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ASPETTI FISIOPATOLOGICI DELL’ALLENAMENTO IN ALTITUDINE ED ESPERIENZE DI STAGES “IN QUOTA”. AUTORI : Enrico REGGIANI Medico dello Sport (già Membro del Consiglio Nazionale FMSI) Ex- Direttore Scuola di Specializzazione in “Medicina dello Sport” -Università di Genova Ex-Presidente della storica Società atletica Trionfo Ligure Fabrizio ANSELMO Tecnico specialista Mezzofondo e Docente in Educazione fisica e motoria Laureato in Scienza e Tecnica delle Attività fisiche e sportive-UN. BORGOGNA-Digione Maitrise in “Ricerca scientifica e prestazione” ABSTRACT Per molti mezzofondisti e fondisti, l’allenamento “in quota”continua ad essere una “pratica” periodica vissuta con “applicazione e dedi zione”. La ricerca scientifica ha ormai definito in diverse settimane l’adattabilità dei meccanismi di compenso del nostro organismo per “ottimizzare ” uno stage di allenamento in altitudine. Le varie esperienze di stage” compiute negli anni , rappresentano comunque un modello di confronto ed una sorta di “archivio storico” per successive comparazioni e correlazioni. PAROLE CHIAVE : allenamento, altitudine, bio-climatologia, acclimatazione, deacclimatazione INTRODUZIONE Studi specifici sugli aspetti fisio- patologici dell’allenamento in altitudine, vennero intrapresi seriamente solo quando la Città del Messico (2300 mt s.l.m.) ottenne l’organizzazione dei Giochi Olimpici del 1968. In verità, testi e riviste specializzate, con trattazioni sui principali aspetti inerenti le baropatie, erano censiti già da tempo. Fu tuttavia l’occasione di questa imponente manifestazione che richiamò l’attenzione di tecnici e medici sportivi sui problemi relativi l’acclimatazione alle medie altitudini e, soprattutto, al training svolto in determinate circostanze ambientali. Vennero effettuate numerose ricerche per risolvere due quesiti fondamentali : quanto sarebbe variata la performance atletica in altitudine e quale fosse il periodo ottimale di acclimatazione per conseguirvi il miglior risultato sportivo. In seguito a queste esperienze, condotte per lo più in centri di allenamento “montani” (St. Moritz, Colorado Springs, Font Romeu, Macolin, Livigno, Sestrière, ecc.), alcuni ricercatori compresero che era possibile migliorare le prestazioni compiute in pianura dopo un soggiorno di allenamento in altitudine.

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Page 1: Allenamento in altitudine

ASPETTI FISIOPATOLOGICI DELL’ALLENAMENTO IN ALTITUDINE

ED ESPERIENZE DI STAGES “IN QUOTA”.

AUTORI :

Enrico REGGIANI

Medico dello Sport (già Membro del Consiglio Nazionale FMSI) Ex-Direttore Scuola di Specializzazione in “Medicina dello Sport”-Università di Genova

Ex-Presidente della storica Società atletica Trionfo Ligure Fabrizio ANSELMO

Tecnico specialista Mezzofondo e Docente in Educazione fisica e motoria Laureato in Scienza e Tecnica delle Attività fisiche e sportive-UN. BORGOGNA-Digione

Maitrise in “Ricerca scientifica e prestazione”

ABSTRACT

Per molti mezzofondisti e fondisti, l’allenamento “in quota”continua ad essere una “pratica” periodica vissuta con “applicazione e dedizione”. La ricerca scientifica ha ormai definito in diverse settimane l’adattabilità dei meccanismi di

compenso del nostro organismo per “ottimizzare” uno stage di allenamento in altitudine. Le varie esperienze di “stage” compiute negli anni, rappresentano comunque un modello di

confronto ed una sorta di “archivio storico” per successive comparazioni e correlazioni.

PAROLE CHIAVE : allenamento, altitudine, bio-climatologia, acclimatazione, deacclimatazione

INTRODUZIONE

Studi specifici sugli aspetti fisio-patologici dell’allenamento in altitudine, vennero intrapresi seriamente solo quando la Città del Messico (2300 mt s.l.m.) ottenne l’organizzazione dei Giochi

Olimpici del 1968. In verità, testi e riviste specializzate, con trattazioni sui principali aspetti inerenti le baropatie, erano censiti già da tempo.

Fu tuttavia l’occasione di questa imponente manifestazione che richiamò l’attenzione di tecnici e medici sportivi sui problemi relativi l’acclimatazione alle medie altitudini e, soprattutto, al training

svolto in determinate circostanze ambientali. Vennero effettuate numerose ricerche per risolvere due quesiti fondamentali : quanto sarebbe variata la performance atletica in altitudine e quale fosse il periodo ottimale di acclimatazione per

conseguirvi il miglior risultato sportivo. In seguito a queste esperienze, condotte per lo più in centri di allenamento “montani” (St. Moritz, Colorado Springs, Font Romeu, Macolin, Livigno,Sestrière,

ecc.), alcuni ricercatori compresero che era possibile migliorare le prestazioni compiute in pianura dopo un soggiorno di allenamento in altitudine.

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Ciò parve trovare conferma nelle leggendarie imprese di atleti quali Keino e Yfter,memorabili

“pionieri”della stirpe di corridori degli altipiani di Kenya ed Etiopia. La storia, tuttavia, prosegue sino ai giorni “nostri”passando da El Guerrouji, che ha costruito i propri successi in quota ad

Ifrane(MAR), sino ad arrivare all’etiope Kenenisa Bekele che periodicamente “staziona” a St.Moritz E’ importante sottolineare che i “benefici” dell’allenamento in quota non sono unanimemente

condivisi dalla “Comunità scientifica; malgrado ciò, le esperienze effettuate e lo svolgimento di meetings e manifestazioni sportive in località “elevate” (Città Messico, Bogotà, Colorado

Springs,Sestrière), permettono di definire almeno tre obiettivi fondamentali dell’allenamento in altitudine:

a) migliorare la performance in pianura b) preparare l’atleta a competere estemporaneamente in altitudine

c) preparare l’atleta a gareggiare in altitudine per “medio/lunghi” periodi di soggiorno (Olimpiadi, Campionati Mondiali o Continentali)

Per produrre la formulazione di un adeguato programma di allenamento è necessario conoscere con sufficiente chiarezza la fisio-patologia degli adattamenti acuti e cronici (acclimatazione)

all’altitudine, in ordine alle caratteristiche fisiche ambientali ed ai riflessi che esse hanno sulla prestazione.”

BIOCLIMATOLOGIA E FISIOPATOLOGIA DELL’ALTITUDINE:

ASPETTI METODOLOGICI DELL’ALLENAMENTO

AMBIENTE FISICO IN ALTITUDINE

Occorre precisare che, in tema di allenamento e competizioni sportive, si fa riferimento ad altitudini

a “media-quota” (comprese tra i 2000 mt ed i 4000 mt), riservando la fisiopatologia delle “alte” quote alla medicina del lavoro e degli ambienti speciali (montanari, aviatori, minatori, ecc.).

DENSITA’ dell’ARIA. Tra le variabili fisiche ambientali bisogna soprattutto considerare la densità dell’aria, la quale diminuisce progressivamente con l’altezza a causa della ridotta pressione

atmosferica. Questo aspetto consente ai corridori di incontrare una minor resistenza (che a Città del Messico, ad esempio, è inferiore del 24% rispetto al livello del mare) a parità di velocità di movimento. Risulta essere il fattore principale del conseguimento in altitudine dei numerosi primati

di gare di velocità.

FORZA DI GRAVITA’. Analoghi vantaggi è possibile ottenerli nei salti e nei lanci per la conseguente riduzione della forza di gravità; la quale risulta essere inversamente proporzionale al quadrato della distanza dal centro della terra. Si evince perciò che il peso dei “gravi” (il corpo stesso

dell’atleta oppure l’attrezzo che egli sta lanciando) possa risultare minore che a livello del mare.

TEMPERATURA E UMIDITA’ dell’ARIA. La temperatura ambiente diminuisce con l’altitudine di circa mezzo grado ogni 100 mt e può comportare problemi di termoregolazione. Anche il grado di umidità dell’aria si riduce rapidamente, raggiungendo all’incirca la metà dei suoi

valori a 2000 mt ed ¼ a 4000 mt.. Ne consegue una minore azione di filtro dei raggi UVA con possibili danni alla cute ed alle mucose esposte (labbra, congiuntive).

PRESSIONE PARZIALE DI OSSIGENO (pO2). Il fattore ambientale più importante è rappresentato dalla pressione parziale dell’ossigeno (pO2), alla quale sono da ricondurre i maggiori

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effetti, tanto negativi quanto positivi, dell’attività sportiva in altitudine.Tra gli effetti negativi va

sicuramente rimarcato lo scadimento della performance nelle discipline di resistenza.. Alcuni dati statistici rivelarono che ai G.O. del Messico, il cosiddetto “regresso” variava da -3% sino a 8% in

relazione al corrispettivo primato mondiale nelle gare di “durata” superiori a 4 minuti . Questo effetto dell’altitudine è da imputare alla diminuzione della massima potenza aerobica (VO2max) e del massimo debito di ossigeno lattacido.

EFFETTI EMATO-FISIOLOGICI

Gli effetti positivi della permanenza in condizioni di bassa tensione di ossigeno , sarebbero da ricondurre all’aumento del contenuto in emoglobina e globuli rossi del sangue e, quindi,

dell’inerente capacità di trasporto d’ossigeno, paragonabili a quelli che conseguono ad un’emotrasfusione.

Prima di approfondire gli aspetti fisio-patologici dell’altitudine è necessario conoscere la struttura e la funzione degli elementi costitutivi del sangue.

EMATOCRITO

Per quanto concerne le funzioni di trasporto, riveste estrema importanza la particolarità che il sangue sia composto per il 56% da plasma (parte liquida consistente in siero e fibrinogeno) e per il restante 44% da cellule corpuscolari (globuli rossi, bianchi e piastrine).

Questo rapporto, conosciuto come valore ematocrito (Hct), viene mantenuto costante il più a lungo possibile dall’organismo, anche nel lavoro strenuo e protratto. Normalmente, l’Hct possiede valori

compresi tra il 45% ed il 50% del volume totale del sangue. Quando questo valore aumenta, accresce pure la viscosità del sangue stesso e condiziona il flusso sanguigno del torrente circolatorio. Il flusso varia inversamente e la resistenza direttamente proporzionale al variare della

viscosità del sangue. Alcuni esperimenti effettuati su ciclisti in Israele, hanno dimostrato che in condizioni di estrema

sollecitazione fisica si possa addirittura giungere ad una diluizione del sangue; questo perchè i corpi cellulari cedono acqua al sangue medesimo. Quando aumenta la componente corpuscolare( per sottrazione di acqua o per moltiplicazione cellulare), il fenomeno crea condizioni circolatorie

sfavorevoli ed iper-affaticamento cardiaco.

ERITROCITI (GLOBULI ROSSI) L’aumento del numero delle cellule riguarda soprattutto gli eritrociti, corpuscoli necessari al

trasporto dei gas respiratori. Hanno solitamente un diametro di 7Um circa e per offrire una superficie più ampia possibile, presentano al centro un particolare avvallamento (tipica forma a

“pasticca”). Poiché 1 mm3 ne contiene dai 4,5 ai 5,5 milioni circa (attorno ai 4,5/5 nella donna e 5/5,5 nell’uomo) cinque litri di sangue possono contenere 25 miliardi di eritrociti. Questi rilievi assicurano uno scambio di gas sufficientemente rapido.

Gli eritrociti sono privi del nucleo cellulare,dal momento che lo “perdono”nella fase di maturazione allo stadio reticolocita (di rilevante importanza, poichè se ne effettua il conteggio per valutare la

capacità di formazione degli eritrociti). La costituzione dei globuli rossi avviene nel midollo rosso delle ossa piatte; essa è attivata dalla secrezione di un particolare ormone (eritropoietina : :EPO) prodotto da fegato e reni ed è favorita

da sostanze vitaminiche quali l’acido folico e la cianocobalamina (vitamina B12). La vita media degli eritrociti è limitata a circa 120 giorni; quelli “invecchiati” vengono fagocitati dalle cellule

endoteliali di milza e fegato e sostituiti da nuovi eritrociti prodotti dal midollo osseo (se ne calcola una produzione quotidiana di circa 200 milioni). Questi due processi acquisiscono rispettivamente

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la denominazione di emocateresi ed eritropoiesi; la “distruzione” di globuli rossi aumenta anche nel

caso di intense sollecitazioni fisiche.

EMOGLOBINA

Per poter ”fissare” la massima quantità possibile di O2, gli eritrociti sono costituiti per il 34% da emoglobina (Hb), sostanza ematico-proteica. Questa percentuale può subire qualche variazione,

perciò, oltre a rilevare il contenuto di Hb (di norma, pari a 15-16 gr nell’uomo e 14-15 gr/100 ml di sangue nella donna), è utile riscontrare anche la percentuale di Hb del singolo eritrocito (Hb-e). L’ossigeno (O2) è quasi totalmente trasportato dall’emoglobina (Hb) presente negli eritrociti,dato

che in 100 ml di sangue soltanto 0.3 ml di (O2) sono disciolti liberamente nel plasma (contro i 19/20 presenti in totale).La quantità di (O2) nel sangue è determinata dalla pressione parziale di

ossigeno (pO2), dalla quantità di (Hb) presente e dall’affinità dell’(Hb) per l’ (O2). Particolarmente importante è la curva di dissociazione dell’ (O2) dall’ (Hb); poichè descrive la percentuale di saturazione in (O2) della (Hb) .

A pressioni parziali di ossigeno superiori a 100 mm Hg , l’emoglobina tende alla saturazione. Quando i muscoli sono attivati, il consumo di (O2) aumenta (facendo cadere la tensione parziale di

(O2)) e incrementando il gradiente pressorio fra il sangue dei capillari ed i tessuti; questo determina un aumento dell’apporto di (O2). Tre sono i più importanti fattori che modificano le caratteristiche della curva di dissociazione dell’

(O2): la pressione parziale dell’anidride carbonica (CO2) ed il “ph”, la temperatura e la concentrazione di 2,3 -difosfoglicerato (DPG). Un indice basilare di queste modificazioni è

rappresentato dalla( p50), cioè dalla (pO2) alla quale l’(Hb) è saturata per la metà. Tanto più alta risulta la (p50), tanto minore sarà l’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno e quindi maggiore sarà l’ossigeno ceduto al tessuto muscolare.

EFFETTI PARTICOLARI DELLA PRESSIONE PARZIALE DI ANIDRIDE CARBONICA

(pCO2), DEL “ph” E DELLA TEMPERATURA SULLACURVA DI DISSOCIAZIONE

DELL’OSSIGENO.

Parallelamente all’incremento della (PCo2), la curva di dissociazione dell’ossigeno per

l’emoglobina, si sposta verso destra. Questo rilievo sta a significare che, a parità di tensione parziale arteriosa di ossigeno (paO2), l’incremento della pressione parziale di anidride carbonica (pCo2)ematica, aumenta il grado di desaturazione dell’emoglobina favorendo il rilascio

dell’ossigeno. Nel caso di attività motoria intensa, vengono prodotte notevoli quantità di anidride carbonica (Co2),

le quali agiscono sulla curva di dissociazione facilitando la cessione di ossigeno ai muscoli .Inoltre, l’anidride carbonica stessa, interviene nel rilasciare il tono degli sfinteri pre-capillari, facilitando il flusso ematico distrettuale e conseguendo un ulteriore miglioramento del trasporto di ossigeno al

tessuto muscolare. In altra analisi, l’acidità aumenta il rilascio dell’ossigeno da parte dell’emoglobina, conducendo un

abbassamento del “ph”con conseguente spostamento della curva di dissociazione verso destra.La ridotta affinità dell’ (Hb) per l’ (O2) è determinata dal fatto che la deossiemoglobina lega gli ioni idrogeno più attivamente dell’ossiemoglobina

Da queste considerazioni appare evidente quanto segue : - la regolazione del trasporto e della cessione di ossigeno ai muscoli in attità, è modulata da

meccanismi chimico-fisici semplici ed efficaci, - il coefficiente di utilizzo dell’ossigeno, anche in condizioni di elevata attività muscolare,

non raggiunge mai il 100 %. Questa rilevazione riscontra che una parte dell’(O2) rimane

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presente nel sangue refluo dalle masse muscolari. Ciò, tuttavia, non può avere valore

assoluto, poiché nelle masse muscolare potrebbero essere presenti degli “shunt” artero-venosi atti a convogliare direttamente il sangue arterioso nel circolo venoso refluo , senza

desaturarlo in ossigeno EFFETTO DELLA CONCENTRAZIONE DI 2.3-DIFOSFOGLICERATO NEGLI

ERITROCITI

Gli eritrociti umani mantengono la loro omeostasi mediante la glicolisi , processo bio-chimico

mediante il quale il glucosio viene enzimaticamente convertito a 2.3-difosfoglicerato (DPG).Il tutto avviene attraverso una serie di trasformazioni chimiche : da glucosio-6-fosfato a 3-fosfogliceraldeide, successivamente a 1,3-difosfoglicerato e infine a DPG (2,3-difosfoglicerato).

La concentrazione del DPG è assai elevata negli eritrociti, ove espleta un’importante funzione fisiologica influenzando l’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno legandosi alle catene beta

dell’emoglobina. La presenza di DPG favorisce la dissociazione dell’ossigeno (O2) dall’ossiemoglobina (HbO2)e facilità la cessione dell’ossigeno ai muscoli.Il ruolo del DPG nella regolazione dell’ “affinità”

dell’emoglobina per l’ossigeno è di fondamentale importanza. In assenza di DPG , l’(Hb) ha una (p50) =1 mm Hg ; in tali condizioni l’emoglobina rilascerebbe nel muscolo una quantità

assolutamente esigua di ossigeno. Il ruolo dinamico del DPG si evidenzia bene qualora si verifichino situazioni ipossiche tissutali; se, ad esempio la (paO2) scende alla metà del valore normale si evidenzia uno spostamento

compensativo della curva di dissociazione dell’ (Hb), in quanto la concentrazione endoglobulare di DPG provoca un aumento della capacità del sangue a cedere ossigeno indipendentemente dalla

variazione del numero dei globuli rossi. Un analogo problema si prospetta nel cosiddetto adattamento “in quota”, in quanto salendo dal livello del mare a quote più elevate si ha una condizione ipossica con variazioni rapide della concentrazione globulare di DPG.

Nel caso di permanenza a 4500 mt di quota , in due giorni circa, si incrementa la concentrazione di DPG da 4,5 a 7 mM, cui fa ovviamente riscontro una diminuzione dell’affinità dell’emoglobina per

l’ossigeno. Anche in questo caso la (p50) si innalza facilitando la cessione dell’ossigeno ai muscoli. Naturalmente, questa regolazione compensativa operata dal DPG, è rapida nel comparire come è altrettanto rapida nel ristabilire la pregressa situazione, quando il soggetto ritorna a livello del mare.

Da tutto ciò è possibile dedurre che le condizioni di trasporto e di ossigenazione del sangue influiscono sulla concentrazione di DPG, le cui variazioni inducono un rapido e adeguato compenso

nella cessione dell’ossigeno ai tessuti periferici. METABOLISMO DEL FERRO

La molecola di emoglobina è prevalentemente proteica (gruppo Eme-porfirinico) e contiene ferro;

questo minerale le conferisce la capacità di legare con l’ossigeno. L’organismo umano possiede una quantità media di 4 gr. di ferro, del quale 2/3 sono utilizzati dall’emoglobina per le proprie funzioni di trasporto. Il fabbisogno quotidiano varia da 1 a 3 mg, purtroppo soltanto una minuscola

parte del ferro degli alimenti viene assorbita (il ferro-Eme, relativo a emoglobina e mioglobina può essere assorbito per circa il 30%, il ferro di origine vegetale invece per il 10 % o meno). Nel sangue

si combina con una proteina specifica: la transferrina; essa trasporta il ferro dal tubo digerente ai depositi e da questi al midollo osseo, nel quale viene utilizzato per produrre emoglobina. Una parte del ferro dell’organismo (1 gr. circa) funge da riserva ed è accumulato nelle cellule endoteliali del

reticolo endoteliale, in particolare del fegato (principale organo di deposito), del midollo osseo e della milza. Il ferro di deposito è presente sotto due forme : ferritina ed emosiderina; il ferro dei

parenchimi si trova distribuito nei vari tessuti,costituendo il componente “attivo” degli enzimi ossidativi e del sistema dei citocromi mitocondriali, indispensabili per la respirazione cellulare (ciclo di Krebs/glicolisi aerobia).

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Molti atleti, in particolare quelli che praticano discipline aerobiche, presentano valori emoglobinici

e carenze di ferro inferiori alla media; ragion per cui sarebbe opportuna una somministrazione supplementare di ferro in forma adeguata.

LA FUNZIONE CARDIO-RESPIRATORIA NEL “LAVORO” SPORTIVO

L’attività dell’apparato locomotore, vale a dire il lavoro muscolare dinamico, induce una serie di modificazioni respiratorie, cardio-circolatorie e metaboliche. Prima di valutare gli effetti fisiopatologici della funzione respiratoria in altitudine è necessario considerare la funzione che gli

apparati (respiratorio e cardio-circolatorio) svolgono durante l’attività fisica in normali condizioni di pressione parziale di ossigeno (pO2).

Innanzi tutto, è utile rilevare il comportamento correlato di alcuni parametri respiratori e cardio-circolatori quando si effettuano lavori muscolari di entità metabolica elevata. La fig. 2 rappresenta una delle relazioni fondamentali tra consumo di (O2) e ventilazione polmonare

durante il lavoro muscolare; relazione che è abbastanza lineare entro limiti piuttosto ampi di impegno energetico.

E’essenziale sottolineare, ad esempio, che un lavoro “implicante” 3 litri/minuto richiede una ventilazione di aria di circa 60 litri/minuto. Questo rapporto è molto importante poiché consente di risalire sommariamente dalla ventilazione all’ipotetico consumo di ossigeno; esso si mantiene

efficace sino a che, con l’accumulo di acido lattico, la ventilazione non permette più una relazione costante col consumo di (O2).

L’eccessiva ventilazione non si rivela di particolare utilità perché il rifornimento di ossigeno ai tessuti viene limitato dalla massima portata cardiaca. La ventilazione polmonare, tuttavia, può ancora aumentare anche quando sia stato raggiunto il limite della regolazione circolatoria.

La fig.3 “riflette” il comportamento della frequenza cardiaca in funzione del consumo di ossigeno in prove di intensità metabolica crescente.Anche in questo caso, si può notare una certa linearità

della relazione; fino a consumi di (O2) di circa 2,5 lt/min., cui corrisponde una f.c. di 160 bt/min.. E’ risaputo che oltre le 160/180 pulsazioni l’accorciamento della diastole cardiaca non consente più il riempimento delle cavità ventricolari, ragion per cui il volume/min. non migliora ma addirittura

decresce. Sono stati compiuti numerosi studi pure sulla gittata cardiaca, sempre in rapporto al consumo di

(O2).E’ scientificamente noto, come la gittata cardiaca rappresenti il fulcro della situazione emodinamica nel corso dell’esercizio muscolare in conseguenza delle aumentate richieste periferiche; l’aumento della G.C. è abbastanza proporzionale al consumo di ossigeno.

E’ interessante rilevare come la G.C. possa aumentare parallelamente all’incremento dell’intensità del “lavoro”, toccando valori 4/5 volte superiori a quelli di riposo..E’ importante anche notare come

la gittata sistolica rimanga pressoché costante (dopo un iniziale aumento) malgrado l’incremento del lavoro; la F.C: possa risentire del carico di lavoro aumentando notevolmente e come la differenza artero-venosa di (O2) possa aumentare fino a raddoppiare (con un andamento concordante con la

gittata sistolica e discordante con la gittata cardiaca. Tutto ciò è scientificamente acclarato inerentemente lavori di impegno metabolico intenso e breve;

se ne può quindi dedurre che il massimo lavoro “esercitabile” in un dato periodo di tempo, viene limitatodalla massima quantità di (O2) che l’atleta può assorbire per minuto e dal massimo debito di (O2) che è capace di contrarre. Entrambi questi fattori risentono della capacità dell’organismo di

trasportare l’ossigeno e cederlo ai tessuti; ne consegue perciò che è soprattutto a carico della F.C. la determinazione del raggiungimento del massimo debito di ossigeno.

Anche la diminuzione della gittata sistolica, derivante dall’insufficiente riempimento diastolico, implica una catena di eventi fisio-patologici che conducono al quadro della fatica acuta e delle sue manifestazioni cliniche.

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Fortunatamente,l’allenamento modifica le risposte organiche e permette l’instaurarsi di una

omeostasi cardiocircolatoria che si dimostra particolarmente efficace ed economica nelle condizioni particolari dello sforzo.

In sintesi, il fabbisogno di ossigeno, relativo ad un determinato lavoro muscolare, tende a diminuire per varie ragioni:

- a causa dell’utilizzo più efficace e razionale dei muscoli, per l’eliminazione di movimenti “estranei”e per la maggior efficienza meccanica dei muscoli stessi

- - per l’aumento della quantità di debito di ossigeno raggiungibile. Attraverso l’allenamento specifico aerobico, è possibile incrementare il massimo consumo di ossigeno (VO2 max) del 20% e oltre; questo aumento, è conseguenza degli adattamenti centrali e

periferici che si realizzano nel soggetto allenato. Tra gli aspetti principali dell’adattamento organico va evidenziata una minore distanza tra capillare

e sito di ossidazione, oltre ad una maggior tensione di (O2).Questo particolare permette una maggiore estrazione dell’ossigeno stesso (nel muscolo allenato) ed un aumento della differenza artero-venosa di (O2).. Anche il miocardio risponde agli effetti del training con un minor consumo

di ossigeno basale. Un ulteriore aspetto riguarda la regolazione della frequenza cardiaca e della gittata sistolica : di

questi parametri è utile ricordare l’instaurarsi a riposo della cosiddetta bradicardia e l’aumento relativo della gittata, che consentono di ottenere incrementi di notevole portata.

St Moritz: uno dei luoghi preferiti per la preparazione in altitudine

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LA FUNZIONE RESPIRATORIA IN ALTITUDINE

Per funzione respiratoria si intende l’insieme dei processi fisiologici che consentono alle cellule dell’organismo di effettuare il proprio metabolismo ossidativo.

Si compone di 5 fasi essenziali : 1) ventilazione polmonare 2) diffusione alveolo-capillare dei gas respiratori 3) trasporto dei gas nel sangue 4) diffusione emato-tessutale 5) respirazione cellulare.

Tutte queste tappe sono influenzate dall’altitudine e dipendono dal livello della pressione parziale di ossigeno (pO2). Essendo costante la % di ossigeno dell’aria atmosferica (21% circa), la sua pressione parziale si riduce ascendendo in misura proporzionale alla diminuzione della pressione

atmosferica. Consensualmente, si riducono le pressioni di (O2) nell’aria alveolare, nel sangue e nei tessuti.

Questa ridotta disponibilità di ossigeno aziona tutta una serie di meccanismi di compenso e di adattamento, volti a preservare le capacità metaboliche e ossidative dell’organismo.

VENTILAZIONE POLMONARE

L’esposizione acuta ad una ridotta (pO2) (50/60 mm Hg, quale si riscontra attorno ai 3500 mt) non induce modificazioni evidenti della ventilazione polmonare a riposo. Dopo alcuni giorni di permanenza in altitudine, si osserva invece una iper.ventilazione a riposo anche a quote

relativamente basse . acclimatazione ventilatoria . Nel corso dell’esercizio fisico la risposta ventilatoria risulta molto più marcata che a livello del

mare, indipendentemente dal periodo di tempo trascorso in altura. L’iper-ventilazione comporta numerosi effetti negativi, soprattutto per l’atleta in allenamento:

a) sensazioni di disagio respiratorio

b) aumento della “richiesta” respiratoria e della percentuale di consumo di ossigeno assorbito c) accumulo di acido lattico con inferiore tolleranza allo sforzo

DIFFUSIONE ALVEOLO-CAPILLARE.

La velocità di diffusione dell’ (O2) attraverso la membrana alveolo-capilare è espressione della differenza di pressione parziale del gas tra aria alveolare e sangue venoso e della capacità di

diffusione polmonare per l’ (O2). Questa, a sua volta, dipende dalla superficie e dallo spessore della membrana alveolo-capillare e da un coefficiente di diffusione per l’ossigeno (che traduce la maggiore o minore facilità con cui il gas attraversa la membrana stessa).

Nel soggetto acclimatato all’altitudine non sono state riscontrate variazioni della capacità di diffusione polmonare, né a riposo né “sotto sforzo”.

L’anello critico della catena di trasporto dell’ossigeno non è tuttavia rappresentato dalla capacità di diffusione polmonare, quanto piuttosto dall’interazione di quest’ultima con la capacità di trasporto del sangue.

In altitudine, il sangue si trova, per un buon lasso di tempo, in transito nei capillari polmonar i nella parte “ripida” della curva di dissociazione dell’ossiemoglobina. In questa condizione vi sono

rilevanti variazioni della percentuale di saturazione dell’emoglobina che conseguono a differenze relativamente minime di pressione parziale di ossigeno (pO2); la solubilità effettiva dell’ossigeno nel sangue perciò aumenta.

Ulteriori vantaggi nella diffusione alveolo-capillare di ossigeno derivano dall’incremento dei valori emoglobinici , questo aspetto è maggiormente evidenziato nei soggiorni in altitudine di varie

settimane. TRASPORTO EMATICO.

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Il trasporto di ossigeno nel sangue dipende dal prodotto scaturito tra la solubilità del gas e la gittata cardiaca. (gittata sistolica x frequenza cardiaca). E’ normale che in altitudine, nel corso

dell’esercizio fisico, il cuore tenda a compensare ogni diminuzione del contenuto arterioso di (O2) mediante un semplice incremento della frequenza cardiaca. Alle altitudini che interessano l’allenamento atletico non sono state registrate variazioni

significative della F.C. massima, né della gittata cardiaca massima sotto sforzo.

EFFETTO NETTO DELL’ALTITUDINE SUL TRASPORTO DI OSSIGENO. Il trasporto netto di (O2) in altitudine è determinato dalla combinazione delle variabili fisiologiche

cardiache e respiratorie; alle quote-medie è possibile prevederne una caduta immediata del 15 % circa, emendata in parte con l’acclimatazione dall’aumento della concentrazione di emoglobina nel

sangue. L’EQUILIBRIO ACIDO-BASICO IN CONDIZIONI DI IPOSSIA

La maggior parte dell’anidride carbonica (CO2) prodotta dal metabolismo cellulare, circola nel

sangue sotto forma di bicarbonati , che entrano a far parte dei “sistemi-tampone” che mirano a proteggere l’organismo dalla acidosi (riserva alcalina). In particolare, il ph del sangue è funzione del rapporto tra concentrazione di bicarbonato e di anidride carbonica.

In condizioni di ipossia acuta, la pressione parziale dell’anidride carbonica (pCO2), può diminuire a causa dell’iperventilazione ( che provoca un” lavaggio” del gas dall’organismo).Per qualche tempo,

per contro, non si rimarcano sensibili variazioni della concentrazione di bicarbonato. Ne consegue un incremento del ph ematico (alcalosi respiratoria) con eventualità di ritenzione compensatoria di cloruri e, particolarmente, di lattato,con relativo aumento della lattacidemia basale e consequenziale

riduzione della tolleranza allo sforzo. Successivamente, nel corso della fase di acclimatazione, l’alcalosi respiratoria viene compensata da

una accresciuta eliminazione di bicarbonato per via renale con conseguente riduzione della riserva alcalina e del ph , con rientro a valori pressoché normali (7.4). Le conseguenze metaboliche di questa riduzione della riserva alcalina sono molto importanti per l’atleta acclimatato a causa della

riduzione del potere-tampone del plasma nei confronti dell’acido lattico prodotto dal lavoro esaustivo.

ALTRI EFFETTI DELL’ACCLIMATAZIONE ALLE MEDIE ALTITUDINI.

EMOGLOBINA.

Un aumento del contenuto di emoglobina (per unità di volume del sangue), costituisce il più importante adattamento alla permanenza prolungata in altitudine. Ciò consente che una maggior quantità di ossigeno sia trasportata dal sangue per una data pressione parziale del gas.

In altri termini, la pressione arteriosa dell’(O2) può scendere a valori inferiori rispetto ai soggetti non acclimatati, lasciando immutato (in comparazione al livello del mare) il trasporto di (O2) ai

tessuti.L’aumento del contenuto emoglobinico rende progressivamente “meno necessari”i primitivi meccanismi adattativi dell’iperventilazione e della tachicardia nell’esercizio submassimale. La capacità di trasporto di ossigeno si sviluppa nel corso di parecchie settimane, anche in rapporto

al progressivo instaurarsi di una policitemia. A questo proposito, è necessario ricordare come l’iniziale aumento dei globuli rossi sia dovuto in realtà ad una “emo-concentrazione” da

disidratazione.

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Solo in seguito ad un paio di settimane (almeno) di permanenza in quota, la massa eritrocitaria

aumenta veramente per l’accresciuta secrezione di eritropoietina (stimolo ormonale alla produzione midollare di globuli rossi) innescata dalle condizioni di ipossia.

Il risultato finale della acclimatazione include un aumento del “conteggio” eritrocitario (circa un milione per mm3 di sangue), un aumento dell’ematocrito (3/5 %) ed un incremento dei livelli emoglobinici (2/4 gr per 100 ml di sangue). Un altro possibile effetto dell’acclimatazione alle medie

altitudini consiste in una minore affinità dell’emoglobina per l’ossigeno, causata dall’aumento del 2,3-difosfoglicerato negli eritrociti.

VOLUMI CIRCOLATORI :

E’ già stato trattato il capitolo inerente la precoce diminuzione del volume plasmatico, che si sviluppa progressivamente durante i primi giorni di soggiorno in altitudine. L’“emo-

concentrazione” comporta alcuni inconvenienti connessi con l’aumento della viscosità del sangue e relative conseguenze emodinamiche; la performance naturalmente scade, soprattutto negli sforzi protratti Questa problematica tende a diminuire dopo alcune settimane anche senza adeguati

interventi di reidratazione.

ADATTAMENTI TESSUTALI.- Secondo alcuni ricercatori, l’acclimatazione comporta una accresciuta capillarità muscolare legata

ad un aumento del contenuto di mioglobina, di cui sarebbe espressione una maggior capacità di diffusione dell’ossigeno al tessuto contrattile.

La concentrazione muscolare di enzimi glicolitici rimane apparentemente immutata anche dopo mesi di permanenza in altitudine. L’utilizzo dell’acido lattico risulta intensificato dallo sviluppo del sistema NADH-ossidativo; questi adattamenti tessutali favoriscono la re-sintesi dei legami-fosfato

altamente energetici in seguito alla contrazione muscolare.

CONSEGUENZE DELL’ALTITUDINE SUL METABOLISMO ENERGETICO

Il metabolismo subisce notevoli alterazioni a causa dell’ipossia, sia a riposo che sotto sforzo. L’ipossia comporta una riduzione dei processi ossidativi e, in maniera apparentemente paradossale,

anche di quelli anaerobici.

MASSIMA POTENZA AEROBICA –

Il VO2 max (massimo consumo di ossigeno) diminuisce con l’altitudine in ragione del (- 7%) circa ogni 1000 metri in individui non acclimatati. I fattori che determinano la minor potenza aerobica

sono da ricondurre alla pO2 (pressione parziale di ossigeno) dell’aria inspirata, cui però si oppongono con l’acclimatazione, l’aumento della concentrazione di emoglobina nel sangue e della

viscosità del sangue stesso, secondaria all’incremento del valore ematocrito. MASSIMA CAPACITA’ LATTACIDA –

La capacità di contrarre un elevato debito di O2 è un elemento essenziale della prestazione nelle

gare su brevi distanze, le quali attingono una parte rilevante del fabbisogno energetico da fonti anaerobiche.

Page 11: Allenamento in altitudine

Dopo uno sforzo massimale in ipossia acuta la concentrazione ematica di lattato è paragonabile

all’incirca a quella determinata a livello del mare. Successivamente l’acclimatazione, il livello massimo di lattato tollerabile si riduce in conseguenza della minor concentrazione di bicarbonati

del sangue, secondaria all’iperventilazione. La massima capacità lattacida appare dunque compromessa dalla riduzione del cosiddetto potere “tampone” dell’organismo.Si instaura così la comparsa precoce dei sintomi della fatica e la

necessità di protrarre il periodo di recupero inerente esercizi di elevata intensità.

MASSIMA CAPACITA’ e POTENZA ALATTACIDA – Sono espressione, rispettivamente, della quantità di fosfati altamente energetici (particolarmente

fosfocreatina :PC) e della relativa rapidità di utilizzo.Si estrinsecano, quindi, nell’attitudine a sostenere sforzi sovramassimali di elevata intensità e di breve durata; entrambe non paiono

modificate dall’acclimatazione. EFFETTI DELLA DEACCLIMATAZIONE

L’accresciuta concentrazione di emoglobina e l’eventuale poliglobulia ( se il soggiorno è stato

sufficientemente prolungato), sarebbero in grado di aumentare significativamente (5% circa) il VO2 max (riferito a soggetti allenati) dopo il ritorno a livello del mare, nel caso in cui le condizioni di idratazione e di equilibrio acido-base fossero state ristabilite.

Il vantaggio che l’atleta ne può trarre è “reale” ma assolutamente transitorio. La concentrazione di globuli rossi ed il tasso di emoglobina scendono rapidamente dopo il ritorno in pianura; il “tutto” a

causa di una aumentata eritro-cateresi, di una ridotta eritropoiesi e dall’espansione stessa del volume plasmatico. L’intero beneficio di una lunga permanenza in altitudine potrebbe quindi essere dissipato dopo solo

2/3 settimane.

PATOLOGIA DA ALTITUDINE

Le peculiari caratteristiche dell’altitudine, oltre a promuovere gli adattamenti funzionali dell’organismo legati all’acclimatazione, possono anche essere causa di specifici quadri clinici.

MAL DI MONTAGNA Un inadeguato adattamento all’altitudine può manifestarsi con la comparsa dei sintomi del mal di

montagna acuto : cefalea da sforzo e/o a riposo; insonnia notturna con sonnolenza diurna; anoressia; nausea e vomito; sensazioni di debolezza.

Circa il 50% delle persone che superano i 3000 mt di altezza lamenta alcuni dei disturbi citati, che spesso vengono frettolosamente riferiti ad affaticamento e turbe digestive. In qualche caso, riferito soprattutto al “gentil sesso”, dopo 6/8 ore di di permanenza in quota, possono manifestarsi edemi

localizzati al volto, alle mani ed alle caviglie. L’origine del “mal di montagna” e degli edemi “localizzati” è in gran parte ignota. E’ certamente

importante una predisposizione individuale, così come l’eccessiva rapidità nell’ascensione, fattore “attivante” le problematiche connesse alla patologia minore da altitud ine.Ad esempio, quando si

Page 12: Allenamento in altitudine

prevede una permanenza prolungata al di sopra dei 3000 mt, l’ascensione non dovrebbe superare i

300 mt al giorno per consentire un adattamento corretto all’altitudine. Nel caso del “mal di montagna”, il comportamento da adottare è correlato alla gravità dei sintomi;

nei casi più eclatanti è necessario far scendere il soggetto di almeno 1000 mt, somministrandogli ossigeno. Le forme lievi possono essere trattate con la somministrazione di una terapia sintomatica e col riposo, sino alla scomparsa della sintomatologia. Gli inibitori dell’anidrasi carbonica

(acetazolamide) offrono un rimedio più specifico; sfortunatamente il loro effetto diuretico riduce il volume plasmatico (già compromesso dalla disidratazione), peggiorando ulteriormente la capacità

di prestazione. EDEMA POLMONARE –

Fortunatamente raro (meno dell’ 1% dei casi) ma spesso letale, l’edema polmonare da altitudine si

manifesta generalmente di notte dopo una giornata di intenso esercizio fisico. Si presenta con la comparsa di dispnea (“fame d’aria”), tosse secca, cianosi, espettorato schiumoso. A questi sintomi, si accompagnano spesso debolezza profonda , cefalea, torpore sino a giungere, nei casi limite,

addirittura al coma. La patologia si manifesta dopo almeno 36/72 ore di permanenza oltre i 3000 mt di quota; i

principali fattori responsabili sembrerebbero l’eccessiva rapidità dell’ascensione (ipossia acuta), il freddo e l’esercizio intenso. La terapia più efficace consiste nell’immediato trasporto del soggetto a quote inferiori,

nell’ossigeno-terapia e nella somministrazione di un potente diuretico. Il “metodo” più sicuro per prevenire il mal di montagna e l’edema polmonare è quello di

raggiungere lentamente ed a tappe successive l’altitudine desiderata. FUNZIONALITA’ CARDIACA –

Nella statistica specifica, non sono stati rilevati episodi coronarici in atleti che si allenavano in

ambienti di “Media-Montagna”; viceversa, sono numerosi i riscontri riferiti ad anomalie elettro-cardiografiche “a riposo” (ripolarizzazione precoce, ritmi ectopici atriali e nodali) o “sotto sforzo” (extra-sistoli ventricolari).

E’ bene tuttavia considerare che, pure a livello del mare, lo sforzo massimale porta il cuore vicino all’anossia (diminuzione di O2), essendo virtualmente completata l’estrazione dello stesso O2 dal

circolo coronario. Dobbiamo perciò considerare che, se un atleta sceglie di lavorare con lo stesso impegno in un allenamento “in quota”, il rischio di anossia miocardica inevitabilmente aumenterà. Nel contempo,

il lavoro del cuore si intensifica anche per l’aumento della pressione arteriosa sistemica (secondario all’ambiente ipo-barico ed alla vasocostrizione), della pressione arteriosa polmonare (ipossia) e per

la maggior viscosità del sangue (poli-globulia); l’eccitabilità del miocardio è invece stimolata e influenzata dalle catecolamine.

IPOSSIA CEREBRALE –

Questo tipo di manifestazione, può comparire al termine di ogni prova aerobica; tra i sintomi più rilevanti quelli relativi ai “difetti”del campo visivo (scotoma centrale negativo) alterazioni della percezione cromatica e disturbi della coordinazione.

La forma acuta di queste patologie induce a sospettare un edema cerebrale (in particolare se ci si allena a quote elevate); tuttavia nella maggior parte dei casi i sintomi regrediscono rapidamente

durante la fase di recupero.

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L’ATTIVITA’ SPORTIVA IN ALTITUDINE

Le istanze che il “Mondo” sportivo pone a medici e tecnici specializzati, riguarda almeno tre aspetti

dell’attività agonistica correlata all’altitudine : a) la competizione occasionale (in altitudine) b) la competizione “differita e/o prolungata” (sempre in altitudine)

c) la competizione a livello del mare dopo un soggiorno di allenamento in altitudineI Il primo quesito trova una risposta nella fisiopatologia dell’ipossia acuta mentre per gli altri due casi

è necessario indagare sui fenomeni biologici legati all’acclimatazione ed alla deacclimatazione. GARE OCCASIONALI IN ALTITUDINE –

Nel momento in cui si prevede di disputare una competizione in altitudine ma con una permanenza

di breve durata, sarebbe necessario programmare il calendario nel rispetto degli eventi che conseguono ad una esposizione acuta all’ipossia. Da risultanze scientifiche, è possibile affermare che il momento migliore per gareggiare si possa

collocare tra le 48 e le 72 ore successive all’arrivo. Questa opportunità dovrebbe consentire all’atleta un discreto recupero dei disagi relativi al viaggio ed il superamento degli incipienti effetti

del mal di montagna.; parrebbero invece di minor rilevanza i decrementi della capacità tampone del sangue e dell’ipovolemia. Secondo il parere di autorevoli specialisti (nel campo della Medicina applicata), occorre

rammentare che l’assunzione di inibitori dell’anidrasi carbonica, giova ai sintomi del mal di montagna, ma è sfavorevole alla performance atletica ( già compromessa dalla riduzione del volume

plasmatico). CAMPIONATI E/O GIOCHI SPORTIVI IN ALTITUDINE –

Quando il calendario prevede un lungo periodo di permanenza in altura, parte della preparazione

atletica dovrebbe compiersi in situazioni ambientali analoghe a quelle della Sede della Manifestazione. Si pongono, in questi casi, i problemi relativi all’allenamento in altitudine, che deve basarsi sulla conoscenza delle risposte dell’organismo durante il periodo di acclimatazione.

Durante il periodo di acclimatazione suddetto ( a condizioni ambientali di media-altitudine) ha luogo uno scadimento degli indici di rendimento del lavoro atletico rispetto ai dati rilevati in

pianura. Il grado di questa discrepanza cresce di pari passo con l’aumento della durata e dell’intensità dell’esercizio fisico.Il peggioramento delle prestazioni è prevalente nei primi 10 giorni di permanenza in quota ed è rapportato con le descritte modificazioni delle funzioni respiratoria e

cardiovascolare (tachicardia, riduzione del VO2 max, aumento pressione arteriosa, ecc.) e del controllo metabolico (iper-lattacidemia e riduzione capacità di recupero).

I processi fisiologici di acclimatazione si sviluppano gradualmente e, poco per volta, le prestazioni tornano ad avvicinarsi a quelle ottenibili in pianura. Intorno al 20°/23° giorno, tendono a normalizzarsi le risposte funzionali all’attività di sforzo; è stimabile che al termine del periodo di

acclimatazione la capacità di “lavoro” raggiunga l’ 80/90% di quella che gli atleti stessi possedevano in condizioni basali. Appare quindi ragionevole pensare che sia possibile ottenere

validi risultati sportivi anche in condizioni di media-altitudine, a condizione che un regime di training razionale sia condotto nell’arco di un adeguato e sufficiente periodo di acclimatazione.

GARE IN PIANURA SUCCESSIVE AD UNO STAGE IN ALTITUDINE

Le molteplici esperienze effettuate comportano risultanze statisticamente similari; vale a dire che il ritorno in pianura è spesso seguito da una fase di 3/5 giorni di mediocre capacità prestativa

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aerobica, che tende a migliorare a partire dal 7° giorno di rientro e per toccare l’apice attorno al

15°, mantenendosi elevata sino al termine del primo mese all’incirca. Se la permanenza in altitudine è stata sufficientemente protratta, con l’ausilio funzionale degli

adattamenti fisiologici, è proprio intorno alla 2a/3a settimana che si otterrebbero le migliori prestazioni in discipline prettamente aerobiche.Le ragioni del primitivo scadimento della performance, dopo il ritorno in pianura, possono essere numerose; oltre ai disagi eventuali relativi al

cambiamento di ambiente o addirittura al fuso orario, va annoverata la necessità di consentire ai sistemi-tampone dell’organismo di recuperare i valori normali.In aggiunta, è assolutamente

indispensabile che i muscoli vengano ri-allenati a livello del mare, cioè a pieno carico di ossigeno, perché possano compiutamente esprimere il potenziale acquisito in altitudine. Infatti, l’allenamento in ipossia migliora le capacità di utilizzazione dell’O2 ma è altrettanto vero che la quantità massima

di O2 utilizzata dal muscolo in quota è comunque inferiore ai valori medi rilevati in pianura.Ciò è stato dimostrato anche da parziali peggioramenti delle prestazioni pure dopo un lungo periodo di

acclimatazione. In breve, in altitudine migliorano progressivamente le strutture destinate all’utilizzo dell’ossigeno (emoglobina, ematocrito, enzimi muscolari, ecc.), senza tuttavia poter essere completamente

impiegate. Per ottenere le migliori prestazioni è perciò necessario che al soggiorno/allenamento in quota, possa far seguito un ulteriore periodo di pianificazione specifica a livello del mare

L’ALLENAMENTO IN ALTITUDINE

Nel corso degli anni vi sono state molte esperienze ed osservazioni sul “metodo”di condurre un periodo di allenamento in altitudine.

Dal momento che molti atleti hanno ottenuto miglioramenti in seguito ad un soggiorno in quota e che altri atleti, abitualmente residenti in altura, hanno tratto vantaggi a gareggiare a livello del mare, si è giunti alla considerazione che l’inserimento stagionale di un periodo di preparazione in

montagna sia effettivamente “benefico”ai fini del miglioramento delle prestazioni aerobiche. Teoricamente, il vantaggio che può derivare da un allenamento a media-altitudine, specie per i

fondisti, è rappresentato dallo stimolo che l’ipossia esercita sulle strutture cardio-vascolari e sulla capacità di consumo dell’ossigeno. Schematicamente, possono essere opportunamente adottate tre particolari tipologie :

a) soggiorno/allenamento a quote relativamente alte (3500/4000 mt), che espone costantemente

l’atleta all’azione stimolante di una rimarchevole diminuzione di pO2; questa opzione tuttavia limita notevolmente lo svolgimento di sedute di lavoro impegnativo;

b) soggiorno/allenamento a quote relativamente basse (1800/2300 mt) in cui, a fronte di uno

stimolo ipossico meno rilevante (anche in condizioni di “riposo”), consente lo svolgimento di allenamenti più gravosi;

c) soggiorno in alta-quota (sopra i 3500/4000 mt) ma con esecuzione di sedute di training ad altitudini inferiori (1800/2000 mt). Questo “sistema”, riassume i vantaggi dei due precedenti, eliminandone gli inconvenienti.

E’ utile rammentare che sono tutt’ora oggetto di studio e sperimentazione altre metodiche di

allenamento in condizioni di ipossia; ad esempio quelle che si avvalgono dell’uso di miscele respiratorie impoverite di ossigeno o di camere ipobariche, ove poter ricreare (in laboratorio) le condizioni ambientali della altitudine richiesta.L’utilizzo di queste metodi implica altresì una

condizione di “soglia” psicologica particolare, oltre ad apparire eticamente discutibili. L’allenamento in altitudine , nonostante la “credibilità scientifica” delle premesse teoriche ed il

favore riscosso presso i tecnici sportivi, presenta pure alcuni aspetti quanto meno opinabili. Innanzi tutto la lunga durata del soggiorno in quota, che dovrebbe superare almeno tre settimane e che, secondo eminenti autori russi (Letunov in particolare), dovrebbe protrarsi sino a 3 mesi per le

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discipline prettamente aerobiche.In secondo luogo, la transitorietà dei benefici derivanti

dall’aumentata capacità di utilizzare ossigeno, fenomeno che dovrebbe indurre a ripetere più volte (nel corso della stagione) gli stages in altitudine. Il ricorso a questi “richiami”, ovvero a questa

ripetizione periodica dei soggiorni, facilità ovviamente il processo di acclimatazione. Queste considerazioni pongono altrettanto il problema del rapporto “costi economici-benefici”, dal momento che non tutte le società e/o Federazioni possono permettersi l’onere di mantenere per

lungo tempo in montagna gli atleti ed il loro staff. Un altro limite potrebbe essere riferito alla necessità di modificare la pianificazione-atletica, riducendo i carichi di lavoro e prolungando i

periodi di recupero; infine, le problematiche inerenti gli effetti della poliglobulia, scopo biologico finale dell’allenamento in altitudine, che potrebbero innescare differenti variabili emodinamiche.

SELEZIONE E CONTROLLO MEDICO –

Una selezione accurata degli atleti è premessa indispensabile per lo svolgimento di una efficiente partecipazione allo stage di allenamento in altitudine.Essa dovrà essere effettuata in base alle

condizioni di salute , al grado di forma fisica ed alla natura delle risposte fisiopatologiche inerenti l’ipossia.

L’importanza dello stato di forma è evidenziata dal fatto che, quanto maggiore è il grado di allenamento, tanto minore è l’influenza negativa dell’altitudine sulle capacità di prestazione. Le variazioni degli indici di funzionalità dei sistemi ed apparati organici, sono meno pronunciate

rispetto a quelle osservabili a livello del mare nei soggetti poco allenati. Ne consegue che, per effetto di un buon grado di allenamento, si possono produrre sforzi di elevata intensità anche a

media-altitudine, senza che la funzionalità dell’organismo ne tragga pericolosi squilibri. E’ pure evidente che anche le condizioni generali di salute possano giocare un ruolo preminente nel condizionamento della capacità e, soprattutto, della rapidità dell’adattamento all’altitudine.

Logicamente, l’atleta che possiede un livello basso nei valori di emoglobina, necessiterà di un lasso di tempo maggiore per sviluppare i cosiddetti meccanismi di compenso, particolarmente negli atleti

che già a livello del mare manifestano tendenzialmente alcune forme di anemia . L’adozione di idonei protocolli di indagine medica è utile tanto per la pianificazione individuale dei regimi di allenamento quanto per la valutazione dinamica delle risposte adattative dell’organismo.

Le indagini clinico-strumentali dovranno essere rivolte allo studio delle risposte funzionali cardio-respiratorie all’ipossia ed all’allenamento programmato.

Alcuni esami, semplici ed efficaci, sono rappresentati dalla registrazione mattutina della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa, dalla risposta a test funzionali dinamici (es.: skip rapido “sul posto” per 15”) e dall’esecuzione di ECG a riposo e “sotto sforzo”.

La relativa stabilità degli indici funzionali raccolti in condizioni di ipossia ( a riposo e sotto sforzo), è caratteristica degli atleti con una elevata tolleranza individuale alla carenza di ossigeno. La

determinazione di questa “resistenza” individuale all’ipossia e ad altri fenomeni climatico-ambientali relativi la media-altitudine, assume un notevole valore prognostico riferente le qualità dell’atleta nell’affrontare il soggiorno di allenamento in quota.. Essa si basa su segni soggettivi ed

obiettivi di adattamento all’esposizione acuta in condizioni di ipossia , sul lavoro muscolare svolto in altitudine e sul rendimento del lavoro stesso.

TOLLERANZA ALL’IPOSSIA –

La valutazione della tolleranza individuale determina indiscutibilmente la selezione per gli stages e

per le competizioni in altitudine.

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Nella definizione : “tolleranza all’ipossia”, si comprende la capacità di un organismo di resistere ai

fattori sfavorevoli dell’ambiente esterno, grazie alla ri-organizzazione di tutte le proprie funzioni (molecolare, cellulare, degli organi e dei sistemi) e della loro regolazione neuro-umorale.

La conoscenza dei meccanismi fisiopatologici della acclimatazione e l’applicazione di appropriati metodi di indagine, hanno permesso di rilevare tre principali tipologie di tolleranza all’ipossia. Nel primo caso, si osserva una vivace risposta compensatoria dell’organismo : aumento emoglobina

e numero eritrociti; aumento velocità di produzione acido lattico e della sua eliminazione, aumento di alcune attività enzimatiche cellulari. Questo tipo di adattamento è rilevabile negli atleti il cui

stato generale non cambia durante il soggiorno in altitudine; le risposte fisiologiche all’esercizio fisico sono adeguate al grado di ipossia e la capacità di compiere un lavoro muscolare in quota è elevata.

Il secondo tipo di adattamento si caratterizza per una tolleranza ipossica ancora soddisfacente ma con risposte cardio-respiratorie più pronunciate di quanto lo stimolo richiederebbe.

Il terzo tipo di tolleranza all’ipossia mostra segni di inibizione funzionale più che di adattamento attivo : depressione dell’emopoiesi, riduzione dell’attività metabolica, inibizione della glicolisi, diminuzione dell’escrezione di creatinina, ecc. Questo tipo di risposta si accompagna ad uno

scadimento delle condizioni generali dell’atleta e rende impossibile lo svolgimento dell’allenamento in altura.

Vi sono considerevoli differenze individuali nella capacità di compiere il lavoro muscolare in condizioni di carenza d’ossigeno; è importante rilevare che un ampio range del livello di tolleranza all’ipossia si registra anche negli atleti di valore assoluto.

La tolleranza è determinabile anche in funzione dell’età; lo stress provocato dall’altitudine richiede una necessaria prudenza nel programmare periodi di allenamento in quota a giovani sportivi che

vivono abitualmente in pianura. L’accesso a stages di allenamento superiori a 2500/3000 mt, dovrà essere prudenzialmente consentito solo ad atleti che abbiamo compiuto il 16° anno di età. Talvolta, ai giovani all’esordio nel training in altitudine, sarebbero più utili alcune escursioni (anche a quote

poco più elevate), in luogo di vere e proprie sedute di allenamento.

OSSERVAZIONI RIASSUNTIVE

Le modificazioni biologiche indotte dall’ambiente a media altitudìne, implicano particolari rischi se

non si effettua una corretta acclimatazione. .L’allenamento fisico intenso, infatti, potrebbe impegnare l’organismo al di là delle sue possibilità fisiologiche di risposta. E’ molto importante, se non decisivo, possedere un elevato grado di allenamento, un buon stato di

salute ed un equilibrio organico “funzionale”, per consentire congrui processi di adattamento all’esercizio fisico in quota.

La tolleranza individuale all’ipossia è un parametro fondamentale per la selezione degli atleti da avviare al soggiorno di allenamento in altitudine; i risultati dei controlli medici periodici servono da guida alla pianificazione individuale del programma di allenamento.

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La durata critica del periodo di acclimatazione è di circa 10 giorni per gli atleti ben preparati; nel

corso di questa fase, l’allenamento dovrebbe essere costituito essenzialmente da sedute di capacità aerobica (corsa lenta). L’assenza di disturbi soggettivi non significa che si possa essere realmente

“pronti” per il vero lavoro allenante; la relativa instabilità delle funzioni organiche potrebbe condurre, a causa di sforzi inadeguati, ad un peggioramento delle condizioni di salute degli atleti. Un periodo di allenamento “normale”, dovrebbe durare almeno3/4 settimane (o anche più, per le

discipline aerobiche). All’inizio di questa fase è necessario porre attenzione a tutta la “gamma” di esercitazioni che possono comportare la creazione di un debito di ossigeno lattacido, la cui

tolleranza è ridotta dalla diminuzione del potere-tampone dell’organismo. Anche sulla scorta delle risposte individuali, l’intensità del lavoro dovrà essere minore e le pause di recupero più ampie rispetto al training in pianura.

Il ritorno a “livello del mare”, è solitamente seguito da una decina di giorni di scarso rendimento atletico. Nel corso della 2a/3a settimana, si assiste tuttavia al miglioramento delle prestazioni che, in

taluni casi, si sono dimostrate superiori a quelle ottenute prima del periodo di allenamento in quota. La spiegazione fisiopatologica di questo fenomeno presenta punti acclarati (aumento di emoglobina, ematocrito, VO2 max) ed altri più oscuri, legati soprattutto agli effetti emodinamici della

poliglobulia. “

ESPERIENZE EFFETTUATE IN SOGGIORNI DI ALLENAMENTO IN ALTITUDINE

Ad un capitolo prettamente teorico, in cui sono stati presi in esame i rilievi bioclimatologici e fisiopatologici, fa seguito una seconda parte “pratico-sperimentale, nella quale si evidenziano le esperienze effettuate nel campo dell’atletica leggera da mezzofondisti e fondisti di “buon spessore”.

METODO SPERIMENTALE DEI SOGGIORNI

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I diversi soggiorni di allenamento, sono stati svolti in località di “media-altitudine” dell’arco alpino

italiano,francese ed elvetico (Livigno, Courmayeur, St. Moritz, Riederalp, Les Deux-Alpes), presso alberghi o alloggi locati nell’area cittadina.

Non sono state prese in considerazione le eventualità di soggiorni isolati in baite o rifugi poiché il “fattore socializzante” esterno (integrazione con l’ambiente, usi e abitudini delle varie località) è stato ritenuto fondamentale per il mantenimento del miglior equilibrio psico-fisico.

Nonostante ciò, nulla si vuol togliere alla valenza di esperienze “isolate” con atleti “evoluti”e particolarmente motivati da obiettivi di spessore internazionale. Tra queste, potremmo storicamente

citare il soggiorno sperimentale del 1977 a Courmayeur (AO), stagione in cui alcuni maratoneti (Massimo Magnani, Franco Ambrosioni e Gabriele Barbaro) vivevano stabilmente alla quota dei (quasi) 3400 mt del Rifugio Torino (M.Bianco), salvo scendere “a valle” per svolgere gli

allenamenti specifici. O ancora, la spedizione messicana (1979) guidata dal Prof. Lenzi c/o il Rifugio Tlamacas sul

vulcano Popocatepetl (mt 3950) coi vari G.Bordin, M.Marchei, O.Pizzolato, A.Solone, A.Bocci ,L.Pimazzoni. Questo genere di soggiorni ha tuttavia prodotto risultati alterni e discutibili, probabilmente a causa

dell’altitudine troppo elevata. Nell’esperienza italiana, gli stages a quote elevate, sono stati “dismessi” dopo l’approccio negativo subito da Franco Fava (primi anni ’80) ai 4000 mt della

catena andina boliviana. Attualmente, da qualche anno, riscuote successo il “mal d’Africa”….Tanto il responsabile federale Gigliotti (Africa del Sud-Ovest/.Campo base Windhoek-mt 1650) quanto i Managers più blasonati

(Rosa Jr. e De Madonna in Kenya) propongono ed organizzano stages periodici nel Continente “nero”.

Per altro, in tempi di crisi economica, località quali Livigno (stage federale Maratona e Corsa in Montagna),St.Moritz (“singoli” e società “private”) e Sestrière (in fase di “rilancio”), continuano a riscuotere un notevole credito presso campioni ed utenza media.

VERIFICA DEGLI EFFETTI DEL SOGGIORNO/ALLENAMENTO IN QUOTA

Gli elementi di verifica sono stati vari ed eterogenei, nel corso degli anni gli strumenti tecnologici e le apparecchiature sono notevolmente evolute, ragion per cui si va dal semplice referto

ematochimico, supportato dalla monitorazione cardiaca, sino ai più sofisticati test funzionali “da campo” quali il “Conconi” ed il “Brue-Leger”

In alcuni soggetti, è stato rilevato il controllo quotidiano (carotideo e radiale) delle pulsazioni cardiache ( a riposo e dopo lo sforzo) e la rilevazione bi-giornaliera della pressione arteriosa (pre e post esercizio fisico).

L’esame emocromocitometrico, unito ad altri parametri ematochimici inerenti l’indicazione della funzionalità del trasporto di ossigeno (ferritina, transferrina, sideremia,ecc.), è stato utilizzato quale

veicolo utile per la correlazione tra i periodi pre e post soggiorno in altitudine. MANIFESTAZIONI FISIO-PATOLOGICHE RISCONTRATE DURANTE I

SOGGIORNI/ALLENAMENTO

Nei primissimi giorni di permanenza in quota sono state mediamente accusate cefalee e sensazioni vertiginose di lieve entità; in particolare dopo le sedute di allenamento specifico. Da rilevare anche turbe del sonno (nei primi giorni) e , in qualche caso, conati di vomito (in

concomitanza con sforzi presumibilmente eccessivi in rapporto all’altitudine). I sintomi elencati sono comuni a diversi soggiorni effettuati; generalmente questi disturbi sono

andati scomparendo dopo 4/5 giorni di permanenza.. Alla maggior parte degli degli atleti, partecipanti ai soggiorni/allenamento, sono stati somministrati preparati a base di vitamine, aminoacidi, ferro e sali minerali.

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ADATTAMENTI VERIFICATI DURANTE I SOGGIORNI IN QUOTA

Da rilevare, segnatamente, variazioni della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa. In taluni casi, è stato riscontrato un modesto aumento della pressione arteriosa in condizioni di riposo ( dopo 3-4 giorni di soggiorno) ed un aumento significativo successivamente l’esercizio

fisico. Gli atleti, in genere, hanno mostrato in altitudine una diminuzione della frequenza cardiaca massima

“sotto sforzo” rispetto agli allenamenti condotti in pianura. La frequenza cardiaca “a riposo”, rilevata al risveglio mattutino, è risultata essere, durante la prima settimana di soggiorno, superiore di circa 8-10 pulsazioni/min. rispetto ai valori abituali.

Nei giorni successivi, si è verificato un progressivo decremento di tali valori, fino quasi a raggiungere le frequenze abituali tra il 12° ed il 16°(20°) giorno di permanenza.

E’ necessario rammentare che le considerazioni emerse dai vari soggiorni, si riferiscono sempre ad altitudini “Medie” (1700/2000mt circa)

ADATTAMENTI VERIFICATI AL RITORNO IN “PIANURA”

La concentrazione emoglobinica nel sangue degli atleti non è particolarmente variata rispetto ai valori consueti; vi è anzi da sottolineare, in qualche caso, una leggera diminuzione (probabilmente dovuta all’intensità degli allenamenti).Lo stesso appunto si può notificare a carico di eritrociti ed

ematocrito Quasi tutti gli stages considerati hanno coinciso, al ritorno in pianura, con l’ottenimento delle

migliori prestazioni personali o con risultati di notevole rilievo. La frequenza cardiaca massima, rilevata al rientro, si è “normalizzata” nell’ambito dei primi giorni sui valori riscontrati precedentemente il soggiorno.

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