appunti per una lettura della “crisi delle scienze europee ... · egli, come ebreo tedesco nato...

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• Le pagine che seguono sono appunti del docente di appoggio alle lezioni e vengono messi a disposizione come elemento di supporto per chi non sia riuscito ad frequentare con costanza il corso di Filosofia della Storia 2008-2009. Si intende che tali appunti sono da considerare meramente integrativi e non rappresentano una riproduzione completa dei contenuti e degli argomenti trattati durante il corso. SEZIONE I. La Crisi delle Scienze Europee e la fenomenologia trascendentale, come molti dei testi attribuiti ad Husserl, non è effettivamente un libro, ma una raccolta solo parzialmente omogenea di Conferenze ed appunti. E. W. Orth lo chiama giustamente un “libro immaginario”. I primi 27 paragrafi rappresentano il nocciolo iniziale del testo, in due sezioni, presentato inizialmente nel 1936 in forma di conferenza e pubblicato l’anno successivo (1937) a Belgrado, in quanto ad Husserl era oramai impossibile pubblicare alcunché nella Germania hitleriana. A questi 27 paragrafi di natura prevalentemente programmatica Husserl stesso aggiunge una terza ampia sezione (§§ 28-72) che non vedrà la luce prima della morte dell’autore, avvenuta il 27.04.1938. Tuttavia le tematiche presenti nella conferenza del ’36 vengono instancabilmente rielaborate in un’impressionante mole di appunti negli ultimi due anni di vita dell’autore; tali appunti verranno poi raccolti in parte nel 1954 in volume assieme ai 72 paragrafi originari per comporre quello che appare come volume VI dell’edizione delle opere complete, e cui fa riferimento la traduzione italiana. Altri appunti verranno raccolti successivamente in un secondo volume delle Opere (1993), col titolo di ‘Volume di complemento’ (Ergänzungsband) alla Krisis. Di fatto la Krisis più che essere un libro è, come sempre in Husserl, una raccolta di idee afferenti ad una famiglia di temi affini, ma senza un chiaro inizio od una chiara fine. Questa, come detto, è caratteristica tipica di tutte le opere husserliane pubblicate in vita, ed a maggior ragione di quelle composte dai curatori e pubblicate postume. Cos’è la ‘crisi’ di cui parla il titolo? E perché una crisi delle scienze? E per di più delle scienze ‘europee’? Per quanto non sia mai un buon servigio ad un autore il farne dipendere il pensiero troppo strettamente dal contesto storico e psicologico, è impossibile evitare di far menzione alle crisi spirituale, umana, che Husserl esperisce come caratterizzante la vita dell’umanità europea tra le due guerre. Husserl stesso, pur non essendo propenso ad alcuna forma di analisi storico-politica della contemporaneità, menziona a più riprese l’abisso in cui è caduta la cultura europea negli ultimi decenni. Egli, come ebreo tedesco nato in Moravia nell’ambito della multietnica civiltà austroungarica, assiste dapprima all’autodistruzione europea della prima guerra mondiale, con la disgregazione della transnazionalità asburgica, e poi al progressivo sfacelo delle costituzioni europee a partire dall’italiana marcia su Roma fino all’ascesa al cancellierato di Hitler nel ’33. Questi eventi non sono semplicemente vissuti 1

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• Le pagine che seguono sono appunti del docente di appoggio alle lezioni e vengono messi a disposizione come elemento di supporto per chi non sia riuscito ad frequentare con costanza il corso di Filosofia della Storia 2008-2009. Si intende che tali appunti sono da considerare meramente integrativi e non rappresentano una riproduzione completa dei contenuti e degli argomenti trattati durante il corso.

SEZIONE I.

La Crisi delle Scienze Europee e la fenomenologia trascendentale, come molti dei testi attribuiti ad Husserl, non è effettivamente un libro, ma una raccolta solo parzialmente omogenea di Conferenze ed appunti. E. W. Orth lo chiama giustamente un “libro immaginario”. I primi 27 paragrafi rappresentano il nocciolo iniziale del testo, in due sezioni, presentato inizialmente nel 1936 in forma di conferenza e pubblicato l’anno successivo (1937) a Belgrado, in quanto ad Husserl era oramai impossibile pubblicare alcunché nella Germania hitleriana. A questi 27 paragrafi di natura prevalentemente programmatica Husserl stesso aggiunge una terza ampia sezione (§§ 28-72) che non vedrà la luce prima della morte dell’autore, avvenuta il 27.04.1938. Tuttavia le tematiche presenti nella conferenza del ’36 vengono instancabilmente rielaborate in un’impressionante mole di appunti negli ultimi due anni di vita dell’autore; tali appunti verranno poi raccolti in parte nel 1954 in volume assieme ai 72 paragrafi originari per comporre quello che appare come volume VI dell’edizione delle opere complete, e cui fa riferimento la traduzione italiana. Altri appunti verranno raccolti successivamente in un secondo volume delle Opere (1993), col titolo di ‘Volume di complemento’ (Ergänzungsband) alla Krisis.

Di fatto la Krisis più che essere un libro è, come sempre in Husserl, una raccolta di idee afferenti ad una famiglia di temi affini, ma senza un chiaro inizio od una chiara fine. Questa, come detto, è caratteristica tipica di tutte le opere husserliane pubblicate in vita, ed a maggior ragione di quelle composte dai curatori e pubblicate postume.

Cos’è la ‘crisi’ di cui parla il titolo? E perché una crisi delle scienze? E per di più delle scienze ‘europee’? Per quanto non sia mai un buon servigio ad un autore il farne dipendere il pensiero troppo strettamente dal contesto storico e psicologico, è impossibile evitare di far menzione alle crisi spirituale, umana, che Husserl esperisce come caratterizzante la vita dell’umanità europea tra le due guerre. Husserl stesso, pur non essendo propenso ad alcuna forma di analisi storico-politica della contemporaneità, menziona a più riprese l’abisso in cui è caduta la cultura europea negli ultimi decenni. Egli, come ebreo tedesco nato in Moravia nell’ambito della multietnica civiltà austroungarica, assiste dapprima all’autodistruzione europea della prima guerra mondiale, con la disgregazione della transnazionalità asburgica, e poi al progressivo sfacelo delle costituzioni europee a partire dall’italiana marcia su Roma fino all’ascesa al cancellierato di Hitler nel ’33. Questi eventi non sono semplicemente vissuti

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come catastrofi militari, economiche o politiche, ma soprattutto come catastrofi spirituali: l’umanità europea ha perso ogni unità di senso e la cultura europea, le scienze europee nel senso generale di scientia come ‘sapere’, non fornisce più alcuna risposta plausibile.

La crisi delle scienze di cui Husserl parla non è affatto crisi nell’efficacia tecnica o nella capacità predittiva delle scienze, bensì crisi di senso: il sapere non porta più con sé alcuna capacità palingenetica né alcuna ispirazione etica. Può sembrare strano per noi oggi anche solo prendere in considerazione la domanda che la scienza si faccia carico di questioni di senso, tuttavia questa stessa nostra difficoltà andrebbe esaminata: non è affatto ovvio che la scienza sia costitutivamente vuota di senso, e non è stato ovvio per gran parte della storia dell’umanità. Che la scienza ambisca all’obiettività è una cosa, che il suo modo di porre e preselezionare domande faccia sì che nessuna questione di senso possa emergere è tutt’altra cosa. Il dato più evidente che rimarca come la scienza moderna abbia abdicato ad ogni questione di senso va rintracciato nel fatto che convivono una pluralità di verità scientifiche provenienti da diverse scienze particolari e valevoli per i medesimi stati di cose, senza che la questione di una sintesi o conciliazione dei punti di vista neppure emerga: il mondo può essere analizzato sotto specie fisica, chimica, cosmologica, biologica, psicologica, storica, economica, senza che il problema di come comporre queste visioni emerga affatto. Un classico esempio di questa condizione aporetica sta nel confronto inesistente tra le istanze deterministiche implicite in alcuni saperi e quelle finalistiche implicite in altri (es.: fisica vs economia).

Infine, parlando di ‘scienze europee’ Husserl intende la scienza occidentale nel suo complesso, le cui origini europee vengono rivendicate non solo per quel poco di orgoglio intellettuale che poteva ancora rimanere in un’Europa dove buona parte degli intellettuali erano costretti ad emigrare per motivi razziali o politici, ma anche per rammentare che la dimensione di origine storica è essenziale anche per saperi che si pongono come atemporali quali quelli delle scienze naturali.

Bisogna notare a questo punto come tra le scienze problematizzate da Husserl una appare da subito soggetta ad un trattamento particolare. Si tratta della psicologia, la cui natura paradossale rappresenta una provocazione continua nell’ambito delle scienze contemporanee. Infatti ogni verità relativa a contenuti psicologici sembra soffrire di una paradossalità costitutiva: per rendere davvero scientifico il suo contenuto deve obiettivarlo, renderlo oggetto, ma siccome il suo contenuto è per definizione un contenuto mentale, soggettivo, sembra che l’atto stesso di produrre una verità scientifica concernente dati psicologici finisca per cancellare la natura eminentemente psicologica del contenuto. Questo paradosso non è affatto qualcosa di osservato per la prima volta da Husserl (anche se il suo significato complessivo lo è): la questione della dubbia scientificità della psicologia era già stata sollevata da Auguste Comte che aveva denunciato la non scientificità di ogni pratica introspettiva come base per una scienza psicologica. W. Wundt da parte sua aveva tentato di dare rigore ai resoconti introspettivi in modo da farne una base per la psicologia, ma il suo tentativo, criticato dallo stesso Husserl nella Crisi, risultò a tutti gli effetti

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fallimentare. Più o meno contemporaneamente alla stesura della ‘Crisi’ Burrhus Frederic Skinner svolgeva, negli USA, la sua attività teorica e sperimentale volta a sopprimere del tutto dalla concettualità psicologica ogni riferimento ad eventi non obiettivabili. Nasceva così il comportamentismo, per cui da ogni nozione psicologica dovevano sparire riferimenti che non fossero riconducibili a spostamenti di corpi nello spazio e nel tempo, dunque, nel caso di viventi, a dati fisiologici e comportamentali.

Ciò che Husserl osserva innanzitutto è che il problema non è in alcun modo aggirabile giacché la natura della coscienza è data dalla sua intenzionalità, cioè dal suo essere coscienza rivolta al suo oggetto: in altri termini obiettivare la coscienza significa cancellare la sua natura intenzionale, cioè appunto sopprimerne ciò che la fa essere coscienza.

La nozione di intenzionalità, che è giustamente considerata la nozione più elementare che introduce alla concettualità fenomenologica, è in effetti una nozione semplice solo nel senso di ‘non-composta’, ma non è affatto facile da intendere appieno. Di primo acchito intenzionalità indica l’essere diretto della coscienza al suo oggetto e, si dice, la coscienza è sempre coscienza-di, cioè appunto è sempre coscienza intenzionale. Il termine ‘intenzionalità’ deriva dall’uso della nozione di intentio propria della logica medievale, e perciò non deve essere confusa con l’intenzionalità psicologica nel senso di volontarietà. Ciò è prima facie sufficiente, ma non tutto è così intuitivo come può sembrare. Innanzitutto il riferimento all’oggetto dell’intenzione può essere travisato: se è vero che ogni qualvolta si danno oggetti (ad esempio per la percezione, per la memoria, ecc.) ci deve essere una coscienza per cui essi si danno, questo non significa che l’intenzionalità debba sempre dirigersi proprio ad oggetti in senso pieno. Se la mia attenzione è risvegliata da un rumore di origine ignota, la mia coscienza non si dirige ad un oggetto in senso comune, ma ad un ‘qualcosa’ anonimo da interpretare, e questo è un caso tipico di intenzionalità. Un caso più complesso è rappresentato da condizioni emozionali di coscienza, come essere stanchi, allegri o depressi: queste condizioni non si danno primariamente come oggetti per la coscienza, ma rappresentano piuttosto modi di darsi dell’intenzionalità. Husserl distingue a questo proposito due momenti della relazione intenzionale: noesis e noema; per noesis si intende l’atto intenzionale rivolto ai relativi oggetti intenzionali, per noema si intende l’oggetto intenzionale, nel senso generale di contenuto tematizzato dall’atto intenzionale. Una condizione emozionale della coscienza (tristezza), così come una modalizzazione della coscienza (dubbio, certezza, ecc.) sono fattori primariamente inerenti alla noesis, all’atto intenzionale. Ciò non toglie che anche questi momenti noetici possono essere resi oggetto della coscienza, possono essere tematizzati trasformandoli in noemata, che a loro volta si danno per una differente noesis.

In secondo luogo, intenzionalità non è neppure da confondersi con ‘attenzione’, giacché l’attenzione è una qualità inerente all’intenzionalità, non il suo nocciolo: noi possiamo dirigerci intenzionalmente al medesimo oggetto avendo maggiore o minor grado di attenzione. Ciò non toglie che tra intenzionalità ed attenzione una qualche relazione c’è, quantomeno con

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riferimento alle espressioni in cui parliamo di ‘dirigere l’attenzione verso’: di fatto dirigere l’attenzione è un modo primario di esercitare un’obiettivazione intenzionale.

Un’ulteriore famiglia di concetti che vanno esaminati quando si parla di intenzionalità riguarda l’idea di ‘aspettativa’. Ordinariamente la nozione di intenzionalità va concepita in correlazione con quella di ‘riempimento dell’intenzione’. Quando l’intenzionalità si dirige verso qualcosa lo ‘intende’ in un certo modo, cioè ‘si aspetta’ che appaia in certe forme. Come vedremo questa struttura si dà quasi sempre, ma non sempre, in quanto sussiste una dimensione intenzionale passiva che non ha già di mira alcuno specifico contenuto. Tuttavia, salvo questo caso su cui torneremo in seguito, in genere l’intenzionalità in certo qual modo ‘prefigura’ il proprio oggetto: per prendere un esempio efficace, anche se forse ingannevolmente semplice, se guardiamo una figura ambigua, come quelle indagate dalla psicologia della Gestalt, ad esempio il coniglio-anatra di cui Wittgenstein, la figura di Rubin o il cubo di Necker, in tutti questi casi vediamo come sia possibile modulare la configurazione del percetto attraverso un cambiamento delle proprie ‘aspettative percettive’. Da questi esempi possiamo trarre un’importante lezione circa l’intenzionalità: essa non è qualcosa che possa venire dettato univocamente dalla ‘materia sensibile’. Questo però, sia detto subito, non implica che le modalità organizzative del percetto da parte dell’intenzionalità percettiva siano arbitrarie o liberamente creative. L’intenzionalità si rivolge al proprio oggetto in un modo che predispone ciò che sarà considerato pertinente e ciò che sarà trascurato, ciò che sarà posto in primo piano e ciò che verrà posto in secondo piano. Poiché l’intenzione si dispone nei confronti del proprio oggetto con determinate ‘aspettative’, tali aspettative possono essere soddisfatte del tutto o in parte, oppure tradite; nel primo caso parliamo di riempimento di un’intenzione.

A questo punto dobbiamo introdurre una precisazione non elementare, al concetto di riempimento intenzionale: gli esempi tipici di riempimento sono tratti dalla percezione e come tali sono esempi efficaci, che però possono risultare fuorvianti, in quanto sembra che il riempimento dell’intenzione sia dovuto ad una sorta di sovrapposizione tra la ‘prefigurazione’ propria dell’intenzione ed il contenuto sensibile, proveniente dall’oggetto materiale (le ‘sensazioni’). Il modello che si presta più immediatamente a questa rappresentazione è quello empiristico per cui abbiamo in mente immagini mentali che poi possiamo proiettare sulle cose scorgendone la coincidenza o meno con la datità sensibile. Questo modello soffre di insolubili difetti, noti sin dall’antichità classica, e di cui Husserl è perfettamente consapevole. In primo luogo, non c’è mai sovrapponibilità possibile tra la supposta immagine mentale di qualcosa (tratto da precedente esperienza sensibile) e la sua realtà sensibile, in quanto non si danno mai due sensazioni perfettamente identiche e dunque neppure si dà sovrapponibilità tra la supposta riproduzione mentale dell’oggetto sensibile e la sua presenza attuale. Questo è uno dei problemi che condussero Platone ad elaborare la nozione di ‘idea’ come qualcosa di irriducibile alla dimensione sensibile: siccome il cavallo visto ieri di fronte non è sovrapponibile al cavallo visto oggi di lato, non potrei mai dire di averlo

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riconosciuto come lo stesso cavallo; ciò sembra risolversi se suppongo che ci sia un’idea di cavallo che sussume a priori tutte le istanze di cavallo empirico che andrò ad incontrare. Ma c’è di più: noi non effettuiamo solo riconoscimenti percettivi, ma anche mnemonici: cerchiamo di ricordare qualcosa che ad un certo punto riconosciamo. Ma è chiaro in un caso del genere che parlare di sovrapposizione tra un’immagine mentale che già possiederei ed una seconda immagine mentale, che devo possedere anch’essa, anche se non in evidenza, sembra chiaramente assurdo. Questo è il caso che Platone discute quando affronta il problema della ‘rammemorazione’, ad esempio nel Menone: è paradossale concepire il riconoscimento mnemonico come recupero di un’immagine da confrontare con un’altra immagine che già possediamo, giacché se già la possediamo per poter effettuare il confronto, non si capisce perché mai dovremmo cercarla. Per Husserl il problema di un confronto tra entità eterogenee come l’immagine mentale e l’immagine sensibile non si pone proprio, in quanto il riempimento intenzionale è di fatto una relazione tra due intenzioni, la prima signitiva e la seconda intuitiva.1 Questo, si faccia attenzione, non comporta che il soggetto abbia sempre solo a che fare con se stesso, in forma sostanzialmente solipsistica; sebbene il riempimento intenzionale sia una relazione tra un’intenzione vuota ed un’intenzione intuitiva, questo non comporta istanze solipsistiche giacché l’intenzione intuitiva dipende immediatamente dalla datità sensibile. Per comprendere in dettaglio come ciò possa essere concepito dovremmo però aver già introdotto una discussione sulle cinestesi, cui ci dedicheremo in seguito.

Prima di passare oltre dobbiamo formulare un’ultima osservazione sintetica sulla nozione di intenzionalità: il suo ruolo fondamentale, che equivale senz’altro al ruolo costitutivo della coscienza, deve essere compreso considerando l’ordine di fondazione delle esperienze. In altri termini: perché una psicologia che cerchi di aggirare la coscienza intenzionale è condannata ad un sostanziale fallimento, ovvero ad una perdita del suo oggetto? Nelle sue linee essenziali il ragionamento che bisogna seguire (e su cui comunque ritorneremo) è il seguente: l’intenzionalità non può mai essere risolta in una descrizione naturalistica, cioè in termini di oggetti studiati dalle scienze della natura, in quanto ogni obiettivazione presuppone già sempre l’intenzionalità. L’ideale della psicologia nella sua versione naturalistica è di ridurre l’intenzionalità ad un prodotto del cervello, da studiare attraverso l’esame di correlazioni causali tra le parti del cervello, l’ambiente ed il corpo. Ora, ci sono molte argomentazioni che possono essere sollevate dall’interno della pratica 1 “In der Erfüllungsbeziehung kommen zwei Intentionen auf dasselbe zu kongruierender Deckung, derart, dass eine rein signitive, begriffliche Intention ‘sich’ in einer anderen, auf dasselbe Objekt gerichteten, intuitiven, anschaulichen Intention ‚erfüllt’. Was zuvor ‚bloß’ gemeint war, ist dann in anschaulicher Fülle ‚selbst’ da. Ein Unterschied also von bloß intentionalem und wirklichem Objekt bleibt bestehen. Nur ist dieser Unterschied kein ‚reeller’ sondern einer der ‚Gegebenheitsweise’. Das heißt: das Objekt im Wie seiner Gegebenheit differiert zwischen ‚leerer’ und anschaulich ‚erfüllter’ Begrifflichkeit, das Objekt aber, welches in diesem intentionalen Gefälle zwischen leere und Fülle gegeben ist, bleibt eines und dasselbe.“ (Kausalität und Motivation. Untersuchungen zum Verhältnis von Perspektivität und Objektivität in der Phänomenologie Edmund Husserls, von Bernhard Rang, Martinus Nijhoff, Den Haag, 1973, p.23)

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scientifica a questo indirizzo di ricerca; ad esempio, si può notare come la possibilità di ridurre il funzionamento di sistemi complessi (es.: il cervello) alle loro parti componenti è altamente dubbio, in quanto non è affatto detto che il funzionamento dell’intero sia riconducibile al funzionamento delle sue parti. C’è però qualcosa di più sottile e radicale che va considerato: noi conosciamo le potenzialità della materia solo attraverso i modi in cui tale potenzialità si estrinseca. In altri termini, nessuna esplorazione o contemplazione statica di una certa quantità di materia ci insegna quali ‘poteri’ vi ineriscono: se analizzo al microscopio un seme sconosciuto non posso capire come si presenterà la pianta cresciuta, ed in generale qualunque cosa io ritenga di conoscere intorno al tipo di pianta sarà solo frutto di una generalizzazione di processi di crescita indagati in altri semi. Nello stesso senso, nessuna esplorazione degli elementi chimici che rientrano in un organismo vivente, ordinatamente disposti in scatole su di un tavolo, mi può far intuire come si darà un organismo vivente: a partire dall’esame dell’intero funzionante possiamo provare ad astrarre le sue parti, ma a partire dalle parti non siamo mai in grado di intuirne le potenzialità di sviluppo a partire dalla solo contemplazione. Questo cosa significa? Significa che la fonte originaria di tutte le nostre conoscenze non è l’analisi di oggetti, bensì la descrizione di ‘comportamenti’, implicazioni, processi, azioni, connessioni, così come essi si danno spontaneamente. Questo ovviamente non significa che l’analisi in parti costitutive sia cognitivamente sterile, tutt’altro, ma significa che non possiamo mai aggirare la sorgente primaria delle nostre conoscenze, che è data in descrizioni di come i fenomeni primariamente e spontaneamente si danno. Il primo passo dell’indagine scientifica non è né l’analisi in parti, né l’esperimento come tentativo di provocare una risposta, ma l’osservazione dei processi spontanei, che possiamo poi analizzare o ‘provocare’ sperimentalmente. Il progetto scientifico di mettersi nelle condizioni di poter ricostruire esiti complessi a partire da una manipolazione delle loro parti componenti è un progetto fecondo ed interessante, ma non si può partire dall’assunto generale per cui l’intero sarebbe senz’altro riducibile alla somma delle parti, il sistema alla collazione dei suoi elementi, il movimento la somma di infiniti stati parziali (come nei paradossi di Zenone), ecc. - Quando l’oggetto d’analisi è propriamente la coscienza, come dovrebbe essere per la psicologia e per la filosofia della mente, risulta chiaro che i resoconti in prima persona da parte dei soggetti sperimentali non sono dati aggirabili: per sapere che una certa sollecitazione di una fibra nervosa provoca dolore abbiamo bisogno di avere un ampio supporto di testimonianze da parte di soggetti che, all’occorrere di detta sollecitazione, dicono di provare dolore. Questo, per inciso, significa che prima di accedere alle relative verità neurofisiologiche circa il funzionamento del sostrato cerebrale del dolore dobbiamo aver raggiunto un’intesa concettuale intorno a cosa intendiamo per dolore. Lo stesso esempio potrebbe essere fatto per la percezione dei colori, il recupero dei ricordi, ecc. In altri termini, non possiamo esercitare correttamente l’indagine scientifica sulla coscienza se non abbiamo fatto una preliminare operazione di chiarimento relativo ai contenuti mentali che andremo ad indagare obiettivamente. Per questo motivo ogni tentativo di

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ridurre l’intenzionalità a qualche dato naturale obiettivo va senz’altro respinto: non perché non sia possibile trovare correlazioni valide tra eventi materiali ispezionabili ed attività intenzionali: sappiamo ad esempio che se sopprimiamo l’attività della corteccia cerebrale nessuna attività intenzionale si manifesta. Il punto è fondativo ed ontologico: non possiamo dire di sapere cosa davvero è l’intenzionalità attraverso un’analisi dei suoi correlati obiettivi (ad esempio come stati cerebrali) perché tali correlati possono essere identificati solo sulla scorta di una preliminare identificazione di cosa sia intenzionalità. Sapere che in assenza di un certo sostrato materiale non si dà intenzionalità o attività coscienziale in genere non ci dice niente circa la natura in sé della coscienza; sappiamo soltanto che ad un qualche livello il sostrato materiale concorre in modo necessario al darsi del fenomeno, ma non siamo in grado di dire che quel fenomeno può risolversi nel sostrato materiale: è come se un barbaro proiettato dal passato al giorno d’oggi e posto davanti ad una radio che trasmette una sinfonia, la frantumasse con una mazza, per poi dire che, con tutta evidenza, quel fenomeno (radio + musica) è riducibile ad urti materiali, giacché un urto materiale può farlo svanire. - In conclusione, un esame preliminare del ruolo dell’intenzionalità nell’esperienza dovrebbe metterci in grado di apprezzare che nessuna analisi rigorosa che si dedichi allo studio di cose e fatti può permettersi di dimenticare che cose e fatti si danno sempre per una coscienza, e che senza un’adeguata comprensione di come cose e fatti possano darsi per una coscienza il resto dell’indagine non può che essere pregiudicato.

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SEZIONE II.

Da queste prime considerazioni sull’intenzionalità scorgiamo perché l’impostazione della fenomenologia di Husserl sia prioritariamente e preferenzialmente proiettata ad analizzare gli atti percettivi. La percezione ha priorità tra le analisi husserliane perché tutto lo sforzo va ad isolare le fonti di evidenza prime, su cui ogni altra concettualità si deve fondare. Per esprimerci con un poco d’approssimazione, potremmo dire che, siccome per Husserl è indispensabile esaminare i livelli di esperienza più fondativi per poter interpretare quelli più complessi, allora lo studio della percezione deve necessariamente avere priorità. Ovvero, per dirla naturalisticamente: siccome ciascuno, prima di essere uomo di scienza o filosofo, è stato un bambino che ha appreso informalmente tutti i concetti che gli consentiranno poi di perseguire verità scientifiche o filosofiche, e prima ancora è stato un infante che ha appreso le articolazioni primarie della realtà cui i concetti si applicano, è opportuno che, per svolgere un’indagine di sufficiente radicalità, ci si ponga il problema di come si è pervenuti al punto in cui valori, metodi ed oggetti della ricerca erano ovviamente dati.

La ‘Krisis’ è l’ultimo testo cui Husserl mette le mani ed ha carattere sintetico, programmatico, ma anche riassuntivo del percorso fatto. In certo modo si tratta di un’operazione testamentaria in cui vengono fatti i conti circa la strada svolta e la direzione che si spera altri percorrano. Una delle maggiori difficoltà nella lettura di questo testo sta nell’impossibilità di affrontarlo senza una generale conoscenza delle passati elaborazioni husserliane. Pur essendo qui fuori discussione un esame analitico dell’opus husserliano è necessario fornire innumerevoli chiarimenti terminologici che di fatto si convertono in un riassunto teoretico del pensiero dell’autore. Nella ‘Krisis’ non vengono svolte analisi fenomenologiche della percezione, le quali vengono solo ricordate episodicamente ed un poco più in dettaglio nei §§ 28, 45 e 47. Tuttavia senza una chiara comprensione di cosa sia un oggetto percettivo per Husserl gran parte delle analisi ulteriori perdono di profondità o addirittura di valore tout court.

Partiamo dal problema classico del rapporto tra percezione, sensazione ed oggetto percepito. Uno dei problemi classici della teoria della conoscenza è rappresentato dalla disomogeneità tra i significati mentali e le sensazioni. La contrapposizione da Platone in poi prende le forme di un contrasto tra la fuggevolezza destrutturata e caotica delle sensazioni e la permanenza ordinata e concettualizzabile dei percetti, una volta divenuti contenuti del pensiero. Vedo un oggetto sul tavolo, lo identifico come libro, blu, dalla copertina cartonata, con questo titolo, ecc.; successivamente posso ricordare di aver visto quel libro sul tavolo, ritornare a cercarlo e trovarlo, oppure stupirmi di non trovarlo. Tutto ciò è apparentemente banale, salvo che per il fatto che è un comportamento sostanzialmente inaccessibile ad animali non-umani, anche con apparati percettivi più sensibili dei nostri, ed inoltre è un comportamento che a tutt’oggi risulta drammaticamente difficile da simulare per robot sofisticatissimi. Uno dei problemi di fronte a cui si trova il robot è dato dalla infinita molteplicità sensibile propria di ogni

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oggetto percettivo: se provo a riassumere il libro sensibile in una matrice di punti cromatici con determinate ombreggiature, rapporti visivi con altri enti, ecc., mi trovo immediatamente di fronte ad una quantità di dati ingestibile, giacché il libro ovviamente è identificato da tutte le possibili prospettive, sotto tutte le possibili illuminazioni, in tutti i possibili contesti, da cui il libro può darsi. Se pensiamo di cavarcela solo con una selezione di prospettive qualificate, per così dire come una serie di foto segnaletiche del libro, ci troviamo immediatamente di fronte al problema di una non coincidenza tra il modello che abbiamo in mente e la campionatura sensibile che ci si dà. Il problema è che in effetti la totalità delle campionature possibili è infinita. Il problema dell’identità oggettuale è poi in effetti ancora più complicato di così, se pensiamo che noi siamo in grado di riconoscere spesso il medesimo oggetto non solo da diversi punti di vista, ma anche attraverso diversi accessi sensibili (es.: col tatto e con la vista).

L’impostazione husserliana salta integralmente questa impostazione ed i relativi problemi. Innanzitutto osserva come sul piano della datità fenomenica non si dà una collezione di punti che poi ricercano una sintesi successiva. I protagonisti della descrizione husserliana della percezione possono essere elencabili atraverso i seguenti otto concetti: rilievi (Abhebungen), sensazioni (o dati iletici), affezioni, contrasto e fusione, campo sensibile, cinestesi e adombramenti (Abschattungen). Ciò che si dà sensibilmente (e che Husserl talora nomina con il termine tradizionale di ‘sensazioni’) non sono sense-data, non sono unità singolarmente dotate di certe qualità, come il colore di un punto o l’altezza di un suono, ma sono innanzitutto ‘rilievi’, cose che si stagliano in rilievo e che producono un’affezione (modificazione) del soggetto percipiente. Una sensazione visiva non ha alcun colore; solo l’oggetto che vediamo, magari anche sulla scorta di quella sensazione, ha effettivamente colore.2 Ciò può sembrare misterioso, in quanto la nostra disposizione teoretica verso questi temi è già ampiamente pregiudicata, ma per capire di cosa parla Husserl è sufficiente fare in proprio un semplice esperimento: ci si fornisce di un tubo lungo dotato di un’apertura abbastanza ristretta (ad es. una cerbottana) e si rivolge lo sguardo ad una serie di punti visivi che si è avuto cura di non esplorare preliminarmente con visione binoculare libera; se ora si prova a giudicare il colore di un certo punto visto attraverso il tubo e poi lo si giudica di nuovo in visione libera si noterà frequentemente una ampia discrasia nei nostri giudizi cromatici: la collocazione di quella piccola sezione di campo cromatico in un contesto prima assente modifica il nostro giudizio. Simili risultati possono essere ottenuti esaminando l’esperimento di Mach del diedro convesso (un cartoncino piegato, ed illuminato in modo da essere per metà illuminato in pieno e per metà in ombra, muta colore apparente se,

2 „Die Einteilung der Empfindungen verläuft jedoch parallel nach derjenigen der wahrgenommenen Qualitäten. Die Ideen I unterscheiden Farben-, Ton- und Tastdaten, aber auch Lust-, Schmerz- und Kitzelempfindungen. Das empfundene Rot kann aber nur in einem äquivoken Sinn so genannt werden. Nicht das Erlebnis, sondern das wahrgenommene Ding ist rot. Die Abschattung, die Empfindung, ist nicht von derselben Gattung wie das Abgeschattete, das wahrgenommene Ding.“ (Phänomenologie der Assoziation. Zu Struktur und Funktion eines Grundprinzips der passiven Genesis bei E. Husserl, von Elmar Holenstein, Martinus NIjhoff, Den Haag 1972, p. 97)

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adottando una visione monoculare forzata, come attraverso il nostro tubo, si induce uno slittamento figurale, tale per cui il cartoncino non appare più come un diedro convesso, ma come due superfici complanari appaiate). Ciò che siamo in grado di dire per spostamenti prospettici come quelli da una visione monoculare locale ad una visione binoculare complessiva va in effetti esteso ad ogni ‘punto’ dello spazio visivo: ciascun supposto ‘punto’ è in effetti riconoscibile come tale solo a posteriori, dopo che abbiamo visto un oggetto colorato collocato nello spazio sotto una certa illuminazione, ecc. Non è che vediamo prima punti colorati e poi li riuniamo nella visione di un cubo rosso, al contrario vediamo primariamente il cubo rosso e da ciò inferiamo che tutti i punti geometrici della sua superficie devono essere rossi a loro volta. Questo, beninteso, non significa che in qualche modo noi ‘inventiamo’ il colore del cubo a prescindere dalle ‘sensazioni visive’, ma significa che un giudizio con attribuzione di colore ha senso solo per oggetti collocati in uno spazio, rispetto ad una certa luce, ecc. , mentre non ha alcun senso per punti geometrici. Nei primi scritti (Ricerche Logiche in particolare) Husserl usa il termine ‘sensazione’ che poi preferirà sostituire con la nozione di ‘dati iletici’, o semplicemente Hylé, il termine greco per materia informe. Senza entrare in troppi dettagli esegetici è essenziale comprendere come la nozione classica di sensazione viene interpretata in un modo che la trasforma radicalmente: essa non è più un dato elementare dalla cui composizione con altri dati elementari traiamo la nostra conoscenza dell’intero, al contrario, si tratta di uno ‘stimolo’, una ‘provocazione’ sensibile che risveglia la coscienza che viene da essa modificata (affezione), e che perciò si rivolge ad essa.3 Più precisamente, non è che l’intenzionalità percettiva si rivolga alla sensazione: essa è provocata dalla ‘sensazione’ e si rivolge nella direzione della ‘provocazione’ cercandovi un oggetto visivo (che è il vero contenuto dell’intenzionalità percettiva). Husserl parla di ‘affezioni originarie’ (Uraffektionen) quando intende riferirsi al ruolo più primitivo dei ‘dati iletici’ nella costituzione degli oggetti percettivi: quando il ‘qualcosa’ che richiama la coscienza non possiede ancora alcuna interpretazione consolidata, ma deve appena ricevere una ‘lettura’ intenzionale, allora le affezioni sono affezioni originarie. Affezioni in generale sono il primo rivolgersi della coscienza al ‘qualcosa’ percettivo, nominato come ‘sensazione’ o come hylé, che invece rappresenta una dimensione totalmente passiva, ed in effetti una dimensione di cui abbiamo

3 „Eine Affektion wird als ein Reiz definiert, der von einer Bewusstseinsgegebenheit auf das Ich ausgeübt wird, es zu einer interessierten und aktiven Zuwendung einladend. Eine Uraffektion wird dieser Reiz genannt, wenn er von einer noch nicht vergegenständlichten, vorobjektiven intentionalen Einheit ausstrahlt. Die affektiven Einheiten bilden die ursprünglichste Grundlage für die Aktivitäten des Ich, seine Rezeption, Apperzeption, Explikation, Kollektion usf.. (…) Jede inhaltliche Verschmelzung impliziert eine Abhebung gegenüber seiner Umgebung. Alle einheitliche Abhebung ist ‚Abhebung durch inhaltliche Verschmelzung unter Kontrast’. (…) Das Ich, so scheint es, wird von hyletischen Einheiten und Verbindungen affiziert, die ohne eine besondere Leistung der Affektion geworden sind. Die affizierenden Einheiten scheinen schon ‚geleistete Arbeit’ vorauszusetzen. Hyletische Kontinuen und die Einheit der Sinnesfelder könnten als solche ‚in starrer Passivität’ ohne alles Einwirken von Affektionen erstellte Ganzheiten angesetzt werden.“ (Holenstein, op. cit., p. 37-8)

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contezza solo attraverso un’operazione astrattiva a posteriori, a partire dalle unità percettive, che sono il primo dato.

Ora, una volta che l’intenzionalità percettiva si rivolge a qualcosa essa non opera una ‘raccolta’ di dati primitivi, ma colloca immediatamente lo sguardo in una certa posizione che identifica un luogo nel campo visivo, e tale collocazione avviene attraverso i due ‘meccanismi’ complementari della fusione e del contrasto. Nel campo sensibile tutto ciò che non è diverso è omogeneo e si assimila in unità. Nel campo sensibile, ad esempio nel campo visivo, tutto ciò che c’è ha a priori esistenza visiva; questa non è una tautologia: si pensi al punto cieco della retina: se la nostra percezione dovesse comporre entità visive mettendo assieme atomi sensibili, l’area corrispondente al punto cieco dovrebbe apparire necessariamente come un buco, un vuoto. Al contrario, niente di tutto questo si verifica in quanto l’assenza di sensazioni non produce alcuna affezione, non sollecita l’intenzionalità percettiva a rivolgersi ad essa, dunque essa rimane ‘per default’ visivamente significativa. Il campo visivo preesiste alle sensazioni visive, nel senso che si dà come presupposta un’unità ‘piena di significati visivi’, all’interno della quale fattori salienti emergono come contrasti (differenze), mentre la mancanza di contrasti conduce all’assimilazione in unità (fusione).4 Quando vediamo un lato del cubo come rosso noi vediamo del rosso e vediamo dei punti di contrasto dove la continuità del rosso si spezza, ad esempio in un rosso di tonalità differente che segnala un lato diversamente inclinato. È importante capire il significato del campo sensoriale (visivo nella fattispecie) nella prospettiva husserliana: il campo è un’istanza sintetica, in modo affine a come opera in Kant la sintesi del sensibile attraverso le forme a priori, tuttavia con una differenza profonda e decisiva: la sintesi propria del campo visivo può darsi solo sulla base di stimoli che lo sguardo colloca, dispone in unità e differenze, continuità e soglie. Tale sintesi è inconcepibile al di fuori dell’esercizio immanente della percezione. Ciò che unifica il campo visivo, vorremmo dire, è la pulsione a collocarsi come soggetto vedente in una posizione dello spazio visivo, e a mettersi nelle condizioni di agire in esso; la percezione è un atto vivo, 4 “In ogni colore è cioè contenuta la totalità dei colori: allorché si manifesta un colore si è già aperta la totalità del campo sensibile, poiché <una qualità sensoriale può essere soltanto in un ‘campo sensoriale’, e più esattamente, un colore dato sensorialmente in un campo visuale sensoriale> [LU I, 253] Se un colore può manifestarsi soltanto all’interno di un campo sensibile in quanto insieme di differenze all’interno di una omogeneità complessiva, allora ciò significa che il campo sensibile deve essere presupposto, con il che cade l’impostazione che sta alla base della filosofia di Hume. Si assume invece una prospettiva basata su un certo innatismo virtuale. Il campo è innato, ma non si apre senza la presenza di un colore. Il colore singolo non è però nulla di isolato, ma un composto, contiene in se stesso la totalità dei colori, poiché tra i colori vi è una somiglianza complessiva che permette, partendo da un colore, di risalire a tutti gli altri: <Tutti i singoli colori - scrive Husserl - si danno come reciprocamente simili relativamente al genere, sono appunto tutti colori, e tuttavia in particolari serie di somiglianza emerge una particolare somiglianza con qualcosa di particolare in comune.> Quando questa somiglianza si realizza e qualcosa emerge come un che di unitario parliamo di fusione, che dunque non è altro che una particolare, più intensa somiglianza all’interno di un sistema complessivo di somiglianze costituito dal campo.” (L’estetica trascendentale fenomenologica. Sensibilità e razionalità nella filosofia di Edmund Husserl, di Vincenzo Costa, Vita e Pensiero, Milano 1999, p. 170)

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animato, che opera differenziazioni sensibili innanzitutto in quanto esse sono salienti, interessanti, in quanto fanno differenza per il soggetto. La sintesi sensoriale non ha niente di affine con il mettere certi dati in certe scatole categoriali, ma ha piuttosto l’aspetto di un autocollocarsi vivente del soggetto sensibile. Campo sensibile e dati iletici rappresentano per così dire gli estremi idealmente nominabili al di là e al di fuori dell’esperienza come puri presupposti dell’esperire percettivo. Ma ovviamente tale descrizione è e non può che essere un’astrazione a posteriori dal darsi di oggetti percettivi.- Veniamo così ad un punto essenziale per tutta la discussione successiva: come abbiamo già cominciato ad intuire la percezione non è niente di statico, ma presuppone un’attività del soggetto. Questa attività non va concepita in senso astratto, come in Kant, quale ‘attività ideale’; per Husserl il motore essenziale della percezione è dato dalle cosiddette cinestesi, cioè dai moti propriocepiti che accompagnano ogni decorso percettivo.5 Se prendiamo la vista vediamo che l’occhio ha a fuoco sempre un tratto molto ristretto del campo visivo, ma conserva coscienza percettiva di un ambito molto più ampio grazie alla continua motilità dell’occhio. L’occhio percorre continuamente superfici e spigoli, curve ed ombreggiature, discriminando ed unificando nel processo le articolazioni del campo visivo. La psicologia cognitiva odierna ha ampiamente esplorato il ruolo della motilità oculare nella discriminazione ed identificazione degli oggetti visivi: in assenza di moti saccadici (micromovimenti involontari dell’occhio) nessun oggetto si staglia visivamente, ed anzi nessun dato visivo si manifesta.6 Chi voglia

5 „Alle Kinästhesen, jede ein ‚Ich bewege’, ‚Ich tue’, sind miteinander in der universalen Einheit verbunden, wobei kinästhetisches Stillhalten ein Modus des ‚Ich tue’ ist. Offenbar sind nun die Aspekt-Darstellungen des jeweils in Wahrnehmung erscheinenden Körpers und die Kinästhesen nicht Verläufe nebeneinander, vielmehr spielen beide so zusammen, dass die Aspekte nur den Seinssinn, nur die Geltung als Aspekte des Körpers dadurch haben, dass sie als die von den Kinästhesen, von der kinästhetisch-sinnlichen Gesamtsituation, in jeder ihrer tätigen Abwandlungen der Gesamtkinästhese durch Ins-Spiel-setzen der oder jener Sonderkinästhese, kontinuierlich gefordert sind und die Forderung entsprechend erfüllen.“ (Die Krisis der Europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie, von Edmund Husserl, Den Haag, Martinus Nijhoff, 1954, p. 108-9).6 In questo senso non siamo d’accordo con quanto scrive Costa: “Poiché, però, la molteplicità dei luoghi non è mai data senza una cinestesi e a sua volta nessuna cinestesi è data senza la molteplicità globale dei luoghi, si potrebbe pensare - ed è così che interpreta il problema Ulrich Claesges - che, poiché <il campo non è nient’altro che il correlato di un sistema cinestetico> e i dati-aspetto che hanno nella sfera visiva il carattere di dati cromatici sono <possibili solo nell’ordinamento dell’uno accanto all’altro nella contemporaneità>, <questo ordinamento è quindi la ‘forma’ nella quale la ‘materia’ è sempre già data>, per cui l’origine di questa forma, l’origine del campo visivo stesso va ricercata nella struttura del sistema cinestetico. (…) una concezione simile era già stata teorizzata da Herbart che, nella sua Psychologie der Wissenschaft, scriveva che <l’occhio in stato di quiete non vede alcuno spazio>. Secondo Herbart è solo la successione molto veloce delle sensazioni di qualità che dà l’impressione di qualcosa di contemporaneo, e quindi dello spazio. - Si tratta però, a nostro parere, di una posizione inaccettabile poiché, se anche io non avessi alcuna facoltà cinestetica il campo visivo avrebbe lo stesso le sue posizioni, i suoi colori e le sue figure. Tutto ciò non aspetta l’intervento del sistema cinestetico per delimitarsi reciprocamente, per ottenere risalto intuitivo. Che una macchia rossa sia contigua con una macchia verde non dipende evidentemente dal sistema cinestetico.” (Costa, op. cit., p. 251) - In verità in assenza di motilità oculare neppure la

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approfondire questo punto può studiare il cosiddetto esperimento del Ganzfeld o il cosiddetto ‘fenomeno Troxler’.

Husserl scopre il ruolo delle cinestesi osservando cosa avviene nel riconoscimento percettivo di un oggetto spaziale: quando percepiamo un oggetto abbiamo un’affezione sensibile circoscritta, ad esempio la visione prospettica di tre lati di un cubo, che in effetti rinvia ad una consapevolezza implicita intorno a come apparirebbe quell’entità spaziale se noi ci muovessimo intorno ad essa o se essa ruotasse. Nei termini di Husserl questo si esprime dicendo che il presente sensibile ‘adombra’ le prospettive possibili che vi ineriscono; si chiamano dunque ‘adombramenti’ le parti latenti ma presagite dell’oggetto percepito (i lati nascosti del cubo, ecc.). Questa osservazione può essere estesa ad ogni affezione sensibile circoscritta, visiva e non. Se riconosco al tatto una sedia come sedia lo faccio in quanto alcuni tocchi mi consegnano un’affezione tattile locale che mi suggerisce come mi devo aspettare che le parti dell’oggetto si sviluppino nello spazio. Con qualche approssimazione questo punto può essere espresso come segue: ogni presente percettivo ci dà una sorta di ‘istantanea’ sensibile che deve suggerire delle aspettative definite intorno a come l’oggetto si comporterà rispetto alle azioni del soggetto. In altri termini solo una consapevolezza dello sviluppo temporale dell’oggetto di cui abbiamo coscienza sensibile presente può metterci in grado di riconoscere percettivamente un oggetto. Rispetto all’insostenibile modello della composizione di infiniti atomi sensibili in un oggetto percettivo, l’analisi della percezione come esito cinestetico sostiene che la memoria delle cose è innanzitutto memoria dei loro modi di svilupparsi rispetto all’azione del percipiente. È importante comprendere come tutto il percepire sia un’attività del soggetto che implica motilità fisica sui generis. Studi successivi di psicologia cognitiva, come ad esempio quelli svolti da Gibson, hanno ampiamente esibito questo nesso tra motilità attiva e percezione.7

Riconoscere una musica avendo sentito qualche nota significa sapere come quelle note si sviluppano, come essa ‘va avanti’. Per riconoscere la dimensione della profondità, necessaria per ogni giudizio visivo, è indispensabile far riferimento alle traslazioni della parallasse binoculare, ovvero, è indispensabile vedere come si ‘muovono’ gli oggetti visivi gli uni rispetto agli altri (alcuni occludono visivamente altri, di alcuni si scorge un lato prima nascosto o la prosecuzione di una curvatura, alcuni si spostano nel campo visivo più velocemente di altri al nostro traslare, ecc.). - Perché le cinestesi funzionino il soggetto deve essere sensibile ai propri moti, ma tale sensibilità non deve essere oggetto tematico di coscienza: quando un bambino impara a manipolare un giocattolo la sua attenzione va

contiguità tra macchie cromatiche si manifesta alla vista.7 “All perception involves a kind of self-sensitivity, and all perception involves coperception of self and of environment. Gibson consequently distinguishes muscular, articular, vestibular, cutaneous, auditory, and visual kinaesthesis. As for the latter, Gibson argues that the very flow pattern of optical information provides us with awareness of our own movement and posture: ‘the world is revealed and concealed as the head moves, in ways that specify exactly how the head moves.’” (Self-Awareness and Alterity. A Phenomenological Investigation, by Dan Zahavi,Northwestern University Press, Illinois, 1999, p. 102)

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integralmente al giocattolo, anche se l’apprensione percettiva del giocattolo avviene attraverso la ‘memoria procedurale’ di come il proprio corpo (occhi, mani, postura, ecc.) si relaziona all’oggetto. Questo, si noti per inciso, opera una semplificazione drammatica nel tipo di informazione da apprendere: mentre nel modello empiristico per ogni sensazione discriminabile ci dovrebbe essere un’unità mnestica che la immagazzina, in una percezione dominata dalle cinestesi tutte le entità percettiva vengono apprese innanzitutto in quanto vengono ‘normalizzate’ in un codice unitario, dato appunto dalla motilità propria. In quest’ottica si scorge anche come la percezione, ed in generale l’apprensione della realtà tutta, abbiano bisogno di riferirsi alla dimensione della corporeità vivente, del corpo vissuto dal soggetto agente (Leib). La percezione dei corpi, cioè di oggetti inanimati tematizzati percettivamente, presuppone per poter avvenire una relazione costante al Leib, alla corporeità vivente, primariamente in quanto vissuta in prima persona. - Ogni qual volta percepiamo un oggetto, ci si dà al tempo stesso un’unità sensibile presente (la ‘parte’ dell’oggetto percettivamente saliente al presente e ponentesi in primo piano) e poi vengono appercepiti una serie di sviluppi cinestetici possibili implicati da quella datità sensibile. Tali sequenze di sviluppi (adombramenti) sono ciò che Husserl chiama l’orizzonte interno dell’oggetto percepito.8 Tuttavia per ogni oggetto percepito si dà non solo un orizzonte interno, ma anche un orizzonte esterno, che consiste nel campo di cose cui la cosa attualmente percepita fa riferimento come possibili implicazioni percettive.9 La nozione di orizzonte, interno ed esterno, manifesta la natura fondamentalmente ‘latente’ di ciò che Husserl chiama ‘mondo’, e che è né più né meno ciò che il linguaggio comune chiama mondo, soltanto compreso e pensato. In effetti ciascuno di noi sa, se vi riflette un momento, che il mondo in cui ciascuno di noi vive non è un oggetto, né può mai essere un oggetto. Cionondimeno, noi non possiamo dubitare che un mondo ci sia, anche se nessuno ha propriamente mai visto il mondo, né mai potrà vederlo: la natura del mondo è quella di un orizzonte di sviluppi percettuali possibili impliciti nell’oggetto percettivo di 8 „Ich drücke das etwa so aus: das reine Sehding, das Sichtbare ‚vom’ Ding, ist zunächst seine Oberfläche, und diese sehe ich im Wandel des Sehens einmal von dieser ‚Seite’ und einmal von jener, kontinuierlich wahrnehmend in immer wieder anderen Seiten. Aber in ihnen stellt sich für mich in einer kontinuierlichen Synthese die Oberfläche dar, jede ist bewusstseinmäßig eine Darstellungsweise von ihr. Darin liegt: während sie aktuell gegeben ist, meine ich mehr, als sie bietet. (…) Also die Wahrnehmung hat jeweils ‚bewusstseinmäßig’ einen ihrem Gegenstand (dem jeweils in ihr gemeinten) zugehörigen Horizont.“ (Husserl, Krisis, p. 160-1)9 „Und wie das einzelne Ding in der Wahrnehmung nur Sinn hat durch einen offenen Horizont ‚möglicher Wahrnehmungen’, sofern das eigentlich Wahrgenommene auf eine systematische Mannigfaltigkeit möglicher ihm einstimmig zugehöriger wahrnehmungsmäßiger Darstellungen ‚verweist’, so hat das Ding noch einmal einen Horizont: gegenüber dem ‚Innenhorizont’ einen ‚Außenhorizont’, eben als Ding eines Dingfeldes; und das verweist schließlich auf die ganze ‚Welt als Wahrnehmungswelt’. Das Ding ist eines in der Gesamtgruppe von simultan wirklich wahrgenommenen Dingen, aber diese Gruppe ist für uns bewußtseinsmäßig nicht die Welt, sondern in ihr stellt sich die Welt dar, sie hat als momentanes Wahrnehmungsfeld für uns immer schon den Charakter eines Ausschnittes ‚von’ der Welt, vom Universum der Dinge möglicher Wahrnehmungen.“ (Husserl, Krisis, p. 164-5)

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volta in volta attualmente tematizzato. Sarebbe utile a questo proposito riflettere sulla nozione scientifica di universo, con le sue aporie: come possiamo concepire la finità dell’universo? E come la sua infinità? Per decidere scientificamente la questione se l’universo sia finito od infinito, classica questione cosmologica, dobbiamo aver chiaro il significato della nozione, e tale chiarezza è proprio quanto di norma manca nella posizione di domanda cosmologica.- È importante ora comprendere come l’atto cognitivo apparentemente più elementare, cioè il riconoscimento percettivo di un oggetto, ci sveli una dimensione necessaria ed insieme enigmatica, quella della coscienza temporale. Quando ciascuno di noi percepisce un oggetto identificandolo ci collochiamo in una dimensione costitutivamente diacronica: riconosciamo un oggetto in quanto sappiamo per averlo appreso (passato) come certe datità sensibili si sviluppano cinesteticamente e perciò ci aspettiamo (futuro) che il presente sensibile sia indice di quella sequenza di sviluppi (adombramenti) in un generale contesto di rimandi ad altre unità sensibili potenzialmente esplorabili (orizzonte). In altri termini, il riconoscimento percettivo (cioè il percepire in senso proprio) vede qualcosa in quanto appercepisce una dimensione consaputa dell’oggetto presente, cioè in quanto si inoltra in un intorno passato e futuro del presente sensibile, senza di cui il presente sensibile non ci direbbe nulla. Se la percezione fosse una mera coscienza istantanea del puro presente, non si darebbero affatto oggetti percettivi, né contenuti di coscienza in genere. L’intenzionalità percettiva che si rivolge ad una salienza sensibile la considera reale nel senso che esercita un’affezione sul soggetto indipendentemente dalle volontà specifiche del soggetto (Husserl chiama questo essere reale con il termine ‘real’). Tuttavia perché questa datità che esercita affezione sia percepita come un qualcosa di definito essa deve diventare oggetto intenzionale (Husserl parla a questo proposito di un’entità ‘reell’, e non ‘real’). Oggetti intenzionali si danno solo in quanto l’intenzionalità ‘interpreta’ la realtà sensibile immanente (real) attraverso una consapevolezza sedimentata che colloca quella salienza in un contesto che in senso stretto rimane latente.

- L’analisi delle cinestesi ci mette anche in grado di intendere in che senso il riempimento dell’intenzione che per Husserl rappresenta il momento dell’evidenza (percettiva innanzitutto) possa essere inteso come rapporto di copertura tra due intenzioni: l’intenzione riempiente (intuitiva) è quella che viene suscitata ‘reattivamente’ dall’affezione prodotta dai dati iletici; in altri termini l’intenzione vuota, che è in parte assoggettabile all’attività del soggetto nella forma della fantasia, dell’ipotesi, dell’immaginazione, della proiezione, viene ‘verificata’ da intenzioni suscitate in maniera completamente passiva, sulla scorta di una peculiare reattività del soggetto che è anch’essa comprensibile in termini ‘cinestetici’, anche se questi ultimi non dominabili dal soggetto. L’intuizione è l’intenzione immediatamente suscitata dal sostrato sensibile-iletico, non è però questo sostrato stesso. In questo senso si risolve il problema dell’eterogeneità tra soggetto ed oggetto, mente e materia sensibile.

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SEZIONE III.

A questo punto siamo in grado di introdurre il tema fondamentale del tardo percorso husserliano, ovvero la natura strutturalmente ed inevitabilmente temporale di ogni datità, a partire dalla datità percettiva. La temporalità è nozione enigmatica per la filosofia da sempre. Tale enigmaticità è così primaria ed elementare da restare spesso incompresa anche per persone di formazione filosofica consistente. Ci sono molti sensi tecnici in cui la temporalità è un enigma, ma ce n’è uno semplice e lampante che richiede solo un momentaneo cambiamento di prospettiva, e che deriva immediatamente dalle analisi husserliane che abbiamo seguito. Vorremmo esprimerci così: tutto il mondo che per noi esiste e conta è sempre costitutivamente assente, salvo, episodicamente, una sua microscopica sezione locale. Nel nostro vivere quotidiano noi pretendiamo di vivere nel mondo, nella storia, nel nostro paese, in un susseguirsi di generazioni, ecc., ma ciò che abbiamo di volta in volta tutt’al più come oggetto di coscienza in atto è una trascurabile fettina spaziotemporale (per dire, lo schermo del mio computer alle 19.07 di un giovedì invernale). (Prima di aver finito di scrivere la frase erano già le 19.08…). Virtualmente tutto il contenuto del mio mondo è latente; esso pertiene ad una dimensione di implicazioni passate e future date alla coscienza come orizzonti.

L’analisi husserliana della temporalità si svolge a più riprese nell’arco di tutto il suo percorso di pensiero: i primi scritti sul tema sono del 1893, gli ultimi del 1934. Se teniamo presente le analisi della percezione così come le abbiamo introdotte possiamo immediatamente scorgere gli estremi di alcune essenziali considerazioni sulla temporalità. Innanzitutto la nozione classica di presente deve essere rivista profondamente: il presente non è un istante, un punto temporale, un infinitesimo privo di forma e dimensione, al contrario il presente reale così come esso si dà alla coscienza immanente del percepire è un’estensione dinamica. Pensiamo al risuonare di una nota in un brano musicale; in certo senso potremmo dire che ad essere presente sensibilmente è soltanto un certo picco di frequenza determinato, una ‘sezione istantanea’ della durata di una nota, ma è chiaro che non così si dà il fenomeno in questione: la nota viene percepita come un’unità diacronica unitariamente connessa con il suo ‘immediato passato’ e presagente un immediato sviluppo futuro. La nota che sentiamo ha in sé come ‘riverbero’ una coda data dalle note precedenti, che rendono interpretabile in un modo determinato la nota attualmente risonante. Così come durante una dettatura siamo in grado di ‘sentir risuonare’ le parole appena dettate dopo che esse sono state di fatto emesse e sulla scorta di questo ‘risuonare’ possiamo di fatto seguire la dettatura trascrivendone le verbalizzazioni, così nell’ascolto di una musica la nota attualmente sensibile è interpretata come appartenente ad una configurazione diacronica la cui parte passata rimane immediatamente a disposizione come ‘parte inabissatasi’ del suono presente. In altri termini il presente percepito è un presente esteso, innanzitutto esteso nella direzione del passato: Husserl chiama ritensione questa propaggine appena trascorsa dell’evento percettivamente in atto. Le ritensioni non sono propriamente eventi passati,

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ma si danno come premessa consaputa dell’istante presente: le ritensioni dunque sono parte costitutiva del presente percepito, anche se non sono più a rigore tematicamente presenti. Quando ho tematicamente presente la terza nota di una canzone mantengo in presenza ritensiva la prima e la seconda nota, il cui decorso danno unità interpretativa alla nota presente in atto.

Il presente, tuttavia, non è solo esteso in modo immanente in direzione del passato, ma anche in direzione del futuro: quando ascolto un brano musicale noto in anticipo senza sforzo volontario le note a venire, le quali, non meno delle note che permangono come ritensione, contribuiscono a definire l’identità di ciò che è attualmente percepito. Queste propaggini immediatamente disponibili in direzione del futuro ed immanenti nell’attualmente avvertito sono chiamate da Husserl protensioni. Bisogna che sia ben chiaro che ritensioni e protensioni di norma operano nell’immanenza del percepire presente senza essere affatto tematizzate come momenti temporali: ci vuole uno sforzo specifico per focalizzare il fatto che l’appena trascorso permane in immediata disponibilità in rapporto al dato sensbile in atto, e parimenti noi ci rendiamo conto del sussistere ubiquo di protensioni immanenti al percepire solo attraverso l’esperienza della sorpresa percettiva: se cammino per strada il decorso sensomotorio dei miei passi si dispiega in una rete di protensioni non tematizzate, ad esempio facendomi attendere la presenza di terreno solido all’impatto del piede nel prossimo passo; se tutto procede in modo normale non divento mai consapevole di aver avuto una ‘aspettativa immanente’ circa il rapporto tra il moto della mia gamba e la natura del terreno su cui cammino, ma se per caso metto un piede in fallo e ciò che pareva terreno solido si rivela essere una profonda pozzanghera, in tal caso e solo in tal caso la valenza della protensione si manifesta, e lo fa nella forma del disappunto, della sorpresa; la sorpresa mi rivela che avevo un’aspettativa, di cui non avrei saputo nulla se tutto fosse andato liscio. - Deve essere parimenti chiaro che le ritensioni non sono ancora passato vero e proprio, né le protensioni sono propriamente futuro. Passato è ciò che viene tematizzato come collocabile in una certa posizione nel succedersi degli eventi, ma le ritensioni operano in modo non tematico; di più, le ritensioni sono ciò che consente di collocare un evento in una certa posizione del succedersi degli eventi e perciò sono precondizioni al costituirsi di ciò che chiamiamo ‘passato’. Allo stesso modo ‘futuro’ propriamente detto è ciò che viene collocato prospetticamente in modo consapevole come evento successivo al passato ed al presente, ma nella protensione tale dimensione tematica consapevole è assente: le protensioni sono un presupposto perché vi sia qualcosa come il ‘futuro’.

Concetti come passato, futuro o oggetto percettivo sono oggetti intenzionali costituiti. La nozione di costituzione è una delle più importanti in ambito fenomenologico e dovremmo provarci a chiarirla. Ogni oggetto intenzionale è costituito dall’intenzionalità che ad esso si dirige; ciò non vuol dire affatto che l’intenzionalità crea gli oggetti intenzionali. Nelle Ricerche Logiche Husserl introduce la nozione di intenzionalità come potere costituente, ma lo fa in un senso statico tale per cui un’entità manifesta stratificazioni di senso che si danno solo per un soggetto che vi si dirige

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intenzionalmente:10 costituzione non è né restituzione realistica di qualcosa di preesistente, né creazione idealistica dell’oggetto. Il senso in cui la coscienza è costituente nella prima fase della riflessione husserliana può essere esemplificato in questo modo: quando vediamo un oggetto con le sue forme e colori, ciò che vediamo non potrebbe darsi nel modo in cui si dà se non per un soggetto dotato di vista; non è che l’oggetto visivo sia creato dagli occhi, ma in un mondo dove tra gli organi di senso non ci fossero occhi non si darebbero in alcun modo oggetti visivi, dunque, potrebbero esserci frequenze di onde elettromagnetiche ma non colori. In questo senso l’oggetto visivo è costituito dal soggetto vedente, ma non è creato, in quanto per costituirlo il vedente deve rivolgersi ad un sostrato sensibile che produce un’affezione nei suoi confronti. Questo livello d’analisi verrà nominato in seguito da Husserl come ‘fenomenologia statica’, in contrasto con una fenomenologia ‘genetica’ di cui diremo tra poco. La fenomenologia statica rivela l’esistenza di oggetti intenzionali e di stratificazioni di senso nell’intenzionalità, tali per cui certi significati possono essere intenzionati solo sulla scorta di altri significati.11 Ad esempio, possiamo individuare qualcosa come un animale solo se siamo anche in grado di individuare oggetti materiali, e possiamo individuare oggetti materiali solo se siamo anche in grado di individuare unità spaziotemporali: dunque l’intenzione rivolta ad unità spaziotemporali fonda l’intenzione rivolta ad oggetti materiali che fonda a sua volta l’intenzione rivolta ad animali. O, con un altro esempio, l’intenzione rivolta ad una radice quadrata è fondata in quella rivolta a divisione/moltiplicazione, che a sua volta è fondata (tra l’altro) in quella capace di rivolgersi a numeri naturali. Questo significa che se siamo in grado di individuare una radice quadra siamo anche in grado di individuare numeri naturali (ma non viceversa). Questa prima nozione di

10 „Fangen wir mit einer Rekapitulation von Husserls vor-transzendentalen Überlegungen zum Konstitutionsbegriff an, die wir in den Logischen Untersuchungen finden können. Dort vertritt Husserl die These, dass unser Gerichtetsein auf einen Gegenstand von konstitutiver Natur ist. Unsere Intentionalität ist zugleich eine Leistung, nämlich ein Aufbau des Objektes in seiner gegenständlichen Identität. Wie wir schon erwähnt haben, blieb die Frage nach der objektiven Wirklichkeit in diesem phänomenologischen Anfangs- und Durchbruchswerk aber ausgeschaltet, weshalb der Konstitutionsbegriff durch eine ontologische Neutralität charakterisiert war. Konstitution besagte weder realistische Restitution noch idealistische Produktion, sondern war einfach eine formale Beschreibung des Aufbaus des intentionalen Objektes.“ (Husserl und die transzendentale Intersubjektivität. Eine Antwort auf die sprachpragmatischeKritik, von Dan Zahavi, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht - Boston - London, 1996, p. 88).11 „Die verschiedenen Formen und Typen des Bewusstseins können schon in der statischen Phänomenologie als stufenmässig zusammengehende Konstitutionsschichten erkannt werden wie etwa die Folge ‚immanente zeitliche Einheiten’ – ‚Phantome’ – Naturdinge – ‚Animalien’. Aber es handelt sich dabei um eine rein statische Schichtung, um eine teleologische Fundierungsordnung, in der die obere Stufe auf der nächst untern aufruht. Das Fundierungsverhältnis besteht korrelativ in den noetischen Bewusstseinsakten und in den noematischen Aktinhalten. Fundiert im Gegensatz zu schlicht gegeben heisst, was wesensmässig unselbständig ist und zu seiner Existenz eines andern bedarf. Das Fundierungsverhältnis ist ein ‚idealgesetzlicher Zusammenhang’, und kein ‚realgesetzlicher’ Kausalnexus, bei dem die untere Stufe die nächsthöhere kausal bzw. motivational hervorbringt. – Den motivationalen Zusammenhängen geht erst die genetische Phänomenologie nacHusserl“ (Holenstein, op. cit., p. 27)

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‘costituzione’ viene tuttavia a complicarsi nel prosieguo della riflessione, in quanto l’oggetto intenzionale si rivela come qualcosa che emerge dallo stratificarsi di vissuti di coscienza; ‘costituzione’ assume ad un certo punto un senso di genesi temporale che prima non era presente: gli strati che fondano non sono semplicemente da considerare come logicamente più comprensivi degli strati fondati, ma come vissuti temporalmente preliminari agli strati fondati. L’idea ora è che non è semplicemente un fatto di struttura logica che non si possa comprendere l’operazione di radice quadrata se non si è compreso il concetto di numero naturale; si tratta ora di dire che l’esperienza concettuale dei numeri naturali deve essersi già data in ordine temporale affinché la nozione di radice quadra diventi accessibile.12 È importante notare ora come il rapporto tra concetto fondato e concetto fondante si presenti differente nel caso di un’analisi fenomenologica statica oppure genetica. In un’analisi statica si procede in modo trascendentale nel senso kantiano del termine: una certa nozione emerge come condizione di possibilità di una certa altra nozione; dunque, per dire, l’esperienza di unità spaziotemporali è condizione di possibilità perché qualcuno possa percepire un corpo vivente. Il nesso analitico procede da un certo dato alle sue condizioni di possibilità e ciò comporta che tale nesso sia di natura necessaria: è impensabile che si possa percepire un gatto senza poter percepire corpi nello spazio e nel tempo. Se però guardiamo a questa stessa relazione dal punto di vista genetico vediamo come il rapporto non sia più necessario, ma ‘motivazionale’: percepire unità spaziotemporali ‘motiva’ in modo generico e non cogente a percepire anche corpi viventi (che rispetto alle mere unità spaziotemporali hanno anche ulteriori qualità specifiche). Con motivazione Husserl intende ogni tipo di relazione ‘causale’ tra contenuti di coscienza;13 un contenuto meno specifico ‘motiva’ l’emergere di un contenuto più specifico, nel senso che genera una via preferenziale all’apprendimento di quel contenuto più specifico, tuttavia il nesso motivazionale non è affatto un nesso necessario. Il nesso motivazionale è

12 „Indem die Phänomenologie der Genesis dem ursprünglichen Werden im Zeitstrom, das selbst ein ursprünglich konstituierendes Werden ist, und den genetisch fungierenden sogenannten ‚Motivationen’ nachgeht, zeigt sie, wie Bewusstsein aus Bewusstsein wird, wie dabei im Werden sich immerfort auch konstitutive Leistung vollzieht, so der Bedingtheitszusammenhang zwischen Motivanten und Motivaten oder der notwendige Übergang von Impression in Retention…“ [Husserl E., Analysen zur passiven Synthesis, p. 340]“13 “Motivation in diesem ersten und allgemeinen, noch durchaus vorläufigen Sinn deckt alle Wirkungszusammenhänge in der ‘Domäne’ der reinen Erlebnisse. (…) Das ‚Weil der Motivation’ (Id II 229) drückt weder eine Naturkausalität aus noch einen logischen Grund. (…) Wichtiger freilich ist noch die Einsicht Husserls, dass in der transzendental reduzierten Sphäre des reinen Bewusstseins der Strom der intentionalen Erlebnisse allein und ausschließlich durch das ‚Weil der Motivation’ geregelt ist. (…) In dieser Kontrastierung von Kausalität und Motivation ist ein Doppeltes gesagt; einmal: Der phänomenologische Begriff des Motives bezieht sich nicht auf die ‚transzendente Realitätssphäre’, sondern allein auf die ‚rein phänomenologische Sphäre’; zum anderen: Der ‚phänomenologische Grundbegriff’ der Motivation gehört nicht allein und nicht einmal vorwiegend in eine Theorie menschlicher Praxis - vielmehr ist er so weit zu denken, dass er nicht nur die Beweggründe lebenspraktischen Verhaltens, sondern alle Beziehungen in der ‚rein phänomenologischen Sphäre’ umfasst, die sich sprachlich durch ein ‚Weil-So’ artikulieren lassen.“ (Rang, op. cit., p. 114-5)

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quello che guida il fare esperienza nel tempo e quindi anche la costituzione temporale (genetica) dei concetti, che appare perciò come un sistema di ‘possibilizzazioni’ (Ermöglichungen): una certa esperienza apre alla possibilità che un'altra esperienza maggiormente qualificata si dia, ma non implica che tale ulteriore livello di esperienza si debba dare.

A questo punto però dobbiamo porci la domanda fondamentale intorno alla temporalità: essa parte da un’osservazione chiave: la successione temporale è qualcosa che si dà soltanto per una coscienza; ora, se la successione temporale si dà soltanto per la coscienza, la coscienza stessa ha una temporalità? Proviamo a chiarire. L’osservazione di partenza è di per sé un enigma: cosa significa dire che successione temporale si dà soltanto per una coscienza? Significa che affinché due eventi possano essere collocati come uno dopo l’altro c’è bisogno di qualcosa che li riconosca come posti uno dopo l’altro, e tale riconoscimento può essere compiuto soltanto da una coscienza. A questo punto è prevedibile che qualcuno possa insorgere chiedendo perché mai non potremmo dire di due eventi temporali qualsiasi che sono in sé e per sé collocati in una certa sequenza: chi potrebbe negare che l’eruzione del vulcano precede di per sé la caduta dei lapilli, a prescindere dalla presenza di alcun essere cosciente? Qui il terreno si fa scivoloso: secondo la nozione di causalità efficiente comunemente adottata è incluso nel concetto di causa che se A causa B, allora A precede B; perciò se l’eruzione causa i lapilli, allora l’eruzione precede i lapilli. Tuttavia partire dalla nozione di causa significa mettere troppa carne al fuoco, innanzitutto in quanto non è chiaro se la nozione di causa debba essere considerata più fondativa, meno fondativa o indipendente rispetto alla nozione di successione temporale. Secondo una visione come quella classica di Hume, la nozione di causa è derivata da quella di successione temporale, e dunque non sarebbe metodologicamente corretto rispondere a problemi relativi alla successione temporale attraverso nessi di natura causale. Restiamo perciò sul piano della natura della successione: due eventi possono essere ordinati temporalmente di per sé, senza riferimento ad una relazione che li connette? Sembra proprio di no: se non siamo in grado di porre in relazione due eventi non possiamo ordinarli. Ma una relazione di ordinamento può essere istituita in senso puramente obiettivo? Se una pietra P1 ne urta una seconda P, lasciando una tacca e ‘poi’ una seconda pietra P2 urta sempre P, lasciandovi un’altra tacca, ed ora guardiamo P, c’è qualcosa che ci racconta dell’ordine degli urti in cui P è stata coinvolta? Abbiamo due tacche, ma non abbiamo niente che ci dica in quale ordine si sono verificate (ovviamente se le tacche sono parzialmente sovrapposte ci sono analisi balistiche che ci permetterebbero di fare inferenze sulla successione delle tacche, ma non è questo il punto). Altrettanto, se lo stesso succedersi di urti fosse stato filmato, potremmo dire che il film conserva in sé l’informazione relativa all’ordine di successione dei due eventi? Niente affatto: il film in un certo istante presente avrà alcune tracce su di sé (impressioni sulla pellicola, ad esempio) e queste tracce possono essere lette come indici di una successione, ma di per sé sono solo tracce simultaneamente sussistenti su di un supporto. Ed ammettiamo pure, sempre in assenza di coscienza, che ci fosse una macchina che faccia girare la pellicola: questo cambierebbe la

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natura dell’informazione ‘registrata’ su di essa? Ora avremmo semplicemente una replica della situazione originaria: per poter stabilire che due eventi che appaiono nella proiezione del film sono in una determinata relazione di successione dovremmo avere qualcosa che li pone in relazione di successione; quando avviene il ‘primo’ evento, il secondo non c’è, quando avviene il secondo il primo non c’è, per porli in ordine di successione ci deve essere qualcosa che li pone in relazione, ma non qualsivoglia relazione (ad esempio essi possono essere in relazione spaziale come tracce in punti diversi della pellicola): essi devono essere posti in relazione temporale. E perché due eventi siano posti in relazione temporale è necessario che qualcosa mantenga la consapevolezza di un evento come passato mentre ne percepisce un altro come presente: non c’è modo di evitare il riferimento a termini che implicano coscienza. In termini obiettivistici il passato non esiste: esso è semplicemente il supposto antecedente causale della datità presente, ma di per sé il passato non ha alcun grado di esistenza, in quanto non ‘sta da nessuna parte.’ In termini obiettivistici essere ed essere presente sono sinonimi.

Questo tema viene dapprima esaminato da Husserl sulla scorta di alcune analisi di Alexius Meinong secondo cui ‘una successione di presenze non è ancora la presenza di una successione’; il che vuol dire appunto che un presente + un presente + un presente non fa una successione, in quanto ci vuole un’istanza (per Meinong un presente) in cui la successione come tale si dia tutta quanta. Secondo Meinong ciò può essere ottenuto solo se una coscienza sintetizza passato e futuro in un istante presente. Husserl contesta quest’ultimo punto sulla scorta della suddetta analisi della temporalità immanente, con il fungere di ritensioni e protensioni: la coscienza non va concepita come un presente istantaneo, ma è essa stessa un’unità mobile; ogni istante è già sempre collocato per la coscienza in una sequenza attraverso un continuum di nessi con l’immediatamente passato e l’immediatamente atteso. Intendere la coscienza percettiva come presente vivente, che conserva in validità le ritensioni e si protende verso l’immediato a venire, consente effettivamente di fare un passo decisivo rispetto all’impostazione di Meinong, in cui rimaneva oscuro come la coscienza presente potesse porre la successione temporale come tale; in effetti, se la coscienza fosse semplicemente un ulteriore evento esistente in quanto presente, essa non avrebbe una condizione diversa da quella della pellicola su cui gli eventi succedutisi possono anche aver lasciato tracce, ma non perciò determinano un ordine temporale. La chiave di tutto è il fatto che la coscienza è vivente e che il presente che essa pone è appunto un presente vivente, non un punto-istante.

I termini ‘vita’ e ‘vivente’ giocano un ruolo di grandissima importanza nella concettualità husserliana, pur non assurgendo mai a veri e proprio termini tecnici. Su ciò ritorneremo, ma va subito notato che il riferimento alla vita va inteso da un lato in un senso tecnico, legato proprio alla natura costitutivamente ritentivo-protensiva della coscienza: la coscienza può porre successioni perché non è registrazione passiva, ma perché conserva ciò che per essa era saliente ed ha aspettative intorno a ciò che si verificherà; in altri termini, la coscienza pone un presente vivente in

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quanto ciò che si manifesta sensibilmente ha importanza per un essere che preferisce e differisce, desidera e conserva. Dall’altro lato, però, la vitalità del presente vivente come la ‘vita’ menzionata nell’espressione mondo-della-vita, dicono qualcosa di più e di solo parzialmente determinato: si tratta di un fattore generativo che ciascuno esperisce in prima persona e che non è semplice afferrare concettualmente in modo esaustivo.

Ora, però, una volta compreso, almeno parzialmente, in che senso la coscienza è indispensabile alla determinazione della successione temporale, dobbiamo porci la domanda che ne segue, e cioè: la coscienza ‘temporizzante’, quella che tiene in relazione vivente gli eventi e che perciò consente che essi appaiono secondo il prima ed il dopo, è essa stessa un evento temporale? E nei termini precipui dell’analisi husserliana: la relazione tra presente sensibile, ritensioni e protensioni è una relazione che avviene nel tempo? Di primo acchito, sul piano strettamente logico, sembra che ciò non sia ammissibile: se la coscienza che pone la successione temporale fosse temporale essa stessa avremmo gli estremi per un regressus ad infinitum. Infatti è chiaro che se la coscienza temporizzante viene considerata come una sequenza che si dispiega nel tempo, ciò può essere vero solo se c’è un’ulteriore coscienza per la quale gli atti della prima coscienza compaiono come successione di eventi, e così via ad infinitum.14

Tuttavia, anche asserire che la coscienza temporizzante non si dispiega nel tempo risulta problematico, non fosse altro perché i singoli eventi che vengono posti in successione dalla coscienza sono essi stessi oggetti della coscienza: se percepisco A dopo B dopo C, A, B e C sono oggetti per la coscienza percipiente e porli come temporali in quanto eventi reali, ma come intemporali in quanto eventi di coscienza sembra altamente controintuitivo. Husserl tenta una prima soluzione distinguendo due modalità di intenzionalità ritenzionale, la prima, detta intenzionalità trasversa è rivolta agli oggetti come costanti al variare dei modi di datità, la seconda, detta intenzionalità orizzontale è rivolta ai modi di datità degli oggetti.15 In altri termini, l’intenzionalità trasversa si rivolgerebbe

14 “Husserl makes a plea for the non-temporality of absolute time-consciousness in this text. The stream of absolute consciousness is itself not a process. Absolute consciousness is itself non-temporal (Hua X, 333). - Many interpreters have pointed to the importance of Husserl’s position in this text. The reason put forth in the literature for Husserl’s assertion that absolute time-consciousness is itself not of a temporal nature is that he would face a serious problem if he had insisted on the temporality of absolute time-consciousness. The problem is that of an impending infinite regress. In absolute consciousness, immanent objects are constituted as unities in immanent time. If absolute consciousness itself is also of a temporal nature, this seems to presuppose a new consciousness in which the unity of absolute consciousness is constituted. For this new consciousness, the same would be true, and so on ad infinitum.” (Phenomenology of Time. Edmund Husserl’s Analysis of Time-Consciousness, by Toine Kortooms, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht/Boston/London 2002, p. 98-9)15 “In his attempt to make this notion of self-constitution intelligible, Husserl distinguishes two forms of retentional intentionality at work in the stream of consciousness, namely retentional transverse intentionality and retentional horizontal intentionality (Hua X, 380). The transverse intentionality plays a role in the constitution of immanent temporal objects of the stream of consciousness, for example, a sensation-tone. The horizontal intentionality, so to speak, goes with the flow of the stream. It underlies the constitution of the stream of absolute consciousness itself as an immanent temporal object. In other words, the

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all’oggetto percettivo, ad esempio alla visione di una sedia e la conserverebbe come la medesima sedia al succedersi dei suoi modi di darsi, l’intenzionalità orizzontale si rivolgerebbe ai modi di darsi, agli adombramenti della sedia, e ne rileverebbe il succedersi. L’intenzionalità orizzontale consentirebbe alla coscienza di essere cosciente di se stessa come temporale. Non ci soffermiamo tuttavia ad analizzare questa soluzione perché essa verrà abbandonata da Husserl. Anche se la distinzione tra queste due forme di intenzionalità viene lasciata cadere, qualcosa di implicito nel tentativo di introdurre tale distinzione rimane e crea la via per definire una soluzione. Per poter asserire che la coscienza temporizzante non si dispiega nel tempo Husserl ritiene per un certo periodo di dover sostenere che la coscienza in questione è essa stessa inconscia, giacché se fosse conscia sembra inevitabile dover affermare che ciò che si dispiega in essa si svolga in successione (introducendo un regresso ad infinitum). In effetti Husserl comprende come a porre gli eventi in successione sia la loro tematizzazione: solo nel momento in cui prendo coscienza di una serie di eventi (posti nel mondo o posti all’interno della coscienza), solo allora essi si configurano in un ordine di successione. Tuttavia questo atto intenzionale tematizzante non crea l’ordine, ma riconosce l’ordine che si è costituito nel gioco di ritensioni e protensioni. Quando la ritensione si delinea noi non ne siamo tematicamente consapevoli, e peraltro se non ci rivolgiamo mai ad essa non diveniamo neppure mai consapevoli del suo posizionamento ‘passato’: la condizione enigmatica della coscienza temporizzante è data dall’essere composta di due momenti, uno che costituisce l’associazione originaria (Urassoziation) e che, in termini freudiani, diremmo non essere inconscio ma preconscio, ed un secondo momento tematizzante che porta il preconscio a coscienza. Per Husserl rimane a lungo enigmatico come la costituzione della scansione temporizzante originaria attraverso protensioni e ritensioni sia in qualche modo al tempo stesso conscia ed inconscia: non può essere propriamente conscia perché altrimenti abbisognerebbe di una coscienza ulteriore che la rendesse tale, introducendo un regresso infinito, ma non può essere neppure inconscia, perché altrimenti non ne sapremmo nulla e non potremmo utilizzarla per ordinare gli eventi. Non vale a nulla dire (il che è certamente vero, ma inesplicato) che noi possiamo rivolgerci alla ritensione e recuperarla a coscienza tematizzandola, giacché per poter svolgere un’operazione del genere noi dobbiamo in qualche modo sapere che la ritensione c’è e come possiamo recuperarla, dunque non possiamo ammettere che la ritensione era davvero inconscia. La chiave interpretativa gli si offre nel momento in cui, analizzando le ritensioni scopre che una transverse intentionality is the intentionality that ensures that one and the same immanent temporal object is given in the successive modes of givenness in the stream of absolute consciousness, and the horizontal intentionality is the intentionality that ensures that these successive modes of givenness themselves are retained. On the basis of this latter intentionality, every mode of givenness may appear itself, and the succession of the modes of givenness can appear as a temporal unity. The distinction between these two forms of retentional intentionality allows Husserl to draw the conclusion that the stream of absolute consciousness in which immanent temporal objects are constituted is of such a nature that, in it, an appearance of this stream itself is possible. The self-appearance of the stream does not require a new underlying stream, ‘on the contrary, it constitutes itself as a phenomenon in itself’ (Hua X, 381).” (Kortooms, op. cit., p. 100-101)

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ritensione può essere recuperata in modo passivo: una nota che risuona in lontananza ad un volume troppo flebile per attrarre la mia attenzione può d’un tratto entrare nella coscienza come nota che perdurava (dunque come ritensione) nel momento in cui un aumento di volume la rende saliente. Questo significa che esiste una modalità di associazione passiva che costituisce la base per un recupero attivo della ritensione, senza bisogno che il contenuto della ritensione fosse preliminarmente disponibile alla coscienza. A questo punto il quadro diventa più chiaro: in ogni atto di coscienza il soggetto è tematicamente cosciente del proprio oggetto ed ‘al tempo stesso’ è consapevole in modo non tematico dei propri atti, il che fornisce la continuità proto-temporale tra ritensioni e protensioni. Questo significa che, come avevamo anticipato, la successione temporale è prodotta dalla coscienza, ma non è prodotta dall’io. Al contrario l’io come capacità di rivolgersi riflessivamente ai propri stessi vissuti, come egoità riflettente, è un prodotto del funzionamento della coscienza temporizzante originaria. Perciò la successione temporale, pur essendo letteralmente prodotta dalla coscienza non è in alcun modo a disposizione degli atti volontari dell’io; che la temporalità possa esistere solo per una coscienza non significa in alcun modo che la temporalità sia una creazione del soggetto: il soggetto è a sua volta un costituito nel continuum proto-temporale della coscienza e del suo presente vivente. Noi possiamo riflettere in quanto abbiamo acquisito la capacità di rivolgerci alle nostre ritensioni (e catene di ritensioni) tematizzandole, che è ciò che chiamiamo riflessione. Una volta tematizzate, le ritensioni sono riconosciute come collocate in un certo ordine rispetto al presente e questo è ciò che chiamiamo passato. Un discorso affine, ma per alcuni versi più complesso è da fare per le protensioni: anche in questo caso la tematizzazione di ciò che si dà immanentemente come protensione costituisce ciò che chiamiamo futuro. Alcune cose sono rimaste però in sospeso e le tratteremo a seguire: in primo luogo non è ben chiaro qual è il rapporto tra ritensioni e protensioni e qual è dunque il contenuto proprio delle une e delle altre (e di conseguenza di passato e futuro). In secondo luogo non è chiaro cosa vuol precisamente dire ‘tematizzazione’; possiamo usare come suo sinonimo ‘obiettivazione’, ma questo non ci porta molto avanti: perché passato e futuro si costituiscano in senso proprio ritensioni e protensioni devono essere obiettivate, ma cosa significa obiettivare? In terzo luogo dovremo provarci a chiarire, almeno a grandi linee, in che senso possiamo davvero pensare che la successione temporale dipende dalla coscienza, visto che ciò sembra destabilizzare la nostra intera visione del mondo fisico.

Cominciamo dal rapporto tra ritensioni e protensioni. Secondo Husserl le ritensioni motivano le protensioni. Di primo acchito è semplice capire cosa si intende: il contenuto delle protensioni non può che derivare da ciò che è stato esperito, cioè dai vissuti (Erlebnisse) ‘ritenuti’ nelle ritensioni.16 Questo ci introduce ad alcuni concetti sottili, ma 16 “In ‘Appendix I,’ Husserl speaks of retention as the motivation for protention (Hua XXXIII, 18). He even refers to protention as an inverted retention (Hua XXXIII, 17). - If these two claims are combined, they raise a question concerning the beginning of the process of constitution of time. At the beginning of such a process, retentions of already past phases of the process are lacking. Consequently, protentions are also lacking. This, in

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importantissimi: le ritensioni non hanno direzione intenzionale, ma sono ciò che fornisce il contenuto dell’intenzionalità; in questo senso le ritensioni costituiscono la matrice di ciò che Husserl chiamerà ‘sintesi passiva’ e che rappresenta il processo di costituzione primario di tutti i contenuti della coscienza intenzionale oltre che della soggettività stessa. Nonostante l’apparenza protensioni e ritensioni non sono processi simmetrici: mentre la ritensione non ha alcuna direzione intenzionale, la protensione ce l’ha: essa ricerca riempimento intenzionale in contenuti ritensionali. Questo però ci porta a chiederci qual sia la natura propria della protensione in senso originario, cioè, idealmente, prima che la prima sequenza ritensiva si sia sedimentata. La protensione in questo senso appare come il motore della temporalità in quanto si dirige già sempre in una ‘direzione’ priva di contenuto, nella direzione della ‘finalità’, del futuro in quanto luogo ideale delle aspettative. La protensione, nella misura in cui è già informata dalla ritensione, attende un riempimento che è innanzitutto di natura percettiva; tuttavia, ad un livello di complessità superiore, la protensione è anche ciò che ricerca riempimento intenzionale come recupero di ricordo. Nonostante il concetto di intenzionalità della coscienza e quello di protensione non siano concetti sovrapponibili, in quanto hanno un uso descrittivo diverso è anche chiaro che le protensioni sono un antecedente genetico dell’intenzionalità in generale. La nozione di intenzionalità si dimostra progressivamente nell’analisi di Husserl come qualcosa che ha essa stessa una fase di costituzione, in cui la scansione proto-temporale di ritensioni e protensioni rappresentano il momento costituente originario. Le protensioni, in effetti, non possono essere motivate in senso stretto solo dal contenuto ritentivo, in quanto oltre al contenuto dobbiamo indicare la tendenza immanente alla protensione stessa, la tendenza ‘teleologica’ che possiamo supporre disponibile anche per la ‘prima’ protensione, prima che un qualunque contenuto si sia strutturato ritensivamente. Questa tendenza è appunto la ‘vita’, l’essere proteso-a, l’essere-alla-ricerca-di, l’essere bisognoso e desiderante anche in assenza di alcuna intuizione circa quale contenuto si possa rivelare appagante. In effetti in quest’ottica possiamo anche capire quella cosa altrimenti enigmatica che è la ‘selettività’ della dimensione ritensiva: non tutto ciò che si dà sensibilmente viene a costituire contenuto di ritensione (e poi di una sequenze di ritensioni, di abiti); ma questo significa che la ritensione non è mero accumulo di datità sensoriali, ma è assimilazione di unità sensoriali in quanto appaiono come direzionate, essendo organizzabili secondo ordinamenti dotati di senso. Per esprimere questo punto nel vecchio linguaggio della psicologia associativa, la

turn, means that primally presenting consciousness cannot yet occur either. (…) In the light of this state of affairs, the presupposition of a primal succession of hyletic data, which occur and are subject to original modification (Hua XXXIII, 13), is inevitable. One has to assume a hyletic process in the primal stream without the constitution of time yet taking place. Original retentional modifications, on the basis of which protentional directedness subsequently has been brought about, can an actual process of time-constitution come into action. This process, of course, need not be an attentive, grasping one. Husserl himself raises the question to what extent the initial retentional modification is already a real retentional consciousness (…). The beginning of the hyletic process is in a peculiar sense ‘unconscious’ (Hua XXXIII, 17).” (Kortooms, op. cit., p. 179)

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ritensione trattiene innanzitutto ciò che viene ‘rinforzato’ da un appagamento successivo, e tale appagamento dipende dal soddisfacimento di protensioni che originariamente sono del tutto vuote. Questo gioco di rimando continuato tra protensione e ritensione è il presente vivente che unifica originariamente l’esperienza e costituisce la temporalità ed ogni contenuto intenzionale.17 Questo ci conduce alle porte della questione fondamentale da cui eravamo partiti, cioè la dipendenza della temporalità dalla coscienza: da quanto detto emerge che temporalità può darsi solo per una coscienza in quanto solo una coscienza è dotata di una dimensione ‘teleologica’, di una ‘spinta verso il futuro’. Obiettivisticamente la nozione stessa di una pulsione in direzione del futuro, di ciò che non esiste in nessuna forma, è quanto di più misterioso. Proviamo a pensarlo in senso biologico: cosa significa che un organismo avverte-il-bisogno-di? Se ha già avuto un’esperienza di appagamento possiamo supporre che avverta il bisogno di qualcosa di cui trattiene traccia mestica, tuttavia anche in tal caso qualcosa manca nel quadro, giacché desiderare qualcosa, aver bisogno di qualcosa non equivale semplicemente ad uno stato chimico che all’occorrenza è predisposto a raggiungere un certo equilibrio attraverso la congiunzione con un ‘complemento’: in un vivente l’equilibrio è ricercato, voluto, bramato, desiderato, e quando emerge è esperito come appagante, soddisfacente. Il di più che c’è in questo quadro e che sfugge ad ogni resoconto in terza persona è dato dalla pulsione senziente nei confronti degli stati che si succedono. Il vivente, si può dire, ha cura di sé e modifica se stesso (ad es. si muove) in vista di un appagamento. Nei C-Manuskripte Husserl nomina questa funzione come ‘autoaffezione della coscienza’.18 Qui

17 „die Funktionsgegenwart bleibt stetig anonym, weil sie immer dem Blick vorausliegt; sie ist in aller reflexiven Selbstgegenwart proteniert, ohne dass diese Protention jemals in urimpressionale Gegebenheit überginge. Die wesenhafte Unbekanntheit des Zukünftigen, die noch in jedem anderen Konstitutionszusammenhang potentiell als typische Vorbekanntheit erfahren werden konnte, diese Unbekanntheit ist am reflexiv protenierten ‚Ich fungiere’ unaufhebbar. (…) Das präsentierende Ich drängt aber darauf, Unbekanntes seines Zukunftshorizontes in gegenständliche Impressionalhabe zu verwandeln. So befindet es sich in dauernder Selbstkonstitution. Diese ist der teleologische Prozeß der Vereinheitlichung des intentionalen Lebens selbst; denn Konstitution heißt Zeitigung durch Gegenwärtigung von Einheiten. Nicht nur die Welterfahrung, sondern auch die Selbsterfahrung hat also als ‚Streben’ nach Vereinheitlichung eine elementare teleologische Struktur. (…) In diesem Sinne fragt sich Husserl (und bejaht diese Frage) ‚Dürfen oder müssen wir nicht eine universale Triebintentionalität voraussetzen, die jede urtümliche Gegenwart als stehende Zeitigung einheitlich ausmacht und konkret von Gegenwart zu Gegenwart forttreibt, derart dass aller [gegenständliche] Inhalt Inhalt von Trieberfüllung ist und vor dem Ziel [= der Urpräsentation] intendiert ist…’. (…) Es folgt weiterhin: Die radikalisierte Reflexion auf die Urgegenwart des letztfungierenden Ich drängt teleologisch darauf, auch diese ichliche Gegenwart als gegenständliche Einheit vor ihr ‚Schauen und Fassen’ zu bringen und dadurch die letztmögliche Vereinheitlichung des intentionalen Lebens erfahrbar zu machen. Das Gelingen dieses Vorhabens würde aber die Teleologie selbst, den Motor der Protentionalität, zum Stillstand bringen.“ (Lebendige Gegenwart, von Klaus Held, Martinus Nijhoff, Den Haag 1966, p.132-3)18 “Husserl’s description of the structure of inner time-consciousness, his analysis of the primary-showing-together-with-retention-and-protention (…) is an analysis of the structure of the pre-reflective self-manifestation of our acts and experiences. Thus, Husserl’s position is relatively unequivocal. (…) Is it possible to specify the nature of this primary self-manifestation, this absolute experiencing, any further? The terminology used, and the fact

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è proprio la natura del vivente in quanto senziente ad essere decisiva: ben prima di essere auto-cosciente il ‘proto-soggetto’ avverte se stesso e l’interazione tra le proprie iniziative sensomotorie ed il mondo-ambiente (Um-welt) come continuamente pertinente a sé ed ‘importante’, ‘interessante’, ‘vitale’. Questa condizione di vivente-senziente genera ‘protensioni vuote’, o, se vogliamo, bisogni vivamente sentiti che non sanno di cosa hanno bisogno: questa è la cellula generativa irriducibile del futuro. Il futuro è qualcosa che non sta da nessuna parte ed in questo senso non può essere legittimamente concepito come obiettivato. (In questo senso è una sciocchezza il modo in cui il futuro viene spesso concettualizzato nell’ambito della riflessioni della tradizione analitica, cioè come una disgiunzione di mondi possibili: in questo modo si crea l’illusione che il futuro se ne stia da qualche parte in forma di mondo possibile nel cui novero l’atto presente dovrebbe semplicemente sceglierne uno. Questa concettualizzazione fuorviante è all’origine di numerosi paradossi legati alla verità di eventi futuri.) La dimensione protensiva, che sta all’origine del futuro, è ciò che fa della ritensione qualcosa più di una ‘registrazione’: la ritensione trattiene ‘in-vista-di’.

A questo punto è giunto il momento di tentar di affrontare il punto iniziale, intorno al rapporto tra temporalità della coscienza e temporalità ‘in sé’. Dobbiamo dire subito che si tratta di un punto non compiutamente risolto nella riflessione husserliana. Ciò che Husserl ci dice è che la temporalità in sé, in quanto temporalità obiettiva del passato e del futuro, emerge come tematizzazione (obiettivazione) del decorso ‘proto-temporale’ rappresentato dal continuum di ritensioni e protensioni. Il punto metafisicamente problematico tuttavia viene lasciato (comprensibilmente) inevaso: che dire della successione temporale primaria? Una volta compreso che la scansione proto-temporale di protensioni e ritensioni non è in alcun modo nei poteri dell’io, ma al contrario è un presupposto perché l’io cosciente e riflettente emerga, questo non ci dice ancora quale sia il rapporto tra la coscienza primaria per-riflessa (protensioni e ritensioni) e la temporalità in sé e per sé. Il dubbio sollevato in precedenza sulla base del funzionamento della causalità rimane in piedi: se, come sembra, dobbiamo concludere che la temporalità in sé dipende dal continuum di coscienza delineato dal presente vivente di ritensioni e protensioni, non sembra affatto chiaro come dobbiamo regolarci con tutte le relazioni ontologiche consuete, basate su rapporti causali. Con l’esempio di cui sopra: non sembra certo dipendere dalla coscienza che i lapilli cadano dopo l’eruzione. Qui però le cose si fanno davvero intricate, intricate al punto che una loro trattazione in questi limiti sarebbe decisamente inopportuna. Tuttavia, per non lasciare la questione del tutto inevasa, possiamo formulare questo breve ragionamento:

that we are confronted with an unthematic, implicit, immediate, and passive occurrence, which is by no means initiated, regulated or controlled by the ego, suggests that we are dealing with a type of passive self-affection. This interpretation is occasionally adopted by Husserl, for instance, in the manuscript C 10 (1931), where he speaks of self-affection as an essential, pervasive, and necessary feature of the functioning ego, and in the manuscript C 16, where he adds that I am ceaselessly (unaufhörlich) affected by myself.” (Self-Awareness and Alterity. A Phenomenological Investigation, by Dan Zahavi, Northwestern University Press, Illinois, 1999. p. 71)

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la coscienza come presupposto all’ordinamento secondo il prima ed il dopo chiaramente non ha alcun potere causale nei confronti degli eventi dell’universo nel loro complesso (quantomeno, nulla di come i fenomeni si manifestano alla coscienza suggerisce un tale potere); ora però la questione diventa: dobbiamo ritenere che l’ordinamento proprio della causalità efficiente sia coincidente con la scansione temporale per puro accidente? Questa armonia prestabilita suona di primo acchito improbabile, così improbabile da richiedere ipotesi alternative. Una prima ipotesi alternativa potrebbe constare di una riconduzione della temporalità alla causalità, dunque, se la temporalità in effetti dipende dalla coscienza, dovrebbe constare di una riconduzione della coscienza alla causalità: protensioni e ritensioni pongono l’ordine che pongono perché questo è l’ordine universale della causalità. Questa ipotesi però ha molti problemi di fondo, a partire dal problema esposto sin dall’inizio dalla fenomenologia: le relazioni obiettive, tutte le relazioni obiettive, inclusa la causalità, non possono essere trattate come se potessero sussistere indipendentemente dalla coscienza. Ci sono a proposito molti argomenti che mostrano come una determinazione della nozione di causalità esiga un riferimento alla nozione di azione soggettiva (vedi Georg von Wright). C’è però almeno un’altra ipotesi da prendere in considerazione, un’ipotesi metafisicamente più ardita e le cui condizioni di verifica-falsifica non sono ovvie da concepire, ma al tempo stesso un’ipotesi compatibile con molte delle cose che sappiamo, sia sul piano fenomenologico che fisico. Potremmo immaginare che le relazioni che noi chiamiamo ‘causalità efficiente’ siano semplicemente il sottinsieme, compatibile con la scansione temporale determinata dalla coscienza, di un insieme di relazioni di ‘influenza’ (causali in un senso non direzionato), tale per cui non sia sempre solo il caso che l’antecedente modifichi il conseguente. Per come la nostra coscienza esiste, porre le condizioni per una verifica di relazioni causali inverse (dal futuro al passato) sembra impossibile in quanto concettualmente non organizzabile; ciò non toglie che situazioni in cui episodicamente ed in modo non controllabile la relazione causale manifesta apparenti inversioni si danno sul piano della microfisica quantistica. Questo ovviamente non è ancora sufficiente a presentare una teoria completa del rapporto tra causazione e temporalità, tuttavia rende quantomeno possibile ‘farsi un’immagine’ di una situazione in cui la temporalità è a tutti gli effetti un prodotto della coscienza, senza che ciò implichi né una riduzione della temporalità a causazione, né un armonia prestabilita tra direzione causale e direzione temporale, né un riduzione idealista della causalità a prodotto della coscienza.

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SEZIONE IV

In precedenza abbiamo sollevato il problema della natura dell’oggettività e dell’obiettivazione. Nell’esposizione noi preferiamo distinguere oggettività (oggettivazione) da obiettivazione in un modo che non ha un riscontro esplicito nel senso husserliano, pur essendo coerente con quanto lui dice: ‘oggettività’ segnala la validità di qualcosa a prescindere da quale singolo soggetto sia cosciente di esso; in questo senso la nozione di oggettività è affine a quelle di verità e realtà. Per obiettivazione intendiamo il processo con cui qualcosa è posto come oggetto, è ‘cosalizzato’, reificato, considerato come se fosse una cosa presente al soggetto, distinta dal soggetto e circoscrivibile da esso. Mentre è vero che ogni cosa obiettivata ha anche validità oggettiva, non è vero che per avere validità oggettiva qualcosa deve essere obiettivato: possiamo parlare del dolore o della rabbia, intenderci su tali concetti e rappresentarli come oggettivamente validi, senza che essi debbano mai darsi od essere concepiti come ‘cose’.

Come la tematica della temporalità, anche quella dell’oggettività scaturisce da un’analisi della percezione. Come abbiamo visto il riconoscimento di un oggetto percettivo esige che esso sia considerato sempre come un’unità di qualità e parti adombrate, ma non presenti, che si dispiegano idealmente nel tempo per un’esplorazione sensomotoria: la casa che vedo è insieme la datità sensibile focalizzata di un’area limitata del campo visivo (es.: parte di una facciata), la datità sensibile sfocata di un’area ampia del campo visivo (es.: tutta la facciata ed i giochi di luce che suggeriscono la profondità dietro alla facciata), e poi la totalità delle altre parti e qualità che sappiamo apparirebbero se potessimo muoverci attorno e dentro la casa in tutti modi possibili (adombramenti). Ora però il riferimento alla dimensione ideale (mai davvero esperibile) di tutti i possibili adombramenti di un oggetto ci indica una direzione d’indagine finora trascurata: nel momento in cui noi percepiamo un oggetto in quanto tale, noi vi conferiamo un carattere essenziale di alterità, o, come Husserl si esprime, di trascendenza. La trascendenza dell’oggetto nei termini di Husserl indica la sua esistenza al di là delle esperienze immanenti al soggetto: l’oggetto percepito si dà come trascendente, nel senso che si dà come esistente oltre (trans) i limiti della soggettività a cui si dà. L’oggetto è concepito come esistente in sé e persistente anche se io non ne ho percezione in atto. Il problema di fronte a cui Husserl si pone è il medesimo tradizionalmente discusso da Berkeley: qualcosa è in senso fondamentale soltanto se è percepito da qualcuno (esse est percipi); ma allora cosa ci fa dire che la mia scrivania nello studio ora chiuso e buio continua ad esistere? La risposta di Berkeley (del vescovo Berkeley) fu notoriamente la seguente: la scrivania, così come l’albero che ora cade in una foresta disabitata, esistono in quanto, pur non essendo esperiti in atto da nessun soggetto umano sono sempre percepiti da Dio, che perciò è il soggetto assoluto per cui tutte le cose continuano ad esistere come sostanze in sé sussistenti. Ora, se consideriamo il riferimento a Dio quanto al suo contenuto gnoseologico, e non per le sue connotazioni religiose, dobbiamo dire che ciò che Berkeley chiama Dio,

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essenzialmente corrisponde alla totalità degli sguardi soggettivi possibili sul mondo.19 Questa totalità è chiaramente una totalità ideale, un’infinità assunta come tale al di là di ogni proiezione realistica: quando noi pensiamo a qualcosa che nell’universo esiste in sé, anche se nessuno ha ancora poggiato l’occhio su di esso, noi stiamo concependo quella cosa come l’insieme di tutte le possibili esperienze che idealmente dei soggetti potrebbero trarne. Lati nascosti, struttura interna, relazioni implicite vengono tutti considerati esistenti in sé se supponiamo (implicitamente) che essi potrebbero essere portati alla luce da un soggetto collocato rispetto a quell’entità in modo adeguato. Ciò vale per ciascun oggetto nel mondo e per il mondo come totalità universale. Ogni entità ritenuta reale e non evidente in presenza è costitutivamente concepita come potenzialmente data per una pluralità infinita di soggetti. Si noti di passaggio che un solo soggetto, sia pure cognitivamente onnipotente (Dio), non sarebbe sufficiente a questa visione, in quanto le componenti latenti o assenti del reale si danno come accessibili simultaneamente per infiniti punti di vista, mentre la nostra concezione tradizionale della deità la rappresenta come un’unità personale, una persona, e non come una pluralità di persone, cui sola può corrispondere una disponibilità simultanea di più punti di vista. Vediamo così come nella nostra ordinaria percezione di oggetti sia implicito non solo un riferimento ad una temporalità costituente, ma anche ad un’intersoggettività costituente.

Il problema a questo punto tuttavia è: se dobbiamo ricondurre l’oggettività ad una validità intersoggettiva ideale, come dobbiamo concepire il costituirsi di tale intersoggettività che opera immanentemente in ciascun soggetto? In altri termini, siccome ciascuno di noi percepisce oggetti reali (entità trascendenti) anche da solo, senza altri soggetti presenti, è chiaro che la soggettività per cui soggetti si danno ha in sé una dimensione intersoggettiva. Tuttavia capire come tale dimensione intersoggettiva sia emersa è un altro problema che Husserl non risolve in maniera del tutto compiuta e soddisfacente. Il punto realmente problematico per Husserl sembra essere il seguente: se per percepire un oggetto in quanto tale io devo avere in me una dimensione intersoggettiva, ciò può accadere in due modi possibili, o ho fatto esperienza di altri soggetti incarnati e per questa via ho costituito (introiettato) una modalità di considerazione intersoggettiva, oppure l’intersoggettività è già sempre componente trascendentale della natura di ciascun soggetto. Ora, Husserl tende ad oscillare tra le due soluzioni, in quanto da un lato sembra chiaro che l’esperienza concreta dell’Altro sia necessaria per sviluppare capacità, come la riflessione verbale, che paiono legate alla valutazione oggettiva; ciò sarebbe compatibile con 19 „Mit anderen Worten, es scheint eine Beziehung auf fremde Subjektivität im Spiel zu sein, wenn von einer Mannigfaltigkeit von ko-existierenden Abschattungen gesprochen wird! Die Unverträglichkeit der ko-existierenden Abschattungen wird durch das Fremdich verträglich; dieses kann nämlich die ko-existierende und mir abwesende Abschattung präsent haben. Die mitgegenwärtigte Abschattung lässt sich also als das noematische Korrelat der Wahrnehmung eines Fremdichs verstehen. (…) Die Auslegung des Horizontes führt uns also dem Anschein nach zum möglichen Anderen, und insofern einer allein nicht genug ist, letztlich zu einer infiniten Pluralität von möglichen Anderen, die Husserl gelegentlich als die offene Intersubjektivität bezeichnet.“ (Husserl und die transzendentale Intersubjektivität. Eine Antwort auf die sprachpragmatische Kritik, by Dan Zahavi, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht - Boston - London, 1996, p. 38-9)

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l’idea di una genesi dell’intersoggettività immanente alla soggettività attraverso un’esperienza costitutente. D’altro canto, però, al fine di porre l’esperienza concreta dell’Altro come costituente è necessario percepire l’altro come reale, trascendente, come un’alterità irriducibile al nostro proprio giudizio e perciò capace di porre la trascendenza degli oggetti come indipendenza dall’essere esperiti da un singolo soggetto.20 Ma questo sembra creare un circolo vizioso: per percepire qualcosa come trascendente devo aver introiettato l’intersoggettività, il che mi rimanda ad un’esperienza dell’altro soggetto come percetto trascendente. (A rigore e per completezza bisognerebbe ricordare che Husserl considera due tipi di trascendenza, una trascendenza primordiale, che non dipende dall’intersoggettività, ed una seconda trascendenza come oggettività, che invece ne dipende. La trascendenza primordiale indica l’esperienza di consapevolezza che ciò che percepiamo ha alterità: se tocco una superficie la avverto come qualcosa che non sono io, che sta al di là di me stesso, anche se però non attribuisco alcuna realtà in sé alle qualità che percepisco, le quali invece possono esistere come tali solo per un’intersoggettività ideale). È per questa ragione che Husserl sembra propendere in molti tra gli ultimi testi per una concezione trascendentale dell’intersoggettività, tale per cui l’intersoggettività fungente nella soggettività non è frutto di esperienza.21

20 „Husserls radikale These lautet nun, dass die Transzendenz der Objektivität auf die Transzendenz des Anderen bzw. auf den eigentümlichen entziehenden Charakter meiner Fremderfahrung konstitutiv zurückbezogen ist. Erst durch die appräsentative Gegebenheit eines fremden Ichs lässt sich etwas konstituieren, das in seinem Geltungsanspruch meine Eigenexistenz transzendiert. (…) Obwohl ein enger Zusammenhang zwischen Intersubjektivität und Wirklichkeit tatsächlich besteht - der übrigens negativ so formuliert werden kann, dass dem, was prinzipiell nicht von Anderen erfahren werden kann, auch nicht Transzendenz und Objektivität zugeschrieben werden kann - erfahre ich doch unter normalen Umständen auch das als wirklich und objektiv, das ich faktisch allein erfahre, und zwar ohne dass der Andere irgendeine Rolle zu spielen scheint. Dies wird implizit sogar von Husserl selbst zugestanden, denn er schreibt, dass die dem Gegenstandssinn verknüpfte Geltungsstruktur des Für-jedermann-erfahrbar-Seins nicht verschwindet, wenn eine universale Pest mich allein gelassen hätte. - Hier muß indessen zwischen zwei Phasen in unserer konkreten Fremderfahrung unterschieden werden, nämlich zwischen unseren ursprünglichen Erfahrungen der Ur-Anderen einerseits, die die Konstitution von Objektivität, Wirklichkeit und Transzendenz permanent ermöglichen, und allen anschließenden Fremderfahrung eben zu spät kommen, um die Konstitution von Objektivität und Transzendenz zu ermöglichen, heißt das nicht, dass sie transzendental gesehen bedeutungslos sind. Sie ermöglichen zwar nicht länger die Konstitution von Geltung, sie können sie aber einlösen. Anders formuliert: Obwohl meine einsame Erfahrung von Baum im Wald eine Erfahrung von einem wirklichen und objektiven Baum ist, sind diese Geltungskomponenten zunächst bloß signitiv gegeben. Erst indem ich erfahre, dass Andere denselben Baum erfahren, wird der objektive Geltungsanspruch meiner Erfahrung intuitiv eingelöst.“ (Ibidem, p. 28-9)21 „<Subjektivität nur in der Intersubjektivität ist, was sie ist: konstitutiv fungierendes Ich> (6/175). Eine Feststellung, die die überraschende Konsequenz nach sich zieht, dass es nicht nur sinnvoll ist, von einer Pluralität transzendentaler Iche zu sprechen, sondern auch notwendig. Und zwar nicht nur, weil eine konstitutive Erklärung der Welt, der Transzendenz und der Objektivität es fordert, sondern weil das transzendentale Ich notwendigerweise kein ‚singular tantum’ ist! (…) Wenn die Intersubjektivität eine Möglichkeitsbedingung des konstitutiven Fungierens ist, wird es natürlich eher unverständlich, wie die Intersubjektivität selbst - Husserls gewöhnlichem Gedankengang gemäß - als Konstituiertes betrachtet werden kann.“ (Ibidem, p. 55)

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Nella Krisis il tema viene affrontato in un modo lievemente eccentrico rispetto alla presente esposizione; Husserl formula dapprima un paradosso tale per cui l’essere soggetto del soggetto (la sua capacità di avere oggetti per sé), se si risolve nella natura intersoggettiva del soggetto pare produrre un paradosso nella misura in cui consideriamo tale natura intersoggettiva un risultato dell’intersoggettività in senso empirico, cioè dell’umanità di fatto: il paradosso suona così:

„Die universale Intersubjektivität, in die sich alle Objektivität, alles überhaupt Seiende auflöst, kann offenbar doch keine andere sein als die Menschheit, die unleugbar selbst ein Teilbestand der Welt ist. Wie soll ein Teilbestand der Welt, ihre menschliche Subjektivität, die ganze Welt konstituieren, nämlich konstituieren als ihr intentionales Gebilde? (…) Der Subjektbestand der Welt verschlingt sozusagen die gesamte Welt und damit sich selbst. Welch ein Widersinn.“22

Avremmo così il controsenso di una parte del mondo (gli esseri umani di fatto) che fonda l’essere stesso del mondo. Rispetto a questa formulazione del paradosso Husserl ha buon gioco a mostrare come l’intersoggettività universale non si manifesta affatto come umanità empirica: il soggetto in quanto funge da corrispettivo intenzionale del mondo come oggetto intenzionato non si sa come membro della specie homo sapiens più di quanto non si sappia come italiano o tedesco; il soggetto costituente è una funzione anonima (Husserl parla di ‘ego anonimo fungente’), che ignora completamente le proprie caratteristiche materiali. Questa considerazione è certamente corretta, ma non risolve integralmente il problema, in quanto l’origine della facoltà (e propensione) soggettiva di considerare il mondo come se fosse costituito come universale esperibilità da parte di ‘tutti i soggetti possibili’, potrebbe ancora essere frutto di esperienze intersoggettive di fatto. Certo, nel parlare di un ‘essere frutto di esperienze di fatto’ non possiamo intendere una semplice riproduzione empiristica dell’esperienza: la soggettività esperisce il reale in modi che non sono mai mero rispecchiamento. Qui in effetti si pone una questione profonda nella teorizzazione husserliana, su cui torneremo fra breve, ovvero l’origine delle unità ideali dell’esperienza. È chiaro che l’intersoggettività immanente all’oggettività percepita ha la natura di un’idea, di un eidos, un’essenza, e dovremmo chiarire come Husserl intende la possibilità di apprendere unità essenziali sulla scorta di esperienze contigenti, ma per ora limitiamoci a ribadire che il problema dell’origine (e della natura) dell’intersoggettività fungente nella soggettività non risulta univocamente chiarita.

Notiamo di passaggio come la posizione che supporta una natura trascendentale dell’intersoggettività fungente, sostenuta in forma esemplare nelle Meditazioni Cartesiane, ma argomentata già in precedenza, è stata oggetto di virulente critiche da parte di molti fenomenologi, tra i quali spiccano Scheler e Merleau-Ponty. La posizione di Husserl non è peraltro del tutto consolidata; egli sostiene anche che l’esperienza materiale dell’altro come Leib, come corpo vivente, sia essenziale per lo strutturarsi

22 Husserl, Krisis, p. 183, § 53 [p. 206 tr. It.].

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intersoggettivo della soggettività singola, tuttavia questa esperienza non sarebbe esperienza diretta dell’altro come soggetto, cioè come potere di porre noi stessi come oggetti. L’unico corpo che si darebbe originariamente come corpo vivente sarebbe il corpo proprio, il corpo vissuto dall’interno e noi saremmo in grado di attribuire all’altro soggettività soltanto attraverso un processo inferenziale. Tale processo inferenziale dipenderebbe dall’esperienza fondamentale del toccante-toccato (esperiente-esperito): il nostro corpo vissuto come esperiente si manifesta talora anche come corpo esperito, corpo-oggetto; se tocco la mia mano sinistra con la mano destra posso esperire il mio corpo al tempo stesso come esperiente e come esperito, e tale esperienza mi metterebbe sulla strada per compiere un ‘appaiamento’ (Paarung) tale per cui al corpo dell’altro verrebbe attribuita soggettività, la capacità di intenzionare oggetti. Tale analisi verrà però efficacemente criticata ad esempio da Max Scheler, per cui l’inferenza dal mio corpo a quello altrui come portatore di soggettività non può basarsi su di una qualche ‘somiglianza’ tra il corpo mio e quello altrui, visto che tale somiglianza sarebbe del tutto implausibile, se escludiamo l’ipotesi inconsistente di un’ubiqua esperienza di sé ed altri allo specchio (infatti, il mio corpo vissuto, in assenza di specchi, non assomiglia affatto ai corpi viventi che vedo nell’ambiente, non si manifesta in forme simili).

Un secondo modo in cui Husserl cerca di argomentare a sostegno dell’idea che l’intuizione della dimensione intersoggettiva trova posto tra i poteri intenzionali del soggetto sulla scorta della sola esperienza soggettiva primordiale (cioè ‘solitaria’, ‘privata’) viene svolta nella Krisis attraverso l’idea di una sintesi temporale: così come nel ricordo noi presentifichiamo esperienze che sono state esperite da noi stessi, ponendo perciò noi stessi come soggetti distanti e distinti dal soggetto fungente che ora siamo, nello stesso modo possiamo accedere all’intersoggettività come spostamento del soggetto che siamo in un’altra collocazione spaziotemporale.23 Anche questo tentativo di soluzione però appare claudicante, giacché il processo di rammemorazione, nella forma in cui noi prendiamo coscienza delle esperienze come qualcosa di attribuibile a noi stessi in un altro tempo e luogo, non è affatto un’esperienza primordiale, se primordiale vuol dire antecedente alla costituzione dell’oggettività (e dunque prima 23 „Wahrnehmung eines Anderen, eines anderen Ich, für sich selbst Ich wie ich selbst. Das wird analogisch verständlich, wenn wir von der transzendentalen Auslegung der Wiedererinnerung her schon verstehen, dass zum Wiedererinnerten, zum Vergangenen (das den Seinssinn einer vergangenen Gegenwart hat), auch ein vergangenes Ich jener Gegenwart gehört, während das wirkliche originale Ich das der aktuellen Präsenz ist, zu der, über das als gegenwärtige Sachsphäre Erscheinende hinaus, auch die Wiedererinnerung als präsentes Erlebnis gehört. Also das aktuelle Ich vollzieht eine Leistung, in der es einen Abwandlungsmodus seiner selbst als seiend (im Modus vergangen) konstituiert. Von hier aus ist zu verfolgen, wie das aktuelle Ich, das strömend ständig gegenwärtige, sich als durch ‚seine’ Vergangenheiten hindurch dauerndes in Selbstzeitigung konstituiert. Ebenso konstituiert das aktuelle Ich, das schon dauernde der dauernden Primordialsphäre, in sich einen Andern als Andern. Die Selbstzeitigung sozusagen durch Ent-Gegenwärtigung (durch Wiedererinnerung) hat ihre Analogie in meiner Ent-Fremdung (Einfühlung als eine Ent-Gegenwärtigung höherer Stufe - die meiner Urpräsenz in eine bloß vergegenwärtigte Urpräsenz). So kommt in mir ein ‚anderes’ Ich zur Seinsgeltung, als kompräsent, und mit seinen Weisen evidenter Bewährung, offenbar ganz anderen als denen einer ‚sinnlichen’ Wahrnehmung.“ (Krisis, p. 188-9, § 54)

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dell’assunzione dello sguardo costituente intersoggettivo). Infatti, per poter effettuare l’operazione di astrazione di noi stessi come soggetti dell’esperienza passata e ‘proiettarla’ analogicamente su altri, dobbiamo aver già un’elaborata capacità riflessiva, inconcepibile senza la capacità di oggettivazione: noi oggettiviamo noi stessi per costruire tale analogia.

Ad ogni modo, qualunque sia l’origine prima della natura intrinsecamente intersoggettiva della soggettività, le sue ripercussioni sull’autointerpretazione del soggetto e sul suo legame con la storia sono massicce. Se mettiamo insieme le due analisi che si sono diramate da un’investigazione dell’oggettività percepita, cioè l’analisi della temporalità e quella dell’intersoggettività, ne discende quasi immediatamente il tema portante della Krisis, cioè la fondamentalità della storia per l’autocomprensione dell’uomo. Se ogni significato, ogni oggetto intenzionale si dà soltanto come 1) una concrezione di sviluppi nel tempo; e 2) un luogo di esplorazione ideale disponibile per un’intersoggettività infinita, ne segue che la Storia universale, come succedersi nel tempo di eventi ed azioni di interesse intersoggettivo, rappresenta il naturale palcoscenico per l’ontologia dell’ultimo Husserl. Tuttavia non tutto è chiaro in questa collocazione della storia; in particolare non è chiaro quali chiavi interpretative possiamo adottare per il dispiegarsi storico, giacché per Husserl è evidente che non possiamo rivolgerci agli eventi storici come se fossero una fonte primaria e diretta di ‘evidenze’. Prima di rivolgerci al tema della storia è necessario chiarire alcuni punti essenziali nella teorizzazione di Husserl, innanzitutto il metodo della descrizione fenomenologica.

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SEZIONE V

Uno dei punti che Husserl ritiene più qualificanti della sua prospettiva filosofica è rappresentato dal metodo che la filosofia deve adottare per investigare la realtà, metodo riassumibile nei due concetti di Epoché e di riduzione trascendentale; le due nozioni, per quanto strettamente correlate ed interdipendenti non coincidono. Diamo introduttivamente una definizione di massima dei due concetti e poi passiamo alla loro illustrazione. Per Epoché Husserl intende una sospensione di giudizio circa la validità (realtà) dei fenomeni, per concentrarsi sul loro modo di darsi. Per ‘riduzione trascendentale (o fenomenologica)’ si intende la riconduzione dei fenomeni come si sono manifestati sotto Epoché alla sfera trascendentale della soggettività costituente.

La nozione di Epoché, che viene introdotta da Husserl a partire dal primo volume di Idee per una fenomenologia pura ed una filosofia fenomenologica (1913), è stata oggetto di molteplici interpretazioni e numerose critiche. Notiamo subito che la collocazione stessa dell’Epoché come metodo della filosofia tout court si pone immediatamente in una posizione enormemente ambiziosa ed altrettanto discutibile. In effetti, è stato detto molte volte che l’impossibilità della filosofia di attestarsi su di un metodo univoco e definitivo è fattore costitutivo del filosofare, in quanto la filosofia è un interrogarsi radicale e fondativo, che non può dare nulla per scontato, né specifiche verità, né specifici metodi. Ora, però, a rigore, anche quanto abbiamo appena detto è una premessa metodologica, una premessa che raccomanda di non commettere certi errori dovuti ad una scarsa radicalità, errori che implicano l’affidarsi a pre-giudizi, in senso letterale. Ed in effetti il metodo filosofico come Husserl lo propone sembra proprio voler sistematizzare questa autocollocazione della filosofia come istanza di radicalità massima. L’Epoché è sospensione del giudizio in un senso molto preciso, dipendente dalla collocazione fondamentale attribuita alla coscienza e alla sua intenzionalità: se, come sappiamo, nessuna realtà si dà se non come oggetto intenzionale, e se ogni realtà cui ci possiamo rivolgere può essere giudicata tale (reale) solo in quanto ci rivolgiamo intenzionalmente ad essa in un certo modo, ne segue che non possiamo considerare la realtà come fonte originaria delle evidenze. Ciò vale per ciò che giudichiamo essere realtà, così come per le relazioni che assumiamo essere determinanti di ciò che è reale, come la causalità e l’appartenenza ad una specifica collocazione nello spazio oggettivo e nel tempo oggettivo. In altri termini, qualunque spiegazione volessimo dare di qualunque cosa, se vuole essere filosoficamente radicale non può utilizzare come explicans entità e relazioni reali (di fatto) in quanto a porli come reali ci deve essere un modo specifico di darsi, che deve essere primariamente riconosciuto e descritto. Questo vuol dire che ogni volta che di fronte ad un enigma filosofico, ad un problema di teoria della conoscenza o di metafisica, si affaccia come soluzione il ricorso ad una relazione posta come reale (causale), questa soluzione deve essere respinta come non originaria. Ciò mette fuori gioco innanzitutto le spiegazioni scientifiche in blocco, che si collocano già in un

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terreno dogmatico di relazioni poste come valide in quanto reali. Esempi tipici di questa tendenza esplicativa sono tutti quei casi in cui di fronte al problema di una determinazione di significato, ad esempio del significato di ‘dolore’, ‘colore’, ‘temporalità’, ‘vita’, ‘realtà’, ‘verità’, ecc., la nostra inclinazione primaria va verso l’addurre spiegazioni in termini fattuali, ricorrendo ad esempio ad ipotesi scientifiche. Ma ciò riguarda non di meno anche domande filosofiche più articolate, come interrogazioni intorno alla natura della conoscenza: la mentalità obiettivistica tende spontaneamente a trasformare ogni problema in un problema naturalistico, da risolvere sul piano dei fatti e delle cause (es.: uno dei massimi biologi italiani insegna ora ‘Fondamenti biologici della conoscenza’, titolo che è un’incarnazione esemplare di ciò che in termini fenomenologici non si deve mai fare: pensare la conoscenza come un fatto in una concatenazione di fatti dimentica che la conoscenza non è mai un fatto, ma una relazione tra una coscienza vissuta in prima persona ed un fatto; in terza persona non ci sono evidenze, riconoscimenti, dubbi, ricerche, ecc.). L’Epoché ci chiede di descrivere qualcosa senza decidere preliminarmente quale parte del fenomeno è vera, o corrisponde alla realtà, e quale invece sarebbe meramente soggettiva. Se vedo un quadro, diciamo la Gioconda, e, richiesto di descrivere filosoficamente l’esperienza, inizio a dire che vedo punti colorati nello spazio, oppure che vedo sensazioni cromatiche unite in configurazioni, ecc., ciò che sto facendo è precisamente l’errore cui l’Epoché vuole porre rimedio. Se però nella mia descrizione io dico di vedere un quadro così e così, ed aggiungo di essere propenso a dire che il quadro che vedo consta di punti colorati nello spazio, questo è già un abbozzo di descrizione filosofica corretta del medesimo evento. Non si tratta di sopprimere od eliminare alcunché, ma si tratta di porre per quanto possibile tutto sul piano della medesima descrizione, senza pre-decidere cosa ha validità e cosa è invece soggettivo od effimero. Questo punto mette anche chiarezza intorno ad uno dei punti più controversi nell’introduzione dell’Epoché: è stato giustamente notato che nessuna conoscenza è ‘pura’, nel senso di essere un mero rispecchiamento privo di curiosità, interesse, pulsioni di qualche genere; in questo senso, si è detto, descrivere i fenomeni sotto Epoché equivarrebbe a falsificarli in quanto sopprimerebbe l’elemento ‘impuro’ dell’interesse. Ma ciò non è vero, nonostante il modo di esprimersi di Husserl sia talvolta poco chiaro: Husserl non dice di lasciare a casa interessi pratici e pulsioni varie, ma dice che l’istanza metodologica dell’Epoché deve sospenderne l’efficacia immediata, descrivendo l’interesse, invece di seguirlo senz’altro. Lo scienziato che cerca la soluzione più elegante al suo problema non deve sbarazzarsi della sua pulsione a formulare la verità nella forma più semplice e maneggevole, ma deve descrivere anche questa pulsione: si tratta di fare un passo indietro rispetto alla sua pratica scientifica, non però di cancellarne delle parti. In questo senso l’Epoché opera sospensivamente innanzitutto nei confronti di ciò che Husserl chiama l’atteggiamento naturale, cioè la nostra disposizione operativa corrente per cui ci rivolgiamo alle cose in quanto utilizzabili cui aderiamo in presa diretta. Sul piano dell’atteggiamento naturale la realtà è già sempre data in modo irriflesso, ed innumerevoli stratificazioni di giudizi

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privi di giustificazione si offrono naturalmente al soggetto. Il fatto stesso di operare riflessivamente nei confronti di ciò che inizialmente si dà in presa diretta richiede una sospensione di giudizio, un’Epoché. Tuttavia l’Epoché non interviene solo rispetto all’atteggiamento naturale, ma anche nei confronti degli atteggiamenti teoretici inadeguatamente radicali, che partono da una pre-decisione intorno a cosa ha reale validità, senza interrogarsi circa la fondazione di tale giudizio. Perciò, oltre a rivolgersi all’atteggiamento naturale, l’Epoché si rivolge verso l’atteggiamento scientifico (così come verso ogni metafisica naturalista, di cui l’atteggiamento scientifico è un modo). Nell’atteggiamento scientifico non c’è un’accettazione irriflessa del reale sulla scorta di interessi vitali prima facie, ma c’è una riflessione che sospende tale validità per sostituirla con un pregiudizio intorno a cosa possa contare come reale: reale è idealmente solo ciò che può esistere come esiste del tutto a prescindere da qualunque relazione con una coscienza. Si noti la differenza rispetto all’esigenza di oggettività husserliana: la ricerca di oggettività è ricerca di qualcosa su cui ci possa essere convergenza di giudizi intersoggettivi e dunque su qualcosa che non dipenda per il suo manifestarsi da una singola specifica coscienza; al contrario l’istanza scientifica esige idealmente che qualcosa si dia in modo tale da poter del tutto prescindere dalla natura della coscienza. Questo è ciò che Husserl chiama obiettivismo e che comporta appunto una reificazione di tutto il reale: il modello di ciò che c’è è la cosa materiale in sé e per sé sussistente.

Una volta applicata all’atteggiamento naturale o a quello scientifico l’Epoché ci pone di fronte non più a fatti, eventi o stati di cose, ma a fenomeni. Un fenomeno è un fatto, evento o stato di cose descritto così come esso appare ad una coscienza e l’Epoché, sospendendo il giudizio intorno a cosa conti come reale o come irreale, non fa altro che collocarsi in posizione adeguata per descrivere tutto ciò che si dà così come si dà. Attraverso il ‘come’ si può poi giungere a definire i limiti del ‘cosa’ e del ‘perché’, ovvero: causalità e realtà devono poter essere compresi come precisazioni di un atteggiamento originario in cui non si sa ancora cosa abbia davvero efficacia e cosa sia davvero reale.

Bisogna notare di passaggio, a questo punto, come il procedere attraverso Epoché ha un’implicazione che la rende drammaticamente ‘inattuale’: chi si collochi con radicalità nella posizione originaria dell’analisi fenomenologica si pone sempre in una posizione dove nulla è dato per scontato, in una posizione dove bisogna sempre ricominciare tutto da capo; il pensatore che pensa fenomenologicamente non è un ‘membro della scuola fenomenologica’, perché non ci sono verità appartenenti a tale supposto gruppo che egli può presupporre; tutt’al più è plausibile che ripensando da zero i medesimi problemi egli incontri le medesime soluzioni, ma non può mai limitarsi ad ‘aderire’ a certe soluzioni. Questa è la ragione per cui l’approccio fenomenologico fa così fatica a mettersi in relazione con un approccio come quello della filosofia analitica, dove, seguendo il modello dell’indagine scientifica, i filosofi operano prevalentemente entrando in un dibattito già avviato, cui sono chiamati a dare un contributo: il fenomenologo ha l’esigenza fondamentale di mettere innanzitutto in discussione la cornice stessa all’interno di cui le domande vengono poste,

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con particolare riferimento alla concettualità (terminologia) usata. I concetti usati dal fenomenologo devono contenere idealmente solo riferimenti alle operazioni ed ai contesti in cui essi sono stati effettivamente usati: se parlo di ‘tempo’ in senso fenomenologico mi sto riferendo alle operazioni che determinano la successione nei modi in cui la coscienza la pone e non devo introdurre surrettiziamente connotazioni apparentemente ovvie del tempo, così come usato in altri ambiti, ad esempio non ha senso parlare di tempo negativo o di inversione del vettore temporale, come fa la fisica (legittimamente per i suoi scopi). Non possiamo mai importare direttamente da un altro ambito di indagine un concetto senza chiederci quali operazioni sottostanno alla sua definizione: ‘mente’, ‘cervello’, ‘sensazione’, ‘istinto’, ecc. non possono essere portati di peso dalla psicologia nella filosofia, senza vedere in che modo sono stati introdotti, cioè quale sequenza di operazioni costituenti li ha posti, e perciò quali sono i limiti della loro applicazione legittima. Osserviamo che qui si radica il sospetto che Husserl ha e manifesta a più riprese nei confronti di tutte le analisi che danno troppo peso al linguaggio nell’elaborazione concettuale: per lui il linguaggio, idealmente, potrebbe essere tutto ricostruito attraverso analisi immanenti a partire dalle operazioni percettive, ed affidarsi inconsapevolmente all’uso comune di certi termini è filosoficamente arbitrario ed in linea di principio non accettabile. Ciò non toglie che Husserl, come vedremo, sia consapevole del fatto che tale ripercorrimento da zero di tutte le pratiche costitutive del linguaggio che correntemente parliamo non sia effettivamente eseguibile. Se è vero che ciascuno di noi ha acquisito nell’immanenza operativa il suo linguaggio ordinario e scientifico/filosofico in decenni di vita, un ripercorrimento riflessivo integrale di tali operazioni costitutive non potrebbe che essere ben più lungo, rimanendo dunque al di là del fattibile. In verità il problema è più radicale, in quanto l’operazione di recupero genealogico degli strati di significato fa uso del linguaggio già appreso e quindi bisogna capire se l’uso del linguaggio incide in modo decisivo nell’operazione interpretativa oppure se sia possibile accedere comunque alla stratificazione in modo originario. La questione è in effetti una questione fondamentale, che sta tra l’altro alla radice del distanziamento di Heidegger da Husserl: Heidegger nomina questo tema sotto il nome di circolo ermeneutico, segnalando come ogni atto di comprensione riposi su di una precomprensione che è a sua volta frutto di atti di comprensione antecedenti, e come ogni atto di comprensione (interpretazione) attuale rappresenterà una premessa per le interpretazioni a venire. Husserl prende in considerazione una prospettiva apparentemente simile,24 ma ritiene che

24 „Wir stehen also in einer Art Zirkel. Das Verständnis der Anfänge ist voll nur zu gewinnen von der gegebenen Wissenschaft in ihrer heutigen Gestalt aus, in der Rückschau auf ihre Entwicklung. Aber ohne ein Verständnis der Anfänge ist diese Entwicklung als Sinnesentwicklung stumm. Es bleibt uns nichts anderes übrig: wir müssen im ‚Zickzack’ vor- und zurückgehen; im Wechselspiel muss eins dem andern helfen. Relative Klärung auf der einen Seite bringt einige Erhellung auf der anderen, die nun ihrerseits auf die Gegenseite zurückstrahlt. So müssen wir in der Art von Geschichtsbetrachtung und Geschichtskritik, die im Ausgang von Galilei (und gleich nachher von Descartes) der Zeitfolge entlang gehen muss, doch beständig historische Sprünge machen, die also nicht Abschweifungen, sondern Notwendigkeiten sind.“ (Krisis, p. 59)

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comunque sia possibile accedere ad una genealogia originaria degli strati di significato. Nonostante Husserl dia grande peso al fatto che i nostri saperi sono frutto di una tradizione e che noi siamo entrati in questa tradizione senza poterne decidere modi e valori, tuttavia per lui non bisogna perdere di vista il fatto che ciascuno di noi deve poter imparare nel corso della propria vita i contenuti della propria tradizione, dal che derivano due conseguenze: 1) si deve dare una cornice cognitiva generale come condizione di possibilità per l’appartenenza di ciascun singolo soggetto ad una tradizione storica; 2) nel corso della propria vita chiunque erediti una tradizione è chiamato a ripercorrerne il percorso genetico nei suoi snodi essenziali: qui si dà a vedere il nesso tra fenomenologia statica, fenomenologia genetica e storia. Rispetto all’ermeneutica pan-storicistica e alla disseminazione derridiana la posizione di Husserl non accetterebbe soprattutto un tipo di critica: non accetterebbe l’idea che nel descrivere fenomenologicamente i processi cognitivi elementari noi si sia in qualche modo comunque ‘vittima’ delle categorie storiche ereditate. Per Husserl c’è una dimensione originaria del fenomeno la quale fonda la storia, consente l’emergere della temporalità e dell’intersoggettività, e che perciò può collocarsi in una posizione non pregiudicata da cui giudicare anche la propria appartenenza ad una tradizione culturale. Senza pretendere di entrare in una discussione dettagliata di questo difficile tema, possiamo però notare come la posizione di Husserl abbia un punto di coerenza interna che gli altri autori non hanno: da un lato chi lo critica asserendo che anche l’interpretazione dell’automanifestazione primaria (percezione, coscienza interna del tempo) sarebbe pregiudicata da categorie pregresse dovrebbe prima formulare una teoria solida tale per cui la natura del significato è tale da compromettere l’originarietà della relazione del Leib al mondo. Nessuna teoria che dimostri qualcosa di meno che un radicale relativismo linguistico potrebbe essere all’altezza di questa pretesa. È quasi inutile dire che affermare che la nostra concettualità pregressa è costitutivamente ed ineludibilmente distorsiva equivale a tutti gli effetti ad un’affermazione di scetticismo radicale, con tutte le aporie classiche proprie dello scetticismo radicale: come si fa (e per chi lo si fa) ad affermare come verità una proposizione che rende ogni verità una sorta di convenzione solipsistica tra parlanti di uno stesso linguaggio in senso stretto? Ovvero, come abbiamo noi stessi raggiunto la certezza che il linguaggio che abbiamo ereditato ci consegni un mondo incommensurabile con quello di parlanti differenti e privo di relazioni con gli eventi sensibili esterni? Di primo acchito sembra che un’asserzione del genere sia un’asserzione metafisica in senso classico, cioè un’asserzione che per sua natura non è in alcun modo né verificabile né falsificabile. Tuttavia, in una versione che non taglia i legami tra dimensione del significato e dimensione percettiva ed operativa (sensomotoria) Husserl concorda con una visione che attribuisce alla concettualità ereditata un peso estremamente significativo. Quando Husserl nella Krisis contrapporrà una storia di fatti ad una storia interna,25 egli starà segnalando appunto la possibilità per il

25 „Hat die gewöhnliche Tatsachenhistorie überhaupt und insbesondere die in der neuesten Zeit zu wirklicher universaler Extension auf die gesamte Menschheit in Gang gekommene überhaupt einen Sinn, so kann er nur in dem, was wir hier innere Historie nennen können,

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fenomenologo di attingere ad un punto di vista da cui è possibile distinguere (a posteriori) nel succedersi degli eventi ciò che produce nuovi strati di senso da ciò che è invece mero accadere. Deve però essere ben chiaro che tale prospettiva husserliana non ha nulla dell’ingenuità propria di una visione empiristica o positivistica: Husserl non ci sta dicendo che il fenomeno è immediatamente accessibile all’esperienza diretta e che basta spalancare i sensi al mondo per avere accesso originario ed impregiudicato ad esso. Husserl al contrario sta dicendo che possiamo ottenere un accesso originario all’esperienza solo attraverso l’Epoché, ovvero sospendendo le validità ingenue presupposte dall’atteggiamento naturale e da quello scientifico. È l’operazione di sospensione delle validità ingenue, e poi l’analisi statica e genetica, a consegnarci i fenomeni nella loro originarietà. In questo senso la fenomenologia husserliana non abbraccia né l’empirismo positivista né lo storicismo, ma esige che l’analisi prenda coscienza della propria collocazione storica (culturale, tradizionale) e che la riconduca alla dimensione più fondamentale dell’esperienza. Questa ‘riconduzione’ è ciò che va sotto il nome di riduzione fenomenologica. La ‘riduzione’ non fa altro che interpretare i significati che l’intenzionalità manifesta come ‘prodotti’ di coscienza (laddove ‘prodotto’ non è creazione ex nihilo, ma estrazione di senso attraverso un’interazione con l’altro da sé). In questo senso la riduzione è sempre anche un’operazione genetica e genealogica, cioè si occupa di come si sono stratificati livelli di senso e cerca di mostrarne l’ordinamento rispetto all’esperienza elementare della coscienza (percezione).

Nella Krisis Husserl presenta l’Epoché a più riprese e con approcci diversi, e finora ne abbiamo dato una visione d’insieme. Uno di questi approcci, la cosiddetta ‘via cartesiana all’Epoché, vale però la pena di essere discusso a parte, non perché ‘migliore’ degli altri, ma al contrario, perché più ambiguo e perciò più bisognoso di un’esegesi specifica. Nei §§ 16-21 della Krisis Husserl si intrattiene con il pensiero di Descartes e ne discute l’approccio in un modo teoreticamente fecondo ancorché talora filologicamente dubbio. A noi qui non interessa vedere se ed in quale misura Husserl abbia davvero colto lo spirito o la lettera dell’opera cartesiana, ma ci interessa vedere come si può intendere meglio l’Epoché a partire dal modello di pensiero proposto da Cartesio, chiarendo il meno noto con il più noto. Per Husserl il passo inaugurale delle Meditationes, con il dubbio sistematico circa la realtà di ogni cosa, non va letto come un passo scettico, bensì come un necessario momento di fondazione. Per Husserl, il momento in cui Cartesio, dubitando di ogni cosa, giunge alla certezza trascendentale del cogito indica l’apertura epocale della dimensione della coscienza come dimensione ineludibile e fondante. Di norma l’argomento del cogito viene esposto in termini di questo genere: posso dubitare in ultima istanza dell’esistenza di ogni cosa, ma se sto dubitando allora penso, dunque almeno di una cosa non posso dubitare, cioè del fatto che esiste una cosa che pensa (res cogitans). Ora, però, è necessario osservare come già a questo

gründen, und als solcher auf dem Fundament des universalen historischen Apriori. Notwendig führt er weiter zu der angedeuteten höchsten Frage einer universalen Teleologie der Vernunft.“ (Krisis, p. 386, Beilage III, zu §9a)

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punto davvero iniziale dell’approccio cartesiano la strada con Husserl si diparta drammaticamente: per Husserl Cartesio fraintende la propria scoperta della dimensione trascendentale della coscienza. Non si tratta di fissare la scoperta dell’esistenza certa di una cosa, la ‘sostanza pensante’, bensì di comprendere come la coscienza sia presupposto universale del darsi di ogni fenomeno, a prescindere dalla relativa esistenza od inesistenza. La coscienza non è il suo presunto sostrato materiale e quindi non può esistere nel senso in cui esistono gli oggetti materiali che si danno alla coscienza.26

Per la res cogitans ed il suo statuto ontologico vale lo stesso discorso fatto sopra per il ‘mondo’, o se vogliamo, lo stesso discorso che vale per il Dio di S. Anselmo: la sua essenza ne implica l’esistenza, laddove però esistenza non può essere intesa nello stesso modo in cui intendiamo l’esistenza di oggetti. Il dubbio sistematico di Descartes deve perciò trasformarsi in sospensione dei giudizi di validità relativa rispetto ai fenomeni, i quali proprio per ciò possono finalmente darsi come fenomeni (manifestazioni originarie per una coscienza) e non come fatti o eventi.

Per ragioni legate probabilmente alla scarsa perspicuità di alcune pagine husserliane l’introduzione dell’Epoché con particolare riferimento alla ‘via cartesiana’ è stata considerata come segnale di una svolta idealistica da parte di Husserl Ora, tutto sta ad intendere cosa significa ‘idealismo’. In certo modo Husserl stesso legittima l’accusa di idealismo, in quanto esplicitamente rivendica una continuità con l’idealismo trascendentale post-kantiano. Il punto dirimente su cui però non c’è alcuna comunanza tra la fenomenologia husserliana ed un certo tipo di idealismo concerne la natura ultima della realtà in quanto trascendente: per Husserl la realtà si dà al soggetto appunto come trascendenza, come qualcosa che sta al di là dei poteri del soggetto, che lo chiama, stimola o provoca, ma che non è in alcun modo una creazione del soggetto. Che gli idealisti classici, come Fichte ed Hegel, intendessero il soggetto (l’io, lo spirito) come primariamente creatore o meno è questione controversa; è chiaro tuttavia che se per idealismo si vuole intendere questo tipo di operazione demiurgica rispetto al reale, allora Husserl non è affatto idealista. Se invece per idealismo si intende che le modalità con cui i fenomeni si danno alla coscienza non sono mai in alcun modo aggirabili e che dunque la coscienza è in certo modo ubiqua nel mondo, questo si può e si deve dire di Husserl.

C’è tuttavia anche una seconda questione, se possibile ancora più complessa, che riguarda una possibile accusa di idealismo ad Husserl, e 26 „Setze ich alle Stellungnahmen zu Sein oder Nichtsein der Welt aus, enthalte ich mich jeder auf die Welt bezüglichen Seinsgeltung, so ist mir innerhalb dieser Epoché doch nicht jede Seinsgeltung verwehrt. Ich, das die Epoché vollziehende Ich, bin im gegenständlichen Bereich derselben nicht eingeschlossen, vielmehr - wenn ich sie wirklich radikal und universal vollziehe - prinzipiell ausgeschlossen. Ich bin notwendig als ihr Vollzieher. (…) Also mein gesamtes erfahrendes, denkendes, wertendes und sonstiges Aktleben verbleibt mir, und es läuft ja auch weiter, nur dass das, was mir darin als ‚die’ Welt, als die für mich seiende und geltende vor Augen stand, zum bloßen ‚Phänomen’ geworden ist, und zwar hinsichtlich aller ihr zugehörigen Bestimmungen. Sie alle und die Welt selbst haben sich in meine ‚ideae’ verwandelt, sie sind unabtrennbare Bestände meiner cogitationes, eben als ihre cogitata - in der Epoché. Hier hätten wir also eine absolut apodiktische, in dem Titel ego mitbeschlossene Seinssphäre, und nicht etwa bloß den einen axiomatischen Satz ‚ego cogito’ oder ‚sum cogitans’.“ (Krisis, p. 79, § 17.)

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precisamente la menzione che Husserl fa costantemente alle ‘essenze’ e alle ‘leggi essenziali’. Frequentemente nella storia della filosofia la nozione di ‘essenza’ viene associata alla qualificazione ‘eterna’: essenze sarebbero entità che accomunano il molteplice empirico e contingente in maniera da rimanere costanti da sempre a per sempre al variare delle loro incarnazioni fattuali. In una tale accezione ‘essenza’ ed ‘idea’ in senso platonico sono quasi sinonimi. Questo non può certamente essere un assunto per Husserl. Hanno natura essenziale in Husserl tutti gli oggetti intenzionali in quanto permangono costanti al variare delle loro manifestazioni empiriche (real): vedere un tavolo significa vedere un oggetto che si può incarnare in una moltitudine di esemplari e che permane costante al succedersi di diversi sostrati sensibili (aspetti). Siccome, tuttavia, il tavolo è certamente un manufatto umano che compare in un certo momento storico, è impossibile attribuire all’oggetto intenzionale ‘tavolo’ una natura di essenza eterna. Questo però non significa ancora che Husserl sia disinteressato ad indagare una dimensione più che storicamente contingente delle essenze. Per intendere il senso di questo tentativo bisogna che ci soffermiamo brevemente sul metodo adottato da Husserl per far emergere la dimensione essenziale dei fenomeni; esso va sotto il nome di variazione eidetica.27 Il procedimento della variazione eidetica è in effetti qualcosa che spesso esercitiamo istintivamente nella riflessione; si tratta, al fine di determinare che cosa sia una cosa in se stessa (‘essenzialmente’; il ti estì socratico) di immaginare modificazioni e variazioni della cosa stessa chiedendoci al tempo stesso se siamo ancora disposti a considerarla come la stessa cosa oppure se riteniamo non si tratti più della stessa cosa. Questa operazione è in effetti ambigua quanto al suo significato profondo e Husserl non sembra aver mai chiarito bene i dubbi che possono sorgere di fronte ad un tale processo. Supponiamo di chiederci cosa è veramente ‘in se stesso’ un tavolo. Possiamo operare una variazione immaginativa del tavolo e scoprire progressivamente che, contrariamente a quanto magari supposto di primo acchito, non è essenziale ad un tavolo l’essere munito di quattro supporti, né essere rettangolare, e che materiali molto diversi dal legno possono essere usati nel produrre tavoli, ecc., fino a concludere, per dire, che il tavolo è in effetti definibile primariamente non da una forma né da un materiale, ma dalla sua funzione di supporto mobile che consente attività umane manuali su di essa sedendovisi appresso, ecc. ecc. Un’analisi del genere ci dà molti spunti interessanti intorno a come abbiamo costruito, senza passare attraverso un accordo convenzionale, molti dei nostri concetti. Ora, però, è chiaro che, così come l’oggetto materiale tavolo e la parola ‘tavolo’ sono stati creati dall’uomo in certe circostanze e potrebbero non essere mai esistititi, così il relativo ‘nocciolo essenziale’ non ha nulla di ‘ideale’. In tal caso saremmo propensi a dire che, chiedendoci se siamo ancora disposti a considerare l’oggetto sottoposto a variazione come il medesimo o come 27 „Phänomenologische Aussagen bewegen sich, wie sich damit zeigt, prinzipiell in einem Bereich von Allgemeinheit, sie sind eidetische Aussagen, d.Husserl ein System von Urteilen über das Wesen oder Eidos von Gegenständen. Diese Aussagen werden gewonnen durch universale Phantasiesetzung und Variation, mithin durch ein Absehen von allen realen singulären Fakten. Husserl nennt dieses Vorgehen der Phänomenologie eidetische Reduktion.“ (Held K., op. cit., p. 16)

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diverso, noi probabilmente stavamo semplicemente chiedendoci se l’uso consolidato della parola ‘tavolo’ era accettabile ancora in certi casi oppure no. Niente vieta che in un contesto storico diverso invece dei termini ‘tavolo’, ‘scrivania’, e ‘bancone’ ci sia un unico termine, oppure che la nostra categoria di tavolo sia distinta in categorie distinte a seconda del numero di gambe, ed in tal caso i nostri giudizi di identità o differenza sarebbero giocoforza differenti. Tuttavia il discorso non è finito qui, neppure per un esempio così chiaramente contingente come ‘tavolo’: attraverso la variazione applicata all’idea di tavolo noi possiamo portare alla luce una pluralità di soglie significative: di fatto noi articoliamo del tavolo alcune componenti (supporti, materiali, piano, ecc.) e non qualsivoglia parte fisicamente o percettivamente disponibile di esso. Ciò ci rimanda ad alcuni fattori qualificanti nella natura di un tavolo, fattori che compongono di fatto quel che viene considerato fondamentale del tavolo. In effetti il punto in un’analisi del genere non è tanto determinare quando riteniamo di poter chiamare una cosa nello stesso modo e quando no, ma quali sono le soglie qualificanti, le variazioni importanti e quelle snaturanti: un tavolo in ferro rettangolare e molto lungo può essere chiamato bancone, ma il punto non è se arrivati ad un certo punto lo vogliamo chiamare bancone, tavolo o altrimenti, bensì è dato dal fatto che una certa differenza è considerata rilevante (ad esempio in quanto suggerisce usi differenti). Parimenti, se qualcosa ha tutto di simile ad un tavolo ordinario, salvo che invece di un piano abbiamo una piramide, ebbene non lo chiameremmo più tavolo in quanto è venuta meno la possibilità di attribuirgli le funzioni dei tavoli (es.: poggiarci sopra oggetti, ecc.). Scopriamo così che il nesso tra un manufatto, come il tavolo, e le sue funzioni, appartiene ad una dimensione essenziale, non accidentale. Se ora applichiamo lo stesso tipo di riflessione ad un genere naturale, come l’acqua, possiamo concludere dapprima che ciò che chiamiamo ‘acqua’ poteva chiamarsi diversamente, includendo meno o più caratteristiche rispetto all’acqua in senso ordinario, poi però possiamo notare che una serie di caratteristiche sono ‘essenziali’ all’acqua nel senso che una loro modifica andrebbe segnalata verbalmente: che l’acqua sia un solvente, che sia incolore, che disseti, che non sia nutriente, che evapori ad alte temperature e ghiacci a basse temperature, ecc. sono tutti tratti che, se qualcuno ci dicesse che per lui ‘acqua’ intende qualcosa che supera questi limiti definitori, noi potremmo anche accordarci su una nuova convenzione verbale, ma riterremmo sempre che quelle soglie sono determinati. Il processo in cui facciamo emergere le differenze per noi importanti (essenziali) a scapito di quelle irrilevanti è un processo che ci istruisce intorno alla natura dell’oggetto in relazione a noi. Questo processo ci mette in effetti di fronte non ad unità essenziali singole, a ‘sostanze’, bensì a serie di differenze qualificanti, talora già identificate dal linguaggio corrente, talaltra non identificate. Una volta posta una certa differenziazione, ne seguono senz’altro delle correlazioni essenziali, che Husserl chiama ‘leggi d’essenza’: perché si diano uomini come animali razionali bisogna avere la capacità pregressa di distinguere enti materiali inanimati da enti animati, comportamenti razionali da comportamenti privi di razionalità, ecc. Questo non ci garantisce che la definizione migliore o corretta di ‘uomo’ sia

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‘animale razionale’, ma ci dice che se queste qualità (animalità e razionalità) sono importanti nella determinazione di ciò che chiamiamo uomo, allora esse devono radicarsi in una serie di ulteriori capacità discriminative ed identificative. Nel compiere questa esplorazione attraverso una variazione riflessiva siamo in grado di tracciare una fenomenologia complessiva del mondo-per-noi, ovvero di ciò che Husserl chiamerà mondo-della-vita. Ciò che sembra configurarsi in questa analisi come assolutamente vincolante non è la determinazione di essenze nel senso di unità dotate di un contenuto univoco definitivo, bensì la determinazione di differenze essenziali (= non arbitrarie) e la determinazione di leggi di determinazione di tali differenze (per poter accedere a quella differenza bisogna aver fatto questa esperienza, ecc.).

In altri termini, l’analisi attraverso la variazione eidetica ci consegna un quadro delle articolazioni importanti del nostro mondo e ciascuna articolazione rinvia ad un processo articolante, cioè ad un modo in cui la coscienza pone quella differenza; se poi accade, come di norma è il caso, che il processo articolante in causa faccia a sua volta riferimento ad ulteriori differenziazioni fondamentali, ne segue che il nostro processo analitico può ripercorrere il modo con cui la coscienza è giunta a porre certe unità come fondamentali. Le relazioni essenziali tra unità di significato che la riduzione eidetica può trovare non sono altro che l’oggetto prima facie della fenomenologia statica e poi della fenomenologia genetica. La variazione eidetica scopre il modo in cui le strutture di significato che sono per noi valide si sono costituite. Di fatto, quanto più si risale a ritroso in un ordine di costituzione, tanto più i livelli appaiono invarianti anche rispetto all’andamento storico: mentre sono certo della stabilità solo relativa alla mia cultura della nozione di ‘tavolo’, posso ritenere invariante in senso molto più forte la nozione di ‘cosa (materiale)’, e posso ritenere il nesso tra percezione e darsi di cose materiali come invariante sovrastorico. Nozioni come hylè e campo sensoriale appaiono come presupposti invarianti di qualunque determinazione di significato storicamente posta.

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SEZIONE VI

Veniamo così alla fondamentale questione del rapporto tra fenomenologia e scienze naturali. Nella Krisis troviamo un lungo confronto con le origini della fisica moderna investigate attraverso l’operazione teorica proposta da Galileo. L’operazione galileiana ha il suo nocciolo nella matematizzazione della natura, dell’universo in quanto tale: la proposizione gaileiana secondo cui Dio avrebbe scritto le leggi dell’universo in simboli matematici è di per sé una visione abissalmente nuova, in quanto fino ad allora la geometria e la matematica, pur essendo state utilizzate in compiti predittivi, erano sempre state concepite come applicazioni possibili su situazioni circoscritte e non come essenza ontologica.28 Come Husserl osserva, l’operazione di matematizzazione galileiana si è talmente radicata che noi oggi dobbiamo fare uno sforzo per concepire lo spazio in un senso che non sia quello della geometria.29 Se nella visione platonica la realtà partecipava della dimensione ideale e perciò era possibile in qualche misura concepire il reale come di natura matematica, questa operazione è stata però radicalizzata nella moderna scienza della natura, al punto che la natura in quanto tale è concepita come primariamente di natura matematica. Tale matematizzazione procede innanzitutto attraverso una lettura dei corpi percepiti come corpi geometrici, dunque come figure limite di cui la datità percettiva è concepita come un’approssimazione. È importante notare come questa operazione inverta l’ordine di costituzione genetico, tale per cui è solo attraverso l’esperienza, innanzitutto percettiva, che noi arriviamo a concepire configurazioni ed infine figure ideali. Nella visione della fisica moderna la datità percettiva è un’approssimazione di un’idealità sottostante, idealità che si ritiene esservi a prescindere dal fatto che nessuna esperienza reale ce la consegna mai. Inutile dire che una visione del genere ha tutte le caratteristiche di una visione metafisica in senso tecnico, cioè di una visione che si sottrae costitutivamente alla possibilità di verifica o falsifica. Husserl osserva come sia parte essenziale di questo processo di matematizzazione

28 „Aber die Euklidische Geometrie und die alte Mathematik überhaupt kennt nur endliche Aufgaben, ein endlich geschlossenes Apriori. (…) Zum idealen Raum gehört für uns ein universales systematisch einheitliches Apriori, eine unendliche und trotz der Unendlichkeit in sich geschlossen einheitliche systematische Theorie, die, von axiomatischen Begriffen und Sätzen aufsteigend, jede erdenkliche in den Raum einzuzeichnende Gestalt in deduktiver Eindeutigkeit zu konstruieren gestattet. Im voraus ist, was im geometrischen Raume idealiter ‚existiert’, in allen seinen Bestimmtheiten eindeutig entschieden. Unser apodiktisches Denken ‚entdeckt’ nur, nach Begriffen, Sätzen, Schlüssen, Beweisen etappenmäßig ins Unendliche fortschreitend, was im voraus, was an sich schon in Wahrheit ist. - Die Konzeption dieser Idee eines rationalen unendlichen Seinsalls mit einer systematisch es beherrschenden rationalen Wissenschaft ist das unerhört Neue.“ (Krisis, p. 19, § 8).29 „Für den Platonismus hatte das Reale eine mehr oder minder vollkommene Methexis am Idealen. Das gab für die antike Geometrie Möglichkeiten einer primitiven Anwendung auf die Realität. In der Galileischen Mathematisierung der Natur wird nun diese selbst unter der Leitung der neuen Mathematik idealisiert, sie wird - modern ausgedrückt - selbst zu einer mathematischen Mannigfaltigkeit. (…) So alltäglich vertraut ist der Wechsel zwischen apriorischer Theorie und Empirie, dass wir gewöhnlich geneigt sind, Raum und Raumgestalten, über welche die Geometrie spricht, von Raum und Raumgestalten der Erfahrungswirklichkeit nicht zu scheiden, als ob es einerlei wäre.“ (Krisis, p. 20-1, § 9)

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l’uso di ipostatizzazioni linguistiche e di riproduzioni scritte.30 Questo è un punto della massima importanza, che in parte Husserl stesso e poi molti altri hanno sviluppato in profondità, e che può essere scisso in due considerazioni riguardanti rispettivamente le ipostatizzazioni linguistico-concettuali e l’utilizzo della scrittura e del disegno. Quanto al primo punto, il discorso si ricollega a quanto detto in precedenza sulla natura dell’indagine fenomenologica: i concetti che noi ereditiamo dalla tradizione vengono generalmente usati senza alcuna consapevolezza della loro costituzione; questo ovviamente non è un problema di scarsa erudizione storica, ma di tendenziale travisamento concettuale: quando nel linguaggio corrente noi iniziamo ad utilizzare, per dire, ‘endorfine’ al posto di ‘piacere’, ‘adrenalina’ al posto di ‘eccitamento’, ‘neuroni’ o ‘cervello’ al posto di mente, ‘realtà fisica’ invece di ‘natura’, ecc. noi stiamo sostituendo in un modo ingenuo, ma non innocente, nozioni scientifiche a nozioni che designano esperienze. Questa operazione non è semplicemente una sorta di idioletto di comodo figlio dei tempi, ma implica inavvertitamente un’adesione non argomentata (né argomentabile) ad una visione ‘naturalistica’ del mondo.

Quanto al secondo punto, il discorso da fare sarebbe molto lungo sul piano dell’esegesi storica. Basti osservare qui come in assenza di un supporto scritto la geometria non sarebbe mai potuta nascere; per quanto la geometria contemporanea sia stata integralmente matematizzata, lasciando sullo sfondo l’originario nesso con la misurazione della terra (geo-metria) ed ogni riferimento a figure percepibili, tuttavia le nozioni fondative di punto, linea, superficie, solido non può essere introdotta senza passare per una figurazione materiale. Il fatto stesso di distinguere tre dimensioni nel darsi originario degli enti materiali è qualcosa che diviene comprensibile solo a partire da operazioni di riproduzione grafica. In verità il nesso tra scrittura e concettualizzazione andrebbe esplorato più accuratamente, ad esempio ricordando come solo la scrittura alfabetica (dal VI sec. a. C.) ha consentito l’emergere di considerazioni logiche in senso stretto, come solo la scrittura numerica posizionale (dall’XI sec.) ha consentito il calcolo astratto così come lo concepiamo oggi, e come solo la riproduzione sistematica di schemi, progetti e mappe (dal XVI sec.) ha consentito 30 „In der anschaulichen Umwelt erfahren wir in der abstraktiven Blickrichtung auf die bloßen raumzeitlichen Gestalten ‚Körper’ - nicht geometrisch-ideale Körper, sondern eben die Körper, die wir wirklich erfahren, und mit dem Inhalt, der wirklich Erfahrungsinhalt ist. (…) Ohne von hier aus tiefer in die Wesenszusammenhänge einzugehen (was systematisch nie geschehen und keineswegs leicht ist), werden wir schon verstehen, dass sich von Vervollkommnungspraxis her, im freien Eindringen in die Horizonte erdenklicher Vervollkommnung im ‚Immer wieder’, überall Limes-Gestalten vorzeichnen, auf die hin, als invariante und nie zu erreichende Pole, die jeweilige Vervollkommnungsreihe hinläuft. Für diese idealen Gestalten interessiert und konsequent damit beschäftigt, sie zu bestimmen und aus den schon bestimmten neue zu konstruieren, sind wir ‚Geometer’. (…) Wie alle durch menschliche Arbeitsleistung entspringenden Kulturerwerbe bleiben sie objektiv erkennbar und verfügbar, auch ohne dass ihre Sinnbildung stets wieder explizit erneuert werden müsste; sie werden aufgrund sinnlicher Verkörperung, z.B. durch Sprache und Schrift, schlicht apperzeptiv erfasst und operativ behandelt. In ähnlicher Weise fungieren die sinnlichen ‚Modelle’, zu welchen insbesondere gehören die während der Arbeit beständig verwendeten Zeichnungen auf dem Papier, für das Lesend-Lernen die gedruckten Zeichnungen im Lehrbuch und dergleichen.“ (Krisis, p. 22-3, § 9.)

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l’emergere della scienza naturale moderna. In un’ottica husserliana tuttavia bisogna sempre distinguere (e non è sempre facile) la dimensione genetica come ‘possibilizzazione’ (Ermöglichung) dalla motivazione dominante che guida una certa formazione di senso. In altri termini, posto che Husserl suggerisce, senza farlo in prima persona, di eseguire specifiche analisi storiche che mostrano il nesso tra certi sviluppi concettuali e certe pratiche materiali come la scrittura, rimane dubbio come questa connessione sarebbe stata interpretata; il fatto che una certa pratica storica consente certe concettualizzazioni non ci dice ancora che quella pratica storica è in senso pieno l’origine di tali concettualizzazioni. Bisogna chiedersi se ed in qual misura scienze apodittiche come la geometria e l’aritmetica siano ‘prodotti’ di certe pratiche storiche. Nei termini di Husserl almeno due ordini di fattori devono essere presi in considerazione: da un lato gli eventi storici non sono meri fatti da raccogliere induttivamente, ma rappresentano possibilizzazioni, cioè creano aperture di possibilità che devono essere colte dai determinati soggetti agenti; dall’altro lato i soggetti agenti possono cogliere tali aperture storiche in quanto sono mossi da un telos immanente, ovvero in quanto sono esseri volitivi, desideranti. Per ciascuna conquista storica, per ciascuna apprensione di una nuova formazione culturale devono di norma concorrere svariate aperture di possibilità; svariati eventi devono rendere certe operazioni accessibili; in presenza di diversi ‘eventi possibilizzanti’, come avviene in culture storiche diverse, le medesime pulsioni teleologiche producono formazioni culturali ampiamente diverse.

Nei confronti dell’emergere della scienza fisica moderna Husserl rintraccia alcuni momenti possibilizzanti essenziali. Il primo è dato dalla costituzione della geometria come prima scienza matematica presso i Greci; la geometria è resa possibile dall’utilizzo della scrittura e del disegno, che permettono la rappresentazione di configurazioni ideali (punti, linee, ecc.). Tuttavia tali operazioni idealizzanti sono rese anche possibili dal fatto che la percezione funziona attraverso fusione e contrasto, così che la rappresentazione grafica può idealizzare plausibilmente le figure percettive in quanto rappresenta graficamente solo alcuni punti di contrasto qualificanti: pur essendo le ‘qualità secondarie’, qui i colori, indispensabili alla detezione delle ‘qualità primarie’ (forme), non è necessario esporre il dettaglio degli andamenti cromatici per cogliere le forme. In questo senso la geometria ha la possibilità di produrre idealizzazioni figurali che sono facilmente riconducibili alla realtà percettiva. Un secondo momento essenziale è dato dalle operazioni di misurazione, che consentono di applicare i modelli geometrici astratti alla realtà fisica: ogni atto di misurazione determina dell’oggetto misurato solo quei punti che toccano il metro; se misuro un campo di grano o la distanza tra due colline non sto ovviamente dando esaustivamente conto degli oggetti misurati, ma solo di quelle componenti che sono congeneri con il metro usato. Se dico che un tavolo misura così e così ho ottenuto un risultato che riguarda i punti ideali di contatto del mio metro con i bordi del tavolo, e non so nulla del tavolo in sé. La questione delle misurazioni in fisica tuttavia è molto più importante ed estensiva di quanto Husserl esemplifichi concretamente: ogni qual volta determiniamo una misurazione fisica noi riduciamo l’oggetto misurato alla

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natura del metro, che può fornirci la massa, la velocità, la distanza, la durata di un fenomeno, e può farlo in quanto abbiamo preordinato un modo di rilevazione che vogliamo ci fornisca dati costanti e ripetibili. Tutto ciò va ovviamente benissimo, purché si tenga ben presente la natura metodologica e non ontologica di questa operazione;31 cioè è necessario sempre rammentare di fronte agli esiti delle nostre misurazioni, e poi di fronte alle computazioni predittive prodotte sulla base di esse, che esse non possono darci niente di più di quanto abbiamo chiesto all’inizio di ottenere: se l’intento della misurazione è quello di darci unità stabili e replicabili, non possiamo poi certo concludere che la natura ontologica del mondo è di essere stabile e replicabile. Tuttalpiù possiamo dire, come Hume faceva, che la natura ontologica del mondo consente spesso a parti di esso di essere poste come stabili e replicabili: il mondo si dispiega secondo uno stile tendenzialmente uniforme. Come nota Husserl questo modello è applicabile in modo privilegiato ad alcune aree del reale, escludendo innanzitutto l’area del vivente.32 In verità noi oggi sappiamo che anche nella dimensione microfisica del non-vivente questo tipo di operazioni non è possibile. - Un terzo momento fondamentale che Husserl espone è rappresentato dalla compiuta aritmetizzazione (oggi diremmo forse ‘digitalizzazione’) della geometria, che rende l’origine misurativa concreta delle variabili fisiche del tutto invisibile: nel momento in cui ogni dato tratto dalla realtà attraverso una pratica misurativa è trasformato in numero puro o in proposizione logico-formale, il fenomeno è sparito definitivamente. Va osservato di passaggio come in fisica accada spesso che alcuni risultati (ad esempio i risultati negativi di un’equazione con più radici utilizzata in meccanica

31 „Das alles aber kann und muss vollbewusst verstandene und geübte Methode sein. Das ist es aber nur, wenn dafür Sorge getragen ist, dass hierbei gefährliche Sinnverschiebungen vermieden bleiben, und zwar dadurch, dass die ursprüngliche Sinngebung der Methode, aus welcher sie den Sinn einer Leistung für die Welterkenntnis hat, immerfort aktuell verfügbar bleibt; ja noch mehr, dass sie von aller unbefragten Traditionalität befreit wird, die schon in der ersten Erfindung der neuen Idee und Methode Momente der Unklarheit in den Sinn einströmen ließ.“ (Krisis, p. 46-7, § 9)32 „Variieren wir ideell die wirkliche Welt, sie phantasiemäßig frei umbildend, so bedeutet der dabei hervorspringende universale Stil ihrer Konkretion als Universum seiender Konkretionen (jede im Stoffwechsel seiend) eine universale Bindung, eine Kausalität, die die Konkretionen in ihren Veränderungen als Konkretionen regelt. (…) Man versteht, dass es sich hier nicht um eine ‚wilde Konstruktion’, um ein Spielen mit verbalen Begriffen handelt, sondern dass mich dabei der Blick auf eine durch die empirische Welt hindurchgehende (wenn auch nicht alle Konkretionen der Körperwelt erschöpfende) Aufbautypik führt, die auch die Allgemeinheit der irdischen Körper, darunter der Organismen, zu einem Zusammenhang von physischen Konkretionen macht, jede eigenwesentlich und in der Koexistenz mit anderen durch eine Gesetzmäßigkeit, durch eine ‚kausale’, aber auf Konkretionen bezogene, geregelt. Natürlich kann diese Regelung nicht eine eindeutige sein, schon darum, weil die Natur nicht die Welt ist. (…) Die mathematische Physik ist ein großartiges Instrument der Erkenntnis der Natur, in der wir wirklich leben, der im Wandel der Relativitäten immerfort empirische und konkrete Einheit in Identität durchhaltenden Natur. Praktisch ermöglicht sie eine physikalische Technik. Aber sie hat ihre Grenzen, und zwar nicht nur darin, dass wir empirisch nicht über eine Approximationsstufe hinauskönnen, sondern darin, dass nur eine schmale Schicht der konkreten Welt wirklich gefasst ist. (…) Die biophysische Realität und Kausalität kann sich nie auf physikalische Realität und Kausalität reduzieren.“ (Krisis, p. 390-1, Beilage IV, zu § 12).

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razionale) vengano poi espunti come ‘irreali’ dagli esiti di un calcolo, in quanto non è possibile farvi corrispondere nulla di empirico. In ciò di nuovo non c’è niente di male, ma dobbiamo tenere questo tipo di operazioni ben presenti davanti agli occhi prima di concedere galileianamente che la natura ha un’essenza congenere alla matematica. Chiaramente, come Husserl nota, la chiave per comprendere questa attrazione fatale della matematizzazione della natura è rappresentata dal potere predittivo e quindi dal potere tecnico che ciò consente: manipolando solo variabili che si comportano in modi inerziali, uniformi, prevedibili, predisponiamo il terreno per determinare variazioni controllate degli esiti (esperimenti) e poi esercitare applicazioni controllate di cause (tecniche).

È importante comprendere come il valore di verità non coincida con il valore operativo, pur non essendone completamente estraneo. Nel momento in cui osserviamo con Husserl (e poi con Heidegger) che il metodo dell’esplorazione scientifica mira fondamentalmente al successo tecnico, cioè ad un valore operativo e predittivo, e che ciò tende a coprire l’evidenza dei fenomeni, è necessario tentar di chiarire questo punto. Obiezioni alla coincidenza tra valore di verità e valore operativo possono essere poste in almeno due modi molto differenti. Il primo è quello di denunciare senz’altro la coincidenza tra significato (ad esempio di una proposizione, di un giudizio considerato vero) e sue implicazioni; il secondo è quello di denunciare la selezione metodologica che considera come rilevanti per un significato solo una ristretta cerchia di conseguenze, ovvero quelle ‘utilizzabili’. Da un lato è possibile asserire che il significato di qualcosa non riguarda essenzialmente le conseguenze che se ne possono trarre, ma vissuti individuali non generalizzabili (qualia); un’idea del genere può essere in qualche misura ascritta alla nozione di verità dell’ultimo Heidegger. Dall’altro è possibile asserire che, anche se la dimensione delle implicazioni è quella fondamentale nel determinare il contenuto di una ‘verità’, tali implicazioni non devono essere artificialmente preselezionate in modo da prendere in considerazione solo le implicazioni che hanno applicazione tecnica (ovvero che consentono manipolazione causale e predizione univoca). Questa seconda accezione è pertinente per le osservazioni di Husserl, anche se il tema non è particolarmente approfondito.

Se guardiamo ai più fondamentali principi della fisica vi possiamo riscontrare abbastanza facilmente una commistione tra metodologia (esplicita o inavvertita) ed ontologia. Di fatto possiamo metterci in grado di intendere il senso attribuibile alle ‘leggi della natura’, allo ‘stile causale’ della natura’, solo se comprendiamo la profonda interdipendenza tra coscienza ed alterità materiale. Il termine su cui focalizzare è ‘interdipendenza’: non si tratta solo di scorgere la dipendenza delle datità reali dalla coscienza, ma anche le condizioni materiali (non causali, né cerebrali) perché coscienza ci sia. Partiamo da una considerazione della natura dello spazio, che è qualcosa su cui Husserl si sofferma. Lo spazio innanzitutto non si dà mai nella forma astratta e priva di orientamento con cui la matematizzazione cartesiana e poi newtoniana lo vede. Lo spazio ci si dà primariamente come qualcosa di orientato secondo un sopra ed un sotto,

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un davanti ed un dietro, una destra ed una sinistra. Questa caratterizzazione potrebbe essere ritenuta come qualcosa di meramente incidentale per la nozione di spazio, qualcosa di dipendente dalla nostra limitata capacità umana di concettualizzare le cose, tuttavia se proviamo a pensare lo spazio puro, privo di alcun tipo di riferimento ed orientamento, scopriamo che la nozione di spazio diviene rapidamente inservibile. Infatti, la nozione fisica di spazio serve idealmente a determinare luoghi (di cose od eventi) e distanze tra luoghi, dunque serve a porre misurazioni. Lo spazio non si dà se non come possibilità di porre elementi in relazione spaziale, come possibilità per cose od eventi di occupare uno spazio o di muoversi in uno spazio. La natura dello spazio è legata alla natura dell’immaginazione, ed oggetto dell’immaginazione sono operazioni che pongono corpi in relazione (li muoviamo, deformiamo, ne valutiamo possibili comportamenti reciproci). Lo spazio è la condizione di possibilità per immaginare relazioni statiche e dinamiche tra corpi. Tuttavia, determinare una relazione tra due corpi è possibile solo ponendoli in qualche modo in connessione attraverso un’operazione: possiamo guardare due corpi sinotticamente, toccarli, portare lo sguardo dall’uno all’altro, e possiamo misurare le loro reciproche posizioni con un medio di misurazione. È importante capire che spazio non si dà senza una dimensione di motilità che dispone le ‘parti’ dello spazio (luoghi) in rapporti reciproci. In questo senso niente garantisce che lo spazio abbia caratteristiche di costanza e neutralità di tipo newtoniano; anzi, siccome moti si possono dare in modo determinato solo a partire da posizioni precostituite, risulta chiaro che lo spazio non è affatto concepibile come privo di orientamento: nello spazio si danno entità e rapporti determinati tra tali entità.

Se si dimentica la correlazione originaria dello spazio con la corporeità vissuta si possono generare numerosi equivoci. Si può ad esempio ritenere enigmatico che allo specchio si invertano destra e sinistra ma non alto e basso (ma destra e sinistra sono determinazione propriocettive, senza ancoramento ambientale, mentre alto e basso sono anche determinazioni percettive, ancorate ad eventi esterni, perciò non è la destra e la sinistra che si invertono allo specchio, ma è il modo in cui noi ci collochiamo nell’ambiente visto allo specchio ciò che ribalta la scena). Più importanti per la concettualità fisica sono gli aggiustamenti che la teoria della relatività ha dovuto fare rispetto alla nozione astratta di spazio newtoniano: la relatività speciale introduce l’atto di misurazione nel sistema fisico, scoprendo ciò che è da sempre implicito nella genesi dell’idea di spazio (e, vedremo, di tempo); lo spazio si dà sempre solo per atti di correlazione tra enti, ed atti di correlazione (misurazione) si danno solo da un punto di vista (cioè, per un agente). Bisogna poi tener fermo un problema di fondo, che la relatività speciale implicitamente affronta: lo spazio, in quanto presupposto delle correlazioni, non è qualcosa che abbia di per sé alcuna caratteristica ascrivibile, dunque neppure possiamo considerarlo come dotato di specifiche ‘misure’ o ‘dimensioni’. Lo spazio è il presupposto delle misurazioni e quindi non ha alcuna misura propria, questo però significa che le unità di misura dello spazio non sono ciò che pretendono di essere:. Ma allora cosa sono le nostre unità di misura dello

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non è lo spazio in sé che si incarna nei nostri metri spazio? Esse sono incarnazioni non dettate dallo spazio, ma dal nostro modo di porci verso lo spazio, da ciò che nello spazio cerchiamo, che per la scienza fisica è innanzitutto costanza. I metri di misurazione sono incarnazioni imposte storicamente che incarnano l’ideale di costanza (es.: il metro campione di Parigi). Non è lo spazio in sé ad essere neutrale e sempre costante, ma è importante per le nostre pratiche nello spazio che si possa trovare un riferimento neutrale e costante. La teoria della relatività compie un passo concettualmente importante nel momento in cui pone come parametro di misurazione dello spazio (e del tempo) una velocità, ed in particolare una velocità considerata come la massima a cui un segnale può essere trasmesso, cioè la velocità della luce. Tuttavia, questo passaggio è fatto con consapevolezza solo parziale, infatti la velocità della luce (cioè delle onde elettromagnetiche, che fungono qui da ‘metro campione’) è posta come costante in qualunque contesto fisico possibile, nonostante sul piano della conoscenza fisica ciò non sia a rigore accertabile. Di fatto, il caso in cui in termini di fisica classica si dovrebbe ammettere senz’altro che la velocità della luce non è davvero costante (influsso gravitazionale) viene eliminato dalla concettualizzazione della relatività generale, sopprimendo la gravitazione stessa come ‘forza agente’ (non ci sono più campi gravitazionali, ma lo spazio stesso è considerato curvo).

Qualche considerazione affine deve essere svolte con riferimento al problema della cosiddetta natura tridimensionale dello spazio. Nonostante molti interrogativi siano stati sollevati intorno alla natura delle tre dimensioni e nonostante, grazie alla matematizzazione della geometria, sia oggi consueto parlare liberamente di n dimensioni, l’unico modo per comprendere il senso delle tre dimensioni è rivolgersi alla genesi del concetto di dimensione spaziale. Le tre dimensioni richiamate nella determinazione dei corpi reali non sono ovviamente rintracciabili direttamente nella realtà; per capire come si giunge al fatidico numero di tre dimensioni bisogna capire come si è definita la prima dimensione a partire dal punto geometrico. Il punto è l’entità priva di forma e dimensione, ovvero, con Euclide, ‘ciò che non ha parti’. Ma è ovvio che qualunque dimensione reale è analizzabile in parti, dunque il punto geometrico è un concetto-limite, anzi è proprio il concetto di limite minimo; negli Elementi di Euclide troviamo anche che ‘punti sono gli estremi di una linea’, dunque appunto i punti che delimitano una linea. Proviamo allora a vedere per un attimo cosa conta come ‘linea’; per Euclide linea è semplicemente ‘lunghezza senza larghezza’, dal che possiamo trarre che il punto è il limite di un’operazione di misurazione, dunque qualcosa che non ha alcuna dimensione fisica proprio perché non appartiene al regno delle cose, ma a quello delle operazioni cognitive sulle cose. La linea, a sua volta, è fondamentalmente linea retta, in quanto minima distanza tra due punti (cioè in quanto misura che copre il percorso più economico, ‘inerziale’, tra due punti). Se però punto e linea sono sostanzialmente momenti di un atto di misurazione, ne segue che tali saranno anche superfici e solidi, in quanto reiterazioni delle operazioni di misurazione lineare. Tre operazioni di misurazione del tipo che prende come campione il procedere rettilineo di

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una misurazione sono quanto è necessario per indicare gli estremi degli oggetti nello spazio, e questo è tutto il mistero del perché ‘proprio tre dimensioni vi siano in natura’. Le dimensioni non sono proprietà misteriose della natura, ma modalità della nostra determinazione metrica della natura. Non è che lo spazio ha dimensioni, ma lo spazio diviene spazio geometrico attraverso atti di misurazione, la cui composizione chiamiamo dimensioni.

Veniamo al tempo fisico o tempo di natura; già sappiamo che non si possono prendere in considerazione successioni temporali se non in dipendenza dall’intenzionalità della coscienza; chiediamoci allora come si dà innanzitutto la temporalità fisica; di primo acchito essa deve darsi come successione di eventi, ma in termini fisici ciò non basta in quanto il tempo è innanzitutto da intendere come qualcosa che scorre regolarmente e che fornisce così il parametro per misurare i processi. Tuttavia, se la natura metrica dello spazio era ambigua, quella del tempo è davvero misteriosa: cosa mai scorrerebbe costantemente in modo da fornire il metro universale per determinare processi fisici? È chiaro che non c’è niente che scorra ‘a fianco’ del succedersi degli eventi: abbiamo proprio solo il succedersi di eventi. Aristotele definì il tempo come il ‘numero del movimento’, cioè come la misura del movimento, ma non è affatto chiaro come si possa determinare un’unità di misura del tempo; quale sarebbe infatti il parametro per valutarne la costanza in diversi atti di misurazione? Nel caso dei campioni metrici spaziali il criterio di stabilità può essere applicato in quanto assumiamo che allo scorrere del tempo un campione metrico funzionale è quello che non muta; ma se fosse il tempo stesso a manifestare mutamenti incontrollabili non ci sarebbe alcuna possibilità di valutare alcunché, neppure la validità dei metri spaziali. Ora, come per lo spazio anche per il tempo dobbiamo concludere che esso non ha alcuna misura, ma è il modo con cui noi costruiamo misurazioni del cambiamento. Se potessimo accertarci con una misurazione della regolarità del tempo, dovremmo avere una ‘metatemporalità’ che ci garantisce della costanza della regolarità prima. Di fatto, tutto ciò che si può fare per determinare ‘misurazioni’ del tempo è ricercare processi che paiono dispiegarsi in modo uniforme in diverse istanze del medesimo processo. I moderni orologi atomici sono considerati un modello di regolarità in quanto ponendone diversi con la medesima sincronizzazione di partenza, essi mostrano dopo un anno differenze massime dell’ordine di 6 x 10-6 sec. Di nuovo vediamo come l’unità di misura è posta sulla scorta di un ideale normativo di regolarità. Dunque spazio e tempo, le due componenti fondamentali alla base di ogni misurazione fisica, sono introdotte come incarnazioni di un’uniformità della natura presupposta. Ciò comporta che qualunque cosa, per avere un qualche grado di legittimazione scientifica, o meglio, di esistenza scientifica, deve rispondere ad esigenze ideali di regolarità. È ovvio che ciò ha un’implicazione inaggirabile, ovvero che non è possibile stabilire su base scientifica che la natura è uniforme; più pregnantemente, non è possibile stabilire su base scientifica che la natura è governata in toto da leggi. Questo perché, com’è chiaro, qualunque tipo di fenomeno che risulti difficile da sottoporre a misurazione, cioè che non manifesti sufficiente uniformità, viene sottratto alla considerazione. Ciò diventa

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ulteriormente chiaro se pensiamo all’esigenza di ripetibilità propria di tutti i risultati che vogliano dirsi scientifici: se qualcosa non è ripetibile non è scientificamente reale. Questa, per intenderci, non è una critica al procedimento scientifico, tutt’altro: è perfettamente ragionevole che soltanto ciò che può essere ripetuto sotto condizioni sperimentalmente controllate possa avere accesso alla considerazione scientifica, e ciò è ragionevole sia sulla scorta dell’esigenza di controllo intersoggettivo che sulla scorta dell’esigenza di manipolabilità tecnica. Il punto filosoficamente critico, tuttavia, sta nel mettere in guardia circa estensioni improprie di una scelta metodologica pienamente sensata ad un livello ontologico: è un grave errore logico pensar di poter inferire dal fatto che tutti i risultati scientifici ci consegnano uniformità (e dunque, se le catturiamo con equazioni, ci consegnano leggi) al fatto che la natura consta di uniformità o di leggi. Tutto ciò che ci viene detto è che una sezione prossima della natura manifesta uniformità che possono essere formulate attraverso leggi (con l’accortezza di rammentare che tali leggi non impongono nulla, ma registrano andamenti costanti così come si sono dati).

Notiamo di passaggio, senza poter approfondire il punto, che la teoria della relatività compie un passaggio importante comprendendo che spazio e tempo non sono degli assoluti che preesistono agli atti di misurazione, ma sono esiti di atti di misurazione; tuttavia, per poter continuare con fiducia nell’intrapresa scientifica Einstein dovette porre al posto di tempo e spazio assoluti un’assoluta unità di misura, nella forma della velocità della luce. Ciò però comporta numerosi inconvenienti. In primo luogo, pone tutto il sistema dei saperi in dipendenza del comportamento di una componente del sistema, cioè dalla velocità della luce posta come insuperabile e costante. Il primo problema è che questi presupposti sono datità empiriche che potrebbero essere false. Un secondo problema è che la loro interpretazione oscilla tra la dimensione epistemologica e quella ontologica, visto che non è mai pienamente chiaro se le equazioni relativistiche ed i loro esiti vadano intesi in modo meramente cognitivo, come il modo in cui noi possiamo effettuare i nostri atti di misurazione, nei limiti della velocità massima di trasmissione dei segnali. oppure in modo pienamente realistico, come limiti oggettivi con cui si possono trasmettere effetti fisici da un sistema all’altro.

Se diamo una rapida occhiata ai principi della dinamica su cui si basa l’edificio della fisica classica troviamo inscritti gli ideali normativi di cui sopra in modo ancora più icastico. Il primo principio recita, in una sua versione, “un corpo, su cui non intervenga una forza, continua nella sua condizione di stato o moto rettilineo uniforme”. Ebbene, questa sembrerebbe chiaramente una generalizzazione giustificata sulla scorta di infiniti dati empirici che confermano questa tesi e sull’assenza di smentite. Tuttavia, se guardiamo i termini più da vicino scopriamo che il tutto è meno informativo di quanto ci si potrebbe aspettare. Cos’è un ‘corpo’? È una massa. E come si determina una massa? Sulla base del modo come reagisce all’applicazione di forze. E come si determina l’applicazione di forze ad un corpo? Attraverso la sua variazione di moto (accelerazione). La nozione di forza in fisica è riducibile ai suoi effetti su masse, e non ha alcuna modalità

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di esistenza indipendente da questi effetti. Ora, da ciò segue che per determinare che qualcosa è una massa inerziale, cioè un corpo su cui non intervengono forze, è necessario stabilire che esso non manifesti variazioni di moto; vengono così scartati dalla considerazione tutti quei corpi che in qualche modo non manifestino una condizione di stato o moto rettilineo uniforme. Se teniamo presente che a rigore non possiamo mai davvero isolare un corpo da tutte le forze che potenzialmente o in atto si esercitano su di esso (si pensi alle forze gravitazionali, che non possiamo certo ‘sbarrare’), ne segue che il principio in effetti non parla di ‘corpi su cui non sono applicate forze’, ma di corpi su cui non sono applicate forze ulteriori, nuove rispetto ad un quadro precedente; ma per scorgere se si danno nuove applicazioni di forze non abbiamo altro mezzo che vedere se esso presenta accelerazioni. Ma almeno la natura di ‘rettilineo’ può essere considerata informativa? No, perché rettilineo è semplicemente il moto più economico tra due punti, cioè il moto che avviene in assenza di forze applicate. Dunque, nel complesso, il primo principio della dinamica non dice niente di empirico sul mondo, tranne che vi sono fenomeni organizzabili secondo una serie di definizioni reciproche dei termini ‘corpo’ (massa), forza (accelerazione), e moto inerziale (stato o moto rettilineo uniforme).

Il secondo principio della dinamica completa il quadro, definendo l’accelerazione prodotta da una forza su di un corpo come direttamente proporzionale alla forza applicata ed inversamente proporzionale alla massa inerziale del corpo. Siccome non c’è modo di determinare una forza se non attraverso l’accelerazione (positiva o negativa) impressa su di una massa, e siccome non c’è modo di determinare la massa di un corpo, se non sottoponendola all’applicazione di forze e misurandone l’effetto come variazione di moto, ne segue che anche il secondo principio della dinamica ha una natura essenzialmente definitoria dei suoi termini.

Tra i punti che possono essere valutati con maggior interesse c’è il complesso rapporto concettuale che intercorre tra primo e secondo principio della termodinamica. Il primo principio è il cosiddetto principio di conservazione dell’energia in un sistema chiuso, ed afferma che vige un’equivalenza tra calore e lavoro, ovvero che l’energia impiegata in un sistema per produrre lavoro non scompare ma si trasforma in calore. Il secondo principio, che ha innumerevoli formulazioni, afferma che non è possibile trasformare integralmente il calore in lavoro, ovvero che l’entropia di un sistema isolato tende ad aumentare fino a raggiungere l’equilibrio termico. Ora, l’interesse per noi di questi principi, ed in particolare del secondo, sta nel fatto che essi fanno riferimento necessario all’asimmetria del tempo, cioè al fatto che il tempo, come si dice, ‘scorre’ in un senso: mentre le equazioni della gravitazione universale o dell’elettromagnetismo sono idealmente reversibili quanto al loro decorso temporale, questo non è vero per il secondo principio della termodinamica. Notoriamente un’applicazione all’universo, considerato come sistema chiuso, del secondo principio della termodinamica implica la cosiddetta ‘morte termica’ dell’universo, ovvero il raggiungimento di una condizione in cui tutta l’energia utilizzabile per produrre lavoro si è ridotta ad energia termica in equilibrio, e dunque non può esserci più né materia né vita. Nonostante di

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primo acchito ci potrebbe essere la tentazione di considerare questa idea in conflitto con il principio di conservazione dell’energia, così non è, in quanto non si dice che l’energia scompaia dall’universo, ma si dice che tutte le differenze energetiche hanno raggiunto l’equilibrio e quindi non possono più compiere alcun lavoro. Ciò che però ha sollevato da sempre curiosità, e ne solleva a maggior ragione per noi, è il riferimento alla crescita necessaria dell’entropia. Essendo la nozione di entropia correlata a quelle di ordine, caso e probabilità, la natura delle argomentazioni a sostegno del secondo principio della termodinamica sembrano avere più il carattere di necessità logiche che di leggi fisiche; ed in effetti la difficoltà a discriminare la componente empirica da quella logica è di particolare interesse per noi. Ora, ogni unità di materia appare come energia organizzata e stabilizzata, mentre ogni produzione di lavoro implica il degrado più o meno massiccio da energia in forma organizzata, ordinata, utilizzabile ad energia termica, la quale a sua volta tende a raggiungere l’equilibrio termico con l’ambiente circostante. La crescita dell’entropia indica una riduzione complessiva degli stati organizzati della materia (e dell’energia) a favore di stati meno organizzati. Ora, in certo senso è intuitivo dire che, in assenza di un’azione ordinatrice esplicita, gli andamenti spontanei casuali tendono ad essere progressivamente sempre meno ordinati: se non cerchiamo di mettere in ordine la stanza, difficilmente essa conserva l’ordine o vi ritorna spontaneamente. Tuttavia questa osservazione intuitiva non è necessariamente un buon viatico, in quanto, a ben vedere, all’interno di un sistema puramente casuale, come si assume essere il cosmo materiale, non ci sono stati più o meno probabili: in linea di principio dovremmo supporre che in un tempo infinito tutti gli ordini possibili si succederanno in tutte le combinazioni possibili, senza che ciò ci dica nulla di tendenze chiaramente indirizzate. Ma questa nozione di casualità non si attaglia bene al nostro mondo: proviamo ad immaginare un mondo in cui non vi sia una tendenza naturale all’aumento dell’entropia. Un tale mondo si configurerebbe come particolarmente insidioso, anzi, a ben vedere, come incompatibile con qualunque forma di vita: la natura stessa del nostro mondo in quanto dotato di uniformità sarebbe minacciato da una situazione in cui l’entropia tendesse naturalmente a decrescere. Quando noi aspettiamo che il caffè si raffreddi noi aspettiamo che l’energia termica raggiunga spontaneamente un equilibrio con l’ambiente; un mondo in cui la seconda legge della termodinamica non valesse sarebbe un mondo in cui un succo di frutta ghiacciato potrebbe organizzare il moto delle molecole circostanti per aumentare la propria temperatura fino all’incandescenza. Sarebbe in generale un mondo in cui il rimbalzo del pallone invece di decrescere fino a spegnersi potrebbe con altrettanta facilità aumentare progressivamente di energia cinetica fino a trasformarsi in un bolide incontrollabile. I rari casi in cui singoli eventi non seguono del tutto la tendenza all’equilibrio sono eventi tipicamente catastrofici, come le situazioni in cui un ponte od un bicchiere entrano in risonanza amplificando onde di entità solitamente trascurabile. In quest’ottica vediamo anche l’affinità con il primo principio: un mondo in cui l’energia (e dunque neppure la materia) non si conservasse, ma nascesse o sparisse liberamente sarebbe un mondo del tutto privo di

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costanze ed equilibri possibili. ‘Cause’ uguali potrebbero produrre effetti toto coelo differenti; la materia stessa potrebbe costituirsi o sparire dal nulla, con sgradevoli conseguenze per qualunque ente che dovesse contare su costanze di funzionamento esterno ed interno. In altri termini è legittimo dire che affinché ci siano viventi e a maggior ragione viventi dotati di coscienza si deve dare un mondo cui l’energia si conserva (in un sistema chiuso) ed in cui l’entropia aumenta. Ma chiediamoci ora di nuovo: qual è il carattere di queste leggi, empirico, logico, o altro ancora? Chiediamoci dove sta l’apparente cogenza logica di un’idea come quella dell’aumento dell’entropia. Il punto, si dice, è che per produrre una crescita dell’ordine in un sistema (ovvero un aumento dell’energia disponibile, cioè delle differenze di energia, visto che l’energia non è misurabile altrimenti che come differenziale) sarebbe necessario che avvenisse una selezione delle molecole con maggiore energia a scapito delle altre in modo da concentrare tutte le molecole con maggiore energia da una parte e quelle con energia minore dall’altra. Tale selezione però, si è detto, potrebbe avvenire solo attraverso un lavoro esercitato dal selettore (il ‘diavoletto di Maxwell’), che richiederebbe energia a sua volta per effettuare quest’opera di discernimento. Ora, è chiaro che un tale ragionamento, sia nella proposta che nella critica assume sostanzialmente quello che vorrebbe mettere in discussione. Si assume cioè che, in assenza di un agente specifico (un ‘demone’, ad esempio) questo processo di separazione di particelle a maggiore e minore energia non potrebbe avvenire. Ma questo è appunto ciò che il principio afferma, e basterebbe che vi sia una cosa (una ‘forza’) in tutto l’universo che avesse la facoltà di creare differenze energetiche, perché il principio fosse falso. In altri termini, il principio in questa versione non ha cogenza logica. Quando noi tendiamo ad annuire di fronte all’idea che l’ordine è meno probabile del disordine, noi stiamo introducendo surrettiziamente un giudizio di valore; in effetti, che senso ha parlare di ‘disordine’ in senso oggettivo? Al più possiamo dire: un certo ordinamento singolo è meno probabile dell’insieme di tutti gli altri ordinamenti possibili. Se volessimo dire qualcosa di più di questo, cioè se volessimo dire che qualcosa è ordine e qualcos’altro non lo è, dovremmo introdurre un criterio di ordine, il che sembra possibile solo alla luce di una disposizione teleologica: nella mia stanza vale come ordine ciò che risponde a certe esigenze di funzionalità, e perciò vale come disordine la totalità degli stati possibili che non tengono presente le mie esigenze funzionali. Chiediamoci cosa c’è di simile sul piano delle nostre valutazioni fisiche. Cosa vale come stato organizzato della materia o dell’energia? La risposta è estremamente diretta: ciò che siamo in grado di utilizzare in qualche azione. In questo senso in meccanica classica l’attrito è segnalato come una forza negativa, non assimilabile ad alcuna delle forze fondamentali, ma determinata come componente dissipativa rispetto alla direzione in cui sono applicate le forze che teniamo sotto osservazione. In altri termini non esiste l’attrito in sé, ma solo in relazione ad uno specifico andamento causa-effetto: è attrito tutto ciò che viene ‘sprecato’ nella trasformazione di energia in lavoro. L’attrito, come si sa, genera calore, ma questo può essere anche tradotto come segue: la parte di energia meno utilizzabile è l’energia termica; il che nel secondo

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principio si traduce in: non è mai possibile utilizzare integralmente per produrre lavoro l’energia termica disponibile. Ma questa è la versione oggettiva di quella che in un’ottica soggettiva dice: chiamiamo attrito (energia termica) l’energia che non siamo in grado di contenere in un sistema e di dominare. In quest’ottica il nesso tra entropia come ‘disordine’ (logicamente più probabile dell’ordine) e dissipazione termica diventa chiaro: così come ogni specifico ordinamento soggettivamente voluto è meno probabile che si verifichi di un qualsiasi stato alternativo, così ogni utilizzo di mezzi per ottenere un risultato specifico (lavoro) non può trasformare senza dispersione (senza irraggiamento termico, senza attriti) tutta l’energia disponibile in lavoro (cioè in un risultato specifico). È chiaro che l’intero valore apriori di questa legge dipende dall’assunzione implicita di un’istanza ordinatrice soggettiva, che pone un agente-causa ed un effetto-risultato come stati estremamente specifici nel novero degli stati possibili della materia e dell’energia. Perciò non c’è nessuna effettiva ragione logica per concedere che l’entropia dell’universo è in costante aumento. D’altro canto, se consideriamo che materia organizzata ed esseri viventi ci sono, non ci si può sottrarre alla questione metafisica di come sia possibile, di fronte alla apparentemente ineluttabile tendenza di tutti i processi fisici a degradare le forme di energia ordinata, che in generale tali forme esistano. Infatti, salvo introdurre una creazione divina come deus ex machina, bisogna ammettere che sotto alcune condizioni, magari minoritarie, la materia possa costituirsi e l’energia differenziarsi in livelli. La situazione è dunque la seguente: non abbiamo nessun argomento logico a favore della tendenza generale alla crescita dell’entropia, abbiamo un argomento logico-metafisico contro una tale tendenza generalizzata (l’esistenza di forme organizzate, tra cui i viventi), ed abbiamo un argomento empirico a favore di questa tendenza, argomento che però è inficiato nella sua informatività dall’essere una precondizione affinché questa domanda stessa possa essere posta (ovvero: è vero che nel nostro mondo circostante l’energia tende ad equilibrarsi, ma se così non fosse non potremmo neppure averlo notato, giacché non ci potrebbe essere vita). Vediamo così, di nuovo, come il valore di principi fisici universali (non di applicazioni locali) è condizionato dalla natura del rapporto tra soggettività agente ed oggettività naturale in quanto tali: la verità metafisica profonda della fisica è che il mondo fisico deve consentire al vivente di esistere ed alla coscienza di porsi domande sulla natura fisica; tale precondizione è data da principi di conservazione e riequilibratura.

SEZIONE VII

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Veniamo così all’ultimo e decisivo tema, che domina la Crisi, ovvero al tema della storicità come dimensione costitutiva ed essenziale per il soggetto trascendentale. Di fronte all’emergere abbastanza improvviso della storicità tra i temi trattati in forma scritta e pubblica da Husserl si è spesso ricorsi a spiegazioni estrinseche, come la necessità di rispondere alle posizioni esposte da Heidegger in Sein und Zeit (1927). Tuttavia un’occhiata ai manoscritti ci dice che la questione della storia assume centralità sin dai primi anni ’20, ed inoltre, come abbiamo in parte detto, ci sono chiare ragioni immanenti alle argomentazioni husserliane a spingerlo nella direzione di considerare la dimensione storica come centrale. Una volta compreso come la costituzione degli strati di significato che formano la nostra modalità di intenzionare gli oggetti è opera di una sedimentazione temporale, a partire dalle sintesi passive ritentivo-protensive, ed una volta compreso come la dimensione naturale in cui avvengono i nostri giudizi di realtà (verità) è quella di un accordo intersoggettivo universale, era ben difficile non collocare il problema del senso soggettivo in una dimensione storica, essendo la storia precisamente la dimensione degli eventi temporali che contano per la soggettività umana ed hanno validità intersoggettiva (verità). La Storia, prima di essere quella specifica narrazione che chiamiamo Storia Universale, con le sue date qualificanti e le sue svolte epocali, è una dimensione di senso. Non si capisce nulla dell’importanza della storia se si parte da una lettura della historia rerum gestarum, di questa o quella vicenda, magari con l’intento di scorgere qualche ‘lezione da trarre’ o qualche buon argomento da opporre altrui. La dimensione prima e fondamentale per entrare nel senso della storicità è la storia presente, o meglio, la nostra vita vissuta in prima persona in un certo intorno empirico ed operativo. Questa è la dimensione di ciò che Husserl chiama mondo-della-vita (Lebenswelt), e su cui è necessario intrattenersi brevemente.

La prima cosa da comprendere è che, contrariamente ad un frequente fraintendimento, la Lebenswelt non è affatto la quotidianità in presa diretta, cioè appresa secondo l’atteggiamento naturale.33 Mentre nell’atteggiamento naturale, nella quotidianità vissuta, noi siamo interessati a cosa sono le varie cose, a cosa è opportuno volere o non volere, nell’atteggiamento filosofico rivolto al mondo-della-vita noi siamo interessati a come i fenomeni si danno.34 In un altro senso, tuttavia, il mondo della vita non è qualcosa che

33 „Wir werden es verstehen lernen, dass die ständig für uns im strömenden Wandel der Gegebenheitsweisen seiende Welt ein universaler geistiger Erwerb ist, als das geworden und zugleich fortwerdend als Einheit einer geistigen Gestalt, als ein Sinngebilde - als Gebilde einer universalen letztfungierenden Subjektivität. Dabei gehört wesentlich zu dieser weltkonstituierenden Leistung, dass die Subjektivität sich selbst als menschliche, als Bestand der Welt, objektiviert. Alle objektive Weltbetrachtung ist Betrachtung im ‚Außen’ und erfaßt nur ‚Äußerlichkeiten’, Objektivitäten. Die radikale Weltbetrachtung ist systematische und reine Innenbetrachtung der sich selbst im Außen ‚äußernden’ Subjektivität.“ (Krisis, p. 115-6; § 29)34 „Gestalten wir nun dies zu einer neuen universalen Interessenrichtung, etablieren wir ein konsequentes universales Interesse für das Wie der Gegebenheitsweisen und für die Onta selbst, aber nicht geradehin, sondern als Objekte in ihrem Wie, eben in der ausschließlichen und ständigen Interessenrichtung darauf, wie im Wandel relativer Geltungen, subjektiver Erscheinungen, Meinungen die einheitliche, universale Geltung Welt, die Welt für uns

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sia ‘nascosto dietro’ la nostra quotidianità: è proprio ciò che viviamo in ciascun presente vivente, semplicemente osservato sotto Epoché. Questo significa che il punto di partenza primo, fondante per ogni altra considerazione di natura scientifica ed oggettiva, è un punto di vista ‘soggettivo-relativo’. Tuttavia questo punto di vista soggettivo-relativo non deve essere soppresso per giungere all’oggettività, bensì esso ha in sé l’oggettività come un sottoinsieme di casi estraibili. In effetti il mondo della vita è semplicemente il mondo nella sua interezza così come si dà, come intero e come parti, a ciascuno di noi in quanto soggetti anonimi fungenti (non in quanto uomini empirici). C’è però un secondo elemento che deve essere messo in evidenza nella concezione di mondo-della-vita: il termine ‘vita’ non suggerisce semplicemente quotidianità versus teoria, ma rimanda soprattutto alla dimensione già sempre orientata, direzionata sul piano delle preferenze, dei bisogni e dei valori. Il mondo della vita va sì contemplato sospendendone la validità immanente, ma questo non significa che la dimensione valoriale vada eliminata: diversamente dall’atteggiamento scientifico che ottiene la sua oggettività eliminando parti dell’esperienza, la prospettiva metodologica husserliana mira a cogliere tutto ciò che pertiene alla coscienza vivente.

Ora, chiediamoci, come si può accedere per gradi all’intuizione della storicità partendo dall’esperienza continuativa del presente vivente? In primo luogo comprendendo come ciascun soggetto vivente miri costantemente a collocarsi nel mondo ed autocomprendere la propria posizione nel mondo: l’autodeterminazione della propria identità non è un problema meramente cognitivo per ciascun soggetto, ma è un problema assiologico fondamentale. Per ciascun soggetto è essenziale, per orientarsi nell’esistenza, essere in grado di darsi una collocazione rispetto agli altri e rispetto al contesto temporale in cui vive. Anche chi rifiuta apparentemente tale sorta di autocollocazione lo fa come istanza polemica secondaria, che presuppone quella stessa collocazione che fa mostra di rifiutare: l’anarchico, l’individualista, il nichilista, lo scettico, il solipsista, tutti propongono come atteggiamento esemplare il disinteresse verso ogni nesso relazionale (verso le istituzioni, verso gli altri, verso i valori costituiti, verso la realtà stessa). Ovviamente tale sorta di atteggiamento, nella misura in cui vuole essere assoluto, è semplicemente contraddittorio: l’anarchico non ignora lo stato, lo contesta attivamente; l’individualista non ignora gli altri ma tenta attivamente di guadagnare diritti a scapito altrui; il nichilista non è privo di orientamento assiologico, ma boicotta polemicamente i valori correnti; lo scettico non dubita davvero delle cose su cui fa affidamento operativo, ma contesta le ragioni altrui per credervi; ecc. Chi davvero conducesse un’esistenza incapace di trovare questa dimensione identitaria non sarebbe alcuna ‘figura dello spirito’, ma piuttosto sarebbe ospite involontario di un qualche istituto d’igiene mentale. Comprendere in qualche misura chi si è, cosa si vuole, quale è la propria collocazione nel mondo è qualcosa che è al tempo stesso cognitivamente ed assiologicamente fondamentale. Ciascuno di noi viene alla coscienza e all’egoità in una situazione già sempre avviata, delle cui origini non ha conoscenza, e comincia faticosamente ad ancorarsi

zustande kommt (…).“ (Krisis, p. 147; § 38)

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in una realtà magmatica e fluente, rispetto a cui deve ben presto prendere posizione per poter decidere dei propri atti. A ben vedere, tuttavia, il modo stesso in cui noi giudichiamo essere il mondo, e noi rispetto al mondo, implica quale orientamento avremo; questo significa che le nostre presunte conoscenze di cosa il mondo è e di chi noi siamo rispetto al mondo ci indicano quale sarà l’indirizzo etico delle nostre scelte: in una visione radicale come quella fenomenologica non c’è alcuna scissione essenziale tra dimensione cognitiva e dimensione etica; così come non c’è modo di esercitare operazioni cognitive rivolte alla realtà senza un orientamento assiologico (al minimo l’orientamento teleologico dell’essere vivi), altrettanto non c’è modo di assumere un orientamento nel mondo senza conoscere la propria posizione ed identità rispetto al mondo.

Sulla scorta di queste considerazioni si può cominciar a vedere qual è il senso della rivendicazione che Husserl fa di un peculiare telos proprio dell’umanità storica. Sin dalle prime pagine della Krisis emerge il tema, nuovo per lo Husserl pubblico, di un telos immanente alla storia dell’umanità, un telos incarnato dalla cultura europea a partire dalla sua fondazione nel mondo greco.35 Se l’essenza umana è la razionalità, e di ciò Husserl, come l’intera storia del pensiero occidentale, salvo sparute eccezioni, è convinto, allora filosofia e scienza, prodotti caratteristici dell’Occidente, sono né più né meno che la rivelazione, l’incarnazione dell’entelechia propria dell’umanità stessa. Ora, di primo acchito una tesi del genere può lasciare perplessi per svariati motivi. Innanzitutto non è una tesi particolarmente nuova, essendo stata rappresentata in forma potente quantomeno dall’idealismo tedesco, Fichte e Hegel in particolare. In secondo luogo è una tesi che può apparire fastidiosamente etnocentrica, quasi inconsapevole della ricchezza e varietà di culture mondiali con la loro peculiarità e dignità. In terzo luogo, è una tesi che nella sua rivendicazione della fondamentalità della ragione sembra porsi in una posizione quanto mai stantia ed angusta, dimentica delle lezioni della crisi dello hegelismo (Schopenhauer, Nietzsche, Marx, ecc.). Ma ovviamente il fatto che una tesi suoni vecchia non comporta ancora affatto la sua falsità, e quindi è necessario comprenderla sulla scorta del complessivo percorso di pensiero husserliano.

35 „Damit allein entscheidet sich, ob das dem europäischen Menschentum mit der Geburt der griechischen Philosophie eingeborene Telos, ein Menschentum aus philosophischer Vernunft sein zu wollen und nur als solches sein zu können - in der unendlichen Bewegung von latenter zu offenbarer Vernunft und im unendlichen Bestreben der Selbstnormierung durch diese seine menschheitliche Wahrheit und Echtheit, ein bloßer historisch-faktischer Wahn ist, ein zufälliger Erwerb einer zufälligen Menschheit, inmitten ganz anderer Menschheiten und Geschichtlichkeiten; oder ob nicht vielmehr im griechischen Menschentum erstmalig zum Durchbruch gekommen ist, was als Entelechie im Menschentum als solchen wesensmäßig beschlossen ist. Menschentum überhaupt ist wesensmäßig Menschsein in generativ und sozial verbundenen Menschheiten, und ist der Mensch Vernunftwesen (animal rationale), so ist er es nur, sofern seine ganze Menschheit Vernunftmenschheit ist - latent auf Vernunft ausgerichtet oder offen ausgerichtet auf die zu sich selbst gekommene, für sich selbst offenbar gewordene und nunmehr in Wesensnotwendigkeit das menschheitliche Werden bewusst leitende Entelechie. Philosophie, Wissenschaft wäre demnach die historische Bewegung der Offenbarung der universalen, dem Menschentum als solchen ‚eingeborenen’ Vernunft.“ (Krisis, p. 13, § 6)

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Quanto alle differenze rispetto all’idealismo tedesco classico, anche senza voler approfondire qui il tema, è possibile delineare immediatamente un punto di differenza essenziale: mentre nello Spirito hegeliano o nell’Io assoluto fichtiano si può leggere una dimensione assoluta che precede e fonda il reale, e che dunque in certo modo garantisce gli esiti dello sviluppo storico, nella prospettiva husserliana tale interpretazione è vietata. Mentre è possibile (anche se non è affatto l’unica lettura) considerare lo Spirito di Hegel come qualcosa che sovrintende agli sviluppi della Storia e della Natura, che garantisce per il dispiegarsi del Tempo e dello Spazio, che insomma assomiglia grandemente al Dio dei monoteismi, questa lettura è priva di senso nel contesto dell’analisi husserliana, dove l’essenza è sempre solo incarnata e dove la soggettività trascendentale non ha una realtà antecedente ed esterna alla sua incarnazione in soggetti empirici ed in relazione incarnate col mondo circostante. In questo senso la soggettività trascendentale husserliana non garantisce nulla circa gli esiti del decorso storico. Se si è potuto plausibilmente dire che in Hegel non c’è spazio per vera tragedia nella storia, giacché tutto ciò che conta ha garantito, per così dire, l’inveramento in una successiva figura dello spirito, e dunque niente di essenziale può mai andare perduto e nessun errore è davvero irrimediabile, ebbene, niente del genere può dirsi nella filosofia della storia di Husserl, per cui nulla può dare simili garanzie.

Quanto al secondo punto, cioè all’ accusa di etnocentrismo, qui le cose si fanno molto delicate. È indubbio che, scrivendo nel contesto culturale centroeuropeo del primo Novecento, e vista l’evoluzione economica ed antropologica succeduta alla seconda guerra mondiale, Husserl è distante anni luce dalla temperie culturale divenuta dominante negli anni della globalizzazione. Per ciò stesso qualunque cosa egli dica su questi temi risulta nei toni facilmente ‘imprudente’ o ‘irrispettoso’. Husserl è convinto che il potere di attrazione che la cultura occidentale ha avuto ed ha nei confronti di tutte le culture ‘altre’, anche quelle più strutturate e raffinate come quella cinese o giapponese, sia dovuto essenzialmente al potere intrinseco delle idee, ed in particolare dell’idea di razionalità come nucleo qualificante e parametro fondante della cultura occidentale. Ora, c’è chi ha ricordato ironicamente che gli Indiani d’America o gli Aztechi non sono stati ‘convinti’ argomentativamente della bontà degli ideali europei, ma sono stati graziosamente sterminati, fino a che i sopravvissuti hanno accettato loro malgrado (e spesso solo in parte) i costumi europei; parimenti, la Cina non si aprì all’Occidente con entusiasmo per le merci e le scienze occidentali, ma fu aperta dalle cannoniere inglesi, con argomenti non precisamente discorsivi. È chiaro che una tale questione nel suo senso complessivo richiede un’analisi molto più articolata di quanto Husserl abbia effettivamente fornito, ed in questo senso è inutile sperare di trovare negli scritti husserliani un’argomentazione all’altezza della complessità del tema. Ciò però non significa che non dobbiamo sforzarci di vedere se, al di sotto di una considerazione prima facie semplicistica dei rapporti tra la cultura occidentale e le altre non ci sia un nocciolo di verità degno di essere valutato. Innanzitutto non bisogna scordare che Husserl ha davanti agli occhi la peculiare autodeterminazione razionale dell’Occidente, e non

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l’Occidente tout court; in quest’ottica non sarebbe alcuna obiezione il fatto che numerose tradizioni non occidentali siano state assorbite dall’Occidente e che molti tratti occidentali profondi siano stati contestati dall’interno e dall’esterno: Husserl non sta affatto dicendo che l’Occidente ha il monopolio della buona cucina o dell’armonia famigliare e neppure che l’efficienza del modello economico occidentale sia un modello da perseguire; egli si limita a pensare che l’intento di apprensione della verità, di autofondazione, autocomprensione, ed in ultima istanza di piena assunzione di responsabilità per le proprie credenze e decisioni sia un telos generalmente umano, incarnatosi in modo esemplare nella grecità classica e da lì trasmessa innanzitutto a quell’area del pianeta chiamata Europa. Per vedere se questa posizione sia davvero segno di un provincialismo etnocentrico o se sia invece qualcosa di sostenibile bisogna rivolgersi al contenuto del terzo dubbio sollevato più sopra, ovvero al contenuto della razionalità invocata come telos.

Il possibile fastidio che può cogliere davanti alla rivendicazione di entelechia umana attribuita alla verità36 e alla razionalità37, è dovuto probabilmente ad un riflesso legato alle istanze scientistiche del positivismo e del naturalismo, istanze che sappiamo essere radicalmente contestate da Husserl medesimo. Quando incontriamo di norma frasi che parlano della verità come fine infinito lo facciamo in contesti in cui l’idea di fondo è quella di un infinito approssimarsi asintotico alla corretta rappresentazione delle cose. Inutile dire che una tale visione non soltanto è, dopo Kuhn, 36 „hat für ihn [Mensch] die ganze Idee ‚Wahrheit an sich’ einen Sinn? Ist das, und korrelativ an sich Seiendes, nicht eine philosophische Erfindung? Aber doch nicht eine Fiktion, nicht eine entbehrliche und bedeutungslose Erfindung, sondern eine solche, welche den Menschen auf eine neue Stufe erhebt, bzw. zu erheben berufen ist in einer neuen Historizität menschheitlichen Lebens, deren Entelechie diese neue Idee ist und die ihr zugeordnete philosophische oder wissenschaftliche Praxis, die Methodik eines neuartigen wissenschaftlichen Denkens. - Das An-sich besagt ebensoviel wie objektiv, wenigstens so, wie in den exakten Wissenschaften das Objektive dem bloß Subjektiven gegenübergestellt wird, letzteres als das, was Objektives nur indizieren soll oder worin Objektives nur erscheinen soll. Es ist bloß Phänomen von Objektivem, und aus den Phänomenen das Objektive herauszuerkennen und in objektiven Begriffen und Wahrheiten zu bestimmen, das ist die Aufgabe.“ (Krisis, p. 270-1; § 73)37 „Vernunft ist das Spezifische des Menschen, als in personalen Aktivitäten und Habitualitäten lebenden Wesens. Dieses Leben ist als personales ein ständiges Werden in einer ständigen Intentionalität der Entwicklung. Das in diesem Leben Werdende ist die Person selbst. Ihr Sein ist immerfort Werden, und das gilt bei der Korrelation von einzelpersonalem und gemeinschaftspersonalem Sein für beides, für den Menschen und die einheitlichen Menschheiten. - Menschlich personales Leben verläuft in Stufen der Selbstbesinnung und Selbstverantwortung, von vereinzelten, gelegentlichen Akten dieser Form bis zur Stufe universaler Selbstbesinnung und Selbstverantwortung, und bis zur Bewusstseinserfassung der Idee der Autonomie, der Idee einer Willensentschiedenheit, sein gesamtes personales Leben zur synthetischen Einheit eines Lebens in universaler Selbstverantwortlichkeit zu gestalten; korrelativ, sich selbst zum wahren Ich, zum freien, autonomen zu gestalten, das die ihm eingeborene Vernunft, das Streben, sich selbst treu zu sein, als Vernunft-Ich mit sich identisch bleiben zu können, zu verwirklichen <sucht>; (…) Aber von innen gesehen ist es ein Ringen der in geistiger Gemeinschaft lebenden und fortlebenden Philosophengenerationen - der Träger dieser Geistesentwicklung -, im ständigen Ringen der ‚erwachten’ Vernunft, zu sich selbst, zu ihrem Selbstverständnis zu kommen, zu einer konkret sch selbst - und zwar als seiende Welt, als in ihrer ganzen universalen Wahrheit seiende Welt - verstehenden Vernunft.“ (Krisis, p. 272-3; § 73)

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epistemologicamente discutibile, ma è anche singolarmente priva di quel pathos che dovrebbe animare secondo Husserl la verità come entelechia umana. Husserl, come prima di lui Hegel con la sua nozione di Sapere Assoluto, non ha certo di vista un’idea di crescita generale della conoscenza fino ad un ideale infinitamente lontano di rispecchiamento totale della realtà del mondo: un tale modello è ovviamente sensato solo in una cornice obiettivista, dove la realtà è esterna al soggetto ed estranea ad esso, e viene appresa come riproduzione più o meno fedele. Ma nel caso husserliano, come in quello hegeliano, conoscere significa al tempo stesso conoscersi ed il fine ideale della conoscenza, ovvero il raggiungimento della verità, non è l’apprensione di dati estrinseci, bensì il riconoscimento della propria posizione nel cosmo. Per comprendere il pieno senso del processo verso la verità in ottica fenomenologica bisogna partire dal termine tedesco per ‘percepire’, il cui significato etimologico è chiaramente presente ai primi fenomenologi: percepire si dice wahrnehmen, letteralmente composta da wahr (= vero) e nehmen (= prendere). La forma prima e più originaria di apprensione della Verità è la percezione. E la percezione non va intesa primariamente come riempimento intenzionale o come sintesi di copertura tra un contenuto intenzionale ed un evento sensibile, bensì come autodatità del fenomeno38 che costituisce insieme il soggetto in quanto percipiente e l’oggetto in quanto percepito. Ciò ci pone nella posizione giusta per comprendere il significato della verità come entelechia. L’infante che viene al mondo e non sa ancora nulla di sé e del mondo circostante inizia il suo percorso nella verità in quanto essere percipiente; la percezione, non bisogna dimenticarlo, non è solo un atto di rilevazione cognitiva neutrale, ma è anche una presa di posizione vivente che individua certi elementi come più salienti o interessanti di altri, che avverte alcune esperienze come negative ed altre come positive, ecc. Se rammentiamo le considerazioni fatte più sopra circa il nesso tra percezione e temporalità originaria (protensioni e ritensioni), e se rammentiamo il processo di costituzione dell’oggetto nei suoi tratti di fondo, possiamo descrivere lo sviluppo primario dell’infante come un processo in cui si tenta una sintesi capace di controllare l’ambiente e di collocarsi rispetto ad esso. L’infante ha innanzitutto bisogno di trovare posto nel mondo assimilando il diverso, armonizzandosi con il mondo circostante, e ciò avviene nella forma di crescita della conoscenza, che è in primis conoscenza operativa, saper-fare. Le verità apprese non sono mere rappresentazioni, ma sono capacità di agire che consentono di ridurre le situazioni di spaesamento, angoscia, disorientamento. (Quando vogliamo ‘sapere la verità’ su di un delitto, di fatto vogliamo poter ‘risolvere il caso secondo giustizia’ e perciò vogliamo sapere a chi attribuire la colpa). In quest’ottica si comprende bene come la scienza contemporanea, mirante al successo tecnico particolare più che alla sintesi dei saperi, sia un’incarnazione parziale e difettiva dell’impulso alla verità: se l’intento di controllo tecnico è certamente inscrivibile nel telos profondo della conoscenza, tuttavia la natura parcellizzante e strumentalmente mediata

38 „Die Selbstgegebenheit ist also die fundamentalste Weise der Wahrheit und sie fundiert auch den engeren Sinn der Wahrheit als Urteilswahrheit.“ (Dieter Lohmar, Erfahrung und kategoriales Denken, Kluwer Academic Publishers, 1998, p. 165)

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delle forme di controllo scientifico non consente davvero al soggetto di trovare una collocazione armonica nel cosmo. Il sapere scientifico ha un ruolo indubbiamente ‘tranquillizzante’, in quanto ci consegna una rappresentazione di regolarità controllabili, ma lo fa a scapito di una comprensione del rapporto essenziale tra soggettività vivente e mondo materiale: per la rappresentazione scientifica non c’è posto nel mondo per una coscienza intenzionale, per una soggettività agente irriducibile. Non c’è per la scienza alcuna possibile ‘conciliazione tra soggetto ed oggetto’, per dirla con Hegel. È perciò che, secondo Husserl, è necessario ridare senso all’intrapresa scientifica, che ha smarrito l’orientamento originario indirizzato verso la verità (non verso il solo controllo tecnico), e che dunque deve imparare ad integrare la dimensione della coscienza e quella dell’obiettività. Il telos della verità è non solo ‘sapere come le cose stanno’, ma anche sapere come esse si relazionano, da dove vengono e dove vanno, come possiamo agire su esse, come esse agiscono su noi, cosa dobbiamo fare nel mondo e cosa veramente vogliamo fare. Come già Hegel sapeva perfettamente la Verità non è una riproduzione esatta (oggi diremmo una ‘fotografia’) della realtà esterna, in quanto non c’è alcuna realtà esterna che in sé e per sé può essere appresa con una serie di riproduzioni (rappresentazioni): all’eventuale riproduzione bisogna aggiungere un’interpretazione degli elementi che vi occorrono, dunque delle loro relazioni complessive tra di essi, nel tempo e rispetto a chi li percepisce. In ultima istanza la verità (e le approssimazioni alla verità) si manifesta come ‘saper vivere’ (non ovviamente nel senso superficiale del savoir vivre).

Se questa è la visione della Verità, si può anche comprendere come si configuri la razionalità come entelechia: nel caso dell’idea di una fondazione razionale il dubbio radicale che può legittimamente cogliere è il seguente: cosa può voler mai dire fondazione razionale, visto che la ragione si esercita attraverso inferenze, ed inferenze si possono trarre solo a partire da dati non ulteriormente riducibili? In altri termini, esigere che qualcosa sia fondato in modo puramente razionale non equivale a tutti gli effetti a cancellarne ogni fondazione, giacché nel momento stesso in cui qualcosa diviene razionale non ha più alcun valore intrinseco assoluto? Questo è un tema ed un’intuizione antichissima, per quanto sia stata esplicitata filosoficamente solo in tempi relativamente moderni: il senso del peccato originale nella Genesi è quello dell’uscita da uno stato di armonioso immediato contatto col divino a causa della tentazione di conoscere (il frutto dell’albero del Bene e del Male). Socrate è ‘corruttore dei giovani’ e merita la cicuta in quanto distoglie i giovani dall’adesione immediata ai valori tradizionali per cercare di renderli consapevoli delle ragioni delle proprie credenze. Ora, che nessuna catena di inferenze possa avere valore fondativo è fuor di dubbio, ma ‘ragione’ per Husserl (come per Hegel) non è affatto il mero esercizio della logica. In quest’ottica però si deve osservare anche che la stessa natura dell’altro dalla logica viene a modificarsi: il fondamento pre-inferenziale delle inferenze non è né un semplice ‘dato’, né un’intuizione sentimentale. Il fondamento è un comportamento ambientale immanente che ci consegna continuamente ‘intuizioni’ in presa diretta e che è presupposto, come Husserl mostra, allo stesso emergere di una razionalità

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matura. Ma proprio grazie ad un’analisi come quella genetica avviata da Husserl vediamo la strada per conciliare la dimensione mediata propria della ragione logica con la dimensione immediata senza cui la prima non sarebbe potuta nemmeno esistere: la ragione fenomenologica non è affatto interessata a sostituire all’esperienza immediata una spiegazione mediata, come invece fa il naturalismo (senti così perché il cervello funziona così), al contrario si tratta di riconoscere l’autodatità dei fenomeni. La visione sotto Epoché media l’immediato in un senso del tutto diverso dalla spiegazione causale: ciò che ci si dà è riconosciuto nei limiti in cui si dà. Questa prospettiva ha implicazioni potenti, nonostante le apparenze miti: mentre in una prospettiva scientistica ogni qual volta ci si affatica intorno ad un’entità fondamentale (es.: nascita, coscienza, genetica), lo si fa con l’intento implicito o esplicito di poterlo rendere oggetto di un intervento causale, in una prospettiva fenomenologica si riconosce qual è il limite fondativo di ciò che sappiamo e possiamo, e dunque si riconoscono anche i limiti cognitivi dei nostri interventi causali. Ad esempio, mentre la scienza genetica può sognare di intervenire sulla struttura genetica umana fino a creare un’inebriante (ed inquietante) circolarità, tale per cui il soggetto che ora siamo potrebbe intervenire sul soggetto a venire in modo da togliere alla soggettività i suoi limiti (e le sue determinazioni) attuali, in un infinito ‘rilancio al buio’, la visione fenomenologica ci mostra come il modo di costituire i nostri saperi non ci consente di immaginare a priori gli effetti di simili interventi causali, e dunque ci mostra al tempo stesso come il fondamento in cui siamo ora insediati (i nostri geni nel nostro ambiente storico-naturale) non è semplicemente un’opzione tra innumerevoli possibili, ma è l’unica condizione che siamo in grado di comprendere, e che dunque interventi causali di ingegneria genetica radicale hanno propriamente un significato razionale pari ad un calcio alla radio nella speranza che funzioni meglio di prima. Come si vede, il fondamento in un’ottica fenomenologica non è ciò che dogmaticamente non si può fare (nel duplice senso di non legittimità ed impossibilità pratica), giacché tale limite non è sufficientemente razionale da costituire un limite efficace (chi dice cosa è legittimo e su che base? e se è operativamente impossibile, perché vietarlo? Limiti di questo genere, proprio perché infondati, prima o poi vengono sempre scavalcati.) In un’ottica fenomenologica si possono scorgere limiti, nel senso di riconoscere quando sappiamo cosa facciamo e quando invece stiamo operando in modo irrazionale in quanto ignari delle conseguenze ed incapaci di fare tesoro di nessi eventualmente emersi. In ultima istanza la nozione fenomenologica di razionalità include percezione, prassi, propensioni sensibili e capacità inferenziali, e colloca la dimensione inferenziale (deduttiva, induttiva ed abduttiva) nei limiti delle sue effettive capacità. L’istanza di razionalità può essere supportata come telos ideale in quanto non si identifica affatto con la razionalità logistica o naturalistica; alla logica formale Husserl contesta l’assenza di una consapevolezza dei limiti di applicazione, che possono essere riconosciuti solo attraverso un’analisi genetica (e genealogica) dell’emergere della logica (nesso tra formalizzazione logica e scrittura); al naturalismo e positivismo scientifico viene contestata l’incapacità di sintesi con particolare riferimento

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all’incapacità di dar conto della soggettività come condizione del darsi dei fenomeni. In entrambi i casi l’accusa di Husserl al pensiero sedicente razionale della nostra contemporaneità è di essere affetto da un inconsapevole irrazionalismo. È opportuno ricordare a questo punto come la disputa (già presente nella prospettiva hegeliana) che accusa le scienze moderne di ‘astrattezza’ (Hegel) o di ‘irrazionalità’ (Husserl) è vista dal punto di vista delle scienze, e del naturalismo filosofico che delle scienze si fa paladino, come un’istanza metafisica. Rispetto al tema del significato e della natura della metafisica Husserl non prende posizione, come invece fa negli stessi anni Heidegger, che rivendica uno nuovo spazio ed una nuova forma speculativa alla metafisica. Ma, al di là dell’uso del termine ‘metafisica’, la questione di fondo è appunto quella del senso di verità e razionalità; se la contestazione classica (kantiana) alla metafisica è di produrre formulazioni dall’apparenza razionale ma prive della possibilità di verifica o falsifica, allora si dovrebbe osservare che una parte consistente delle affermazioni scientifiche moderne (e lo stesso naturalismo scientifico come teoria filosofica) sono metafisiche. Intere branche scientifiche, come la cosmologia o la biologia evoluzionista, sono metafisiche in senso kantiano. D’altro canto, il vero problema concerne i criteri di verifica e falsifica: in una prospettiva fenomenologica verità non è primariamente l’incontro di aspettative, ipotesi o intenzioni del soggetto con un sostrato obiettivo capace di ‘riempirle’ o meno; ciò che è primariamente richiesto è la descrizione del fenomeno in modo quanto più possibile impregiudicato: prima di tentare verifiche o falsifiche è necessario comprendere il contenuto che si prende in considerazione e la sua manifestazione concreta nei limiti in cui si dà. È chiaro che ogni descrizione che implichi tratti noetici, intenzionali, che indaghi come il soggetto si indirizza ai suoi oggetti, non è sottoponibile a verifica o falsifica sperimentali; conferme o smentite possono qui avvenire solo nella forma di avvenuta o mancata comprensione intersoggettiva. È importante capire che il modo di sottrarsi alla verifica di una descrizione delle premesse della verifica stessa (= determinazione del significato da mettere alla prova e della manifestazione esperienziale su cui ‘effettuare la prova’), è del tutto diversa dal modo di sottrarsi alla verifica di teorizzazioni su totalità indisponibili (come sulla totalità del cosmo o sull’origine evoluzionistica della coscienza). Quando effettuiamo una descrizione od una narrazione noi determiniamo insieme e reciprocamente le parole che vi occorrono e gli oggetti cui si riferiscono: questo processo può risultare efficace o meno, perspicuo o meno, comprensibile o meno, ma non può essere sottoposto a verifica in senso stretto. Verifiche in senso stretto si possono dare solo quando c’è già pieno accordo circa il significato di ciò che si mette alla prova. Al contrario, descrizioni e narrazioni sono interazioni verbali in cui il contesto serve ad articolare il senso dei termini ed insieme le articolazioni verbali già consolidate suggeriscono come segmentare la realtà che sta di fronte. Le descrizioni fenomenologiche si collocano a questo livello, e perciò la loro natura non è ‘metafisica’ in senso kantiano, nonostante non siano soggette a verifica/falsifica. Al contrario proposizioni del tipo: ‘Il mondo è creato da Dio’, ‘Il mondo è eternamente sussistente’, ‘Il mondo nasce da un’esplosione’, ‘Il mondo è stato creato ieri

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da un demone malvagio insieme alle nostre memorie fittizie circa un passato esteso’, ecc. sono tutte proposizioni che non si curano di indagare o tentar di spiegare il proprio significato, ma si pongono come proposizioni che si tratterebbe semplicemente di verificare o falsificare, laddove però il loro significato esclude la possibilità di tali test: queste sono proposizioni metafisiche in senso negativo.

In quest’ottica si capisce anche perché Husserl dica che le vere battaglie della nostra epoca siano battaglie culturali. È facile accusare una tale posizione di idealismo, nel senso di sopravvalutazione del ruolo delle idee e del pensiero rispetto a, si suppone, istinti o bisogni. Ma quando si riflette in questi termini non bisogna mai dimenticare che anche una visione materialista, economicista o strutturalista è una unità ideale. Per Husserl in effetti non ne va di una specifica teoria, ma della vera e propria capacità (ed inclinazione) a tentare una comprensione razionale del mondo (razionale in quanto include un’autocomprensione di sé nel mondo). La minaccia che Husserl intravede nell’irrazionalismo di tipo mistico (come quello nazista) così come nell’irrazionalismo positivistico del naturalismo scientista non è in una specifica teoria, quanto nell’implicita rinuncia alla sintesi razionale (come dogma e pregiudizio, ma anche come frammentazione ed astrazione dei saperi). In questo senso l’Epoché è sì un metodo, ma è anche una via esistenziale; Husserl parla dell’ingresso nella prospettiva dell’Epoché come di una conversione; ma ovviamente non si tratta di una conversione ad una particolare credenza, bensì di un rivolgimento dello spirito che impara a vedere, che impara ad esercitare l’occhio della riflessione filosofica: l’Epoché, nella visione di Husserl, non è una teoria filosofica particolare ma la via della vita filosofica in quanto tale. Da questo punto di vista si può cominciar a capire in che modo la visione husserliana può sfuggire all’accusa di etnocentrismo o di provincialismo culturale: Husserl non si fa sostenitore di alcuna teoria particolare nel momento in cui propone il metodo fenomenologico, giacché egli ritiene che si tratti semplicemente dell’incarnazione di qualunque metodo che miri ad una comprensione razionale del mondo. Perciò ciò che fa la peculiarità dell’Occidente non è questa o quella visione del mondo occidentale, non è il liberalismo piuttosto che il materialismo o il monoteismo, ma è l’apertura programmatica al mondo, il tentativo sistematico di produrre giudizi non pregiudicati. Perciò chi accusa Husserl di provincialismo culturale (etnocentrismo) per le sue pretese di essenzialità dell’intrapresa teoretica occidentale dovrebbe mostrare in che misura una visione sotto Epoché delle cose è parziale od escludente. Ed è inoltre chiaro che, se riuscisse davvero a mostrare la natura parziale del metodo fenomenologico, allora, nello spirito stesso di Husserl, un tale critico avrebbe esercitato la caratteristica fondamentale della razionalità occidentale, ovvero il rifiuto del pregiudizio e della parzialità. L’atteggiamento filosofico nato in Grecia 2500 anni fa, rivolto ad un’interrogazione razionale del reale ed avverso all’accettazione irriflessa dell’opinione dell’autorità o di quella del maggior numero, è ciò che ha informato la storia culturale dell’Occidente. Questa istanza segnala un orientamento teleologico che di per sé può incarnarsi in molti modi, spesso parziali, spesso erronei; Husserl non sta qui rivendicando, ovviamente,

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l’ottimalità simultanea della proposta socratica e di quella aristotelica, del romanticismo e dell’illuminismo; ciò che però manifesta una peculiare superiorità di questi insiemi di credenze rispetto a tutti gli altri è il fatto che in nessun caso si è trattato di ricezione passiva di proposizioni dogmaticamente tramandate, né si tratta di apprensione di visioni del mondo strumentali a questo e quel fine particolare, ma di tentativi di guardare con occhi impregiudicati il mondo e di estrarne la verità. Per questa stessa ragione nessuna determinazione concettuale di proposizioni considerate vere può essere effettivamente all’altezza del Vero: anche laddove la Verità fosse stata già detta nel modo più adeguato e completo da qualcuno (come si ritenne a lungo per Aristotele), il compito del soggetto razionale non è di ereditare delle proposizioni, ma di comprenderle criticamente, di ripensarle, e solo eventualmente di aderirvi. Ogni pensiero vero deve essere sempre di nuovo ripensato per esistere come verità: niente di ciò che possa essere ereditato in modo soltanto estrinseco, come un monile che passa di mano, ha valore di verità (né dunque sensatezza).

Questo peraltro non significa ovviamente che Husserl sottovaluti il valore dell’eredità culturale. Questo è in effetti il punto su cui Husserl è più prossimo a Hegel: l’eredità culturale è fondamentale ed è ciò che ci costituisce come quei soggetti che siamo; tuttavia affinché tale eredità culturale sia appropriatamente ereditata è necessario che essa sia appresa come Verità. La Storia in questo senso non è semplicemente il magazzino di tutte le cose passate rammentabili, ma è la trasmissione attiva dei contenuti ritenuti veri. La Storia non è semplicemente una strutturazione narrativa di eventi passati, ma si pone come verità degli eventi passati, verità che per ciò stesso implica una selezione ed un modellamento, un’interpretazione. Questo è ovviamente anche un punto da sempre controverso nel resoconto hegeliano dell’essenza della storia, e le medesime obiezioni sembrerebbero potersi esercitare verso Husserl La filosofia della storia hegeliana è spesso considerata un cattivo esempio di verità storica, anzi un esercizio di distorsione. Ora, in un’ottica husserliana questa considerazione potrebbe essere condivisa senza modificare affatto l’adesione alla visione di fondo. Il contrasto ideale che si potrebbe rintracciare tra la visione della storia come eredità razionale in Husserl ed in Hegel è forse riassumibile in questi termini: Hegel ritiene che la Storia come res gestae sia razionale per virtù propria e che perciò essa preservi sempre tutto ciò che di essenziale, degno e vero si sia verificato, incerandolo (Aufhebung) in una incarnazione successiva. Così la tragedia del crollo del mondo greco è in effetti solo il passaggio del testimone alla cultura latina che della cultura greca si fa erede selettivo, contribuendovi con la solidità dello stato e del diritto in un modo ignoto al mondo greco. Ma in una visione husserliana ciò, pur non essendo escluso, non è affatto garantito: non c’è alcuna garanzia che l’essenziale si inveri, cioè continui ad esistere preservandosi per le generazioni future in forma dinamica. Piuttosto, la visione che Husserl ci propone è quella fichtiana di una Storia come dimensione del telos, del valore, del dover-essere, privo di garanzie metafisiche. In altri termini, non è detto che la Storia sia Vera e Razionale, ma appartiene alla teleologia immanente all’uomo di desiderare che essa sia Vera e Razionale; non è detto che la

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Storia sia eredità compiuta di ciò che di virtuoso e meritorio è accaduto nel passato, ma appartiene alla teleologia umana desiderare che la Storia sia tale eredità.

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