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la Ludla 1 “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla (la Favilla) Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XV • Marzo 2011 • n. 3 SOMMARIO Piada - Etimi e antiche tradizioni di Anselmo Calvetti E’ vent de’ dvanadur di Bas-cian Hedda Forlivesi - Fiur d’gatapózla di Paolo Borghi Il monumento a Pellegrino Artusi in una rotonda fuori Forlimpopoli La cartëla di babin dla scôla di Rosalba Benedetti E’ prit dla Bruðabèca di Pier Giorgio Bartoli La Fidalma, Guerino e e’ dieval Racconto di Maurizio Balestra illustrato da Giuliano Giuliani Rumanticiðum cun la mófa di Arrigo Casamurata Appunti di grammatica storica del dialetto romagnolo - XLVI Rubrica di Gilberto Casadio Parole in controluce Rubrica di Addis Sante Meleti Il trebbo della Schürr La galêda de’ ziþõ di Antonio Sbrighi (Tunaci) La béra e la bérta di Renato Cortesi . Con un intervento di Gilberto Casadio Carlo Falconi - E’ Sbandiradór di Paolo Borghi p. 2 p. 3 p. 4 p. 5 p. 6 p. 7 p. 8 p. 9 p. 10 p. 11 p. 12 p. 14 p. 15 p. 16 Molti dei nostri soci aspettano con emozione l’annuale appunta- mento del pranzo sociale della Schürr, occasione per incontrarsi con i dirigenti dell’Associazione e la redazione della Ludla e conoscere iscritti vecchi e nuovi in un’atmosfera amichevole e rilassata. Domenica 6 marzo è stata la giornata dedicata a questo incontro: una giornata caratterizzata, dopo un periodo metereologicamente inclemente, da un bel sole che ha reso agevole raggiungere il risto- rante dell’Hotel Cavallino di Faenza, di modo che alle 12 e 30 i par- tecipanti al pranzo erano già seduti al tavolo per incominciare a gustare antipasti, primi, pietanze e dolci approntati dagli ottimi cuochi. Ma prima il Presidente della Schürr, Oriana Fabbri, ha voluto porge- re un saluto doveroso agli ospiti e ai soci presenti e ribadire la soddi- sfazione di avere avuto un’adesione così numerosa all’avvenimento conviviale organizzato dall’Associazione. Erano presenti, infatti, oltre 130 fra soci ed ospiti in rappresentanza di enti ed istituzioni locali. Fotocronaca della giornata alle pagine 12 e 13 Il pranzo sociale della Schürr Marzo 2011

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Page 1: “Poca favilla gran fiamma seconda” la Ludla · vane figlio Iulo preparano le vivande e le pongono su focacce di farro (adorea liba; Virgilio, Aen., VII, 107-111). Dopo aver consumato

la Ludla 1

“Poca favilla gran fiamma seconda”Dante, Par. I, 34

la Ludla(la Favilla)

Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo

Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna

Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XV • Marzo 2011 • n. 3

SOMMARIO

Piada - Etimi e antiche tradizionidi Anselmo Calvetti

E’ vent de’ dvanadurdi Bas-cian

Hedda Forlivesi - Fiur d’gatapózladi Paolo Borghi

Il monumento a Pellegrino Artusiin una rotonda fuori Forlimpopoli

La cartëla di babin dla scôladi Rosalba Benedetti

E’ prit dla Bruðabècadi Pier Giorgio Bartoli

La Fidalma, Guerino e e’ dievalRacconto di Maurizio Balestraillustrato da Giuliano Giuliani

Rumanticiðum cun la mófadi Arrigo Casamurata

Appunti di grammatica storicadel dialetto romagnolo - XLVIRubrica di Gilberto Casadio

Parole in controluceRubrica di Addis Sante Meleti

Il trebbo della Schürr

La galêda de’ ziþõdi Antonio Sbrighi (Tunaci)

La béra e la bértadi Renato Cortesi . Con un interventodi Gilberto Casadio

Carlo Falconi - E’ Sbandiradórdi Paolo Borghi

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Molti dei nostri soci aspettano con emozione l’annuale appunta-mento del pranzo sociale della Schürr, occasione per incontrarsi coni dirigenti dell’Associazione e la redazione della Ludla e conoscereiscritti vecchi e nuovi in un’atmosfera amichevole e rilassata. Domenica 6 marzo è stata la giornata dedicata a questo incontro:una giornata caratterizzata, dopo un periodo metereologicamenteinclemente, da un bel sole che ha reso agevole raggiungere il risto-rante dell’Hotel Cavallino di Faenza, di modo che alle 12 e 30 i par-tecipanti al pranzo erano già seduti al tavolo per incominciare agustare antipasti, primi, pietanze e dolci approntati dagli ottimicuochi. Ma prima il Presidente della Schürr, Oriana Fabbri, ha voluto porge-re un saluto doveroso agli ospiti e ai soci presenti e ribadire la soddi-sfazione di avere avuto un’adesione così numerosa all’avvenimentoconviviale organizzato dall’Associazione. Erano presenti, infatti, oltre130 fra soci ed ospiti in rappresentanza di enti ed istituzioni locali.

Fotocronaca della giornata alle pagine 12 e 13

Il pranzo sociale della Schürr

Marzo 2011

Page 2: “Poca favilla gran fiamma seconda” la Ludla · vane figlio Iulo preparano le vivande e le pongono su focacce di farro (adorea liba; Virgilio, Aen., VII, 107-111). Dopo aver consumato

la Ludla2

L’impasto di farina, acqua e sale, conlievito o senza, cotto su una lastra dipietra arenaria rovente o su un piat-to di terracotta – noto in Romagnacon i nomi di pjê, pida, pièda – è unadelle più antiche confezioni delpane. La diffusione di questo impa-sto si deve presumibilmente alla rapi-dità delle operazioni, che possonoesser praticate anche durante brevisoste del viaggio.Pjê presumibilmente deriva dalle radi-ci linguistiche che formarono il grecoplátos «superficie, larghezza»1 e il lati-no planus «piano, spianato»2. L’esten-sione del significato alla conformazio-ne impressa all’impasto di cereali sirileva nel lat. placenta -ae, «focaccia»,usato da Catone e Orazio3. GilbertoCasadio fa risalire la voce «alla radicegreca plath-, la stessa del verbo pláttein‘impastare’ e di pláthanon ‘teglia perimpastare il pane’»4.

A Roma il calendario lunisolare anti-camente iniziava a marzo e terminavaa febbraio. Nel 46 a. C. questo com-puto fu sostituito da quello del calen-dario egiziano, unicamente regolatodal corso del sole e decorrente da gen-naio a dicembre.Nell’Urbe le seguenti festività eranocaratterizzate, sul piano rituale, dallaconfezione di focacce.Alle calende di gennaio, dedicate aGiano, il sacerdote offriva al dio lafocaccia di grano e il farro misto asale: Ceriale [... ] libum farraque mixtasale (Ovidio, Fasti, I, 127-128). Il 15 marzo – mese di inizio secondol’antico calendario – si festeggiava ladea Anna Perenna. Secondo le tradi-zioni popolari si credeva che Annafosse stata una vecchietta che, duran-te la secessione sul monte Sacro,aveva sfamato la plebe confezionandorustica liba, ossia rustiche focacce (Ov.,F., III, 661-671). In quella festività lafocaccia sembra avesse attinenza conl’astro notturno. Perennis («perpetuo»)esprime il rinnovamento mensiledella luna: Sunt quibus haec (Anna)Luna est, quia mensibus impleat annum:Ov., F., III, 657).Il 17 dello stesso mese si festeggiavaLiber pater, equiparato a Dioniso equindi anche dio del vino, confezio-nando focacce (liba) addolcite dal

miele (Ov., F., III, 761-768). Vecchiedonne, incoronate con fronde d’ede-ra e dette sacerdotes Liberi, disponeva-no di focolari portatili sui quali lefocacce in parte si offrivano al dio(Varrone, De lingua latina, 6, 14)5.L’11 giugno, giorno dei Matralia, ledonne offrivano a Mater Matutafocacce cotte in fretta al fuoco (Libasua prosperata manu [...] in subito coctadedisse foco; Ov., F., VI, 531-32). Que-sto tipo di focaccia era detto testua-tium perché preparato in testu caldo;

cioè in un recipiente di terracotta pre-cedentemente riscaldato (Varr., L. L.,5, 106)6.Il 20 giugno – dies natalis di Summa-nus, dio che lancia le folgori notturne– erano confezionate liba farinacea inmodum rotae ficta; ossia focacce di fari-na aventi forma di ruota, dette anchesummanalia7.Libum, voce che si attribuiva allefocacce offerte alle divinità durante lesuddette festività, deriva dal verbo libo-are, attinente il gesto di «spargere, ver-

Marzo 2011

PiadaEtimi e antiche tradizioni

di Anselmo Calvetti

Statua di Agrippina minore in veste di offerente (I sec. d.C., da S.A. Cook, F.E. Adcock, M.P.Charlesworth (a cura di), Storia del mondo antico, vol. VIII, Garzanti, Milano, 1975, p. 377).

Page 3: “Poca favilla gran fiamma seconda” la Ludla · vane figlio Iulo preparano le vivande e le pongono su focacce di farro (adorea liba; Virgilio, Aen., VII, 107-111). Dopo aver consumato

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sare, offrire, sacrificare, consacrare»8.Focacce, peraltro indicate con unadenominazione diversa, si confeziona-vano a febbraio; ultimo mese secondol’antico calendario. Ovidio affermache erano dette februa le purgamina(purificazioni), composte impastandofarro tostato e sale (torrida cum micafarra), che il littore usava per mondarecerte case (Ov., F., II, 23-24).

Nel VII libro dell’Eneide Virgiliodescrive il seguente episodio.Sbarcati in prossimità della foce delTevere dopo una lunga e faticosa navi-gazione, Enea, i suoi compagni e il gio-vane figlio Iulo preparano le vivande ele pongono su focacce di farro (adorealiba; Virgilio, Aen., VII, 107-111).Dopo aver consumato le vivande, iprofughi troiani mettono sotto i dentianche le focacce (fatalis crusti patulis necparcere quadris) e Iulo esclama. «Oh!abbiamo mangiato anche le mense(Heus! etiam mensas consumimus; ivi,114-5). Enea allora ricorda la predizio-ne del padre Anchise, che la meta delloro viaggio sarebbe stata raggiuntaquando, in terra ignota, la fame liavrebbe indotti a mangiare anche lemense (consumere mensas: ivi, 124-5).

L’esclamazione, attribuita dalla tradi-zione al giovane Iulo, prospetta nessitra mensa, “focaccia” usata durante iconviti a sostegno delle vivande, emensis “mese”; voce quest’ultima deri-vata dall’ indoeuropeo *mens “luna”,l’astro il cui ciclo misura il decorsodel mese9. Con riferimento alle men-zionate festività di marzo in onore diAnna Perenna, Ovidio, come abbia-mo visto, afferma che la vecchia dea,secondo alcuni, era la Luna [...] quiamensibus impleat annum (F. III, 657).I suddetti nessi presumibilmente con-seguivano dalla forma e dalla colora-zione, accomunanti mens “luna”, palli-do astro che procede nel cielo nottur-no, a mensa “focaccia”, il cui disco èrotondo per effetto della manipolazio-ne e pallido per i cereali che la com-pongono.Le focacce, che si confezionavanodurante le festività rivolte alla Luna,a Mater Matuta, a Summanus e quin-di connesse al volgere dei cicli cele-sti, supportavano le vivande offertealle divinità e consumate in onoredelle stesse. Per estensione dalle sud-dette funzioni rituali a quelle comu-ni, mensa venne ad assumere il signi-ficato di “tavola per mangiare”,

“imbandigione”, “pranzo”; il dimi-nutivo mensula, quello di “dischet-to”, “tavolino”10.

Note

1. Georges-Calonghi, Dizionario della lin-gua latina, I, Dizionario latino-italiano, Tori-no, Rosenberg e Sellier, 1939, s.v. platea.2. L. Rocci, Vocabolario greco-italiano, Cittàdi Castello, Soc. ed. D. Alighieri, 1974,s.v. plátos.3. Georges-Calonghi, Dizionario cit., s.v.placenta.4. G. Casadio, Vocabolario etimologicoromagnolo, Imola, La Mandragora, 2008,s.v. pjê.5. G. Dumézil, La religion romainearchaïque avec un appendice sur la religion desÉtrusques, Paris, Payot, 1974, p. 382.6. G. Dumézil, Mythe et épopée, III, His-toires romaines, Paris, Gallimard, 1973, p.149.7. Festus, p. 475 L1 = p. 438; in Dumézil,Mythe cit. p, 148.8. Georges-Calonghi, Dizionario cit.: s.v.libo -are. 9. E. Benveniste, Il vocabolario delle istitu-zioni indoeuropee, II, Potere, diritto, religione,Torino, Einaudi, 1976, p. 380. 10. Georges-Calonghi, Dizionario cit.: s.v.mensa -ae; mensula -ae.

Marzo 2011

Di una persona cagionevole di salutesi dice che u j dà dân nenca e’ vent de’dvanadur. E’ dvanadur, letteralmente il‘dipanatoio’, è l’arcolaio, cioè quel-l’attrezzo che si usava un tempo pertrasformare le matasse di filato ingomitoli; da non confondersi con lanaspa che serviva esattamente al con-trario: trasformare i gomitoli inmatasse. “Siedon fanciulle ad arcolaironzanti” scrive il Pascoli: ronzanti sì,ma non certo con un moto così vorti-

coso da creare una corrente d’ariapericolosa per la salute. La delicatezzadi chi soffre e’ vent de’ dvanadur richia-ma un po’ quella della principessa sulpisello che nella fiaba di Andersensentiva un grano di pisello attraversouna montagna di venti materassi ealtrettanti piumini…D’altra parte si sa che le correntid’aria non fanno bene, anzi: êria adfisura, êria ad sipultura. Esporsi allacorrente può causare gravi malattie,come la polmonite che nei tempiandati era un malanno difficilmentecurabile. Un altro proverbio ammoniva: Chich’à di cativ parament, ch’u-n vega int e’vent. Dove per ‘paramenti’ si intendo-no gli organi vitali interni, in partico-lare le viscere.

E’ vent de’ dvanadur

di Bas-cian

E’ dvanadur. Particolare di una fotografia scat-tata da Paul Scheuermeier a Fusignano il 30 set-tembre 1931. Da ‘Sempre un villaggio, sempreuna campagna’, La Mandragora, Imola, 2000.

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la Ludla4 Marzo 2011

Hedda Forlivesi può annoverare antichefrequenze con la scrittura poetica e nedà efficace testimonianza il novero delleprecedenti raccolte la prima delle quali,Giurdâna, un’accorata eco di remini-scenze (Pinêla, a t’arculdat te la cut1) cuinon sono estranee pagine di mestizia edi rimpianto, risale addiritura al 1973,avendo anticipato di una decina di annil’Argaza, una miscellanea di Zirudëledita, come la precedente, dalla ravenna-te Edizioni del Girasole, e che era statavagliata da Francesco Fuschini come“Romagna a dila s-ceta” inducendolo,ogni volta che transitava da Alfonsine abordo della sua vecchia Opel trotterel-lante, ad annettere all’ormai scontato:“Ciao, Monti.” un bonario: “Ciao,Edda.”Fin dagli esordi, come succede a tutticoloro che le si accostano con franchez-za, far poesia per la Forlivesi non è mai

stata la semplice conseguenza ultima delprocesso creativo, si presentava e si pre-senta anche attualmente al pari diun’impellenza, una vera e propria neces-sità di vita, una sorta di mandato che leiaffronta ogni volta con umiltà e riserbo:

Am sit un viulénc’u j mânca una cörda,e’ nénca la vòja d’sunêal cânt d’una völtal’as pérdint’na nöta stunëda2

L’insieme del suo universo poetico èistintiva quanto attendibile testimo-nianza di tale percorso, di tale esigenzadi vedere e innanzitutto comprendere(intânt c’a i ò / j’óc par gvardéj!3); in essotrova compimento e dalle collettiveemozioni che corredano l’esistere vienecondizionato e plasmato fino a permea-re l’autrice in primo luogo, impegnan-dola poi a condividere il tutto con i let-tori che le si accostano, fusi in quelcomune riconoscersi gli uni nelle espe-rienze degli altri che solo la poesiaspontanea è in grado di promuove edacconsentire.

A camén,ins’la punta di pì,che la vita l’an sénta c’a j so.4

Con questa sua Fiur d’gatapózla5 HeddaForlivesi, tralasciando per il momento iltema giocoso, satirico e caricaturale didue delle precedenti raccolte, sembravoler chiudere idealmente il cerchio conla sua silloge d’esordio e non per i con-tenuti ma imprescindibili assunti legatialla memoria e al correre del tempo,

Hedda Forlivesi

Fiur d’gatapózla

di Paolo Borghi

Hedda Forlivesi, alfonsi-nese di nascita e di ele-zione, raggiunto il diplo-ma di maturità magistra-le, ha svolto, all’internodel Servizio SanitarioNazionale, dapprima lamansione di DirettoreAmministrativo pressol’ospedale di Alfonsine ein un secondo tempo,fino alla sua collocazionea riposo, quella diResponsabile Aziendaledei servizi alberghieri del-l’AUSL.Pubblicista e Direttoredel periodico bimestrale“La Voce del Senio”, nonha mai abdicato neltempo alla sua dedizionenei confronti della scrit-tura e della poesia dialet-tale.Fiur d’gatapózla, la suaultima silloge edita daWalberti nell’agosto del2010 si aggiunge a:Giurdâna, 1973 - Edizio-ni del Girasole. Raccoltadi poesie in vernacolo.L’Argaza, 1983 - Edizionidel Girasole. Raccolta dizirudël.I dulz ‘d Sânta Pulögna,1995 , Edizioni CentroStampa L’inchiostro.I fët dla veriëla, 1996 -Edizione Comune diAlfonsine. Raccolta difatti relativi a personaggidella Via Reale.Par dila s-ceta, 1997 -Edizione Comune diAlfonsine. Raccolta dizirudël.

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la Ludla 5Marzo 2011

E’ témp us’è sbrislê!Um’é avânzuna manê d’gnit:udór da viöl,scurs a e’ lóm dal stèl,suris a cör avért,tòt sparì, ignacvèlspargujê cun e’ vénte sumné luntân da ca!6

bensì per la complessità e l’intensitàdei temi trattati: i sogni, gli ideali, isilenzi, l’amore, e a far da nesso altutto il mare, gli uccelli, e una naturasovente oltraggiata ma pur sempre in

grado di fornire a chi le si affida, tan-gibili opportunità di rivalsa.

Stra al fói inscartuzêdi da la brénaa j ó truvê una viöla cun l’udór.Sóra e’ gambón, la grèstla arinfignêda,che flininén d’culór l’à fat la trazaa un dè cl’à al gâmb arnêdi.7

Note

1. Pinëla, ricordi il gioco del nascondino?2. Mi sento come un violino \ a cuimanca una corda \ ed anche il desideriodi suonare \ le canzoni di un tempo \ siperde \ in seno ad una nota stonata.

3. Finché \ ho gli occhi per vederla.4. Cammino \ sulla punta dei piedi \perché la vita non si accorga \ che esisto.5. Fiori di camomilla.6. Il tempo è andato in briciole !\ Mi èrimasto una manciata di nulla:\ il profu-mo delle viole,\ i discorsi al luccichiodelle stelle,\ i sorrisi a cuore aperto,\nulla, tutto sparito \ sparso dal vento \ eseminato lontano da casa.7. Tra le foglie accartocciate per la brina\ ho trovato una viola che profumava. \Sopra al gambo la cresta stropicciata, \quel poco di colore ha fatto da guida \ adun giorno che ha le gambe impastate.

Cent’anni fa, il 30 marzo del 1911,moriva a Firenze ultranovantennePellegrino Artusi, autentica gloriaforlimpopolese e romagnola, autoredel celebre manuale La Scienza incucina e l'Arte di mangiar bene che glirese fama imperitura.Qualche tempo fa, come già Danteapparve al Polinara guerriniano, Pelle-grino è apparso al nostro A.S.M. perlamentarsi della collocazione dellastatua che i suoi concittadini glihanno eretto a fianco di una impo-nente e trafficata rotonda stradale alleporte di Forlimpopoli.

Queste le sue parole:“A me che propi in piaza a i sera né,i m’ha fat un brutori ad monumenta vaion, da infumghìm e murì impstè, ch’a i arpégh tot i dé con di azident;e l’è acsé grand ormai e’ me turment ch’a m’ la cuiréb s’i n m’avés inciudè.”

A.S.M.

“A me che ero nato proprio in piazza /hanno fatto una bruttura di monu-mento / là fuori città, tale da affumi-carmi e da farmi morire appestato, / alpunto che li ripago tutti i giorni condegli accidenti; / ed è così grandeormai il mio tormento / che me neandrei se non mi avessero inchiodato.”

Il monumento a Pellegrino Artusiin una rotonda fuori Forlimpopoli

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A n’ u-v voj scòrar dal cartël d’unavôlta, cveli ad carton, ad pëza, o cveliad fër, roba lasêda da j Inglið durânta la guëra, che ló i j mitéva al muni-zion: agli ò vesti sól int i muðej!A dila s-ceta, a n’ u-m arcôrd gnâncala mi, ad cartëla, né tot cvel che u jéra ad dentra: a m’arcôrd sól i cvadì-ran cun la cupartena nigra locida e lacosta rosa, che nó tabachi a-s sfarghe-ma int i lëbar par dês e’ ruset, e e’ miastoz: blesum, ad legn cêr lòcid, cunun trenino piturê in sò, e ad dentra totspôrch d’inciòstar; al fagh avdé a ibabin int al scôl, insen a dj étar ogget-ti misteriosi. Quând ch’a turnéva a ca,spes, int la cartëla, u j éra nenca e’grambialon biânch che, a þughêr aricreazion, u s’éra spurchê ad tëra ocvandinò u s’j éra fat un strap, par la

disperazion dla mi mama, la pureta,ch’u-n gn’j éra un bajöch da ðbàtar incl’êtar! Mo a-m arcôrd ben cvel che u j éra intal cartël di mi prèm sculér (a sema de’’68!): un cvadéran a cvadret, on arigh, un astuzin ad plastica, i culur alegn, e’ livar ad letura cun l’ alfabetie-re in prema e, par cvi cun al mestripiò muderni, i numeri in colore parl’aritmetica; naturalment e’ sussidiarioda la terza a la cventa. Basta. Se ades a gvardì ben int la cartëla(mo ‘s’a deghi, int e’ zaino, rigoroða-ment ad mêrca!) d’un tabach daglielementêri, u-v ven un cólp: e’ lìvarad letura, un sussidiario, tri o cvàtareserciziari par al materi curispunden-ti, e’ lìvar ad religion, quel d’ingléð,di foj da diðegn, dj avið da firmê e dalschéd, di astoz blesum e custuðesum,mo ðgudìval, che i tabëch i-n trôvamai la röba (nenca parchè i piò,cvânt la chesca par tëra, i-n la tô sò)e’ diario, che una vôlta u-s cminzéva adruvê sól al médi, cun i profesur; moadës al méstri agli è pareci (a degh

méstri, parchè j òman j è una minu-rânza) e e’ còmpit e’ va fat magari parla stmâna döp e u s’à da stugê par calbanadeti verèfichi! A cunfës che, s’afos una babina, al sareb e’ mi teror!Par me, l’interogazion urêla e pu piò!

Mo e’ màsum de’ parossismo (a-n l’òtruvêda la parôla in dialet!) u-s creacun i cvadìran; u gn’j é una fila sèm-par longa: cvel dla gramàtica, cvel ditesti, cvel ad sienza e cvel ad geome-trì, cvel ad mùðica e cvel di studi socia-li, cvel cun al möl e dal vôlt, nencacvel ad educazione motoria! A v’e’ pösgarantì!!! Se pu la méstra l’è pignôla, sti cvadì-

ran j è queði tot cun una cupartenaad culór difarent: rosso… italiano; gial-lo… aritmetica ecc. ecc. Se pu a j véghnenca me, u j è nenca al schéd de’dialet. «Dove le attacchiamo, Rosalba?»«Io consiglierei in lingua, o musica, o sto-ria.» Agli armasta vulânti par dalstmân, infena che la mitê al s’è pérsi,tra l’angoscia di docenti e discenti! Par no s-ciantê la schena di babinnaturalment sta röba la-n va tota addentra a e’ zaino. U-m pê d’avé capìche adës u j è due scuole di pensiero: 1.Tenere tutto in classe 2. Tenere tutto acasa. Mo i babin j’ è babin, sânta dlamiséria, e, in ambo i casi, u j è sèmparun cvelcadon che u-n tô sò pröpi cvelche u j bðugnéva che dè. U j è stê un perìod che, un pô parrìdar, un pô da bon, u-s daðéva mitêdla cólpa dla gioventù ribelle a e’ meto-do globale (per i non addetti, un metodod’insegnamento par imparêr a lèþar e ascrìvar). E alóra me a-m cmând: droga,alcool a 12, 13 èn, sbandamenti ad toti tip: u-n sarà miga cólpa dla cartêlatröpa pina?

La cartëla di babin dla scôla

di Rosalba Benedetti

Marzo 2011

In alto, l’astuccio dell’autri-ce: “blèsum, ad legn cêrlòcid, cun un trenino piturêin sò”.A fianco, una cartella dicuoio degli anni ‘50 delsecolo scorso (Museo didat-tico del territorio di San Pie-tro in Campiano).

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la Ludla 7Marzo 2011

La Gvarnira l’è ‘na strê ad cunfén traSêvi e Cas-cion e la ciapa e’ nòm dala fameja Guarnieri ch’l’éra proprie-têria ad chi sid int e’ meletarðènt. Lacurispònd, in pêrta, a la piò intigaCaléra Códacân che da al Tòmb diTur, int e’ Ðmân, l’andéva a e’ górghad Noxatis int la riva manzéna de’Sêvi, scvéði impët a la Ragazena: chegrând pusës di fré cun che caðarméntcun e’ curidur a cróð, indóv che staðé-va l’abêt fatór.Vilà u i éra e’ Pas ad Sa’ Þarvëð el’uspizi pr’i Rumì. Piò in sò u j éra lastrê Popilia-Reìna cun e’ Pas ad Bru-ðabech, zà arcurdê de’ meleduðènt.Agl’éra toti strê ch’al mnêva a Romae ch’al scanséva al tër paludóði dri a lacosta.Tra sti du pës (pont o traghet) scum-pérs, mo piò vérs e’ paéð, u j éra e’fònd dla Bruðabèca.Temp indrì, ste fònd, l’éra ad zentcva-rânta tarnadur, tot ad pruprietê dlaciða ad Zirvia, mo sânt’èn fa l’arzivè-scuv u l dividè lasèndan la mitê a Zir-via e e’ rëst tra al cið ad Piðgnân, VelaInféran (l’intiga Sant’Andrea in domoculta) e Canoz.A mandê avânti ste sid, da tre genera-zion, prèma còma meþêdar, pu coma

fituvéri, l’éra la stesa fameja, e ipëruch ilà i n s’éra mai fët avdé: l’éral’aþdór che a la fen dla staðon l’andé-va da l’arziprit par fêr i cont.I conta, parò, che ‘na séra d’istê de’zincvântöt, una machina la-s farmèint e’ curtil e du prit i scalè þò. E’ piòbas e tònd, cun ‘na bêrba nigra ch’lafaðéva al böt cun e’ raður, e’ cmandèa l’aþdóra:«Sa j èl da magnêr staséra? L’udór l’èbon!».«Sgnór pàroch, miga sól l’udór! Astagh friþènd un pol cun al patêt; epu, se cun e’ su caplân e’ sta a zena danó, mi marid e’ sfitlarà de’ parsot ede’ salâm».

«Osto, mo alóra i cuntaden i mâgnamej ch’a n’è i prit!».E’ pàroch, ch’l’éra fjôl d’un anticleri-chêl, cun sta batuda u-s faðè diamigh. E’ savéva che chi cuntaden i n’andé-va in ciða e ch’j éra di comunèstar enenca int e’ sindachêt ros, mo tre ocvàtar vôlt a l’ân l’andéva da clafameja a magnêr e a scòrar, nenca adpulètica, senza inciona pavura dalciàcar che i avreb fat e’ dè döp i cia-ten e i cumpegn dla sezion. Parchèche prit l’avéva un grând rispët paragli upignon ad chj êtar, nenca in chièn ad duri löt pr’i nuv cuntrët agréri.I èn i paséva, e’ pàroch i l’avéva cam-biê, mo ‘na séra d’istê, dop a cvengèn, sota a ‘na róvra i s’incuntrè d’ar-nôv e’ prit e e’ cuntaden. Tot du j éraamalé ad tumór: e’ prit l’avéva diprublema a môvas e a scrìvar, mo laparôla l’éra incóra bona; e’ cuntadenl’avéva al braz e al gâmb incóra aba-stânza boni, mo u n’éra cvéði piò bonad scòrar.Par ðdramatizêr, e’ prit e’ dget:«Ét vest che e’ Signór l’à savù fê bennenca sta vôlta? L’à lasê la parôla ame e e’ fa stê zet te!».«Mo ’sa dgiv!» la saltè sò la moj «Avìda savér che e’ riva a biastmêr l’istes».E e’ prit: «Mo lasì ch’e’ dega; l’è stêtânt bon cun tot, ch’u-n-s meritêvasta cundâna...». E pu vérs e’ cunta-den: «A stét mej dop avê biastmê? Sesté mej biastema pu, mo s’u-nconta...» La fo l’utma vôlta ch’i s’avdè: e’ pritu s’aviè par prèm.

Ste prit a l’ò cnunsù bén nénca me: l’éracvèl ch’l’avrèb da ësar un prit.Al salut Don Leo!

E’ prit dla BruÝabèca

di Pier Giorgio Bartoli

Mappa “veneziana” del XV sec. (Archivio storico comunale di Ravenna, mappa n.580). Specificatamente riferita ai beni delle Abbazie di San Severo e Classe, mostra in sintesianche le zone limitrofe fra cui il corso del fiume Savio (Flumen Sapis), la Tenuta detta Rega-zina, la “Via che va a Castion” di Cervia e, sulla sponda ravennate, la via che va a Castiglio-ne di Ravenna e ad un certo punto si biforca; il ramo di destra dovrebbe rappresentare lavia della Guarniera che, aggirata la Valle Standiana e superato il Bevano, raggiungeva ilDismano. Il “Quadron” è attraversato dalla “Via Nova” che pare fatta apposta per collega-re la “Carara ravigniana” al Guado di San Gervaso nei cui pressi è marcato un edificio defi-nito da una scritta che potrebbe essere “ostello di San Severo”.

Page 8: “Poca favilla gran fiamma seconda” la Ludla · vane figlio Iulo preparano le vivande e le pongono su focacce di farro (adorea liba; Virgilio, Aen., VII, 107-111). Dopo aver consumato

la Ludla8 Marzo 2011

La Fidalma dla Tora de’ Mor la avevafat sempra la serta. ‘Des ch’la eraormai vecia e la n’avdeva quaði piòlom, la cuðiva ancora... mo di pec,piò par fé un piaðéi a quij ch’i la cnu-seva che ne che par i bajoch... Enench cla volta e’ fot par un urel intuna sutena ch’la s’inviet in bicicletapr’andè là aglj Abadesi. Ch’una suamiga la s’era cumpreda un stì novpr’andè a un spuðalizi e la aveva tentinsistì ch’la l’aveva cunvinta. Lia la nn’aveva una gran voja... ch’u j è da fèla rapeda de’ for e pò u j è da pasèdaventi a e’ campsent... Mo la s’eracunvinta e la s’era invijda. Fat e’lavor, a forza ad ciacri la n s’era dedach’ormai u s’era fat sera e u i tuchetinvijs ch’l’era þa scur. Ch’a la fend’utobar l’incminza a fes scur prest.La n’aveva gnenca e’ lom dla bicicle-ta e a pasè a lè daventi a e’ campsent,ad nota e int e’ scur, u j faðeva unagran impresion. Propi paura! E forsee’ fot propi par la paura (mo lia la dið

ad no), che quand tot d’un trat u i‘rivet ados ‘na gran vampeda ad vent,la daðet un trampalon e l’andet þo inte’ fos. Mo la n finet a lè.Intent ch’la faðeva un gran rog, la sn’adaðet ch’l’era cascheda int e’murbi e propi in che ment ch’la eradria a fè ste pansir, la s santet dó

meni giazedi ch’al la ðgrafagneva inte’ cul e di gran rog ch’i avniva dasota.(Bðogna dì, che da quand l’era morte’ su por marid, la Fidalma la þirevasenza mudandi. Prema la s li miteva.La aveva incminzì a metsli da spuðe-da. Dop a cla volta che Ristin u i get:“Fidalma... caviv al mudandi ch’a v’òda scor...”. A lia ste fat ad caves almudandi u j era armast impres e dacla volta che lè la s li era sempra mesi.Tot i sabat. Mo da quand Ristin l’eramort, la aveva ðmes. Ch’agli daðevaun gran patì e pó u i pareva nenca adfè una spurcaria...).Quand la s santet ðgrafagné e’ cul lacapet. L’era e’ dieval! E’ dieval, maðéa lè int e’ fos de’ campsent, ch’l’erastè a ‘spitè ch’la pases da lè par purte-la a l’inferan... Nenca lia alora latachet a rugì e intent ch’la rugiva lapugniva e la calziva... e la pruveva adrapè só par la riva... Mo e’ dieval cundi gran rog u l’aveva ciapeda parl’urel dla sutena e u la tireva d’in þó...Lia la santiva sta vuðlaza ch’la rugiva:“Va là ch’a t’ò ciapè... che ta n u mscap...”. Mo dai e dai la ‘rivet a rapè equand ch’la fot int la streda... la daðetun scrulon e via ch’la andet! Adcursa. Fina a la Tora de’ Mor. La bici-cleta la la laset a lè e i n la truvet pió.Par cla volta e’ dieval u s’ duvet cun-tantè dla bicicleta. Int la sutena, ch’lala j à ancora, u s ved i segn dal didi indu ch’u l’aveva ciapeda. Dal manedirosi ad sangv. Mo un sangv ch’u n’ècmé e’ nost. Che cal manedi al pèguaði ad sanþveið...Guerino e’ staðeva int al ca populeridria a l’ipodromo. L’era da un po’

La Fidalma, Guerino e e’ dieval

Racconto di Maurizio Balestranel dialetto di Cesena

illustrato da Giuliano Giuliani

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la Ludla 9Marzo 2011

ch’l’aveva incminzì a ‘ndè dria a tot icumpagn, che ‘csé l’aveva la scuða parputes farmè a lè da Gnuleti, l’usteriadop a e’ for. Cla volta che lè, l’eramort un che lo u l cnuseva ben ealora, un po’ pr’e’ dispiaðéi e un po’parché stavolta la scuða la tneva piòbota, dop a Gnuleti e’ vlet fè una far-meda nenca int e’ circul di cumune-sta dagli Abadesi. Quand u s’invietpar arturné d’indria l’era þa scur. U sfarmet par pisì int e’ fos daventi a e’campsent. Poch prema. Mo a lè int lariva, int e’ scur, u i sguilet e’ pè e l’an-det þó. L’era gros. E’ pruvet ad stè sómo u n gn’ariveva. E’ pruvet ancora,un po’ ad volti... Gnint. U j era capi-tè ancora. Cmé cla volta ch’e’ caschetint e’ curtil e a la Tiziana, la su moj,u j cuntet la storia de’ capot. Sé, ch’uj era casché e’ capot par tera e u nl’ariveva a to só. E quand lia la i

dmandet cs’aveval fat ch’u n l’arivevaa to so, lo u j arspondet ch’u n arive-va a tirel só parché u j era lo ad den-tar! Alora la Tiziana la s mitet a rid epar cla volta u la paset lesa... Stavoltaþó in che fos l’era mes precið. Dai edai l’era ‘rivat a þires d’in só... mo piòd’acsé u n’ariveva a fè... E’ panset adstè lè ‘csé finché u n gn’i arturneva alforzi. Furtona che e’ bucion l’eraandè þó enca lo e u l’era ‘rivat aciapè... U s’era bela indurmentquand e’ sint un gran scarabatled epó un gran rog... e in ch’e’ ment u ssint vnì ‘dos un peð. Cmé un anime-li. Gros. De’ pel ch’u i starseva int lafaza... U j avnet e’ sofoch... e intentch’e’ pruveva ad scrulel via u s cazetin di gran rog enca lo... Po’ e’ santetch’l’era insti. Che ‘dos l’aveva cmé unmantel e nenca da i rog ch’e’ faðeva us capiva ch’u n era un ‘nimeli. L’era e’

dieval! Ch’l’era scapè da e’ campsentpr’ avnil a to! E u j daðeva dal botiindipartot... Nenca lo alora e’ tacheta pugnì, a ðgrafagnel int la faza... e’pruvet nenca ad dei una buceda int latesta... Mo quand ch’e’ tiret so e’bucion, ch’l’era meþ pin, e’ bei u s’iarburtet tot ados... In che ment e’dieval e’ staðet so par ciapè via... molo u l tniva pr’e’ mantel e u n’e’ lase-va... Che s’u i ‘riveva, u i vlevaemench spachè la bocia int la testa!Mo e’ daðet un scrulon, u i ðguilet el’arivet a scapè. Int una nuvla ad fom(o l’era porbia?) e’ ciapet via int e’scur cun di virs... cmè un chen traplè.Quand u s’arciapet l’era s-ciet eintent ch’e’ faðeva par munte só, lèint e’ fos e’ truvet ‘na bicicleta. Nova.E l’arturnet cun quela. Ch’a fè pauraa e’ dieval u s’i guadagna sempra unqualquel!

RumanticiÝum cun la mófadi Arrigo Casamurata

Nenca te, LUDLA, t’si fjôla de’ prugrës:t’at met a raðunê’ cun INTERNET!?E’ mònd e’ câmbia e bðogna stêj d’aprës; mo a-m cmând s’e’ sipa mej coma ch’la-s met.

A cred che tròp in prisia e’ sia sucës ch’a n’u-m so abituê: ch’a so un “puret”. A pens quând ch’u-s mandéva par “esprës” un foj, scret cun l’inciòstar e al canet.

D’acôrd, u j éra tânt da stê’ d’astê’,mo u n’éra quela, forsi, l’ucasio’‘d tnes int la ment e a longh putes pinsê’?

A vut mètar la bëla sensazio’‘d lèþar cla letra e nench puté’ tuchê’cl’ugèt ch’l’éra stê fat sultânt par no’?

Romanticismo ammuffito - Anche tu, LUDLA, sei figlia del progres-so: / cominci a dialogare con INTERNET!? / Il mondo cambia e bisognastargli appresso; / ma mi chiedo se le cose (poi) vadano meglio. // Credoche sia successo tutto troppo in fretta / e non mi ci sia abituato, perchésono un “poveraccio”. / Penso a quando si inviava con “espresso” / unfoglio, scritto con l’inchiostro e le “cannette”. // D’accordo, c’era molto daattendere, / ma non era quella, forse, l’occasione / di ricordarci reciproca-mente e a lungo pensarci? // Vuoi mettere la bella sensazione / nel legge-re quella lettera e poter toccare / quell’oggetto creato solo per noi?

Iscrivetevi alla mailing list della Schürr!

L’invito rivolto ai soci da parte della segreteria dellaSchürr, nello scorso numero di febbraio, a comunicare illoro indirizzo di posta elettronica al fine di ricevere tem-pestive informazioni sulle nostre iniziative ha avuto unlargo successo. Ripetiamo anche questo mese l’invito asegnalarci la mail al nostro indirizzo schurrludla @schurrlu-dla.191.it, ribadendo il totale rispetto da parte nostradelle leggi che regolano la riservatezza e ricordando atutti che le comunicazioni fondamentali per la vita del-l’associazione ed i rapporti con i soci continueranno adessere inviate tramite la Ludla o per posta normale.Fra coloro che si sono iscritti alla mailing list c’è anche unnon troppo convinto Arrigo Casamurata, il quale – susupporto rigorosamente cartaceo – ci ha inviato unsonetto sull’argomento che pubblichiamo ben volentieri.

@

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la Ludla10 Marzo 2011

[continua dal numero precedente]

Avverbi di modo

Altrimenti

Il concetto è reso con sinò ‘se no (sennò)’ o quandinò, let-teralmente ‘quando (che) no’.

Avverbi quantitativi

Poco, abbastanza, molto, tanto, troppo

Si veda quanto detto a proposito dei corrispondenti agget-tivi e pronomi indefiniti nella puntata XXXIV («la Ludla»,novembre 2009, p. 10).

Almeno

È reso con immânch (immânca), che corrisponde all’italia-no antico e letterario ‘almanco’. Mânch deriva il suo signi-ficato di ‘meno’ dall’aggettivo latino mancu ‘infermo nellamano’, poi genericamente ‘manchevole, privo’.

Anche

Il romagnolo nenca è da un latino *anque ‘inoltre, ancora’con la desinenza in -a caratteristica degli avverbi. La n- sispiega con il prefisso rafforzativo in-. L’italiano antico hala forma inanco.

Nemmeno, neppure, neanche

Dei tre sinonimi del toscano e della lingua nazionale ilromagnolo conosce solo il terzo: gnânca, dal latino ne‘non’ + *anque ‘anche’: *neanque ›*nianque › *gnanca.

Affermazione e negazione

All’avverbio di affermazione italiano ‘sì’, dal latino SIC

(EST) ‘così (è)’, corrisponde il romagnolo sè. Ma è altrettan-to comune il semplice è dal latino (SIC) EST. Altra formapresente in dialetto è ò ‘sì, certamente’ dal latino HOC

(EST) ‘questo (è)’.L’avverbio di negazione latino NON diventa in romagnolo(come del resto in italiano) nò. Tale forma si usa in fine difrase (ad esempio quando la negazione viene data comerisposta ad una domanda) o davanti all’infinito verbale;in questo ultimo caso davanti a verbo iniziante per vocale

torna la forma non. Es. «Et þà magnê?» « Nò». ‘«Hai già man-giato?» «No»’. A rid, par nò piânþar! ‘Rido, per non piange-re!’. A m so aviê par non istizim ‘Me ne sono andato per nonarrabbiarmi’.Negli altri casi nò si riduce al semplice n per troncamento.Es. Me a n so gnint ‘Io non so nulla’. U n éra incóra arivê‘Non era ancora arrivato’. Graficamente è invalso l’uso di unire n con un trattino alpronome atono precedente (U-n sa gnint ‘Non sa niente’)o con l’apostrofo alla parola seguente in frasi come Li lan’éra incora arivêda ‘Lei non era ancora arrivata’.

Rafforzativi della negazione

In romagnolo gli avverbi rafforzativi della negazione sonobriða e miga: a n i so briða andê oppure a n i so miga andê ‘nonci sono andato affatto’Miga, nella forma ‘mica’, è presente anche in italiano: Nonci sono mica andato. Briða e miga significano la stessa cosa,cioè ‘briciola’, ed il loro valore di avverbi quantitativi nasceda espressioni come ‘non mangio (nemmeno) una bricio-la’ e quindi ‘non mangio nulla’. Attraverso il senso figura-to di ‘quantità minima di una cosa’ hanno assunto il signi-ficato di ‘affatto’ in frase negativa. Briða e miga si accompagnano sempre alla negazione no (n).Solo in certe espressioni, come l’imperativo negativo, sipossono usare da soli con significato negativo: briða (miga)piânþar! ‘non piangere!’.

[continua nel prossimo numero]

Appunti

di grammatica storica

del dialetto romagnoloXLVI

di Gilberto Casadio

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la Ludla 11Marzo 2011

maché, màcia, macadura, maia, ecc.:in ital. ammaccare, macchia, ammacca-tura, maglia. Si suppone l’esistenzad’un lat. parlato *maca, assai prestosostituito dal dimin. macula (=mac-chia); ma proprio su *maca si sarebbeformato il verbo [a]maché, ‘ammacca-re’, ‘percuotere’, ‘schiacciare’, ecc.1

Senza necessità, qualcuno vuol deri-varlo dal lat. *matticare, da mattea,maza o ‘mazza’. Nei volgari comparela prima distinzione tra amacadura,‘ammaccatura’, e macia, ‘macchia’: laprima deforma stabilmente la super-ficie dell’oggetto colpito; la secondane altera il colore, talora anche soloper il sudiciume accumulato: ch’ui faadcióvra l’òss e e’ lóster, ch’u ’n gniþova gnenca ’na bela sfurbida.Macia, ‘macchia’, in collina è pureper metafora il ‘bosco ceduo’, tagliatoperiodicamente: fresca di taglio, alcontrario del bosco ad alto fusto, sipresenta alla vista non uniforme, achiazze, con polloni ed arbusti chericrescono a velocità diverse2. Ma il lat. macula non s’è solo sdop-piato e distinto per forma e significa-to, ma è pure all’origine del termine,maia, ‘maglia’, passando per il pro-venzale malha e il francese antico

maille.3 Oggi ‘maglia’ si riferisce dinorma all’indumento di cotone e piùsovente di lana fatto coi ferri o conl’uncinetto (fè la calzèta, fè l’unzi-nèt) o alla stessa fattura. ‘Maglia’ fudapprima un termine ‘militare’, per-ché già dall’antichità s’usavanoanche ‘maglie’ di ferro costituite dapiccoli anelli concatenati a difesa delcorpo. Del resto, chiamiamo maja‘maglia’ pure il singolo ‘anello’ diuna catena o di una rete metallica (almaj dla cadena; al maj dla réda). Infine, passate di moda le maglie diferro, le nostre nonne, quando face-vano la ‘calza’ o ‘la maglia’ di lanaerano solite dire a i ho saltè ’namaja, sia che ciò capitasse per errore,sia che lo facessero ad arte: fè a postapar scalè di pont (‘scalare i punti’equivaleva a ‘ridurre le misure’; ilcontrario era crès i pont)4. C’eranopure i pont a l’ardrét, quei a l’arvérse quei un pó struvliné par blèzza. Laðmajadura infine interessa talvolta lanostra stessa pelle.5

In ogni modo, già si trova in Varro-ne, De Re Rustica III 11, rete grandibusmaculis (rete con grandi ‘macchie’ o,piuttosto, ‘maglie’): in effetti, perquanto piccoli e regolari, nella suastruttura la maglia di lana in qualchemodo presenta sempre dei buchi e,per quanto fine e fitta possa essere, èsempre più rada del panno tessuto altelaio con lo stesso filo6.

Note

1. Il Devoto, Avviam., riporta anche unantico ‘macco’ per ‘polenta di fave’, lequali a fine cottura erano ridotte in ‘pol-tiglia’ (dimin. del lat. pulte[m] con lo stes-so etimo del lat. polenta. Ma era pure ilnome d’una maschera della farsa ‘atella-na’ più antica di Plauto, forse avvertitocome collegato a mala o maxilla (mascel-la): ad ganasa bona, con cui ‘ammaccarecibi duri’. Da ‘macco’ qualcuno vuol poiderivare l’antico ‘macaroni’ usato a parti-re dal 1400…: una glossa senza data delsolito du Cange riporta: …eique apposue-runt maccarones vel lagana… (e gli poserodavanti dei maccheroni o delle lasa-gne…). Già il cuoco romano Apicio avevagià accennato ad orbiculos tractae siccos(tondini secchi di pasta) e a tracta siccata(sfoglia seccata): non era ancora però la‘pasta secca’ odierna, ma pasta sbriciola-

ta per addensare il sugo. Era tuttavia nel-l’ordine delle cose che prima o poi daqualche parte d’Italia si passasse a ‘ritagli’di sfoglia secca’ arrotolati magari a tubo(macaron), da bollire e condire qualoramancasse il tempo di ‘tirare’ la sfoglia fre-sca, in lat. tracta, da trahere = ‘tirare’. Indial. si dice appunto tiré la sfoja.2. È diverso il significato scientifico di‘macchia mediterranea’ con una vegeta-zione diversa a causa del clima.3. Il Migne d’Arnis, Lexicon manuale…,riporta: «MALHA: Annulus catenae, annu-let de fer, maille (1351)».4. La donna ch’ la s’ n’ adaðeva d’avépers ’na maja, la l’arciapèva, o la l’arma-jéva. Ma armajé oltre che indicare ilfatto d’arciapè la maja coi ferri, indicavaanche il tentativo di tirare i due estremidi un filo tagliato da una tarma, perannodarli di nuovo nel rovescio. Comemetafora capitava di sentire: a m’ sòarmajé o i m’ha armajé, ossia ‘mi sonoo mi hanno rimesso a posto’, ‘mi hannorattoppato’.5. Tra i modi di dire: butès a la maciapar dmandè la carità [verso a Civitella;altrove carité] co la s-ciòpa (‘fare il ban-dito da strada’); avé ’na faza ch’u i simaca i pignol; l’è tot maché int e’ muðch’u pè un mascaròn; e, infine: oh, adésa l’avrò maché a dìi sol quéica parula-za…! (Ovvero: che sarà mai un’offesa disole parole!) Tra i giochi delle feste di paese non man-cava e’ mac-machìn giocato ancora perla festa patronale a San Colombano,come mi segnala un amico meldolese.Finché hanno uova, due contendentialla volta sbattono l’uno contro l’altrol’uovo che tengono in mano: chi se loritrova ammaccato perde e lo cede all’av-versario. Una denuncia diretta al pode-stà di Civitella nel 1806 lamentava l’in-cetta di uova per il ‘gioco del cozzetto’,com’era chiamato in italiano, che neprovocava l’aumento del prezzo. Il giocode’ mac-machìn, che solo i figli di otto odieci famiglie di possidenti potevanopermettersi, era un insulto alla miseriadiffusa, quando un uvìn e du mursèl adpen i sfamèva un burdél. 6. La letteratura classica accenna all’usodi reti per la caccia e la pesca, ed anche areticula, ‘piccoli oggetti fatti a rete’, mamai espressamente a indumenti eseguiticon ferri o ad uncinetto diffusisi, a quan-to pare, a partire dal medioevo.

Rubrica curatada Addis Sante Meleti

da Civitella

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la Ludla12 Marzo 2011

Il trebbo della SchürrFaenza, 6 marzo 2011

Carla FusconiAdolfo MargottiGianfranco Zozzi

Il presidente onorario Gianfranco CameraniLa presidente Oriana Fabbri

A conclusione del pranzo sociale del6 marzo, presso l’Hotel Cavallino diFaenza, si è svolto il trebbo poeticoche ormai tradizionalmente chiude -o meglio completa - l’appuntamentodi soci ed amici della Schürr conreciproca e sincera soddisfazione. È risultata infatti sempre molto gra-dita ai nostri soci l’opportunità dipartecipare ad un trebbo, soprattuttoda quando questa forma di incontrofra poeti e dicitori non trova piùcome un tempo enti o associazioniculturali che la organizzino.Si sono prodotti in recitazione dipoesie: Tunaci, la Carla Castellani,Marco Grilli, la Vanda Budini, Adol-fo Margotti, la Rema Zoffoli, Lucia-no Fusconi, la Maria Piolanti Baldas-sari e la Carla Fusconi.Si è esibito nel canto GianfrancoZozzi, seguito da un improvvisatocoretto di nostre socie che hannocantato con sentimento La vosta rôsa;mentre Theo Pezzi e signora hannoeseguito brani musicali della tradizio-ne romagnola.Il nostro socio (e fotografo) TorquatoValentini ha immortalato con i suoiscatti i momenti salienti della giorna-ta. In questa pagina e nella seguentepubblichiamo le sue foto che ritrag-gono i protagonisti del trebbo, conuna dovuta premessa dedicata ainostri due presidenti.

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la Ludla 13Marzo 2011

Luciano Fusconi

Vanda Budini

Rema Zoffoli

Maria Piolanti Baldassari

Novella Cottignoli, Carmen Bendandi, Rema Zoffoli, Rosalba Benedetti, Marcella Zannoni,Anna Maria Vannini.

Antonio Sbrighi (Tunaci)

Marco Grilli

Carla Castellani

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la Ludla14 Marzo 2011

Int la streðla ad spjagia che adës u ispecia i palëz e al gabẽni di begn adLido Adriano, pôch tẽp fa u j éra sóldal möti ch’al faðéva da cunfẽ cun laRaspóna, tëra dal Cuperativi, che inchi dè l’éra cultivêda a riðéra. A sim-nêla j avnéva da Cas-ciõ d’ Ravena j’ùtum simnadur da rið ch’j éra avnù socun la scôla di Rampõ, di Baröja, diPulintẽ e ad parec étar.A simnê int la Raspóna l’éra una fëstapar ló, parchè e’ fond l’éra tot sabjõ, adifarẽza dal riðéri dla Boca de’ Sêvi ede’ Dbã, ch’l’éra tota lëca e i simnadurj s’instichéva fen’al cösi. Mo int unãngul, pröpi dri a la boca di Fjõ Unì,una böta ad basa la n’éra adata par lariðéra; e ch’l’ãngul ad acva pjãn piãn,cun e tẽmp, e’ dvintè un cêr par la caza.Ste cêr u n’avéva tot’al su raðõ cumpa-gn’a cvi ch’j éra sté fët ad prupôðit,ch’i è maðé in manira da sfrutê alpremi luð dl’alvêda; lo l’éra cvéði a l’ar-vérsa, ublighê da la riðéra e da un riva-let ch’l’ignascundéva e’ coc.A caza, in ste cêr, i j andéva in parec,e nẽch Orestino ad Cuchegna, e’ fatórdl’azjenda. Da burdël u n’avéva la pasiõ dla caza,mo pjã pjã l’éra stê ciap, nẽch parchèagli éra longhi al þurnêdi d’invéran dapasê int ’na lêrga cumpãgn un diðért. In chi dè la caza la-s sréva par Sa’Juðëf,che þa j uðel ad vala j arfà e’ vjaþ d’ar-tóran, cvãt che Orestino, int ’na nötapin’ad stëli, e’ spjanè e’ þug dagli ana-dri – do fèman e e’ mas-c, da lóngh –e’ praparè i fes-c e, a oc avirt, a tné d’asptê l’ejba. Mo a l’impruviða, sẽza cheagli anadri al daðes signél, …una böta,coma ch’j aves butê una pré int e’ cêr,la rumpè e’ silẽzi. “Una folga!” e’ pinsè Orestino, ðma-lizjê da cnòsar da l’armór parec uðel.Mo u-s ðbagliè: l’éra un ziþõ, e’ mas-cdj anëdar, ch’l’éra arivê ad böta, invi-dê chisà in cvêla manira. Adës e’ þiré-va da tond a la femna, senza scustêsche tãt ch’e’ speréva Orestino… E li,sta zveta, l’invjè ad alzê e abasê e’cöl… E’ ziþõ l’intrè in bal e insen, totdu, i baléva una dichiaraziõ d’amór.Int un àtum al do maci scuri al dvin-tè ona: e’ ziþõ adös e’ tnéva l’anadratota sota l’acva, a l’infora de’ bëch edla códa. La galêda la fnè a la ðvélta,mo e’ziþõ u-n-s ðluntanè da la femna,ãnzi, u i þiréva da tond ðvulazend, e

li, tota cuntẽta, la-s butéva dl’acva intla schina e la-s pnéva al pen sparnazê-di da e’ mas-c.“T’at si gudù?, mo t’é fat l’utma!...S’t’at scost un pô, t’avdré ad surpréða:t’pês da l’amór a la môrta!”E coma tot i cvel ch’u-s tẽ d’apstê cunimpaziẽza, cvãt che j ariva l’è sèmpar al’impruviða, e’ ziþõ e’ “stachè” [si alzòin volo], mo u-n faðè che bël sêlt in êltch’e’ fa j’anëdar cvãt ch’i-s n’adà ch’j èint e’ pirìcul, lo u s’avjè ad stres a l’ac-va, e par þonta incõtra ad Orestinoche, par cojpa de’cêr tröp curt, u s’e’vest adös… e u-l ðbagliè (nẽch parchè las-ciöpa, da vðẽ, la-n fa e’ val), e e’ ziþõu i pasè sóra.Orestino u-n s’avilè: e’ savéva che adcul l’éra piò fàzil da culpil, e u-s þirè.Mo int e’ fratẽp l’öc ros de’ sól l’éraspuntê: una padëla rosa infughidach’la mandéva rëþ, cun int e’ mëþ unamacia nigra ch’la dvintéva sèmpar piòznina. Orestino e’ mulè la s-ciuptê e e’ðbagliè e’ ziþõ! Instizì, e’ mulè unaparulaza –“Putãna…”– e e’ þugh l’ar-spundè cun una gran ðbacarêda: “Ca,ca, ca, ca…”Mo i cazadur i-n s’arend; nẽch a éjbaêlta i spéra sèmpar d’ garavlê cvalcvël.Orestino e’ mazè un purzanõ curióðch’e’ bichéva int i stẽp ad pavira, e docavreti pasturóni ch’al caminéva a lagronda de’ cêr; e un pô sulivê e’ lasè e’pöst ad caza. Int e’ srê e’ cvérc de’ coc, u i vest unastresla bjãca, mo u n’i faðè chês: i pin-sir j’éra þa pr’e’ lavór int l’azienda; mocvãt ch’u-s cavè e’ capël righê ad bjãchnẽch lo, e’ capè che e’ ziþõ u gl’javévafata adös!

U j muntè so una rabia cativa, ch’pa-rò la pasè a la ðvélta; u néra stê unspët, mo una cumbinaziõ: e’ savévache j’uðel o ch’i-l fa da la pavura, o paralþiris e fê piò ðvélt e’ vól.Par un pô u n’e’ dget cun nisõ , e pu un’iglia faðet; tot i bõ cazadur i conta e’bẽ e e’ mêl: cvãt ch’i tô þo dj’uðelimpusèbil, e i ðbaglia ad cvi che i s’japóna int la cãna de s-ciöp. J’amigh,tot a rìdar e a scarzêl, mo cvel ch’e’ pa-réva un spët u-s vultê a favór. Dagliôvi cuvêdi da l’anadra e’ nisè unazaculina cla dvintè la mej de’ þugh: unpô piò znina dal surëli, cöl piò stil euna tistina cumpãgn’a una besa. Inte’ cêr l’éra sèmpar la prema ad aviðêl’ariv dj’uðel. Mo la sintéva fôrt l’ar-ciãm de’ salvàtich, e cun al premiburaschi ad setèmbar la s’amuléva asparnazê e a cantê; l’arduðéva e’brãnch dla córta e in tësta la vulévapar tota la Raspóna, fena ch’la vanzé-va da par li. Mo una matẽna unbrãnch ad anêdar che j’avéva pasturêint al Salẽni, i-s chẽs avjês [furonocostretti ad andarsene] par un vintazch’u-s alzè a l’impruviða, e nẽch e’ mêru n’avéva cal bëli ondi longhi che alcondla j’uðel (impusèbil arpunsês cunla tësta sot’a l’éla): i pinsè d’andê ainfraschês tra e’ canël e i tamarið, inti cér dla Val dla Cãna, e i varghè dasór’a la Raspóna. Abandunêda dal surëli strachi, l’ana-drina la vuléva da par li, la s’imbran-chè e la-n turnè piò. La n’avéva reðistìa l’arciãm de’ salvàtich, nẽch parchèagli è piò bóni do garnëli ad furmin-ton garavlêdi int ’na lêrga ch’n’è uncöz pin int un sraj.

La galêda de’ ziþõ

di Antonio Sbrighi(Tunaci)

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la Ludla 15Marzo 2011

Qualche tempo fa mio padre miriportò un aneddoto raccontatoglida un suo caro amico di infanzia. Questo amico, valente musicista,assieme a due fratelli anch’essi musi-cisti girò il mondo suonando jazz inlocali molto importanti, ma prima diarrivare a questa meta in gioventùaveva suonato quella che usualmentechiamiamo “musica romagnola” (lamusica, per intenderci “alla Casa-dei”) nelle fiere e nelle balere di tuttala Romagna.Erano stati gli anni della gavetta, incui si guadagnava poco e si facevauna vita da saltimbanchi, adattando-si a mezzi di trasporto scalcagnati edormendo in altrettanto scalcagnatelocande; a volte poteva anche succe-dere, per mancanza di luoghi dovepassare la notte, che ci si dovesseaccontentare di quello che passava ilconvento.In una di queste occasioni, dopouna serata nelle colline sopra Cese-na, lui e gli altri orchestrali furonoospitati nella casa di un contadinoche non aveva da offrire altro che unfienile: l’aþdóra li accompagnò sottoun capannone di legno, con tre solepareti e il tetto e, nell’accomiatarsi,chiese : “A vliv una béra?”.Accaldati e stanchi (si era alla fine diagosto) acconsentirono tutti congrande entusiasmo, pensando chefosse stata loro offerta la classicabevanda, per cui rimasero molto stu-piti, oltreché delusi, quando viderotornare la donna assieme ad una suafigliola che recavano sottobraccio uncerto numero di coperte, tante quan-te erano i musicisti; nel dialetto diquella zona la béra è la coperta dilana (che, per quanto pesante, nonva confusa con l’imbutida, quellagrossa coperta a più strati, contenen-te all’interno una ‘imbottitura’ dibatuffoli di lana grezza o altro mate-riale feltroso); la donna aveva pensa-to che, nonostante si fosse verso lafine dell’estate, la notte fosse fresca eche gli ospiti, sul fare del mattino,avrebbero patito freddo a dormiresulla paglia in un luogo praticamen-te aperto.È indubitabile che il termine vengada bér, in quanto animale che forni-sce il vello per poter arrivare alla lana

con le quali erano tessute le coperte.Ciò mi fa pensare quindi che anchela bérta, quella mantellina di lana chele donne più anziane usavano percoprire le spalle, possa avere la stessaorigine etimologica, e proprio perquesto mi lascia perplesso l’interpre-tazione che, rileggendo un articoloapparso su un vecchio numero diquesta stessa rivista (Deonomasticaromagnola; la Ludla n. 4, anno IX,aprile 2005, pag. 7) trovo propostada Gilberto Casadio, che lo fa risali-re invece al francese berthe, dal nomeproprio Berte (Berta), nome moltocomune nel medioevo e quindi, perantonomasia, tale da indicare unadonna qualunque e quindi anchel’indumento usato da molte donne.Essendo il termine béra usato, che iosappia, soprattutto nel cesenateposso ritenere che Casadio (forse diorigini ravennati?) non ne fosse aconoscenza?O forse potrebbe questo terminederivare dal germanico bert, che sap-piamo originare diversi vocaboli chehanno a che fare con la “parte supe-riore del corpo” (come bret), dato chele spalle possono essere intese pro-prio come la parte superiore deltronco? Sarei grato se lo stesso Casadio o qual-che altro lettore de “la Ludla” potesseaiutarmi a chiarire la questione.

***Scrive l’Ercolani: “Bèra, sf. Trapunta.Dal lat. tardo burra, lana greggia.Questa trapunta era imbottita,secondo le condizioni della famiglia,

di lana greggia o scadente ed anchedi quella infima stoppa detta«patòcc»”. E poi cita la forma birra, pre-sente in un inventario forlivese della finedel XVI secolo. La derivazione da burra‘borra, cascame di lana, lana greggia’non può essere data per certa in quantoil passaggio da u latina ad é romagnolasarebbe a dir poco singolare. Il cinquecen-tesco birra pare una italianizzazione deldialetto béra. Certamente il termine romagnolo non sipuò disgiungere dal veneto e friulanoberra ‘coperta’ e dal veneto bèro(bèrro) ‘ciuffo, fiocco di lana’. Per questiultimi il Dizionario Etimologico Ita-liano di Battisti e Alessio (sotto la vocebèrro4) suggerisce la derivazione da unaradice prelatina *berro- ‘ciuffo’.Quanto alla berta ‘mantellina di lanache ricopre le spalle’ fatta con i ferri o conl’uncinetto, è un vocabolo diffuso a quan-to pare solo nel faentino. Altrove è dettamantëla o mantlena. Il termine, anchese di uso non comune, è presente pure initaliano. L’etimologia è, attraverso ilfrancese berthe, dal nome proprioBerta: si vuole che questa Berta sia labuona madre dell’imperatore CarloMagno, la quale – al tempo in cui filava– si proteggeva le spalle dal freddo conquesto tipo di mantellina. Il Battisti-Alessio (Dizionario Etimologico Ita-liano, sotto la voce berta1), aggiumgeche si tratta di voce pubblicitaria.In conclusione, a mio modesto avviso,non esiste alcun rapporto fra le due voci;fra l’altro la differenza rappresentatadalla presenza della -t- difficilmente puògiustificare una loro origine comune.

Gilberto Casadio

La béra e la bérta

di Renato Cortesicon un intervento di Gilberto Casadio

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«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr, distribuito gratuitamente ai sociPubblicato dalla Società Editrice «Il Ponte Vecchio» • Stampa: «il Papiro», Cesena

Direttore responsabile: Pietro Barberini • Direttore editoriale: Gilberto CasadioRedazione: Paolo Borghi, Gianfranco Camerani, Giuliano Giuliani, Omero Mazzesi

Segretaria di redazione: Carla Fabbri

La responsabilità delle affermazioni contenute negli articoli firmati va ascritta ai singoli collaboratori

Indirizzi: Associazione Istituto Friedrich Schürr e Redazione de «la Ludla», Via Cella, 488 •48125 Santo Stefano (RA)Telefono e fax: 0544. 562066 •E-mail: [email protected] • Sito internet: www.argaza.it

Conto corrente postale: 11895299 intestato all’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postale. D. L. 353/2003 convertito in legge il 27-02-2004 Legge n. 46 art. 1, comma 2 D C B - Ravenna

Marzo 2011

E’ Sbandiradór

Svulàza d’ a d’ quasvulàza d’ a d’ lài sógn j è ‘na bandìra:j artórna sempar in’ tëra

Lo SbandieratoreVolteggia di qua \ volteggia di là \ i sogni sono una bandiera:\ ritornano sempre a terra

Carlo Falconi lo si può ben definire una collaudata cono-scenza della Ludla, e siamo appagati dal poter attestare chesi tratta di una conoscenza che, anche in ambito dialetta-le, a tutt’oggi non ha cessato di crescere. Da quando, nel-l’ottobre del 2007, abbiamo ospitato a pagina sedici unasua poesia dal titolo “Mulena”, egli ha pubblicato con lacasa editrice faentina “Tempo al libro” Blëc, la sua primaraccolta di poesie in dialetto romagnolo (v. Ludla, genna-io 2009, p.2), e ci sono concrete ragioni per presagire chenon rimarrà a lungo isolata.S’è sempre sostenuto su queste pagine che una delle pre-rogative più salienti per una poesia romagnola che ambi-sca alla qualifica di attuale dovrebbe essere la sua vocazio-ne a ricomporre l’apparente inconciliabilità fra il dialettoe l’epoca in cui viviamo, una sorta di antagonismo, que-

sto, figlio della diffusa convinzione che certe cose in dia-letto non si riescano o addirittura non si possano dire, eche costringerebbe i suoi poeti a a gingillarsi poco più checoi ricordi o coi sogni.A Falconi, comunque, non fanno difetto né gli uni né glialtri; ma mentre i primi, in luogo d’utilizzare ormai incon-grue soffitte, può agevolmente stiparli nella memoria diun computer per andare a ripescarseli nel momento in cuigli servono,

A n’è piò bsógned ròbi vècj ramasédiint i cantõ di sulér

A tnèn tôt int la mèntd’ un ardisk1

per ciò che riguarda i secondi, la faccenda si complica per-ché i sogni, in quest’epoca assurda di precarietà e globaliz-zazione, non paiono destinati a lunghi tragitti, costretticome sono a ritornarsene spesso a terra, non sapendo poise da terra riusciranno mai a ripartire.

Paolo Borghi

1. Non abbiamo più bisogno \ delle cose vecchie ammucchiate \ allarinfusa negli angoli dei solai \\ Teniamo tutto nella memoria \ di unhard disk

Carlo Falconi

E’ Sbandiradór