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Andrea D’Auria Una terra ricca di promesse Il silenzio come conoscenza di sé e di Dio

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Andrea D’Auria

Una terra ricca di promesseIl silenzio come conoscenza di sé e di Dio

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Lezione ad alcuni giovani sacerdoti della Fraternità san Carlo.Roma, 26 gennaio 2016.

In copertina: veduta sulle Montagne Rocciose dalla finestra della casa della Fraternità san Carlo a Broomfield, Colorado (Usa).

stampa pro manuscripto - 2018

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Voglio iniziare la mia meditazione con un brano diBalthasar. Desidero leggerlo con voi perché mi hamolto colpito tra le letture che mi hanno accompa-gnato in questi ultimi mesi.

«La maggior parte dei cristiani sono convintiche la preghiera è qualcosa di più di un attoesterno compiuto debitamente, in cui si diconoa Dio certe cose, che Egli in fondo sa già. […]Molti cristiani, anche se con loro dolore e rin-crescimento, si limitano a questo grado infimo:sanno che la preghiera è un campo dove trove-rebbero un tesoro nascosto soltanto se si met-tessero a scavare, un seme fecondo che sitrasformerebbe in un albero rigoglioso di fiorie di frutti soltanto se volessero piantarlo e col-

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tivarlo. […] Essi sanno ciò o ne hanno un pre-sentimento da certe esperienze già fatte, ma nonhanno mai osato seguire più oltre la strada affa-scinante e inoltrarsi nella terra ricca di pro-messe. Gli uccelli del cielo hanno beccato laparola seminata, le spine delle occupazioni quo-tidiane l’hanno soffocata e nell’anima rimane unvago rincrescimento. E quando, in certe oredella vita, risentono l’impetuosa necessità di ri-tornare a Dio in modo diverso dalle formuletroppo ripetute, allora si sentono inetti, comese dovessero parlare in una lingua di cui trascu-rano lo studio della grammatica, e invece di unaconversazione corretta ne risulta un ostentatobalbettìo di idioma celeste ed essi si trovanocome in un paese straniero di cui non cono-scono la lingua, ritornati nell’indigenza delbimbo balbettante che vorrebbe dire qualcosae non può»1.

Queste parole mi hanno molto colpito perché misembra descrivano con impietoso realismo la rea-

1 H. U. von Balthasar, La meditazione, Edizioni Paoline, Alba 1958, 1-2.

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zione di ciascuno di noi di fronte al silenzio. È qual-cosa che abbiamo almeno in parte imparato a fare –soprattutto negli anni del seminario –, in cui ripo-niamo tante speranze e di cui capiamo l’importanza.Ma quando ci accingiamo a fare silenzio ci sembradi dover parlare una lingua che non conosciamo. Ciscopriamo scettici e constatiamo che le distrazionidel mondo prendono la maggior parte del nostrotempo e delle nostre energie. Il silenzio, nel miglioredei casi, rimane una sorta di desiderio irrealizzabile,un traguardo che possiamo vagheggiare ma che ri-mane lontano, non è più una possibilità attuale.

Vorrei invece chiedere a me stesso e a voi: è an-cora possibile vivere il silenzio? È ancora possibileche esso dia forma alla nostra vita? Da che parte rii-niziare?

Spesso, quando riandiamo alle nostre esperienzedi preghiera, pensiamo a come pregavamo da bam-bini. Ma è possibile che questa esperienza non restirelegata all’infanzia e progredisca invece nel tempo?

Il titolo della meditazione odierna è: il silenziocome conoscenza di sé e di Dio. Voglio cioè guar-dare al silenzio come alla via maestra alla scopertadi noi stessi e del nostro animo e, allo stesso tempo,

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come via maestra alla conoscenza del Signore. Vorreidocumentare come queste due vie si intreccino con-tinuamente e si richiamino a vicenda, sebbene la co-noscenza di Dio non sia semplicemente unaflessione o una conseguenza della conoscenza di sé.

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1. Il silenzio: conoscenza di sé

Se abbiamo resistenza a vivere la realtà del silenzio,ciò accade proprio perché esso è via alla conoscenzadi noi stessi. Evitiamo o scansiamo il silenzio perchénon vogliamo guardarci dentro, non vogliamo guar-dare il guazzabuglio della nostra anima e gli attritiche si svolgono dentro di noi.

Il nostro cuore è misterioso e nulla gli fa piùpaura del nostro stesso intimo. È positivo il fatto chesiamo mistero a noi stessi, ma alle volte l’ignoto checi sentiamo dentro ci atterrisce.

L’attivismo, al cui riguardo don Massimo ci hasempre resi avvertiti, svolge purtroppo anche la fun-zione di proteggerci da noi stessi: ci diamo tanto dafare proprio per non pensare a quello che si svolge

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dentro di noi. Nel Il senso religioso è riportata unalunga lettera scritta ad Augusto Guerriero, allora di-rettore di Epoca, da una persona in fin di vita, che glisi rivolse per chiedergli aiuto. Alla supplica di quelmalato, che poneva interrogativi sul senso della vitae della morte, Guerriero rispose di non avere rispo-ste da offrire. Disse di occuparsi solamente di poli-tica e di non pensare mai agli aspetti profondidell’esistenza. Candidamente ammise: «Non cipenso [mai], ed è appunto per non pensarci chescrivo di politica e di faccende di cui, in fondo, nonmi importa niente»2.

L’attivismo è la strada che alle volte imbocchiamoper non pensare a noi stessi. Don Massimo, in Terrae cielo, scrive:

«Un’altra barriera che si erge contro il silenzio èil materialismo di chi vive completamente assor-bito nelle proprie attività e non ha tempo peraltro. Questo atteggiamento rappresenta il ten-tativo di mascherare una paura, il tentativo di

2 Cfr. L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, 89-90.

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perdersi nelle attività per non guardare il propriovolto. Il silenzio è temuto perché in esso non cisono coperture, distrazioni, difese: nel silenzioil nostro volto si svela ai nostri occhi in tutte lesue fattezze [siamo davanti a noi stessi così comesiamo]. Non c’è altra strada per conoscere il no-stro io reale, quello che Cristo ha voluto e ama,quello che Cristo salva, destinato alla gloria»3.

C’è dunque una libera convenienza da parte no-stra nell’evitare la pratica del silenzio: non vogliamometterci di fronte a noi stessi così come siamo.

Santa Teresa d’Avila parla del silenzio propriocome della strada che permette di addentrarsi allascoperta di se stessi:

«Tornando al nostro incantevole e splendidocastello [la nostra anima], dobbiamo ora vedereil modo di potervi entrare. Sembra che io dicauno sproposito, perché se il castello è la stessaanima, non si ha certo bisogno di entrarvi, per-ché si è già dentro. Non è forse una sciocchezza

3 M. Camisasca, Terra e cielo, Cantagalli, Siena 2006, 48.

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dire a uno di entrare in una stanza quando già visia? Però dovete sapere che vi è una grande dif-ferenza tra un modo di essere e un altro, perchémolte anime stanno soltanto nei dintorni, làdove sostano le guardie, senza curarsi di andarepiù innanzi, né di sapere cosa si racchiuda inquella splendida dimora, né chi l’abiti, né qualiappartamenti contenga. Se avete letto in qualchelibro di orazione “consigliare l’anima ad entrarein se stessa”, è proprio quello che intendo io»4.

Dice più avanti santa Teresa:

«L’esperienza che ho di queste prime mansioni[cioè le prime stanze in cui entra] mi permettedi descriverle, e so che terribili ed astute sonole insidie del demonio per impedire che leanime conoscano se stesse e la strada per cuicamminano»5.

4 Teresa d’Avila, Il castello interiore, in Opere, Postulazione generaleo.c.d., Roma 1985, 764.5 Ivi, 773.

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La grande arma del demonio è distrarci dalla co-noscenza di noi stessi (al proposito vi rimandoanche alla lettura delle simpatiche Lettere di Berlicchedi Lewis6). Pertanto, per recuperare la conoscenzadi sé, occorre affrontare un cammino coraggioso ededicare tempo al silenzio.

Il silenzio è un lavoro, una fatica, implica tempoe energie. A fare silenzio sul serio ci si stanca. Qual-che giorno fa ho chiesto a un seminarista: “Comestai?”. E lui: “Non pensavo che pregare e fare silenziofosse così faticoso!”. Santa Teresa d’Avila tornaspesso su questo tema. Alle suore che pensano chestare con Dio diventi facile con il passare degli anni,dice di non illudersi.

1.1 Prendersi cura del silenzio

Per comprendere che cosa significhi prendersi curadel silenzio e dedicare la giusta attenzione al rapportocon il Signore credo possa aiutarci la lettura dei testi

6 C. S. Lewis, Le lettere di Berlicche, Jaca Book, Milano 1990.

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di Adrienne von Speyr, la mistica che ha ispirato vonBalthasar. In Esperienza di preghiera dice:

«Se uno ha il permesso di parlare con una im-portante personalità, si aspetta che ogni parolasia qualcosa di importante, sente il dovere di ac-coglierla attentamente, di accordarsi con essa,si sforza il più possibile di capirla e di stampar-sela nella memoria. Più tardi uno ricorda volen-tieri questo discorso e alcune parole si fissano[riandiamo con la memoria alle cose che ab-biamo capito nel silenzio, nel dialogo con il Si-gnore]. Le proprie [parole], naturalmente,molto meno di quelle del partner.Una cosa simile può accadere nel discorso conDio. Quando si prega con la speranza di nonpretendere invano il tempo di Dio, […] l’orantesi sente ancora più profondamente obbligato.Egli sa che la parola di Dio ha molta più impor-tanza della sua e tenta di ascoltare meglio. Nonvuole imporsi, al contrario vuole ricevere daDio. Se ogni orante avesse questo sentimento,sarebbe più attento. Non cadrebbe nel cianciaree non riempirebbe il tempo prezioso presso Diocolle sue chiacchiere: come se egli fosse l’impor-

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tante! Come fossero importanti per Dio le suesentenze»7.

Curare il silenzio vuol dire certamente dare ilgiusto peso alle parole che vogliamo dire davanti alSignore, ma soprattutto disporci all’ascolto di quelloche lui può dirci.

Ciò che si oppone al silenzio è la «trascuratezzadell’io»8, la paura di entrare nel castello della nostraanima, per cui ci limitiamo ad aggirarci dove ci sonole guardie senza osare di varcare la soglia.

Entrare in questo castello interiore, in tutte lesue mansioni e appartamenti, ed entrarvi in com-pagnia del Signore, significa invece iniziare una verariconciliazione con noi stessi e con il nostro passato.

Scrive santa Teresa:

«Vi ho già detto in principio – ed è parola diDio – che chi ama il pericolo in esso perisce, eche la porta del castello è l’orazione. Ora, pre-tendere di entrare in cielo senza prima entrare

7 A. von Speyr, Esperienza di preghiera, Jaca Book, Milano 1990, 5.8 L. Giussani, Alla ricerca del volto umano, Rizzoli, Milano 1996, 9.

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in noi stessi per meglio conoscerci e considerarela nostra miseria, per vedere il molto che dob-biamo a Dio e il bisogno che abbiamo della suamisericordia, è una vera follia»9.

Conoscere Dio senza conoscere noi stessi è uto-pia.

1.2 Abbiamo paura del silenzio se non ci sentiamo per-donati

Ora dobbiamo domandarci: per quale ragione ab-biamo tanta paura del nostro cuore? Tale paura è do-vuta al fatto che in fondo non ci sentiamo ancoradavvero perdonati. Non sentiamo la nostra storiacome accolta e abbracciata, come oggetto di miseri-cordia.

Se pensiamo a Zaccheo oppure alla samaritana,ci accorgiamo che accettano di guardare con reali-smo la propria condizione – “Ho rubato tanto”;“Non ho marito” – quando scoprono di essere per-

9 Teresa d’Avila, Il castello interiore, op. cit., 785.

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donati (cfr. Lc 19,1-10 e Gv 4,1-30). Anche il figlioprodigo torna a casa perché intuisce che il padre loperdonerà (cfr. Lc 15,11-32). Se non ci sentiamopreviamente perdonati, non troveremo mai il corag-gio di affrontare la conoscenza di noi stessi. Anzi, lascoperta di non avere forze sufficienti per superarel’atterrimento di noi stessi ci risulterà perfino co-moda, sarà una scusa per la nostra inerzia.

È possibile sostenere la tensione e il dramma dellaconoscenza di noi stessi solo nella prospettiva che lanostra vita è stata voluta e amata. Il perdono e la mi-sericordia sono all’origine di ogni vero atto conosci-tivo, di ogni vero discernimento dell’io. Se nonsentiamo su noi stessi che Gesù ci guarda Miserandoatque eligendo, non vediamo ragioni per addentrarcinelle stanze polverose e buie della nostra vita.

Von Balthasar si sofferma su come Simon Pietroabbia cominciato a capire se stesso nell’incontro conGesù:

«Il pescatore Simone, prima del suo incontrocon Cristo, avrebbe potuto perlustrare in tutti isensi il proprio io, ma non avrebbe trovato nulla

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di Pietro. La forma di Pietro, la missione parti-colare è riservata a lui solo, resta nascosta nelmistero dell’anima di Cristo e gli verrà affidata,duramente e imperiosamente, dopo di esserestato messo a confronto con gli altri. Questamissione sarà la realizzazione di una forma, va-lida davanti a Dio e all’eternità, che invano si sa-rebbe potuta trovare in Simone. Simone, nellaforma di Pietro, diventa atto a comprendere ilVerbo di Cristo, perché questa forma stessa sca-turisce dal Verbo e appartiene al Verbo. Simonesbaglierà, e pericolosamente, ogni volta che se-guirà l’intelligenza della sua natura di Simone,ma non sbaglierà ogni volta che prenderà con-siglio, “non nella carne e nel sangue”, ma se-guendo la sua missione che gli rivela la volontàdi Dio»10.

Sperimentare la misericordia vuol dire scoprireche il Signore ci dà un compito. Ed è questo compitoche fa emergere alla nostra coscienza una consape-

10 H. U. von Balthasar, La meditazione, op. cit., 54.

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volezza oggettiva di quello che siamo. Ecco il valoredel silenzio come conoscenza di sé, introduttiva allaconoscenza di un Altro.

Il vero silenzio non è mai un ripiegamento o unaintrospezione fine a se stessa, non è uno studio psi-cologico della propria persona e non consiste anzi-tutto nel pensare a se stessi. Piuttosto è l’esporsi allosguardo che Dio ha su di noi. E così diventa imme-diatamente anche conoscenza di Dio. «Noverim me,noverim te», diceva sant’Agostino: se conoscessi ve-ramente me, conoscerei anche te o Signore11.

Tuttavia, se è vero che la conoscenza di sé è co-noscenza di Dio, bisogna precisare che Dio non èappena una flessione del nostro io, non è una sem-plice dimensione della nostra personalità. Esiste in-fatti una discontinuità tra quello che noi siamo e lapresenza di un Altro che campeggia nella nostra esi-stenza. La conoscenza di Dio non è una sempliceconseguenza della conoscenza di noi stessi. Occorreun salto qualitativo. La conoscenza del Signore nonè cioè deducibile da quello che sappiamo di noi

11 Agostino d’Ippona, Soliloquia, II,1,1.

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stessi e da quello che noi siamo. Dice ancora vonBalthasar:

«Dio resta il sovrano, che secondo la sua vo-lontà elegge, sceglie e dispone e nulla nell’uomopuò far prevedere con certezza come parlerà ildeterminato Verbo in questi determinati uo-mini in determinate ore della vita. Dalla sua solanatura, l’uomo non può indovinare la volontàdi Dio, scopo della sua vita. Sarebbe come pre-tendere dall’ancella ciò che soltanto il padronepuò dare. “Ecco, come gli occhi dei servi sonofissi alle mani dei loro padroni, come gli occhidell’ancella alla mano della sua signora, così gliocchi nostri al Signore Dio nostro” (Sal122,2)»12.

Come conoscenza di sé, il silenzio è il luogo dovesi crea in noi una coscienza vigile. San Giovanni diceche lo Spirito ci rende edotti riguardo al peccato (cfr.Gv 16,8). Nel silenzio diventiamo capaci di rinve-nire in noi la presenza del male, la mondanità, im-

12 H. U. von Balthasar, La meditazione, op. cit., 21.

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pariamo a riconoscere il nostro attaccamento al co-modo, capiamo quanto l’uomo vecchio sia ancorapresente in noi. Il silenzio è il luogo privilegiato incui prendiamo coscienza di ciò che è ancora attac-camento a noi stessi, vale a dire di ciò che non èGesù.

È un lavoro importante per ogni uomo, ma so-prattutto per noi sacerdoti. Altrimenti non avremoil referente quando dovremo affrontare questi pro-blemi nell’animo degli altri. Quando le persone cheil Signore ci affida vengono a parlarci delle loro dif-ficoltà affettive, delle invidie e delle gelosie, di quelloche può essere l’orgoglio, la presunzione o l’amorproprio, non sapremo cosa dire se non avremo fattoun adeguato lavoro su noi stessi. Chi ha perlustratopoco le dimensioni della propria esistenza, nonpotrà essere un aiuto valido per coloro che a lui si ri-volgeranno; chi non ha imparato a combatterel’amor proprio in se stesso, non capirà gli altri e nonsarà in grado di indirizzarli. E di questo la gente siaccorge. Quante volte ho l’impressione di stare difronte a sacerdoti molto colti, ma che non avendomai fatto questo lavoro dentro di sé risultano vuoti!

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Infatti le persone li evitano o si rivolgono a loro conscarsa fiducia. Capiscono che non saprebbero cosadire per guidarle nei travagli e nelle difficoltà dell’esi-stenza.

1.3 La preghiera necessita di una purificazione

La parola purificazione deriva dal greco pur, che vuoldire fuoco. Dobbiamo accettare che le nostre imma-gini siano bruciate. Dev’esserci in noi la disponibilitàa rinunciare a tutto quello che è vecchio, ai nostriprogetti, alle nostre idee. Dobbiamo essere dispostia bruciare tutte le fotografie che ci siamo fatti di noistessi.

Cosa vuol dire che il silenzio e la preghiera devonoessere purificati? Vuol dire che dobbiamo chiedercisempre se quello che domandiamo è secondo la vo-lontà di Dio. Si tratta di una educazione continua.

Inoltre la nostra domanda deve essere scevra daogni ipotesi di realizzazione. Il Signore sa come ac-contentarci, lasciamo dunque la risposta a lui.

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«Se preghiamo in autentico abbandono e nellaverità, allora la nostra preghiera sarà già com-piuta nell’istante in cui la rivolgiamo, diversa-mente forse da come ce l’aspettavamo, matuttavia realmente. E noi ci stupiamo dell’infi-nita possibilità di compimento che Dio ha, dellavarietà, della ricchezza. Mentre ci stupiamo,comprendiamo più profondamente, esperimen-tiamo diversamente, siamo trascinati fuori dalnostro spazio nello spazio di Dio che dona,siamo sollevati dalla nostra attesa all’attesa del-l’eterna parola che parla»13.

La nostra parola deve contenere in sé questa di-sponibilità alla purificazione. È il digiuno dalla no-stra immagine, dai nostri progetti realizzativi. E ilsilenzio deve essere il luogo in cui da subito ci uni-formiamo alla volontà dal Signore.

L’immagine di come debbano realizzarsi i nostridesideri è il più grande intralcio all’avverarsi delregno del Signore.

13 A. von Speyr, Esperienza di preghiera, op. cit., 2.

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Se i giudei non hanno accolto Cristo, è perchéerano troppo attaccati alla loro idea di come dovevaessere il Messia. La religione, alla fine, è stata l’osta-colo che non ha permesso loro di incontrare e rico-noscere Gesù. La religione, cioè le nostre idee e lenostre immagini, possono essere il più grande avver-sario della fede.

«Anche quando [chi prega] chiede i beni piùcontingenti e materiali, la preghiera, in ultimaanalisi, chiede il Regno – che s’avveri innanzi-tutto nell’io il suo Regno –, che l’io “sia” quelche deve essere, quello che Lui vuole. È comese dicesse: “Signore, io ti chiedo questa cosa,perché mi sembra utile alla realizzazione di mestesso; però, evidentemente, io ti chiedo quelloche è conveniente e utile veramente, non quelloche a me pare tale; perché io ti chiedo il Regno,non le cose come appaiono a me”. È la preghieradi Gesù: “Padre, se è possibile, passi da me que-sto calice, però non la mia, ma la tua volontà siafatta”. Una preghiera che non avesse implicita o espli-cita questa clausola, non sarebbe domanda, matentativo d’imposizione; non sarebbe espres-

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sione d’una coscienza di dipendenza, ma ribel-lione. Sarebbe l’assurda pretesa di costringereDio nella nostra misura, di far soggiacerel’eterno all’effimero, l’infinita saggezza all’infan-tile capriccio»14.

Il silenzio è il luogo in cui si impara la verginitànei confronti del Signore, a lasciare che Egli faccia lasua strada in noi, nei suoi tempi e nei suoi modi. Seimpareremo la verginità con Dio, la vivremo anchecon i fratelli e con tutte le persone che incontreremo.

Don Giussani, nella lettera molto ermetica allaFraternità di CL del 2003, parlò della Madonnacome di colei che viveva un atteggiamento di vergi-nità verso Dio15.

Il silenzio è il luogo in cui si capisce cosa Dio vo-glia da noi. È il luogo in cui la sua volontà su di noisi evidenzia, dove ci viene svelata la nostra voca-zione, dove capiamo quale sia il progetto del Signoresulla nostra vita.

14 L. Giussani, Alla ricerca del volto umano, op. cit., 142-143.15 L. Giussani, Commossi dall’infinito - Lettera alla Fraternità di CL, Mi-lano, 22 giugno 2003, pubblicata in Tracce, 7 (2003), 1-3.

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Il vertice della misericordia è la scoperta che pos-siamo servire il Signore. Emerge chiaramente intanti passi del Vangelo. La parabola dell’undicesimaora, ad esempio, mostra come essere chiamati al ser-vizio del Signore sia già in sé un fatto bello (cfr. Mt20,1-16). Colui che lavora solamente un’ora ricevelo stesso stipendio degli altri. Quando quelli chehanno sopportato il pondus diei et aestus si lamen-tano, Dio risponde loro: “Ma non capite? Il fatto diavere lavorato per me, nella mia vigna, per il mioregno, è già in sé una grazia. La vostra fortuna nonsta nel ricevere una paga maggiore, ma nella possi-bilità che vi è stata concessa di lavorare tutto ilgiorno per me”.

Anche nel discorso sacerdotale di Gesù ricorrequesta idea: il vertice dell’affetto e della preferenzache il Signore ha avuto per la nostra esistenza – Viho chiamati amici (Gv 15,15) – è che la vita è voca-zione e può essere spesa per servirlo.

Il silenzio è esattamente il luogo in cui si chiariscecosa sia vocazione e cosa Dio voglia da noi.

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Dice von Balthasar:

«Nel centro [della preghiera, all’uomo] verràrivolta la parola e data la notizia decisiva: checosa è la verità della sua vita, che cosa Dio vuolee attende da lui, ciò che deve seguire e ciò chedeve evitare nel servizio del Verbo divino. Eglideve dunque diventare ascoltatore delVerbo»16.

Nel silenzio il Signore ci manifesta la sua volontà,che cosa Egli voglia da noi.

1.4 Nel silenzio ci apriamo al rapporto con un Altro

Secondo Giussani, conoscenza di sé significa soprat-tutto consapevolezza di essere dono a se stessi. Co-noscerci, cioè, non significa solamente individuarei moti psicologici del nostro io, ma entrare nella per-cezione che siamo fatti istante per istante, generatie voluti da un Altro.

16 H. U. von Balthasar, La meditazione, op. cit., 17.

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Questa consapevolezza, nella mentalità del no-stro tempo, è un cuneo scardinante. L’uomo mo-derno infatti ritiene che essere dati a se stessi da unaltro voglia dire essere incatenati, perché significanon determinarsi da sé. Nella cultura modernal’uomo sente come imprigionante il fatto di essereun dono, secondo l’idea che ciò che ci precede è ciòche ci vincola, ciò che viene prima di noi è ciò checi inganna: non solo la tradizione, ma perfino il datoontologico che precede e rende vero l’uomo. Se-condo la mentalità dominante del nostro tempo, ilvero è quello che l’uomo può fare per se stesso.

Per Giussani conoscere se stessi significa invecescoprire che siamo dono a noi stessi, che esistiamoin virtù di qualcosa che ci precede e pertanto nonsiamo in grado di darci né la vita né la felicità.

Non si giunge a queste affermazioni anzitutto at-traverso una riflessione filosofica, esse consistonopiuttosto in una presa di consapevolezza del propriorapporto con il mistero. È propriamente nella pre-ghiera che noi afferriamo queste realtà e familiariz-ziamo con esse. Nella preghiera capiamo di averericevuto un grande dono, cioè il fatto di esserci.

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La consapevolezza di essere fatti, di essere donodi un Altro, deve diventare una realtà voluta e accet-tata, non solo un dato di fatto da subire passiva-mente. Anche uno schiavo sa di appartenere alpadrone; anche Pinocchio riconosce di essere nellemani di Mangiafuoco e sa che il suo destino dipendeinteramente da lui17. In noi, la scoperta di apparte-nere a un Altro deve innescare, per grazia, una dina-mica affettiva, per cui sappiamo di appartenere e nesiamo lieti.

Non è la domanda che ci fa appartenere, tuttaviadomandare di appartenere ci permette di desiderarela condizione in cui oggettivamente ci troviamo.Come spesso ripetiamo: Nelle tue mani è la mia vita,o Dio, tutta la mia vita riposa al sicuro (cfr. Sal 16,5-9). Possiamo trovare la pace solo nell’appartenenza,solo nel riconoscimento della nostra dipendenza.Non è un’appartenenza forzata, ma un legame men-dicato, domandato, voluto.

17 C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, Mondadori, Milano 2010,43-48.

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Dobbiamo riscoprire il risvolto affettivo dell’ap-partenenza al Signore. Quello che è un dato di ra-gione deve diventare il contenuto di una domandae di un desiderio. Sapere di appartenere non basta.Tanti figli sanno di appartenere ai genitori ma liodiano. Appartenere veramente significa anche vo-lerlo, amarlo, accettarlo. E questo si compie nel si-lenzio. Per questo, come ho detto all’inizio, il silenziosvolge un grande ruolo di accettazione e purifica-zione.

Come diceva san Gregorio Nazianzeno in unafrase riportata sul volantone di Pasqua del 1985:«Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei creaturafinita»18. Giussani ebbe a dire che questa afferma-zione non è solo una documentazione dell’essere,ma esprime la coscienza affettiva del nostro rap-porto con il Signore19.

Se non prendiamo sul serio questa oggettività, cisono tante dipendenze che ci possono soffocare.

18 Gregorio Nazianzeno, Carmina II/I, carme LXXIV, vv. 4-12, in Pa-trologia greca, XXXVII, Paris 1862, coll.1421-1422.19 Cfr. L. Giussani, La grazia di un incontro, in Qui e ora (1984-1985),BUR, Milano 2009, 349-350.

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2. Il silenzio: conoscenza di Dio

Che cosa significa che il silenzio è il luogo della co-noscenza di Dio? Anzitutto il silenzio è il momentoin cui ci mettiamo di fronte alla presenza di un Altro,di fronte ad un “Tu”, di fronte alla presenza di Cristo.Questo vuol dire mettersi di fronte a una storia, cheè insieme storia personale e storia di salvezza.

Ha scritto von Balthasar:

«L’oggetto della meditazione è Dio. Noi ascol-tiamo il Verbo soltanto perché è il Verbo di Dio.Noi meditiamo la vita di Gesù, solo perché è lavita del Figlio di Dio. Meditiamo la storia salvi-fica: la creazione ed il suo linguaggio, i profetidell’Antico Testamento, gli Apostoli e la Chiesa,i suoi santi, le sue preghiere, le sue comunica-zioni ed i suoi Sacramenti, perché mediante

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tutto questo ci viene comunicata la salvezza diDio. Non possiamo considerare Dio senza que-sti mezzi per accedere a lui: mezzi che ci rive-lano Dio ed in cui Dio stesso si rivela e ci vieneincontro. Non vedremo mai Dio, anche nella“aperta visione” della eternità, se non nella suaincomprensibile e spontanea rivelazione, concui Dio si dona a noi, esce dal suo essere inac-cessibile, lancia un ponte sull’abisso che ci se-para da lui»20.

Anzitutto, nel silenzio guardiamo alla nostra sto-ria personale: è giusto che ognuno di noi, nella pre-ghiera e nel silenzio, vada agli incontri fatti,all’incontro con il Movimento, ai volti che hanno se-gnato la sua vocazione. Persone, avvenimenti, paroleascoltate... l’incontro con la Fraternità.

Insieme alla storia personale, anche la storia dellasalvezza, la memoria di come il Signore sia entratonella storia dell’umanità, la vicenda del popoloebraico, la vita di Gesù, la storia della Chiesa. Non è

20 H. U. von Balthasar, La meditazione, op. cit., 143.

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secondario neppure conoscere la storia del popologenerato dal carisma che ha convinto anche noi.

Le due storie si richiamano in continuazione. Nelcorso dell’esistenza si scopre che la vita ha tanti nessicon gli episodi narrati dal Vangelo e d’altro canto cisi accorge che gli episodi della propria vita personalearricchiscono e permettono di comprendere quantoriportato nel Vangelo.

Vivere il silenzio significa mettersi di fronte a unapresenza. È una sottolineatura importante, perché ilSignore ci è venuto incontro. Attraverso un prete, unamico, un insegnante, Egli ha preso iniziativa, hafatto un cammino verso di noi. In questo senso il si-lenzio è il luogo di una amicizia.

Vivere il silenzio significa dunque guardare a unastoria, personale e comunitaria. Significa guardare ase stessi avendo negli occhi la vita di Gesù.

Mettersi di fronte alla storia di Gesù nella nostravita vuol dire guardare ai gesti che Cristo ha compiuto.

Dice don Giussani:

«La memoria di Lui, cioè dei Suoi gesti (“fatequesto in memoria di me”), questa è la for-mula del silenzio. Il silenzio non è dunque non

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parlare, ma guardare in faccia qualche cosad’Altro, è guardare in faccia i gesti di Cristo»21.

Il contenuto del silenzio è dunque una storia.Dice ancora Giussani:

«La preghiera è il contenuto proprio della vita,ed essa è coscienza, memoria dei Fatti accaduti,dei gesti di Cristo e delle loro conseguenze, delloro arrivo dentro la nostra storia e la nostravita. Perciò il contenuto della preghiera sono i“mirabilia Dei”, sono i gesti di Dio nella nostrastoria, e di essi la morte e la resurrezione di Cri-sto sono il fulcro, sono la chiave di volta. La differenza tra la preghiera come espressionedella religiosità naturale e la preghiera del cri-stiano è che la preghiera del cristiano ha comecontenuto una storia. Tutta la nostra vita si re-cupera in quella storia»22.

Stiamo di fronte a una presenza, a una storia, afatti accaduti. Fare silenzio vuol dire contemplare

21 L. Giussani, Alla ricerca del volto umano, op. cit., 154.22 Ivi, 155.

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una presenza. Per questo esso non è assimilabile allostudio, non è solo studio. Il silenzio deve avere untaglio contemplativo. È l’occasione per stare difronte alla presenza di Gesù, al crocifisso. Per questoè preziosa l’indicazione di stare inginocchiati al-meno quindici minuti all’inizio dell’ora di silenzio.Se poi rimaniamo colpiti da una frase, stiamole da-vanti, senza preoccuparci di non trattenere altro.

Spesso il silenzio si riempie delle cose che dob-biamo fare, la predica da preparare, la scuola di co-munità, l’incontro con le famiglie… Penso che ilsilenzio dovrebbe essere libero da queste finalizza-zioni. Dobbiamo approfittarne per gustare Gesù equello che lui ha fatto.

In questo senso è importante la composizionedel luogo, di ignaziana memoria, cui Giussani ci hatanto abituato: “Immaginate Gesù sulle rive dellago… Proviamo a immedesimarci con Giovanni…Pensiamo alla faccia di Pietro… Immaginiamo Gesùche guarda la samaritana…”. Dire che il Verbo si èfatto carne vuol dire affermare che è una personacon la quale possiamo immedesimarci. Possiamo en-trare anche nelle sue sensazioni e nei suoi senti-menti. Altrimenti immedesimarsi con la presenza di

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Cristo sarebbe lettera morta. Vuol dire anche imme-desimarsi con un temperamento, che forse rimarràsempre misterioso, ma è quello che Gesù ha vissutovolta per volta nella sua vita.

«La sua “carne” sfiora la nostra carne, in essaDio diventa nostro prossimo [Dio si fa vicinonella carne di suo figlio: carne, umanità]. Perciòchi medita deve essere presente “con tutti isensi”, anche se non deve avere una percezione“carnale” nel senso di terrestre, di estranea a Dio[non a caso usiamo l’incenso quando facciamol’adorazione eucaristica]. La fantasia deve por-tarsi nei luoghi e nelle situazioni in cui il Verbodi Dio si mostra sensibilmente e da questo con-creto deve risultare l’incontro concretissimocon Dio»23.

Pensate quanto Giussani ci ha fatto abbeverare aquesta saggezza!

Fare silenzio quindi vuol dire contemplare l’uma-nità di Cristo, la sua persona, quello che diceva,come si comportava, le reazioni che aveva, come

23 H. U. von Balthasar, La meditazione, op. cit., 152.

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conduceva i discorsi e le conversazioni con le per-sone. Mettersi di fronte a Lui non significa appenamettersi di fronte a un insegnamento.

«Perciò lo sguardo del meditante [il nostro] sivolge sempre con particolare attenzione al-l’umanità di Cristo. Essa è il tesoro infinita-mente prezioso che il Padre celeste ci affida inun certo senso privandone se stesso (Gv 3,16),ed a cui egli sempre rimanda: ipsum audite!(Mt 17,5). Il Figlio non è un aerolito: è il fruttodi questa terra e della sua storia; è generato daMaria […] e dal Padre. È la grazia sia ascen-dente che discendente, l’altissima risposta dellacreazione al Padre, come il Verbo del Padre èla risposta alla creazione. Non è una finzione,tanto per insegnare come un esempio, come fail maestro che scrive la soluzione sulla lavagna,ma che non partecipa alla faticosa ricerca delloscolaro. No, egli è il vertice del mondo cheaspira al Padre e facilita la strada per tutti assu-mendo su di sé gli sforzi di tutti»24.

24 Ivi, 155-156.

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2.1 La Sacra Scrittura e i sacramenti

Qualche tempo fa don Massimo, in una bellissimalezione di inizio d’anno tenuta ai seminaristi, ha par-lato di un cammino che la nostra anima svolge nelMistero, ma anche di un cammino che il misteropercorre nella nostra vita. Mi ha molto colpito l’in-tuizione di questa reciprocità: se è vero che i nostridesideri sono profetici dell’esistenza del Signore –se desideriamo qualcosa è perché le siamo legati, nedipendiamo –; se è vero che i nostri bisogni e le no-stre attese sono un presentimento e una via lumi-nosa di conoscenza almeno intuitiva del mistero, èaltrettanto vero che il Signore, nella nostra vita, com-pie una strada. Il Signore prende iniziativa verso dinoi, ci viene incontro, apre continuamente sentierinel nostro cuore.

Le due grandi strade attraverso le quali il Signoreparla a ciascuno di noi nell’evento ecclesiale sono laParola e i sacramenti.

I gesti della Chiesa sono i gesti di Cristo, secondol’insegnamento di san Leone Magno: «Ciò che eravisibile nei gesti di Cristo è passato nelle azioni della

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Chiesa che sono i sacramenti»25. E poi la sua Parola,quello che lui dice a noi.

«Chi come cristiano vive oggettivamente e sa-cramentalmente nel Verbo, deve necessaria-mente ascoltare anche il Verbo: l’Eucarestiaesige la contemplazione; l’esistenza come taber-nacolo esige l’esistenza come ascoltatore delVerbo; racchiudere in sé il Verbo esige ascoltareil Verbo sopra di sé»26.

Dice don Giussani a questo proposito:

«“Fate questo in memoria di me”: che cosa maiindica la parola “questo”? Tutta la Sua vita è inquel gesto, partecipa di quel gesto che è gridoefficace per la salvezza del mondo e per la gloriadi Dio: l’uomo salvo, l’uomo vivo è la gloria diDio»27.

25 Cfr. Leone Magno, Sermo 74, 2: CCL 138A, 457 (PL 54, 398).26 H. U. von Balthasar, La meditazione, op. cit., 24.27 L. Giussani, Alla ricerca del volto umano, op. cit., 155.

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Il Signore ci interpella attraverso i sacramenti ela Parola. Penso soprattutto al sacramento quoti-diano dell’eucarestia e a quello della confessione.Dando fede a queste due vie, a queste due piste co-noscitive che il Signore ha voluto tracciare nella no-stra vita, allora tutto diventa silenzio.

Se rimaniamo fedeli al silenzio come momentoin cui il nostro io sta di fronte al sacramento, tuttonella nostra giornata diventa richiamo alla sua pre-senza. Facendo con regolarità e verità l’ora di silen-zio, tutto col tempo diventa silenzio. Sembra ungioco di parole ma non lo è. La parola di un amico,una persona che viene a parlare, una bella giornata,la musica che ascolto… Ma se non c’è l’ora di silen-zio canonica, così come l’abbiamo documentata, legiornate possono distrarci.

Von Balthasar esprime in modo diverso lo stessoconcetto:

«Quando invece l’uomo comprende che tuttele cose sono state pensate, amate e create nelVerbo di Dio, allora necessariamente anchetutto il mondo circostante diventa oggetto co-mune della contemplazione [tutto diventa un

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fatto di memoria]. Cristo non è certamente unfenomeno [un fatto] isolato nella storia delmondo, egli è comprensibile soltanto come ver-tice di una unitaria storia di redenzione, che daAdamo, Noè, Abramo, attraverso la storia dellaChiesa e del mondo giunge fino agli ultimitempi. E come Cristo non è separabile dalmondo che Egli venne a salvare, così non puòessere separato da Lui il mondo che da Lui ri-ceve l’esistenza e perciò anche la rivelazione e lagiustificazione»28.

Dice ancora von Balthasar:

«Ogni sentimento dell’esistenza diventa unosguardo, una parola, un ricordo a Dio. Ogni si-tuazione della vita si chiarisce se è vista e rife-rita a lui. Miseria e gloria, impotenza e dignitàdell’uomo è quella di doversi riferire sempre alui: di essere soltanto mediante Dio, di nonpoter essere mai senza Dio»29.

28 H. U. von Balthasar, La meditazione, op. cit., 58.29 Ivi, 144.

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Ogni fatto della nostra vita, ogni punto interro-gativo, si chiarisce se riferito a Dio, se messo in rap-porto a Lui. Attraverso il silenzio tutto diventa unpo’ silenzio, fattore di memoria.

«La coscienza di essere figli di Dio non puòessere custodita senza silenzio. Il silenzio èuna forma fondamentale di preghiera,esprime la tensione alla percezione della pre-senza di Cristo in ogni istante [questa frase èpresa dal Direttorio deiMemores Domini]. Inquesto senso il silenzio coincide propria-mente con la memoria: l’istante presenteriempito da Colui che ha fatto ogni cosa, checi ha salvati e ci salva attraverso le cosestesse»30.

Possiamo avere coscienza del fatto che ogniistante è abitato dalla presenza di Cristo solo se vi-viamo il silenzio, perché questa non è per lo piùun’intuizione spontanea in noi.

Il silenzio è luogo di ascolto. Ecco l’importanza

30 M. Camisasca, Terra e cielo, op. cit., 45.

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della Scrittura, soprattutto dei Salmi, anche per im-medesimarsi in sentimenti differenti. Ricordo cheuna volta, quando ero ancora seminarista, don Mas-simo mi chiamò per fare i canti al ritiro della Frater-nità che si svolgeva alle Cappellette. Prima delvespro, don Massimo, che predicava il ritiro, svolseuna riflessione che nel tempo si è rivelata per memolto utile. Osservò che può capitare di essere lietie di dover leggere un Salmo triste, oppure, al contra-rio, di essere abbattuti e di trovarsi a recitare unSalmo pieno di esultanza. Disse che i Salmi sonoeducativi per questo, perché ci insegnano la legge-rezza dello Spirito, facendoci imparare ad immede-simarci con sentimenti diversi rispetto a quelli chepossiamo trovarci a vivere in un determinato mo-mento. Tramite i Salmi il Signore ci introduce sem-pre a un sentimento diverso dal nostro: siamoentusiasti e ci richiama al fatto che la vita può esseredrammatica, siamo depressi e il Signore ci riportaalla letizia e alla lode.

Al funerale di padre Alberto Bertaccini, padreAldo disse che il Salmo più consigliato da Giussaniera quello in cui si parla di un uomo che nell’andarese ne va e piange … ma nel tornare viene con giubilo,

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portando i suoi covoni sotto il braccio (cfr. Sal 126,5-6), perché è il Salmo che mette insieme la tristezzae l’esultanza del cristiano.

Scrive von Balthasar:

«Dio ci ha creati così che per essere noi stessidobbiamo ascoltare il Verbo di Dio. Imponen-doci questo dovere, ci ha dato evidentementeanche la possibilità di adempierlo. Se non fossecosì, egli si sarebbe contraddetto e non sarebbela verità [in qualsiasi momento ci è data la pos-sibilità di ascoltare la sua parola, cioè di metterciin relazione con questo “Tu”, di aprirci a questisentimenti che possono essere in noi contra-stanti]. Questo potere è in noi altrettanto pro-fondo come il nostro stesso essere; in quantocreature spirituali del Padre siamo “ascoltatoridel Verbo”. E tutte le nostre piccole scuse: chenon riusciamo da ascoltare il Verbo, che non faper noi, che non siamo a ciò destinati per carat-tere, per disposizione o in forza della nostraprofessione e delle nostre molteplici occupa-zioni, che non sono a ciò destinati i nostri inte-ressi religiosi, che abbiamo già fatto la prova enon ci siamo riusciti anche dopo ripetuti tenta-

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tivi, insomma tutte queste piccole obiezioni –che al loro posto avrebbero persino la loro pic-cola ragione – non scalfiscono questa grande efondamentale realtà: Dio ci ha dato con la fedela possibilità di ascoltare la sua parola»31.

Poco più avanti Balthasar formula una frase rias-suntiva:

«La tavola della fede è sempre imbandita e l’in-vitato può sedersi o rifiutarsi di farlo con millepretesti o scuse»32.

2.2 Il silenzio come luogo di amicizia con il Signore

Nel silenzio il Signore si dona a noi come amico fe-dele (su questo vi rinvio al testo L’amicizia di Cristodi Benson33).

Perché dico che il silenzio è luogo di amicizia?

31 H. U. von Balthasar, La meditazione, 29.32 Ivi, 31.33 R. H. Benson, L’amicizia di Cristo, Jaca Book, Milano 1990.

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Perché è il luogo di una corrispondenza, dove ci sen-tiamo accolti e ascoltati. È il luogo dove capiamo chec’è un interlocutore che tende l’orecchio alle nostreparole.

Scrive la von Speyr:

«Quando Dio parla, la necessità della replicadell’uomo quasi scompare dall’orizzonte, per-ché Dio dice tutto così perfettamente, che lastessa cosa non potrebbe essere detta meglio inuna più lunga spiegazione. Dio ha la completaconoscenza dell’uomo, perciò la sua parola in-contra esattamente il suo bisogno ed è sempregià risposta alla sua domanda, pronunciata o ta-cita»34.

Quindi il silenzio è il luogo in cui ci mettiamo insintonia con Dio, con i suoi interessi, con il suosguardo sulla realtà, con le sue percezioni e con isuoi sentimenti. È il luogo in cui, ascoltando la suaparola, il Signore si dona a noi.

34 A. von Speyr, Esperienza di preghiera, op. cit., 5.

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«Qui invece nella preghiera è Dio che si donae abbandona a noi. Eterno, tutto diverso da noi,che non ha affatto bisogno di noi e che deve lasua eternità alle sue creature. Gesù si dona a noiper invitarci, innalzarci e nobilitarci, fino allapartecipazione della sua stessa natura divina»35.

Don Massimo dice che il silenzio è il luogo in cuici mettiamo in sintonia con Dio, con i suoi pensieri ei suoi interessi. Gli interessi di Cristo sono i miei in-teressi, gli interessi della Chiesa sono i miei interessi,sono gli interessi che devono animare il mio cuore.

Ha scritto Don Massimo:

«Se si domanda con la giusta disposizioned’animo, la preghiera diventa la forma decisivadella nostra educazione, ci permette di metterciin sintonia con Dio, di entrare nella sua lun-ghezza d’onda. Molte volte, ad esempio, primadi pregare, non siamo in grado di riconoscere idoni del Signore, mentre pregando scopriamodi avere già ricevuto ciò che chiediamo»36.

35 H. U. von Balthasar, La meditazione, op. cit., 34.36 M. Camisasca, Terra e cielo, op. cit., 43-44.

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Il silenzio, in quanto ci fa entrare nello sguardodi Dio sul mondo, ci rende più intelligenti, più ca-paci di comprensione. È il luogo dove impariamo ungiudizio nuovo.

Inoltre il silenzio è ciò che dà una nuova dignitàal nostro volto, al nostro essere nel mondo e dentrola Chiesa. Scopriamo che quello che ci giustifica eci dona statura umana è il rapporto con il Signore.Quindi il dialogo con Dio è la nostra ricchezza.Come dice il Salmo 44: Omnis gloria eius filiae Regisab intus, tutta la nostra ricchezza è dal profondo (Sal45,14).

È nel silenzio che l’uomo sperimenta la propriagrandezza, perché sperimenta che c’è qualcosa chelo supera, che lo fa essere, lo sostiene e lo giustifica.Von Balthasar dice che il silenzio è il tabernacolodell’incontro con il Signore:

«La sua ragione ha tanta luce quanta ne abbi-sogna per intendere Dio che parla. La sua vo-lontà è così superiore ad ogni istinto e aperta adogni bene, che può seguire senza costrizioni l’at-trattiva del sommo bene. L’uomo è l’essere connel cuore un mistero più grande di lui. È co-

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struito come un tabernacolo che custodisce unsacro mistero»37.

Von Balthasar sottolinea continuamente chequesto è possibile per tutti: non sono necessariegrandi preparazioni, perché è il Signore che è capacedi creare questo in noi. In ogni tempo e in ogni spa-zio ci è possibile farci suoi ascoltatori.

2.3 Nel silenzio ci immedesimiamo con lo sguardo diCristo

Nel silenzio impariamo a guardare la realtà come laguarda Cristo. Pensiamo al Vangelo della vedova altempio (Mc 12,41-44). Gesù è l’unico che si accorgedi quella povera donna che offre i suoi spiccioli. Al-lora chiama i discepoli e dice loro: “Guardatela! Stadando al tesoro del tempio tutto quello che le serveper vivere”. “Tutta la sua vita”, secondo la versionegreca originale. Nel trambusto del tempio, tra i mer-

37 H. U. von Balthasar, La meditazione, op. cit., 20.

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canti che vendevano le tortore, nessuno aveva no-tato quella donna, solamente Gesù. Ebbene, Egli ciinvita a guardarla come la guarda lui, ci invita a guar-dare la realtà con i suoi occhi. Vuole insegnarci unosguardo nuovo sulle cose e sulle persone.

Ricordate l’insegnamento di Giussani di ven-t’anni fa? «La fede è un cammino dello sguardo»38.Significa imparare a guardare le cose come le guardanostro Signore, imparare a scrutare la presenza delSignore in tutte le cose. I gigli del campo sono sol-tanto dei fiori, ma a Gesù, quando li guarda, vienein mente che neppure Salomone vestiva in modotanto splendido (Mt 6,28-29); i passeri che volanonel cielo sono una presenza trascurabile, ma Gesù liosserva e si commuove perché il Signore si prendecura persino di loro (cfr. Mt 25,26).

Gesù ci vuole insegnare a guardare in nuovo modola realtà. Il silenzio è il luogo in cui possiamo impa-rarlo, in cui ci immedesimiamo con il suo sguardo.

38 L. Giussani, La fede è un cammino dello sguardo, Assemblea interna-zionale degli universitari di Comunione e Liberazione, La Thuile, 30agosto 1995, pubblicata in 30Giorni, 9 (1995).

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Scrive von Balthasar:

«Ciò non sarebbe certamente possibile, se Cri-sto fosse un semplice uomo; Egli sarebbe sem-pre e soltanto “un altro” accanto a noi, anchese “più perfetto”. Ma poiché Egli è insieme Fi-glio e Verbo di Dio, ha il potere di integrarcicome suoi “membri”, di inserire la nostra per-sona finita – senza distruggerla o menomarla –nella vita della sua persona infinita. Questa esi-stenza nel Figlio, come membri del suo corpomistico, è perciò molto più che ricevere l’auto-rizzazione di accedere a Dio in virtù di un “me-rito” (sia pure infinito); è l’accesso stesso a Dio,perché contemporaneamente si compie ladrammatica della riconciliazione tra il capo edi membri»39.

Quando diciamo di essere figli di Dio, di essereincorporati a Cristo, parliamo di questo. Non solonell’inconsapevolezza iniziale dell’evento battesi-male, ma giorno dopo giorno, quando scopriamo

39 H. U. von Balthasar, La meditazione, op. cit., 52.

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che non siamo più noi che viviamo, ma che è Cristoa vivere in noi (cfr. Gal 2,20).

Immedesimiamoci dunque con i sentimenti, gliinteressi e il pensiero di Cristo! È la frase della Let-tera ai Filippesi, dell’inno cristologico, che di solitonon si legge: Abbiate in voi gli stessi sentimenti che fu-rono in Cristo Gesù (Fil 2,5).

Scrive don Massimo:

«Certo, per essere segno di Cristo in mezzo allagente, per essere testimoni della sua speranza,occorre imparare ciò che Lui pensa, vivere conLui, cominciare a desiderare ciò che anche Luivuole [impressionante la concretezza: deside-rare ciò che desidera Gesù]. Profeta infatti nonè chi comunica i propri pensieri, ma chi tra-smette l’esperienza vissuta con un altro. Perquesto la prima missione del profeta è immede-simarsi con Colui di cui è comunicatore»40.

Il motore del silenzio deve essere anche il nostrodesiderio. Occorre che le parole dei Salmi siano attra-

40 M. Camisasca, Terra e cielo, op. cit., 68.

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versate dalle nostre domande e delle nostre necessità,che mettiamo dentro le parole del silenzio le nostreaspirazioni.

«Ma Dio, per entrare nella nostra vita, ha bi-sogno di trovare in noi un pertugio. Comequando ci fermiamo un po’ a pregare, ma la no-stra mente è ingombra di interrogativi, di pro-blemi, di preoccupazioni: ci vogliono minuti eminuti affinché ci rendiamo veramente contodi dove siamo, prima cioè che il desiderio trovila sua strada per diventare domanda. Ma sonominuti necessari per aprire la porta a Dio, pernon lasciarlo fuori, per prepararci ad accoglierela sua voce. Poi […] fiumi di acqua viva comin-ciano a sgorgare dal nostro seno: diventiamocapaci di portare gli altri dentro la nostra setee dentro il nostro bere»41.

In questo rapporto con il Signore, nel silenziocome luogo di amicizia in cui sentiamo la sua con-creta e carnale presenza donarsi a noi, non dob-

41 Ivi, 71.

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biamo preoccuparci troppo di quello che sentiamo,della nostra supposta aridità, né del fatto che le no-stre aspirazioni siano prontamente ascoltate. Preoc-cupiamoci piuttosto di salvaguardare l’oggettività,preoccupiamoci di metterci davanti a lui, così comesiamo. Il Signore può preparare in noi le condizioni,come dice von Balthasar. Preoccupiamoci dunquedi stare al suo servizio, di lavorare per lui, senza pen-sare troppo allo stipendio, perché lo stipendio è giàlavorare per il Signore.

Aiutiamoci affinché la pretesa di sperimentareuna corrispondenza anche nel sentimento non di-venti un impedimento al nostro rapporto con Gesù.Se la nostra domanda deve essere purificata, deveessere anche alleggerita da una nostra ansia di cor-rispondenza. Altrimenti il nostro rapporto con il Si-gnore si riempie di incertezza.

Scrive santa Teresa.

«Che pretese le nostre! Ci dibattiamo ancorafra mille inciampi e imperfezioni, con virtù no-velline, ancora incapaci di muoversi perché nateda poco […] eppure osiamo lamentarci dellearidità e voler dolcezze nell’orazione!... Guarda-

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tevene assolutamente, sorelle! Abbracciate lacroce che il vostro Sposo portò sulle spalle, con-vincendovi di non dover fare che questo. Coleiche per suo amore saprà patire di più, patisca, esarà la più felice. Quanto al resto, ritenetelo peraccessorio. E se il Signore ve lo darà, ringrazia-telo senza fine»42.

E ancora:

«Forse non sappiamo ancora in che consistal’amore, e non mi meraviglio. L’amore di Dionon sta nei gusti spirituali, ma nell’essere fer-mamente risolute a contentarlo in ogni cosa,[…] nel pregare per l’accrescimento dell’onoree della gloria di suo Figlio e per l’esaltazionedella Chiesa cattolica. Questi sono i segni del-l’amore, non già non distrarsi, quasi basti la piùpiccola divagazione per mandare a monte ognicosa»43.

42 Teresa d’Avila, Il castello interiore, op. cit., 782.43 Ivi, 805.

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L’ultima citazione è della von Speyr:

«I dolori, persino se sono grossi e si annun-ciano e si fanno avanti sempre di nuovo, si la-sciano contemplare in una preghierariconoscente, poiché nella croce trovano unsenso. Un senso, mai una corrispondenza im-mediata»44.

44 A. von Speyr, Esperienza di preghiera, op. cit., 59.

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Indice

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . 3

1. Il silenzio: conoscenza di sé . . . . . . . . 71.1 Prendersi cura del silenzio . . . . . . . . 111.2 Abbiamo paura del silenzio se non ci sentiamo perdonati . . . . . . . 14

1.3 La preghiera necessita di una purificazione . . 201.4 Nel silenzio ci apriamo al rapporto

con un Altro . . . . . . . . . . . . 25

2. Il silenzio: conoscenza di Dio . . . . . . 292.1 La Sacra Scrittura e i sacramenti . . . . . 362.2 Il silenzio come luogo di amicizia con il Signore . . 432.3 Nel silenzio ci immedesimiamo

con lo sguardo di Cristo . . . . . . . . . 47

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