra l’altro, di avere nelle proprie mani il governo del Tema d’Italia nel periodo precedente l’invasione saracena della Sicilia. Nel tempo in cui in Italia i Comuni si trasformavano in Signorie, gli Albanesi erano impegnati nelle lotte per l’affrancamento dall’Impero Bizantino e per la formazione di Despotati autonomi, il primo e il più importante dei quali fu l’ Arbër. Tali lotte furono gravide di conseguenze, infatti nei Balcani fecero la loro comparsa i Turchi. Le loro prime apparizioni risalgono a metà del sec. XIV, quando, nell’ennesimo tentativo di ripristino dell’autorità bizantina, Niceforo II, titolare del despotato di Epiro e di Tessaglia, venne battuto (1358) dagli Albanesi lungo le rive dell’Acheloo, oggi Aspropotamo. In quella occasione l’esercito bizantino era composto da Greci e da soldati di ventura turchi. La presenza turca si rinnovò nel 1385 al soldo dell’albanese Karl Topia contro i Balsha (battaglia di Savra) e, in seguito, al soldo di Venezia e dei Serbi contro gli Albanesi.

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Nel 1387 avvenne il primo scontro frontale tra gli Ottomani e la coalizione cristiana formata da Giorgio II Balsha e Teodoro Musacchia, albanesi, Lazzaro dei Serbi e Tverko della Bosnia. Con la battaglia della Piana dei Merli o di Kosovo, nel 1389, i Turchi Ottomani si insediarono stabilmente nei Balcani: la compagine cristiana ne veniva stravolta, le formazioni nazionali preesistenti concludevano la loro parabola politica e interrompevano lo sviluppo culturale. La nascita di uno Stato albanese unitario sarà impedita per secoli sotto il nuovo padrone che avanzava e inaspriva la corsa alla spartizione del territorio da parte di vecchi e nuovi feudatari. Costantinopoli - la Nuova Roma, la Parigi del Medioevo- fu accerchiata, in attesa dell’assalto finale (1453). L’Occidente sarà in costante pericolo sin oltre la battaglia di Lepanto (1571).

Scanderbeg Tra le famiglie aristocratiche albanesi, i cui piani di potenza vennero sconvolti dall’avvento ottomano, c’è quella dei Castriota alla quale appartiene l’eroe nazionale Giorgio Scanderbeg. Giorgio era il più piccolo dei quattro figli di Giovanni Castriota. La sua infanzia coincise con gli anni in cui le ondate turche si riversavano minacciose sul territorio albanese imponendo alla popolazione un pesante regime economico-sociale. Sotto tali vessazioni si trovarono ben presto anche i possedimenti dei Castriota che si estendevano nell’Albania centro-orientale. All’età di circa dieci anni, il padre fu costretto a cederlo al Sultano, quale pegno per il mantenimento della tregua. Visse quindi alla corte di Maometto I e di Murat II, dove dovette accettare l’ Islam e il nuovo nome, Scanderbeg, e fu istruito nelle arti marziali. Eccellente stratega, fu impiegato con successo in diverse campagne militari degli Ottomani nei Balcani e in Asia Minore. Nel profondo del suo animo, però, erano rimasti vivi i ricordi della terra natia e delle sofferenze del suo popolo: così, non appena se ne presentò l’occasione, Scanderbeg tornò in Albania, riunì in Lega i príncipi albanesi e ne organizzò le forze in un esercito nazionale. Prima in sinergia con gli eserciti ungheresi, capeggiati da Giovanni Uniadi, e poi da solo, il piccolo esercito albanese guidato da Scanderbeg lottò eroicamente contro i Turchi impedendo loro di spingersi a nord e verso occidente. Fu una lotta impari contro un invasore che metteva in pericolo l’intero sviluppo raggiunto dalla regione e ipotecava il futuro della cristianità e del popolo albanese. Essa costituì il fulcro ideale e l’impegno costante della vita di Scanderbeg. Le gesta di questo periodo, esaltate dalle leggende e dai canti popolari, ne alimentarono nei secoli il ricordo, soprattutto tra gli Arbëreshë, e mantennero vivo lo spirito di indipendenza tra gli Albanesi: la memoria di Scanderbeg compensava, in parte, gli Albanesi della disgrazia che li aveva colpiti. Testimoniata dalla vastissima e poliglotta bibliografia scanderbeghiana, la resistenza del popolo albanese e del suo eroe nazionale travalica gli angusti

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confini feudali entro cui si svolgeva per assumere un valore epocale nei confronti della la civiltà occidentale. Lo capì già un ufficiale inglese contemporaneo quando affermava: «L’invasione dell’Europa è certa, giacché non c’è forza che possa opporre resistenza se cade il castello albanese». Concetto che lo stesso Scanderbeg esprimeva con forza ai príncipi italiani quando li spronava ad un’azione comune - che, tuttavia, non si attuò -: «Se non ci fosse la nostra lotta, quelle terre, che dite essere vostre, sarebbero cadute da un pezzo nelle mani dei Turchi». Il 17 gennaio 1468 Scanderbeg morì, il “castello albanese” cadde, gli Albanesi dovettero operare scelte dolorose.

Eredità culturale in Italia La via di fuga degli Albanesi verso l’Italia, peraltro geograficamente la più breve, era stata preparata dallo stesso Scanderbeg. I suoi contatti con Venezia, con Roma e soprattutto con Napoli gli avevano reso familiari quelle corti. Le stesse che furono raggiunte dalla moglie, Donika, e dal figlio, Giovanni, e dove trovò sistemazione la nobiltà albanese che preferì l’esilio alla sottomissione. Le emigrazioni di massa, invece, furono organizzate dai capi-comunità e dal clero, naturalmente avversi all’Islam ma sospinti anche dall’insofferenza di intere popolazioni che non intendevano vivere nelle nuove condizioni create dall’occupazione turco-ottomana. Il fattore religioso, che nei Balcani aveva influito contro gli ottomani più dell’aspetto etnico, continuò ad incidere fortemente nelle colonie albanesi d’Italia. La tradizione cristiana di liturgia e prassi costantinopolitana: il rito greco poi detto bizantino, diverso dalla tradizione latina degli italiani, difeso ad oltranza, divenne una precisa carta d’identità per gli arbëreshë e li aiutò a conservare la memoria, la lingua e i costumi delle origini. Nel sec. XIX, l’epoca della riscossa dagli Ottomani - Rilindja Shqiptare - trovò gli Albanesi frazionati in musulmani - la maggior parte - ortodossi e cattolici. Tale situazione facilitava le manovre politiche della Sublime Porta - ma anche di Grecia e Serbia - che negava l’esistenza della nazione albanese in quanto i sudditi non venivano riconosciuti per appartenenza etnica ma solo per appartenenza religiosa. Il primo impegno dei risorgimentali sarà, dunque, quello di far emergere il sentimento di appartenenza a una nazionalità albanese che i secoli di asservimento avevano appannato. Così, mentre nei Balcani Pashko Vasa è costretto a incitare gli Albanesi con il leitmotiv “non guardate a chiese e moschee, la fede degli Albanesi è l’albanesità”, in Italia l’arbëresh Gerolamo De Rada offre all’antica patria, trasfuso nei suoi poemi, tutto il vissuto linguistico, religioso e culturale che gli Albanesi d’Italia avevano curato e sviluppato come naturale continuità del Moti i Madhë: il Tempo Grande, oramai metastorico, della resistenza antiottomana.

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I segni dell’identità Nelle comunità minoritarie uno dei segni del vissuto culturale è costituito dalla memoria, dalla conservazione privata o musealizzata e, ancor più, dall’uso dei vestiti tradizionali. I vestiti femminili, i soli superstiti, fissati oramai in costumi d’uso cerimoniale, insieme alla propria lingua e alla tradizione religiosa cristiano-orientale, sono elementi rilevanti di identità per l’antica comunità albanese in Italia. Si potrebbe dire che nel mondo arbëresh, sino all’avvento dell’omologazione comunale, avviata in Sicilia nel 1818: gli uomini si siano distinti nelle relazioni con l’esterno per il doppio registro linguistico posseduto; il clero per la trasmissione della cultura umanistica, la pratica scrupolosa della liturgia bizantina in lingua greca e il ricorso costante alla lingua albanese per usi pastorali, paraliturgici e letterari; e la donna per la continuità della tradizione orale e per la perpetuazione della cultura materiale degli abiti muliebri.

Il costume femminile arbëresh tra Sicilia e Albania Per quanto riguarda le fogge del vestito tradizionale, le città albanesi di Sicilia costituiscono una regione etnografica a sé, il cui studio certifica aspetti sincronici e diacronici. Infatti accanto agli antichi abiti si osservano nuove varianti. Oggi possediamo due modelli principali: a) xhëllona, gonna a trine d’oro applicate, camicia a maniche mobili (poi diventate giubba, xhipuni, di chiaro prestito siciliano come dimostra il suo stesso nome); b) ncilona, gonna ricamata d’oro a ramages, chiusa in basso da una greca, con camicia a larghe maniche e corpetto. A quest’ultimo modello, detto alla levantina, a partire dalla metà del Settecento si accompagna solitamente la cintura d’argento, brezi. Non c’è dubbio che su tali vestiti, al di là delle influenze acquisite in Sicilia, soffia ancora il vento di Bisanzio, ma è interessante notarvi anche l’influsso della moda levantina così come intanto era venuta a innestarsi sulla bizantina nelle regioni abitate dagli Arnaüt (Albanesi) sotto il dominio ottomano.

La ripresa dei contatti italo-balcanici nel ‘700 A seguito dei trattati di Utrecht e di Rastatt (1713-14), con lo scemare del potere spagnolo in Italia, la Sicilia, dopo un breve periodo sotto i Savoia (1714-18) e dopo la guerra austro-spagnola, passò, come poco prima Napoli, all’Austria (1720-34) e infine ai Borbone (1734). Questi eventi non mutarono soltanto la realtà sociale all’interno dell’Isola, ma facilitarono anche il commercio nel Mediterraneo e soprattutto in Adriatico, dove l’Austria cercava in tutti i modi di sostituirsi alla potenza veneziana. E proprio nel quadro della politica del Levante, allora intensamente perseguita, l’Austria permise che nei suoi nuovi domini in Italia meridionale

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venisse inserita la fondazione di due Collegi di studi per gli Arbëreshë: uno in Calabria (1732) e l’altro a Palermo (1734). Tali istituzioni, volute dalla S. Sede per dare estremo adempimento alle deliberazioni del Concilio di Trento, incontrarono il favore dei “regi”, come allora si diceva per designare l’autorità temporale, favore che, in regime di unione tra Stato e Chiesa, ma anche di giusnaturalismo, era conditio sine qua non per ogni nuova intrapresa. Del resto anche l’Austria, come già avvenuto in Transilvania, aveva interesse a legare a sé, in un disegno valevole non solo ad intra ma soprattutto ad extra, una comunità cristiano-orientale che sino ad allora aveva fatto ricorso a Roma (Collegio Greco di Sant’Atanasio) per assicurare gli studi superiori alla propria élite e le sacre ordinazioni ai candidati al sacerdozio. I due Collegi serviranno agli arbëreshë per elaborare culturalmente e rafforzare la propria identità, sino ad allora affidata unicamente al rito ecclesiastico e alla tradizione orale, e per tentare, soprattutto in Sicilia, di raggiungere un livello di autonomia amministrativa simile alle città demaniali: ottime premesse per un rilancio dell’economia locale. Non a caso i Borbone, rilevando i regni di Napoli e di Sicilia, li gratificheranno, come “Nazione Albanese”, del “Vescovo Ordinante per il rito greco”.

Nei Balcani, intanto, le città albanesi, dopo essersi riprese dalle distruzioni seguite all’invasione ottomana, godevano oramai di un grande sviluppo nel commercio e nell’artigianato. In verità il commercio in Adriatico, seppure con andamento tortuoso, non era mai venuto meno, soprattutto per le esigenze di Venezia che, mancando di territorio in terraferma, era costretta di volta in volta a venire a patti con Ragusa e le altre repubbliche marinare e con gli Ottomani. Il mantenimento delle enclave levantine era vitale per la Serenissima per continuare a impegnare nei commerci la sua flotta dalla quale traeva sostentamento e potenza. Nel sec.XVIII, Scutari, Valona, e Durazzo, oltre che centri artigianali, erano diventate scali di transito da dove passava la maggior parte delle merci dirette in Europa occidentale e particolarmente a Venezia e in Austria. Anche i mercanti albanesi erano regolarmente presenti nelle fiere della penisola italiana: a Venezia, Ancona, Firenze, Messina, …, dove avevano proprie agenzie. Dopo la pace di Passarowitz (1718), inoltre, non solo la Francia, l’Inghilterra, l’Olanda, Ragusa e l’Austria, ma anche Venezia riaprì le proprie agenzie consolari nelle maggiori città commerciali d’Albania. Si può affermare, pertanto, che il sec. XVIII iniziava sotto ogni buon auspicio per gli scambi commerciali tra le regioni albanesi dei Balcani e gli Stati italiani. Di converso, si spezzava per sempre il sottile refe che aveva legato la Sicilia all’Albania nel Seicento, per il venir meno delle missioni religiose in Cimarra, missioni che la Chiesa di Roma aveva affidato ai monaci basiliani di Mezzojuso e al clero arbëresh come i più adatti a tener desta la speranza dell’unione delle Chiese.

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L’argento di Trepça e le maestranze dei cintari Un ruolo importante negli scambi col Levante giocavano l’argento, l’oro, il rame e il piombo estratti soprattutto dalle miniere di Trepça in Kosovo. Il metallo di Trepça, che per lungo tempo era stato venduto e lavorato lontano dalle regioni albanesi, già dal Seicento ricominciò ad essere impiegato anche dagli artigiani e dagli artisti locali che, raggruppati in esnaf, nuova versione della antiche gilde, riprendevano in parte i modelli della tradizione preottomana. Da principio essi risposero alla committenza aristocratica e del clero per l’arredo dei monasteri - celebre quello di Ardenizza - e degli edifici di culto, in seguito anche alla committenza borghese. Da qui l’ornamento prezioso passò a fissarsi nel costume nazionale come sua componente essenziale. Nel Settecento, poi, quanto non collocato entro i vasti confini dello Stato ottomano, raggiungeva più facilmente i mercati e le fiere dell’Occidente, dando luogo anche a fissa dimora in Italia di maestranze albanesi e a fenomeni di contaminazione reciproca dei manufatti, come peraltro già accaduto nell’antichità. Nel caso della cintura, pare che brezpunuesit, i cintari dell’epoca, dell’una e dell’altra sponda dell’Adriatico, riprendessero motivi già presenti tra gli antichi popoli italici e il lirici a contatto. La congiuntura favorevole agli scambi continuò durante i pascialati, praticamente autonomi, dei Bushati, nelle regioni del Nord e in Kosovo, con centro la città di Alessio, e di Alì di Tepelena, nell’Albania del Sud e in parti della Macedonia e della Grecia odierne, con capoluogo Giannina. Per quanto riguarda la Sicilia, la città di Messina, dove si ebbe sempre una comunità organizzata cristiano-orientale presieduta spesso da un papàs proveniente dalle colonie albanesi della provincia di Palermo, e la stessa città di Palermo, dove è stata costantemente presente la colonia di arbëreshë più avanzata di origine coronea, coi loro porti divennero importanti nodi di scambio commerciale diretto o indiretto con le regioni albanesi. In uno con gli scambi commerciali, le rotte marittime favorivano pure lo scambio di modelli di abbigliamento. Ne avranno approfittato gli Arbëreshë, anch’essi favoriti economicamente dai cambiamenti politici, per rinnovare il guardaroba femminile e soprattutto quello della sposa, scegliendo qualcosa di nuovo proveniente dalla terra degli avi, in ciò perseguendo una diuturna opera di selezione? La risposta positiva, data a livello teorico da Cirese in ordine ai coloni che «conservano il patrimonio che hanno portato con sé, possono accrescerlo localmente in qualche misura, possono anche rinnovarlo con contatti più o meno casuali con la terra di origine» (Alberto Maria Cirese, Canti popolari del Molise, Rieti: De Nobilis, 1957, v. 2., p. 22), trova puntuale riscontro nel caso degli Arbëreshë: il fatto che una nuova foggia di abito femminile, ancora oggi in uso cerimoniale tra le donne albanesi di Sicilia, venga denominata alla levantina ha un suo significato, che richiama l’Oriente; il fatto, ancora, che la cintura d’argento, come la conosciamo oggi, entri nell’uso presso gli

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Arbëreshë di Sicilia a metà del XVIII secolo, proprio nella fase culminante della produzione artistica delle maestranze albanesi dei cintari nonché dei susseguenti tentativi di governo autonomo dell’Albania, esperiti da due potenti pascià albanesi, dà anch’esso una non trascurabile indicazione. BIBLIOGRAFIA -D'ANGELO, Giovanni. Vita del Servo di Dio P. Giorgio Guzzetta greco - albanese della Piana dell’Oratorio di Palermo. Palermo, 1798. -HISTORIA E POPULLIT SHQIPTAR. Tirana: Toena, 2002. v.1. -JAKA, Ymer. -VALSECCHI, Franco. L’Italia nel Settecento: dal 1714 al 1788. Verona: Arnoldo Mondatori, 1971.

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ORIGINE DEGLI INSEDIAMENTI ALBANESI IN ITALIA di Ernesto Schirò Contributo alla tavola rotonda Albanesi per lingua, bizantini per rito, Italiani per adozione: gli Arbëreshë, Palermo, 12 giugno 2009 Mi sembra doveroso ringraziare Sua Eccellenza il dottor Romagnoli che ha organizzato questa tavola rotonda e Papas Vito Stassi che ci ospita, ma soprattutto desidero ringraziare il Dio dei nostri Padri, benedetto sia sempre il suo santo nome, grazie ai quali oggi noi siamo qui. Pochi giorni fa, il 31 maggio, è stata la Pentecoste. Nella liturgia Orientale il sabato che la precede vengono commemorati i defunti. Per gli Arbëreshë è un giorno molto triste. Un vecchio detto dice: “È bello l’avvicendarsi di tutte le feste, ma il sabato di Scialla non venga mai”. L’allusione è al sabato della Pentecoste del 1413, perché in quel giorno i turchi, dopo anni di combattimenti, inflissero, presso la città di Scialla, una terribile sconfitta a Giovanni Castriota, segnando così la fine della resistenza degli albanesi e l’inizio della dominazione ottomana in Albania. Ancora, alla vigilia della Pentecoste del 29 maggio 1453, Costantinopoli, dopo una strenua e eroica resistenza, venne conquistata dall’esercito turco di Mehmed II. Costantino Dragosez Paleologo, l’ultimo Basileos, dopo aver ascoltato il Te Deum con grande umiltà, con una armatura priva di insegne si recò sulle mura della Città e morì eroicamente, combattendo fra i soldati, senza essere riconosciuto. Da quel giorno Costantinopoli, la metropoli religiosa dell’Oriente Cristiano, divenne la capitale del regno turco al posto di Adrianopoli, e la Cattedrale di Santa Sofia fu trasformata in moschea . Il Sabato della Pentecoste, gli Arbëreshë di Mezzojuso, dopo aver ricordato i propri defunti, al tramonto, come fanno da oltre 500 anni, si recano sulla Brigna, il colle che sovrasta il paese ed a capo scoperto, con il volto rivolto verso l’Oriente, intonano O e Bùkura Morèë, il triste canto dell’esule che ricorda la diaspora. La diaspora degli albanesi verso la Sicilia ebbe inizio intorno al 1448 quando un contingente di militari, dopo aver sedato la rivolta dei baroni calabresi sobillati dagli angioini contro Alfonso d’Aragona re di Napoli e Sicilia, fu invitato a presidiare le coste della Sicilia occidentale come deterrente per le invasioni ottomane e/o angioine. In q1uel frangente, i fratelli Giorgio e Basilio Reres, con circa 200 uomini sbarcarono in Sicilia e si insediarono nell’antico castello saraceno di Bizyr, ubicato su una collinetta, sulla sponda destra del fiume Mazaro a circa dieci chilometri dalla foce, nei pressi del piccolo casale chiamato il Mazarese. Detto territorio faceva parte del vasto possedimento vescovile, donato da Ruggero d’Altavilla al vescovo Gerlando di Besançon, proclamato santo in seguito.

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Nel castello di Bizyr i soldati Albanesi si fermarono per due anni. Non guerreggiarano, ma assolsero interessanti funzioni civili e sociali. Nel 1450 il presidio fu smobilitato, la truppa fu trasferita fra i monti oltre il fiume Belice in stato di attesa per l’eventuale rientro in patria. La presenza dei militari albanesi, fu accolta positivamente dai feudatari minori che non erano in grado di proteggere i propri possedimenti dai soprusi e dalle angherie, dovute alle continue lotte intestine del baronaggio. Così venne convenuto di dividersi fra le Signorie del Monastero di Fossanova (Palazzo Adriano), del Monastero di San Giovanni degli Eremiti (Mezzojuso) e della Casa Cordone Peralta (Contessa Entellina). A Mezzojuso si stabilirono i Reres, che si accamparono alla maniera militare, vicino una ricca sorgente al di là del burrone Salto, nei pressi della chiesetta normanna di Santa Maria. Non erano militari sbandati né indigenti, erano cavalieri ordinati disciplinarmente attorno i loro capi militari. Disponendo di risorse economiche, con il soldo riscosso durante i due anni di servizio prestato per il Re, acquistarono alcuni capi di bestiame e si dedicarono all’allevamento in un luogo ricco di pascoli permanenti fra i boschi, costituendo una colonia paramilitare, simile a quella dei loro luoghi di provenienza, e divennero allevatori di bestiame disponibili al mestiere delle armi. Alla fine del 1467 un folto numero di albanesi giunsero in Sicilia con i nobili e valorosi duci Pietro Emanuele Pravatà, Zaccaria Groppa, Pietro Cuccia e Paolo Mànisi, vivamente raccomandati dal re Ferdinando di Napoli. Zaccaria Groppa con Giorgio Mirëspia si stabilì a Palazzo Adriano, Despota Cernojevich a S. Angelo Muxaro, Elia Mallisi a Piana dei Greci e Paolo Manes si riunì ai connazionali del feudo di Menzel Iusuph . L'accoglienza riservata ai numerosi profughi provenienti dall' Albania fu certamente cordiale, ma non fu soltanto per la profonda ammirazione per l'eroismo, che quel piccolo popolo aveva riscosso nell'Europa per l’incredibile resistenza, opposta all' avanzata del grande conquistatore musulmano e non fu neanche soltanto un gesto di gratitudine per il valido aiuto, che Skanderbeg aveva dato alla causa aragonese, ma fu sopratutto alla chiaroveggenza ed al calcolo politico, che spinse la Spagna, Napoli e Palermo a porgere una generosa mano ai profughi. Gli albanesi sarebbero stati validi soldati sia per eventuali riconquiste ai danni della mezzaluna sia per contenere la baldanza dei baroni, Ma, soprattutto, costituivano un provvidenziale serbatoio di uomini e donne per coprire il vuoto demografico, determinatosi negli anni compresi tra il XIII secolo e la prima metà del XV quando si verificò la distruzione di molti Casali e addirittura l’estinzione di alcuni Comuni. Nella sola Valle di Mazara, su 280 insediamenti esistenti prima del 1300, ne scomparvero più di 150 ed un altro centinaio vennero abbandonati tra il XIV ed il XV secolo.

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Fra le cause che provocarono quasi il dimezzamento della popolazione siciliana dopo la guerra del Vespro, che si protrasse fra il partito dei catalani e quello dei latini per novanta anni, vi fu la peste del 1347 e la malaria a cui si aggiunse la cacciata degli ebrei. Particolarmente colpiti furono gli Arcivescovadi di Palermo, Agrigento e Monreale i cui enormi possedimenti rimasero quasi disabitati. Non meno cordiale e benevola fu l'accoglienza dei Sommi Pontefici. E' noto come lo stesso Skanderbeg venisse a Roma, non soltanto per sollecitare aiuti, ma perché il papa Pio II pensava di organizzare una crociata contro i turchi e affidarne il comando al Castriota, celebre per le sue strepitose vittorie. Del tutto diversa fu invece l'accoglienza ricevuta dai Vescovi e dai baroni locali, che non dettero esecuzione ai decreti reali e pontifici, e colsero ogni occasione per opprimere e insultare gli albanesi. Per i baroni e i vescovi, i nuovi arrivati non erano altro che dei ladri e degli assassini. Di contro questi ospiti, cresciuti nel Cristianesimo Orientale non potevano che sentire odio e disprezzo profondo per quel feudalesimo meridionale disposto ad accettare il loro ingresso, non come la collaborazione di uomini liberi ma come branchi di servi che avevano solo doveri senza alcun diritto. Le ostilità furono dichiarate anche contro il clero e contro i riti religiosi che costituivano la loro vera bandiera di distinzione e non mancarono casi di sacerdoti e laici assassinati, di intere famiglie distrutte, vittime del tentativo violento di costringere gli albanesi ad abbandonare i riti patri. Con ogni mezzo furono fomentate discordie e diffidenze tra i vecchi e i nuovi abitanti e gli albanesi furono oggetto di calunniose accuse a Roma e a Napoli, che certamente raggiunsero in gran parte lo scopo. Che gli albanesi non si considerassero sudditi ma rappresentanti della Nazione alleata, che arretrava il proprio esercito in attesa di ritornare in patria, è confermato dalla partecipazione di un contingente di 500 militari, alla battaglia di Lepanto imbarcati, come truppe combattenti, sulle dieci galee partite da Messina. Questi militari si distinsero accorrendo, quando la battaglia sembrava ormai persa, per fermare l’attacco delle truppe fresche del comandante turco il bassà Uluch Alì Uluccialli,un ex cristiano nato a Cutrò in Calabra, di nome Luca Giovanni Dionigi Galemi. Nello scontro morirono quasi tutti, ne sopravvissero solo una cinquantina. L’esistenza di una forza armata regolare Arbëreshë è documentata anche da un attestato del 4 ottobre 1667 del Mastro notaro don Sebastiano Baelico Coriero, rilasciato per ordine del Senato di Lentini, dal quale risulta che una forza armata regolare di 452 militari greco albanesi del regno di Sicilia, al comando di Teodoro Reres di Mezzojuso, prestò servizio nel 1605 nella città di Lentini, piazza d’armi del Vallo di Noto. In altri documenti risulta la partecipazione dei militari albanesi alla lotta armata contro il barone di Sciacca.

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Reggimenti mercenari chiamati “Stradisti” furono a servizio della Repubblica di Venezia e del Regno di Napoli, dove, nel 1739, per volontà di Carlo III di Borbone, fu costituito il Reggimento Real Macedone, detto anche dei Camiciotti, per la foggia del vestiario e per il camicione, che portavano al di sopra dei pantaloni a guisa di gonnellino, come d’uso del loro costume nazionale. Il reggimento venne sciolto con decreto del 17 gennaio 1818, in quanto la presenza di un esercito regolare albanese in Italia, rappresentava una fonte di timore per i governanti. Ma ritorniamo a Mezzojuso. Con l’arrivo dei nuovi profughi e le famiglie ricomposte cambiarono le esigenze e lo stile di vita. I ricoveri precari, innalzati ai due lati della strada di accesso alla chiesa di Santa Maria, vennero sostituiti con costruzioni più stabili e si accrebbero anche i bisogni, per cui chiesero ed ottennero terreni da coltivare. Svanita la speranza di ritornare in Patria, dopo lo sfortunato tentativo di liberarla da parte dal figlio di Skanderbeg Giovanni Castriota, gli albanesi di Mezzojuso il 3 dicembre del 1501 concordarono con l’Abate del Monastero di San Giovanni degli Eremiti un contratto (i Capitoli di fondazione), per legittimare il possesso dei terreni messi a cultura e le regole per il governo della Comunità. Con Questo “Atto” improntato sulla considerazione, che gli albanesi avevano saputo guadagnarsi e conservare presso i cristiani d’Occidente come popolo libero e cristiano, alleato prezioso e leale nella lotta contro i turchi, accolto e riconosciuto nel rispetto della sua personalità nazionale e della sua antica identità ecclesiale, venivano ratificati agli albanesi particolari favorevoli concessioni, lontane dalle consuetudini del tempo, inconcepibili anche dal dominio feudale ecclesiastico. Venne anche convenuto che avrebbero dovuto restaurare l’antica chiesa normanna di santa Maria e fu permesso di mantenervi un prete di rito greco, sancendo così ai coloni il diritto di mantenere, sviluppare nonché preservare gli elementi essenziali della loro identità e cioè il patrimonio religioso culturale, la lingua ed i costumi. Gli Albanesi, ebbero una affettuosa cura per la chiesa e nel 1529 costituirono la Compagnia di Santa Maria delle Grazie. Con il desiderio di accrescere il culto divino e di veder rifiorire il rito greco, conforme a quello d’Oriente, il 17 gennaio del 1601, con atto rogato dal notaro Luca Cuccia, fu deliberato di costruire un monastero per i monaci obbligati all’osservanza del rito orientale, la cui vita fosse una copia fedele dei rigori del monacato ed un perpetuo sostegno del rito orientale Giunsero pertanto a Mezzojuso alcuni monaci Basiliani, dal monastero di san Filarete di Seminara Calabra, riformati nella Pentecoste del 1579 con una impronta benedettina. Questi monaci Basiliani d’Italia erano avvezzi al rito latino e la spiritualità orientale per alcuni di loro era addirittura incomprensibile e di conseguenza i

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riti liturgici greci subirono alterazioni tali da offrire solo spettacolo di confusione ed occasione di ilarità. Di conseguenza padre Mitrofane, incaricato dagli esecutori testamentari del Reres, che aveva finanziato la costruzione del Monastero, con l’espressa volontà che fosse garantita nei valori spirituali e liturgici la genuina tradizione delle Chiese dell’Oriente Bizantino, si recò a Creta e reclutò alcuni monaci nei Monasteri di Aghìa Triàs, di Akaratho e della Macedonia. Dopo questo primo gruppo, diversi altri monaci giunsero in Sicilia dalla Grecia costituendo la nuova istituzione monastica siculo albanese. Inevitabilmente, la convivenza dei monaci Basiliani con i monaci cretesi diede luogo a liti e dissidi. I monaci Basiliani, che non riuscivano a comprendere la spiritualità e la tradizione dell’Oriente, ritenevano un martirio la prolissa ufficiatura del coro, la continua astinenza dalle carni e le altre costumanze orientali e cercarono di trasformare la vita di quel cenobio alla maniera occidentale che non era circondato da tante spine. I monaci cretesi, appoggiati dalla popolazione locale, che ribadiva la volontà del fondatore di un monastero “ monachorum graecorum graece viventium” rimasero scrupolosi osservanti delle rigorose discipline orientali, diffondendo il seme della cultura ellenica. Il comportamento di questi monaci, fu di stimolo e di richiamo per gruppi di giovani che si dedicarono alla vita monastica attratti dal desiderio di recarsi in Albania, dove la fede cristiana era duramente provata dalla occupazione Mussulmana. Nel 1693, da Mezzojuso, partirono per la Chimarra i primi monaci guidati dallo jeromonaco Nilo Catalano, nominato in seguito Arcivescovo di Durazzo. Nilo Catalano, sebbene non fosse un siculo albanese, fu sempre rigoroso nell’esatta osservanza del rito greco orientale; anche da vescovo non variò mai la forma dell’abito di monaco orientale, non si cibò mai di carni e serbò sempre intatti dal ferro la barba ed i capelli. Anche il siculo albanese Filoteo Zassi di Mezzojuso, seguendo le orme del Catalano, si recò in Albania e fu poi insignito del titolo di Arcivescovo di Durazzo. Furono anche noti i due vescovi nativi di Piana: Basilio Matranga e Giuseppe Schirò. Lo jeromonaco cretese Joannikio, formatosi sul Monte Athos, fu uno dei più illustri iconografi di quei tempi ed a lui si deva la parte più preziosa e cospicua del patrimonio iconografico dell’Eparchia. Notevole e rinomata fu la funzione del Monastero nella mediazione fra la Chiesa Orientale e quella Occidentale La primogenitura culturale del mondo Arbëreshë , antecedente di ben oltre un secolo quella del seminario italo albanese di Palermo, gli fece meritare la denominazione di Atene dei paesi Arbëreshë La formazione femminile venne curata, nel Collegio delle suore Basiliane. Per la fondatrice della Casa madre di Mezzojuso suor Macrina Raparelli si è appena concluso il processo di beatificazione.

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Gli Arbëreshë non si considerano più albanesi ma italiani, discendenti dalla gloriosa popolazione, che guidata da Skanderbeg, ha costituito un baluardo all’avanzata dei Turchi nell’ Occidente Cristiano e, nonostante siano trascorsi oltre cinquecento anni dalla morte del loro Eroe, ne conservano gelosamente il ricordo. La fama popolare delle imprese del condottiero, forse ingrandite dall’ammirazione e dalla fantasia popolare, vengono temperate dal vivo senso di amore e di rispetto fraterno nutrito dagli Arbëreshë per il loro eroe. Amore rimasto vivo ed eterno anche nel clima della tragedia finale, quando, perduta ogni speranza di vivere liberamente la loro fede nel patrio suolo, non esitarono ad intraprendere la via dell’esilio, rimanendo sempre uniti e fedeli alle tradizioni avite e ancora oggi ritrovano le proprie radici nell’emozione corale del toccante canto “O e bukura Moreë “ che esprimendo la profonda nostalgia degli esuli, alimentata dal sogno impossibile del ritorno nella patria d’origine, è divenuto protagonista e mezzo di espressione della diaspora ed ideale depositato della propria identità. Mantenendo chiara e sensibile la coscienza di essere fratelli nel sangue comune e nella fede del Cristo, costituendo un’oasi di spiritualità genuinamente Orientale, trapiantata nel cuore dell’Occidente, si identificano anche come “Gjaku i Shprishur” (Sangue Sparso) ossia discendenti di una stirpe dispersa ma non distrutta. Ed, in tal senso, la differenza comportamentale, che ci contraddistingue, evidenzia una diversa concezione di fondo fra la civiltà del mondo occidentale e quello di matrice orientale, ed ha dato origine a molti detti che, anche a livello popolare, si riferiscono alla testardaggine e alla tenacia di quel popolo (si dice infatti testa di greco, severo come un greco, o il ragionamento del greco). É proprio in virtù di queste idee che gli Arbëreshë hanno camminato di pari passo con l'alba dei moti risorgimentali italiani, contribuendo con diversi martiri, alla cacciata dei borboni, fra i tanti ricordiamo Francesco Bentivegna fucilato a Mezzojuso e Michelangelo Barone, sempre di Mezzojuso, una delle tredici vittime dell’omonima piazza. Numerosi combatterono a fianco di Garibaldi, come testimoniato da diversi attestati. Contribuirono alla rinascita economica e sociale dell’Italia con l’opera di umili lavoratori e con illustri scienziati, fra i quali si distinsero Gabriele Buccola e Nicolò Figlia di Mezzojuso, statisti come Francesco Crispi di Palazzo, Giorgio Guzzetta di Piana, Nicola Barbata di Contessa ed ultimo ma non ultimo il fondatore di Mediobanca Enrico Cuccia, la cui famiglia era originaria di Mezzojuso Le concezioni della democrazia albanese e del Kanun furono teorizzate per la redazione della Costituzione Italiana dal giurista e costituzionalista Calabro-albanese Costantino Mortati Don Luigi Sturzo affermò che la Democrazia Cristiana, ancora bambina, divenne adulta a Palazzo Adriano.

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Negli anni sessanta si verificò un flusso migratorio molto consistente degli Arbëreshë verso le città industriali del nord ed all’estero. Una vera diaspora nella diaspora. Ciò, se ha contribuito al miracolo, non solo economico dell’Italia, ha concorso, con il susseguirsi delle generazioni, ad affievolire le memorie culturali, religiose e linguistiche anche nei paesi d’origine. Continuare a parlare di minoranze, nell’epoca della globalizzazione, può sembrare assurdo, ma è sicuramente saggio esaltare le diversità per non far dimenticare ai giovani le proprie radici. L’identità è memoria, non nostalgia, far svanire il patrimonio culturale Arbëreshë significa cancellare una pagina della storia .

Prima di concludere desidero accennare all’origine del nome Arbëreshë, che viene fatto risalire ad alcune tribù che si allontanarono dalle montagne dei Balcani Occidentali ed emigrarono verso le pianure e le aree costiere della regione. Queste tribù furono inizialmente registrate nelle pagine della storia come "Albanians""Arbënesh", "Arbëresh", "Arvanitios", e "Arnauts" Non si sa bene come hanno avuto origine questi nomi, ma è significativo che essi furono inizialmente identificati, usando antiche radici verbali, quali “arb-“, “alb-“ e “arv-“ che riflettevano l’origine della direzione di provenienza e che, quindi, significano “abitanti degli altopiani” o “montanari provenienti da zone innevate”. Infatti la ricostruzione Indo-Europea di “albho” corrisponde a “bianco“ con riferimento al colore del freddo, del ghiaccio e della neve. Nei tempi antichi, i colori venivano usati spesso per rappresentare le direzioni. la parola “bianco” indicava la direzione di levante, mentre “nero” quella di ponente. Molte tribù, che emigrarono attraverso le vaste steppe e le pianure dell’Eurasia, usavano tre colori, per descrivere i luoghi in relazione alla posizione del sole con riferimento all’infinito piano orizzontale. Il bianco era comunemente associato con l’Est, il nero con il Nord ed il rosso con il Sud . Da qui derivano i nomi del Mar Bianco, del Mar Nero e del Mar Rosso; molti altri esempi di fiume bianco, fiume rosso e fiume nero ancora esistono nelle mappe moderne e derivano certamente da queste antiche convenzioni. La parola Nero, degli antichi montanari, trasse origine dalla scura ombrosità delle pianure posta in relazione con le bianche e innevate cime delle loro terre sui monti.

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INDICE C. CARUSO La sonata per violino e pianoforte in fa maggiore op.24 di Ludvig van Beethoven detta “La primavera” (a cura di G. Romagnoli) p. 4 G. ROMAGNOLI (a cura di) Hispanidad: colori, parole e musiche p. 5 G. ROMAGNOLI I miti del Nuovo mondo nel teatro spagnolo e indigeno p. 12 G. ISGRO’ Ferrante Gonzaga e l’avvio del teatro festivo urbano a Palermo p. 18 C. AMIRANTE Il mito della Dea Madre e la sua evoluzione nel tempo p. 25 L. LUCINI Il convivio tra eros e agape nella letteratura e nella spiritualità pagana e cristiana dell’Europa mediterranea p. 33 D. ROMAGNOLI La figura di Mitra in India p. 40 A OSNATO Origini mitiche e sacrali dle diritto: giustizia, potere e diritto p. 55 A. GIORDANO Le raffigurazioni simboliche della Giustizia p. 59 G. ROMAGNOLI Romolo e la discesa dal cielo del diritto p. 62 TAVOLA ROTONDA Concordia discors tra mito e scienza come generatrice di conoscenza p. 69 C. COSTANTINO I riti di iniziazione precristiani p. 70 L. SCOLARI Mascheramento e sogno: visioni oniriche ed epifanie dvine nell’Eneide p. 85 A. ALONGI Una cosmogonia al femminile p. 109 G. BARBACCIA Cultura e mito albanese p. 121 F. CUCCI Gli istituti di cultura degli Arbëreshë p. 122 Z. CHIARAMONTE Tra Balcani e Italia un popolo senza frontiere p. 130 E. SCHIRO’ origine degli insediamenti albanesi in Italia p. 137