area euro, mercantilismo e violazioni del trattato
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Luciano Barra Caracciolo - Pescara, dicembre 2012TRANSCRIPT
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AREA EURO, MERCANTILISMO E VIOLAZIONI DEL TRATTATO
Sommario: 1- LA GERMANIA E LA CRISI DELL’EURO; 2- IL DISEGNO COMPLESSIVO
INSITO NELL’EURO; 3- EURO E VIOLAZIONE DELLE NORME DEI TRATTATI, ISTITITUVO E
SUL FUNZIONAMENTO DELL’UE, DA PARTE DI GERMANIA E ISTITUZIONI UE; 4-
QUESTIONE DI DIRITTO RELATIVA ALL’EURO-EXIT
1- LA GERMANIA E LA CRISI DELL’EURO
Le polemiche che, in varie forme, si protraggono da mesi, circa l’attivazione di meccanismi
di finanziari di intervento sugli spread tra i titoli del debito pubblico dei diversi paesi euro, in specie
sulla conformità alla Costituzione tedesca dell’European Stability Mechanism (c.d. ESM),
evidenziano i limiti “genetici” del trattato UEM (oggi trasposto, in un’inestricabile commistione di
tematiche e oggetti “promiscui” all’area euro in senso proprio e a quella UE allargata, nel c.d
Trattato sul funzionamento dell’unione europea –ora c.d. TFUE -, che costituisce la versione
consolidata, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, del “vecchio Trattato istitutivo
della Comunità europea –c.d. TCE).
Lo scontro politico-economico fra paesi UE, drammaticamente sottostante a tali polemiche,
dimostra l’ambiguità normativa sul ruolo della BCE, perseguita, a scopi ideologici, con la
formulazione del trattato, alla luce della più accreditata teoria economica della moneta. Una banca
centrale, diversamente da quanto implicato dalla disciplina “contraddittoria” che oggi si dice di
“voler forzare”,- non solo l’art.123, ma il complesso degli artt.120-128 TFUE-, deve poter
funzionare come Lender of Last Restort (LOLR),: e ciò sia, a rigore della locuzione, rispetto al
sistema bancario che utilizza quella divisa in via principale, cioè comunque “residente” in
quell’area valutaria, sia nella funzione, attualmente più controversa, di “tesoriere del governo” o,
comunque, del centro di imputazione della politica fiscale ed economica della medesima area
valutaria.[1]
Ciò perché, altrimenti, la moneta che stampa tale banca centrale va “fuori controllo”: cioè,
quantomeno, i tassi del debito pubblico, se emesso indipendentemente dai vari paesi aderenti, da
qualche parte e inevitabilmente -cioè è certo- saliranno in modo rilevante e ineguale, divergendo tra
loro e mettendo in crisi la sostenibilità della moneta stessa, come strumento fiduciario di pagamento
all’interno dell’area (c.d. moneta “fiat”, uno strumento di pagamento non coperto da riserve di altri
materiali, ad esempio: riserve auree, e quindi privo di valore intrinseco anche indiretto). Questo
assunto, connesso alla parallela istituzione di un’autorità “federale” capace di operare trasferimenti
fiscali a favore delle aree in squilibrio commerciale (e di liquidità), fa parte della teoria base delle
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“aree valutarie ottimali”, la cui formulazione, nel 1961, ha fruttato all’economista statunitense
Robert Mundell il Nobel per l’economia).[2] Poi, va subito precisato, non è affatto vero che un
intervento della BCE avrebbe potenziali maggiori costi per i tedeschi (fermo il fatto giuridico-
economico che, comunque, tale intervento, in forma di emissione di moneta per acquisti di titoli,
non grava direttamente sul bilancio federale).
Il timore invocato dai tedeschi è quello dell'inflazione, che farebbe salire anche i tassi
nominali del debito tedesco, svalutando il valore di bilancio (specialmente bancario, secondo il
controverso criterio c.d. mark to market imposto dall’EBA a fine 2011), dei corsi dei bund emessi in
precedenza.
Ma l'inflazione, in relazione alle dimensioni dell’intervento BCE oggi immaginato, non
salirebbe oltre i limiti della tollerabilità: è stato infatti calcolato che il "Non Inflationary Loss
Absorbing Capacity-NILAC" della BCE è attualmente di oltre 3300 miliardi di euro.[3] E’ infatti,
evidente, che il solo fatto che una banca centrale assicuri acquisti illimitati nell’ammontare e nel
tempo, determina la rinuncia alla speculazione sui titoli “protetti” e, anzi, permette alla banca
centrale stessa di “fermarsi” a un volume di interventi nei fatti limitato, realizzando anche
plusvalenze sugli acquisti dei titoli emessi con rendimenti precedenti più alti.
Solo oltre la soglia del NILAC si avrebbero effetti inflattivi, mentre la trasmissione
dell'incremento monetario all'inflazione stessa sarebbe, nell’attuale situazione di “raffreddamento”
della domanda in tutta l’area, molto basso e lento ad agire. Praticamente effetti inflattivi di una certa
“rilevanza”, seguendo le opportune misure tecniche, si avrebbero per il doppio dell’evidenziato
ammontare del NILAC (cioè oltre quota 6000 miliardi di euro di emissione di nuova moneta per la
funzione specifica qui commentata).
In sostanza, col LOLR si produrrebbe un certo impatto sui tassi dei bund, e quindi sulle
“tasche” dei tedeschi, minore di quello causato dal rapido “bruciarsi” dei fondi impiegati negli
interventi via EFSF e ESM, che si prospettano, nella pratica, quasi inutili.
“Inutili” in quanto qualsiasi garanzia "limitata" nell'ammontare non è attendibile agli occhi
dei mercati, sortendo l'atteso effetto contrario di affrettare le vendite del titolo il cui valore (riflesso
nei rendimenti) si vorrebbe proteggere: ciò nel timore degli operatori, detentori dei titoli, di arrivare
tardi rispetto all'esaurimento del fondo limitato...che, appunto, esaurirebbe il suo plafond molto
prima che in una situazione in cui lo stesso esborso monetario per acquisti fosse effettuato da una
banca centrale che agisca come LOLR, costando perciò molto di più, e senza risolvere comunque gli
squilibri alla base delle divergenze dei tassi, ai contribuenti tedeschi.[4]
In effetti, la gente "comune" in Germania soffre di effetti restrittivi della domanda interna e, prima
di tutto, delle dinamiche salariali, ma essi non sono certo dovuti alla dimensione del debito e della
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spesa pubblica negli altri paesi dell’area UEM, sebbene alle politiche adottate dai propri governi,
originate dall’obiettivo di dover sfruttare, come programmato alla luce delle note dinamiche della
aree valutarie teorizzate da Mundell, la valuta unica.[5] E come tale occasione…"unica" doveva
essere sfruttata?
Mediante una politica economica che viene definita "imperialismo mercantilista", in quanto
tende alla universalizzazione, in una certa area -tendenzialmente l'Europa, data appunto la presenza
della moneta unica-, della propria supremazia commerciale, e, quindi, ad “asservire” alla propria
offerta la domanda del "vicino", che, inevitabilmente, ne risulta impoverito dopo una fase iniziale
espansiva "precolonizzazione" economica [6],[7]. E che le cose stiano esattamente così, in termini
di definizione della politica tedesca all’interno dell’area monetaria, è affermazione degli stessi
esponenti tecnici della governance di quel paese.[8]
Dunque, lo strumento principale che ha conferito un’efficacia senza precedenti a tale
mercantilismo è proprio la moneta unica che consente, a differenza del cambio flessibile (che
produce, in ragione delle differenze di inflazione, l'effetto opposto in termini di competitività
commerciale), di sfruttare vantaggiosamente il deliberato perseguimento di un differenziale
favorevole di inflazione. Tale effetto è stato indicato chiaramente da Mundell nella sua teoria delle
aree valutaria ottimali (Optimun Currency Area, c.d OCA). E la relativa politica tedesca, col
termine di "mercantilismo", è registrata come tale anche dal FMI [9], dall’ILO,[10] nonchè, tra i
numerosi altri, da De Grauwe, forse il più prestigioso economista europeo del momento[11].
Occorre infatti considerare che, in un'area valutaria ottimale (OCA), il sistema di deflazione
competitiva (svalutazione reale, cioè deprezzamento del c.d. tasso di cambio reale che permane,
ancorato ai diversi rispettivi livelli dei prezzi in ciascun paese, anche in situazione di cambi
nominali fissi) tende a dare un decisivo vantaggio sul lato dell'offerta e nulla ha a che fare con lo
spirito cooperativo (debolmente) espresso nei trattati UE.
Unitamente a ciò, il paese che opera tale svalutazione reale, persegue simultaneamente la
necessità iniziale di sostenere la domanda dei paesi resi meno competitivi attraverso il tasso di
cambio reale -simmetricamente rivalutatosi, nel loro caso- erogando crediti funzionali all'acquisto
dei propri beni, in modo da rendere operativo il vantaggio in termini di attivo della propria bilancia
dei pagamenti.
Per deflazionare, in funzione competitiva, lo strumento unico a disposizione di una paese
appartenente a un'OCA è agire -in via preventiva e non necessitata da fattori ciclici esterni all’area-
sul costo del lavoro. E a ciò hanno provveduto le riforme Hartz[12] (dal nome del ministro, ed ex
a.d. di una fabbrica di auto, proponente delle leggi che hanno riformato il mercato del lavoro e del
welfare relativo): queste riforme hanno svolto i loro effetti, sia chiaro, partendo comunque da una
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situazione di preesistente inflazione più bassa, che corrisponde a una tradizione economico-
commerciale propria della Germania, accompagnata da una costante compressione della propria
domanda interna.
Questo solo in estrema sintesi, dato che vari altri corollari dimostrano la natura ideologico-
politica, e anticooperativa (piuttosto pan-germanica), di questa strategia che, ovviamente, può
reggere a un sereno vaglio di praticabilità all’interno di una “unione”, asseritamente politica, o
quantomeno economica, prima che monetaria, solo fondandosi su luoghi comuni mediatico-
propagandistici sulla propria “virtuosità” nel fare costanti sacrifici, simmetrici a quelli che vengono
proposti agli italiani ed espressi nella “parola d’ordine” "debito-pubblico-brutto-abbiamo-vissuto-
al-di-sopra-dei-nostri-mezzi".
Il metodo seguito dai tedeschi per abbassare l’inflazione, ben al di sotto del 2% indicato
come limite di convergenza “cooperativo” nel trattato UEM - cioè un limite su cui si dovrebbe
esattamente convergere non solo deflazionando se si è oltre, ma anche “riflazionando” se se ne è al
di sotto-, è lecito o non lecito (come si vedrà più oltre) a seconda della lettura delle clausole dei
trattati congeniale…ai più forti.
E quindi ai paesi "core", che non si trovano mai in minoranza nel "consiglio" UE, sebbene il
meccanismo, -amplificato nei suoi effetti deflazionistici dal c.d. fiscal compact, fino a innescare un
trend recessivo esteso a tutta l’area-, cominci a essere “denunziato” nelle trattative sotterranee che i
francesi in primis tenderanno a intraprendere, per correggere gli squilibri commerciali senza dover
inseguire una politica deflazionistica a costi sociali crescenti, assistendo cioè al dilagare di una
disoccupazione non tollerabile e non necessaria in una razionale politica di crescita.
2- IL DISEGNO COMPLESSIVO INSITO NELL’EURO.
La questione, una volta subentrata la pesante crisi da squilibri commerciali attuale, viene
spesso posta in termini di recupero della competitività mediante aumento della produttività. Ma tale
controversa impostazione non può nascondere le evidenze scientifiche che comprovano che la
competitività e la bassa inflazione dipendono essenzialmente dal Costo del Lavoro per Unità
Produttiva (CLUP) e quindi ogni politica di correzione, finisce in ultima analisi per perseguire la
contrazione del costo del lavoro (variazioni comparate dei salari reali) e la caduta della domanda
interna.[13]
Nè si può, poi, seriamente dimostrare, in situazione recessiva e con diminuzione di consumi
e, specialmente, di investimenti, che si possa ottenere un aumento della produttività "non a causa di
stipendi in diminuzione", uscendo tale assunto da ogni verosimiglianza scientifica; a ciò segue la
inattendibilità della concomitante ipotesi, contraria a ogni evidenza, di considerare, o quantomeno
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di “dichiarare”, la recessione indotta da austerity fiscale come l'ambiente ideale per effettuare
immaginifici “massicci” investimenti in Innovazione, Ricerca &Sviluppo, facendogli avere effetto
in 1 o 2 anni (!), laddove, invece, si registrano insolvenza diffusa e caduta verticale di risparmi e
investimenti.
Ma anche a voler adottare ora la stessa strategia della Germania, i problemi sono
difficilmente superabili: la diminuzione dei salari reali, comunque, potrebbe portare al "recupero" di
competitività su altri paesi (che utilizzino la stessa moneta…se no ci pensavano molto meglio le
variazioni naturali dei cambi nominali) solo se non perseguita, come ora si vuole nei PIGS, in
direzione pro-ciclica, allorchè la inevitabile caduta della domanda aggregata interna, porta a
disoccupazione e deindustrializzazione, nonché all’apertura ulteriore di tali economie al controllo
estero delle proprie imprese, più facilmente acquisibile a vantaggio dei paesi in attivo commerciale.
Questi ultimi, pur ove, per taluni settori (soltanto, quelli esportatori), riaumentino i livelli dei
salari, hanno goduto e continuano a godere di un vantaggio di competitività (da tasso di cambio
reale), hanno dunque accumulato prolungati attivi della bilancia dei pagamenti e dispongono, per
tale motivo, dei capitali per impadronirsi delle economie indebitate (ancor più dagli effetti recessivi
dell'austerity).
Si può riscontrare come, ad es;, l'Irlanda (estero controllata sul piano dei capitali
immobilizzati) non può che rischiare di riprodurre meccanismi shock legati alla dipendenza dai
mercati finanziari esteri, dato che può “punire” i salari quanto vuole, ma non può raddrizzare
strutturalmente il carico dell'indebitamento privato con l'estero e stabilizzare l'attivo della bilancia
dei pagamenti, se non a costo di una costante ulteriore compressione salariale e della domanda
interna (accompagnato da una sostanziale “istituzionalizzazione” della proprietà estera di capitali
produttivi, con esportazione dei relativi profitti e interessi sui capitali investiti, incidente, come pare
dimenticare l’attuale dibattito in Italia, sulla voce dei redditi del saldo- negativo- della partita
corrente della bilancia dei pagamenti).
L'assurdità di questi riallineamenti al ribasso dei CLUP, - operati pro-ciclicamente, quale
regola-guida dell' "austerità espansiva" durante una crisi da debito, privato (cioè originato dagli
squilibri commerciali e dall’import) e non pubblico-, viene proposta come una di quelle riforme di
"lungo-periodo" che dovrebbero in qualche modo riallineare i paesi in difficoltà (le cosiddette
cicale) verso i virtuosi.
Si omette perciò di considerare il fatto che le cosiddette “formiche” (cioè i virtuosi che
stanno sotto il target fissato del 2% di inflazione), hanno preventivamente, e senza alcuna
giustificazione se non quella della competizione commerciale, aggiustato il tasso di cambio reale
via deflazione salariale (-6% in termini reali, per i salari dei lavoratori tedeschi nell'ultimo
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decennio), con la segnalata distorsione del mercato UEM, attraverso "svalutazione competitiva"
volta all’export e alla minor convenienza dell’importazione dai partners. Contemporaneamente, il
sistema manifatturiero-produttivo tedesco ha fruito di una fiscalizzazione dei propri costi: infatti, lo
Stato federale, a seguito delle riforme Hartz ha amplificato il proprio deficit oltre il limite sancito da
Maastricht, nei primi anni di circolazione dell’euro, a causa della spesa pubblica originata dal
welfare connesso a disoccupazione e sotto-occupazione (i c.d minijob).
Si tratta di un’antica propensione di politica economica intesa all’aggressività verso i
mercati degli altri paesi. Già l'economista italiano Serra nel 1613, prima di Kaldor (il grande
economista vicino a Keynes) ad esempio, riconosceva che l'industria manifatturiera è uno dei
motori della crescita, posto che non dipende dalle condizioni climatiche, produce beni durevoli, ed è
soggetta a rendimenti di scala crescenti in quanto può essere moltiplicata con minore proporzione di
spesa.
I tedeschi (e gli altri paesi “core”, ex area-marco) in uno scenario che, almeno fino alla crisi
finanziaria mondiale dei sub-prime, registrava una domanda dei loro beni, hanno incentivato
quest’ultima mediante credito (privato) largamente concesso dal loro sistema bancario, inoculando
la “droga” dei capitali prestati ai paesi periferici (per permettere a questi ultimi l'acquisto di auto e
beni durevoli ecc.), con l’effetto anche di aumentare il livello, e il differenziale, di inflazione in tali
ultimi paesi, a causa del forzoso aumento della domanda e dei consumi, amplificando i differenziali
di tasso di cambio reale .[14]
Sopraggiunta la crisi dei sub-prime, di cui la Germania con la Deutsche Bank è stata
protagonista in negativo, il cosiddetto sudden stop creditizio ha provocato la caduta della domanda
dei paesi periferici, scoperchiando il vaso di pandora dei loro crescenti debiti privati ed esteri. Il
mantenimento persistente di tassi di inflazione al di sotto della media europea ha causato la
paralisi/morte dei “più deboli” sistemi produttivi: quindi un maggior CLUP, corrispondente a minor
competitività, per i partner europei quali Grecia, Portogallo e Spagna, a vantaggio dei tassi di
interesse reali sempre più alti, goduti dai paesi creditori.
Ora si chiede che tutti, in Europa, si riallineino abbassando i CLUP. Certo, è teoricamente
possibile. Ma si deve sapere che ciò è realizzabile solo creando ampia disoccupazione e connessa
recessione. La curva di Phillips ci spiega che la crescita del salario è inversamente proporzionale
rispetto al tasso di disoccupazione: la direzione di tale politica e dei suoi effetti trova conferma nei
tassi di disoccupazione di Spagna, Grecia, Irlanda, Italia (e, perchè no, della Germania durante i
primi anni di applicazione delle riforme Hartz, quando si è avviata preventivamente la accelerazione
deflattiva).
L’impostazione rende logico porsi questo interrogativo: se tutti sono parimenti competitivi a
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chi si vendono questi beni "equivalenti" nei prezzi (in mera teoria)? La verità, sempre ipocritamente
taciuta, è che in un'OCA”imperfetta” per ammissione dei suoi stessi creatori, quale indubbiamente è
l’area euro, chi "colpisce" per primo, comprimendo i salari e il CLUP (quindi i tassi di cambio reale
legati all'inflazione differenziale) consolida il vantaggio.
Il riallineamento competitivo via “taglio” dei salari "successivo", infatti, unito alle misure di
austerità imposte per l'ugualmente pro-ciclico consolidamento fiscale (che tende rigidamente a
garantire i creditori interni alla stessa area), provoca una tale caduta della domanda nel paese "a
maggior inflazione" (salariale e anche indotta dalla domanda drogata dai crediti esteri) da:
-deindustrializzarlo e vanificare con un "effetto strozzatura" la ipotetica riespansione della
produzione (impianti in gran parte smantellati);
- colonizzarne a "fabbrica cacciavite" l'economia (lavorazioni a minor valore aggiunto, non
esigenti investimenti, resi progressivamente impossibili dalla caduta verticale della domanda e dal
credit crunch).
Questa seconda ipotesi è quella che più incombe sull'Italia, anche a causa della originaria via
italiana al "tentativo" di deflazione salariale, cioè il precariato "sotto-demansionante", che dissuade,
in pratica, data la maggior convenienza industriale del lavoro sotto-qualificato e temporaneo, da
investimenti in IR&S. La “regressione industriale” non potrà nemmeno essere scongiurata da,
peraltro denegati, interventi "illimitati" della BCE-ESM riduttivi degli spread che, come già
evidenziato, agiscono sugli effetti e non sulle cause degli squilibri provocati dalle "monete uniche".
Stiamo correndo, comunque, vada, verso la dissoluzione della democrazia fondata sulla
tutela del lavoro (art.3, paragrafo 3, tr. istitutivo UE e 145-148 tr. sul "funzionamento" dell'UE) e
più ancor che l'Europa, stiamo distruggendo la sua cultura civile, vìolando, oltretutto, come si vedrà,
le stesse regole "fondamentali" che Stati membri e istituzioni UE si erano imposte.
Bisogna dunque essere coscienti che, in esito al processo di riallineamento attualmente
perseguito, si creerebbe, all’interno dell’Europa, una "specializzazione" produttiva e finanziaria tra:
1. paesi centrali UEM, destinati a mantenere un più forte avanzo commerciale, perchè lo
nutrirebbero di merci ad alto valore assoluto e aggiunto;
2. paesi "cacciavite", soggetti a concorrenza e congiuntura più forti, in ragione della
maggiore esposizione concorrenziale extra-UEM, cioè da parte dei paesi emergenti.
Tanto più che il "cosa" produrre e "dove", in questo assetto, lo deciderebbe la Germania, o
altro paese “core”, che acquisirebbero il controllo dei sistemi bancari e produttivi degli altri (di fatto
la cosa è già in atto e il vero rischio, per la Germania, è la pendenza delle sofferenze sub-prime
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annidate…negli USA, nelle famose controllate “discarica” del loro "estroso" sistema bancario).
Per l'Italia questa non solo sarebbe una colonizzazione neppure strisciante, ma anche la
"garanzia" di decine di anni di crescita stagnante, dove il valore ridotto pro-unitario dell'export e la
debolezza della domanda interna, si accoppierebbero alla più accentuata ciclicità dei mercati delle
tipologie di beni prodotti in concorrenza ai “paesi emergenti”. Ovviamente, la disoccupazione
dovrebbe sempre rimanere "incombente", da cui l'attenzione spasmodica sulle riforme "strutturali"
che si riducono essenzialmente a politiche di deflazione salariale, o di contrazione della spesa
pubblica, cosa che, in termini di praticabilità degli investimenti, e della conseguente crescita della
indispensabile occupazione “qualificata”, ha un effetto equivalente.
In questa situazione, la politica tedesca soffre della intrinseca contraddizione logica di
imporre prima uno standard di competizione elusivo dello “spirito” cooperativo che dovrebbe
permeare le regole dell’Unione, e poi di imputare agli altri, che hanno subito gli effetti distorsivi di
tale politica, responsabilità e misure di adeguamento che finiscono per aggravare sia la posizione
dei debitori, sia la propria stessa sicurezza nella posizione di creditore. Rifiutando di prestare, ora
come prima, la cooperazione indispensabile per poter coesistere all’interno di un’area valutaria
comune.[15]
Diciamo che è una questione di "potere", (cioè di un tipico corollario dell’imperialismo
mercantilistico), esercitabile su "altri", invece che di giustificabili timori di maggiori aggravamenti
dei propri conti pubblici.
Cerchiamo di spiegarci meglio: se “saltano” i sub-prime in USA e le banche tedesche sono
"esposte" in sofferenze (e lo sono ancora, come s’è detto, specie le controllate USA), alla Germania
non salta in mente di dire alle proprie banche: “avete sbagliato a concedere il credito ora
sbrigatevela da soli”. Lo Stato federale è intervenuto a trasferire soldi pubblici (sottratti ad altri
scopi del pubblico bilancio) alle banche, del cui "sistema" è, oltretutto, azionista circa al 40%.
Ma se la stessa situazione di insolvenza si verifica per i greci o per gli irlandesi, sono i
rispettivi Stati che, - in situazione di crisi di liquidità determinata dall'innalzamento del debito
privato oltre ogni sostenibilità (per consumi a "debito"...di beni importati e per afflusso di capitali
dai paesi “core”, prestati in ragione di interessi nominali, e reali, più alti e crescenti, espressi nella
stessa valuta, ed impiegati in un'eccessiva intrapresa immobiliare)- danno i soldi alle proprie
banche.
E come fanno? Emettendo debito pubblico, cioè gravando i cittadini, già debitori a titolo
privato degli stessi “creditori”.
Questo debito pubblico, a sua volta, provocando la crescita della domanda di credito in una
![Page 9: area Euro, Mercantilismo e Violazioni Del Trattato](https://reader036.vdocuments.mx/reader036/viewer/2022081821/553c14634a79593d798b47f6/html5/thumbnails/9.jpg)
moneta priva del sostegno di un prestatore di ultima istanza, sarà più difficile da collocare e ne
crescerà l'onere per interessi (che gravano sul bilancio pubblico fino a diventare insostenibili). Chi
sottoscrive questi titoli pubblici (le stesse banche creditrici dei privati, tra l'altro), dunque e va
ribadito, lo fa per gli interessi più alti, guadagnandoci; e, beninteso, come già più alti erano gli
interessi reali riscossi per i crediti “facili” erogati, allo stesso sistema privato dei paesi periferici,…
proprio per cui sostenerne la domanda di beni importati.
In tale situazione, gli interventi di iniezione di liquidità “a carico”dei vari fondi UE, per
salvare il bilancio pubblico del paese debitore dal "fallimento-insolvenza", sono attualmente, per
patto tra Stati membri, ripartiti per quote proporzionali tra tutti gli Stati stessi: la Germania eroga,
(per ordine di grandezza del PIL) la quota maggiore, anche se però "riceve" in successiva
restituzione (del debito privato sottostante) anche una quota ben maggiore del volume complessivo
dello stesso intervento, ma non a livello pubblico, appunto a livello privato bancario.
Cioè i soldi tedeschi in uscita per il “salvataggio” (più o meno gravanti su ogni cittadino,
procapite, quanto gravano sul cittadino italiano o francese) sono corrisposti emettendo debito
pubblico o garanzia equivalente: il che significa che, per rimpolpare, in definitiva, le proprie
banche, la Germania emette un debito "avvertito" dai contribuenti in quanto pubblico, e perciò
l'esigenza politica di incolpare il debitore privato greco o PIGS di questo "aggravio" fiscale, non
addossando in modo trasparente la responsabilità al proprio sistema bancario, irresponsabile
prestatore. Ma l'aggravio è sempre molto minore di quello che la Germania dovrebbe sopportare,
per gli stessi comportamenti "imprudenti" bancari, al di fuori dell'UEM. In tal caso si prende in
carico, sul bilancio pubblico, di tutto il credito bancario inesigibile, com'è accaduto appunto nel
caso dei subprime USA.
L'alternativa sarebbe lasciare fallire le banche e nazionalizzarle per garantire i depositi
(entro limiti ragionevoli), nonché separando gli istituti di credito commerciale da quelli speculativi
finanziari, che agiscono sui mercati con la logica del proprio profitto e non dell’interesse dei
risparmiatori che gli affidano i capitali impiegati. Ma le banche comandano (tramite Bundesbank) e
non lo consentono...per ora (finchè i cittadini UE tutti non si desteranno dal torpore “europeistico”
in cui sembrano piombati).
Alternativamente, appunto, si può creare senza limiti, tramite la BCE, "nuova" liquidità per
acquistare i titoli pubblici in euro, nella misura e per tutto il tempo necessari. Ma qui subentra la
paura dell'inflazione, irrazionalmente alimentata nei termini visti in precedenza.
Quindi, in definitiva, il rifiuto tedesco (a ogni tipo di intervento) è del tutto irragionevole e
determinato esclusivamente da una visione politica di breve termine, che dimentica la "ragione"del
credito concesso, privato a privati, e che sta alla base di tutto: il sostegno delle proprie esportazioni
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agevolate dalla moneta comune (cioè dalla immutabilità del cambio nominale, potendosi invece
agire svalutando il tasso di cambio reale, tramite la compressione retributiva). Ma questa è una crisi
"tipica" e già ampiamente vista e prevedibile dagli economisti tanto più qualificati, quanto tutt’ora
inascoltati. [16]
3- EURO E VIOLAZIONE DELLE NORME DEI TRATTATI, ISTITITUVO E SUL
FUNZIONAMENTO DELL’UE, DA PARTE DI GERMANIA E ISTITUZIONI UE
Detto questo, sforare, come ha fatto la Germania al tempo delle riforme Hartz, il limite
debito/PIL (che quasi inizialmente rispettava) per”fiscalizzare”, (fuori da una situazione
congiunturale in atto, attenzione!) i costi di disoccupazione-sottoccupazione, indotte per
deflazionare le retribuzioni, vìola:
A) l'art.107, paragrafo 1, ultima parte, dell'attuale trattato sul funzionamento dell'unione
(TFUE), in materia di “aiuti di Stato”, laddove si ottenga (appunto "in qualsiasi forma") una
riduzione dei costi delle proprie imprese, incidente sugli scambi tra paesi membri, come nel caso,
mediante la svalutazione del tasso di cambio reale, che provochi, a sua volta, un vantaggio
concorrenziale asimmetrico “intenzionale”, sia per le proprie esportazioni, sia, e ancor più, a favore
di una restrizione delle importazioni (questo l'effetto forse più rilevante del gioco sui tassi di cambio
reale);
B) l’art.107, paragrafo 3, TFUE, cioè il complesso delle clausole in tema di
“legittimazione”, in sede UE, a ricorrere agli aiuti di Stato in funzione anticongiunturale e di tutela
di interessi “sensibili”. Ed infatti, la situazione attuale, tra l'altro, autorizzerebbe, (se non ora
quando?) tutti i paesi in strutturale deficit della bilancia dei pagamenti, con alti livelli di
indebitamento privato/estero -e non pubblico!- oltre la media per un periodo prolungato e
significativo, (rilevabile sul sistema T2)- a lanciare programmi di aiuto ai sensi dello stesso art.107,
par.3, lett.a), b), d) del Trattato sul funzionamento dell’Unione...ma tali paesi non possono farlo in
quanto il fiscal compact, come corpo di disposizioni speciali "euro-zona", impedisce
deliberatamente l’adozione di misure essenziali in origine legittime secondo il trattato, vincolando
le politiche fiscali alla autodistruzione dei rispettivi sistemi industriali e alla cristallizzazione degli
squilibri di area (altrimenti doverosamente compensabili);
- C) l'art.34 dello stesso Trattato sul funzionamento dell’Unione: "sono vietate tra gli Stati
membri le restrizioni quantitative all'importazione nonché qualsiasi misura di effetto equivalente
(tale essendo la deflazione salariale al fine di deprezzare il tasso di cambio reale, giustificata solo da
fini di competizione mercantilistica).
Ma la stessa Commissione e il consiglio UE, non vanno esenti da una “imprecisa” e
![Page 11: area Euro, Mercantilismo e Violazioni Del Trattato](https://reader036.vdocuments.mx/reader036/viewer/2022081821/553c14634a79593d798b47f6/html5/thumbnails/11.jpg)
omissiva applicazione dei trattati, come essenzialmente evidenzia De Grauwe. Ciò può desumersi
dall’oggettivo contenuto di una serie di disposizioni dei trattati medesimi, interpretate correttamente
e, soprattutto, nella piena espansione delle clausole in esse contenute:
ad es., l’art.5 del TFUE
“1. Gli Stati membri coordinano le loro politiche economiche nell'ambito dell'Unione. A tal
fine il Consiglio adotta delle misure, in particolare gli indirizzi di massima per dette politiche. Agli
Stati membri la cui moneta è l'euro si applicano disposizioni specifiche (ancor più stringenti e ancor
più ignorate n.d.r.)...
2. L’Unione prende misure per assicurare il coordinamento delle politiche occupazionali
degli Stati membri, in particolare definendo gli orientamenti per dette politiche.
3. L'Unione può prendere iniziative per assicurare il coordinamento delle politiche sociali
degli Stati membri.”
Dove siano finite queste misure e iniziative per coordinare politiche economiche,
occupazionali e sociali, a fronte del conclamato atteggiamento, tenuto dalla Germania, di unilaterale
e non cooperativa alterazione degli equilibri, già di per sé estremamente difficili da raggiungere, è
un interrogativo che non ci si può esimere dal porsi[17].
Cercare altre norme nei trattati, oltre a quelle menzionate, si può (v. infra), ma solo per
accorgersi che non vengono fatte rispettare nella lettera e nello spirito e tutto rientra nello stesso
"disegno" tanto evidente, quanto, nella sostanza, prevalentemente taciuto dai media europei, forse
troppo influenzati dalla loro proprietà finanziaria.
E’ pur vero che, proprio in questi ultimi giorni, la Commissione pare avere avuto un parziale
“ravvedimento”, forse stimolata dagli unanimi pareri di tutti gli economisti più prestigiosi nel
commentare la criticità della situazione di “asimmetria”, apertamente perseguita, in cui si continua a
indugiare [18], iniziando a porsi il problema dell’atteggiamento tedesco.
László Andor, commissario europeo per gli affari sociali, intervistato da FAZ.net, ha preso
posizione con il rappresentare ai tedeschi questa “dura verità”: “le vostre politiche di dumping
salariale hanno contribuito alla crisi Euro, non è tutta colpa dei latini” [19]. Si riportano alcuni
passaggi salienti:
“Gli squilibri nell'Eurozona non sono solo il risultato di politiche sbagliate nei paesi in
crisi. La Germania ha avuto un ruolo importante, con la sua politica mercantilista ha rafforzato
gli squilibri in Europa e causato la crisi. In futuro dovremo seguire da vicino lo sviluppo dei salari
a livello europeo e fare in modo che all'interno dell'area monetaria non divergano in maniera così
![Page 12: area Euro, Mercantilismo e Violazioni Del Trattato](https://reader036.vdocuments.mx/reader036/viewer/2022081821/553c14634a79593d798b47f6/html5/thumbnails/12.jpg)
forte, come è accaduto negli anni precedenti.
…La commissione intende verificare la politica economica degli stati e per fare questo ha
in mano i mezzi necessari per procedere contro gli Stati che non fanno nulla contro gli squilibri
nella zona Euro. La Germania tuttavia deve porre a se stessa la domanda, se nell'Unione Europea
intende procedere secondo il motto : "in Europa non sono tutti uguali".
Circa tale nuova “attenzione”, da parte della Commissione, ai problemi degli squilibri
commerciali e dei tassi di cambio reale, viene da chiedersi: perchè lo fanno solo “ora”, mentre si
accingono (dal 2013 in poi) "anche" ad applicare le nuove sanzioni previste dal fiscal compact (che
non potrà che accelerare i problemi stessi, facendo languire le economie “indebitate” via deficit
delle partite correnti e ritorcendo contro la stessa Germania i problemi di drastica riduzione della
domanda di cui continua a non curarsi)?
In effetti, volendo anche solo focalizzare sulle politiche europee dell’occupazione, gli artt.
145-148 del Tr. sul funzionamento UE risultavano già violati, fin dai primi anni 2000, dal
complesso delle politiche tedesche e, segnatamente, delle riforme Hartz. Le clausole oggettivamente
ignorate, all'interno di tali previsioni, sono molteplici. C'è solo da scegliere.
La commissione stessa è dunque, fino ad oggi, venuta meno ai criteri di monitoraggio,
coordinamento e promozione dell'art.147, per cui doveva "tenere conto" dell'"obiettivo di un livello
di occupazione elevato", cioè nel quadro dell'art.3, paragrafo 3, del Trattato sull'UE, che pone
l'obiettivo della "piena occupazione" ed è dunque strutturalmente incompatibile con politiche del
lavoro nazionali il cui effetto si risolva nella "deflazione salariale" non necessitata (come si torna a
sottolineare) in base a congiunture internazionali, circostanza pacificamente ammessa dai tedeschi.
Ciò, per di più, in un quadro non coordinato a livello UE di politiche del lavoro -art.146,
comma 2, TFUE- e che si è risolto, come si è visto sopra, in misure di effetto equivalente alla
restrizione delle importazioni rispetto agli altri Stati membri (art.34 st.Tr.).
Inutile dire che risulta “dimenticata”, rispetto alla linea tenuta dalla Germania all’interno
dell’area UEM, anche l’attivazione, da parte della Commissione, dei meccanismi di accertamento e
“avvertimento” previsti dall’art.120 par.4, TFUE.
4- QUESTIONE DI DIRITTO RELATIVA ALL’EURO-EXIT.
Partiamo dal quadro dimostrativo qui costruito sulla base non solo delle analisi compiute dai
maggiori economisti, ma anche delle ammissioni provenienti dalla stessa Germania. Quest’ultima,
unilateralmente, e nel solco della sua tradizione “deflattiva” orientata all’esportazione, riassumibile
nella formula “imperialismo mercantilista”, ha violato, quantomeno nello “spirito” connesso al
necessario intento cooperativo all’interno di un’unione monetaria, le norme sopra evidenziate.
![Page 13: area Euro, Mercantilismo e Violazioni Del Trattato](https://reader036.vdocuments.mx/reader036/viewer/2022081821/553c14634a79593d798b47f6/html5/thumbnails/13.jpg)
E tale violazione assume, nella sua logica competitiva e non cooperativa, un particolare
connotato lesivo proprio nei confronti dell’Italia, maggiormente colpita dalla logica mercantilista
innescata dalla Germania. Di ciò tale paese è stato cosciente fin dallo stesso concepimento della
moneta unica.[20]
Si potrebbe dire che la Germania è fuoriuscita, con il suo comportamento, dalla
“giustificazione causale” dell’intero impianto pattizio UEM, respingendo unilateralmente la
funzione “socio-economica” del trattato (ciò sul piano contrattuale corrisponde alla violazione del
dovere di adempimento secondo “buona fede” in senso oggettivo, esprimendosi tale “correttezza”
nell’onere di sostenere ogni ragionevole sacrificio per rispettare il normale significato che le
controparti potevano attribuire ai vincoli comunemente assunti)..
A ciò, va aggiunto, a titolo esemplificativo ulteriore, che, in un esame sistematico delle
pletoriche disposizioni dei trattati, risultano fondamentalmente disattesi anche:
- l'art.120 del TFUE, che obbliga gli Stati a “coordinare le politiche economiche per
realizzare gli obiettivi dell'art.3 del trattato sull’Unione europea” (più volte citato), tra cui appunto
la “piena occupazione”;
- l'art.127 stesso tr., che vincola la politica monetaria, oltre che alla stabilità dei prezzi,
anche al sostegno di “politiche economiche generali nell’Unione al fine di contribuire alla
realizzazione degli obiettivi dell’Unione definiti nell'art.3 del trattato sull’Unione europea”.
Quest’ultimo aspetto è “singolare”, perchè, pur gettando una luce alquanto diversa sui
presunti limiti di intervento della BCE, e più ampiamente del SEBC, cioè del “sistema europeo
delle banche centrali”, il mandato di tali (uniche) istituzioni UEM pare essere stato, fin’ora, inteso
in contraddizione con la esplicita lettera dell’art.127, rimanendo ignorato il richiamo agli obiettivi
dell’art.3, in specie alla predetta “piena occupazione” (come se tali parole, nell'art.127 stesso, non
fossero affatto scritte).
A questo punto l’uscita dall’euro e dal suo inestricabile sovrapporsi di politiche monetarie e
fiscali inevitabilmente squilibrate, che acuiscono la situazione di sua originaria “disfunzionalità
tecnico-economica”, con devastanti conseguenze per i paesi finiti nella inevitabile situazione di
importatori-debitori esteri-fiscalmente deficitari, diventa una questione che ha varie qualificazioni
giuridiche possibili.
Non ultima quella per cui, l’alterazione del modo di intendere la lettera e la portata delle
norme del Trattato nella loro piena forza espansiva, “resecandone” il disposto in modo da
avvantaggiare unilateralmente una parte del trattato, risulta addirittura “ultra vires” rispetto alle
competenze dell’organizzazione sovranazionale, rendendo fortemente dubbia tutta la legittimità
![Page 14: area Euro, Mercantilismo e Violazioni Del Trattato](https://reader036.vdocuments.mx/reader036/viewer/2022081821/553c14634a79593d798b47f6/html5/thumbnails/14.jpg)
comunitaria (o “europea”) di successive pattuizioni, quali six packs e fiscal compact, che non
risultano più avere un adeguato e sufficiente antecedente convenzionale (di fonte superiore
“legittimante”) nelle previsioni del trattato pienamente intese.
Circa i mezzi legali di “uscita” si richiama talvolta l'art.50 TFUE: questo prevede una
procedura di uscita dall'Unione che non pare però attagliarsi al caso della cessazione dello specifico
vincolo pattizio riferito all’euro.
Infatti, si tratta di una norma "speciale" ma ciò, in primo luogo, non in quanto contenuta in
un trattato (cioè nel diritto internazionale “speciale”), ma per la sua particolare “onerosità”
procedimentale e politica. Di per sè, in quanto tale, deve interpretarsi con riferimento al suo
specifico oggetto: regolare con una procedura politicamente “rafforzata”, e in modo da indurre
consistenti tempi di ponderazione al paese interessato, l'uscita dall'Unione in forma di "recesso".
Si tratta, cioè, della decisione volontaria di uno Stato, politicamente discrezionale (libera nei
“motivi” e nei “fini”), entro i limiti del rispetto della procedura. Peraltro nella procedura stessa sono
previsti ampi limiti di deterrenza e una parziale sindacabilità della scelta. La finalità “riflessiva” e la
distillazione di tempi e adempimenti, nell’ambito di tale complessa procedura, peraltro, come si è
anticipato, costituisce dunque la vera "specialità" della disciplina, essendo invece l'ipotesi di recesso
volontario tout court, corrispondente alla prassi prevalente (salvi opportuni tempi di preavviso),
specie se si tratti di patti internazionali ad ampio “impatto”, in ragione della vastità e incidenza
dell’oggetto e dell’intenso vincolo politico che implicano, prolungato in un arco di tempo
praticamente “illimitato”.
Inoltre, quella prevista dall’art.50 è, sotto un altro profilo, un'ipotesi non connotata dal
ricorrere di un "legittimo" e giustificato" motivo di auto-tutela della sovranità e dell’ordine pubblico
interno propri di un certo Stato-membro. Il suo specifico oggetto-procedura pone, come s’è visto, il
problema della sua applicabilità o meno, anche in via analogica, al caso del recesso “meramente
volontario” (non “causale”) dalla sola Unione monetaria: tale limite interpretativo, sul piano della
teoria generale, escluderebbe la possibilità dell’applicazione analogica al caso dell'uscita delimitata
alla moneta unica.
Quest'ultimo caso va allora ricondotto alle norme generali del diritto internazionale anche
sotto ulteriori profili.
Tra queste ultime norme rilevano (ormai come prassi internazionale consolidata) quelle della
Convenzione di Vienna in materia di diritto dei trattati, conclusa nell’ambito della cornice ONU: si
tratta di una sorta di codice (in parte ricognitivo della prevalente consuetudine e in parte fondativo
di un nuovo diritto consuetudinario), relativo alla disciplina di tutte le fonti pattizie e che si applica,
![Page 15: area Euro, Mercantilismo e Violazioni Del Trattato](https://reader036.vdocuments.mx/reader036/viewer/2022081821/553c14634a79593d798b47f6/html5/thumbnails/15.jpg)
perciò, a tutti i trattati compreso quello UEM- sebbene la cosa sia complicata dal fatto che
“Maastricht” contiene anche norme non riguardanti la UEM e che, comunque, quest’ultimo trattato
risulta poi inglobato nel trattato sul funzionamento dell’Unione (a sua volta frutto del
consolidamento conseguente alla conclusione-ratifica del trattato di Lisbona).
In linea di principio, denuncia o recesso – “meri”, cioè non connotati dalla legittimazione
alla “rottura” fornita dai comportamenti “alteranti” altrui, o da cause sopravvenute di
disfunzionalità ed eccessiva onerosità -, sono possibili allorchè previsti, anche implicitamente, dallo
stesso trattato considerato. E sulla individuazione di una volontà implicita di “risolubilità” del
vincolo della moneta unica non influisce, ovviamente e per definizione, la mancanza di previsione
“espressa”, rendendo ciò solo più difficile il percorso emerneutico, difficoltà “ricercata” dalla
commissione “Attali”, che tuttavia non preclude, appunto, di superarla. [21]
L'art.50 TFUE sopra citato, conferma semmai che, al di là della specialità derivante dalla sua
peculiare procedura, i trattati UE contemplano implicitamente (come prevede in materia la
Convenzione di Vienna), in forza di oggettivi fatti concludenti, e in considerazione della loro natura
di convenzioni senza termine finale, la normale ipotesi di una volontà negoziale nel senso della
estinguibilità per recesso-denunzia “anche” del trattato UEM, cioè dell’insieme delle relative
disposizioni in quanto scorporabili dal corpo più ampio dei trattati UE.
D’altra parte, tali considerazioni nulla escludono, circa le "altre" connesse cause generali di
estinzione ex parte coinvolta, previste dalla Convenzione di Vienna medesima. Tra queste ultime,
"l'inadempimento della controparte" (art.60: principio “inadimplenti non est adimplendun”) e la
sopravvenuta impossibilità dell'esecuzione (art.61 c.d. clausola rebus sic stantibus, art.61).
A fronte del quadro di alterazioni "rimarchevoli" dello spirito e della lettera di molte
fondamentali clausole del trattato, quale sopra ampiamente evidenziato, queste ultime due cause di
estinzione volontaria appaiono ampiamente utilizzabili da parte dello Stato italiano, una volta che
l’interesse che giustifica l’originaria adesione al trattato stesso, fosse nuovamente e correttamente
riferito al livello di tutela proprio della comunità statale che ha originariamente espresso la sua
adesione.
In altri termini, la funzione e gli obiettivi fondamentali dell’Unione, anche nella loro
proiezione “monetaria” (concretizzatasi nella scelta dell’adozione dell’euro), non possono che
individuare, come parametro di correttezza dei comportamenti riconducibili ai vincoli pattizi,
l’interesse negoziale, “reciproco” e condiviso, dedotto dal soggetto (statale) aderente. Tale interesse
ha una sostanza giustificativa inevitabilmente comune a tutti gli Stati-membri, dunque valevole
come “condizione” essenziale (paritaria) per l’adesione, e deve necessariamente consistere nella
promozione del “benessere” dei cittadini che in quel soggetto aderente si riconoscono.
![Page 16: area Euro, Mercantilismo e Violazioni Del Trattato](https://reader036.vdocuments.mx/reader036/viewer/2022081821/553c14634a79593d798b47f6/html5/thumbnails/16.jpg)
Da tale rilievo, tra l’altro, si può trarre la ragionevole e obiettiva deduzione interpretativa
che la stessa manifesta violazione delle condizioni di parità “di interesse sostanziale” tra Stati (e
rispettivi cittadini soggetti alle conseguenze politiche economiche del trattato) integri di per sé la
“eccessiva onerosità” che giustifica l’invocazione della clausola “rebus sic stantibus”.
Su questo solco interpretativo, va allora rammentato che l’art.11 Cost., seconda parte.
afferma che l’Italia “ consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni; promuove e
favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Pertanto, alla luce della giustificazione costituzionale e della “causa naturale” della stessa
partecipazione “europea”, ove:
- nell’applicazione di un trattato tali condizioni di parità non siano state effettivamente
reciprocamente garantite, in conseguenza di un’interpretazione “inattesa”, secondo il metro della
“buona fede in senso oggettivo”, ovvero addirittura “dolosa”, delle clausole del trattato da parte di
altri Stati membri;
- le posizioni univocamente assunte da altri partners - che abbiano vìolato o “eluso” principi
o obiettivi fondamentali della convenzione-, mostrino che le medesime “condizioni”(parità e
perseguimento omogeneo del benessere dei cittadini) siano divenute non più avverabili a costi
obiettivamente ragionevoli, nonché coerenti con un quadro correttamente cooperativo (che è la
“causa” generale “tipica” di tale tipo di trattati);
- ne discende che la denunzia del trattato secondo, quantomeno, il principio “rebus sic
stantibus” (mutamento essenziale dei presupposti giustificativi del patto internazionale), appare un
dovere attuativo della previsione costituzionale.
Alla luce delle (impressionanti) evidenze espresse dalle analisi concordi della comunità
scientifico-economica, l’alterazione delle “condizioni di parità”, nonchè l’irreversibile mutamento
dei presupposti essenziali che hanno giustificato l’assunzione del vincolo, (secondo le dichiarazioni
pubblicamente espresse dalle parti in sede di trattativa), si stanno palesando in un modo conclamato
dai fatti. Tali fatti, segnalano, quantomeno, la sopravvenuta eccessiva onerosità del vincolo UEM,
laddove assunti secondo attendibili e ampiamente condivise analisi degli effetti economici
provocati, sicchè essi risultano contrastanti con gli obiettivi costituzionalmente legittimi di una
possibile prosecuzione della vigenza del trattato in questione.
Come riflessione finale, vale la pena di osservare che la rilevanza del geschaftsgrundlage -
cioè della c.d. “teoria della presupposizione”, cui si riconduce il brocardo “rebus sic stantibus” racchiuso
nell’art.61 della Convenzione di Vienna- è ben considerata nell’ambito dei principi e dei valori promossi
![Page 17: area Euro, Mercantilismo e Violazioni Del Trattato](https://reader036.vdocuments.mx/reader036/viewer/2022081821/553c14634a79593d798b47f6/html5/thumbnails/17.jpg)
dalle istituzioni europee: “Das ist nicht eine diplomatische Floskel, mit der wir angenehme
Geschäfte wie eine Höflichkeitsformel einleiten, sondern das ist die Geschäftsgrundlage” (trad:
“tale affermazione non è una vuota formula diplomatica né una frase di cortesia cui ricorriamo per
fare affari piacevoli; al contrario, essa esprime le condizioni stesse alle quali vengono conclusi i
nostri affari”).
Questa definizione, non a caso, è ricavabile dal seguente link:
http://www.europarl.europa.eu/, aprendo il quale si trova la formula “Welcome to the European
Parliament”.
Sarebbe singolare che la locuzione “lo vuole l’Europa” fosse perciò riferita solo alle più
incerte e controverse decisioni monetarie e fiscali, ormai sotto l’ombra del forte dubbio che abbiano
violato le norme fondamentali dettate dall’Europa stessa, e non invece assunta nell’accezione di
tutela della democrazia e del benessere dei cittadini che ci suggerisce l’art.11 della nostra
Costituzione.
L’idea e l’istituzione europea meritano di essere associate, piuttosto, a valori come giustizia,
benessere diffuso, razionale e trasparente distribuzione delle risorse e, in definitiva, “democrazia”
per tutti i popoli coinvolti nella sua tormentata costruzione.
[1] Sul punto v. Domenico Mario Nuti, “Scenari possibili dopo la crisi globale”, pagg.18 ss. http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/1834-domenico-mario-nuti-scenari-possibili-dopo-la-crisi-globale.html
[2] In termini attualizzati alle prospettive di utilizzazione dello strumento della moneta unica, di fronte alle
crisi potenziali conseguenti alla liberalizzazione finanziaria globale: Mundell Robert A. (1997),
“The great contractions in transition economies”, in Mario I. Blejer and Marko Skreb (Eds),
Macroeconomic Stabilisation in Transition Economies, CUP 1997, pp.73-99.
Sui nodi “monetaristici” generali del problema: Buiter Willem (2011b), The Debt of Nations Revisited: The
Central Bank as a quasi-fiscal player: theory and applications, Federico Caffè Lecture n. 2,
Facoltà di Economia, Sapienza Università di Roma, http://willembuiter.com/caffe2.pdf
[3] W. Buiter, citato a nota 2. Secondo quanto evidenziato da Nuti, op.cit., Buiter (2011b) stima queste
![Page 18: area Euro, Mercantilismo e Violazioni Del Trattato](https://reader036.vdocuments.mx/reader036/viewer/2022081821/553c14634a79593d798b47f6/html5/thumbnails/18.jpg)
risorse fuori bilancio, e quindi la NILAC (Non-Inflationary Loss Absorbing Capacity) della BCE, a ben 3300
miliardi di euro, scontandone nel tempo e sommandone le varie componenti (i profitti ottenuti dalle
emissioni di base monetaria, gli interessi ottenuti investendo le emissioni passate, l‟imposta inflazionistica
anticipata ossia la riduzione del valore reale dello stock di base monetaria causato dall‟inflazione attesa,
nonché l’imposta inflazionistica non-anticipata). Rinviamo a Buiter per gli aspetti concettuali, teorici ed
empirici della sua stima. Egli dimostra che le conseguenze potenzialmente inflazionistiche di tale intervento
della EBC potrebbero essere neutralizzate riducendo le dimensioni del bilancio della EBC (vendendo assets
e riducendo i prestiti), sterilizzando le passività monetarie, aumentando le riserve obbligatorie, e aumentando
la remunerazione delle riserve in eccesso per indurre le banche a tenerle inattive (queste ultime due misure
ridurrebbero il moltiplicatore del credito bancario).
.
[4] In tal senso: D.M. Nuti “Lo strano siparietto degli eurobond” http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Lo-strano-siparietto-degli-eurobond-14254[5] Il tipo di meccanismi e problematiche inevitabilmente indotte dall’instaurazione di una moneta unica, con la rinuncia agli strumenti di riequilibrio commerciale consentiti dai cambi flessibili, furono evidenziati in dettaglio, con riferimento al nascente Mercato comune europeo, da J.E. Meade in “The balance of payments problems in a European Free Trade Area”, in Economic Journal, vol 67, n.267, sept.1957
[6] Il termine ha un’accezione tecnico-economica e non implica un giudizio politico-morale, ed è correntemente utilizzato dalle prevalenti analisi economiche del fenomeno v. S.Cesaratto “Europe, German Mercantilism and the Current Crisis”http://ideas.repec.org/p/usi/wpaper/595.html.
[7] Sull’esatta determinazione di tale politica mercantilisca, deflazionistica e restrittiva della domanda interna, come tradizione storica di tale paese, v.Joseph Halevi, “Sul capitalismo tedesco”;http://proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=157&artsuite=1
[8] Così Peter Bofinger, consigliere del governo di Berlino, influente economista, nel suo libro sull’euro, di cui alcuni estratti sono stati pubblicati su “Die Welt”: “ ...Ma dietro c'è un modello economico discutibile come il mercantilismo tedesco dell'ultimo decennio. Nel tentativo di diventare sempre piu' competitivi, si è perseguita una politica salariale di moderazione, accompagnata da una debole domanda dei consumatori interni. In questo modo si è potuto esportare su larga scala, soprattutto verso paesi che si sono potuti permettere il tutto a debito.”.
[9] Si veda questo passaggio conclusivo in un rapporto FMI
(http://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2010/wp10226.pdf)
"The bad news is that irrevocably fixed nominal exchange rates do come at the cost of larger and
more permanent trade imbalances, just as Friedman (1953) claimed more than half a century ago. The good
news is that these imbalances are not completely unavoidable. With a fixed exchange rate, trade imbalances
are all the smaller and their adjustment to shocks all the faster, the more flexible the national labor and
product markets are. Similarly, structural reforms that smooth the business cycle (e.g., by increasing growth
contributions from domestic sources in very open trade surplus economies) can help reduce precautionary
savings and thereby lower trade surpluses. Finally, measures to improve the fiscal balance are likely to aid
efforts to reduce large deficits in international trade." (cit.p.14).
![Page 19: area Euro, Mercantilismo e Violazioni Del Trattato](https://reader036.vdocuments.mx/reader036/viewer/2022081821/553c14634a79593d798b47f6/html5/thumbnails/19.jpg)
Come per Mundell (“l’inventore” delle “aree valutarie ottimali”), rispetto al trattato UEM, come per
il " Washington Consensus" (cioè la teorizzazione, all’interno del FMI, delle politiche di riduzione del debito
pubblico e del welfare come vie alla crescita e alla stabilità finanziaria), rispetto al fiscal compact - sulla cui
portata giuridico-economica, esistono seri dubbi di coerenza e conformità agli obiettivi fondamentali
dei Trattati, quali sanciti, in particolare dall’ar t.3 del Trattato sull’Unione europea, in particolare
dall’art.3, comma 3, e dal concetto di “piena occupazione” ritraibile sistematicamente dalle
specificazioni degli artt.145-148 TFUE (v. infra), l'apparente coincidenza di vedute di principio, finisce
laddove FMI, nel 2010, evidenzia, senza ipocrisie, come sia una crisi di debito privato basata su squilibri
delle bilance dei pagamenti e lo diagnosticano, al FMI, citando Friedman! La differenza, dunque, è che esiste
una ben maggiore soundness of thought e, paradossalmente, una maggior indipendenza dalla finance-
governance nel FMI che non nelle istituzioni europee. Insomma, non si cita solo il labour market ma anche
quello "products" (che esige investimenti e riduzione di precautionary savings, secondo accenti keynesiani e
senza indulgere troppo nella vecchia legge di Say, cioè nell’illusione, recentemente riaccesasi, che l’offerta
crei da sé la domanda)...
E infatti, FMI ora prende le distanze dalle politiche tedesche-UEM, perchè persino il deflazionare le
retribuzioni è, per Mundell come per il FMI (e Friedman), un mezzo e non un fine (e d'altra parte è in
contrasto patente con le citate norme dei Trattati).
Anche perché le "supply-side" politics (politiche sul lato dei costi di produzione e non sull’incentivazione di
domanda pubblica e privata), oggi tanto invocate, sono diverse sia dal financial-welfare (cioè dalla protezione
prioritaria dei sistemi bancari, a preferenza dell’attenzione verso l’economia “reale”, cui ci sta riducendo Bundesbank-
BCE) che dalle riforme strutturali pro-cicliche invocate dal duo Draghi-Monti (dato che né Friedman nè il FMI hanno
mai sostenuto che occorra praticare tali politiche in modo pro-ciclico, cioè in fasi dove la domanda è già
autonomamente debole, e a costo di indurre una recessione fiscal-dragged).
[10] http://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/@dgreports/@dcomm/@publ/documents/publication/wcms_171571.pdf
[11] DE GRAUWE EURO Symmetries.pdf (Oggetto application/pdf)[12] Tale conclusione è pacifica nella letteratura economica, certamente in quella extraeuropea e segnatamente anglosassone, cfr; http://www.voxeu.org/article/should-we-believe-german-labour-market-miracle[13] Sul punto, si veda lo studio dell’ILO citato in nota 7, nonché i dati storici sull’andamento del CLUP italiano anteriore e posteriore all’introduzione dei vincoli valutari, prima dello SME “a fascia ristretta” e poi dello stesso euro.
[14] La ricorrenza “tipica” e quasi scontata di questo schema di crisi, legato in definitiva, alla liberalizzazione mondiale della circolazione dei capitali, è stata indagata (oltre che nello studio di Cesaratto citato alla nota 5) da Roberto Frenkel e Martin Rapetti nell’ormai noto lavoro “A developing country view of the current global crisis: what should not be forgotten and what should be done” http://cje.oxfordjournals.org/content/33/4/685.full
[15] Così Martin Wolff sul Financial Times “Ora la cura necessaria per i mali dell’eurozona imporrà un aumento dell’inflazione in Germania, che i tedeschi detestano; prolungate recessioni deflazionistiche in importanti mercati dell’eurozona; e continui trasferimenti di risorse ufficiali ai suoi partners. Tutto questo fa sì che né le conquiste economiche, né quelle politiche derivanti dall’appartenenza all’euro coincidono con ciò che i politici tedeschi avrebbero voluto. Peggio ancora, ora ci attendono anni di conflitti sui
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“salvataggi”, sulle ristrutturazioni del debito, sulle impopolari riforme strutturali per gli adeguamenti di competitività. Forse un doloroso divorzio sarebbe davvero meglio.
… tornare a un marco rivalutato ridurrebbe i profitti, aumenterebbe la produttività e aumenterebbe i redditi
reali dei consumatori. Invece di prestare il risparmio in eccedenza agli stranieri dissoluti, i tedeschi potrebbero godere di migliori standard di vita a casa loro. Inoltre, si realizzerebbe un rapido aggiustamento della competitività tra i membri della zona euro, aggiustamento che altrimenti avverrebbe troppo lentamente, attraverso un’inflazione elevata in Germania e un alto tasso di disoccupazione nei paesi partner.
…l’uscita è davvero un’opzione. Se viene respinta, come prevedo, alla fine si verificheranno più o meno gli
stessi aggiustamenti, ma in un modo ancor più doloroso. L’alternativa è l’unione di trasferimento che i tedeschi temono. La Germania ha pagato un prezzo molto alto per la sua strategia mercantilista. Dentro o fuori dell’euro, non può – e non deve – durare”.
http://keynesblog.com/2012/09/27/luscita-della-germania-dalleuro-e-unopzione-da-considerare-seriamente/
[16] http://www.tnr.com/article/economy/95989/eurozone-crisis-debt-dont-blame-greece
[17] Jacques Attali (consigliere di Mitterand e uno dei padri fondatori delle euro):"Era evidente, e tutti coloro che hanno partecipato a questa storia lo sanno, quando abbiamo fatto l'euro, sapevamo che sarebbe scomparso entro 10 anni senza un federalismo buggettario. Vale a dire con eurobond, ma anche con una tassa europea, e il controllo del deficit. Noi lo sapevamo. Perché la storia lo dimostra. Perché non c'è nessuna zona monetaria che sopravviva senza un governo federale ... Tutti sapevamo che questa crisi sarebbe arrivata." http://www.youtube.com/watch?v=OK169nietfk&feature=player_embedded
[18] Paul De Grauwe “In search of simmetry in the Eurozone” http://www.econ.kuleuven.be/ew/academic/intecon/Degrauwe/PDG-papers/Discussion_papers/Symmetries.pdf
[19] http://vocidallagermania.blogspot.it/2012/09/un-po-piu-uguale-degli-altri.html[20] Queste le parole dell’ex cancelliere tedesco Helmut Kohl , colui che si adoperò con tutte le sue forze affinché l’Italia entrasse nella prima “tranche” dell’euro. Egli, nel 1996 affermò: “un’Italia fuori dall’euro farebbe una concorrenza rovinosa all’industria tedesca. L’Italia deve quindi essere subito parte dell’euro, alle stesse condizioni degli altri partner”.
E per “stesse condizioni”, lo sviluppo degli eventi chiarisce ora che si deve intendere “stesso trattamento” …competitivo http://icebergfinanza.finanza.com/2012/02/29/germania-grazie-di-tutto-quello-che-fai-per-noi/
[21] Queste le parole dello stesso Attali: «Abbiamo minuziosamente "dimenticato" di includere l'articolo per uscire da Maastricht.. In primo luogo, tutti coloro, e io ho il privilegio di averne fatto parte, che hanno partecipato alla stesura delle prime bozze del Trattato di Maastricht, hanno, ci siamo incoraggiati a fare in modo che uscirne ... sia impossibile. Abbiamo attentamente "dimenticato" di scrivere l'articolo che permetta di uscirne. Non è stato molto democratico, naturalmente, ma è stata un'ottima garanzia per rendere le cose più difficili, per costringerci ad andare avanti.”http://www.youtube.com/watch?v=jXBLvGuNVuU&feature=player_embedded