il caso masud khan
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Il caso Masud Khan
Fabio Troncarelli
Guido di messer Cavalcante de' Cavalcanti...fu un de' migliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale Ora avvenne un giorno che, essendo Guido ... in Santa Reparata...e messer Betto con sua brigata a caval venendo su per la piazza di Santa Reparata, veggendo Guido là tra quelle sepolture, dissero: “Guido tu rifiuti d'esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu arai trovato che Iddio non sia, che avrai fatto?” A' quali Guido...prestamente disse: “Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace.”.Costoro ...cominciarono a dire che egli era uno smemorato e che quello che egli aveva risposto non veniva a dir nulla....Alli quali messer Betto rivolto disse: “Gli smemorati siete voi, se voi non l'avete inteso...per ciò che... queste arche sono le case de' morti... le quali egli dice che sono nostra casa, a dimostrarci che noi e gli altri uomini idioti e non litterati siamo, a comparazion di lui e degli altri uomini scienziati, peggio che uomini morti.”
Boccaccio, Decameron IX, 6
Durante la sua complessa e tormentata esistenza Masud Mohammed Reza Khan (19241989) è stato un mito. Ben presto, però, il mito si è trasformato in leggenda, la leggenda nera di un personaggio demoniaco che non deve più essere modificata, com’è tipico della leggenda. Leggenda viene dal termine legenda, che indicava la lettura obbligatoria delle vite dei santi nei monasteri durante il pasto: la leggenda è un testo scritto, con un fine educativo, che non può e non deve essere cambiato, anche se narra vicende improbabili e fantastiche. Il termine mito, invece, viene dal greco mythos, parola, ed indica il racconto che nasce dall’affabulazione, dall’esaltazione di un eroe, a caldo, appena compiute le sue imprese: un’affabulazione che ricomincia di continuo perché di continuo si parla e si riparla dell’eroe e delle sue gesta attraverso una
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tradizione orale, che può essere manipolata e perfino contraddetta, come mostra la dinamica di tutte le Chansons des gestes. Ridotto a leggenda nera, il mito di Khan non può ritornare ad essere mythos, cioè parola: non può più essere rivissuto con passione e sofferenza come avveniva nell’epoca d’oro della psicoanalisi, con animo perturbato e commosso come direbbe Vico. Tuttavia anche l’epoca della pia leggenda e dei suoi stereotipi è ormai tramontata. Se tornare al mito è impossibile, perché la nostra età non è l’età epica delle origini, dobbiamo avere il coraggio di ammettere che ormai è finita anche l’età di mezzo, l’età politically correct del sapere catechistico e dei racconti edificanti, che non devono mai essere messi in discussione. E’ tempo, a vent’anni dalla morte di Khan, di riconsegnare Khan alla storia e di permettergli di avere la pace dei morti, liberando i vivi della sua scomoda presenza di revenant. Khan non può e non deve essere ridotto a un moralistico exemplum, l’esempio negativo per eccellenza da additare alla probità dei giovani analisti. La storia non ha bisogno di giustificarsi attraverso la morale. E neppure di inventare un passato di comodo per legittimare il presente. E’ per questo che si distingue dall’agiografia: perché ha fiducia nella ragione, nonostante tutti i suoi difetti, e non sente il bisogno di lenire il dolore degli esseri umani con il narcotico una morale precostituita .
Stato della questione Un primo bilancio della vita di Khan è stato steso, subito dopo la sua morte nei necrologi scritti da amici e colleghi, tra i quali spicca il nome di Amedeo Limentani (19081994)1. Da simili testi, certo occasionali, emergono subito luci ed ombre della sua personalità, peraltro già evocate, sia pur sommariamente, dalla biografia della seconda moglie di Khan, Svetlana Beriosova (19321998)2. Nel 1993 Judy Cooper, una expaziente di Khan, pubblicò un volume più meditato e appassionato sul suo maestro, mescolando ricordi personali e dichiarazioni di collaboratori o conoscenti3 Il testo è senza dubbio interessante, ma non è, né pretende di essere una biografia completa ed esauriente: l’autrice ci fornisce solo
1 A. LIMENTANI, Obituary . M. Masud Reza Khan (19241989), in “International Journal of PsychoAnalysis”, (1992) 73, p. 155.2 A. H. FRANKS , Svetlana Beriosova: a Biography, New York 1978.
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una serie di testimonianze e riflessioni, di cui si deve tenere conto, senza tuttavia proporsi di rispondere a tutti gli interrogativi che l’esistenza di Khan pone al lettore. Pochi anni fa l’interesse per la biografia del Principe psicoanalista si è riacceso, a causa delle polemiche suscitate da un veemente articolo, scritto da Winne Godley, un suo presunto expaziente analitico4, pubblicato nel febbraio del 2001 sulla London Review of Books. A distanza di poco tempo il giornalista Robert Boynton negli Stati Uniti, ha stilato un impietoso elenco di manchevolezze del discusso psicoanalista sulla Boston Review. Successivamente, il pediatra Robert F. Rodman, in un voluminoso studio dedicato al maestro di Khan, Donald Woods Winnicott (18961971), non ha risparmiato strali contro il Principe indiano, confortato da dichiarazioni di molti suoi conoscenti, colleghi ed expazienti. Per finire sull’ultimo numero dell’International Journal of Psychoanalysis la nota psicoanalista AnneMarie Sandler ha pubblicato un articolo che denuncia violazioni dei limiti terapeutici da parte di Khan: all’articolo è stata acclusa una risposta da parte di Godley che, ancora insoddisfatto, accusa Winnicott di complicità con Khan5. Le esagerazioni e la scarsa attendibilità di tali testi sono state sottolineate da chi scrive in un lungo saggio del 2005, che invitava gli studiosi ad avere un atteggiamento più critico riguardo alla credibilità delle testimonianze, a cominciare da quella di Godley, che ha sofferto di una malattia che gli ha provocato spesso “praticamente allucinazioni”(sono parole sue), che ha una reputazione di persona notoriamente esagerata e “allarmista”6 e che lancia solo adesso accuse
3 J. COOPER, Speak of me as I am. The Life and Work of Masud Khan, London 1993. La stessa Cooper ha poi pubblicato una scheda biografica dedicata a Khan sull’Oxford Dictionary of National Biography [Oxford 2004], nel quale figura anche una scheda aggiornata sulla Beriosova di Noël Goodwin.
4Godley è considerato un paziente che ha fatto una “analisi” con Khan, mentre a giudicare da quello che dice a malapena ha avuto un rapporto di counseling. 5W. GODLEY, Saving Masud Khan, in “The London Review of Books”, 5 (2001), ripubblicato in traduzione francese sulla “Revue Française de Psychanalyse”, LXVII (2003), pp. 10151028; R. BOYNTON, The Return of the Repressed. The strange case of Masud Khan, in “The Boston Review”, 27, 6 (2002/J2003), pp. 2329; F. R. RODMAN, Winnicott. Life and Work, Cambrige Ma., Perseus, 2003, pp. 203213; A.–M. SANDLER, Institutional responses to boundary violations: the case of Masud Khan. With a commentary by Wynne Godley, in “International Journal of Psychoanalysis”, 85 (2004), pp. 2743. Vedi anche ibid. G. GABBARD – P. WILLIAMS, [Editoriale], pp. 12. 6 S. BRITTAN, Sometimes borrowers we must be, in “The Financial Times” del 10/10/03.
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contro personaggi come Khan e Winnicott che sono morti e non possono replicare7. L’appello tuttavia non ha avuto seguito e le polemiche non sembrano destinate a spegnersi. Né aggiunge molto, da questo punto di vista, la pubblicazione nel 2006 di due nuovi volumi sulla vita di Khan, scritti da Linda Hopkins e Roger Willoughby8. Non c’è dubbio che simili libri ci forniscano materiale nuovo e degno di attenzione, arricchendo le nostre conoscenze su una materia ingarbugliata. Tuttavia non si può dire che risultino chiarite le principali questioni emerse nelle polemiche più recenti. Dobbiamo essere grati alla Hopkins e a Willoughby per aver trovato molti documenti inediti che ci aiutano nella ricerca: tuttavia non basta scoprire qualcosa di nuovo; bisogna saperne riconoscerne la fisionomia, se non si vuole commettere l’errore di Cristoforo Colombo e credere che l’America sia l’Impero del Khan dei Tartari! Negli ultimi anni c’è stata una proliferazione incontrollata di pseudobiografie di personaggi celebri o pseudoricerche storiche viziate dal sensazionalismo, dalla ricerca dello scandalo, dall’indulgenza verso il gossip, con la creazione di opere teatrali o film di successo sugli stessi temi senza base documentaria9. Tali testi, non sempre
7 F. TRONCARELLI, Citizen Khan, in “Quaderni Medievali”, 60 (2005), pp. 94140 , ripubblicato con qualche modifica in ID., Il pane degli Angeli, Roma 2005, pp. 173218.8 R. WILLOUGHBY, Masud Khan: The Myth And The Reality, London, Free Association Books, 2006 e L. HOPKINS, False Self: The Life of Masud Khan, New York, Other Press, 2006. A partire dai due testi, principalmente da quello di Willoughby, è stato rapidamente redatto in italiano un volume, meramente compilativo: F. GAZZILLOM. SILVESTRI, Sua maestà Masud Khan. Vita e opere di uno psicoanalista pakistano a Londra, Milano, Cortina, 2008. Il libro dipende nelle informazioni biografiche quasi completamente dal volume di Willougbhy. Basti pensare che nelle prime 108 pagine dedicate alla biografia di Khan ci sono 80 citazioni dal testo di Willoughby9 Si pensi alle più recenti biografie di Sartre e Simone de Beauvoir, ossessionate dalla rievocazione delle avventure sessuali dei due personaggi (per esempio: H. ROWLEY, TêteaTête. The Tumultuous Lives and Loves of Simone de Beauvoir and JeanPaul Sartre, New York, Harper Collins, 2005); alla rievocazione in chiave tenebrosa della vita di Hitchcock (D. SPOTO, The Dark side of Genius: Life of Alfred Hitchcock, New York, Da Capo Press, 1993); ai feuilletons sulla vita di Orson Welles (D. THOMNSON, Rosebud. The Story of Orson Welles, New York, A. Knopf, 1997); alle biografie appassionate ma faziose di Nora e di Lucia Joyce, che giungono a risultati opposti e generano film e opere teatrali altrettanto antitetici (B. MADDOX, Nora: The real life of Molly Bloom, Boston, Houghton Mifflin, 1989, cui si è ispirato il film Nora di Pat Murphy; C. L. SHLOSS, Lucia Joyce: To Dance in the Wake, London, Bloomsbury, 2004, che ha ispirato il dramma Calico di Michel Hastings). In alcuni casi fantasiose ricostruzioni teatrali e cinematografiche prendono direttamente il posto della biografia:
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sagaci e penetranti, sono comunque condizionati da due fenomeni opposti e complementari: l’impossibilità di avere tutti i documenti per motivi legali e la sovrabbondanza di documenti insignificanti. Per quanto riguarda il primo punto, basti pensare ai veti posti dagli eredi o dagli esecutori testamentari di certi autori, che impediscono la pubblicazione integrale di documenti importanti10. Un simile ostacolo si pone anche per Khan, dal momento che la maggioranza dei suoi diari di lavoro e di altro materiale simile non sarà pubblicabile fino al 2039. Ma non è questo l’unico problema. Infatti esiste il rischio contrario di infarcire le ricerche storiche con testimonianze inutili o addirittura fuorvianti. La deplorevole tendenza di scrivere pseudobiografie è sovente mascherata dall’abbondanza di documenti su cui simili testi si basano, per dare l’illusione al lettore che sia stata effettuata una ricerca rigorosa. In realtà la sovrabbondanza di documenti è solo la condizione naturale in cui si trova ad operare chi si occupa di storia contemporanea: qualsiasi ricercatore affronti un tema di storia contemporanea trova un enorme quantità di testimonianze. E’ perfino possibile che un biografo sia in grado di ricostruire giorno per giorno l’esistenza del personaggio di cui si occupa. E tuttavia ciò non ci permette di comprendere molto al di là della cronaca e non comporta una grande perspicacia e finezza da parte dello studioso. La sua professionalità viene invece confermata dal discernimento con cui vengono utilizzate le fonti, non nell’abuso e nell’accumulo di documenti marginali e insignificanti. E la sua intelligenza si manifesta attraverso la valutazione degli episodi ricostruiti: tutto il contrario della faciloneria e dei giudizi affrettati del ricercatore dilettante, che strumentalizza semplicisticamente testi di complessa interpretazione. Solo chi è allenato da anni e anni di ricerche simili sa distinguere attentamente il grano dalla crusca: chi invece non ha un’identità professionale che lo legittimi a scrivere questo genere di testi, cade sovente nell’errore.
si pensi ad esempio alle opere dedicate al rapporto tra Thomas Stearn Eliot e la moglie Vivian, viziate dalla maniacale esigenza di attribuire a qualcuno la colpa del crollo psichico di Vivian (come il dramma Tom and Viv di Michael Hastings e il film Tom e Viv di Brian Gilbert); alla ricostruzione letteraria della corrispondenza dello stesso Eliot con la sua innamorata “segreta” (M. COOLEY, The Archivist).
10 Come per esempio è accaduto nella biografia di Nora Joyce, a proposito della sezione che riguardava la figlia Lucia, a causa degli interventi di Stephen Joyce (che peraltro ha cercato di ostacolare in vario modo anche la biografia di Lucia).
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E’ proprio questa mancanza di identità professionale il limite di Hopkins e Willoughby. I due studiosi non sono psicoanalisti riconosciuti e parlano di esperienze come l’analisi in modo approssimativo e libresco, lasciandosi andare a diagnosi frettolose e poco professionali. Ma non sono neppure storici di professione. E si vede. Si vede dall’ingenua credulità con cui accettano informazioni dubbie; ma, paradossalmente, si vede anche dal contrario: dalla diffidenza aprioristica che dimostrano verso testimonianze chiare e inequivocabili. In questo modo vengono accettati con riverenza pettegolezzi e vengono messi in discussione documenti trasparenti e impossibili da smentire. Certo, non si può negare che gli studiosi accumulino una serie di informazioni utili per il lettore e dimostrino molta buona volontà nell’occuparsi con tanto fervore di temi difficili e poco verificati. Ma proprio per questo, proprio per lo stato frammentario della documentazione e per quello che oserei chiamare il loro “eccesso di zelo”, essi finiscono a volte per credere che sia sicuro ciò che non è neppure probabile. Il difetto, macroscopico, dei due volumi è quello di avere svolto un’indagine a senso unico, utilizzando di conseguenza una documentazione a senso unico. Hopkins e Willoughby non si azzardano a sottoporre a controllo le informazioni che ricavano da fonti sostanzialmente unilaterali, per di più impiegate in modo non sistematico11. Una simile carenza vizia tutte le ricostruzioni proposte, a un punto tale da mettere a volte gli autori stessi in imbarazzo: in qualche occasione, infatti, il muro di gomma delle testimonianze a senso unico si rompe e lascia trasparire una realtà ben diversa da quella che si vuole far credere. Eppure i due studiosi non ne traggono le dovute conseguenze, con vistosa incoerenza. Si pensi per esempio alle voci di disapprovazione rispetto alle accuse contro Khan che provengono proprio dallo schieramento dei nemici di Khan: a tale dissenso viene dato occasionalmente spazio, senza tuttavia modificare il quadro d’insieme. Le voci dissonanti sono ricordate per dovere di cronaca, ma vengono subito dimenticate. Un simile atteggiamento è paradossale. Come si può sostenere che Khan sia stato giustamente emarginato dalla Società Britannica di Psicoanalisi per i suoi comportamenti se esistono voci critiche nei confronti di quest’emarginazione che provengono addirittura
11 La Hopkins cita in bibliografia (p. 39798) solo il trentanovesimo volume dei Work Books di Khan, ricordando che gli altri “are frozen in the archives of the International Psychoanalytic Association until 2039. Ciò significa che la maggioranza dei documenti inediti di Khan non sono consultabili.
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dall’interno dello schieramento ostile a Khan? Lo stesso vale per le accuse di Godley: esse vengono contestate in modo puntuale da un altro expaziente di Khan, Eugene Lerner, che racconta un’esperienza completamente diversa da quella di Godley12. La sua testimonianza viene riferita, ma poi lasciata cadere, mentre avrebbe dovuto far nascere qualche scrupolo. Se esistono queste crepe nelle testimonianze, il minimo che ci si aspetta da uno storico di professione è l’approfondimento di simili problemi, cercando di procurarsi una documentazione più ampia e cercando di riflettere seriamente alle contraddizioni tra le fonti che ha consultato. Nulla di tutto ciò è dato rilevare nei volumi in questione: basta un’occhiata all’apparato bibliografico per rendersi conto che le fonti adoperate sono sempre le stesse e non prevedono alcuna ricerca alternativa, né alcun controllo di accuse che vengono sempre da una sola parte. Una cospicua serie di documenti editi ed inediti viene così inspiegabilmente messa da parte. E’ vano cercare tra le fonti consultate l’uso di lettere, documenti, dichiarazioni di molti altri autorevoli personaggi che hanno avuto rapporti, positivi o negativi, con Khan, come i registi Mike Nichols e François Truffaut, il pittore Gorge Braque, il grande fotografo Henri CartierBresson. Altrettanto vano è cercare nei due volumi in questione una conoscenza approfondita del pensiero e delle valutazioni di psicoanalisti francesi come JeanBaptiste Pontalis o Didier Anzieu. I loro nomi sono ricordati di passaggio dalla Hopkins e da Willoughby, ma i loro scritti non sono affatto presenti ai due studiosi e perfino la loro opinione su Khan è conosciuta in modo superficiale. Allo stesso modo vengono trascurate, in modo sconcertante, alcuni famosi psicoanalisti, che hanno svolto analisi didattica con Khan e possiedono molta documentazione inedita di primaria importanza: basta scorrere l’elenco dei nomi alla fine dei due volumi per notare con stupore che testimoni di prim’ordine figurano molto poco o sono del tutto assenti. Uno psicoanalista illustre e famoso come Bollas viene citato solo 6 volte, nel libro della Hopkins. Quanto a Judy Cooper, che come si è detto ha scritto un libro di ricordi su Khan, il suo nome figura solo 3 volte nell’elenco dei nomi del libro della Hopkins. Va ancora peggio a Max Hernández che non viene citato neppure una volta dalla Hopkins e solo due volte da Willoughby. Lo psicoanalista peruviano, che ha svolto un’analisi didattica con Khan, è stato testimone diretto dello scandalo più grave della vita di Khan, che ha avuto come protagonisti principali
12 HOPKINS, False Self, pp. 200201.
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una coppia di peruviani, suoi amici e che ha portato alla sospensione di Khan nelle funzioni di analista didatta. Eppure Hernández non è stato minimamente consultato in merito all’accaduto. Testimoni di questo genere avrebbero molte cose da dire e non prenderli in considerazione è assurdo. Non ha nessuna importanza se le loro dichiarazioni non sono state raccolte per negligenza o per la scarsa volontà di collaborazione dei diretti interessati. Né vale a discolpa di una simile ingenuità storiografica la scusa che personaggi come Bollas, Hernández o la Cooper possano essere favorevoli a Khan. Sbarazzarsi di testimonianze scomode è un peccato mortale per lo storico. Se la testimonianza ostile a Khan di un presunto expaziente analitico affetto da turbe psichiche (per sua stessa ammissione) come Godley viene diligentemente ascoltata, perché non viene ascoltata quella di un individuo che ha conosciuto bene Khan, che è un psicoanalista ed ha certamente una prospettiva più complessa di quella di presunti expazienti analitici, ancora piuttosto disturbati? Senza i ricordi e le riflessioni di alcuni dei più qualificati allievi e pazienti un volume su Khan è completamente sbilanciato e non avrebbe mai dovuto essere scritto. Un libro di storia non ha alcun senso se la documentazione fondamentale è lacunosa. Chi può immaginare una biografia di Kennedy basata sulle confidenze della sua segretaria, ma priva della testimonianza di Jacqueline Onassis? Certo, se invece di un libro di storia si vuole pubblicare un bestseller, strizzando l’occhio a un certo pubblico e compiacendo le case editrici, troppi scrupoli sono superflui. Tuttavia il problema esiste e non può essere rimosso. E non è tutto. Anche se volessimo prescindere dalle lacune inammissibili della documentazione, il difetto dei due volumi che consideriamo è comunque lo scarso senso critico. Ad esempio manca quasi sempre un’analisi approfondita delle motivazioni dei principali nemici di Khan. Si pensi alla valutazione della posizione di Eva Rosenfeld, che è stata una pubblica accusatrice dello psicoanalista indiano. La Rosenfeld ha lasciato un cospicuo epistolario con Anna Freud13, ma le sue lettere non sono prese in considerazione né da Willoughby, né dalla Hopkins: eppure esse rivelano molte cose sul suo carattere, sui suoi sentimenti e risentimenti e sul suo problematico rapporto con Anna Freud e con Melanie Klein, che ha influito non poco sulle sue battaglie pubbliche. Come si possono ignorare tali conflitti? Colei che accusava Khan, fingendo di essere pura e disinteressata,
13 Anna Freud’s Letters to Eva Rosenfeld, a cura di P. Heller, Madison, Connecticut, International Universities Press, 1992.
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aveva molti scheletri nell’armadio. Davvero tutto questo non ci riguarda? Il più sprovveduto lettore di gialli sa che in ogni inchiesta bisogna verificare gli alibi di tutti: ed invece in quest’inchiesta l’alibi degli accusatori di Khan non viene mai verificato. Chi ci dice che tutti coloro che sono o sono stati ostili a Khan, siano in buona fede? Eppure, è vano cercare nei volumi che esaminiamo una riflessione critica approfondita a commento delle loro azioni o dichiarazioni. La eccessiva credulità di Willoughby e della Hopkins viene confermata anche da un altro difetto nella documentazione che va esaminato a parte: l’abuso di citazioni di comunicazioni orali ottenute da moltissimi amici o nemici di Khan. Senza dubbio simili informazioni possono essere interessanti e vanno valutate con attenzione: tuttavia si tratta di un genere di fonte che si presta a numerosi equivoci, un problema di cui i due autori non sembrano essere consapevoli. Nei due volumi in questione vi è un vero e proprio eccesso di citazioni di comunicazioni personali e di dicerie di cui non si sa nulla di preciso, a volte neppure la data. Tali presunte “rivelazioni” non sono quasi mai dichiarazioni ufficiali riportate tra virgolette, ma solo opinioni personali, espresse in colloqui privati, che vengono per di più rielaborate e riassunte dall’intervistatore. Un materiale di questo tipo è scarsamente utile per lo storico e per il lettore. Com’è possibile che le confidenze casuali di un testimone qualsiasi, che non vengono riferite integralmente, ma liberamente sintetizzate da chi la ascolta, abbiano lo stesso valore di un documento scritto, ponderato ed equilibrato, che deriva da una fonte credibile e obiettiva? La maggioranza delle “confessioni” raccolte nei due libri è molto dubbia: è facile trasformare un commento a mezza bocca di una fonte non neutrale in una accusa esplicita, tanto più se quello che è stato detto viene condensato e rimaneggiato dall’intervistatore. Il colmo di un simile atteggiamento consiste poi nel fatto che di alcuni testimoni non sappiamo neppure il nome. La Hopkins, ad esempio, cita largamente le confessioni di due donne, chiamate con lo pseudonimo di Eva e Margarita. Le due donne sarebbero state amanti di Khan e la ragione del loro irragionevole anonimato è la pretesa di salvaguardare la loro vita privata. Senza entrare nel merito delle parole che la Hopkins attribuisce a queste donne, che non sono citate alla lettera e potrebbero essere fraintese o riferite male, resta il fatto che il filtro tra queste parole e il lettore è un vero e proprio abuso. Con l’anonimato qualsiasi verifica o rilettura delle testimonianze è esclusa a priori. Lo storico non deve occultare le sue fonti, così come non deve manipolarle:
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ha invece il dovere professionale di renderle pubbliche e discuterle pubblicamente. Ma non è solo questo il limite di tali testimonianze raccolte in modo assai opinabile. Il punto è che anche queste informazioni non sono mai ricontrollate, ripetendo lo stesso errore che abbiamo sottolineato a proposito delle accuse dei nemici di Khan. In sostanza la Hopkins e Willoughby accettano tute le testimonianze senza discuterle. Un simile atteggiamento, che già è poco sensato nel caso di accuse faziose, è ancor più insensato nel caso di dicerie vaghe. Lo storico non può comportarsi come un giornalista a caccia di scoop e riferire qualsiasi maldicenza gli capita di conoscere come se fosse verità rivelata. Se fa così dimostra di non possedere la lucidità e il senso critico necessari per svolgere una ricerca. I due libri che consideriamo sono pieni di esempi di questo tipo, che destano stupore. Basti pensare alle valutazioni sulla brutalità sessuale del ventottenne Khan, fatte a distanza di molti anni dalla sua prima moglie, più che settantenne, riverentemente compendiate da Willoughby e riferite come l’unica, preziosa fonte in merito.14 Ammesso che l’argomento meriti attenzione, è possibile accettare come un documento imparziale il riassunto, fatto da un estraneo, delle confidenze carpite o estorte a una anziana signora, che è certamente risentita e faziosa e che potrebbe avere i tipici problemi di memoria degli anziani? Lo storico non può essere uno sprovveduto. E neppure recitare la parte del finto ingenuo. Altrimenti, in buona o cattiva fede, non scrive più una biografia: scrive un romanzo d’appendice. In realtà è proprio a un romanzo di appendice che si pensa scorrendo le molte, troppe pagine dedicate a Khan dalla sua morte ad oggi: le
14R. WILLOUGHBY, Masud Khan, p. 70: “Psychosexual difficulties became manifest, most overtly with Jane suffering from vaginismus, about which Khan appeared insensitive. His attitude and sexual technique proved to be brusque and inept; for instance, Khan at this time, did not believe in or at least practise foreplay”. Queste informazioni sono ricavate da una “personal interview” di Jane Shore in Nicholas (nata nel 1929) datata 23 agosto 2001, che fa seguito a una “personal communication” sullo stesso tema del 13 aprile 1995. Willoughby non ci dice né come, né dove ha realizzato la sua “interview” e ha ottenuto la sua “communication”. Ma soprattutto non ci dice che genere di domande ha fatto e che tecnica di intervista ha seguito. Pur accettando l’ipotesi che egli possieda un nastro registrato dell’intervista (comunque non consultabile per un comune lettore), ciò non significa che egli sappia comportarsi da storico professionista. Basta a dimostrarlo il fatto stesso che non venga sfiorato dal dubbio sull’attendibilità della testimonianza: ammesso che sia autentica , nei termini in cui viene riferita, essa è chiaramente condizionata dal risentimento.
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illazioni, le esagerazioni, le insinuazioni non provate si sono accavallate dando luogo a una pubblicistica quasi completamente inattendibile. Non è certo nostra ambizione pretendere di risolvere in poche pagine tutti i quesiti suscitati da simili pubblicazioni, né di scrivere una biografia definitiva di un personaggio tanto controverso. Consideriamo il nostro solo un primo tentativo di mettere ordine e di impostare in modo corretto i problemi, in attesa di una vera biografia che altri realizzeranno con maggior impegno e soprattutto con maggior documentazione di quella che noi stessi possediamo.
Appunti per una biografia su Khan: infanzia e giovinezza
Ci sembra opportuno presentare una serie di appunti e spunti per scrivere una biografia di Khan: si tratta di un disegno appena abbozzato, a partire dalle informazioni, non sempre sicure, dei volumi di cui abbiamo parlato. Le pagine che seguono sono, dunque, del tutto provvisorie ed hanno l’unico scopo di stimolare nuove ricerche: solo nuovi studi e la pubblicazione integrale dei documenti che riguardano il principe indiano ci permetteranno (forse) di approfondire una serie di questioni e di risolvere almeno in parte i numerosi problemi ancora aperti. Khan nacque in India a Jhelum (Punjab) da una famiglia molto ricca, che aveva estesi possedimenti terrieri e si fregiava di titoli nobiliari come Rajà e Bahadur15. Era figlio dell’ultrasettantenne Khan Bahadur Raja
15 Sulla liceità di tali titoli, contestata da più di uno studioso per sottolineare a torto la mitomania di Khan e un suo presunto complesso di inferiorità, si veda quanto afferma WILLOUGHBY, Masud Khan, pp. 1011, confermando esattamente quello che io avevo già affermato nel mio saggio Citizen Khan, pp. 182183. E’ dunque sbagliato ciò che scrive la Hopkins, p. 4: “ Khan and Bahadur are title of respect for people with power.“. Il titolo di “Bahadur”, conferito ufficialmente al padre di Khan nel 1933, è un ufficiale della corona britannica come avevo già sostenuto e come viene confermato da Willoughby. Anche il di Rajà, gli venne ufficialmente attribuito dal governo inglese nel 1936, verosimilmente ratificando un uso già esistente. Più di una volta Willoughby insinua che i titoli del padre di Kahn non fossero ereditari e che di conseguenza lo psicoanalista non avesse diritto di considerarsi Principe (per esempio a p. 18). Quest’insinuazione gratuita viene trasformata in una notizia accertata da GAZZILLO SILVESTRI, Sua Maestà Masud, p, 15. A parte il fatto che non c’è nessuna prova definitiva per affermarlo (come del resto Willoughby stesso afferma a p. 11), le
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Fazaldad Khan (1850?1943) e della sua quarta moglie, Khursheed Begum (19051971), una diciannovenne, forse di origine persiana, che faceva la cantante e la danzatrice. Non risulta che la donna fosse una “prostituta” nel senso europeo del termine, contrariamente a quanto viene sostenuto con morbosa arroganza, da studiosi16 ignari delle tradizioni indiane17. A quanto risulta la donna fu devota al marito, cui diede quattro figli. Dichiarazioni confuse e di incerta interpretazione sottolineano che all’interno del clan familiare dei Khan ci fosse un’opposizione contro la giovane, che aveva avuto un precedente figlio da un legame extramatrimoniale e godeva di cattiva fama18. Simili voci, raccolte nel modo discutibile a cui accennavamo all’inizio, non ci permettono di comprendere veramente la situazione: è difficile infatti valutare
insinuazioni dello studioso britannico e la precipitazione dei due studiosi italiani non sono comunque corrette, perché considerano i titoli solo dal punto di vista britannico. Per essere chiamato e considerato a tutti gli effetti Rajà nell’India coloniale non c’era bisogno della ratifica della corona britannica: in base al diritto consuetudinario e alla prassi giuridica della sua regione di origine, il padre di Khan e suo figlio potevano legittimamente chiamarsi Rajà.16 L. HOPKINS, False Self, p. 5; F. GRAZZILLOM. SILVESTRI, Sua maestà Masud, p. 16. Si noti che Willoughby prende le distanze da una simile caratterizzazione “romanzesca” (Masud Khan, p. 4).17 Su questo argomento la bibliografia è abbondante: si vedano ad esempio fonti dirette come le memorie di personaggi come Saalem Kidwai, Song Sung True: A Memoir, a cura di Saleem Kidwai, New Delhi, Kali for Women , 2003; The Courtesan of Lucknow: Umrao Jan Ada, a cura di Khushwant SinghM.A. Husaini, New Delhi s.d.; HASAN SHAH, The Nautch Girl, New Delhi, 2003. Paragonare alcune di queste donne ad Aspasia e Madame de Pompadour sarebbe un azzardo, ma non assurdo; paragonarne qualcun’altra a Billie Hollyday, exprostituta e regina del blues, sarebbe forse bizzarro ma non improprio; ma paragonarle globalmente a donnacce di malaffare, con ruvido disprezzo yankee, è sconcertante e non corretto. Il mestiere di cantante nel Punjab non coincideva con quello di prostituta: la cantante di gazhals (le ballate epiche tradizionali), la ghanewali, aveva un’identità diversa da quello della puttana, anche se era considerata donna di dubbia reputazione e anche se concedeva i suoi favori ai potenti prepotenti che in India considerano le donne di spettacolo loro proprietà (ma non facevano lo stesso Kennedy e Craxi?). Sulla condizione delle donne in India si vedano: Western Women and Imperialism: Complicity and Resistance, a cura di N. ChaudhuriM. Strobel, Bloomington, Indiana University Press, 1992; G. FORBES, Women in Modern India, Cambridge, Cambridge University Press, 1996; Expanding the Boundaries of WomenÆs History: Essays on Women in the Third World, a cura di C. JohnsonOdim–M. Strobel, Bloomington, Indiana University Press, 1993; L. MANI, Contentious Traditions: the Debate on Sati in Colonial India, Berkeley, University Press. 1998.18 HOPKINS, False Self, pp. 56; WILLOUGHBY, Masud Khan, p. 4.
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l’attendibilità delle maldicenze che provengono da un harem, nel quale le rivalità e le gelosie sono all’ordine del giorno. E’ dunque molto azzardato inferire da simili dubbie notizie che l’infanzia di Khan sia stata segnata dal marchio d’infamia della reputazione della madre19 e dall’ostilità dei membri della famiglia. Allo stesso modo non è possibile farsi un’idea della adolescenza di Khan, attraverso testimonianze disordinate e casuali o addirittura ”segreti”, rigorosamente non confermati da documenti certi, come la presunta dipendenza dall’oppio della madre di Khan cui accenna la Hopkins20. Il “segreto” sarebbe stato rivelato alla Hopkins dalla fantomatica Margarita, che in ogni caso parla per sentito dire. Margarita non si è mai chiesta perché nessuno nella famiglia Khan si sia reso conto di una simile dipendenza, notoriamente molto vistosa e riferisce solo quello che le ha detto una volta lo stesso Khan21, noto per la sua fantasia sfrenata e per i suoi dispetti. Tralasciando le ipotesi romanzesche, i fatti certi sono (per ora) questi: Khan ebbe una vita familiare agiata ed i suoi rapporti con i genitori furono quelli propri di un esponente della piccola o media nobiltà indiana. E’ verosimile che nell’infanzia e nell’adolescenza abbia subito frustrazioni ed abbia avuto problemi con la sua famiglia e in particolare con i suoi fratellastri: tuttavia pretendere di conoscere questi conflitti sulla base di frammenti di diario, abbozzi di poesie e dichiarazioni, peraltro contraddittorie, di persone, che, nella maggioranza dei casi non hanno vissuto quotidianamente con la famiglia Khan22, non ha senso sul piano storico e neppure sul piano psicologico. In base alla documentazione certa in nostro possesso, è più che sufficiente affermare che Khan non ebbe vistosi contrasti esterni con la sua famiglia ed anzi fu in ottimi rapporti con il padre, anche se questo non significa che la sua vita fosse scevra di tormenti e conflitti. Ciò premesso, mi sia consentita un’osservazione: è strano che fra tante autorità pronte a sentenziare sul “romanzo familiare” di Khan, non ci sia stato nessuno che abbia considerato che la vita di un giovane che ha un padre che potrebbe essere
19 Alcuni studiosi vedono nella vergogna per la madre la radice della patologia di Khan. E’ possibile che Khan abbia provato vergogna per la madre, ma tra vergogna e patologia c’è un abisso!20 HOPKINS, False Self, p. 6: “Late in my research, I learned that there was a family secret: Khursheed may have been addicted to opium.”.21 HOPKINS, False Self, p. 401, n. 17: “The information about opium as given to me by Margarita and it had been told to her in confidence by Khan.”.22 WILLOUGHBY, Masud Khan, pp. 411; HOPKINS, False Self, pp. 417.
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suo nonno, una madre che potrebbe essere sua sorella e tre matrigne, che potrebbero essere sue nemiche, possa essere problematica! Su questo argomento varrebbe la pena riflettere, analizzando materiale clinico adeguato. In mancanza di un simile studio, possiamo affermare, provvisoriamente, che il giovane Khan ha verosimilmente provato le soddisfazioni, le delusioni e i lutti tipici di un esponente della sua classe sociale23. Di certo egli ebbe quella che Willoughby chiama una “colonial education”. Fu infatti istruito nella fede mussulmana degli avi24, ma apprese sin da piccolo la rigida disciplina e le good manners britanniche dalla governante, che veniva dall’Inghilterra. Si dedicò con passione allo studio e allo sport, eccellendo nell’equitazione e nel polo. Tra 1942 e 1945 studiò letteratura all’Università del Punjab, prima a Faisalabad dove prese il Bachelor of Arts e poi a Lahore dove conseguì il Master of Arts. L’Università del Punjab era la più antica e prestigiosa dell’India, quella nella quale gli indiani, per dirla con Rudyard Kipling (18651936): “copiano i costumi inglesi”. Come ho fatto notare nel mio saggio è di fondamentale importanza ricordare questo aspetto. Lahore è la città in cui Kipling visse e lavorò con passione alla Civil and Military Gazette. Lahore è la città di Kim, il “bianco povero tra i più poveri” che sembra un indiano perché vive come un indiano ed è “un tizzo nero quanto un indigeno”. Lahore è la città dei contrasti e delle emozioni; la città degli incontri possibili e impossibili fra culture.25 Allo stesso modo il giovane 23 Sia la Hopkins, sia Willoughby forniscono senza dubbio informazioni utili per comprendere il mondo coloniale che circondava il giovane Principe (Masud Khan, pp. 1217; False Self, pp. 89), ma non ne traggono a volte le dovute conseguenze. Ed invece le incerte e contraddittorie notizie sull’adolescenza di Khan devono essere lette in questa prospettiva, altrimenti si rischia di fraintenderle. Descrivere Khan come una specie di Werther indiano è estremamente discutibile. Per fare un esempio, l’episodio (confusamente riportato da alcune fonti) della rottura del suo fidanzamento con una giovane indù (HOPKINS, False Self, p. 14; WILLOUGHBY, Masud Khan, p, 17), non si può interpretare, da occidentali, come una riedizione del fato di Tristano e Isotta, ma dovrebbe essere correlato agli usi tipici della casta e della tradizione religiosa a cui Khan apparteneva. Di ciò sono consapevoli sia la Hopkins, sia Willoughby, che sottolineano il peso dei tabù religiosi e sociali in questa vicenda. Tuttavia ambedue insistono su aspetti “romantici” del gesto di Khan, che forse non erano così marcati e che, comunque, non mettevano in discussione l’ordine gerarchico a cui Khan apparteneva. Ciò non significa, ovviamente, che Khan non abbia sofferto per questa vicenda. 24 Sunnita, secondo Willoughby, Masud Khan, p. 2; Sciita, secondo Hopkins, False self, p. 4.25 E’ proprio a questo tema che la rivista Hamelin ha dedicato un numero intero: Kim. Il grande gioco tra noi e gli altri. Incontri possibili e impossibili fra culture, fascicolo
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Khan, nella Lahore dei Sikh, degli Indù e dei Maomettani andò alla ricerca di sé stesso confrontandosi con la cultura europea: con i suoi ammiratori come Kipling e con i suoi denigratori come James Joyce. Proprio all’Ulisse di Joyce, Khan dedicò la sua tesi26.La predilezione per Joyce non è casuale. Lo sfacelo della civiltà occidentale evocato nelle pagine dell’Ulisse era del tutto simmetrico allo sfacelo dell’India coloniale. Con lo stesso piglio del suo Joyce, lo scrittore Pierre Loti ha descritto i contrasti dell’India come allegoria di quelli della nostra epoca, negli stessi anni della pubblicazione di Kim27 Ha scritto con la consueta finezza Antonio Faeti:” Mentre leggiamo le terribili pagine in cui si descrivono le orde di affamati, di moribondi, di scheletrici esseri venuti nella rosea Jaipur per cercare cibo...sappiamo che non è l’India a venirci incontro, ma il Novecento, con i lager, l’incessante sterminio, i migranti su navi morte, le camere di tortura, l’infanzia massacrata, le varie forme di genocidio28.”. Khan aveva negli occhi le stesse immagini e nella mente gli stessi presagi quando abbandonò il suo paese e venne in Inghilterra. Aveva perso il padre nel 194329 e un anno prima anche l’amata sorella
intero di “Hamelin”4 (2002). Ed a ragione. A differenza degli yankee che non capiscono l’Oriente o fingono di non capirlo, noi, lettori di Salgari e di Kipling, siamo nella migliore disposizione d’animo per accostarci senza stereotipi al suo fascino e alle sue contraddizioni. Hanno detto bene i redattori della rivista nel loro Editoriale:” Per Kim più che per chiunque altro il viaggio verso la propria identità deve avvenire attraverso l’incontro, lo scontro, la contaminazione, l’esplorazione di ciò che è uguale e di ciò che è diverso.”.26 Secondo la Hopkins, che ricava la notizia da un diario inedito di Khan, la tesi si intitolava: From Excitement to Epiphany: a Study of [James] Joyce’s Development (HOPKINS, False Self, p. 404, n. 20). La tesi non si è conservata e questo ha indotto Willoughby a dubitare della sua esistenza (Masud Khan, p. 301). Una simile insinuazione, senza alcuna prova, mi sembra, a dire poco, insensata (come, del resto, mi sembrano insensate le osservazioni sarcastiche sui voti riportati nei compiti in classe da Khan): se Khan ha ottenuto il Master of Arts deve aver presentato una memoria scritta e non si capisce per quale ragione dovrebbe aver inventato che la sua memoria si occupava di Joyce piuttosto che di qualunque altro argomento. Del resto, Khan ha sempre mostrato un vivo interesse per Joyce, Eliot e altri scrittori inglesi del Novecento, come mostrano le numerose citazioni di tali autori nelle sue opere e come mostra la sua biblioteca (in parte conservata ad Atene ed in parte a Roma), piena di diverse edizioni di questi autori, con note autografe. 27P. LOTI , L’India (senza gli Inglesi), Torino, Einaudi, 1992.28 A. FAETI, Guido o dei libri paralleli, in “Hamelin”, 4 (2002), p. 17.29 Masud Khan fu l’erede principale dei titoli e del proprietà del padre, suscitando a quanto pare (ma la notizia andrebbe accuratamente verificata) il risentimento dei parenti (HOPKINS, False Self, pp. 1617 ; WILLOUGHBY, Masud Khan, pp. 1718).
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Mahmooda. L’India era squassata da contrasti violenti e l’Inghilterra, appena uscita dalla guerra, non lo era di meno. In questo clima di rivolgimenti personali e sociali, il Principe aveva intenzione di proseguire gli studi ad Oxford, in uno dei colleges più prestigiosi: il Balliol, dove ribelli come John Wycliff e Graham Greene avevano vissuto mordendo il freno e dove tre Viceré dell’India avevano ricevuto la loro formazione. Ma sulla strada della irrequieta Oxford di Eric Dodds, di Clive Staple Lewis e di Iris Murdoch, il giovane indiano, che ammirava gli eccessi dell’irlandese Joyce, incontrò la psicoanalisi. Cominciò in India, con un dottore che si chiamava Israil Latif ed aveva studiato negli Stati Uniti30. L’analisi durò tre anni tra 1943 e 1946. Il dottor Latif conosceva eminenti psicoanalisti a Londra ed esortò il giovane principe a trasferirsi nella capitale britannica. Psicoanalisi a Londra significava la figlia di Sigmund Freud (18561939), Anna (18951982). E la sua grande antagonista: Melanie Klein (18821960). Con loro Khan entrò in contatto nel 1946 ed iniziò un’analisi che lo avrebbe portato su una via ben diversa da quella che aveva sognato a Lahore. In questa scelta giocavano fattori personali? Giocava l’inquietudine, l’incertezza, lo sbandamento di un giovane che aveva visto crollare il suo mondo attraverso la morte del padre e la morte della società in cui era nato? Certamente sì. Ma in quale misura? Molti danno prova di ingenuità sul piano storico, ricostruendo gli eventi in modo semplicistico. Nel migliore dei casi Khan fuggì a Londra per nascondere le “stimmate” della sua nascita abietta, restando sempre un “fuoriuscito”, un esule, o come dicono gli inglesi un “émigré”, anzi, un “Pakistani émigré”31. Quest’ipotesi, semplicistica e unilaterale, contraddetta dallo stesso Khan32, sottovaluta l’educazione coloniale del giovane Principe,
30 Latif aveva ottenuto il Master of Arts nel 1916 a Lahore e successivamente aveva studiato negli Stati Uniti a Princeton, dove divenne Doctor of Philosophy (= Ph. D.) nel 1933. Per molti anni insegnò nell’Università di Lahore, esercitando la professione privata di psicoanalista. In seguito, nel 1955, si trasferì a Londra , dove fu in contatto con Anna Freud e divenne membro associato della British Psychoanalytical Society. Fu anche lo psicoanalista del fratello di Khan, Thair. Sull’argomento si vedano WILLOUGHBY, Masud Khan, pp. 1920 e C. HARTNACK, British Psychoanalysts in Colonial India, in Psychology in Twentieth Century Thought and Society, a cura di M. G. Ash W. R. Woodward, CambridgeNew York, Cambridge University Press, 1987, pp. 233251.31L’espressione “Pakistani émigré” ricorre sovente in alcuni studi (cfr. ad esempio RODMAN, Winnicott, p. 203) e indica “un fuoriuscito dal Pakistan”. 32 M. R. KHAN., Trasgressioni, Torino 1992, p. 219.
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per il quale studiare in Inghilterra era ovviamente lo sbocco naturale; e la storia sociale e politica di quegli anni drammatici, nei quali alcuni grandi proprietari terrieri che avevano avuto buoni rapporti con i colonialisti inglesi, malvisti ed attaccati pubblicamente sia in India sia in Pakistan, preferirono stabilirsi in Inghilterra.33. Ancor più ingenua, è la ricostruzione della scelta della professione da parte di Khan, che secondo alcuni sarebbe stata casuale e addirittura frutto di un errore clamoroso di Bowlby34. Quest’interpretazione, giudicata “inverosimile” da altri, è comunque smentita da una lettera scritta da Bowlby35 sull’argomento, che nega nel modo più categorico una simile opinione36.
33 Si trattava di una strategia diplomatica della Pakistan Muslim League’s per avere l’appoggio dei signori feudali nelle aree dove non poteva stabilirsi un controllo di tipo democratico della popolazione. Khan non fu il solo esponente di una famiglia aristocratica minacciata dagli eventi ad emigrare a Londra: ricordiamo, ad esempio, il caso di Sikander Ali Shah, giovane Pir del Pagara (Sindh), che fu contattato dal primo ministro del Pakistan, Liaquat Ali Khan, durante la sua visita a Londra del 1950, per convincerlo a tornare nel suo paese, cosa che avvenne poco più tardi.34 Per sottolineare la fatuità e la superficialità della formazione psicoanalitica del Principe, Rodman sostiene che egli avrebbe fatto l’analisi didattica per sbaglio: si sarebbe infatti presentato nel 1946 in cerca d’aiuto e pieno d’angoscia a John Bowlby (19071990) allora responsabile del training della Società di Psicoanalisi Britannica e l’illustre psicoanalista avrebbe frainteso le sue richieste e l’avrebbe raccomandato alla Società di Psicoanalisi Britannica per un’analisi didattica che ne facesse un futuro analista. Questa ricostruzione è stata avallata dalla Hopkins che ha pubblicato in un articolo il testo di una lettera di Khan all’amico Robert Stoller (19251991) conservata a Los Angeles nella quale si narra l’episodio dell’incontro con Bowlby ( L. HOPKINS, How Masud Khan fell into Psychoanalysis, in “American Imago” 61 (2004), pp. 483494. Alla base di questa ricostruzione dei fatti ci sono due lettere di Khan, a Robert Stoller (20 maggio 1964) e Richard Steiner (7 dicembre 1984), conservate a Los Angeles, tra le carte dell’Archivio Stoller (Stoller Papers, coll. 373, UCLA, Los Angeles, University Research Library). Come ho già avuto occasione di dire nel mio saggio e come ribadisco in quest’occasione non ci vuole molto a comprendere che si tratta di un’affermazione inverosimile o, come ha giustamente detto Willoughby “extremely unlikely” (WILLOUGHBY, Masud Khan, p. 21). Anche Gazzillo e Silvestri esprimono dubbi in merito (Sua maestà, p. 34).35 La lettera del 18 Dicembre 1989 è indirizzata allo psicoanalista di Chicago James Anderson. 36La Hopkins ricorda in una nota tale lettera (HOPKINS, False Self, pp. 405406, n. 7.) ma la liquida affermando che non è credibile. Non capisco come si possa fare una simile affermazione aprioristica, senza essere stati presenti al colloquio tra Khan e Bowlby. Il minimo che possa fare uno storico serio di fronte a una tale disparità di testimonianze è non prendere posizione. Ma c’è di più. Leggendo attentamente la lettera di Khan indirizzata a Stoller che ha dato lo spunto alle intepretazioni che abbiamo esposto, si
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Se ci atteniamo ai fatti dobbiamo osservare che Il Principe indiano fece l’analisi con Ella Freeman Sharpe (18751947) John Rickman (18801951) e in seguito con Donald Winnicott, un’analisi che si è convertita in un rapporto di collaborazione e scambio di idee; durante l’analisi con Winnicott, Khan fu in contatto con Melanie Klein. Fu pure in ottimi rapporti con Anna Freud che divenne sua consigliera e protettrice. Khan ha avuto successivamente un lungo training, che non può essere considerato superficiale o improvvisato. Nulla di casuale e di futile dunque, in un itinerario durato anni e anni e contrassegnato da lutti, sperimentazioni, ripensamenti, conflitti. Da questo punto di vista sono insinuazioni gratuite, del tutto campate in aria, le illazioni di Willoughby sul fallimento di tutte e tre le analisi di Khan, presentate con una ingenuità che rasenta la malafede, senza alcuna prova documentaria37.
nota una strana contraddizione tra il tono apparentemente scanzonato dell’autore che racconta quasi scherzosamente la sua iniziazione alla psicoanalisi e la realtà dei fatti quale la lettera stessa documenta in modo inecquivocabile. Khan si compiace di rappresentare la sua ammissione al training analitico quasi si sia trattato di una specie di equivoco (si noti bene il “quasi”!!): tuttavia il suo colloquio con Bowlby non dimostra affatto tale equivoco. Nella rievocazione di Khan, Bowlby ha un lungo colloquio interlocutorio ed esplorativo, che si svolge in modo non formale nel suo ufficio e al ristorante. Nel corso del colloquio vengono toccati moltissimi argomenti, ma non viene mai detto nulla che faccia ritenere che Khan è stato scambiato per errore per un candidato. Senza dubbio Khan dice quasi scherzando che la conversazione di Bowlby è apparentemente “irrilevant and meaningless” perché Bowlby parla del più e del meno e non accenna mai all’analisi didattica. Tuttavia Bowlby, al di là dlel’apparenza, si comporta in modo professionale poiché presenta Khan alla Payne che era Presidentessa della British Psychoanalytical Society perché ci sia un vero e proprio colloquio formale. La Payne, dopo ben due colloqui, nei quali dimostra “calore” e “senso dello humour”, apprende da Khan che egli desidera fare una “good analysis”. Di fronte a questa richiesta la Payne esprime il suo parere professionale e suggerisce (vorrei ribadire: suggerisce) a Khan di presentare domanda per fare un’analisi didattica, con queste parole: “I think you should apply to the Institute for training. I cannot promise they will accept you.”. Simili parole escludono nel modo più assoluto che ci si trovi di fronte a un equivoco: la dottoressa Payne non ha scambiato Khan per un futuro analista, senza rendersi conto che era un grave malato: ha invece giudicato che Khan fosse in grado di fare un’analisi didattica e divenire analista e per questa ragione lo ha invitato a fare domanda, dopo due colloqui esplorativi, preceduti da un primo incontrom informale con Bowlby. A sua volta Khan non è stato preso come un pacco e costretto a fare l’analisi didattica: ha avuto tutto il tempo e il modo di valutare un suggerimento e di scegliere. Ciò significa che nessuno ha commesso errori di sorta. C’è una proposta e c’è una decisione: non uno scambio di persona.37WILLOUGHBY, Masud Khan, pp. 2831. Le insinuazioni di Willoughby, basate su sospetti, argomenti e silentio e altre assurdità simili sono evidentemente prive di
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Appunti per una biografia su Khan: gli anni della maturità
Quello che è certo è che Khan si accostò sin dai suoi primi contatti al cosiddetto “Middle Group”38, di cui peraltro facevano parte sia la Sharpe, sia Rickman, partecipando tra 1947 e 1948, in accordo con le direttive della Società Britannica di Psicoanalisi, ai seminari dell’Istituto a Gloucester Place, parte integrante del suo training. Nello stesso periodo aiutò James Strachey (1887 – 1967) a compilare gli Indici del quinto volume delle Opere di Freud e prestò servizio di aiuto bibliotecario nella biblioteca dell’Istituto. Nel dicembre del 1948 iniziò a trattare il suo primo caso con la supervisione di Anna Freud, al posto della Klein che non poteva svolgere questa funzione. Poco dopo, nel 1950, iniziò a trattare anche i bambini, con la supervisione di Winnicott. Comincia così l’avventura psicoanalitica di Khan: una storia che può interessare il lettore per il suo significato generale, non per la pluralità di aneddoti che la costellano, raccolti con scrupolosa maniacalità dai suoi biografi. Nell’ambito di una breve nota come questa, ci limitiamo a dire quello che qualunque Dizionario biografico direbbe: Khan partecipò alle iniziative della comunità psicoanalitica londinese, intervenendo in convegni internazionali e scrivendo numerosi saggi39. La sua carriera di
validità senza una documentazione esplicita, cosa che egli ammette esplicitamente (p. 30: “recorded details...have not survived”). Ma c’è di peggio. L’autore pretende di capire che cosa può essere successo tra Khan e i suoi psicoanalisti riferendo episodi e commenti che riguardano le analisi di altri personaggi con gli stessi psicoanalisti, come ad esempio la Little con la Sharpe (p. 28) o la King con Rickman (p. 30). Questo metodo viene seguito anche da altri: la Hopkins e GazzilloSilvestri si sforzano di capire come si sia svolta l’analisi di Winnicott con Khan, citando le analisi di altri pazienti di Winnicott (GAZZILLOSILVESTRI, Sua Maestà Masud Khan, pp. 6065). Questo procedimento è scorretto: ciò che accade all’interno di un rapporto analitico non si ripete in un altro, altrimenti potremmo sostenere che il Piccolo Hans era L’uomo coi Lupi e che Freud diceva a tutti le stesse cose, anzi, invece di parlare usava un disco con i suoi commenti registrati.38 Tra coloro che hanno fatto parte nel corso del tempo di questo storico gruppo di “indipendenti”, che non si riconoscevano pienamente né nelle posizioni di Anna Freud, né in quelle di Melanie Klein figurano oltre a Khan: William Gillespie, Marion Milner, Donald Winnicott, John Bowlby, Charles Rycroft, Paula Heimann, Michael Balint, Enid Balint, Eric Rayner, Adam Limentani, Jock Sutherland, Margaret Little, John Klauber, Pearl King. 39 L’elenco delle pubblicazioni è in HOPKINS, False Self, pp. 497504 e WILLOUGHBY, Masud Khan, pp. 301307.
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psicoanalista suscitò apprezzamenti e risentimenti: e tuttavia per lungo tempo proseguì indisturbata. Fu parte integrante della Società Britannica di Psicoanalisi, collaborando diversi progetti. Ebbe diversi incarichi come curatore di libri ed articoli: ebbe un ruolo decisivo nell’edizione degli scritti di Winnicott40; fu responsabile dell’edizione postuma dei Selected Papers di Rickman e per ventun anni fece parte del Publication Committee dell’International Journal of Psychoanalysis41. Nonostante la sua attività indefessa e brillante e nonostante la stima che si era guadagnato presso importanti psicoanalisti, Khan ebbe presto dei nemici che non esitavano a manifestare ostilità nei suoi confronti. Un esempio in questo senso fu l’attacco sferrato da una psicoanalista amica di uno psicoanalista nemico di Khan42, la tirannica e autoritaria43 vedova dello psicoanalista americano Maxwell Gitelson (19021965), ex presidente dell’Ipa (International Psychoanalytic Association), che accusò Khan di voler offuscare la fama del marito. Lo psicoanalista indiano, lamentando la scomparsa del defunto, aveva osato dichiarare in una lettera a Wladimir Granoff (oggi perduta) di essere stato “helpful” per l’anziano psicoanalista, facendo da mediatore nel 1964 a Chicago, in un’oscura disputa che egli aveva avuto con lo psicoanalista Franz Alexander44. La lettera di Khan fu girata di nascosto da Granoff a Frances Gitelson e suscitò immediatamente l’ira della donna che non poteva tollerare che nessuno potesse essere stato “helpful” per il marito e neppure che questi avesse potuto avere una lite con chicchessia. Di fronte alla furia di questa megera, le polemiche si scatenarono e l’ Executive Council dell’Ipa, anziché prenderla a ridere, fece una censura ufficiale a Khan durante il Congresso di Amsterdam del 1965, in cui egli era presente in una posizione di spicco, come segretario di un gruppo di lavoro diretto da Pearl King. L’incidente, basato su un’accusa completamente insensata e dissennata, ebbe il risultato di bloccare la carriera internazionale di Khan, che dispiaceva a molti; suscitò inoltre una marea di calunnie supplementari contro Khan, giudicate da
40 Riconosciuto da Winnicott stesso: si veda ad esempio la sua prefazione a Sviluppo affettivo e ambiente. Studi sulla teoria dello sviluppo affettivo, Roma, Armando, 2002.41 Sull’attività svolta da Khan in questo ruolo si veda WILLOUGHBY, Masud Khan, pp. 101103.42 Lo psicoanalista Leo Rangell che era in cattivi rapporti con lo psicoanalista Ralph Greenson amico di Khan : si veda HOPKINS, False Self, p. 158.43 Ibid., p. 157: Frances...was a somewhat formidabile woman”.44 WILLOUGHBY, Masud Khan, pp. 121122.
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Willoughby “claims without foundation”45. L’episodio mostra che, professionalmente parlando, Khan aveva molti nemici, nonostante i riconoscimenti ufficiali e nonostante la sua meritoria attività di editore e di effettivo aiutante di anziani psicoanalisti, come Rickman e come Winnicott. In ogni caso, a parte queste occasionali tempeste, la vita dello psicoanalista indiano fu abbastanza tranquilla e relativamente povera di eventi, se si eccettuano i numerosi viaggi in Europa ed in America e in Pakistan. L’aspetto più significativo di tale esistenza è certamente il rapporto stretta collaborazione con Winnicott, con cui collaborò all’interno dell’attività del “Middle Group”. Su questo rapporto sono stati versati fiumi d’inchiostro, alimentando illazioni di ogni tipo, compresa quella, immancabile per il perbenismo yankee, che i due fossero amanti46: tuttavia è strano che tra tanti studiosi, pronti a trinciare giudizi sulla natura dei rapporti tra Winnicott e Khan, non ci sia stato nessuno che abbia pensato di pubblicare la loro voluminosa corrispondenza, che va dal 1957 al 197147. La cosa è ancor più paradossale se si pensa che questa stessa corrispondenza è oggetto di studio in seminari universitari prestigiosi, essendo densissima di
45Nonostante tale giudizio, Willoughby afferma candidamente (o maliziosamente?) che la scarsità dei rapporti tra Khan e Gitelson: “seems hardly to support a claim that had been either a substantial or close friendship or association between the two analysts”. Gli fa eco la Hopkins che afferma che Khan “exaggerated or even fabricated” i particolari di ciò che egli avrebbe fatto a Chicago. Tali affermazioni sono veramente sorprendenti: Willoughby non può provare, per sua stessa ammissione, quali rapporti ci siano effettivamente stati tra Khan e Gitelson e non può sapere se Gitelson, sia stato effettivamente aiutato dal giovane Khan; quanto alla Hopkins, non può provare che ci siano state “falsificazioni” perché la lettera che le avrebbe contenute non si è conservata. Perché allora prendere posizione su quello che non si sa? Ma ancora più singolare è che Willoughby e la Hopkins non abbiano il coraggio di dire questa semplice verità: che scatenare un putiferio per una frase contenuta in una lettera privata, ottenuta peraltro in modo scorretto, è, nel migliore dei casi, una totale assurdità; nel peggiore, una reazione isterica, se non paranoica, dettata dall’invidia e dal risentimento. Se questo è vero è altrettanto vero che la faciloneria e la credulità dell’Executive Council dell’Ipa in questa circostanza sono sconcertanti.46RODMAN, si chiede untuosamente: “ se la relazione eterosessuale completa di Donald [Winnicott] con [la moglie] Clare non avesse un parallelo in una specie di relazione omosessuale tra Donald e Masud” (Winnicott pp. 217218). Simili assurdità, senza prove, invece di essere criticate apertamente, vengono citate con interesse da altri: si veda ad esempio GAZZILLOSILVESTRI, Sua maestà Masud, p. 58.47Archives of Psychiatry, New York Hospital, Cornell Medical Center, New York, Oskar Diethelm Library, Winnicott Papers.
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riferimenti teorici e di commenti a casi analitici. Pur rendendomi conto che il gossip è più attraente del lavoro filologico, mi meraviglio che neppure le case editrici e i giovani in carriera alla ricerca di scoop abbiano pensato che l’edizione delle lettere tra Khan e Winnicott sia un’impresa che meriti di essere compiuta. Quando una simile iniziativa verrà realizzata si scoprirà la ricchezza del rapporto dei due grandi psicoanalisti, che scambiano continuamente commenti, osservazioni, rielaborazioni e intuizioni. A questo riguardo vorrei ricordare che recenti studi hanno messo in discussione la validità dell’analisi di Khan da parte di Winnicott48, a partire da presunte osservazioni attribuite a Khan o da battute più o meno perfide di suoi conoscenti. Ciò è singolare dal momento che non c’è riscontro oggettivo di simili affermazioni: non abbiamo nulla, ripeto nulla, di paragonabile alle lettere tra Jung e Sabina Spielrein49, documenti che ci permettono di avanzare qualche ragionevole ipotesi sulle ragioni di certi loro comportamenti. Neppure abbiamo, una cronaca delle analisi di Khan, simile almeno al diario nel quale Margaret Little ha rievocato la sua analisi con Winnicott (che in ogni caso esprime solo il suo punto di vista e non quello di Winnicott)50. In queste condizioni pontificare sui presunti fallimenti del trattamento psicoanalitico di Khan, è fatuo, superficiale e poco serio. Tornando alla storia basata sui fatti e non sui pettegolezzi, c’è da dire che negli stessi anni in cui Khan iniziava la sua pratica analitica, veniva proclamata l’indipendenza del Pakistan, dopo tragiche vicende, che inglobava la regione in cui Khan era nato ed aveva ancora estesi possedimenti. Pur conservando legami intensi con la sua terra di origine, e pur mantenendo rapporti con uomini politici e influenti personalità pakistane, Khan non chiese mai la cittadinanza del nuovo paese51, rimanendo così idealmente attaccato al mondo in cui era nato e che non
48 L. B. HOPKINS, D. W. Winnicott’s analysis of Masud Khan: a preliminary study of failures of object usage, in “Journal of Analytical Psychology”, 44 (1999), pp. 413431, ripubblicato in francese col titolo L’analyse de Masud Khan par D. W. Winnicott: un étude préliminare des échecs de l’utilization de l’objet, in “Revue Française de Psychanalyse”, LXVII(2003), pp. 10331057; J. B. MCCARTHY Disillusionment and Devaluation in Winnicott’s Analysis of Masud Khan, in “The American Journal of Psychoanalysis”, 63 (2003), pp. 8192.49 A. CAROTENUTO, Diario di una segreta simmetria. Sabina Spielrein tra Jung e Freud, Roma, Astrolabio, 1980.50 M. LITTLE, Il vero sé in azione. Un'analisi con Winnicott, Roma, Astrolabio, 1993.51 HOPKINS, False Self, p. 379.
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esisteva più. Una condizione questa che egli stesso ha definito di “esilio spirituale”52 , ben diversa dall’esilio materiale dei cosiddetti émigrés o fuoriusciti politici. Per quanto strano possa sembrare, le parole esplicite di Khan non sembrano contare nulla e coloro che si occupano dello psicoanalista non esitano a chiamarlo emigré, come Rodman53, o psicoanalista pakistano come GazzilloSilvestri54: quest’incomprensione ostinata è veramente irragionevole. Come ho già avuto modo di scrivere, mi chiedo chi definirebbe uno scrittore come Conrad un suddito russo, ignorando ostentatamente che era polacco e che per la indipendenza della Polonia suo padre era stato deportato e la sua famiglia rovinata? E chi direbbe senza un commento che gli Irlandesi di Belfast sono Inglesi, che gli Armeni sono Turchi o che i Tibetani sono Cinesi? Allo stesso modo definire Khan un “pakistano” o un “fuoriuscito” è una scorrettezza nei confronti della sua biografia: Khan era un indiano, un indiano di Lahore, come Kim; un individuo che, a dispetto delle beghe dei politicanti, ha il diritto ad un’identità culturale. Un’identità che peraltro egli stesso ha rivendicato, sia pure con discrezione. Rivendicare il rispetto per quest’identità non è uno sterile esercizio erudito. Non capire che Khan apparteneva all’aristocrazia dell’India filobritannica, completamente superata dalle tumultuose trasformazioni del dopoguerra, significa non capire le radici sociali delle sue difficoltà interpersonali. La sua origine familiare, la sua educazione, la sua identità sociale lo rendevano automaticamente estraneo al mondo che si è sviluppato negli anni cinquanta. Khan era, socialmente parlando, un uomo fuori del tempo, costretto a convivere con un tempo che non riconosceva e che non lo riconosceva, paragonabile al Principe di Salina di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Per questa ragione le sue aspettative nei confronti della società britannica dovevano essere necessariamente deluse. Come ha detto Bollas: “Masud amava un’Inghilterra che non è mai esistita”55.
52“Dopo aver vissuto e lavorato a Londra per quarant’anni, ho capito che l’autoesilio è ben diverso dall’essere émigré. Non ho dovuto costruirmi una nuova identità quale cittadino britannico e, mentre sono aperto ad apprendere dalla cultura nella quale vivo, non rinnego le radici tenaci del mio mondo”(KHAN, Trasgressioni, p. 219).53 RODMAN, Winnicott, p. 203.54 Il sottotitolo del libro di Gazzillo e Silvestri è : Vita e opere di uno psicoanalista pakistano a Londra. Nel volume i due autori ricordano che Khan non prese mai la cittadinanza pakistana (p. 88), tuttavia ciò non è sufficiente per sconsigliare loro di dare un titolo sbagliato al volume.55 Citato in GAZZILLO SILVESTRI, Sua Maestà, p. 29.
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Una simile condizione non è certo sfuggita ai biografi di Khan, che ricordano numerosi aneddoti a questo proposito: tuttavia il peso di questa esperienza viene sottovalutato o frainteso, al punto che essi non esitano a chiamare pakistano un uomo che non si sentiva pakistano, così come il Principe di Salina non si sentiva di appartenere al l’Italia sabauda. Allo stesso modo molti colleghi di Khan e perfino alcuni suoi amici hanno sempre mostrato insofferenza o diffidenza per l’ostentazione dei titoli da parte del Principe indiano, dubitando perfino sulla loro autenticità: un dubbio che ha contagiato i biografi, nonostante i riscontri oggettivi di cui abbiamo già parlato. Anche in questo caso si finisce col sottovalutare il significato di certe esperienze in un mondo diverso dal nostro. Per l’aristocratico Khan i suoi titoli, anche se inutili e superati storicamente, sono parte integrante della sua identità. La loro autenticità nasce dalla realtà dei rapporti sociali nell’India coloniale, indipendentemente dall’equipollenza di un titolo all’interno del sistema giuridico britannico. Perché dunque riprendere con una mano quello che si dà con l’altra? Perché ammettere che Khan era un aristocratico indiano e poi mostrare insofferenza per la sua pretesa di essere riconosciuto per quello che era? Ciò non significa che tutti i problemi psicologici di Khan nascessero dalla sua estrazione sociale: significa però rendersi conto che le difficoltà incontrate da un aristocratico in esilio non sono un accessorio nella personalità dell’esiliato. Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, Parigi fu piena di nobili russi costretti a guadagnarsi da vivere facendo il tassista o il cameriere, che soffrirono non poco per la loro condizione di diseredati. Nessuno ha pensato di deriderli o di mettere in discussione i loro titoli, come invece è avvenuto per Khan. Un’analoga mancanza di rispetto si dimostra rievocando in chiave scandalistica la vita sentimentale del Principe indiano. Egli ebbe molti flirts e “fidanzamenti”, favoriti dalla sua condizione di personaggio esotico. Non si comprende però perché questo dovrebbe suscitare tanti pettegolezzi, come se il mondo moderno fosse un convento di educande. Uno storico serio non può accettare una simile banalizzazione dell’esistenza di un individuo: suo compito è invece ricordare al lettore che Khan tentò anche l’esperienza del matrimonio, legandosi a persone fragili e immature che avevano punti in comune con lui: due donne con notevoli doti creative e notevoli problemi, a cominciare dalla paura di fallire rispetto alle grandi aspettative dei genitori. Il 26 luglio 1952 si sposò con una donna giovane e insicura, Jane Shore, una ballerina. Il matrimonio, dopo un periodo inizialmente felice, precipitò in un abisso e
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terminò col divorzio nel 1958. Il secondo matrimonio durò di più e fu più coinvolgente: il 23 gennaio 1959 Khan si sposò con una stella della danza, la lituana Svetlana Beriosova. La donna frequentava la più brillante società londinese ed introdusse Khan nei salotti dell’aristocrazia inglese. Anche questo matrimonio terminò dopo dieci anni. La coppia divorziò nel 1974, per diverse ragioni (non ultimo l’alcolismo della donna), ma Khan rimase sempre legato al ricordo conflittuale della seconda moglie56. I comportamenti insoliti e idiosincratici di Khan, contrassegnati spesso da equivoci e risse verbali e negli ultimi anni della sua vita anche da abuso di alcool, hanno dato luogo a una serie di pesanti definizioni diagnostiche (perverso, borderline, psicotico, bipolare57) che sono frutto 56 A lei è dedicato il suo volume The Privacy of the Self, con le parole: “For Svetlana Beriosova whose discipline and genius taught me the true measure of effort, with love and gratitude”(la dedica è stata omessa nell’edizione italiana). Va ricordato che Khan frequentò, insieme alla seconda moglie, i migliori salotti di Londra e fu in contatto con numerose personalità nel campo artistico e intellettuale, dando prova di una personalità brillante ed eccentrica che non mancava di suscitare entusiasmi e critiche. Ha scritto a questo proposito Paolo Migone: “Si proclamava di origini regali, e a volte indossava una sorta di toga, un vestito lungo fino ai piedi; sulla porta del suo studio londinese vi era una targa d’oro con la scritta "Sua altezza reale Masud Khan” (His Royal Highness Masud Khan)... Fu molto chiacchierato...il suo secondo matrimonio, celebrato nel 1959, con una delle più famose e attraenti ballerine del Royal Ballet di Londra, Svetlana Beriosova, molto più giovane di lui, con la quale frequentava assiduamente varie celebrità tra cui Rudolph Nureyev, Julie Christie, Peter O’Toole, Mike Nichols, Francois Truffaut, Frank Kermode, la Principessa Margaret, Mike Nichols, Julie Andrews (la cui figlia ebbe la Beriosova come madrina)” P. MIGONE, Storia dello scandalo Masson, in “Il Ruolo Terapeutico”, 89( 2002), pp. 5869 (I parte), 90 (2002), pp. 4758 (II parte), 91 (2002), pp. 6777 (III parte).57 Secondo la Hopkins, Khan è vittima di un disturbo bipolare che lo accompagna per tutta la vita e lo trascina in una ininterrotta alternanza di depressione e euforia; secondo Gazzillo e Silvestri Khan è una personalità borderline e di conseguenza ha improvvisi e bruschi crolli, alternati a stati emotivi diversi, come tutte le personalità borderline. Le due diagnosi non trovano riscontro nella vita molto più contraddittoria di Khan. Se la confrontiamo con quello che si sa sulla patologia bipolare e su quella borderline troveremo punti di contatto superficiali. Sul disturbo bipolare vedi: J. F. GOLDBERG M. HARROW, Disturbi Bipolari, Milano, Cortina, 2000; La valutazione del paziente bipolare. Le scale di valutazione psicometrica utilizzate nella clinica e nella ricerca, a cura di G. ManfrediI. Pacchiarotti A. Rubero P. Girardi, Roma, Giovanni Fioriti, 2006 ; F. COLOME. VIETA, Manuale di psicoeducazione per il disturbo bipolare, Roma, Giovanni Fioriti, 2006: Sulla personalità borderline vedi: H.F. Searles, Il paziente borderline, Torino, Bollati Boringhieri 1988; O. F. Kernberg, Psicoterapia delle Personalità Borderline, Cortina, Milano 2000; O. F. Kernberg – M. A. Selzer – H. W. KoenigsbergA.C.Carr – A. H. Appelbaum , Psicoterapia Psicodinamica dei
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solo di giudizi affrettati58. Khan era certamente un uomo vulnerabile e pieno di problemi. Ma era anche un uomo creativo ed anticonformista. Non è possibile interpretare tutto quello che ha fatto in una chiave patologica. Molti suoi comportamenti non sembrano nascere da una patologia definita, anche se possono sembrare bizzarri. Si pensi ad esempio a un presunto sintomo ricordato da Gazzillo e Silvestri, il fatto che Khan:“era sprezzante verso le persone soprappeso”59. Non so a quale patologia i due autori ascrivano questo comportamento, ma mi viene il dubbio, da profano, che il sarcasmo possa essere comune a nevrotici,
Pazienti Borderline, Roma, Edizioni Universitarie Romane 1996; P. Migone Evoluzione storica del concetto “borderline”, in “ Il ruolo terapeutico”, 55 ( 1991), pp. 55 30 34.58 Gli studiosi seri si interrogano da tempo sulla validità di molte definizioni diagnostiche schematiche e sul concetto stesso di diagnosi tradizionale, che viene superficialmente usato da autori come Willoughby ed Hopkins: si pensi solo per fare un esempio al concetto di comorbilità in base al quale si possono evidenziare più disturbi o sindromi che si verificano nello stesso periodo o in fasi successive nella stessa persona(G. KLERMAN, Approaches to the phenomena of comorbidity, in Comorbidity of mood and anxiety disorders, a cura di J.D. Maser, C. R. Cloninger, Washington DC, American Psychiatric Press, 1990, pp.1340). Più complesso e articolato è il concetto di spettro psicopatologico che dà rilievo alla continuità e la mancanza di limiti tra un quadro clinico ed un altro, col risultato di combinazioni di sindromi e sintomi diversi a partire da un’unica base patologica. Un’altra nozione degna di nota è quella di diagnosi multidimensionale nei disturbi di personalità (J. PARIS, Borderline Personality Disorder: A Multidimensional Approach, Washington, D, American Psychiatric Press, 1994), alternativa alla tradizionale diagnosi categoriale: la diagnosi deve basarsi su un numero di dati molto superiore a quelli comunemente presi in considerazione
59 GAZZILLO SILVESTRI, Sua Maestà, p. 103. Gazzillo e Silvestri tracciano un quadro d’insieme di quella che chiamano una “sintomatologia ...piuttosto variegata” che non sembra applicabile a un solo tipo di patologia, ammesso che quelli che vengono definiti “sintomi” lo siano davvero. Secondo questi autori Khan sarebbe stato: “affetto da mutismo infantile e depressione e anoressia giovanili, aveva una fobia per l’acqua...aveva bisogno di trovarsi sempre al centro dell’attenzione e dell’ammirazione altrui e, se ciò non accadeva diventava aggressivo e oltraggioso; era sprezzante verso le persone soprappeso (sic!!!)..millantatore e calunniatore, aveva una certa tendenza al furto e a comportamenti autodistruttivi. Era molto sensibile alle separazioni, che facilmente viveva come abbandoni e tendeva ad essere arrogante, superbo e sprezzante, tranne che con quelle persone che, mostrandogli fedeltà e ammirazione, diventavano parte della sua ‘famiglia’ e con le quali sapeva essere anche molto generoso. Soffriva di periodici attacchi di depressione...Era brillante, arguto, imperioso, intuitivo in modo stupefacente, infaticabile e molto seduttivo”. Viene da chiedersi a quale quadro diagnostico corrisponda questa “variegata sintomatologia” e come si possano considerare “sintomi” il fatto di essere: “brillante...arguto...generoso”?
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non nevrotici, borderline e paranoici senza costituire un sintomo specifico60. In altri termini, a noi sembra che nei casi dubbi sia necessario avere il coraggio di sospendere il giudizio. E se si sospende il giudizio si sospende anche il pregiudizio. Ci rendiamo conto che un simile personaggio stimola la creazione di racconti coloriti e fantasiosi sulla sua vita privata. E ci rendiamo conto che purtroppo molti hanno la tendenza a spiegare le teorie di Khan in base a tali aneddoti rappresentandosi in un modo semplicistico e mistificante le elaborazioni e le riflessioni che portano ad una teoria come il semplice riflesso di esperienze vissute. E tuttavia dobbiamo avere il rigore intellettuale di respingere le leggende senza fondamento. Non possiamo dimenticare, infatti, che le informazioni che possediamo sono di solito dubbie, se non inattendibili; ed in ogni caso di interpretazione molto controversa61. 60 Anche in casi apparentemente più gravi, non mi pare giusto compilare cartelle cliniche affrettate, prima di avere scartato altre possibilità. Si pensi ad esempio alla presunta identificazione di Khan col principe Miskin dell’Idiota di Dostoesvki, che la Hopkins considera una forma di “psycotic living”. Dalla rievocazione che fa la Hopkins è molto dubbio che Khan credesse veramente, da psicotico, di essere Miskin o piuttosto che “recitasse”, rivolgendosi ad amici e amanti, la parte di Miskin, con cui si identificava, senza smarrire il senso della realtà. In ogni caso, ammesso e non concesso che Khan in questa circostanza fosse fuori di sé, come si può dimenticare il suo etilismo e interpretare come psicosi ciò che era indotto in gran parte dai fumi dell’alcool? Senza dubbio anche l’alcolismo è un disturbo psichico: ma, come diremo meglio più avanti, non è di per sé il sintomo di una sola patologia e può dipendere da molte cause diverse. Se non vogliamo essere superficiali inventando patologie inesistenti e forzando la reale portata di quello che sappiamo, dobbiamo limitarci a osservazioni di carattere generale: l’unica cosa che possiamo dire senza esagerare è che Khan, oltre alla componente creativa, aveva una componente distruttiva. Del resto, egli si identificava esplicitamente anche con Rogozin, l’assassino e non solo con Miskin: la sua passione per l’Idiota aveva dunque fondamento!
61 A titolo d’esempio citerò un caso preso devotamente per buono da Gazzillo e Silvestri e da molti membri della Società Britannica di Psicoanalisi, secondo i quali l’ormai moribondo Khan in condizioni penose dopo aver subito molte operazioni e privo quasi del tutto dell’uso della voce dopo essere stato espulso dalla Società : “inizia a fare telefonate minatorie” nelle quali dice che: “avrebbe assoldato dei killer per vendicare il torto subito” ( GAZZILLOSILVESTRI, Sua Maestà, p. 122). Il fatto che la Società Britannica abbia chiesto protezione alla polizia per questo motivo non diminuisce la dimensione ridicola di questa diceria. Già una ventina di anni prima si era diffusa una voce analoga che era stata poi sconfessata. Nel 1976, all’epoca della rottura tra Khan e la Società di Psicoanalisi, era circolata la notizia che Khan proferisse simili minacce, attraverso telefonate, ovviamente, anonime; eppure, come aveva fatto notare uno dei minacciati, Joseph Sandler, si trattava di scemenze da non prendere sul serio, fosse o non fosse Khan l’autore delle telefonate. Della stessa opinione è Stoller
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E’ dunque necessario assumere una rigorosa cautela scientifica nell’accettare la validità dei dati che vengono riferiti da testimoni poco autorevoli o troppo immaginifici e dimostrare un’adeguata elasticità mentale nell’interpretare racconti che potrebbero essere letti, legittimamente, in molti modi alternativi. Testimonianze di questo genere contribuiscono senza dubbio a far prosperare rigogliosamente la leyenda blanca di Masusd Khan superstar e trasformano il nostro eroe in un personaggio da fotoromanzo. Ma sono davvero credibili?62. Allo stesso modo le testimonianze contrarie, di abusi insopportabili patiti da altri presunti pazienti, permettono di sviluppare una simmetrica leggenda nera del tenebroso Principe indiano. Ma sono veritiere? Si pensi al caso di Winne Godley, preso come un oracolo da una lunga schiera di individui che mostrano una commovente fiducia nella sincerità degli esseri umani, ultimi dei quali Gazzillo e Silvestri63.
che afferma: “It became clear that his ravings were not to be taken seriously” (citato in HOPKINs, False Self, p. 301). 62 Esistono dichiarazioni spontanee di examanti di Khan che ne descrivono i costumi libertini con piccanti dettagli. Qualcuna di loro dice di essere stata una sua paziente (?) ed afferma di avere subito questi “abusi” durante le sedute analitiche. Alcune delle loro dichiarazioni sono state pubblicate dalla Hopkins, riportando in modo esteso le loro parole (anche se non integralmente e pur sempre in forma rielaborata). L’aspetto più sconcertante di queste dichiarazioni è che le presunte expazienti di Khan dichiarano esplicitamente di non aver subito alcun “abuso” ed anzi di essere state soddisfattissime del trattamento ricevuto, esplicitamente sollecitato. Così ad esempio quella che viene chiamata “Yasmine” dice: “The sexual connection was always very intense. I ‘ve never felt so comfortable with anyone”. Le fa eco un’altra donna, citata sotto lo pseudonimo di “Caroline”, che afferma che Khan: “ was so attractive...You were always aware of him as a man...He was so sexy; it was as if he was a movie star”. Il compiacimento delle examanti di Khan è tale che la Hopkins è costretta ad affermare: “Caroline reported that she was not traumatized by the sexual relationship with Khan…She seemed to speak sincerely…”(HOPKINS, False Self, p. 310; p. 275; p. 277) Oltre alla piena soddisfazione, Khan garantiva un tale stato di beatitudine alle sue examanti che esse andavano al di là dell’umano: perdevano il senso della realtà e potevano violare ogni limite. Carolina cade dalle nuvole di fronte alla scoperta postuma che Khan era alcolizzato all’epoca della loro relazione e si commuove rievocando rapporti in cui sia lei, sia il suo amante non raggiungevano mai l’orgasmo, per deliberata scelta, ma erano felici lo stesso. Quanto a Yasmine, sin dalla prima seduta balza sulle ginocchia di Khan e incomincia a titillarlo, senza incontrare resistenza, trasformando giocosamente il setting in una partouze perché coinvolge l’allora fidanzata ufficiale di Khan, la fantomatica Margarita che, com’è costume fra gli psicoanalisti, usa assistere alle sedute delle altre pazienti! Il lettore può giudicare da solo l’affidabilità di simili dichiarazioni.
63 GAZZILLOSILVESTRI, Sua Maestà, pp. 123127.
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Godley, dopo aver avuto visioni nelle quali gli appariva tra le nuvole il nome di Khan (non sto scherzando: lo racconta egli stesso) passa a una totale delusione nei confronti del suo Salvatore, che commette abusi di questo genere: osa prendere un calcio nei testicoli dalla Beriosova alla presenza del suo paziente, traumatizzandolo (non sto scherzando: leggete il suo articolo!). Mi rendo conto che secoli di dibattiti teologici nella Chiesa hanno fieramente diviso i cristiani sulla fede nelle sofferenze corporali del Salvatore a dispetto della sua natura divina. Tuttavia un uomo del ventesimo secolo, che non si professa seguace di Basilide, potrebbe accettare senza troppi problemi che i Salvatori, fossero pure Freud, patiscono di persona e non mandano al loro posto una controfigura, come il celebre Simone di Cirene che stava sulla croce mentre il vero Cristo se la rideva tra le nuvole: colpiti nelle parti intime, di solito usano proferire un gemito che, purtroppo, infrange la proverbiale compostezza dell’ analista. Non tutte le denunce di abusi corrispondono a verità. Non si dimentichi che Urbano Grandier fu ritenuto infaticabile amante di tutte le monache del convento delle Orsoline di Loudun perché tutte le monache si proclamarono contemporaneamente vittime di tale abuso, durante una spettacolare crisi di isterismo collettivo. Ovviamente Grandier non era un diabolico Don Giovanni: eppure fu bruciato vivo, dopo uno squallido processo che nascondeva trame politiche, come sanno bene gli spettatori delle celebri opere in cui Aldous Huxley e Ken Russell hanno rievocato l’episodio. Anche all’epoca delle streghe di Salem l’isterismo collettivo ha travolto l’intera popolazione: ed anche in questo caso il pubblico moderno, che ha visto Il crogiolo di Arthur Miller, conosce bene gli effetti della tirannia normotica della società, quella che Bollas ha chiamato, proprio commentando il caso di Salem, “l’innocenza violenta”64. In un’epoca come questa, piena di impostori e di mitomani, 64 Quest’atteggiamento è stato analizzato con sagacia da Christopher Bollas (si veda il suo Essere un carattere. Psicoanalisi ed esperienza del Sé, Roma, Borla, 1995). E’ un fenomeno più frequente di quanto non si creda. Il lettore che non sia accontenta dei cattivi esempi del passato e pretende qualche cosa di più recente ha solo l’imbarazzo della scelta. Citerò due film, molto noti, che raccontano storie realmente accadute: il primo è In nome del padre di Jim Sheridan (1994) ed il secondo è Changeling di Clint Eastwood (2008). In ambedue i casi lo spettatore è costretto ad assistere all’odissea di poveri individui, che finiscono in prigione o in manicomio in seguito ad accuse senza fondamento e subiscono ogni sorta di vessazione solo perché danno fastidio alla società. L’aspetto più stupefacente di queste vicende è che le false accuse, inventate da pochi per screditarli, vengono credute da molti perché è più comodo credere al pregiudizio che formulare un giudizio. Ma basta che la catena di omertà venga
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che abusano di noi attraverso il bombardamento dei mezzi di comunicazione, è curioso che degli studiosi prendano per buona l’innocenza violenta di una schiera di ciarlatani e non abbiano un moto di fastidio quando ascoltano testimoni inaffidabili che descrivono a fosche tinte personaggi tenebrosi degni di figurare in una telenovela65. Come ho già fatto notare nel mio saggio del 2005 esiste una vera e propria “sindrome da falsa memoria” che crea non pochi problemi ai
spezzata, basta che qualcuno cominci a protestare, e subito le montature vacillano, scricchiolano, crollano. Crollano perché l’opinione pubblica finalmente reagisce e mette sotto accusa proprio chi accusava a torto gli innocenti. Viene da chiedersi tuttavia per quale ragione sia stato necessario tanto tempo per scuotersi dalla fascinazione del pregiudizio?65 Questo inquietante fenomeno, in progressiva crescita, ha attirato l’attenzione di molti commentatori, preoccupati dell’involuzione della società occidentale. Tale preoccupazione è largamente condivisa, visto che due libri dedicati a questo tema sono diventati dei veri e propri besteller: il volumetto filosofico di H. FRANKFURT, Stronzate (un saggio filosofico), Milano, Rizzoli, 2005 e il pamphlet, del comico Al Franken, scritto con la collaborazione di studiosi e intellettuali, che si chiama Balle e tutti i ballisti ce le stanno raccontando, Milano, Mondadori, 2004. Frankfurt afferma che in una società come la nostra, nella quale i giornali e la television e cci bombardano di notizie non verificate e ci costringono a reagire senza avere il tempo di accertarci dei fatti, è fatale che abbia successo chi è pronto a dire qualunque cosa che sembri vera in apparenza. E’ questa la “stronzata” ("bullshitt", in inglese). Il filosofo distingue il "dire stronzate" dal semplice mentire. Mentre infatti un bugiardo fa deliberatamente un'affermazione falsa (quindi, conoscendo egli stesso la verità), colui che dice una stronzata ("bullshitter", in inglese) è semplicemente disinteressato alla verità stessa. Chi mente deve conoscere la verità per poterla meglio nascondere o contraffare; il "bullshitter" invece non fa uso alcuno della verità o della nozione di verità. Ne consegue che qualunque forma di argomentazione critica o analisi intellettuale è legittima, e vera, se è persuasiva. Le conclusioni di Franken non sono diverse nella sostanza, anche se il suo volume ha intenti dichiaratamente comici ed è apertamente fazioso sul piano politico. Infatti, pur con questi limiti, ciò che Franken fa osservare è largamente condivisibile nella sostanza: negli ultimi tempi siamo stati sommersi da una valanga di notizie propalate dai mezzi di comunicazione di massa che nessuno ha potuto smentire e che si sono rivelate clamorosamente false, senza conseguenze per chi le ha diffuse. Con l'aiuto di alcuni studenti e ricercatori dell'Università di Harvard, Franken ha letto centinaia di giornali e guardato ore e ore di televisione per illustrare i motivi e i modi in cui chi controlla i mezzi di comunicazione riesce a porre come verità indiscutibili delle vere menzogne. Franken rende note le falsità della destra americana, a partire dalle "mirabili" imprese in Vietnam degli attuali membri del governo, che in realtà non hanno mai combattuto, fino alle armi di distruzione di massa di Saddam, che però non sono mai state trovate.
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giudici e gli psicoanalisti66: a partire da questa sindrome che colpisce singoli individui, associata alle reazioni isteriche di gruppi di persone poco coscienti e troppo suggestionabili, scoppiano scandali senza fondamento e vengono addirittura celebrati processi che si rivelano alla fine inconsistenti, come mostra il caso recente di quella sorta di delirio collettivo su un inesistenti abusi nei confronti dei bambini della scuola di Rignano Flaminio67. Ma oltre alla “sindrome di falsa memoria” esiste anche la malafede vera e propria, che spesso va di pari passo con i falsi ricordi involontari e
66 E. F. LOFTUS, Remembering Dangerously, in “Skeptical Inquirer”, 19 (1995), pp. 2029 La Loftus, che ha una laurea in psicologia ed un’altra in giurisprudenza, ha una lunga esperienza di consulente nei tribunali che le ha permesso di smascherare incalliti simulatori presi sul serio da polizia e magistratura, come Eileen Franklin che nel 1990 a Redwood City (California) arrivò al punto di accusare suo padre George dell’assassinio di un’amica, Susan Kay Neson, dopo vent’anni di silenzio. Le accuse sembravano estremamente fondate, eppure, come la stessa Loftus ebbe modo di scoprire, la realtà era del tutto diversa. La ragazza, che aveva seri problemi psicologici, aveva inventato tutto, nel tentativo disperato di superare il trauma della morte dell’amica che l’aveva profondamente scossa: nella sua mente disturbata il colpevole di questa morte violenta non poteva essere altro che il padre, con il quale aveva un rapporto conflittuale. 67 Non è un caso unico: si pensi ad esempio al caso dei falsi abusi su bambini dell’asilo McMartin in California nel 1982; al caso dei falsi abusi su bambini a Oude Pekela in Olanda nel 1987; al caso, finito in parlamento, dei diciassette adulti accusati di pedofilia e poi scagionati dagli stessi accusatori ad Outreau nel Nord della Francia nel 20042 ; alle false accuse contro due maestre di scuola materna a Mombercelli (Asti); contro tre maestre di scuola materna a Verona; contro gli insegnanti e i bidelli della scuola materna Sorelli di Brescia e gli insegnanti della scuola media di Lucerna San Giovanni (Pinerolo) del 2007. Si vedano su questi argomenti: P. EBERLES. EBERLE, The Abuse of Innocence: The McMartin Preschool Trial, Amherst, Prometheus Books, 1993; D. NathanM. Snedeker, Satan's Silence: Ritual Abuse and the Making of a Modern American Witch Hunt, New York, Basic Books, 1995; B. Rossen, Zedenangst, het verhaal van oude Pekela, Amsterdam, Swets & Zeitlinger, 1989; F. JonkerP. JonkerBakker, Experiences with ritualist child sexual abuse: A case study from the Netherlands, in “Child Abuse & Neglect”, 15 (1991), 191196; F. AUBENAS, La Méprise : l'affaire d'Outreau, Paris, Seuil, 2005; A.L. BARRET P. TRAPIER, Innocents, le calvaire des accusés d'Outreau, Paris, Ed. J'ai Lu, 2006; F. Samson, Outreau et après, la justice bousculéee par la commission d'enquête parlementaire, Paris, l'Harmattan, 2006; E. CERRATO M. COPPERO, Sentenza: assolte le due maestre di Mombercelli , in “La Stampa”, 24/1/2007, p. 55; Tribunale Civile e penale di Verona, Sentenza n. 0000XX/06 R. G. T. C., Data del deposito 30/05/2007; G. SCANZI, La scelta coraggiosa di superare lo sfregio, in "Giornale di Brescia" , 7/4/2007, p. 1; A. GIAMO, Luserna San Giovanni: niente violenze nella scuola dei "satanisti", in “La Stampa”, 27/7/2007, p. 61.
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scatena scandali inesistenti per scopi criminali68 Non mi sembra opportuno incrementare ulteriormente questo genere di scelleratezze abboccando ad ogni amo lanciato dai mezzi di comunicazione di massa. Né mi sembra intelligente ignorare le pubblicazioni che mettono in guardia di fronte a questo tipo di abbagli e alla nuova, sconcertante epidemia psichica di credulità e dabbenaggine che sembra affliggere i nostri contemporanei69.
Appunti sulla biografia di Khan: la necessità del senso storico
In ogni caso, tornando al nostro tema, anche se gli aneddoti più pungenti e pittoreschi su Khan fossero credibili e fossero riferiti da testimoni degni di fede, non si capisce perché lo storico dovrebbe prestare attenzione a dettagli di questo tipo. E’ tramontata da tempo l’età di Plutarco e Svetonio che vedevano nell’aneddoto il solo modo di colmare le lacune della storiografia ufficiale! Molto più significativo, invece, è cercare di stabilire un parallelo tra le presunte sregolatezze di Khan (alcune plausibili, molte inventate) e i costumi dei suoi contemporanei. Gli anni in cui Khan si è formato e affermato sono infatti anni speciali per l’Europa in generale e per la psicoanalisi e la psichiatria in particolare. La Londra di Khan è la Londra dei Beatles e la sua epoca è l’epoca del Sex, Drugs and Rock and Roll. Anche se Khan si tenne sempre fuori con aristocratico disdegno dalle mode e dagli eventi di moda ed anche se le sue posizioni intellettuali non sono certamente connesse a quelle di molti rappresentanti della beat generation, è comunque puerile pensare che la grande rivoluzione
68 Tali scandali raggiungono il colmo dell’assurdità nei casi in cui individui, ingiustamente accusati, scontano per anni pene illegittime con gravi conseguenze personali e familiari, come ha mostrato di recente il caso di un muratore condannato dal famigerato giudice Forno e riabilitato dalle false accuse di violenza sessuale nei confronti della figlia solo dopo anni e anni, grazie allo sforzo dell’avvocato Guido Bomparola (M. MARTINELLI, Padre e figlia, due vite sconvolte in nome del popolo italiano, in “Il Messaggero”, 3/11/2008, p. 12). Peggiore è stato il caso di Giuseppe Papalia, morto suicida per la vergogna di fronte a un ricatto basato su una montatura. Il ricatto era stato organizzato da una parente del Papalia, Teresa Angela Camilla: la donna gli estorceva denaro, minacciandolo di accusarlo di aver molestato la figlia sedicenne, d’intesa con la ragazza (S. CHIOSSO, Paga o diciamo che hai toccata la nostra bambina, in “La Stampa”, 5/12/2008, p. 23).
69 L. E. HEDGES , Remembering, Repeating, and Working Through Childhood Trauma,Jason Arososn, Northvale, NJ, 1994.
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antropologica degli anni sessanta non lo abbia sfiorato, sia sul piano personale, sia soprattutto sul piano professionale. Gli anni in cui lo psicoanalista indiano ha esercitato la sua professione erano anni speciali: speciali per la psicoanalisi e per il resto del mondo. Era l’epoca dell’antipsichiatria70 di Ronald Laing (19271989) e di Franco Basaglia (19241980); l’epoca della contestazione in nome di Herbert Marcuse (18981979) e di Allen Ginsberg (19261997); l’epoca degli eccessi e delle sperimentazioni, nella quale venivano violati tabù con una generosa energia che portava spesso a commettere errori. I presunti “eccessi” della vita di Khan non sono molto diversi da quelli di celebri intellettuali anticonformisti e radicali a lui contemporanei, come Jack Kerouac (19221969), Jean Genet (19101986), Michel Foucault (19261984), Jean Paul Sartre (19051980) e Simone de Beauvoir (19081986)71. Da questo punto di vista andrebbero esaminati anche i casi di ‘violazione’ dei confini tra paziente e analista che vengono imputati a Khan, ammesso che siano veri e non inventati o peggio frutto di
70 R. LAING, L’io diviso, Torino, Einaudi, 1959; T. S. SZASZ, Il mito della malattia mentale. Fondamenti per una teoria del comportamento individuale, Milano, Feltrinelli, 1962; Dialettica della liberazione, a cura di D, Cooper, Milano, Feltrinelli, 1968; L'istituzione negata, a cura di F. Basaglia, Torino, Einaudi ,1968; M. FOUCAULT, Storia della follia nell'età classica, Milano, Rizzoli, 1972; F. BASAGLIA , Scritti 19531980, a cura di F. Ongaro Basaglia, Torino, Einaudi, 198182. Vedi anche Adrian Charles Laing , R.D. Laing: A Biography , Peter Owen Ltd , 1995; M. COLUCCIP. DI VITTORIO, Franco Basaglia, Milano, Edizioni Bruno Mondadori, 2001.71 Si vedano: P. MAHER JR., Kerouac: The Definitive Biography, Lanham, Taylor Trade, 2004; E .WHITE, Ladro di stile .Le diverse vite di Jean Genet, Milano, Mondatori, 1997; J. MILLER, The Passion of Michel Foucault, New York, Simon & Schuster, 1993; C. SEYMOURJONES, A dangerous liaison, London, Century, 2008. Senza andare troppo lontano da Khan, quali costumi descrivevano i films di due registi con cui Khan fu in stretto contatto: François Truffaut e Mike Nichols,? Di che cosa parlava il tenero e struggente Jules et Jim, un film di culto per un’intera generazione, se non di un relazioni anticonformista tra una donna e due uomini? E di che cosa parlava un altro film di culto come Il Laureato se non della scandalosa relazione tra una donna matura e un ragazzo, che sente l’impossibilità di essere normale? Di che cosa parlavano L’uomo che amava le donne o il graffiante Conoscenza carnale, se non della coazione alla promiscuità sessuale del maschio contemporaneo? E di che cosa parlava Comma 22 se non della stupidità farisaica dei tutori dell’ordine e della disciplina, ridicolizzandoli? Se riconsideriamo la presunta “sregolatezza” della vita di Khan alla luce di quanto pensavano i suoi amici e alla luce di quanto era comunemente accettato dalla parte più avanzata della società nel tempo in cui egli viveva, non possiamo che sorridere di compassione di fronte al filisteismo dei perbenisti contemporanei, che si illude di rimuovere dalla storia un intero ventennio.
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fraintendimento72. Il paradosso è che anche quando gli avversari di Khan riconoscono in linea di principio che gli eccessi dell’uomo che detestano sono gli eccessi di un’epoca, ma non ne tirano le dovute conseguenze, dal momento che non applicano con coerenza il metodo storico e si limitano all’impressionismo giornalistico che li rende sensibili alla cronaca, all’immediato, ma non ai fenomeni di media e lunga durata. Caratteristico in questo senso è il Boynton che afferma che le teorie di Khan erano: “in accordo con la cultura sperimentale degli anni sessanta di personaggi come Laing”. Non è possibile affermare che lo psicoanalista indiano era in sintonia con il suo tempo e poi, un attimo dopo, negare che le cose stiano così e affermare che era un depravato. Se viene riconosciuto dagli stessi avversari del Principe che i suoi comportamenti erano “in accordo con la cultura sperimentale” degli anni sessanta, che senso ha continuare a crogiolarsi con le maldicenze sulla sua vita privata attribuendo i suoi comportamenti non agli anni sessanta e ai costumi tipici della sua generazione, ma alla sua sregolatezza personale? Si dimentica forse che all’epoca in cui Khan era attivo, Roland Laing dava la droga ai suoi pazienti sostenendo che era molto più efficace degli psicofarmaci? Si dimentica il terremoto scatenato dalla riforma Basaglia che aboliva i manicomi? Gli anni sessanta e settanta non erano uguali a quelli in cui viviamo. Chi era giovane allora e partecipava ai movimenti più radicali metteva in pratica idee condivise da molti: ammesso che abbia commesso degli errori, bisogna chiedersi se questi sono mancanze individuali o piuttosto fenomeni caratteristici del tempo in cui viveva. Si pensi al caso di un personaggio paragonabile a Khan: il neuropsichiatria romano Marco Lombardo Radice. Lo stile di vita dei suoi anni giovanili, riflesso nel suo bestseller Porci con le ali73, era basato sulla promiscuità sessuale e sul consumo di droghe. Lo stile della sua professione di psichiatra era basato su un coinvolgimento totale con i pazienti, incomprensibile al fariseismo degli zelanti censori delle
72 In questo ambito le regole in vigore oggi sono molto più rigide di quelle del passato. Con i criteri di oggi molti dei più famosi psicoanalisti, da Sigmund Freud a Melanie Klein, da Ernest Jones (18791958) a Donald Winnicott, da Margaret Mahler (18971986) a Sandor Ferenczi (18731933) potrebbero essere giudicati ‘rei’ di aver violato le regole del rapporto tra paziente e analista G. O. GABBARD. E. P. LESTER, Violazioni del setting, Milano, Cortina, 1999, pp. 7998. C’è da chiedersi, comunque, se le regole rigide di oggi siano veramente valide, sempre e comunque, o se non siano a volte frutto di malinteso zelo. Il tema è molto dibattuto tra gli esperti del settore e le posizioni sono radicalmente diverse: vedi ad esempio ibid., pp. 163179.73 L. RAVERAM. LOMBARDO RADICE, Porci con le ali, Milano, Mondadori, 1976.
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violazioni del setting. Eppure, una grande maggioranza di persone e di operatori del settore psichiatrico ha apprezzato la sua attività ed è stata capace di non scandalizzarsi dei suoi eccessi, considerandoli solo una delle manifestazioni di un‘epoca utopica e spontanea, che aveva fatto suo il motto scritto all’entrata della scuola di Barbiana: "I care", letteralmente "Io mi prendo cura".
Appunti per una biografia su Khan: gli ultimi anni
Le eccentricità di Khan non ebbero effetti particolari, al di là del pettegolezzo, fino agli anni settanta. La situazione cambiò dopo la morte di Winnicott nel 1971. Khan entrò da allora in una fase nuova74. Da un punto di vista professionale dobbiamo ricordare il progressivo successo presso il vasto pubblico, con la pubblicazione in volume dei suoi saggi più brillanti (Lo spazio privato del Sé; Le figure della perversione; I sé nascosti75) e il progressivo allontanamento dai suoi colleghi, che culmina con la sua espulsione dalla Società britannica di Psicoanalisi. Tornando alla biografia di Khan, dobbiamo notare che nel periodo di maggior successo inizio anche il suo lento, ma inesorabile decadimento psichico e fisico, contrassegnato dalla comparsa di un cancro che lo costringerà a partire dal 1976 a più di una ventina di operazioni e all’asportazione di un polmone, della laringe e della trachea. Di conseguenza, va registrato un incremento dell’uso ed abuso di alcool,
74 Secondo alcuni Khan avrebbe subito una grande frustrazione per essere stato escluso dalla cura degli inediti di Winnicott (WILLOUGHBY, Masud Khan, pp. 163165.). Queste voci non trovano conferma e sono anzi smentite da testimoni diretti che hanno parlato con Khan a proposito di questo problema, come ad esempio il dott. Andreas Giannakoulas. Secondo quanto mi ha detto il dottor Giannakoulas (6/12/208) dopo la morte di Winnicott Khan avrebbe esplicitamente affermato di “voler essere se stesso” e di volersi dedicare alla pubblicazione dei suoi scritti e non di dedicarsi all’edizione degli scritti altrui, come aveva fatto per anni all’interno della Società di Psicoanalisi Britannica, curando la pubblicazione di molti libri di psicoanalisti. La comunicazione personale del dott. Giannakoulas trova riscontro in affermazioni scritte dello stesso Khan (es: :”Nel 1974... avevo compiuto cinquant’anni: era venuto il momento di essere me stesso” : Trasgressioni, p. 79) . Va inoltre considerato un dato di fatto: i tre libri di Khan per cui egli è universalmente noto sono stati pubblicati dopo la morte di Winnicott.75
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sempre più massiccio in seguito all’inasprimento progressivo della malattia e all’uso ed abuso di farmaci per contrastarne gli effetti. In questa fase contraddittoria Khan non cessa di scrivere nuovi articoli e di intrattenere rapporti con alcuni amici fidati, come Stoller, Smirnoff, Pontalis. Né cessa di creare al di fuori dell’analisi, quadri e collages, che sono ancora inediti ma rappresentano una testimonianza preziosa delle sue capacità artistiche, apprezzate da un grande pittore come Braque, con cui ebbe rapporti di familiarità e di amicizia. Khan non cessa neppure di praticare la terapia con alcuni pazienti, che conservano un grato ricordo delle cure ricevute e che mantengono anche dopo la fine dell’analisi buoni rapporti con lui. Ciò è testimoniato, fra gli altri, perfino dai suoi stessi avversari, come ad esempio la Sandler, che ha dovuto ammettere, nel bel mezzo di un attacco contro lo psicoanalista indiano : “molti pazienti...hanno pensato che Khan abbia loro salvato la vita”76. Questa difficile fase della sua esistenza ebbe una brusca sterzata in peggio dopo la pubblicazione dell’ultimo volume dello psicoanalista, un testo che suscitò molte polemiche e disgustò molti suoi amici e conoscenti. In italiano si chiama Trasgressioni: in inglese si è chiamato nella prima edizione del 1988: When Spring Comes: Awakenings in Clinical Psychoanalysis, London, Chatto & Windus e nella seconda del 1989: The Long Wait and Other Psychoanalytic Narratives New York, Basic Books. Il libro fu accusato di dare una rappresentazione grottesca della psicoanalisi, di essere basato su materiale inventato e di antisemitismo. Come ho avuto occasione di scrivere queste reazioni dimostrano un fraintendimento totale dell’opera e delle intenzioni dell’autore: una lettura frettolosa che si limita al senso apparente del testo77, sconcertante da parte di persone che dovrebbero essere abituate a decifrare il significato latente racchiuso dentro il significato manifesto delle azioni degli uomini. Sulla natura del testo ci orienta sin dall’inizio il sottotitolo: “psychoanalytical narratives”, narrazioni psicoanalitiche. Il termine ‘narrazione’ indica in inglese qualcosa di diverso dal ‘resoconto’ scientifico, per il quale si preferisce la parola ‘account’. Si tratta, dunque, di ‘racconti psicoanalitici’ che partono da una base reale, ampliata e quasi trasfigurata in forma di dialogo drammatico perché scaturisca una verità più profonda. Protagonista del libro non è il vero Khan in carne ed ossa, ma il personaggioKhan, riprendendo una famosa definizione di
76 SANDLER, Institutional, p. 38.
77 TRONCARELLI, Citizen Khan, pp. 201211
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Gianfranco Contini, che parla di Dante come “personaggiopoeta”78 In effetti il dottor Khan che compare nei “racconti psicoanalitici” è un personaggiopoeta che si sdoppia in due individui: uno è il Principe Khan, nato nel Punjab, che rivela dettagli autobiografici; l’altro è lo psicoanalista Khan, che non esiste nella realtà ma che diviene il simbolo della Psicoanalisi, la quale prende la parola per bocca sua. Si tratta di una Psicoanalisi anticonvenzionale e per molti versi discutibile. Ma non si tratta di qualcosa di futile e superficiale. La riflessione di Khan è parallela al processo di revisione dei fondamenti della psicoanalisi freudiana che ha molte manifestazioni negli anni sessanta e settanta, come ad esempio le teorie di Fairbairn e Kohut e lo sviluppo della psiconalisi delle cosiddette “relazioni oggettuali”. Né va dimenticato, su un piano generale, il ruolo svolto dalle contestazioni dell’antipsichiatria nei confronti dell’establishment psichiatrico e psicoanalitico. In ogni caso, qualunque sia il metodo terapeutico di Khan, sarebbe veramente ingenuo pensare che egli dica la “verità” ed esponga con una proba relazione scientifica casi da manuale secondo gli standard della psicoanalisi freudiana ortodossa. Khan scrive “racconti” psicoanalitici che hanno un valore simbolico, allegorico, come delle favole a sfondo morale. Se vogliamo, citando quel Joyce che da sempre è stato un punto di riferimento nella sua vita, Khan scrive mutatis mutandis un equivalente dei Dubliners joyciani: narra storie di “ordinary people” nelle quali avvengono “epifanie”. E’ evidente che i pazienti sono reali e che l’autore riadatta appunti presi durante le sedute terapeutiche. Altrettanto evidente è che il testo rielabora artisticamente le loro esperienze in racconti di finzione, che “mettono in scena” casi significativi per creare parabole esemplari. La messa in scena, pirandelliana, del personaggio dell’autore ha una funzione drammaturgica all’interno dell’azione scenica: egli è solo il deuteroagonista degli individui folli e stralunati che gli si presentano davanti. Non avere capito questo, così come non aver capito la natura eminentemente letteraria del libro, ha fatto sì che molti siano rimasti atterriti da espressioni poco ortodosse e dal tono generale dell’opera. E’ davvero paradossale che i seguaci di Freud prendano alla lettera le
78 G. CONTINI, Dante come personaggiopoeta della Commedia, in Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino, Einaudi, 1976, pp. 3362. Il grande critico afferma che c’è un ‘doppio io’ nella Commedia: uno è il “soggetto di una limitata, definita esperienza storica irripetibile”e l’altro è il portavoce dell’autore “soggetto trascendentale di qualsiasi avventura vitale e conoscitiva”.
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fantasie racchiuse in un testo che ha il carattere di un sogno e credano che veramente il Khan che parla nel libro sia lo stesso Khan che parlava nella realtà. Che direbbero questi severi censori dei dialoghi surreali, degni di Luciano, di uno psicoanalista come Cesare Musatti o dei racconti teneri e ironici di uno psicoanalistanarratore come Stefano Bolognini79? E che direbbero di Freud stesso, che non ha paura di lasciarsi and are alla sua parte letteraria e osa scrivere dialoghi come Il problema dell’analisi condotta dai non medici 80? Certe esagerazioni, certe forzature, il tono sopra le righe di certi passi del libro di Khan sono solo le manifestazioni letterarie di una riscrittura letteraria in chiave espressionistica della psicoanalisi, da parte di una sorta di cavaliere errante della psiche che mette a confronto la sua solitudine nuda e cruda con quella inconsolabile di coloro che giungono alla sua soglia. E’ questa fraternità da disperati, degna della Ginestra di Leopardi, il vero tema del libro. Non la “caricatura grottesca” della psicoanalisi: ma un altro modo di sentire e di ascoltare uomini soli e disperati da parte di un uomo solo e disperato, che provocatoriamente cerca di farsi sentire e di essere ascoltato. Se non bastassero le mie parole, la migliore smentita delle insinuazioni dei nemici di Khan e delle reazioni scomposte di tanti altri è senza dubbio costituita dalle reazioni dei più sensibili pazienti di Khan. Costoro hanno adottato istintivamente un atteggiamento ben diverso dalla tronfia maniacalità e dall’allarmismo paranoico di un Godley, al punto che come ha dovuto osservare il Presidente della Società Britannica di Psicoanalisi nel 2001, Donald Campbell: “benché ci fossero dicerie di comportamenti professionali inadeguati da parte di Masud Khan...nessun paziente o expaziente si è presentato per sporgere formale denuncia”81 Per essere più precisi, come ha scritto Amedeo Limentani: “There are...scores of letters written by grateful patients.”82. Nelle reazioni discrete e affettuose dei
79 C. MUSATTI, Questa notte ho fatto un sogno, Roma, Editori Riuniti, 1986; Id., Il pronipote di Giulio Cesare, Milano, Arnoldo Mondadori, 1987; S. BOLOGNINI, Come vento, come onda, Torino, Bollati Boringhieri, 1999.
80 S.FREUD, Il problema dell’analisi condotta dai non medici, in Opere, 10, Inibizione, sintomo e altri scritti (19241929), Torino, Bollati Boringhieri, 2006.
81 D. CAMPBELL, Lettera al “London Review of Books “, vol. 23, n. 6, 22 Marzo 2001.
82 A. LIMENTANi, Obituary, p. 155.
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pazienti di Khan alle polemiche, nei loro silenzi pieni di ritegno o nelle loro parole misurate di fronte alla smisurata brutalità dei media e dei cacciatori di scandali, essi hanno dato prova di un grande rispetto nei confronti della memoria di un uomo descritto come arrogante e insolente. Il lettore ne vuole una prova? Per convincerlo mi permetto di violare il riserbo che per anni ha dimostrato Eugene Lerner83. Mi permetto di farlo perché oramai egli è morto e non credo di commettere un’indiscrezione nei suoi confronti. E’ lui il paziente ebreo che ha ispirato il personaggio di Luis del racconto Un omosessuale sconcertante del libro Trasgressioni, quello che viene aggredito dal personaggioKhan con insulti che sembrano violentemente antisemiti, quello che avrebbe dovuto protestare più di Godley per i presunti abusi di Khan e invece, rievocando il suo analista osava scrivere un epitaffio con la tenerezza e il pudore con cui si parla ad un amico speciale:
Epitaffiodi Eugen Lerner
“È stato nel settembre del 1981 che mi hai scritto per dire che stavi veramente meglio, in tutti i sensi, e suggerendo che io venissi a Londra tuo ospite, che avresti sinceramente voluto iniziare a lavorare con me sul nostro Incontro Clinico (che definisti come “Reciprocità e Distanza” e “Lotta e Cameratismo”) stabilito insieme e da entrambe le parti. Nella mia vita, mio benedetto Sud, ho commesso due errori che fanno impallidire tutti gli altri. Uno di essi fu il mio rifiuto di accettare il tuo invito e la tua sfida. Ma sebbene non sarà mai scritto con penna e inchiostro, rimarrà per sempre segnato nella mia mente e nel mio cuore. Ti sei assunto il compito di vitalizzare la mia assenza di vita. La cornice per il nostro “Lotta e Cameratismo”, il nostro “Reciprocità e Distanza” non è mai stata spezzata. Questioni analitiche basilari sono state confrontate in una sfera di soffocante silenzio e di accesi scambi, ma
83 Nato nel Nebraska a Omaha nel 1915, scrisse opere teatrali di successo, come il libretto del musical Berlin to Broadway with Kurt Weill. Fu sceneggiatore per la NBC e "story e script analyst" per la Warner Bros e la MGM. Nel 1953 fondo' a Roma la Kaufman Lerner Associates. La KLA ben presto comincio' a rappresentare i piu' noti attori, registi e scrittori del cinema mondiale, da Anna Magnani, ad Ava Gardner, da Ursula Andress a Joan Crawford, da Robert Aldrich a Joseph L. Mankiewicz , da Alain Delon a Frank Sinatra Cfr. H. KAUFMANG. LERNER., Hollywood sul Tevere , Milano, Sperling & Kupfer, 1982.
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raramente ci sono state manifestazioni di disprezzo, o mancanze di rispetto, o stoccate di umiliazione. Ho riflettuto sul nostro “Lotta e Cameratismo”, cosa che credo non ti dispiacerà. La cornice non si è mai rotta, Freud era presente. Poeti, scrittori, pittori, filosofi sono spesso stati invitati a partecipare, Freud era contento della loro presenza, li considerava alleati nel tuo tentativo di soccorso, sostenendo il tuo concetto di arte come aiuto di mente, cuore, spirito, psiche. Non solo mi hai dato altri 32 anni di Vita, ma mi hai dato anche Freud, mi hai dato Te stesso, mi hai dato Me stesso, e anche un meraviglioso corso postlauream in Arte. Attraverso la tua immaginazione, insight, sensibilità e preparazione professionale hai allargato e arricchito la cornice, rinforzandone le fondamenta e aprendola a nuovi orizzonti. E fino ad oggi, fino a questo stesso momento, sento le tue numerose voci, ma è la tua voce di preoccupazione per me (concern), di gesti di dolore, di così delicata tenerezza, modulata tramite sussurri, che rimarrà per sempre come un motivetto confortante che mi accompagnerà fino alla mia dipartita. Sebbene tu sia stato steso a riposare nella tua eternità, non mi hai lasciato, né io ho lasciato te. Rimaniamo amorevolmente uniti nella nostra “Reciprocità e Distanza”, nella nostra “Lotta e Cameratismo”. Come sapevi bene, io non credo nell’esistenza di un Onnipotente. Ma non posso fare a meno, in tuo onore, di esprimere all’Allah in cui avevi fede e al Dio che pregano gli ebrei la mia intramontabile gratitudine per il dono supremo di Masud Khan.” 84
84“It was in September of 1981 that you wrote to me to say that you were again really well in every sense of the word, suggesting that I come to London to stay with you, that you would love to start working with me on our Clinical Encounter (which you defined as “Mutuality and Distance” and “Combat and Camaraderie” ) stated from both sides and together. In my life, my blessed Sud, I have made two errors which pygmatized all my others. One of them was my failure to accept your invitation and your challenge. But while it will never be written with pen and ink, it is forever inscribed on my mind and heart. You saw your task as giving life to my lifelessness. The frame for our “Combat and Camaraderie” , our “Mutuality and Distance” was never breached. Basic analytical issues were confronted within the range of suffocating silence and heated exchanges but there were rarely manifestations of contempt or disrespect or rapier jabs of humiliation.I have phantasies about our “Combat and Camaraderie” which I believe will not displease you . The frame never breached, Freud was present . Poets, writers, painters , philosophers were often invited to attend, Freud pleased by their presence, considering them allies in your rescue effort, endorsing your concept of the arts as succour of mind, heart, spirit, psyche. Not only did you give me 32 more years of Life, but you also
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Il figlio di Allah e il figlio di Jahvé, i due “personaggi in cerca di autore” che si erano scontrati con tanta apparente virulenza nel teatrino messo in piedi nel libro di finzione, furono dunque molto vicini nella vita reale, al punto di frequentarsi, di dare e ricevere inviti, di scriversi, continuando a nutrire affetto reciproco anche dopo la fine dell’analisi, come non può accadere tra un ebreo e un antisemita. Del resto, a ben guardare, anche nel racconto di finzione accade lo stesso, visto che al termine del racconto Khan parla: “del mutamento avvenuto per entrambi del ruolo, del carattere e dell’uso della situazione analitica”85, un mutamento che permette a ciascuno di “apprendere” qualche cosa dall’altro, nonostante gli scontri iniziali. L’esistenza di simili sentimenti e di un simile processo di trasformazione avrebbe dovuto illuminare i censori di Khan e smussarne l’ostilità. Purtroppo, come diceva il grande critico Gianfranco Contini, non c’è nulla di più inedito dell’edito. L’anima di Khan riflessa nel suoi racconti è ben visibile, ma anche del tutto invisibile per chi non sa rinunciare ai suoi pregiudizi: come ha detto Edgar Allan Poe, il “mistero era impenetrabile perché troppo semplice”86. Per colpa di un simile accecamento, in seguito delle polemiche che Trasgressioni suscitò, la Società Britannica decise nell’estate del 1988 di espellere definitivamente Khan dalle sue fila. Lo psicoanalista, ormai molto malato, fu scosso dal provvedimento e minacciò di fare causa alla Società per le indagini che aveva fatto svolgere nei suoi confronti. Sempre più isolato e in difficoltà sul piano fisico, Khan morirà pochi
gave me Freud, you gave me Yourself, you gave me Myself as well as a marvellous postgraduate course in the Arts. Through your imagination , insight, sensibility and training, you broadened, enriched the Frame, strengthening its foundation and opening it to horizons. And to this day , to this very moment, I hear your many voices, but it is your voice of concern, of caress of pain, of tenderness so soft, modulated by whisper, which will ever remain as comforting lullaby to accompany me to my demise.Whereas you nave been laid to rest in your eternity, you have not left me nor have I left you. Lovingly we remain united in our "Mutuality and Distance", our "Combat and Camaraderie". As you knew, I am not a believer in the existence of an Almighty. But I cannot help, in your honour, to express to the Allah you worshipped and the God, to wich we Jews have prayed, my undying gratitude for the supreme gift of Masud Khan.” Il testo è datato: Roma, 10 giugno 1989 (il giorno dopo la morte di Khan). L’originale è custodito presso l’archivio di Andreas Giannakoulas, che è stato amico di Khan e Lerner per molti anni.85KHAN, Trasgressioni, p. 133.86 E. A. POE, La lettera rubata, in Racconti, Milano 2003, p. 221.
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mesi dopo per l’azione combinata del cancro, della cirrosi epatica e di un’ encefalopatia87 il 7 giugno 1989.
Appunti per una biografia di Khan: problemi aperti
Su tutta l’ultima fase della vita di Khan sarebbero necessari studi più approfonditi. Molte cose infatti sono poco chiare e controverse, a cominciare dalla stessa rottura con la Società Psicoanalitica nel 1976 che precede la sua espulsione del 1988. Il pretesto della relazione di Khan con una expaziente, accettato da tutti con disarmante credulità, è infatti molto traballante e meriterebbe un’indagine a sé stante che nessuno osa fare. Limitiamoci a un semplice esercizio di histoire évementielle a partire dai dati offerti dai più agguerriti biografi. In base a quanto essi concordemente affermano non c’è un solo elemento sicuro sulla presunta relazione di Khan che giustifichi l’espulsione. Willoughby ricorda che nel febbraio del 1976 Khan era molto malato per colpa di una bronchite cronica che lo lasciava esausto88. A breve distanza di tempo, il 15 ottobre 1976, i dottori scopriranno che ha un cancro che gli lascia pochi mesi di vita: Khan sarà operato d’urgenza, perdendo un polmone e salvandosi per miracolo, anche se entrerà in una spirale di recidive e di operazioni per i rimanenti anni della sua vita. In ogni caso la sua esistenza ne risentirà: come sa chi ha avuto la sfortuna di vivere simili situazioni, la perdita di un polmone comporta una qualità di vita molto ridotta, al punto che per alcuni medici, in determinate situazioni, l’operazione di resezione è sconsigliata, nonostante il cancro. E’ in questo contesto di debolezza e scombussolamento che la Società di Psicoanalisi decide di attaccare frontalmente Khan. Tale attacco nasce dalla “scoperta” di una presunta relazione dello sfinito rubacuori nonostante i suoi vistosi disturbi con una giovane peruviana, in analisi didattica. Ciò che i biografi non sottolineano abbastanza è che la “scoperta” di tanta esuberanza erotica, inusuale in un malato di cancro al polmone89, dipende non dalle proteste dei vicini di casa di
87 E’ questo ciò che è scritto nel suo certificato clinico, citato da WILLOUGHBY, Masud Khan, p. 238. Hanno dunque torto GazzilloSilvestri che affermano che Khan fu: “ucciso dalla cirrosi, dovuta al suo alcolismo, non dal cancro” (Sua Maestà, p. 122).88 WILLOUGHBY, Masud Khan, p. 190.89 M . E. KURTZ – J.C. KURTZ M .STOMMEL,C.W. GIVEN B. GIVEN, Predictors of depressive symptomatology of geriatric patients with lung cancera longitudinal analysis, in “Psychooncology” 11 (2002), pp. 1222.
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fronte alle performances della coppia tra un accesso di emottisi e l’altro, ma invece dalle accuse senza prove del marito della ragazza, che non sopporta l’idea di essere abbandonato dalla moglie. L’uomo, un peruviano che svolgeva a sua volta un’analisi didattica con Joseph Sandler, convince la psicoanalista Eva Rosendfeld (18921977) a denunciare Khan presso i suoi colleghi. Nessuno,a cominciare dalla Rosenfeld, vuole ammettere che il marito, in quanto parte in causa, può avere torto, nonostante i dubbi iniziali di Sandler e di Hanna Segal. E nessuno sembra voler capire che il vero punto scottante non è la presunta relazione con Khan, ma il distacco della donna dall’uomo, che avviene nell’estate del 1976, indipendentemente dalla presenza di altri uomini e in conseguenza di una lunga crisi matrimoniale durata anni, ben nota a chi conosceva la coppia, come lo psicoanalista peruviano Max Hernández. Per il marito abbandonato l’analista diviene il capro espiatorio. L’uomo riesca a far scoppiare lo scandalo nel giugno del 1976: Khan viene accusato senza alcuna prova dai suoi censori, che credono ciecamente alle lamentele di un individuo che è parte in causa e che dice solo la sua versione dei fatti. Questa credulità non è stata sufficientemente sottolineata dalle biografie di Khan. Eppure, che non ci siano prove è ammesso candidamente dagli studiosi come Willoughby, che confessa di non sapere esattamente l’inizio della relazione di Khan con la sua paziente e di conseguenza, indirettamente, di non poter suffragare le accuse della Società Britannica90. Quanto alla Hopkins, la sua ricostruzione, di cui parleremo tra poco, contraddice esplicitamente le accuse della Società Britannica91. Last but not least: perfino gli accusatori si tradiscono, involontariamente, visto che, dopo aver cercato affannosamente e disperatamente di far ammettere la relazione alla paziente ed altri pazienti di Khan, ricevettero da tutti secche smentite. Ha scritto a riguardo Willoughby: “The Education Committee had been unable to get corroboration of the complaint, either from Mrs E [la presunta amante]…or from other patients and collegues”92. Di fronte a questa mancanza di riscontri oggettivi e di fronte all’accanimento della
90 WILLOUGHBY sostiene che la relazione “probably” era già iniziata nel secondo quarto del 1976 (Masud Khan, p. 193), omettendo dire che se ciò che sa è “probably” non è sicuro, né poteva essere sicuro per gli altri.91 HOPKINS, False Self, p. 290. 92 WILLOUGHBY, Masud Khan,, p. 196.
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Rosenfeld93 (kleiniana ed ostile a Khan) molti psicoanalisti provarono imbarazzo. Eryc Rayner , che in quel momento era segretario dell’Education Commitee, esitò e pur ricordando le passate bizzarrie e prevaricazioni di Khan nei confronti dei suoi pazienti, si schierò con coloro che sostenevano che Khan aveva servito con lealtà la Società per molti anni94. A sua volta Anna Freud avrebbe affermato, amleticamente, che se Khan non veniva cacciato la Società di Psicoanalisi avrebbe avuto molti problemi, ma che la Società avrebbe subito una grande perdita se invece fosse stato cacciato. Ma tutto questo non basta. Interviene un’altra kleiniana, Hanna Segal (che pure inizialmente aveva versato acqua sul fuoco) proclamando di avere prove sull’abuso dei pazienti da parte di Khan, non importa se si tratta di abuso sessuale o di abuso secondo i parametri standard dell’analisi da parte dei kleniani. A riguardo, un memorandum redatto più tardi da P. Daniel (è datato 19 giugno 2001) ricorderà che c’erano state lamentele su Khan da parte di alcuni pazienti che svolgevano analisi didattica con lui95. Alla fine Khan verrà sospeso dalle sue funzioni di docente e analista didattico e si allontanerà completamente dalle attività della Società. Dopo aver trascorso l’estate in Pakistan, poco prima di scoprire il cancro e di operarsi, Khan decide di interrompere l’analisi con la sua paziente. Solo allora, dopo aver interrotto l’analisi con la sua paziente ed averla inviata presso un’altra analista e poco prima dell’operazione, egli inizia pubblicamente un rapporto “sentimentale” con quella che ora non è più una sua paziente, ma una sua expaziente96. Che tipo di rapporto possa stabilire un malato di cancro con una donna giovane e sana è difficile dire: in ogni caso gli amici comuni ai due vengono a conoscere l’esistenza del legame perché la coppia, in atteggiamento di sfida, si mostra in pubblico. Ma siamo tra settembre e ottobre del 1976, alcuni mesi dopo gli scontri con la Società e dopo che la donna ha lasciato tumultuosamente il marito e interrotto l’analisi con Khan. Questa scansione cronologica degli eventi, riferita da amici della coppia, è confermata anche da Linda Hopkins. Secondo la Hopkins, che avrebbe
93 Anna Freud's Letters to Eva Rosenfeld. Peter Heller, acura di G. Bittner –V. Ross. Madison, CT, International Universities Press, 1992; si veda anche la recensione del libro, scritta da Jules Glenn in “The Psychoanalytic Review”, 83 (1996), pp. 295298.94 E. RAYNER, Introduzione a , J. COOPER, Speak, p. XI.95Ibid., pp. 195196.96 Khan non sarebbe stato nuovo ad un comportamento di questo genere: nel 1966 avrebbe avuto un’altra relazione con una sua expaziente, dopo avere smesso l’analisi con lei ed averla fatta analizzare da Marion Milner (WILLOUGHBY, Masud Khan, p. 132).
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avuto le confidenze della donna, la già ricordata Margarita, il rapporto sarebbe iniziato solo in autunno e solo dopo la interruzione dell’analisi, quasi una sorta di provocazione contro accuse senza fondamento. Se pure non vogliamo accettare la versione della Hopkins, a causa delle riserve sul metodo delle comunicazioni personali di cui abbiamo già parlato, dobbiamo comunque osservare che secondo la Hopkins anche lo psicoanalista Amedeo Limentani sarebbe stato testimone di tutto97. Né mancano altri testimoni, se solo si volesse prendere la briga di interrogarli. In ogni caso, comunque siano andate le cose, resta il fatto che la Società di Psicoanalisi non aveva nessuna prova della presunta relazione quando iniziò a procedere contro Khan, perché i sospetti degli accusatori non erano suffragati da riscontri oggettivi. Dietro alla sospensione di Khan ci sono, dunque, motivi ben diversi da quelli che sono stati sbandierati. Di questo si sono resi conto anche i biografi di Khan, che hanno timidamente avanzato qualche ipotesi alternativa agli eventi, senza osare comunque distaccarsi dalla versione ufficiale. Ha detto a questo riguardo la Hopkins: “Many people thought that an antiWinnicott bias was being acted out via Khan; by punishing Khan, the Kleinians were sending a message to Khan’s and Winnicott’s heirs...”98. Quest’opinione sarebbe condivisa da più di un personaggio citato dalla Hopkins tacendo il loro nome: uno di costoro avrebbe sostenuto che: “Masud’s followers were killed off to make sure that he would not leave descendant...”; un altro, pur essendo kleiniano avrebbe detto che: “The committe and the council acted impulsively” e che questo era il frutto della loro: “persecutory anxiety”99. Non so se queste affermazioni siano vere o, per lo meno, non so se siano vere nei termini in cui vengono presentate. A mio parere ciò che è accaduto è più complesso e richiede una valutazione più articolata del semplice giudizio perentorio. E’ senza dubbio vero che esistessero fazioni all’interno della Società Britannica di Psicoanalisi e che vi fossero scontri, a cominciare da quello tra i seguaci di Anna Freud e i seguaci della Klein. E’ anche plausibile che qualcuno abbia pensato di regolare i conti in sospeso con Winnicott attraverso Khan. E’ altrettanto vero, tuttavia, che la Società Britannica di Psicoanalisi non ha “perseguitato” allievi di Khan come Bollas o come Hernández e non ha mai preso ufficialmente le distanze da Winnicott. Dunque, se c’è stata
97 Ibid., p. 284.98HOPKINS, False Self, p. 301 99 Ibid., pp. 300301.
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una manovra da parte di una fazione per screditarne un’altra, il risultato non è stato quello sperato. Il punto è che, nonostante tutto, non si può dire che la “persecutory anxiety” contro Khan sia stata condivisa da tutti, né allora, né in seguito: esponenti di spicco della psicoanalisi britannica, come Amedeo Limentani, Eric Rayner o Pearl King non hanno mai approvato l’acredine di altri contro lo psicoanalista indiano, conservando un ricordo non certo persecutorio della sua attività professionale e della sua stessa personalità. Se leggiamo le rievocazioni della figura di Khan che essi hanno fatto, a distanza di tempo, ci rendiamo conto che pur prendendo le distanze dai suoi comportamenti, essi hanno sempre nutrito affetto e comprensione nei suoi confronti. Valga per tutti ciò che ha scritto Rayner alcuni anni dopo la morte di Khan :”Niente in lui intimidiva, fisicamente o mentalmente: non c'era nel suo tono niente di punitivo o minaccioso….I suoi interventi erano ovviamente di grande statura, erano sempre affascinanti e puntuali. Ricordo la sua generosità e il suo incoraggiamento, che molti analisti hanno dimenticato. Allo stesso tempo, era riconosciuto il fatto che egli fosse uno dei membri di maggior valore della Società, che aveva servito per molti anni, particolarmente come Bibliotecario Onorario, come Vice Direttore Editoriale dell'International Journal of Psychoanalysis e dell'International Review of Psychoanalysis, e come Direttore Editoriale dell'International Library of Psychoanalysis. Coloro che lo ripudiano dovrebbero ricordare la sua devozione, oltre che la sua acuta intelligenza”100. E’ lecito pensare che simili sentimenti fossero condivisi da altri, che però non riuscirono a contrastare l’ostilità della maggioranza dei membri della Società di Psicoanalisi. Per costoro Khan aveva le caratteristiche ideali del capro espiatorio di rabbie e risentimenti di diversa origine: era un personaggio molto diverso dagli altri che si poteva facilmente isolare; proveniva da un altro paese e non aveva molti appoggi come sempre accade agli esuli; era privo di influenti protettori dopo la morte di Winnicott; e soprattutto difetto imperdonabile per i mediocri non esitava in caso di contrasti aperti, di dire apertamente quello che pensava. Attaccare Khan era facile, come è facile per un gruppo di predatori attaccare una gazzella isolata dal branco. Un simile attacco, un simile sfogo di rabbia nascondeva ovviamente anche altre cose, a cominciare dal problema evidentissimo della crisi teorica e pratica della psicoanalisi freudiana. Una simile crisi aveva avuto modo di manifestarsi in vario modo dopo la morte di Freud: negli anni sessanta
100 E. RAYNER, Prefazione a COOPER, Speak of Me, p. 12.
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e settanta, in un’epoca di “contestazione generale” dei valori della tradizione, un simile processo giunse al suo culmine. La revisione dell’opera di Freud e la ricerca di vie nuove portò molti psicoanalisti al di fuori della presunta ortodossia che alcuni volevano imporre, con la conseguenza di scatenare contrasti molto forti. Lo scontro tra la fazione dei seguaci di Melanie Klein contro quelli di Anna Freud101 non fu l’unico episodio di questa tormentata vicenda. Già prima di Khan eminenti psicoanalisti erano stati allontanati in modo molto discutibile: si pensi all’emarginazione di brillanti teorici come Glover102, Rycroft103
e Fairbairn104; si pensi ai pregiudizi e alla malafede dimostrata da Jones nei confronti di Ferenczi e dei suoi seguaci come Balint. La rottura fra Khan e la Società non è stata provocata dalle ragioni ufficiali che sono state addotte ed è solo la punta di un iceberg: l’insoddisfazione nei confronti dello psicoanalista indiano e l’aggressività di molti esponenti dell’establishment psicoanalitico britannico erano già evidenti da prima per idiosincrasia personale e per divergenze teoriche. Ciò che è accaduto è dunque un grave malinteso, provocato dal concorso di un insieme di elementi: l’aggressività di alcuni contro le novità introdotte da Khan; l’incapacità o probabilmente l’impossibilità per altri di contrastare l’azione della maggioranza; l’atteggiamento di sfida di Khan stesso, che dopo un’operazione che lo aveva ridotto molto male sul piano fisico reagiva senza prudenza, in un momento di estrema difficoltà esistenziale.
101 D. KIRSNER, Politics Masquerading as Science: Ralph Greenson, Anna Freud, and
The Klein Wars, in “The Psychoanalytic Revue”, 92 (2005), pp. 907927; vedi anche E. YOUNGBRUEHL, Anna Freud: A Biography, New York, Summit Books, 1988; Ph. Grosskurth, Melanie Klein. Her World and Her Work, New York, Alfred A. Knopf, 1995.
102 P. ROAZEN, Oedipus in Britain: Edward Glover and the Struggle over Melanie Klein, New York, Other Press, 2001; ID., The Controversial Discussions: Edward Glover and the Origins of "DoubleBarrelled Training in “International Forum of Psychoanalysis”, 10, 34, 1 (2001) , pp. 259274.103 C. RYCROFT, Psychoanalysis and Beyond, London, Chatto & Windus, 1985; in particolare p. 206: “The real power in the [British Psychoanalytical] Society belonged to people of whose values I did not approve (...) their ways of conducting business and engaging in controversy were entirely alien to me.”104 J. D. SUTHERLAND, Fairbairn's Journey into the Interior, London, Free Association, 1989.
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Di conseguenza, lasciare intendere che Khan sia stato emarginato per colpa sua, come pure fanno i biografi di Khan nonostante essi stessi ammettano ciò che abbiamo appena ricordato, è scorretto ed ambiguo105. A scanso di equivoci e di illazioni malevole e stupide, vorrei ribadire con forza che non sto cercando di riabilitare Khan e non considero con leggerezza la violazione del setting: voglio solo dire che in questo caso (e in molti altri) Khan è stato accusato di abusi non provati. Inoltre va ricordato che molti autorevoli psicoanalisti pensano che ci sia differenza tra il rapporto con un expaziente e quello con una paziente106. Del resto, l’intero problema delle violazioni del setting suscita non poche controversie e divergenze all’interno della comunità psicoanalitica 107.
Appunti per una biografia su Khan: l’enigma di un crollo Comunque siano andate le cose, resta il fatto che gli ultimi anni della vita di Khan furono tristi, con un progressivo isolamento e una progressiva perdita di controllo e di lucidità. E tuttavia gli storici sembrano non saper cogliere la qualità di questa condizione esistenziale, limitandosi ad una narrazione più o meno inorridita di eventi che non riescono bene a circoscrivere. Gli autori interpretano la decadenza di Khan come risultato di patologie che prevedono continui alti e bassi nell’umore e nello stato di salute, come il disturbo bipolare o la personalità borderline: come abbiamo già detto simili diagnosi sono frettolose e poco fondate.. Inoltre il rimando all’ipotetico disturbo che accompagna Khan per tutta la vita non spiega affatto le ragioni del crollo nell’ultima fase della sua esistenza: infatti sia nell’ambito del disturbo bipolare, sia nell’ambito della patologia borderline i crolli sono episodici ; mentre invece nell’ultima fase della vita di Khan assisteremmo, secondo gli autori che abbiamo citato, a un declino irreversibile che va in un’unica direzione. In sostanza noi non sappiamo che cosa abbia fatto imboccare a Khan la strada senza ritorno del crollo, anche se raccontiamo una serie di fatterelli che evocano i suoi frequenti sbalzi d’umore. Questa ricostruzione della vita di Khan ha solo un valore descrittivo, non nosografico: è solo una
105 Su questo tema si veda S. ARGENTIERI, L’ambiguità , Torino, Einaudi, 2008.106L’eventualità che un rapporto analitico si evolva e si trasformi in un rapporto sentimentale non è certo un caso raro: basti pensari, ad esempio, ai casi di August Aichorn e Margaret Mahler o a Bela Grunberger e Janine ChasseguetSmirgel.107 G. O. GABBARD E. P. LESTER, Violazioni del setting, pp. 163179.
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collezione di aneddoti e di sintomi, che resta senza seguito. Giunti a questo punto, con le spalle al muro, gli autori tirano fuori il deus ex machina del trauma: secondo le presunte confessioni di testimoni diretti Khan crollerebbe per un trauma improvviso, costituito dalla morte quasi contemporanea di Winnicott, che aveva il potere di “imbrigliarlo”108 e della madre. A questi due eventi andrebbe anche collegato il fallimento del matrimonio con la Beriosova. Questo cocktail di sofferenze comporterebbe il “riacutizzarsi” (è questa la parola usata) delle tendenze distruttive di sempre, intrinseche alla sua patologia caratteriale. Spiegare in modo così schematico un episodio di questo tipo è superficiale. Su un fenomeno dalle molte facce e dalle molte cause come il crollo psichico, il cosiddetto breakdown, correlato a diversi disturbi nevrotici o psicotici ed alla psicopatologia dell’adolescenza, esiste una cospicua bibliografia in campo psicoanalitico e psichiatrico109, che non autorizza a interpretare in modo così ingenuo i problemi psichici. Il cosiddetto breakdown nasce da una serie di difficoltà interne specifiche che hanno avuto occasione di manifestarsi molto prima dell’evento acuto 108Gazzillo Silvestri, citano con approvazione (Sua Maestà, p. 94 ) l’opinione di Baljeet Mehra: “Tutto sommato Winnicott sapeva imbrigliare l’energia di Khan e tenerlo sotto controllo” ed aggiungono.” Oltre a contenere gli eccessi del suo discepolo, però forse Winnicott ne aveva in qualche modo anche frenato la creatività, imbrigliandola nella cura della propria produzione teorica e bloccando Khan nel ruolo di allievo: tutti i libri di Masud Khan sono infatti successivi al 1971” (Sua Maestà Masud, p. 95). A parte il fatto che i libri di Khan raccolgono lavori scritti in anni precedenti, come è possibile sostenere che Khan fosse solo un curatore delle opere di Winnicott e un allievo prima del 1971? Basta a smentirlo l’analisi dell’epistolario inedito tra i due psicoanalisti che è ricchissimo di rielaborazioni teoriche daparte dell’uno e dell’altro. La feconda discussione teorica tra i due, come quella di Freud con Fliess o di Goethe con Schiller non permette di distinguere l’allievo dal maestro.109 Citiamo a puro titolo di esempio: S. FREUD, Coloro che soccombono al successo (1916), in Opere,. tr. it., Torino, Boringhieri, 1990, vol. 8, pp. 643650; E. LAFORGUE, L’ échec, Paris, Puf, 1939; H. F. SEARLES, Collected papers on schizophrenia and related subjects , New York, International Universities Press, 1965; M. E. BALINT, La Regressione, Milano, Cortina, 1968; W. R. BION, Trasformazioni. Roma, Armando, 1973; M. EGLÉ MOSES LAUFER, Adolescenza e Breakdown evolutivo, Torino, Boringhieri ,1986; G. C. Zapparoli. La psicosi e il segreto. Torino, Bollati Boringhieri, 1987; A.VV., Fantasie dei genitori e psicopatologia dei figli, Borla, Roma, 1991; P. RACAMIER, Il genio delle origini. Psicoanalisi e psicosi, Milano, Cortina, 1993; G. C. ZAPPAROLI, La realtà psicotica, Torino, Boringhieri, 1994; D. W. WINNIOOTT, Esplorazioni psicoanalitiche, Milano, Cortina, 1995; Quale psicoanalisi per le psicosi?, a cura di A. CorrealeL. Rinaldi, Milano, Cortina, 1997; Psicoanalisi e psichiatria, a cura di G. BertiCeroneA. Correale, Milano, Cortina, 1999.
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e che in ogni caso non si possono “imbrigliare” dall’esterno. Anche ammettendo che la morte di Winnicott e della madre possano avere avuto, come certamente hanno avuto, un effetto traumatico importante per Khan e possano aver rivestito il carattere di episodi scatenanti della sua patologia, i problemi veri sono a monte. La prima cosa da osservare è che in casi simili, le testimonianze dirette e sconvolgenti di celebri personaggi che subiscono un collasso psichico lasciano intendere che l’individuo che crolla è stritolato da un ingranaggio spietato che mette fuori gioco i suoi ripetuti tentativi di reagire: tale ingranaggio non è costituito da un’astorica patologia caratteriale, come nel caso della malattia bipolare o della personalità borderline; e non dipende neppure da un imprevisto cui l’individuo non può sottrarsi. E’ invece un fenomeno complesso, che ha una suo svolgimento e una sua durata e che deriva dal fallimento dell’interazione positiva tra un individuo e l’ambiente. Tale disfatta è la somma di una serie di eventi negativi e di risposte insufficienti della psiche; il frutto di una concatenazione di azioni e reazioni a senso unico; di frustrazioni esterne e inadeguatezza delle difese interne. Per dirla con il lessico di Khan è il risultato di un trauma cumulativo, di fronte alla cui virulenza l’individuo non riesce a sviluppare argini psichici appropriati. 110. Sin dalle sue origini la psicoanalisi ha sottolineato che le difese nevrotiche hanno una sostanziale stabilità perché hanno una profonda ragion d’essere nelle difficoltà strutturali della psiche di ognuno: l’individuo tende a mantere il proprio equilibrio, anche se è instabile, che non varia capricciosamente e che può essere trasformato solo a seguito di un prolungato processo evolutivo111. Dunque, se al contrario della norma e dell’esperienza stessa di chi pratica la psicoterapia, l’assetto
110 I lettori delle Confessioni di Sant’Agostino conoscono bene l’episodio del crollo psichico del santo prima della sua conversione: quest’uomo di successo, che vive da anni con una donna ed ha un figlio resta, per così dire, “incastrato” in una rete complessa di sopraffazioni e ricatti che lo costringono ad scacciare la moglie e abbandonare il suo lavoro e lo lasciano con il cuore “in cancrena” com’egli stesso ammette ( Sull’interpretazione psicologica del ‘caso Agostino”rimandiamo a F. TRONCARELLI, Il ricordo della sofferenza. Le Confessioni di S. Agostino e la psicoanalisi, Napoli, Esi, 1993). In modo ancora più evidente, le “confessioni” scritte negli intervalli di lucidità dal filosofo Louis Althusser dopo l’assassinio della moglie, mostrano una lunga storia di traumi e devastazioni della psiche del filosofo, a cominciare dalla ripetuta serie di inutili elettroschock. subiti in cliniche psichiatriche (F. PETRELLA, Osservarsi dall’abisso: le autobiografie di Louis Althusser, in “Oltrecorrente”, 3 (2001), pp. 115127. Sull’argomento vedi anche G. POMMIER, Louis du Néant. La mélancolie d’Althusser, Aubier, Paris 1998).
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psicologico generale di un individuo muta bruscamente e il suo sistema di difesa si sgretola e si distrugge deve essere accaduto qualcosa di molto più rilevante di un singolo trauma. Come interpretare di conseguenza il crollo di Khan? Se quello che abbiamo detto è corretto, il crollo non può essere il frutto di singoli episodi sconvolgenti, ma va inteso come una frana che deriva da un lungo processo di erosione. Una simile catastrofe è il risultato di una lunga e complessa serie di cause, che vengono sottovalute isolando dal contesto alcuni avvenimenti, certo importanti, ma non indipendenti dal resto. A questo riguardo mi preme sottolineare un punto. E’ strano che venga enfatizzato il significato ipotetico della morte di Winnicott per Khan e non venga sottolineato il significato reale di un trauma molto più forte, ripetuto e ingiustificato: l’ostilità cieca ed il diniego sistematico da parte della comunità psicoanalitica britannica. Solo i suoi più eminenti membri hanno mostrato simpatia, interesse e comprensione per le teorie e la figura stessa di Khan: la maggioranza ha sempre mantenuto nei suoi confronti una profonda diffidenza, alternata a momenti di disprezzo, cui corrispondeva un simmetrico atteggiamento da parte dello psicoanalista indiano. L’apparente sdegno dimostrato da Khan nei confronti dell’odio che gli veniva rivolto non deve ingannarci: come tutti gli emigrati in terra straniera, egli era in una posizione di oggettiva vulnerabilità e la sua espulsione dalla Psicoanalisi ufficiale era una minaccia molto seria. La xenofobia dimostrata contro Khan ha avuto un pesante ruolo nel peggioramento delle condizioni psichiche del Principe indiano. L’opinione pubblica tende a dimenticare che la condizione dell’immigrante è molto difficile psicologicamente e dà luogo forme di disagio profonde112. Alcuni pionieri dell’etnopsichiatria, come Michele Risso113, hanno cercato di affrontare simili problemi con speciali forme di terapia, ma la riflessione sull’argomento è ancora molto lontana da un livello soddisfacente. Un problema di cui non ci si rende conto, ad esempio, è quello della adesione alla società in cui si emigra con una parte compiacente , che nasconde il Vero Sé. Di fronte all’ostilità o all’indifferenza degli xenofobi l’emigrante ha la tendenza ad aderire alla 111 Su questo tema si vedano le interessanti osservazioni di O. F. KERNBERG, Aggressività, disturbi della personalità e perversioni, Cortina, Milano 1994.112 . T. BEN JELLOUN, L’estrema solitudine, Milano, Bompiani, 1999.113 M. RISSO W. BÖKER , Sortilegio e delirio. Psicopatologia dell’emigrazione in prospettiva transculturale, a cura di V. LanternariV. De Micco G. Cardamone, Napoli, Liguori 1992.
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società in modo imitativo, cercando di adattarsi nello stesso momento in cui sente montare in sé la rabbia per il rifiuto della sua identità. In questo modo la sua identità è divisa tra un’accettazione che è spesso solo una recita a beneficio dei pochi che non lo rifiutano e una collera contro coloro che gli si oppongono. Questo conflitto spesso esplode in clamorose crisi di rigetto, che distruggono l’identità fittizia dell’emigrante, ma anche, purtroppo la sua parte costruttiva, come mostra in modo esemplare il clamoroso “tradimento” del regista Elia Kazan nei confronti dei valori o pseudovalori democratici americani della sua giovinezza, unico argine a una rabbia cieca contro l’ostilità degli statunitensi114. L’aristocratico venuto dal Punjab, in esilio nella Inghilterra postcoloniale, dura, autoritaria e razzista, ha provato in modo del tutto speciale la stessa rabbia e lo stesso disagio che provano ancora oggi gli emigrati pakistani in Inghilterra, soprannominata DashteTanhali, cioè: il deserto della solitudine115. La loro condizione è stata efficacemente descritta da autori di origine pakistana, come Hanif Kureishi e Nadeem Aslam, in opere come il Budda delle periferie 116 (Milano, Mondadori 1990), Londra mi uccide (Milano, Anabasi 1993), My
114F. TRONCARELLI, Anatolian Smile in http://www.inpsy.gr/Articles/Fabio%20Troncarelli%20%20Anatolian%20Smile.htm Vedi anche Id., Ripensando “America, America” di Elia Kazan in “Eidos”, 6 (2006), pp. 69.115 L’espressione ricorre nel libro Mappa degli amanti smarriti di Nadeem Aslam, molto critico nei confronti dei pakistani stessi, che vivono in un ghetto isolandosi dalla realtà. Non è facile però, al di là delle belle parole e delle critiche degli intellettuali, uscire dai ghetti che gli emigranti trovano pronti quando arrivano: la clasutrofilia di chi è desidera solo restare nel ghetto è solo l’altra faccia della xenofobia che costringere a vivere nel ghetto.116 L’esordio del romanzo è significativo : “Sono un vero inglese, più o meno. La gente mi considera uno strano tipo di inglese, come se appartenessi a una nuova razza, dal momento che sono nato dall’incrocio di due vecchie culture. A me però non importa, sono inglese (non che la circostanza mi riempia di orgoglio), vengo dalla periferia a sud di Londra e sto andando da qualche parte. Forse è stato lo strano miscuglio di continenti e sangue, un pezzo qui e uno là, l’avere un senso di appartenenza e il non averlo, a rendermi una persona irrequieta, che tende ad annoiarsi facilmente. O forse è stato il fatto di essere cresciuto in periferia. Comunque sia, perché risalire a delle cause quando era evidente che ero in cerca di guai? Volevo movimento, cercavo occasione di azione, opportunità di esprimere la mia curiosità sessuale e questo perché l’atmosfera in casa mia era opprimente, tetra e noiosa, e il tutto senza un vero motivo. A essere franco, era una situazione che mi deprimeva così tanto che ero pronto a qualsiasi cosa.".
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beautiful laundrette (Milano, Anabasi 1994) e Mappa per amanti smarriti (Milano, Feltrinelli, 2006). Di una simile contraddizione Khan parla esplicitamente ed i suoi biografi, non hanno mancato di metterlo in evidenza, ricordando tra le altre cose le parole di una lettera a Stoller del 1964, nella quale Khan ricorda il suo arrivo a Londra in questi termini: “Ero un completo straniero, strano nel mio modo di vivere, eccentrico, arrogante…I miei coetanei mi trattavano con un misto di scherno e divertimento. Ero isolato e ostentavo al mia solitudine come una modalità di esistenza superiore ed elevata. Gran parte di questo atteggiamento era un bluff, per me snervante e doloroso117.”. Se questo è vero ed è riconosciuto dagli stessi biografi di Khan, com’è possibile poi dimenticare improvvisamente questa condizione di disagio permanente e parlare del peggioramento delle condizioni di Khan solo in conseguenza della morte di Winnicott, l’unico che sapesse “imbrigliarlo”? In base a quanto abbiamo affermato si può pensare che la morte di Winnicott abbia avuto un altro significato: non solo la morte di una figura indubbiamente paterna, ma soprattutto la morte di un alleato che poteva aiutarlo e proteggerlo dall’ostilità di molti colleghi. Analoghe considerazioni vanno fatte a proposito del fallimento del matrimonio con la Beriosova. Limitarsi ad aggiungere questo episodio ad altri avvenimenti infausti nella vita di Khan non ci aiuta a capire il suo significato. Non ci aiuta a comprendere che per Khan si trattava del secondo matrimonio, in un’età in cui era poco probabile pensare ad un terzo; che la frustrazione della sofferenza personale si sommava con quella del fallimento dell’etica familiare dell’aristocrazia del Punjab, basata sulla necessità di una prole; che tutto questo si sommava con la frustrazione “professionale” di non poter dare a una persona che si ama lo stesso aiuto che era in grado di dare ai pazienti, visto che la Beriosova era alcolizzata118 e disperata. In un solo episodio della vita privata di un
117 GAZZILLO SILVESTRI, Sua Maestà, p. 32; WILLOUGHBY, Masud Khan, p. 38.118 Molti testimoni hanno affermato che Khan incominciò a bere seguendo l’esempio della moglie. Anche la Hopkins accetta questa tesi. Non so se questa spiegazione semplicistica sia vera. E’ strano tuttavia che nessuno noti che se fosse vera il comportamento di Khan indicherebbe un tentativo distorto di fusione con la moglie anche nel male e un commovente tentativo di liberarla dalla sua dipendenza appropriandosene. Khan simile a un Christus patiens, prenderebbe su di sé le colpe degli altri. Se si accetta quest’impostazione, parlare del fallimento del rapporto con la Beriosova solo in chiave anedottica è veramente superficiale.
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uomo fragile e pieno di conflitti, si sono concentrate diverse componenti, che premevano da diverse angolazioni in senso distruttivo sviluppando un’azione a effetto retroattivo; così come in un solo episodio della sua vita professionale, l’espulsione dalla Società di Psicoanalisi, si sono concentrate spinte analoghe che avevano un analoga dimensione di Nachträglichkeit.
Appunti per una biografia su Khan: cancro e alcolismo
Bastano solo queste banali osservazioni per comprendere che il cosiddetto crollo di Khan debba essere interpretato, al pari di quello di altri personaggi, come il risultato di uno sgretolamento progressivo ad opera di un ingranaggio spietato: un fenomeno di lunga durata e di ampio raggio, che incide in diverse direzioni e non lascia scampo. Il progressivo sviluppo della componente distruttiva di Khan è stato stimolato da una lunga serie di sofferenze psichiche che hanno attivato reazioni inadeguate fino al punto in cui, lentamente, ma inesorabilmente, la parte distruttiva si è impadronita della psiche della sua vittima, espropriando le altre componenti. Non è possibile, dunque, invocare il “riacutizzarsi” di un’atavica maledizione, sempre oscuramente presente sin dalla nascita come una spada di Damocle; e neppure immaginarlo come l’effetto di un unico trauma imprevisto e improvviso. Il fallimento di Khan è piuttosto lo smantellamento graduale e la definitiva sconfitta di un sistema che funzionava, bene o male, a modo suo e che viene minato, a poco, a poco, in conseguenza di una sovradeterminazione di spinte e tensioni molto diverse tra loro. Solo alla fine di questo processo possiamo postulare un vero e proprio sisma che colpisce un’edificio già da tempo pericolante. Ma questo evento non avrebbe avuto il carattere catastrofico che ha avuto se fosse stato solo una ferita, pur gravissima, dell’Io, come il lutto per la perdita di una persona cara o uno shock particolarmente doloroso. In realtà perché ci sia un colpo di grazie di questa portata è necessario che esso colpisca non l’Io, ma il Sé: la base stessa della vita interiore, alle sue radici. In che cosa consiste questa scossa di terremoto? Ci sembra opportuno sottolineare l’importanza di due scosse telluriche, che hanno uno sviluppo progressivo devastante e che hanno certamente influito nell’involuzione della personalità di Khan: la presenza del cancro, con il suo strascico doloroso di ripetute operazioni e menomazioni e il conseguente sviluppo in modo inarrestabile di una dipendenza
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dall’alcool, che non era fino a quel momento così marcata119. Questi due aspetti vengono sottovalutati dai biografi e dai critici di Khan. E’ strano che nel tentativo di spiegare il crollo psicologico degli ultimi anni della vita dello psicoanalista non venga data l’adeguata importanza a due fatti estremamente gravi, a due moltiplicatori di patologia, molto più significativi della morte di Winnicott e della madre di Khan: solo uno psicoanalista del calibro di Bollas ha fatto notare l’importanza della devastazione fisica subita da un uomo come Khan, che aveva una vita sportiva intensa e teneva particolarmente al suo aspetto120. Ma un fatto del genere non può essere sottovalutato. E’ ben noto agli operatori nel settore, che un individuo, afflitto da un cancro, che divenga preda dell’alcool, possa non avere il pieno possesso delle sue facoltà mentali e subire un crollo con effetti prolungati, che corrisponde pienamente al cosiddetto crollo di Khan. In queste condizioni è normale che l’individuo possa regredire ad uno stadio nel quale vengono annullate tutte le conseguenze benefiche di lunghe analisi e di fecondi incontri con grandi psicoanalisti. E’ questa l’elementare verità che dobbiamo saper riconoscere senza andare fantasticando sulle patologie del Principe indiano. Come è possibile scrivere pagine e pagine sul presunto fallimento dell’analisi di Khan con Winnicott e sulle sue patologie caratteriali, refrattarie ad ogni terapia121, ignorando o sottovalutando gli effetti devastanti del cancro e 119 Sia la Hopkins (False Self, p. 236; 248), sia Willoughby (Masud Khan, p. 181) sottolineano che i primi veri eccessi di Khan nell’uso di alcool risalgono agli anni 19721974, in diretta connessione con uno stato depressivo legato alla crisi del rapporto con la Beriosova che sfocerà nel divorzio. In questa fase, in ogni caso, non siamo ancora di fronte ad una autentica dipendenza e l’alcool poteva essere bandito per lunghi periodi dalla mensa di Khan (cfr. ad esempio WILLOUGHBY , Masud Khan, p. 189 che afferma che nel 1975 Khan restò per un anno intero senza bere alcool) e riapparire in coincidenza con eventi particolarmente traumatici come la rottura con la Società di Psicoanalisi (Ibid., p. 195). Non va comunque dimenticato che in questo stesso periodo, tra la fine del 1974 e 1975, Khan aveva già le prime manifestazioni del cancro ai polmoni che si manifesterà nel 1976: soffriva infatti di bronchiti croniche che gli provocavano veri e propri incomprensibili e inquietanti “breakdown psicosomatici” (WILLOUGHBY , Masud Khan, p. 182).120 C. BOLLAS, Obituary: Masud Khan. Portrait of an extraordinary psychoanalitic personality, in “The Guardian”, 26 giugno 1989, p. 39.121 Si vedano gli articoli già citati alla nota 13: HOPKINS, D. W. Winnicott’s analysis of Masud Khan; MCCARTHY, Disillusionment and Devaluation. Parlare di Khan come una personalità disturbata o di uno psicotico è superficiale e scorretto. Il Principe indiano era senza dubbio un uomo pieno di problemi e si comportava a volte in modo eccentrico, dando prova di egocentrismo e narcisismo. Ha avuto, soprattutto nell’ultima
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del conseguente alcolismo sulla sua psiche? Khan poteva fare l’analisi anche con Freud in persona e non riuscire ad adattarsi all’improvvisa manifestazione della malattia terminale (come migliaia di altri sventurati nelle sue condizioni) o a debellare la sua dipendenza dall’alcool, che l’insorgere del cancro ha stimolato e rinforzato. Ambedue le patologie producono infatti conseguenze molto difficili da fronteggiare, che si rafforzano l’una con l’altra. L’angoscia di dover morire improvvisamente, che stimola il bisogno di stordirsi per non pensare alla morte (divenendo sempre più dipendenti dall’alcool, con tutte le conseguenze del caso) e lo stato di prostrazione derivato dalla malattia e dalle sue cure, come la chemioterapia e tutte le altre sostanze influiscono pesantemente sulle difese dell’organismo. Come ci possiamo stupire se un individuo in queste condizioni è ridotto in uno stato pietoso?
fase della vita, un crollo psichico con vistose conseguenze. Ma da qui a dire che avesse da sempre una grave patologia, mascherata da apparente normalità, ce ne corre. Anche perché, se fosse stato solo uno sventurato in preda alla sua malattia mentale che cerca di dissimulare i suoi problemi, sarebbe molto difficile spiegare l’esistenza della sua parte costruttiva: la sua creatività e le sue brillanti doti di scrittore e di psicoanalista sarebbero in sostanza solo la maschera dei suoi disturbi. Di fronte a quest’obiezione i biografi di Khan non sanno che cosa rispondere: o ignorano il problema oppure, come la Hopkins, rinunciano a capire e affermano che Khan era un “paradosso vivente” e le sue contraddizioni si spiegano pensando alla sua natura paradossale. Il paradosso non è la personalità di Khan: è il fatto che sedicenti psicologi non sappiano distinguere un uomo con dei problemi da uno psicotico, né mostrino di saper differenziare i comportamenti di chi ha subito una “deprivazione affettiva” da quelli di un malato di mente. Una lunga schiera di psicoanalisti, da Erikson a Winnicott, ha insistito con argomenti autorevoli sulla differenza tra l’identità negativa e la vera e propria psicosi: non è molto difficile estendere la durata di simili manifestazioni al di là dell’adolescenza, soprattutto quando si vive negli anni di Gioventù, amore e rabbia in cui Khan è vissuto. E soprattutto se l’ambiente esterno e in particolare l’ambiente di lavoro, formato da colleghi che sono inizialmente rispettati e ascoltati, rinforza di continuo l’odio coattivo, criminalizzando ogni comportamento che non sia compiacente e imprigionando chi non si adatta entro il “doppio legame” della coazione ad essere sé stesso a patto di non essere sé stesso. Come ha evidenziato Bateson e ha ribadito in modo efficace Searles, la manipolazione dell’altro attraverso il “doppio legame” fa “impazzire” in un modo assai diverso dal crollo attribuibile a deficit neurologici o a conflitti intrapsichici. Se dunque un ribelle vulnerabile e problematico come Khan viene fatto “impazzire”, come fa Jago con Otello, dall’ostilità di un ambiente che prima lo attira e poi lo respinge e che alterna un morboso interesse e un fobico rifiuto, non possiamo definire la sua reazione rabbiosa (apparentemente distruttiva e di fatto autodistruttiva, come in Otello) nei termini di una psicosi.
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Comunque non voglio appellarmi a quel minimo di pietà che pare non essere più prerogativa degli esseri umani in un mondo come quello in cui viviamo. Mi limiterò ad osservare che prendere sottogamba la patologia specifica del tossicomane e le problematiche inerenti alla malattia terminale è una dimostrazione di inaffidabilità professionale. Il fatto che nei testi di Willoughby, Hopkins e GazzilloSilvestri ci siano molte pagine dedicate alla narrazione di episodi che mostrano l’alcolismo di Khan o sulla sua malattia non assolve questi autori dall’accusa di avere sottovalutato la tossicodipendenza e il cancro di Khan: questi fenomeni sono infatti raccontati in modo anedottico, senza tirarne le dovute conseguenze, ed invece devono diventare la chiave di volta per spiegare il suo presunto crollo psichico, altrimenti non serve a nulla parlarne122. Il colmo da questo punto di vista è raggiunto dalla Hopkins che pur citando il parere dello psicoanalista Georges Allyn, che sosteneva che la malattia di Khan “was not psychosis as the gossipers were saying – it was alchoholism” e pur essendo consapevole dei “current writings on psychological problems that predispose a person to addiction”, finisce con l’insinuare che: “Kahn’s alchoholism was part of an underlying bipolar illness”123 Un simile giudizio non è corretto ed è smentito oltre che dal buon senso, anche dalla bibliografia più recente sui rapporti tra psiche, tossicodipendenza e malattia terminale in chiave psicoanalitica124.
122 Si veda ad esempio quello che scrivono Gazzillo Silvestri: “ L’abuso di alcol pur essendo in ultima istanza un atto autodistruttivo, potrebbe aver avuto l’effetto temporaneo di allentare il senso di colpa e la disperazione, promettendogli un’illusione di controllo sui propri stati interiori...Nel 1977 aveva fatto la sua ricomparsa anche (sic!!!) il cancro, che in un primo tempo sembrava eliminato con l’asportazione del polmone sinistro: Khan avrebbe lottato con la malattia fino alla morte...subendo l’asportazione della la trachea e della laringe senza mai lamentarsi” (Sua Maestà, p. 194).123 HOPKINS, False Self, pp. 260261.124 Per quanto riguarda i rapporti tra tossicodipendenza e ricerca in campo psicologico rimandiamo a Le dipendenze patologiche. Clinica e psicopatologia, a cura di V. CarettiD. La Barbera, Milano, Cortina, 2005. Vedi, inoltre: M. DE ROSA – C. PIERINI C. GRIMALDI , Alcolismo: analisi del craving, Milano, Franco Angeli, 2005; A. Nettuno, Il lavoro terapeutico di gruppoLa tossicodipendenza tra costruttivismo e psicoanalisi: un approccio integrato,. Milano, Franco Angeli, 2003; ed i manuali di D. SCARSCELLI, Trattato completo degli abusi e delle dipendenze, a cura di U. ZizzoliM. Pissacroia, Padova, Piccin, 2003; P. E. Di Mauro – V. Patussi, Dipendenze. Manuale teoricopratico per operatori, Roma, Carocci, 1999. Per quanto riguarda i rapporti tra psiche e malattia terminale si vedano: Assistenza psicosociale al malato terminale, a cura di C. Garfield, Milano, McGraw Hill Italia, 1987; Psychological Aspects of Serious Illness, a cura di P. Costa G. VandenBos, Washington, DC., American Psychological
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Tale riflessione, ispirata a diversi modelli interpretativi, ci mostra due cose. La prima, per quanto concerne l’alcolismo è questa: l’alcolismo è un fenomeno a sé stante, una patologia autonoma, che nasce da una predisposizione neurologica e da una serie di motivi psicologici (più o meno fondati) comuni a diverse forme di disagio psichico. Non è affatto un tipico sintomo alcuna patologia specifica. La depressione e il senso di sofferenza di chi comincia a bere non sono determinate specificamente dalla patologia bordeline o dalla patologia bipolare. La profonda insoddisfazione e la depressione di un individuo possono avere mille cause, perfino la semplice incapacità di affrontare il disagio esistenziale comune a tutti gli esseri umani o il lutto o un dolore fisico insostenibile. L’alcool rende euforici e funziona in apparenza in senso egosintonico e antidepressivo, perché attutisce temporaneamente la sofferenza. Una simile proprietà può favorire un’inclinazione eccessiva verso l’alcool, che tuttavia non è ancora una vera dipendenza. Tuttavia se l’individuo varca la soglia di guardia per effetto di un peggioramento della sua esistenza, una ferita narcisistica che lo induce a cercare più di prima una consolazione negata dalla realtà, si apre la strada della dipendenza e dell’abuso di alcool: una spirale psicosomatica dalla quale è molto difficile uscire125. La seconda cosa che si ricava dagli studi più recenti a proposito della malattia terminale è questa: durante la malattia l’individuo non è più lo stesso di prima e attraversa una complessa fase di trasformazioni psichiche, che non permettono di ritrovare in lui sic et simpliciter le caratteristiche precedenti la malattia126.
Association, 1990; K. R. EISSLER, The Psychiatrist and the Dying Patient, New York, International Universities Press, 1995; Psicologia e oncologia, a cura di F. Mererwein, Torino, Boringhieri, 1996; G. MORASSO Cancro: curare i bisogni del malato, Roma, Il pensiero Scientifico, 1998.
125 L'alcool produce uno stato tossico generale dell'organismo, accompagnato da una situazione di deficit dovuta sia a insufficiente apporto alimentare per inappetenza, sia a riduzione dell'assorbimento e dell'utilizzazione degli alimenti introdotti. Gli effetti sono di tipo cumulativo e comprendono una vasta gamma di disturbi fisici. A livello psichico, l'alcolismo è caratterizzato da un progressivo decadimento delle facoltà intellettive e dalla perdita di freni inibitori. Caratteristiche sono l'aggressività dell'alcolista e la grande labilità del suo umore. Dopo un lungo periodo di abusi può insorgere il delirium tremens, grave sindrome, talvolta fatale, che si manifesta con stato confusionale, allucinazioni e tremori, e che può essere indotta anche dall'astinenza dall'alcool.
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La conseguenza di queste nostre osservazioni è semplice. L’incubo di dover morire a causa di un cancro che si manifesta ripetutamente e comporta ripetute operazioni ha costituito per Khan un incremento a bere per stordirsi e dimenticare la sua angoscia127, trasformando un’inclinazione già presente, ma non ancora vistosa, in una dipendenza impossibile da fronteggiare. Di conseguenza Khan, nell’ultima fase della sua vita, non è stato più lo stesso uomo di prima ed ha avuto comportamenti progressivamente distruttivi e autodistruttivi, quasi
126 Paolo Migone In un interessante articolo (Che cosa si dice a un paziente terminale?, in “Il Ruolo Terapeutico”, 73 (1996), pp. 4045) riassume così il fenomeno: “E. KüblerRoss nel 1969 [La morte e il morire, Assisi, Cittadella, 1979] ha fornito un modello per descrivere il decorso del paziente quando apprende di essere affetto da una malattia terminale. Questo modello è basato su cinque stadi successivi: 1) negazione, 2) rabbia, 3) contrattazione, 4) depressione, e 5) accettazione. Questi stadi possono succedersi in un ordine diverso e non necessariamente come entità separate. S.E. Nichols (Emotional aspects of AIDS: implications for care providers, Journal of Substance Abuse Treatment, 1987, 4: 137140) descrive il decorso psicologico dopo la consapevolezza dell'infezione da HIV e propone un modello più semplice...: 1) Una prima fase spesso caratterizzata da negazione. 2) Una seconda fase chiamata "transizionale" nella quale la negazione lascia il posto ad emozioni forti ed alternanti quali rabbia, paura, terrore, depressione, ecc. In questa fase vi è una certa disponibilità all'intervento terapeutico ma anche pericoli di suicidio. “ . Il rapporto con questi pazienti è molto problematico. Ha scritto a questo riguardo Paolo Migone: “Quando si parla della morte è difficile farlo in modo appropriato, tanto che forse è preferibile tacere, proprio come a volte il modo migliore con cui possiamo testimoniare la nostra partecipazione a un amico che ha subìto un lutto è quello di stare per un po' in silenzio accanto a lui; ogni nostra parola può non essere all'altezza della complessità e della delicatezza dei sentimenti che lui può provare. La morte è uno dei fenomeni meno comprensibili e meno immaginabili... L'inquadramento teorico generale che ritengo più utile è quello di considerare la preparazione alla morte come un importante "evento di vita" (life event), cioè una di quelle situazioni destinate a provocare grosse ripercussioni nell'equilibrio psicologico del soggetto.“. La cauta premura proposta da Migone è consonante con il flessibile pragmatismo e con l’intelligenza critica che deve avere lo storico che si occupa con equilibrio e con distacco della ricostruzione della vita di un uomo minato dal cancro. Questa consonanza spontanea tra metodi diversi nasce da un eguale rispetto per gli esseri umani.
127 E’ possibile addirittura affermare che il cancro al polmone favorisca da un punto di vista puramente fisico la necessità di bere alcool, come afferma la stessa Hopkins, senza tuttavia tirare le necessarie conclusioni da questa osservazione : HOPKINS, Masud Khan, p. 288: “ He had cancer…The dipsomania [di Khan] now made sense: it is a symptom that occurs in certain cases of lung cancer, when hormones are released that affect the body’s waterelectrolyte regulation”.
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anticipando la morte imminente con un annientamento quotidiano128. Se vogliamo intendere un individuo dobbiamo saper ricostruire la sua vita con rispetto, senza i pregiudizi moralistici del fanatismo. Un rispetto che permette di accostarci alla realtà con laica tolleranza, senza cercare a tutti i costi eretici, nemici della Chiesa che ci illudiamo di aver fondato, capri espiatori per esorcizzare la nostra angoscia.
128 Non è questo un caso unico tra psicoanalisti e psichiatri: vittime di una sorta di malattia professionale, molti di coloro che si dedicano a curare le sofferenze degli altri sembrano ammalarsi per il contagio di tali sofferenze, come è avvenuto a Roland Fairbairn, vittima dell’alcolismo in seguito a una profonda depressione, o come è avvenuto a Victor Tausk, suicida nel 1919 in seguito a una drammatica vicenda, che coinvolse in varia misura Helen Deutsch, Lou Andreas Salomé e lo stesso Freud.
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