area euro, mercantilismo e violazioni del trattato

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AREA EURO, MERCANTILISMO E VIOLAZIONI DEL TRATTATO Sommario: 1- LA GERMANIA E LA CRISI DELL’EURO; 2- IL DISEGNO COMPLESSIVO INSITO NELL’EURO; 3- EURO E VIOLAZIONE DELLE NORME DEI TRATTATI, ISTITITUVO E SUL FUNZIONAMENTO DELL’UE, DA PARTE DI GERMANIA E ISTITUZIONI UE; 4- QUESTIONE DI DIRITTO RELATIVA ALL’EURO-EXIT 1- LA GERMANIA E LA CRISI DELL’EURO Le polemiche che, in varie forme, si protraggono da mesi, circa l’attivazione di meccanismi di finanziari di intervento sugli spread tra i titoli del debito pubblico dei diversi paesi euro, in specie sulla conformità alla Costituzione tedesca dell’European Stability Mechanism (c.d. ESM), evidenziano i limiti “genetici” del trattato UEM (oggi trasposto, in un’inestricabile commistione di tematiche e oggetti “promiscui” all’area euro in senso proprio e a quella UE allargata, nel c.d Trattato sul funzionamento dell’unione europea –ora c.d. TFUE -, che costituisce la versione consolidata, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, del “vecchio Trattato istitutivo della Comunità europea –c.d. TCE). Lo scontro politico-economico fra paesi UE, drammaticamente sottostante a tali polemiche, dimostra l’ambiguità normativa sul ruolo della BCE, perseguita, a scopi ideologici, con la formulazione del trattato, alla luce della più accreditata teoria economica della moneta. Una banca centrale, diversamente da quanto implicato dalla disciplina “contraddittoria” che oggi si dice di “voler forzare”,- non solo l’art.123, ma il complesso degli artt.120-128 TFUE-, deve poter funzionare come Lender of Last Restort (LOLR),: e ciò sia, a rigore della locuzione, rispetto al sistema bancario che utilizza quella divisa in via principale, cioè comunque “residente” in quell’area valutaria, sia nella funzione, attualmente più controversa, di “tesoriere del governo” o, comunque, del centro di imputazione della politica fiscale ed economica della medesima area valutaria.[1] Ciò perché, altrimenti, la moneta che stampa tale banca centrale va “fuori controllo”: cioè, quantomeno, i tassi del debito pubblico, se emesso indipendentemente dai vari paesi aderenti, da qualche parte e inevitabilmente -cioè è certo- saliranno in modo rilevante e ineguale, divergendo tra loro e mettendo in crisi la sostenibilità della moneta stessa, come strumento fiduciario di pagamento all’interno dell’area (c.d. moneta “fiat”, uno strumento di pagamento non coperto da riserve di altri materiali, ad esempio: riserve auree, e quindi privo di valore intrinseco anche indiretto). Questo assunto, connesso alla parallela istituzione di un’autorità “federale” capace di operare trasferimenti fiscali a favore delle aree in squilibrio commerciale (e di liquidità), fa parte della teoria base delle

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Luciano Barra Caracciolo - Pescara, dicembre 2012

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Page 1: area Euro, Mercantilismo e Violazioni Del Trattato

AREA EURO, MERCANTILISMO E VIOLAZIONI DEL TRATTATO

Sommario: 1- LA GERMANIA E LA CRISI DELL’EURO; 2- IL DISEGNO COMPLESSIVO

INSITO NELL’EURO; 3- EURO E VIOLAZIONE DELLE NORME DEI TRATTATI, ISTITITUVO E

SUL FUNZIONAMENTO DELL’UE, DA PARTE DI GERMANIA E ISTITUZIONI UE; 4-

QUESTIONE DI DIRITTO RELATIVA ALL’EURO-EXIT

1- LA GERMANIA E LA CRISI DELL’EURO

Le polemiche che, in varie forme, si protraggono da mesi, circa l’attivazione di meccanismi

di finanziari di intervento sugli spread tra i titoli del debito pubblico dei diversi paesi euro, in specie

sulla conformità alla Costituzione tedesca dell’European Stability Mechanism (c.d. ESM),

evidenziano i limiti “genetici” del trattato UEM (oggi trasposto, in un’inestricabile commistione di

tematiche e oggetti “promiscui” all’area euro in senso proprio e a quella UE allargata, nel c.d

Trattato sul funzionamento dell’unione europea –ora c.d. TFUE -, che costituisce la versione

consolidata, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, del “vecchio Trattato istitutivo

della Comunità europea –c.d. TCE).

Lo scontro politico-economico fra paesi UE, drammaticamente sottostante a tali polemiche,

dimostra l’ambiguità normativa sul ruolo della BCE, perseguita, a scopi ideologici, con la

formulazione del trattato, alla luce della più accreditata teoria economica della moneta. Una banca

centrale, diversamente da quanto implicato dalla disciplina “contraddittoria” che oggi si dice di

“voler forzare”,- non solo l’art.123, ma il complesso degli artt.120-128 TFUE-, deve poter

funzionare come Lender of Last Restort (LOLR),: e ciò sia, a rigore della locuzione, rispetto al

sistema bancario che utilizza quella divisa in via principale, cioè comunque “residente” in

quell’area valutaria, sia nella funzione, attualmente più controversa, di “tesoriere del governo” o,

comunque, del centro di imputazione della politica fiscale ed economica della medesima area

valutaria.[1]

Ciò perché, altrimenti, la moneta che stampa tale banca centrale va “fuori controllo”: cioè,

quantomeno, i tassi del debito pubblico, se emesso indipendentemente dai vari paesi aderenti, da

qualche parte e inevitabilmente -cioè è certo- saliranno in modo rilevante e ineguale, divergendo tra

loro e mettendo in crisi la sostenibilità della moneta stessa, come strumento fiduciario di pagamento

all’interno dell’area (c.d. moneta “fiat”, uno strumento di pagamento non coperto da riserve di altri

materiali, ad esempio: riserve auree, e quindi privo di valore intrinseco anche indiretto). Questo

assunto, connesso alla parallela istituzione di un’autorità “federale” capace di operare trasferimenti

fiscali a favore delle aree in squilibrio commerciale (e di liquidità), fa parte della teoria base delle

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“aree valutarie ottimali”, la cui formulazione, nel 1961, ha fruttato all’economista statunitense

Robert Mundell il Nobel per l’economia).[2] Poi, va subito precisato, non è affatto vero che un

intervento della BCE avrebbe potenziali maggiori costi per i tedeschi (fermo il fatto giuridico-

economico che, comunque, tale intervento, in forma di emissione di moneta per acquisti di titoli,

non grava direttamente sul bilancio federale).

Il timore invocato dai tedeschi è quello dell'inflazione, che farebbe salire anche i tassi

nominali del debito tedesco, svalutando il valore di bilancio (specialmente bancario, secondo il

controverso criterio c.d. mark to market imposto dall’EBA a fine 2011), dei corsi dei bund emessi in

precedenza.

Ma l'inflazione, in relazione alle dimensioni dell’intervento BCE oggi immaginato, non

salirebbe oltre i limiti della tollerabilità: è stato infatti calcolato che il "Non Inflationary Loss

Absorbing Capacity-NILAC" della BCE è attualmente di oltre 3300 miliardi di euro.[3] E’ infatti,

evidente, che il solo fatto che una banca centrale assicuri acquisti illimitati nell’ammontare e nel

tempo, determina la rinuncia alla speculazione sui titoli “protetti” e, anzi, permette alla banca

centrale stessa di “fermarsi” a un volume di interventi nei fatti limitato, realizzando anche

plusvalenze sugli acquisti dei titoli emessi con rendimenti precedenti più alti.

Solo oltre la soglia del NILAC si avrebbero effetti inflattivi, mentre la trasmissione

dell'incremento monetario all'inflazione stessa sarebbe, nell’attuale situazione di “raffreddamento”

della domanda in tutta l’area, molto basso e lento ad agire. Praticamente effetti inflattivi di una certa

“rilevanza”, seguendo le opportune misure tecniche, si avrebbero per il doppio dell’evidenziato

ammontare del NILAC (cioè oltre quota 6000 miliardi di euro di emissione di nuova moneta per la

funzione specifica qui commentata).

In sostanza, col LOLR si produrrebbe un certo impatto sui tassi dei bund, e quindi sulle

“tasche” dei tedeschi, minore di quello causato dal rapido “bruciarsi” dei fondi impiegati negli

interventi via EFSF e ESM, che si prospettano, nella pratica, quasi inutili.

“Inutili” in quanto qualsiasi garanzia "limitata" nell'ammontare non è attendibile agli occhi

dei mercati, sortendo l'atteso effetto contrario di affrettare le vendite del titolo il cui valore (riflesso

nei rendimenti) si vorrebbe proteggere: ciò nel timore degli operatori, detentori dei titoli, di arrivare

tardi rispetto all'esaurimento del fondo limitato...che, appunto, esaurirebbe il suo plafond molto

prima che in una situazione in cui lo stesso esborso monetario per acquisti fosse effettuato da una

banca centrale che agisca come LOLR, costando perciò molto di più, e senza risolvere comunque gli

squilibri alla base delle divergenze dei tassi, ai contribuenti tedeschi.[4]

In effetti, la gente "comune" in Germania soffre di effetti restrittivi della domanda interna e, prima

di tutto, delle dinamiche salariali, ma essi non sono certo dovuti alla dimensione del debito e della

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spesa pubblica negli altri paesi dell’area UEM, sebbene alle politiche adottate dai propri governi,

originate dall’obiettivo di dover sfruttare, come programmato alla luce delle note dinamiche della

aree valutarie teorizzate da Mundell, la valuta unica.[5] E come tale occasione…"unica" doveva

essere sfruttata?

Mediante una politica economica che viene definita "imperialismo mercantilista", in quanto

tende alla universalizzazione, in una certa area -tendenzialmente l'Europa, data appunto la presenza

della moneta unica-, della propria supremazia commerciale, e, quindi, ad “asservire” alla propria

offerta la domanda del "vicino", che, inevitabilmente, ne risulta impoverito dopo una fase iniziale

espansiva "precolonizzazione" economica [6],[7]. E che le cose stiano esattamente così, in termini

di definizione della politica tedesca all’interno dell’area monetaria, è affermazione degli stessi

esponenti tecnici della governance di quel paese.[8]

Dunque, lo strumento principale che ha conferito un’efficacia senza precedenti a tale

mercantilismo è proprio la moneta unica che consente, a differenza del cambio flessibile (che

produce, in ragione delle differenze di inflazione, l'effetto opposto in termini di competitività

commerciale), di sfruttare vantaggiosamente il deliberato perseguimento di un differenziale

favorevole di inflazione. Tale effetto è stato indicato chiaramente da Mundell nella sua teoria delle

aree valutaria ottimali (Optimun Currency Area, c.d OCA). E la relativa politica tedesca, col

termine di "mercantilismo", è registrata come tale anche dal FMI [9], dall’ILO,[10] nonchè, tra i

numerosi altri, da De Grauwe, forse il più prestigioso economista europeo del momento[11].

Occorre infatti considerare che, in un'area valutaria ottimale (OCA), il sistema di deflazione

competitiva (svalutazione reale, cioè deprezzamento del c.d. tasso di cambio reale che permane,

ancorato ai diversi rispettivi livelli dei prezzi in ciascun paese, anche in situazione di cambi

nominali fissi) tende a dare un decisivo vantaggio sul lato dell'offerta e nulla ha a che fare con lo

spirito cooperativo (debolmente) espresso nei trattati UE.

Unitamente a ciò, il paese che opera tale svalutazione reale, persegue simultaneamente la

necessità iniziale di sostenere la domanda dei paesi resi meno competitivi attraverso il tasso di

cambio reale -simmetricamente rivalutatosi, nel loro caso- erogando crediti funzionali all'acquisto

dei propri beni, in modo da rendere operativo il vantaggio in termini di attivo della propria bilancia

dei pagamenti.

Per deflazionare, in funzione competitiva, lo strumento unico a disposizione di una paese

appartenente a un'OCA è agire -in via preventiva e non necessitata da fattori ciclici esterni all’area-

sul costo del lavoro. E a ciò hanno provveduto le riforme Hartz[12] (dal nome del ministro, ed ex

a.d. di una fabbrica di auto, proponente delle leggi che hanno riformato il mercato del lavoro e del

welfare relativo): queste riforme hanno svolto i loro effetti, sia chiaro, partendo comunque da una

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situazione di preesistente inflazione più bassa, che corrisponde a una tradizione economico-

commerciale propria della Germania, accompagnata da una costante compressione della propria

domanda interna.

Questo solo in estrema sintesi, dato che vari altri corollari dimostrano la natura ideologico-

politica, e anticooperativa (piuttosto pan-germanica), di questa strategia che, ovviamente, può

reggere a un sereno vaglio di praticabilità all’interno di una “unione”, asseritamente politica, o

quantomeno economica, prima che monetaria, solo fondandosi su luoghi comuni mediatico-

propagandistici sulla propria “virtuosità” nel fare costanti sacrifici, simmetrici a quelli che vengono

proposti agli italiani ed espressi nella “parola d’ordine” "debito-pubblico-brutto-abbiamo-vissuto-

al-di-sopra-dei-nostri-mezzi".

Il metodo seguito dai tedeschi per abbassare l’inflazione, ben al di sotto del 2% indicato

come limite di convergenza “cooperativo” nel trattato UEM - cioè un limite su cui si dovrebbe

esattamente convergere non solo deflazionando se si è oltre, ma anche “riflazionando” se se ne è al

di sotto-, è lecito o non lecito (come si vedrà più oltre) a seconda della lettura delle clausole dei

trattati congeniale…ai più forti.

E quindi ai paesi "core", che non si trovano mai in minoranza nel "consiglio" UE, sebbene il

meccanismo, -amplificato nei suoi effetti deflazionistici dal c.d. fiscal compact, fino a innescare un

trend recessivo esteso a tutta l’area-, cominci a essere “denunziato” nelle trattative sotterranee che i

francesi in primis tenderanno a intraprendere, per correggere gli squilibri commerciali senza dover

inseguire una politica deflazionistica a costi sociali crescenti, assistendo cioè al dilagare di una

disoccupazione non tollerabile e non necessaria in una razionale politica di crescita.

2- IL DISEGNO COMPLESSIVO INSITO NELL’EURO.

La questione, una volta subentrata la pesante crisi da squilibri commerciali attuale, viene

spesso posta in termini di recupero della competitività mediante aumento della produttività. Ma tale

controversa impostazione non può nascondere le evidenze scientifiche che comprovano che la

competitività e la bassa inflazione dipendono essenzialmente dal Costo del Lavoro per Unità

Produttiva (CLUP) e quindi ogni politica di correzione, finisce in ultima analisi per perseguire la

contrazione del costo del lavoro (variazioni comparate dei salari reali) e la caduta della domanda

interna.[13]

Nè si può, poi, seriamente dimostrare, in situazione recessiva e con diminuzione di consumi

e, specialmente, di investimenti, che si possa ottenere un aumento della produttività "non a causa di

stipendi in diminuzione", uscendo tale assunto da ogni verosimiglianza scientifica; a ciò segue la

inattendibilità della concomitante ipotesi, contraria a ogni evidenza, di considerare, o quantomeno

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di “dichiarare”, la recessione indotta da austerity fiscale come l'ambiente ideale per effettuare

immaginifici “massicci” investimenti in Innovazione, Ricerca &Sviluppo, facendogli avere effetto

in 1 o 2 anni (!), laddove, invece, si registrano insolvenza diffusa e caduta verticale di risparmi e

investimenti.

Ma anche a voler adottare ora la stessa strategia della Germania, i problemi sono

difficilmente superabili: la diminuzione dei salari reali, comunque, potrebbe portare al "recupero" di

competitività su altri paesi (che utilizzino la stessa moneta…se no ci pensavano molto meglio le

variazioni naturali dei cambi nominali) solo se non perseguita, come ora si vuole nei PIGS, in

direzione pro-ciclica, allorchè la inevitabile caduta della domanda aggregata interna, porta a

disoccupazione e deindustrializzazione, nonché all’apertura ulteriore di tali economie al controllo

estero delle proprie imprese, più facilmente acquisibile a vantaggio dei paesi in attivo commerciale.

Questi ultimi, pur ove, per taluni settori (soltanto, quelli esportatori), riaumentino i livelli dei

salari, hanno goduto e continuano a godere di un vantaggio di competitività (da tasso di cambio

reale), hanno dunque accumulato prolungati attivi della bilancia dei pagamenti e dispongono, per

tale motivo, dei capitali per impadronirsi delle economie indebitate (ancor più dagli effetti recessivi

dell'austerity).

Si può riscontrare come, ad es;, l'Irlanda (estero controllata sul piano dei capitali

immobilizzati) non può che rischiare di riprodurre meccanismi shock legati alla dipendenza dai

mercati finanziari esteri, dato che può “punire” i salari quanto vuole, ma non può raddrizzare

strutturalmente il carico dell'indebitamento privato con l'estero e stabilizzare l'attivo della bilancia

dei pagamenti, se non a costo di una costante ulteriore compressione salariale e della domanda

interna (accompagnato da una sostanziale “istituzionalizzazione” della proprietà estera di capitali

produttivi, con esportazione dei relativi profitti e interessi sui capitali investiti, incidente, come pare

dimenticare l’attuale dibattito in Italia, sulla voce dei redditi del saldo- negativo- della partita

corrente della bilancia dei pagamenti).

L'assurdità di questi riallineamenti al ribasso dei CLUP, - operati pro-ciclicamente, quale

regola-guida dell' "austerità espansiva" durante una crisi da debito, privato (cioè originato dagli

squilibri commerciali e dall’import) e non pubblico-, viene proposta come una di quelle riforme di

"lungo-periodo" che dovrebbero in qualche modo riallineare i paesi in difficoltà (le cosiddette

cicale) verso i virtuosi.

Si omette perciò di considerare il fatto che le cosiddette “formiche” (cioè i virtuosi che

stanno sotto il target fissato del 2% di inflazione), hanno preventivamente, e senza alcuna

giustificazione se non quella della competizione commerciale, aggiustato il tasso di cambio reale

via deflazione salariale (-6% in termini reali, per i salari dei lavoratori tedeschi nell'ultimo

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decennio), con la segnalata distorsione del mercato UEM, attraverso "svalutazione competitiva"

volta all’export e alla minor convenienza dell’importazione dai partners. Contemporaneamente, il

sistema manifatturiero-produttivo tedesco ha fruito di una fiscalizzazione dei propri costi: infatti, lo

Stato federale, a seguito delle riforme Hartz ha amplificato il proprio deficit oltre il limite sancito da

Maastricht, nei primi anni di circolazione dell’euro, a causa della spesa pubblica originata dal

welfare connesso a disoccupazione e sotto-occupazione (i c.d minijob).

Si tratta di un’antica propensione di politica economica intesa all’aggressività verso i

mercati degli altri paesi. Già l'economista italiano Serra nel 1613, prima di Kaldor (il grande

economista vicino a Keynes) ad esempio, riconosceva che l'industria manifatturiera è uno dei

motori della crescita, posto che non dipende dalle condizioni climatiche, produce beni durevoli, ed è

soggetta a rendimenti di scala crescenti in quanto può essere moltiplicata con minore proporzione di

spesa.

I tedeschi (e gli altri paesi “core”, ex area-marco) in uno scenario che, almeno fino alla crisi

finanziaria mondiale dei sub-prime, registrava una domanda dei loro beni, hanno incentivato

quest’ultima mediante credito (privato) largamente concesso dal loro sistema bancario, inoculando

la “droga” dei capitali prestati ai paesi periferici (per permettere a questi ultimi l'acquisto di auto e

beni durevoli ecc.), con l’effetto anche di aumentare il livello, e il differenziale, di inflazione in tali

ultimi paesi, a causa del forzoso aumento della domanda e dei consumi, amplificando i differenziali

di tasso di cambio reale .[14]

Sopraggiunta la crisi dei sub-prime, di cui la Germania con la Deutsche Bank è stata

protagonista in negativo, il cosiddetto sudden stop creditizio ha provocato la caduta della domanda

dei paesi periferici, scoperchiando il vaso di pandora dei loro crescenti debiti privati ed esteri. Il

mantenimento persistente di tassi di inflazione al di sotto della media europea ha causato la

paralisi/morte dei “più deboli” sistemi produttivi: quindi un maggior CLUP, corrispondente a minor

competitività, per i partner europei quali Grecia, Portogallo e Spagna, a vantaggio dei tassi di

interesse reali sempre più alti, goduti dai paesi creditori.

Ora si chiede che tutti, in Europa, si riallineino abbassando i CLUP. Certo, è teoricamente

possibile. Ma si deve sapere che ciò è realizzabile solo creando ampia disoccupazione e connessa

recessione. La curva di Phillips ci spiega che la crescita del salario è inversamente proporzionale

rispetto al tasso di disoccupazione: la direzione di tale politica e dei suoi effetti trova conferma nei

tassi di disoccupazione di Spagna, Grecia, Irlanda, Italia (e, perchè no, della Germania durante i

primi anni di applicazione delle riforme Hartz, quando si è avviata preventivamente la accelerazione

deflattiva).

L’impostazione rende logico porsi questo interrogativo: se tutti sono parimenti competitivi a

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chi si vendono questi beni "equivalenti" nei prezzi (in mera teoria)? La verità, sempre ipocritamente

taciuta, è che in un'OCA”imperfetta” per ammissione dei suoi stessi creatori, quale indubbiamente è

l’area euro, chi "colpisce" per primo, comprimendo i salari e il CLUP (quindi i tassi di cambio reale

legati all'inflazione differenziale) consolida il vantaggio.

Il riallineamento competitivo via “taglio” dei salari "successivo", infatti, unito alle misure di

austerità imposte per l'ugualmente pro-ciclico consolidamento fiscale (che tende rigidamente a

garantire i creditori interni alla stessa area), provoca una tale caduta della domanda nel paese "a

maggior inflazione" (salariale e anche indotta dalla domanda drogata dai crediti esteri) da:

-deindustrializzarlo e vanificare con un "effetto strozzatura" la ipotetica riespansione della

produzione (impianti in gran parte smantellati);

- colonizzarne a "fabbrica cacciavite" l'economia (lavorazioni a minor valore aggiunto, non

esigenti investimenti, resi progressivamente impossibili dalla caduta verticale della domanda e dal

credit crunch).

Questa seconda ipotesi è quella che più incombe sull'Italia, anche a causa della originaria via

italiana al "tentativo" di deflazione salariale, cioè il precariato "sotto-demansionante", che dissuade,

in pratica, data la maggior convenienza industriale del lavoro sotto-qualificato e temporaneo, da

investimenti in IR&S. La “regressione industriale” non potrà nemmeno essere scongiurata da,

peraltro denegati, interventi "illimitati" della BCE-ESM riduttivi degli spread che, come già

evidenziato, agiscono sugli effetti e non sulle cause degli squilibri provocati dalle "monete uniche".

Stiamo correndo, comunque, vada, verso la dissoluzione della democrazia fondata sulla

tutela del lavoro (art.3, paragrafo 3, tr. istitutivo UE e 145-148 tr. sul "funzionamento" dell'UE) e

più ancor che l'Europa, stiamo distruggendo la sua cultura civile, vìolando, oltretutto, come si vedrà,

le stesse regole "fondamentali" che Stati membri e istituzioni UE si erano imposte.

Bisogna dunque essere coscienti che, in esito al processo di riallineamento attualmente

perseguito, si creerebbe, all’interno dell’Europa, una "specializzazione" produttiva e finanziaria tra:

1. paesi centrali UEM, destinati a mantenere un più forte avanzo commerciale, perchè lo

nutrirebbero di merci ad alto valore assoluto e aggiunto;

2. paesi "cacciavite", soggetti a concorrenza e congiuntura più forti, in ragione della

maggiore esposizione concorrenziale extra-UEM, cioè da parte dei paesi emergenti.

Tanto più che il "cosa" produrre e "dove", in questo assetto, lo deciderebbe la Germania, o

altro paese “core”, che acquisirebbero il controllo dei sistemi bancari e produttivi degli altri (di fatto

la cosa è già in atto e il vero rischio, per la Germania, è la pendenza delle sofferenze sub-prime

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annidate…negli USA, nelle famose controllate “discarica” del loro "estroso" sistema bancario).

Per l'Italia questa non solo sarebbe una colonizzazione neppure strisciante, ma anche la

"garanzia" di decine di anni di crescita stagnante, dove il valore ridotto pro-unitario dell'export e la

debolezza della domanda interna, si accoppierebbero alla più accentuata ciclicità dei mercati delle

tipologie di beni prodotti in concorrenza ai “paesi emergenti”. Ovviamente, la disoccupazione

dovrebbe sempre rimanere "incombente", da cui l'attenzione spasmodica sulle riforme "strutturali"

che si riducono essenzialmente a politiche di deflazione salariale, o di contrazione della spesa

pubblica, cosa che, in termini di praticabilità degli investimenti, e della conseguente crescita della

indispensabile occupazione “qualificata”, ha un effetto equivalente.

In questa situazione, la politica tedesca soffre della intrinseca contraddizione logica di

imporre prima uno standard di competizione elusivo dello “spirito” cooperativo che dovrebbe

permeare le regole dell’Unione, e poi di imputare agli altri, che hanno subito gli effetti distorsivi di

tale politica, responsabilità e misure di adeguamento che finiscono per aggravare sia la posizione

dei debitori, sia la propria stessa sicurezza nella posizione di creditore. Rifiutando di prestare, ora

come prima, la cooperazione indispensabile per poter coesistere all’interno di un’area valutaria

comune.[15]

Diciamo che è una questione di "potere", (cioè di un tipico corollario dell’imperialismo

mercantilistico), esercitabile su "altri", invece che di giustificabili timori di maggiori aggravamenti

dei propri conti pubblici.

Cerchiamo di spiegarci meglio: se “saltano” i sub-prime in USA e le banche tedesche sono

"esposte" in sofferenze (e lo sono ancora, come s’è detto, specie le controllate USA), alla Germania

non salta in mente di dire alle proprie banche: “avete sbagliato a concedere il credito ora

sbrigatevela da soli”. Lo Stato federale è intervenuto a trasferire soldi pubblici (sottratti ad altri

scopi del pubblico bilancio) alle banche, del cui "sistema" è, oltretutto, azionista circa al 40%.

Ma se la stessa situazione di insolvenza si verifica per i greci o per gli irlandesi, sono i

rispettivi Stati che, - in situazione di crisi di liquidità determinata dall'innalzamento del debito

privato oltre ogni sostenibilità (per consumi a "debito"...di beni importati e per afflusso di capitali

dai paesi “core”, prestati in ragione di interessi nominali, e reali, più alti e crescenti, espressi nella

stessa valuta, ed impiegati in un'eccessiva intrapresa immobiliare)- danno i soldi alle proprie

banche.

E come fanno? Emettendo debito pubblico, cioè gravando i cittadini, già debitori a titolo

privato degli stessi “creditori”.

Questo debito pubblico, a sua volta, provocando la crescita della domanda di credito in una

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moneta priva del sostegno di un prestatore di ultima istanza, sarà più difficile da collocare e ne

crescerà l'onere per interessi (che gravano sul bilancio pubblico fino a diventare insostenibili). Chi

sottoscrive questi titoli pubblici (le stesse banche creditrici dei privati, tra l'altro), dunque e va

ribadito, lo fa per gli interessi più alti, guadagnandoci; e, beninteso, come già più alti erano gli

interessi reali riscossi per i crediti “facili” erogati, allo stesso sistema privato dei paesi periferici,…

proprio per cui sostenerne la domanda di beni importati.

In tale situazione, gli interventi di iniezione di liquidità “a carico”dei vari fondi UE, per

salvare il bilancio pubblico del paese debitore dal "fallimento-insolvenza", sono attualmente, per

patto tra Stati membri, ripartiti per quote proporzionali tra tutti gli Stati stessi: la Germania eroga,

(per ordine di grandezza del PIL) la quota maggiore, anche se però "riceve" in successiva

restituzione (del debito privato sottostante) anche una quota ben maggiore del volume complessivo

dello stesso intervento, ma non a livello pubblico, appunto a livello privato bancario.

Cioè i soldi tedeschi in uscita per il “salvataggio” (più o meno gravanti su ogni cittadino,

procapite, quanto gravano sul cittadino italiano o francese) sono corrisposti emettendo debito

pubblico o garanzia equivalente: il che significa che, per rimpolpare, in definitiva, le proprie

banche, la Germania emette un debito "avvertito" dai contribuenti in quanto pubblico, e perciò

l'esigenza politica di incolpare il debitore privato greco o PIGS di questo "aggravio" fiscale, non

addossando in modo trasparente la responsabilità al proprio sistema bancario, irresponsabile

prestatore. Ma l'aggravio è sempre molto minore di quello che la Germania dovrebbe sopportare,

per gli stessi comportamenti "imprudenti" bancari, al di fuori dell'UEM. In tal caso si prende in

carico, sul bilancio pubblico, di tutto il credito bancario inesigibile, com'è accaduto appunto nel

caso dei subprime USA.

L'alternativa sarebbe lasciare fallire le banche e nazionalizzarle per garantire i depositi

(entro limiti ragionevoli), nonché separando gli istituti di credito commerciale da quelli speculativi

finanziari, che agiscono sui mercati con la logica del proprio profitto e non dell’interesse dei

risparmiatori che gli affidano i capitali impiegati. Ma le banche comandano (tramite Bundesbank) e

non lo consentono...per ora (finchè i cittadini UE tutti non si desteranno dal torpore “europeistico”

in cui sembrano piombati).

Alternativamente, appunto, si può creare senza limiti, tramite la BCE, "nuova" liquidità per

acquistare i titoli pubblici in euro, nella misura e per tutto il tempo necessari. Ma qui subentra la

paura dell'inflazione, irrazionalmente alimentata nei termini visti in precedenza.

Quindi, in definitiva, il rifiuto tedesco (a ogni tipo di intervento) è del tutto irragionevole e

determinato esclusivamente da una visione politica di breve termine, che dimentica la "ragione"del

credito concesso, privato a privati, e che sta alla base di tutto: il sostegno delle proprie esportazioni

Page 10: area Euro, Mercantilismo e Violazioni Del Trattato

agevolate dalla moneta comune (cioè dalla immutabilità del cambio nominale, potendosi invece

agire svalutando il tasso di cambio reale, tramite la compressione retributiva). Ma questa è una crisi

"tipica" e già ampiamente vista e prevedibile dagli economisti tanto più qualificati, quanto tutt’ora

inascoltati. [16]

3- EURO E VIOLAZIONE DELLE NORME DEI TRATTATI, ISTITITUVO E SUL

FUNZIONAMENTO DELL’UE, DA PARTE DI GERMANIA E ISTITUZIONI UE

Detto questo, sforare, come ha fatto la Germania al tempo delle riforme Hartz, il limite

debito/PIL (che quasi inizialmente rispettava) per”fiscalizzare”, (fuori da una situazione

congiunturale in atto, attenzione!) i costi di disoccupazione-sottoccupazione, indotte per

deflazionare le retribuzioni, vìola:

A) l'art.107, paragrafo 1, ultima parte, dell'attuale trattato sul funzionamento dell'unione

(TFUE), in materia di “aiuti di Stato”, laddove si ottenga (appunto "in qualsiasi forma") una

riduzione dei costi delle proprie imprese, incidente sugli scambi tra paesi membri, come nel caso,

mediante la svalutazione del tasso di cambio reale, che provochi, a sua volta, un vantaggio

concorrenziale asimmetrico “intenzionale”, sia per le proprie esportazioni, sia, e ancor più, a favore

di una restrizione delle importazioni (questo l'effetto forse più rilevante del gioco sui tassi di cambio

reale);

B) l’art.107, paragrafo 3, TFUE, cioè il complesso delle clausole in tema di

“legittimazione”, in sede UE, a ricorrere agli aiuti di Stato in funzione anticongiunturale e di tutela

di interessi “sensibili”. Ed infatti, la situazione attuale, tra l'altro, autorizzerebbe, (se non ora

quando?) tutti i paesi in strutturale deficit della bilancia dei pagamenti, con alti livelli di

indebitamento privato/estero -e non pubblico!- oltre la media per un periodo prolungato e

significativo, (rilevabile sul sistema T2)- a lanciare programmi di aiuto ai sensi dello stesso art.107,

par.3, lett.a), b), d) del Trattato sul funzionamento dell’Unione...ma tali paesi non possono farlo in

quanto il fiscal compact, come corpo di disposizioni speciali "euro-zona", impedisce

deliberatamente l’adozione di misure essenziali in origine legittime secondo il trattato, vincolando

le politiche fiscali alla autodistruzione dei rispettivi sistemi industriali e alla cristallizzazione degli

squilibri di area (altrimenti doverosamente compensabili);

- C) l'art.34 dello stesso Trattato sul funzionamento dell’Unione: "sono vietate tra gli Stati

membri le restrizioni quantitative all'importazione nonché qualsiasi misura di effetto equivalente

(tale essendo la deflazione salariale al fine di deprezzare il tasso di cambio reale, giustificata solo da

fini di competizione mercantilistica).

Ma la stessa Commissione e il consiglio UE, non vanno esenti da una “imprecisa” e

Page 11: area Euro, Mercantilismo e Violazioni Del Trattato

omissiva applicazione dei trattati, come essenzialmente evidenzia De Grauwe. Ciò può desumersi

dall’oggettivo contenuto di una serie di disposizioni dei trattati medesimi, interpretate correttamente

e, soprattutto, nella piena espansione delle clausole in esse contenute:

ad es., l’art.5 del TFUE

“1. Gli Stati membri coordinano le loro politiche economiche nell'ambito dell'Unione. A tal

fine il Consiglio adotta delle misure, in particolare gli indirizzi di massima per dette politiche. Agli

Stati membri la cui moneta è l'euro si applicano disposizioni specifiche (ancor più stringenti e ancor

più ignorate n.d.r.)...

2. L’Unione prende misure per assicurare il coordinamento delle politiche occupazionali

degli Stati membri, in particolare definendo gli orientamenti per dette politiche.

3. L'Unione può prendere iniziative per assicurare il coordinamento delle politiche sociali

degli Stati membri.”

Dove siano finite queste misure e iniziative per coordinare politiche economiche,

occupazionali e sociali, a fronte del conclamato atteggiamento, tenuto dalla Germania, di unilaterale

e non cooperativa alterazione degli equilibri, già di per sé estremamente difficili da raggiungere, è

un interrogativo che non ci si può esimere dal porsi[17].

Cercare altre norme nei trattati, oltre a quelle menzionate, si può (v. infra), ma solo per

accorgersi che non vengono fatte rispettare nella lettera e nello spirito e tutto rientra nello stesso

"disegno" tanto evidente, quanto, nella sostanza, prevalentemente taciuto dai media europei, forse

troppo influenzati dalla loro proprietà finanziaria.

E’ pur vero che, proprio in questi ultimi giorni, la Commissione pare avere avuto un parziale

“ravvedimento”, forse stimolata dagli unanimi pareri di tutti gli economisti più prestigiosi nel

commentare la criticità della situazione di “asimmetria”, apertamente perseguita, in cui si continua a

indugiare [18], iniziando a porsi il problema dell’atteggiamento tedesco.

László Andor, commissario europeo per gli affari sociali, intervistato da FAZ.net, ha preso

posizione con il rappresentare ai tedeschi questa “dura verità”: “le vostre politiche di dumping

salariale hanno contribuito alla crisi Euro, non è tutta colpa dei latini” [19]. Si riportano alcuni

passaggi salienti:

“Gli squilibri nell'Eurozona non sono solo il risultato di politiche sbagliate nei paesi in

crisi. La Germania ha avuto un ruolo importante, con la sua politica mercantilista ha rafforzato

gli squilibri in Europa e causato la crisi. In futuro dovremo seguire da vicino lo sviluppo dei salari

a livello europeo e fare in modo che all'interno dell'area monetaria non divergano in maniera così

Page 12: area Euro, Mercantilismo e Violazioni Del Trattato

forte, come è accaduto negli anni precedenti.

…La commissione intende verificare la politica economica degli stati e per fare questo ha

in mano i mezzi necessari per procedere contro gli Stati che non fanno nulla contro gli squilibri

nella zona Euro. La Germania tuttavia deve porre a se stessa la domanda, se nell'Unione Europea

intende procedere secondo il motto : "in Europa non sono tutti uguali".

Circa tale nuova “attenzione”, da parte della Commissione, ai problemi degli squilibri

commerciali e dei tassi di cambio reale, viene da chiedersi: perchè lo fanno solo “ora”, mentre si

accingono (dal 2013 in poi) "anche" ad applicare le nuove sanzioni previste dal fiscal compact (che

non potrà che accelerare i problemi stessi, facendo languire le economie “indebitate” via deficit

delle partite correnti e ritorcendo contro la stessa Germania i problemi di drastica riduzione della

domanda di cui continua a non curarsi)?

In effetti, volendo anche solo focalizzare sulle politiche europee dell’occupazione, gli artt.

145-148 del Tr. sul funzionamento UE risultavano già violati, fin dai primi anni 2000, dal

complesso delle politiche tedesche e, segnatamente, delle riforme Hartz. Le clausole oggettivamente

ignorate, all'interno di tali previsioni, sono molteplici. C'è solo da scegliere.

La commissione stessa è dunque, fino ad oggi, venuta meno ai criteri di monitoraggio,

coordinamento e promozione dell'art.147, per cui doveva "tenere conto" dell'"obiettivo di un livello

di occupazione elevato", cioè nel quadro dell'art.3, paragrafo 3, del Trattato sull'UE, che pone

l'obiettivo della "piena occupazione" ed è dunque strutturalmente incompatibile con politiche del

lavoro nazionali il cui effetto si risolva nella "deflazione salariale" non necessitata (come si torna a

sottolineare) in base a congiunture internazionali, circostanza pacificamente ammessa dai tedeschi.

Ciò, per di più, in un quadro non coordinato a livello UE di politiche del lavoro -art.146,

comma 2, TFUE- e che si è risolto, come si è visto sopra, in misure di effetto equivalente alla

restrizione delle importazioni rispetto agli altri Stati membri (art.34 st.Tr.).

Inutile dire che risulta “dimenticata”, rispetto alla linea tenuta dalla Germania all’interno

dell’area UEM, anche l’attivazione, da parte della Commissione, dei meccanismi di accertamento e

“avvertimento” previsti dall’art.120 par.4, TFUE.

4- QUESTIONE DI DIRITTO RELATIVA ALL’EURO-EXIT.

Partiamo dal quadro dimostrativo qui costruito sulla base non solo delle analisi compiute dai

maggiori economisti, ma anche delle ammissioni provenienti dalla stessa Germania. Quest’ultima,

unilateralmente, e nel solco della sua tradizione “deflattiva” orientata all’esportazione, riassumibile

nella formula “imperialismo mercantilista”, ha violato, quantomeno nello “spirito” connesso al

necessario intento cooperativo all’interno di un’unione monetaria, le norme sopra evidenziate.

Page 13: area Euro, Mercantilismo e Violazioni Del Trattato

E tale violazione assume, nella sua logica competitiva e non cooperativa, un particolare

connotato lesivo proprio nei confronti dell’Italia, maggiormente colpita dalla logica mercantilista

innescata dalla Germania. Di ciò tale paese è stato cosciente fin dallo stesso concepimento della

moneta unica.[20]

Si potrebbe dire che la Germania è fuoriuscita, con il suo comportamento, dalla

“giustificazione causale” dell’intero impianto pattizio UEM, respingendo unilateralmente la

funzione “socio-economica” del trattato (ciò sul piano contrattuale corrisponde alla violazione del

dovere di adempimento secondo “buona fede” in senso oggettivo, esprimendosi tale “correttezza”

nell’onere di sostenere ogni ragionevole sacrificio per rispettare il normale significato che le

controparti potevano attribuire ai vincoli comunemente assunti)..

A ciò, va aggiunto, a titolo esemplificativo ulteriore, che, in un esame sistematico delle

pletoriche disposizioni dei trattati, risultano fondamentalmente disattesi anche:

- l'art.120 del TFUE, che obbliga gli Stati a “coordinare le politiche economiche per

realizzare gli obiettivi dell'art.3 del trattato sull’Unione europea” (più volte citato), tra cui appunto

la “piena occupazione”;

- l'art.127 stesso tr., che vincola la politica monetaria, oltre che alla stabilità dei prezzi,

anche al sostegno di “politiche economiche generali nell’Unione al fine di contribuire alla

realizzazione degli obiettivi dell’Unione definiti nell'art.3 del trattato sull’Unione europea”.

Quest’ultimo aspetto è “singolare”, perchè, pur gettando una luce alquanto diversa sui

presunti limiti di intervento della BCE, e più ampiamente del SEBC, cioè del “sistema europeo

delle banche centrali”, il mandato di tali (uniche) istituzioni UEM pare essere stato, fin’ora, inteso

in contraddizione con la esplicita lettera dell’art.127, rimanendo ignorato il richiamo agli obiettivi

dell’art.3, in specie alla predetta “piena occupazione” (come se tali parole, nell'art.127 stesso, non

fossero affatto scritte).

A questo punto l’uscita dall’euro e dal suo inestricabile sovrapporsi di politiche monetarie e

fiscali inevitabilmente squilibrate, che acuiscono la situazione di sua originaria “disfunzionalità

tecnico-economica”, con devastanti conseguenze per i paesi finiti nella inevitabile situazione di

importatori-debitori esteri-fiscalmente deficitari, diventa una questione che ha varie qualificazioni

giuridiche possibili.

Non ultima quella per cui, l’alterazione del modo di intendere la lettera e la portata delle

norme del Trattato nella loro piena forza espansiva, “resecandone” il disposto in modo da

avvantaggiare unilateralmente una parte del trattato, risulta addirittura “ultra vires” rispetto alle

competenze dell’organizzazione sovranazionale, rendendo fortemente dubbia tutta la legittimità

Page 14: area Euro, Mercantilismo e Violazioni Del Trattato

comunitaria (o “europea”) di successive pattuizioni, quali six packs e fiscal compact, che non

risultano più avere un adeguato e sufficiente antecedente convenzionale (di fonte superiore

“legittimante”) nelle previsioni del trattato pienamente intese.

Circa i mezzi legali di “uscita” si richiama talvolta l'art.50 TFUE: questo prevede una

procedura di uscita dall'Unione che non pare però attagliarsi al caso della cessazione dello specifico

vincolo pattizio riferito all’euro.

Infatti, si tratta di una norma "speciale" ma ciò, in primo luogo, non in quanto contenuta in

un trattato (cioè nel diritto internazionale “speciale”), ma per la sua particolare “onerosità”

procedimentale e politica. Di per sè, in quanto tale, deve interpretarsi con riferimento al suo

specifico oggetto: regolare con una procedura politicamente “rafforzata”, e in modo da indurre

consistenti tempi di ponderazione al paese interessato, l'uscita dall'Unione in forma di "recesso".

Si tratta, cioè, della decisione volontaria di uno Stato, politicamente discrezionale (libera nei

“motivi” e nei “fini”), entro i limiti del rispetto della procedura. Peraltro nella procedura stessa sono

previsti ampi limiti di deterrenza e una parziale sindacabilità della scelta. La finalità “riflessiva” e la

distillazione di tempi e adempimenti, nell’ambito di tale complessa procedura, peraltro, come si è

anticipato, costituisce dunque la vera "specialità" della disciplina, essendo invece l'ipotesi di recesso

volontario tout court, corrispondente alla prassi prevalente (salvi opportuni tempi di preavviso),

specie se si tratti di patti internazionali ad ampio “impatto”, in ragione della vastità e incidenza

dell’oggetto e dell’intenso vincolo politico che implicano, prolungato in un arco di tempo

praticamente “illimitato”.

Inoltre, quella prevista dall’art.50 è, sotto un altro profilo, un'ipotesi non connotata dal

ricorrere di un "legittimo" e giustificato" motivo di auto-tutela della sovranità e dell’ordine pubblico

interno propri di un certo Stato-membro. Il suo specifico oggetto-procedura pone, come s’è visto, il

problema della sua applicabilità o meno, anche in via analogica, al caso del recesso “meramente

volontario” (non “causale”) dalla sola Unione monetaria: tale limite interpretativo, sul piano della

teoria generale, escluderebbe la possibilità dell’applicazione analogica al caso dell'uscita delimitata

alla moneta unica.

Quest'ultimo caso va allora ricondotto alle norme generali del diritto internazionale anche

sotto ulteriori profili.

Tra queste ultime norme rilevano (ormai come prassi internazionale consolidata) quelle della

Convenzione di Vienna in materia di diritto dei trattati, conclusa nell’ambito della cornice ONU: si

tratta di una sorta di codice (in parte ricognitivo della prevalente consuetudine e in parte fondativo

di un nuovo diritto consuetudinario), relativo alla disciplina di tutte le fonti pattizie e che si applica,

Page 15: area Euro, Mercantilismo e Violazioni Del Trattato

perciò, a tutti i trattati compreso quello UEM- sebbene la cosa sia complicata dal fatto che

“Maastricht” contiene anche norme non riguardanti la UEM e che, comunque, quest’ultimo trattato

risulta poi inglobato nel trattato sul funzionamento dell’Unione (a sua volta frutto del

consolidamento conseguente alla conclusione-ratifica del trattato di Lisbona).

In linea di principio, denuncia o recesso – “meri”, cioè non connotati dalla legittimazione

alla “rottura” fornita dai comportamenti “alteranti” altrui, o da cause sopravvenute di

disfunzionalità ed eccessiva onerosità -, sono possibili allorchè previsti, anche implicitamente, dallo

stesso trattato considerato. E sulla individuazione di una volontà implicita di “risolubilità” del

vincolo della moneta unica non influisce, ovviamente e per definizione, la mancanza di previsione

“espressa”, rendendo ciò solo più difficile il percorso emerneutico, difficoltà “ricercata” dalla

commissione “Attali”, che tuttavia non preclude, appunto, di superarla. [21]

L'art.50 TFUE sopra citato, conferma semmai che, al di là della specialità derivante dalla sua

peculiare procedura, i trattati UE contemplano implicitamente (come prevede in materia la

Convenzione di Vienna), in forza di oggettivi fatti concludenti, e in considerazione della loro natura

di convenzioni senza termine finale, la normale ipotesi di una volontà negoziale nel senso della

estinguibilità per recesso-denunzia “anche” del trattato UEM, cioè dell’insieme delle relative

disposizioni in quanto scorporabili dal corpo più ampio dei trattati UE.

D’altra parte, tali considerazioni nulla escludono, circa le "altre" connesse cause generali di

estinzione ex parte coinvolta, previste dalla Convenzione di Vienna medesima. Tra queste ultime,

"l'inadempimento della controparte" (art.60: principio “inadimplenti non est adimplendun”) e la

sopravvenuta impossibilità dell'esecuzione (art.61 c.d. clausola rebus sic stantibus, art.61).

A fronte del quadro di alterazioni "rimarchevoli" dello spirito e della lettera di molte

fondamentali clausole del trattato, quale sopra ampiamente evidenziato, queste ultime due cause di

estinzione volontaria appaiono ampiamente utilizzabili da parte dello Stato italiano, una volta che

l’interesse che giustifica l’originaria adesione al trattato stesso, fosse nuovamente e correttamente

riferito al livello di tutela proprio della comunità statale che ha originariamente espresso la sua

adesione.

In altri termini, la funzione e gli obiettivi fondamentali dell’Unione, anche nella loro

proiezione “monetaria” (concretizzatasi nella scelta dell’adozione dell’euro), non possono che

individuare, come parametro di correttezza dei comportamenti riconducibili ai vincoli pattizi,

l’interesse negoziale, “reciproco” e condiviso, dedotto dal soggetto (statale) aderente. Tale interesse

ha una sostanza giustificativa inevitabilmente comune a tutti gli Stati-membri, dunque valevole

come “condizione” essenziale (paritaria) per l’adesione, e deve necessariamente consistere nella

promozione del “benessere” dei cittadini che in quel soggetto aderente si riconoscono.

Page 16: area Euro, Mercantilismo e Violazioni Del Trattato

Da tale rilievo, tra l’altro, si può trarre la ragionevole e obiettiva deduzione interpretativa

che la stessa manifesta violazione delle condizioni di parità “di interesse sostanziale” tra Stati (e

rispettivi cittadini soggetti alle conseguenze politiche economiche del trattato) integri di per sé la

“eccessiva onerosità” che giustifica l’invocazione della clausola “rebus sic stantibus”.

Su questo solco interpretativo, va allora rammentato che l’art.11 Cost., seconda parte.

afferma che l’Italia “ consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità

necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni; promuove e

favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

Pertanto, alla luce della giustificazione costituzionale e della “causa naturale” della stessa

partecipazione “europea”, ove:

- nell’applicazione di un trattato tali condizioni di parità non siano state effettivamente

reciprocamente garantite, in conseguenza di un’interpretazione “inattesa”, secondo il metro della

“buona fede in senso oggettivo”, ovvero addirittura “dolosa”, delle clausole del trattato da parte di

altri Stati membri;

- le posizioni univocamente assunte da altri partners - che abbiano vìolato o “eluso” principi

o obiettivi fondamentali della convenzione-, mostrino che le medesime “condizioni”(parità e

perseguimento omogeneo del benessere dei cittadini) siano divenute non più avverabili a costi

obiettivamente ragionevoli, nonché coerenti con un quadro correttamente cooperativo (che è la

“causa” generale “tipica” di tale tipo di trattati);

- ne discende che la denunzia del trattato secondo, quantomeno, il principio “rebus sic

stantibus” (mutamento essenziale dei presupposti giustificativi del patto internazionale), appare un

dovere attuativo della previsione costituzionale.

Alla luce delle (impressionanti) evidenze espresse dalle analisi concordi della comunità

scientifico-economica, l’alterazione delle “condizioni di parità”, nonchè l’irreversibile mutamento

dei presupposti essenziali che hanno giustificato l’assunzione del vincolo, (secondo le dichiarazioni

pubblicamente espresse dalle parti in sede di trattativa), si stanno palesando in un modo conclamato

dai fatti. Tali fatti, segnalano, quantomeno, la sopravvenuta eccessiva onerosità del vincolo UEM,

laddove assunti secondo attendibili e ampiamente condivise analisi degli effetti economici

provocati, sicchè essi risultano contrastanti con gli obiettivi costituzionalmente legittimi di una

possibile prosecuzione della vigenza del trattato in questione.

Come riflessione finale, vale la pena di osservare che la rilevanza del geschaftsgrundlage -

cioè della c.d. “teoria della presupposizione”, cui si riconduce il brocardo “rebus sic stantibus” racchiuso

nell’art.61 della Convenzione di Vienna- è ben considerata nell’ambito dei principi e dei valori promossi

Page 17: area Euro, Mercantilismo e Violazioni Del Trattato

dalle istituzioni europee: “Das ist nicht eine diplomatische Floskel, mit der wir angenehme

Geschäfte wie eine Höflichkeitsformel einleiten, sondern das ist die Geschäftsgrundlage” (trad:

“tale affermazione non è una vuota formula diplomatica né una frase di cortesia cui ricorriamo per

fare affari piacevoli; al contrario, essa esprime le condizioni stesse alle quali vengono conclusi i

nostri affari”).

Questa definizione, non a caso, è ricavabile dal seguente link:

http://www.europarl.europa.eu/, aprendo il quale si trova la formula “Welcome to the European

Parliament”.

Sarebbe singolare che la locuzione “lo vuole l’Europa” fosse perciò riferita solo alle più

incerte e controverse decisioni monetarie e fiscali, ormai sotto l’ombra del forte dubbio che abbiano

violato le norme fondamentali dettate dall’Europa stessa, e non invece assunta nell’accezione di

tutela della democrazia e del benessere dei cittadini che ci suggerisce l’art.11 della nostra

Costituzione.

L’idea e l’istituzione europea meritano di essere associate, piuttosto, a valori come giustizia,

benessere diffuso, razionale e trasparente distribuzione delle risorse e, in definitiva, “democrazia”

per tutti i popoli coinvolti nella sua tormentata costruzione.

[1] Sul punto v. Domenico Mario Nuti, “Scenari possibili dopo la crisi globale”, pagg.18 ss. http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/1834-domenico-mario-nuti-scenari-possibili-dopo-la-crisi-globale.html

[2] In termini attualizzati alle prospettive di utilizzazione dello strumento della moneta unica, di fronte alle

crisi potenziali conseguenti alla liberalizzazione finanziaria globale: Mundell Robert A. (1997),

“The great contractions in transition economies”, in Mario I. Blejer and Marko Skreb (Eds),

Macroeconomic Stabilisation in Transition Economies, CUP 1997, pp.73-99.

Sui nodi “monetaristici” generali del problema: Buiter Willem (2011b), The Debt of Nations Revisited: The

Central Bank as a quasi-fiscal player: theory and applications, Federico Caffè Lecture n. 2,

Facoltà di Economia, Sapienza Università di Roma, http://willembuiter.com/caffe2.pdf

[3] W. Buiter, citato a nota 2. Secondo quanto evidenziato da Nuti, op.cit., Buiter (2011b) stima queste

Page 18: area Euro, Mercantilismo e Violazioni Del Trattato

risorse fuori bilancio, e quindi la NILAC (Non-Inflationary Loss Absorbing Capacity) della BCE, a ben 3300

miliardi di euro, scontandone nel tempo e sommandone le varie componenti (i profitti ottenuti dalle

emissioni di base monetaria, gli interessi ottenuti investendo le emissioni passate, l‟imposta inflazionistica

anticipata ossia la riduzione del valore reale dello stock di base monetaria causato dall‟inflazione attesa,

nonché l’imposta inflazionistica non-anticipata). Rinviamo a Buiter per gli aspetti concettuali, teorici ed

empirici della sua stima. Egli dimostra che le conseguenze potenzialmente inflazionistiche di tale intervento

della EBC potrebbero essere neutralizzate riducendo le dimensioni del bilancio della EBC (vendendo assets

e riducendo i prestiti), sterilizzando le passività monetarie, aumentando le riserve obbligatorie, e aumentando

la remunerazione delle riserve in eccesso per indurre le banche a tenerle inattive (queste ultime due misure

ridurrebbero il moltiplicatore del credito bancario).

.

[4] In tal senso: D.M. Nuti “Lo strano siparietto degli eurobond” http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Lo-strano-siparietto-degli-eurobond-14254[5] Il tipo di meccanismi e problematiche inevitabilmente indotte dall’instaurazione di una moneta unica, con la rinuncia agli strumenti di riequilibrio commerciale consentiti dai cambi flessibili, furono evidenziati in dettaglio, con riferimento al nascente Mercato comune europeo, da J.E. Meade in “The balance of payments problems in a European Free Trade Area”, in Economic Journal, vol 67, n.267, sept.1957

[6] Il termine ha un’accezione tecnico-economica e non implica un giudizio politico-morale, ed è correntemente utilizzato dalle prevalenti analisi economiche del fenomeno v. S.Cesaratto “Europe, German Mercantilism and the Current Crisis”http://ideas.repec.org/p/usi/wpaper/595.html.

[7] Sull’esatta determinazione di tale politica mercantilisca, deflazionistica e restrittiva della domanda interna, come tradizione storica di tale paese, v.Joseph Halevi, “Sul capitalismo tedesco”;http://proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=157&artsuite=1

[8] Così Peter Bofinger, consigliere del governo di Berlino, influente economista, nel suo libro sull’euro, di cui alcuni estratti sono stati pubblicati su “Die Welt”: “ ...Ma dietro c'è un modello economico discutibile come il mercantilismo tedesco dell'ultimo decennio. Nel tentativo di diventare sempre piu' competitivi, si è perseguita una politica salariale di moderazione, accompagnata da una debole domanda dei consumatori interni. In questo modo si è potuto esportare su larga scala, soprattutto verso paesi che si sono potuti permettere il tutto a debito.”.

[9] Si veda questo passaggio conclusivo in un rapporto FMI

(http://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2010/wp10226.pdf)

"The bad news is that irrevocably fixed nominal exchange rates do come at the cost of larger and

more permanent trade imbalances, just as Friedman (1953) claimed more than half a century ago. The good

news is that these imbalances are not completely unavoidable. With a fixed exchange rate, trade imbalances

are all the smaller and their adjustment to shocks all the faster, the more flexible the national labor and

product markets are. Similarly, structural reforms that smooth the business cycle (e.g., by increasing growth

contributions from domestic sources in very open trade surplus economies) can help reduce precautionary

savings and thereby lower trade surpluses. Finally, measures to improve the fiscal balance are likely to aid

efforts to reduce large deficits in international trade." (cit.p.14).

Page 19: area Euro, Mercantilismo e Violazioni Del Trattato

Come per Mundell (“l’inventore” delle “aree valutarie ottimali”), rispetto al trattato UEM, come per

il " Washington Consensus" (cioè la teorizzazione, all’interno del FMI, delle politiche di riduzione del debito

pubblico e del welfare come vie alla crescita e alla stabilità finanziaria), rispetto al fiscal compact - sulla cui

portata giuridico-economica, esistono seri dubbi di coerenza e conformità agli obiettivi fondamentali

dei Trattati, quali sanciti, in particolare dall’ar t.3 del Trattato sull’Unione europea, in particolare

dall’art.3, comma 3, e dal concetto di “piena occupazione” ritraibile sistematicamente dalle

specificazioni degli artt.145-148 TFUE (v. infra), l'apparente coincidenza di vedute di principio, finisce

laddove FMI, nel 2010, evidenzia, senza ipocrisie, come sia una crisi di debito privato basata su squilibri

delle bilance dei pagamenti e lo diagnosticano, al FMI, citando Friedman! La differenza, dunque, è che esiste

una ben maggiore soundness of thought e, paradossalmente, una maggior indipendenza dalla finance-

governance nel FMI che non nelle istituzioni europee. Insomma, non si cita solo il labour market ma anche

quello "products" (che esige investimenti e riduzione di precautionary savings, secondo accenti keynesiani e

senza indulgere troppo nella vecchia legge di Say, cioè nell’illusione, recentemente riaccesasi, che l’offerta

crei da sé la domanda)...

E infatti, FMI ora prende le distanze dalle politiche tedesche-UEM, perchè persino il deflazionare le

retribuzioni è, per Mundell come per il FMI (e Friedman), un mezzo e non un fine (e d'altra parte è in

contrasto patente con le citate norme dei Trattati).

Anche perché le "supply-side" politics (politiche sul lato dei costi di produzione e non sull’incentivazione di

domanda pubblica e privata), oggi tanto invocate, sono diverse sia dal financial-welfare (cioè dalla protezione

prioritaria dei sistemi bancari, a preferenza dell’attenzione verso l’economia “reale”, cui ci sta riducendo Bundesbank-

BCE) che dalle riforme strutturali pro-cicliche invocate dal duo Draghi-Monti (dato che né Friedman nè il FMI hanno

mai sostenuto che occorra praticare tali politiche in modo pro-ciclico, cioè in fasi dove la domanda è già

autonomamente debole, e a costo di indurre una recessione fiscal-dragged).

[10] http://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/@dgreports/@dcomm/@publ/documents/publication/wcms_171571.pdf

[11] DE GRAUWE EURO Symmetries.pdf (Oggetto application/pdf)[12] Tale conclusione è pacifica nella letteratura economica, certamente in quella extraeuropea e segnatamente anglosassone, cfr; http://www.voxeu.org/article/should-we-believe-german-labour-market-miracle[13] Sul punto, si veda lo studio dell’ILO citato in nota 7, nonché i dati storici sull’andamento del CLUP italiano anteriore e posteriore all’introduzione dei vincoli valutari, prima dello SME “a fascia ristretta” e poi dello stesso euro.

[14] La ricorrenza “tipica” e quasi scontata di questo schema di crisi, legato in definitiva, alla liberalizzazione mondiale della circolazione dei capitali, è stata indagata (oltre che nello studio di Cesaratto citato alla nota 5) da Roberto Frenkel e Martin Rapetti nell’ormai noto lavoro “A developing country view of the current global crisis: what should not be forgotten and what should be done” http://cje.oxfordjournals.org/content/33/4/685.full

[15] Così Martin Wolff sul Financial Times “Ora la cura necessaria per i mali dell’eurozona imporrà un aumento dell’inflazione in Germania, che i tedeschi detestano; prolungate recessioni deflazionistiche in importanti mercati dell’eurozona; e continui trasferimenti di risorse ufficiali ai suoi partners. Tutto questo fa sì che né le conquiste economiche, né quelle politiche derivanti dall’appartenenza all’euro coincidono con ciò che i politici tedeschi avrebbero voluto. Peggio ancora, ora ci attendono anni di conflitti sui

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“salvataggi”, sulle ristrutturazioni del debito, sulle impopolari riforme strutturali per gli adeguamenti di competitività. Forse un doloroso divorzio sarebbe davvero meglio.

… tornare a un marco rivalutato ridurrebbe i profitti, aumenterebbe la produttività e aumenterebbe i redditi

reali dei consumatori. Invece di prestare il risparmio in eccedenza agli stranieri dissoluti, i tedeschi potrebbero godere di migliori standard di vita a casa loro. Inoltre, si realizzerebbe un rapido aggiustamento della competitività tra i membri della zona euro, aggiustamento che altrimenti avverrebbe troppo lentamente, attraverso un’inflazione elevata in Germania e un alto tasso di disoccupazione nei paesi partner.

…l’uscita è davvero un’opzione. Se viene respinta, come prevedo, alla fine si verificheranno più o meno gli

stessi aggiustamenti, ma in un modo ancor più doloroso. L’alternativa è l’unione di trasferimento che i tedeschi temono. La Germania ha pagato un prezzo molto alto per la sua strategia mercantilista. Dentro o fuori dell’euro, non può – e non deve – durare”.

http://keynesblog.com/2012/09/27/luscita-della-germania-dalleuro-e-unopzione-da-considerare-seriamente/

[16] http://www.tnr.com/article/economy/95989/eurozone-crisis-debt-dont-blame-greece

[17] Jacques Attali (consigliere di Mitterand e uno dei padri fondatori delle euro):"Era evidente, e tutti coloro che hanno partecipato a questa storia lo sanno, quando abbiamo fatto l'euro, sapevamo che sarebbe scomparso entro 10 anni senza un federalismo buggettario. Vale a dire con eurobond, ma anche con una tassa europea, e il controllo del deficit. Noi lo sapevamo. Perché la storia lo dimostra. Perché non c'è nessuna zona monetaria che sopravviva senza un governo federale ... Tutti sapevamo che questa crisi sarebbe arrivata." http://www.youtube.com/watch?v=OK169nietfk&feature=player_embedded

[18] Paul De Grauwe “In search of simmetry in the Eurozone” http://www.econ.kuleuven.be/ew/academic/intecon/Degrauwe/PDG-papers/Discussion_papers/Symmetries.pdf

[19] http://vocidallagermania.blogspot.it/2012/09/un-po-piu-uguale-degli-altri.html[20] Queste le parole dell’ex cancelliere tedesco Helmut Kohl , colui che si adoperò con tutte le sue forze affinché l’Italia entrasse nella prima “tranche” dell’euro. Egli, nel 1996 affermò: “un’Italia fuori dall’euro farebbe una concorrenza rovinosa all’industria tedesca. L’Italia deve quindi essere subito parte dell’euro, alle stesse condizioni degli altri partner”.

E per “stesse condizioni”, lo sviluppo degli eventi chiarisce ora che si deve intendere “stesso trattamento” …competitivo http://icebergfinanza.finanza.com/2012/02/29/germania-grazie-di-tutto-quello-che-fai-per-noi/

[21] Queste le parole dello stesso Attali: «Abbiamo minuziosamente "dimenticato" di includere l'articolo per uscire da Maastricht.. In primo luogo, tutti coloro, e io ho il privilegio di averne fatto parte, che hanno partecipato alla stesura delle prime bozze del Trattato di Maastricht, hanno, ci siamo incoraggiati a fare in modo che uscirne ... sia impossibile. Abbiamo attentamente "dimenticato" di scrivere l'articolo che permetta di uscirne. Non è stato molto democratico, naturalmente, ma è stata un'ottima garanzia per rendere le cose più difficili, per costringerci ad andare avanti.”http://www.youtube.com/watch?v=jXBLvGuNVuU&feature=player_embedded