aggressivita’ e violenza 2010

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AGGRESSIVITA’ E VIOLENZA PREVENZIONE E GESTIONE Razza di Caino, avrà mai fine il tuo supplizio? Charles Baudelaire 1. INTRODUZIONE L’OMS 1 ha pubblicato nel 2002 il World Report on Violence and Health. Vi si legge che nel 2000 un milione e seicentomila persone sono morte nel mondo a causa di atti di atti di violenza: gli stessi autori (160 esperti che hanno lavorato per tre anni) riconoscono, però, che questa è solo la punta di un iceberg. La violenza è tra le principali cause di morte nel mondo per le persone tra i 15 e i 44 anni: 14% degli uomini e 7% delle donne. Per ogni morto, molti più sono i feriti e quelli che soffrono di problemi fisici o mentali conseguenti ad atti di violenza. I dati italiani sono sovrapponibili a quelli anglosassoni 2 . Di queste morti, 815.000 sono dovute a suicidi, 310.000 a conflitti armati e 520.000 a omicidî. Il rapporto sottolinea che, essendo la violenza un problema correlato a modi di pensare e a comportamenti plasmati da una moltitudine di fattori familiari e ambientali, essa spesso è prevedibile e prevenibilie. Di tutta questa violenza, quanta è ascrivibile a patologie psichiatriche? Il rischio globale di violenza nella società attribuibile alla malattia mentale è circa del 3% 3 . Pertanto, sulla scorta della ricerca della OMS, dei 520.000 omicidi 15.600 possono essere opera di persone con problemi psichiatrici, mentre 504.400 sarebbero perpetrati da persone “mentalmente sane”. D’altra parte, il pregiudizio sulla pericolosità dei pazienti psichiatrici resiste e ha un ruolo centrale nell’alimentare lo stigma 4 . In linea di massima, gli studi indicano un lieve aumento della frequenza della violenza (rispetto ai normali) subito dopo le dimissioni; in seguito, questa differenza scompare rapidamente. La grande maggioranza (86%) delle azioni violente sono commesse in ambito familiare e all’interno della rete amicale. 5 Facilmente in caso di omicidi clamorosi (Arizona, Columbine, ecc.) sono invocati la malattia mentale e l’assunzione di sostanze 6 . In effetti, 1 WHO, World Report on Violence and Health, Geneva, 2002. 2 ISTAT, Famiglia e società, dati dicembre 2004. 3 R. Borum e al., Assessing and managing violence risck in clinical practice, J. Prac. Psych. Behav. Health, 4, 205-215, 1996. 4 B.G. Link e A. Stueve, New evidence on the violence risk posed by people with mental illness, Arch. Gen. Psychiat., 55, 403-4, 1998 5 H.J. Steadman e al., Violence by People Discharged From Acute Psychiatric Inpatient Facilities and by Others in the Same Neighborhoods, Arch. Gen. Psychiat., 55, 393-401, 1998. 6 A. Francis, Mental Illness and Political Violence: Reckless Rhetoric, Weapons, and the Media,

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Ricerca sui comportamenti violenti in psichiatria

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Page 1: Aggressivita’ e Violenza 2010

AGGRESSIVITA’ E VIOLENZA

PREVENZIONE E GESTIONE

Razza di Caino, avrà mai fine il tuo supplizio?

Charles Baudelaire

1. INTRODUZIONE

L’OMS1 ha pubblicato nel 2002 il World Report on Violence and Health. Vi si legge che nel 2000 un milione e seicentomila persone sono morte nel mondo a causa di atti di atti di violenza: gli stessi autori (160 esperti che hanno lavorato per tre anni) riconoscono, però, che questa è solo la punta di un iceberg. La violenza è tra le principali cause di morte nel mondo per le persone tra i 15 e i 44 anni: 14% degli uomini e 7% delle donne. Per ogni morto, molti più sono i feriti e quelli che soffrono di problemi fisici o mentali conseguenti ad atti di violenza. I dati italiani sono sovrapponibili a quelli anglosassoni2.

Di queste morti, 815.000 sono dovute a suicidi, 310.000 a conflitti armati e 520.000 a omicidî. Il rapporto sottolinea che, essendo la violenza un problema correlato a modi di pensare e a comportamenti plasmati da una moltitudine di fattori familiari e ambientali, essa spesso è prevedibile e prevenibilie.

Di tutta questa violenza, quanta è ascrivibile a patologie psichiatriche? Il rischio globale di violenza nella società attribuibile alla malattia mentale è circa del 3%3. Pertanto, sulla scorta della ricerca della OMS, dei 520.000 omicidi 15.600 possono essere opera di persone con problemi psichiatrici, mentre 504.400 sarebbero perpetrati da persone “mentalmente sane”. D’altra parte, il pregiudizio sulla pericolosità dei pazienti psichiatrici resiste e ha un ruolo centrale nell’alimentare lo stigma4. In linea di massima, gli studi indicano un lieve aumento della frequenza della violenza (rispetto ai normali) subito dopo le dimissioni; in seguito, questa differenza scompare rapidamente. La grande maggioranza (86%) delle azioni violente sono commesse in ambito familiare e all’interno della rete amicale.5

Facilmente in caso di omicidi clamorosi (Arizona, Columbine, ecc.) sono invocati la malattia mentale e l’assunzione di sostanze6. In effetti, entrambi sono fattori di rischio reale per i comportamenti violenti. Tuttavia, deve essere sottolineato con forza che la violenza è un problema per un’esigua minoranza di quelli che soffrono di gravi malattie mentali e che i malati mentali sono responsabili solo di una minima frazione dei crimini violenti.

Ciò porta alla vera domanda. Perché, nei paesi sviluppati, si verifica questa epidemia di omicidi di massa? Attribuire tutto ciò alla malattia mentale degli autori ignora che malattia mentale e abuso di sostanze hanno la stessa frequenza in tutto il mondo. Pertanto, ci si deve chiedere che cosa nelle società “avanzate” renda più probabili queste tragedie. Negli USA contribuisce la grande diffusione delle armi individuali. Un problema diffuso, invece, anche nel resto del mondo è la crescente violenza degli attacchi politici. La libertà di parola si degrada sempre più spesso in dibattiti violenti, proprio del tipo che con maggiore probabilità può influenzare le persone rese più vulnerabili dalle ridotte capacità di giudizio e dell’impulsività che talora accompagnano le malattie mentali. Discorsi e dibattiti politici sconsiderati equivalgono al gettare benzina sul fuoco. È irresponsabile che

1 WHO, World Report on Violence and Health, Geneva, 2002.2 ISTAT, Famiglia e società, dati dicembre 2004.3

R. Borum e al., Assessing and managing violence risck in clinical practice, J. Prac. Psych. Behav. Health, 4, 205-215, 1996.4 B.G. Link e A. Stueve, New evidence on the violence risk posed by people with mental illness, Arch. Gen. Psychiat., 55, 403-4, 19985 H.J. Steadman e al., Violence by People Discharged From Acute Psychiatric Inpatient Facilities and by Others in the Same Neighborhoods, Arch. Gen. Psychiat., 55, 393-401, 1998.6

A. Francis, Mental Illness and Political Violence: Reckless Rhetoric, Weapons, and the Media, Psychiatric Times, 18 gennaio 2011

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chi provoca la scintilla poi rinneghi allegramente l’incendio. Anche i media e internet hanno delle responsabilità. Le coperture sensazionali della violenza stimolano l’imitazione. Ancora più colpevole è la selezione consapevole come stelle mediatiche dei personaggi più avventati e incuranti, i quali, stimolando l’avvilimento della civiltà e incoraggiando le ingiurie, possono aumentare il rischio di violenze fisiche. Sembra ovvio che l’audience abbia la precedenza sulla nostra sicurezza. Non si deve percorrere la facile via di accusare la malattia della persona senza cercare di correggere il contesto sociale che favorisce le manifestazioni comportamentali più tragiche.

Senza dubbio esistono forme di aggressività impulsiva frutto di disturbi medici (per esempio, i disturbi psicopatologici indotti da tumori cerebrali), ma, d’altra parte, è chiaro che violenza e comportamenti criminali hanno frequenza diversa tra società e società e che non sono necessariamente fenomeni neuropatologici. Forse sarebbe meglio concepire le forme di aggressività impulsiva come disturbi individuali, mentre i crimini e la violenza dovrebbero essere considerati in generale come malattie sociali. Questa distinzione, però, non aiuta a risolvere il problema dell’aggressività impulsiva: i comportamenti di questo tipo – in un paziente senza disturbi medici primari – rappresentano un qualche tipo di disturbo psichiatrico della persona oppure sono solamente il riflesso del disagio sociale?

Fin dal tempo di Darwin c’è chi sottolinea la base genetica e l’utilità per la sopravvivenza dei comportamenti aggressivi dell’uomo. Dall’altra parte, l’idea che i comportamenti aggressivi nell’uomo siano guidati prevalentemente dalla natura e non dall’educazione è stata molto criticata. In effetti,ci sono dati crescenti sull’importanza dei fattori psicosociali nell’eziologia dell’aggressione. Ciò che deve essere tenuto presente e studiato, in ogni caso, è la complessa interazione tra natura e educazione7.

L’eziologia del comportamento aggressivo nei pazienti psichiatrici è multifattoriale:

1. La copresenza di abuso di sostanze, la dipendenza o l’intossicazione possono facilitare la violenza,

2. Il processo stesso della malattia può provocare allucinazioni e deliri che inducono violenza;

3. Uno scarso controllo degli impulsi collegato a deficit neuropsichiatrici può favorire il manifestarsi di tendenze aggressive;

4. Le caratteristiche della personalità, come tratti antisociali o psicopatici, possono influenzare l’uso della violenza per raggiungere degli scopi;

5. Nei pazienti ricoverati, l’ambiente caotico o instabile di un reparto può incoraggiare comportamenti aggressivi.

Le persone possono diventare aggressive per ragioni diverse in momenti diversi e l’aggressività transitoria e quella persistente possono avere cause diverse e richiedere strategie diverse per essere gestite.8

Esistono tre sottotipi principali di comportamento aggressivo nelle persone con disturbi psichiatrici: psicotico, strumentale e impulsivo. L’attacco di un paziente sotto l’influenza di allucinazioni imperative è un esempio del sottotipo psicotico. L’aggressione strumentale è un atto pianificato per raggiungere uno scopo. Per esempio, due ricoverati possono litigare per una poltrona o un programma TV; questo tipo è comune anche tra i non pazienti. L’aggressione impulsiva non è pianificata, è causata da una mancanza d’inibizione comportamentale e non si preoccupa delle conseguenze9.

In realtà, una compromissione del controllo dell’aggressività con conseguenti comportamenti violenti contro se stessi o contro altri può far parte del quadro psicopatologico di alcuni disturbi psichiatrici; ma l’entità e la rilevanza epidemiologica di tali problemi è oggetto di dibattito e di difficile determinazione.

Questa ultima considerazione introduce il problema del collegamento e dell’interazione tra violenza e aggressività, che non sono ovviamente sinonimi.

7 D.J. Stein, Is impulsive aggression a disorder of the individual or a social ill? A matter of metaphor, Biol. Psychiat., 36, 353-5, 1994.8

L. Citrome, Aggression, eMedicine Psychiatry, 22 ottobre 2009.9

K. Látalová e J. Pasko, Aggression in borderline personality disorder, Psychiat. Quart. 14 aprile 2010.

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2 - DEFINIZIONI

Termini come aggressione, violenza, crimine e ostilità sono usati anche nella letteratura medica. Aggressione è usata sia per gli esseri umani, sia per gli animali.

Per violenza s’intende l’aggressione fisica da parte di un essere umano verso un altro, con l’intenzione specifica di fare del male.

In letteratura i termini “aggressività” e “violenza” sono erroneamente considerati sinonimi intercambiabili e ciò riflette la confusione e la mancanza d’accordo tra clinici e ricercatori. Altri termini come rabbia e odio sono usati per descrivere manifestazioni aggressive che, invece, connotano la violenza.

Le scienze sociali e biologiche sono giunte a riconoscere che probabilmente le influenze più importanti sullo sviluppo dei comportamenti violenti derivano dall’ambiente o dall’esperienza. Sebbene la violenza non generi invariabilmente violenza, ci sono molte prove che una storia di maltrattamenti è spesso associata ai comportamenti aggressivi. Dal concepimento in poi, i modi in cui gli esseri viventi sono trattati influenzano il modo in cui tratteranno i loro simili. Tuttavia, come il trattamento abusante generi aggressività non è ancora del tutto compreso10.

Alla base del comportamento violento stanno due concetti correlati ma distinti: l’impulsività e l’aggressività, le quali possono essere parte delle caratteristiche cliniche di molte patologie psichiatriche, ma che non sono specifiche dal punto di vista diagnostico, potendo essere considerate dei costrutti dimensionali.

Negli uomini, l’aggressione può essere verbale, fisica contro oggetti o fisica contro altri. La definizione può includere anche l’aggressione contro se stessi (autolesionismo, gesti suicidari). Il termine violenza è usato solo per descrivere il comportamento umano e indica l’aggressione fisica di una persona contro un’altra. Un crimine è definito come una violazione intenzionale della legge. Ostilità è un termine vago e può riferirsi ad aggressività, irritabilità, sospettosità, gelosia o mancanza di cooperazione.

L'aggressività è una caratteristica intrinseca al mondo animale e tale termine non deve esser valutato esclusivamente in termini negativi: infatti, sia nell'uomo sia nell'animale vi è un'aggressività sana che permette loro di affrontare i pericoli e le difficoltà della vita con coraggio, audacia e iniziativa. La differenza principale tra l'essere umano e il resto del mondo animale (non dimentichiamoci mai che anche l'uomo è essenzialmente un animale) è che l'aggressività è interpretata come un'espressione della volontà di potenza diretta al superamento dei sentimenti d’inferiorità, rispetto a un esercizio dell'aggressività dovuta a una necessità di sopravvivenza. Nel genere umano, inoltre, i comportamenti aggressivi assumono delle forme particolari che, spesso, possono esser distinte in base al genere: infatti, sulla base delle caratteristiche fisiche dei due sessi derivano dei peculiari comportamenti aggressivi come il pugno per gli uomini e il graffio o il tirarsi i capelli nelle donne.

Tali comportamenti sono di natura esplicita, ma non bisogna dimenticare che l'aggressività può manifestarsi in due differenti modalità. 1 - Palese ed esplicita: tale forma di aggressività si esprime nel comportamento attraverso l'arroganza, l'irascibilità, la tendenza alla lite e ad opprimere gli altri attraverso rimproveri, urla o attacchi di natura fisica e violenta. 2 - Mascherata, che non si nota, non si vede apparentemente, ma che può essere espressa da atteggiamenti opposti rispetto a quelli in precedenza esposti: calma eccessiva, comportamenti estremamente educati, eccessiva sottomissione all'autorità, eccessiva gentilezza ed educazione. Quest’aggressività è repressa, nel senso che la persona non consente a questo istinto di fare parte della propria concezione globale della vita e di sé. Questo perché l'aggressività scatena angoscia ed è avvertita come un pericolo.

Aggressione, termine usato nelle ricerche sia animali, sia umane, è definita come un

10 D.O. Lewis, From abuse to violence: psychophisiological consequences of maltreatment, J. Am. Acad. Child Adolesc. Psychiatry, 31, 383-91, 1992.

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comportamento manifesto implicante l’intenzione di arrecare uno stimolo nocivo a un altro organismo o di comportarsi in modo distruttivo verso oggetti inanimati. Gli esseri umani possono manifestare tre sottotipi di aggressione: verbale, fisica verso altre persone e fisica verso oggetti. La violenza, termine esclusivamente umano, in genere indica l’aggressione fisica di altre persone e perciò è considerata un sottotipo dell’aggressione.11

Per violenza s’intende l’aggressione fisica da parte di un essere umano verso un altro, con l’intenzione specifica di fare del male.12

Violenza (OMS, 2002): l’uso deliberato della forza fisica o del potere, minacciato o attuale, nei confronti di se stessi, di un’altra persona o verso un gruppo o una comunità, che può (o ha un’alta probabilità di) determinare lesioni, morte, danno psicologico, alterazioni dello sviluppo o deprivazione.

La violenza può essere suddivisa in tre tipi.13

1 – Perdita episodica del controllo: si applica a persone nelle quali il disturbo compare per la prima volta in seguito a un danno cerebrale o in cui è presente dall’infanzia o dalla prima adolescenza. Corrisponde al disturbo esplosivo intermittente del DSM-IV-TM. È importante per il suo impatto sociale, essendo una delle cause di omicidi non premeditati, suicidi, aggressioni immotivate, violenza in famiglia, ecc.La violenza episodica è trans-nosografica, ma può verificarsi nella minoranza dei casi di ogni categoria diagnostica (psicosi, nevrosi, disturbi di personalità, disturbi del comportamento infantile, psicopatia, sindromi cerebrali organiche, epilessia, ritardo mentale, malattie metaboliche, disturbi dello sviluppo e dell’apprendimento).La forte carica affettiva la differenzia dall’aggressione predatoria fredda e insensibile dello psicopatico e dall’aggressione abituale praticata come mezzo di sopravvivenza nei bassifondi e nelle carceri. Talvolta, specialmente nelle donne, è verbale; quando è fisica la violenza ha caratteri primitivi e spesso coinvolge oggetti. In genere è seguita dal rimorso, tranne che nel caso di psicopatici o negli ambienti in cui la violenza contro il coniuge o i figli è accettata. Le persone che vanno soggette a questi attacchi possono manifestare comportamenti senza freni in altri ambiti, come l’abuso di alcol o droghe, lo stupro, il furto o pirateria della strada.Quale che ne sia l’origine, che il problema sottostante sia neurologico o psicologico, la perdita di controllo episodica può essere scatenata da piccole quantità di alcol, mentre forti quantità possono causare un’intossicazione patologica nella quale mancano i segni dell’ubriachezza, mentre il comportamento è bizzarro e talvolta violento, seguito da un’amnesia totale dell’episodio.

2 – Aggressività psicopatica: deriva da un ritardo dello sviluppo sociale ed emotivo in assenza di un significativo ritardo cognitivo. In effetti, la psicopatia può basarsi su un deficit funzionale dei circuiti cerebrali legati alla gestione delle emozioni, cosa che determina uno scarso apprendimento dell’evitamento, una ridotta risposta alla paura e una reattività affettiva deficitaria14 In genere è un’aggressione fredda e insensibile, come risposta a provocazioni minime.

3 – Violenza compulsiva: la violenza nei pazienti con DOC è rara (già Freud diceva che questi pazienti non mettono mai in atto le loro fantasie). Ciò non vale quando i sintomi compulsivi compaiono dopo un danno cerebrale.

Il picco di frequenza della violenza fisica occorre nell’adolescenza e nella prima età adulta. Dopo la quinta decade di vita la violenza patologica può comparire in persone in

11 L. Citrome e J. Volavka, Clinical management of persistent aggressive behavior in schizophrenia, Essen. Psychopharm., 5, 1-30, 2002.12 K. Tardiff, Malattia mentale e violenza, Nóos, 4, 93-103, 1998.13 F.A. Elliott, Violence. The neurologic contribution: an overview, Arch. Neurol., 595-603, 1992.14 J.L. Müller e al., Abnormalities in emotion processing within cortical and subcortical regions in criminal psychopaths: evidence from a functional resonance imaging study using pictures with emotional content, Biol. Psychiat., 54, 152-162, 2003.

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precedenza non aggressive a causa di danni cerebrali organici, d’intossicazioni e di psicosi croniche.

La violenza patologica sotto forma di perdita episodica di controllo o di aggressione predatoria è molto più comune tra i maschi.

La genetica sembra avere un peso nell’aggressività patologica, in particolare nella perdita di controllo episodica, nell’ADHD e nella psicopatia.

L’ADHD è un antecedente comune della perdita di controllo episodica e di altre forme di comportamenti antisociali, che possono persistere nell’età adulta. È visto come un problema di sviluppo cronico, con una forte predisposizione biologica e genetica e con un impatto negativo importante sui risultati scolastici e sociali.

La maggior parte degli epilettici non è violenta, ma se si considerano le persone ripetutamente aggressive, allora l’incidenza degli epilettici è maggiore che nella popolazione generale. Ciò è particolarmente vero per l’epilessia temporale. Tuttavia, sembra che le crisi e la violenza inter-ictale siano due processi diversi, originati in lesioni diverse del lobo temporale. La violenza diretta a ferire o danneggiare è rara negli epilettici, tanto che c’è chi ne nega l’esistenza. Un problema più spinoso è se un attacco di rabbia associato ad amnesia completa o parziale può essere causato da una scarica limbica focale diversa dall’epilessia (c.d. equivalente epilettico). Ci sono prove che gli attacchi epilettici possono provocare disturbi dell’umore maggiori, compresa depressione a cicli rapidi, e che una crisi di rabbia può esitare in una crisi convulsiva.

L‘attuale epidemia di violenza interpersonale e collettiva non può essere spiegata da un’improvvisa diffusione di disturbi biologici. È il risultato di condizioni sociali e del declino del potere dei vincoli culturali. [?]

In condizioni di anomia, l’aggressività prolifera e diventa sempre più incontrollabile. Inoltre, l’imitazione gioca un ruolo nella violenza adolescenziale. Un altro aspetto dell’attuale epidemia è la comparsa di molti giovani maschi con molte caratteristiche della psicopatia. Essi sono narcisisti, privi di altruismo e di coscienza sociale, portati al rischio, impazienti, impulsivi e intolleranti, dediti all’alcol, alle droghe e alla violenza impulsiva15.

L’aggressività e la violenza sono in parte collegate all’ impulsività. 16 L’impulsività è direttamente menzionata nel DSM come criterio diagnostico di diversi disturbi, ma non è definita in modo esplicito. In letteratura non c’è accordo su come definirla e, tanto meno, su come misurarla. In linea di massima, può essere definita come l’impossibilità a resistere a un impulso, a un’iniziativa o a una tentazione che è dannosa per sé o per gli altri. Ciò che rende un impulso patologico è l’incapacità a resistergli e la sua espressione in un ambiente inappropriato.17 Sono state individuate tre componenti dell’impulsività: 1) agire in base allo stimolo del momento (attivazione motoria); 2) non concentrarsi sul compito del momento (attenzione); 3) non pianificare e riflettere con attenzione (mancanza di pianificazione).

Tenendo conto delle ricerche biopsicosociali, la definizione dell’impulsività dovrebbe tenere conto dei seguenti elementi: 1) ridotta sensibilità alle conseguenze negative del comportamento; 2) reazioni rapide, non programmate agli stimoli, prima che sia stata completata l’elaborazione dell’informazione; 3) mancanza di considerazione per le conseguenze a lungo termine.

Si ritiene che, dal punto di vista sociale, l’impulsività sia un comportamento appreso, provenendo da un ambiente familiare in cui il bambino impara a reagire immediatamente per ottenere ciò che lo gratifica. Da questo punto di vista le persone impulsive non sono in grado di valutare le conseguenze delle loro azioni, sia nei propri riguardi sia verso gli atri.

L’impulsività può essere definita come la predisposizione a reazioni rapide, non pianificate in risposta a stimoli interni o esterni senza preoccupazione per le conseguenze negative che queste reazioni possono avere sulla persona stessa o sugli altri.

Questa definizione considera l’impulsività una predisposizione facente parte di uno stile di comportamento e non un atto singolo. Inoltre, l’impulsività implica azioni rapide e

15 F.A. Elliott, cit., 1992; R.F. Kruger e al., Personality traits linked to crime among men and women: evidence from a birth cohort, J.

Abnorm. Psychol., 103, 328-338, 1994.16

F.G. Möller e al., Psychiatric aspects of impulsivity, Am. J. Psychiat., 158, 1783-93, 2001.17

S. Cherkasky e E. Hollander, Aspetti neuropsichiatrici dell’impulsività e dell’aggressività, in:S.C. Yudofsky e R.E. Hales (Eds.), Neuropsichiatria, cap. 17, CSE, 2000.

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non pianificate che si verificano prima che la coscienza riesca a valutare le conseguenze dell’atto. Infine, l’impulsività implica agire senza preoccuparsi delle conseguenze delle azioni. L’impulsività spesso comporta dei rischi, ma non è il tipo di rischi legati alla ricerca di stimoli (sensation seeking).

L’impulsività può essere presente in persone con o senza una diagnosi DSM, ma è più frequente in persone con certi disturbi psichiatrici, come i disturbi di personalità, la mania e la dipendenza da sostanze. L’associazione è, almeno in parte, dovuta alla concettualizzazione e alla definizione di questi disturbi. È stato suggerito un modello a tre fattori dell’impulsività che comprende una maggiore attivazione motoria, una minore attenzione e una minor capacità di pianificazione18.

È possibile che diversi disturbi psichiatrici siano legati all’impulsività attraverso schemi diversi di queste tre variabili. I criteri diagnostici attuali non consentono di differenziare, entro le categorie diagnostiche, le persone impulsive da quelle che non lo sono.

Disturbo di personalità antisociale. Nel DSM l’impulsività o l’incapacità a pianificare è solo un criterio diagnostico possibile, ma non necessario. Così, è probabile che la popolazione diagnosticata dal DSM come DPAS vari in impulsività. Possibili fattori contribuenti alla presenza dell’impulsività sono l’irritabilità cerebrale (diversi migliorano se trattati con antiepilettici), i traumi cranici (un danno frontale può causare l’impulsività) e un’alterazione del sistema serotoninergico. I pazienti antisociali con anche impulsività possono essere biologicamente diversi da quelli che non sono impulsivi.

Disturbo di personalità borderline. L’impulsività in questa categoria è molto stabile ed è un fattore chiave della diagnosi. Appare anche essere un fattore legato alla suicidarietà di questi pazienti.

Abuso/dipendenza da sostanze. È un comportamento che non è intrinsecamente impulsivo. Tuttavia, come risposta allo stress o a fatti ambientali una persona può usare sostanze in modo rapido e non pianificato, senza pensare alle conseguenze. Una volta che è iniziato l’uso, carving e astinenza possono portare all’uso continuato o alla dipendenza. L’abuso è più frequente tra le persone che presentano anche altri comportamenti impulsivi.

Disturbo bipolare. Gli episodi di mania implicano invariabilmente comportamenti impulsivi. L’impulsività è comunque presente anche al di fuori degli episodi acuti, come tendenza di fondo, come prodromo e legata al rischio di suicidio o di abuso di sostanze. Può pertanto avere componenti di tratto e di stato.

ADHD. Disattenzione, iperattività e impulsività sono sintomi del ADHD.Diverse ricerche indicano l’utilità del litio, degli antiepilettici, dei NL atipici e degli

SSRI nel trattamento dell’impulsività aggressiva a lungo termine, mentre i neurolettici tipici sembrano più appropriati solo nel trattamento acuto.

Impulsività

Il termine deriva dal latino impulsu(m), propr. part. pass. del v. impellere ‘spingere (pellere) avanti (in-)’, ripreso nell'Ottocento dalla terminologia scientifica internazionale. L’impulso è stato definito ‘moto istintivo dell'uomo che lo spinge ad atti anche violenti’ (V. Canaldo, 1649).

L’impulsività è definita come l’impossibilità a resistere a una spinta, o a una tentazione che risulti dannosa per sé o per gli altri. L’eccessiva spinta ad agire – come nel caso d’iper-stimolazione o di assunzione di stimolanti – o un danno ai sistemi di controllo del comportamento – per malfunzionamenti cerebrali – possono portare alla suscettibilità al comportamento impulsivo. I comportamenti normalmente sono filtrati al di fuori della coscienza, quasi istantaneamente, prima che si possa riflettere consapevolmente su di essi. Quando è danneggiato il sistema di filtro, la consapevolezza non può prevenire una risposta impulsiva19.

18 J.H Patton e al., Factor structure of the Barratt Impusiveness Scale, J. Clin. Psychol., 51, 768-74, 1995.

19 A.R. Damasio, D. Tranel e H.C. Damasio, Somatic markers and the guidance of behavior, in: H. Levin e al. (Eds.), Frontal lobe

function and dysfunction, OUP, 1991, cap. 11; A. Bechara, H.C. Damasio e A.R. Damasio, Emotion, decision making and the orbitofrontal cortex, Cerebral Cortex, 10, 295-307, 2000; A. Bechara, Neurobiology of decision making: risk and rewards, Sem. Clin. Neuropsychiat., 6, 205-16, 2001.

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Un impulso può essere improvviso e transitorio oppure derivare da un graduale aumento della tensione che esplode, manifestandosi in una violenza senza riguardo per sé o per gli altri, seguito da gratificazione o da un calo della tensione quando l’atto è compiuto. Ciò che rende patologico un impulso è l’incapacità a resistergli e la sua espressione in un ambiente inappropriato20. Tipicamente, la persona impulsiva non è capace di usare la conoscenza per modificare il suo comportamento, anche se sa cosa sarebbe meglio fare.

L’impulsività è un aspetto misurabile del comportamento che si manifesta con impazienza (anche nei confronti della propria gratificazione), disattenzione, sottostima del danno possibile e facile esposizione al rischio, ricerca di sensazioni forti e in generale del piacere, nonché spiccata estroversione. I disturbi dell’impulsività implicano un’incapacità a resistere a una spinta verso un atto potenzialmente auto-distruttivo, un’impennata dell’ansia prima di commettere il gesto ed un allentamento della tensione dopo aver ceduto all’impulso21.

Figura 1. Fenomenologia dell’impulso

Non ci sono dubbi sul fatto che i comportamenti impulsivi determinino gravi conseguenze sia individuali, sia sociali (omicidi, stupri, tossicodipendenze, AIDS, ecc.). Anche l’attività clinica è molto spesso impegnata nel trattamento di disturbi legati a comportamenti impulsivi (abusi fisici o sessuali, disturbi infantili o di personalità, ecc.).

Oltre alle preoccupazioni sociali, mediche e di salute pubblica, i comportamenti impulsivi hanno anche un’importanza teorica rilevante in psicologia. Se la maggior parte delle azioni segue il corso del pensiero, come afferma un paradigma della psicologia, come possiamo spiegare i comportamenti che si verificano – spesso ripetutamente – senza una valutazione cognitiva? Perché certe persone continuano a mettere in atto comportamenti impulsivi nocivi, che

20 S. Cherkasky e E. Hollander, Aspetti neuropsichiatrici dell’impulsività e dell’aggressività, in: S.C. Yudosfsky e R.E. Hales, (Eds.),

Neuropsichiatria, CSE, 2000, cap. 17.21

S. Pallanti, M. Bruscoli e L. Quercioli, Psicobiologia del disturbo del controllo degli impulsi non altrimenti specificato, Nóoς, 9, 107-23, 2003.

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chiaramente non sono nel loro interesse? La psicologia è in grado di fornire una teoria e una pratica utili per modificare questi comportamenti impulsivi?

Dal punto di vista comune, una persona impulsiva è quella che mette in atto frequentemente pensieri non pianificati che altri non hanno o che non agiscono.

Il termine impulso si riferisce a pensieri, mentre impulsività si riferisce a un insieme di comportamenti ripetitivi in qualche modo collegati a quei pensieri. Nonostante un apparente consenso su ciò, in psicologia non si è ancora riusciti a trovare una definizione soddisfacente dell’impulsività. Essa può avere sia aspetti positivi, sia negativi. Dal punto di vista clinico comprende comportamenti che avvengono (a) senza controllo, inibizione, misura o repressione; (b) senza riflessione, pensiero o considerazione; (c) senza prudenza, pianificazione o considerazione per le conseguenze; o (d) con un senso d’immediatezza e di spontaneità22. L’impulsività è stata suddivisa in tre componenti: 1) l’agire sotto lo stimolo del momento (attivazione motoria); 2) il non concentrarsi sul compito del momento (attenzione); 3) il non pensare chiaramente e fare progetti accurati (mancanza di pianificazione)23. Gli aspetti comportamentali negativi dell’impulsività si manifestano in azioni scarsamente progettate, messe in atto nel momento sbagliato, inutilmente rischiose o inappropriate riguardo alla situazione e che spesso determinano conseguenze indesiderate. Quando queste azioni hanno esisti positivi, tendono ad essere viste non come segno d’impulsività, ma indici di audacia, sveltezza, naturalezza, coraggio o non conformismo.

Alcuni studi hanno suggerito che l’impulsività sia un tratto comportamentale duraturo, evidente già nella prima infanzia24 e con una componente genetica significativa25. D’altra parte, come vale per tutti i disturbi psichiatrici, l’organizzazione cerebrale non è la semplice manifestazione dei geni26, ma riflette anche influssi epigenetici derivanti dal modo in cui i fattori ambientali agiscono sulla madre e, quindi, sull’ambiente intrauterino27. Si è però anche dimostrato che è possibile modificare i processi di pensiero dei bambini a rischio, riducendo i comportamenti impulsivi e gli esiti antisociali28. Inoltre, non sempre il comportamento precoce è predittivo di un’impulsività successiva: certi aspetti delle interazioni sociali precoci con le figure d’accudimento sono importanti fattori predittivi d’impulsività.

Se si esaminano le varie descrizioni del comportamento impulsivo, appare chiaro che un aspetto comune di tale comportamento è il fallimento del prendere in considerazione tutti gli aspetti importanti della situazione cui la persona si trova davanti o le caratteristiche della persona relative alla situazione, come parte del prodromo all’azione. Inoltre, sembra che spesso le possibili conseguenze negative o lontane nel tempo non siano adeguatamente prese in considerazione nel processo decisionale. Il fatto di non tenere conto delle informazioni importanti può sostanzialmente riflettere una ridotta capacità di prendere in considerazione molti fattori simultaneamente o in tempi ravvicinati. Ciò può avvenire per una limitata capacità di rappresentazione, cosicché una singola rappresentazione occupa la maggior parte della capacità disponibile. Ciò ha importanti implicazioni pratiche nella gestione dei comportamenti impulsivi, dove è essenziale la semplificazione massima degli stimoli.

Gli aspetti dinamici dell’organizzazione cerebrale che stanno alla base dell’impulsività sono riconducibili alle caratteristiche microstrutturali dei circuiti nervosi, che sono fondamentalmente formati prima della nascita, ma non su base interamente genetica. Fattori ambientali prenatali, non

22 W.G. McCown e P.A. DeSimone, Impulses, impulsivity and impulsive behaviors, in: The impulsive client, APA, 1993.

23 J.H. Patton, M.S. Stanford e E.S. Barratt, Factor structure of the Barratt Impulsiveness Scale, J. Clin. Psychol., 51, 768-774, 1995.

24 J. Kagan e al., Infant antecedent of cognitive functioning, Ann. Prog. Chid Psychiat. Child Develop., 46-77, 1979.

25 M. Zuckerman, Sensation seeking and impulsivity, in: The impulsive client, APA, 1993.

26 G.M. Edelman, Topobiologia, Bollati Boringhieri,1993.

27 J.H. Daruna e P.A. Barnes, A neurodevelopmental view of impulsivity, in: The impulsive client, APA, 1993.

28 M.E. Touchet, M.B. Shure e W.G. McCowan, Interpersonal cognitive problem solving as prevention and treatment of impulsive

behaviors, in: The impulsive client, APA, 1993.

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del tutto chiariti, possono contribuire all’organizzazione cerebrale nell’utero, predisponendo la persona all’impulsività. Le manifestazioni comportamentali precoci dell’impulsività sono difficili da stabilire, ma alcuni dati sembrano indicare che un ‘temperamento difficile’ può essere un precursore dell’impulsività. Anche esperienze precoci con genitori rigidi e iper-controllanti sono state associate con una successiva impulsività.

Allo stato attuale delle conoscenze, sembra ragionevole considerare l’organizzazione cerebrale alla nascita predisposta a potenziali comportamenti impulsivi in futuro. I fattori genetici, sebbene abbiano un’importanza, probabilmente non sono così significativi come sembra a prima vista. Le esperienze materne durante la gravidanza e la gestione del comportamento del bambino possono avere un profondo effetto sulla struttura cerebrale e sulla potenzialità d’agire impulsivamente.

La tendenza ad agire impulsivamente può apparire in alcuni bambini come un temperamento difficile. Se una tale tendenza comportamentale porta ad una sotto-stimolazione (per evitare che il bambino si agiti) o ad un maneggiameto brusco da parte dei genitori (a causa della frustrazione), la conseguenza può essere il plasmare l’organizzazione cerebrale in una direzione che rinforza ulteriormente la predisposizione all’impulsività. Man mano che il bambino cresce e diventa più mobile, l’impulsività comincia a manifestarsi più direttamente e può radicarsi ulteriormente se si cerca di controllarla aggressivamente.

Queste ipotesi suggeriscono che l’impulsività (“fallo appena ti è possibile”) possono essere un adattamento riuscito ad ambienti impoveriti, pericolosi od ostili. È una predisposizione naturalmente disponibile nel genoma che ottiene espressività fenotipica crescente per opera delle forze selettive operanti nell’ambiente dopo il concepimento. Un ruolo degli influssi prenatali potrebbe essere, ad esempio, il fatto che la madre viva in un ambiente impoverito e pericoloso, fatto che potrebbe indurre adattativamente il suo ambiente interno a esercitare una pressione sull’organizzazione del cervello fetale in una direzione che predispone a tendenze comportamentali, come l’impulsività, che possono avere maggiore successo in un tale ambiente. È anche importante riconoscere che una volta che emerge questa tendenza, per qualsiasi ragione, essa funzionerà come organizzatore dell’ambiente. In altre parole, l’impulsività provocherà reazioni nell’ambiente tali da portare al suo stesso rinforzo e stabilizzazione.

È pertanto essenziale essere consapevoli che le “reazioni naturali” al comportamento impulsivo (ad esempio, punizioni o iper-controllo) possono essere controproducenti. Quello di cui possono avere bisogno i bambini impulsivi è un costante aiuto a riconoscere la loro predisposizione ad agire sulla base d’informazioni parziali ed interventi che li aiutino a mantenere l’attenzione e ad esaminare adeguatamente le situazioni prima di agire29.

Sebbene l’impulsività sia direttamente menzionata nel DSM tra i criteri diagnostici di diversi disturbi psichiatrici e sia implicita nei criteri di altri disturbi, poca attenzione è stata prestata per chiarire il suo ruolo nella patologia psichiatrica. Una definizione dell’impulsività che tenga conto dei dati biologici dovrebbe tenere presente sia la rapidità della risposta, sia la mancanza di pianificazione. Dal punto di vista psicologico dovrebbe comprendere la ridotta sensibilità alle conseguenze negative dei comportamenti, la reattività rapida e non pianificata agli stimoli, prima che l’informazione sia stata completamente elaborata, e la mancanza di considerazione delle conseguenze a lungo termine. Dal punto di vista sociale, dovrebbe considerare il fatto che l’impulsività spesso ha effetti sia sulla persona impulsiva, sia sugli altri.

L’impulsività può essere definita come una predisposizione a reazioni rapide, non pianificate a stimoli interni o esterni, senza considerazione delle conseguenze negative che queste reazioni possono avere per l’individuo o per gli altri 30 .

29 J.H. Daruna e P.A. Barnes, cit., 1993.

30 F.G. Moeller e al., Psychiatric aspects of impulsivity, Am. J. Psychiat., 158, 1783-93, 2001.

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Predisposizione indica che l’impulsività fa parte di uno schema di comportamento e non si riferisce ad un atto unico. Ciò è importante perché, tra l’altro, la risposta al trattamento è diversa tra chi agisce l’aggressività d’impulso e chi invece l’agisce in modo premeditato.

L’azione rapida e non pianificata che si verifica prima di usare l’opportunità di valutare coscientemente le conseguenze di un’azione distingue l’impulsività dal danno alle capacità di giudizio o dai comportamenti compulsivi, nei quali si verifica un certo tipo di pianificazione prima dell’azione.

La mancanza di considerazione per le conseguenze indica che spesso l’impulsività espone a rischi, ma ciò è diverso dal correre rischi di chi è alla ricerca di sensazioni forti (sensation seeking).

Aggressività

L’aggressività è considerata un istinto-tendenza-disposizione-affetto determinata da fattori innati che, assieme a fattori acquisiti ed ambientali, acquisisce la “forma” con cui si esprime ed i diversi gradi d’intensità con cui si manifesta a livello comportamentale.

Il termine deriva dal verbo latino aggredi (composto da ad – particella indicante direzione – e gradi, andare, camminare): quindi, etimologicamente significa “andare verso un luogo o una persona, andare incontro”. In psicologia è stato invece definito come la ‘tendenza a manifestare un comportamento ostile’ (E. Morselli, 1926).

L’aggressività consiste in tutte le forme di comportamento dannoso o lesivo verso altre persone. Costituisce un atto multideterminato che esita spesso in offese fisiche o verbali verso altri, se stessi od oggetti. Le manifestazioni comportamentali dell’aggressività sono caratterizzate da un aumento della vigilanza e della prontezza all’attacco.

Negli animali l’aggressività può essere classificata come predatoria (messa in atto con scarsa attivazione del SNA, allo scopo di procurarsi nutrimento) od affettiva (implicante un’intensa attivazione del SNA e messa in atto nei comportamenti tra maschi, in quelli indotti dalla paura o dall’irritazione)31: nell’uomo non può essere classificata così semplicemente.

Ognuno di noi sa intuitivamente che cosa s’intenda per comportamento aggressivo; tuttavia i tentativi di definirlo e di darne una spiegazione sono stati molteplici e controversi, dal momento che il concetto stesso di aggressività varia a seconda che questa venga considerata ora un "istinto", ora una "modalità comportamentale" ora una "emozione" reattiva ad un evento stressante e/o frustrante.

L’aggressività non può essere concepita, quindi, solo come una componente endogena, in quanto risente anche, ed in modo complesso, di condizionamenti psicosociali, ambientali e storici in grado di modularla, inibirla o sollecitarla in relazione alla personalità, all’educazione ed al sistema cognitivo/affettivo dell’individuo.

Esiste, dunque, da una parte il mondo interno di ciascuno di noi, con la propria “carica” aggressiva personale e dall’altra il contesto in cui viviamo32.

Nell'accezione più comune, tuttavia, il termine "aggressivo" serve per descrivere il comportamento con il quale gli individui perseguono attivamente i loro interessi gli uni contro gli altri nella società (politici, sportivi, ma anche gruppi sociali, Stati, ecc.); altri termini, quali "violenza" o "crudeltà", pur indicando anch'essi comportamenti finalizzati a causare danno, sono inequivocabilmente permeati di un significato ostile. Ad esempio in campo criminologico la "violenza" (il crimine violento) è definita da parametri politici e/o e giuridici più che da considerazioni scientifiche.31

D.O. Lewis, cit., 1992.32

S. Tartaglione e P.L. Castrignanò, I concetti clinici e i significati dell’aggressività e della violenza, in: ViolentaMente, Del Cerro, 1999.

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D'altra parte la pulsione aggressiva è considerata, nell'accezione etologica, un elemento primario per garantire la sopravvivenza dell'individuo e della specie e parliamo di aggressività anche quando intendiamo caratterizzare l'impeto e la spinta volitiva o la competizione presenti in un'attività produttiva, un'impresa scientifica, sportiva o artistica che comporti una sfida a se stessi o ad altri.

L’aggressione è un comportamento e non è considerata un tratto di base della personalità, ma il risultato di una combinazione di tratti. Come per l’impulsività, Barratt33 considera tre tipi di aggressione:

aggressione premeditata: è appresa psicosocialmente ed implica una pianificazione consapevole del comportamento aggressivo; si estende dallo sport all’omicidio ed alla guerra;

aggressione medica o psicopatologica: è legata a specifiche condizioni, come l’agitazione da trauma cranico o l’aggressione sotto l’influsso di allucinazioni;

aggressione spontanea o impulsiva: si manifesta con azioni messe in atto senza autocontrollo.

Barratt ipotizza, inoltre, che l’aggressione spontanea o impulsiva sia correlata principalmente a due tratti di personalità di primo ordine, l’impulsività e la rabbia/ostilità, che hanno una componente genetica ed una corrispondenza con specifici funzionamenti cerebrali.

Dal punto di vista etologico e relazionale si deve considerare anche l’aggressione difensiva, che può assumere notevole importanza in determinante circostanze in relazione a fattori interni e/o esterni.

Teorie dell’aggressività

1. Istinto . Questa teoria nasce dagli studi etologici, secondo i quali sarebbe un comportamento istintivo che favorisce la sopravvivenza e la riproduzione. I comportamenti aggressivi degli animali possono essere suddivisi in aggressione affettiva e aggressione predatoria, che differiscono anche nei loro substrati neurologici. Ma negli esseri umani la varietà dei comportamenti aggressivi e delle loro motivazioni (d’altra parte non ancora adeguatamente tipizzate) fanno ritenere che il ruolo dei processi istintivi o innati sia relativamente piccolo. In campo psicoanalitico, l’aggressività è interpretata come una pulsione istintuale, un istinto positivo di attività che mira all’oggetto e, quindi, all’autorealizzazione.

2. Frustrazione . L’essere ostacolati nel raggiungere uno scopo porterebbe sempre all’aggressività. Ciò, tuttavia, non è sempre vero. Non sempre la frustrazione porta all’aggressività e non sempre l’aggressività è indotta dalla frustrazione (in particolare dalle frustrazioni non arbitrarie). L’accumulo di frustrazioni percepite come arbitrarie tende a rafforzare l’aggressività, fino a quando è messa in atto (catarsi). Teoricamente lo scarico dell’aggressività potrebbe avvenire anche in modi innocui e socialmente accettabili. In effetti, sembra che la catarsi avvenga solo quando si aggredisce direttamente la fonte della frustrazione; aggredire qualcun altro non ha effetto catartico.

3. Condizioni favorenti . La frustrazione determina collera e questa predispone al compiere atti aggressivi, che sono facilitati (o inibiti) dalla presenza di “stimoli sensoriali” che rimandano ad azioni aggressive.

4. Apprendimento sociale . L’aggressività sarebbe appresa direttamente ed esercitata perché dà un rinforzo positivo all’aggressore (aggressività strumentale) oppure per osservazione, quando è rinforzata l’aggressività messa in atto da altri. In questo

33 E.S. Barratt, Measuring and predicting aggression within the context of a personality theory, J. Neuropsychiat.3, S35-S39, 1991.

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modello è fondamentale il rinforzo e, purtroppo, il mondo rinforza spesso gli aggressori.

5. Determinanti ambientali . Possono agire da fattori di facilitazione e l’assistere ad atti di violenza è ciò che favorisce maggiormente l’aggressività stessa. Anche un elevato livello d’attivazione emotiva, pur originato da una fonte del tutto indipendente dalla frustrazione o dall’aggressività, rende quest’ultima più probabile (per es. alcol, droghe, eccitazione da musica, ecc.). Si è visto, ad esempio, che nell’animale le modificazioni dell’ambiente possono modificare la chimica cerebrale e indurre comportamenti aggressivi. Un aumento dell’aggressività si è riscontrato anche in primati deprivati delle cure materne. Tali osservazioni confermano la possibilità che anche gli esseri umani sottoposti a stress ambientali (come l’abuso infantile) possano subire modifiche del funzionamento cerebrale tali da indurre una predisposizione a comportamenti aggressivi nell’età adulta34.

6. Deindividuazione . Consiste nella perdita dell’interesse per se stessi come individui e nella riduzione dei normali meccanismi di autocontrollo. Si verifica spesso nelle folle. In questo stato le persone tendono ad avere dei comportamenti energici, ripetitivi e difficili da interrompere e possono compiere azioni normalmente inibite, non rispondendo ai meccanismi di autocontrollo. L’aggressività messa in atto in stato di deinviduazione tende a essere molto intensa, difficile da interrompere e indirizzata alla cieca.

L'aggressività quindi non ha un significato intrinseco di "patologico"; diventa tale quando il soggetto non riesce più a controllarla, modularla, adeguarla alle situazioni, a "sublimarla" in attività creative; mentre assume aspetti di stereotipia o impulsività, irrazionalità, ed è agita in azioni potenzialmente criminali e spesso afinalistiche.

Alcuni autori parlano di aggressività spontanea e di aggressività indotta (correlata a stimoli esterni) o ancora di aggressività ostile e strumentale a seconda del fine perseguito, laddove l'aggressività di tipo strumentale è rivolta ad ottenere un vantaggio aggiuntivo rispetto al solo provocare danno (es. per rubare). E' lecito quindi affermare che una singola definizione non può essere esauriente.

Il problema riguarda quindi da una parte l'intenzionalità con la quale viene messo in atto il comportamento aggressivo e dall'altra la direzionalità del medesimo ed è in base a quest'ultimo aspetto che riconosciamo una aggressività agita verso gli altri o "eterodiretta" ed una "autodiretta" che comprende le automutilazioni, i tentativi di suicidio fino al suicidio.

Il comportamento aggressivo ha, quindi, una molteplicità di cause, tra cui la situazione, lo stato mentale della persona e i meccanismi di facilitazione dati dagli “stimoli” d’aggressione e dall’osservazione di azioni aggressive altrui. In secondo luogo, ci sono tre modi principali con cui le azioni aggressive vengono ricompensate. Il vantaggio concreto, l’approvazione sociale e l’auto-approvazione. L’aggressività, tuttavia, non erompe da una riserva d’energia che si ricostituisce continuamente, né è la risposta automatica alla frustrazione o a un meccanismo di scatenamento innato. Può essere ridotta eliminando le condizioni in cui è appresa e riducendo i rinforzi positivi che la fanno persistere.

L'aggressività non è da considerarsi sempre espressione di un fenomeno patologico; ha, ad esempio, un significato adattivo quando la persona riesce a esercitare un controllo efficace sulle proprie tendenze aggressive, diventa invece patologica quando si manifesta in maniera afinalistica, irrazionale, esplosiva, violenta e può essere causa di danno per gli altri oltre che per il soggetto stesso. Quando assume queste caratteristiche, l'aggressività rappresenta una modalità di rapporto con il mondo che si traduce in una limitazione, in una interferenza disadattativa nella

34 B. Eichelman, Aggressive behavior: from laboratory to clinic. Quo vadit?, Arch. Gen. Psychiat., 49, 488-92, 1992.

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vita sociale, lavorativa, ed affettiva, che spesso determina l'isolamento ed il fallimento dell'esistenza dell'uomo.

Recentemente numerosi ricercatori hanno ipotizzato l'esistenza di un fattore comune tra le condotte autoaggressive e quelle eteroaggressive rappresentato dalla riduzione del controllo degli impulsi e della aggressività.

I fattori che possono condizionare quindi la comparsa di condotte auto ed etero aggressive possono essere così schematizzati:

a) fattori predisponenti, quali la vulnerabilità genetica, anomalie neurofisiologiche, disturbi dello sviluppo del sistema nervoso, abuso o abbandono nella prima infanzia, clima culturale di estremo permissivismo;

b) fattori inibitori, quali la autoidentificazione in norme sociali, culturali ed etiche, l'intelligenza del soggetto e la sua capacità di pensiero astratto, il livello educativo, la paura della punizione, la fede religiosa professata;

c) fattori di rischio quali la patologia psichiatrica, l'intossicazione da sostanze e da alcool, i disturbi di personalità, la presenza nell’anamnesi di precedenti atti autolesivi o di violenza. Sono poi da prendere in considerazione alcune caratteristiche demografiche quali la povertà, l'instabilità occupazionale e l'assenza di rapporti familiari, di amicizie e di figure di riferimento.

Alla luce delle attuali conoscenze, tuttavia, i fattori clinici e psicosociali di rischio individuati sono a bassa specificità.

Impulsività e aggressività

Non esiste, quindi, una nosografia accettata dell’aggressività, ma c’è un accordo nel contrapporre gli atti aggressivi impulsivi a quelli non impulsivi.

Come si è visto gli atti aggressivi possono essere:

1) premeditati, pianificati o eseguiti coscientemente;2) legati a situazioni mediche, quali sintomi di un disturbo medico o mentale;3) impulsivi: stimoli apparentemente banali suscitano risposte che determinano uno

stato di agitazione che culmina in azioni aggressive; durante questo stato di agitazione spesso la comunicazione non è possibile e l’elaborazione delle informazioni sembra essere inefficace.

La violenza può essere strumentale, cioè usata per obbligare una persona a fare qualcosa o a smettere di farlo, oppure espressiva, cioè con lo scopo di manifestare sentimenti come paura, confusione, rabbia o vergogna. Un episodio violento può esser la manifestazione principalmente di un tipo o l’insieme di entrambi35.

È stato proposto36 che la comunicazione interpersonale non adattativa che è caratteristica della persona molto aggressiva ed impulsiva, quando è agitata, sia correlata ad una mancanza di controllo degli impulsi dovuta, in parte, ad una disfunzione del lobo frontale, ad un alto livello di rabbia/ostilità che porta all’agitazione quando è disinibito ed a un deficit delle capacità verbali che sono collegate ad una disfunzione dei lobi parietali e temporali.

35 V. Bowie, Coping with violence, Karibini Press, 1989.

36 E.S. Barratt e al., Neuropsychological and cognitive psychophysiological substrates of impulsive aggression, Biol. Psychiat., 41,

1045-61, 1997.

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I tratti di personalità (che sembrano avere un’importante componente genetica) correlati all’aggressività impulsiva sono l’impulsività e la rabbia/ostilità. Gli stati emotivi comprendenti la rabbia possono influenzare il funzionamento cognitivo e l’elaborazione delle informazioni in modo negativo. In modo simile, l’impulsività può influenzare l’elaborazione delle informazioni attraverso alterazioni dell’attenzione, dell’attivazione e/o del ritmo dell’elaborazione dell’informazione. Anche il tratto dell’irritabilità può contribuire abbassando la soglia di risposta agli stimoli.

Uno dei dati neuropsicologici più costanti riscontrati è la relazione inversa tra aggressività impulsiva e capacità verbali. L’allungamento dei tempi di valutazione dei simboli verbali e la ridotta mobilizzazione di risorse neurali per fare delle discriminazioni verbali corrette possono essere correlati a un’elaborazione delle informazioni non adattativa nelle relazioni interpersonali. Sembra che questo deficit dell’elaborazione delle informazioni verbali sia del tipo della dislessia evolutiva.

Questo dato può indicare un deficit dell’attivabilità del lobo frontale, il quale, associato ad altri deficit evolutivi della maturazione cerebrale in aree cerebrali più posteriori, può aver portato a vivere esperienze stressanti che hanno favorito lo sviluppo dell’aggressività impulsiva.

Dal punto di vista evolutivo, è molto probabile che le difficoltà di lettura presenti negli aggressori impulsivi fossero presenti fin dall’inizio della loro esperienza scolastica. L’incapacità a discriminare facilmente le informazioni visive in contesti sociali può averli frustrati e portati a reagire aggressivamente. Si è visto, ad esempio, che i bambini aggressivi usano meno indicatori ambientali per regolare il loro comportamento, tendono a interpretare il comportamento dei coetanei come più ostile e sono mono capaci di generare risposte adeguate in situazioni di conflitto37.

Il deficit della capacità verbali può influenzare il comportamento aggressivo impulsivo anche attraverso altre modalità piscosociali. Ad esempio, può essere danneggiata l’incorporazione nella memoria dei costumi e delle leggi che guidano il comportamento sociale. Inoltre, gli stimoli per inibire i comportamenti negativi sono spesso verbali e un deficit nelle capacità verbali può limitare l’efficacia di questo processo d’inibizione.

In psichiatria il problema del comportamento impulsivo aggressivo e violento è stato considerato prevalentemente dal punto di vista categoriale. Si è trascurato il continuum delle condizioni psicopatologiche (un paziente schizofrenico impulsivo ed uno non impulsivo sono classificati nello stesso modo) e l’approfondimento delle caratteristiche cliniche di base dei comportamenti aggressivi e violenti.

In una prospettiva dimensionale all’interno dell’impulsività possono essere identificate delle sottocomponenti, di per sé indipendenti dal comportamento aggressivo o violento. L’impulsività non sembra riducibile a un’unica dimensione, ma appare composta da:

impulsività motoria (azione senza pensiero) impulsività cognitiva (assunzione rapidissima di decisioni) impulsività non pianificatoria (assenza di preoccupazione per le

conseguenze future delle proprie azioni).

Queste diverse componenti sembrano avere alla loro base meccanismi psicofisiologici diversi38. Nonostante la validità e l’utilità di questo modello, il suo impiego in clinica non si è diffuso, per cui la valutazione degli aspetti impulsivi e aggressivi rimane tuttora all’interno delle categorie diagnostiche sotto forma di associazioni più o meno frequenti, senza una logica sottostante o un approfondimento sistematico.

37 R. Dodge, Social cognition and children’s aggressive behavior, Child Dev., 51, 162-70, 1980.

38 E.S. Barratt, Impulsiveness defined within a systems model of personality, in: Advance in personality assessment, vol. 5, Erlbaum,

1985, pp. 113-32.

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La violenza è una degenerazione dell’aggressività, è aggressività patologica, è l’aggressività agita con comportamenti negativi e distruttivi. Se l’aggressività ha valenze istintuali (e pertanto positive), la violenza è soprattutto una condotta reale e distruttiva nelle sue finalità, in quanto diretta ad arrecare danno e sofferenza contro un’altra persona con l’uso della forza senza misure né regole. La violenza, a differenza dell’aggressività può essere intenzionale e può mirare a scopi differenti da quelli della sopravvivenza dell’individuo e della specie39.

Comunemente si ritiene che l’aggressività derivi dalla bassa autostima. Ma chi ha una opinione negativa di sé nella vita cerca di cavarsela, di evitare situazioni imbarazzanti e non da segno di un disperato bisogno di dimostrare la sua superiorità. I comportamenti aggressivi invece sono rischiosi e chi ha una autostima bassa cerca di evitare i rischi. Quando le persone con un’autostima bassa falliscono di solito accusano se stessi, non gli altri. Quando le azioni aggressive coinvolgono la considerazione di sé dell’autore è cruciale l’egoismo. La carica aggressiva maggiore sembra essere quella delle persone con un’autostima alta, ma insicura e instabile. Quelli con un’autostima alta ma sicura sono i meno ostili, mentre quelli con una bassa autostima si pongono in mezzo. Le persone con una bassa autostima non sono inclini alla violenza. Invece, ci si deve guardare dalle persone che si considerano superiori agli altri, in particolare quando questa convinzione è esagerata, debolmente basata nella realtà o fortemente dipendente dalla conferma altrui (narcisismo)40. In generale, il narcisismo tende a essere maggiore nei più giovani e a declinare con l’età, è un carattere più maschile che femminile ed è maggiore nelle società più individualistiche41.

39 S. Tartaglione e P.L. Castrignanò, cit., 1999.

40 R.F. Baumeister e al., Relation of threatened egotism to violence and aggression: the dark side of high self-esteem, Psychol. Rev., 103,

5-33, 1996; B.J. Bushman e R.F. Baumeister, Threatened egotism, narcissism, self-esteem and direct and dispiace aggression: does self-love or self-hate lead to violence?, J. Pers. Soc. Psychol., 75, 219-229, 1998; R.F. Baumsteiner, Violent pride, Sci. Am., 82-87, 2001.41

J.D. Foster e al., Individual differences in narcissism: inflated self-views across the lifespan and around the world, J. Res. Pers., 37, 469-486, 2003.

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3. EPIDEMIOLOGIA DELLA VIOLENZA

Alcune ricerche sembrano indicare una maggior prevalenza di comportamenti violenti tra i pazienti con patologie psichiatriche rispetto alla popolazione generale42, ma l’interpretazione dei risultati di queste ricerche è ostacolata dalla complessità delle variabili socio-ambientali che incidono su questi fenomeni.43 In realtà, la maggior parte delle azioni aggressive, violente od ostili alle quali si assiste nella vita quotidiana o che sono riportate dai media sono messe in atto da persone che non hanno una diagnosi DSM di Asse I44.

Un ampio studio epidemiologico statunitense45 aveva lo scopo di valutare la frequenza dei disturbi psichiatrici non trattatati. Sono stati raccolti anche dati sulla violenza. La probabilità di comportamenti violenti in pazienti schizofrenici era maggiore di oltre 5 volte rispetto a chi non aveva diagnosi psichiatriche. Le probabilità sono risultate ancora maggiori per i pazienti con disturbi affettivi, ma non per quelli con disturbi d’ansia. I pazienti con doppia diagnosi avevano la probabilità più alta in assoluto: 12,6 volte più alta per i maschi e 9,1 per le femmine.

Un altro studio46 negli USA ha confrontato la frequenza di comportamenti aggressivi tra pazienti e controlli. Utilizzando self-report, la polizia, registri ospedalieri e altre fonti d’informazione, gli autori non hanno trovato alcuna differenza significativa tra la prevalenza della violenza da parte dei pazienti senza abuso di sostanze (4,3%) e i controlli che non abusavano di sostanze ( 3,3%). La presenza di abuso di sostanze aumenta significativamente il tasso di violenza al 14,1% del campione di pazienti e 11,1% dei controlli. I dati non sono del tutto attendibili per questioni metodologiche, come la possibilità di non tener conto dei pazienti che possono essere aggressivi ripetutamente o resistenti al trattamento e di coloro che sono persi al follow-up.

Uno studio scandinavo47 indica che, per le persone con disturbi mentali la possibilità di essere imputati (convicted?) è maggiore di 4 volte per i maschi e di 27 volte per le femmine, rispetto ai sani. Una ricerca danese48 molto ampio indica che la probabilità è 9 volte maggiore per i maschi e 4,5 per le femmine. Uno studio49 eseguito in Finlandia ha riscontrato una probailità 25 volte maggiore per gli uomini con diagnosi psichiatrica. Un altro studio finlandese50 ha riscontrato che i pazienti con schizofrenia hanno una probabilità 10 volte maggiore di commettere omicidi. Il rischio aumenta di 17 volte nei maschi se coesiste abuso di alcol e di 80 volte nelle femmine. I numeri attuali sono, in ogni caso, piccoli e sono dwarfed dal numero di persone sane che commettono reati.

42 J.W. Swanson e al., The social-enviromental context of violent behavior in person treated for severe mental illness, Am. J. Public

Health, 92, 1523-32, 2002.43

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Dati australiani51 indicano tendenze simili: schizofrenici maschi presentano comportamenti violenti 2,4 volte di più dei sani e 18,8 volte se il disturbo è complicato dall’alcol. Una review52 di dati raccolti in 10 paesi conferma questi risultati, indicando che il problema è imortante in tutto il mondo, al di là di culture e ambienti diversi.

Molti pazienti già all’esordio di una psicosi commettono atti violenti prima di iniziare un trattamento.53

Uno studio italiano54 riporta che il 18,9% degli psichiatri italiani intervistati riferisce di avere subito un’aggressione fisica negli ultimi due anni, mentre la letteratura internazionale a questo proposito fornisce dati piuttosto eterogenei: da un minimo del 24% di psichiatri aggrediti a un massimo del 71% (dato però riferito nella maggior parte dei casi all’intera vita professionale degli intervistati). Questo studio riporta anche che la maggior parte degli psichiatri considera inadeguato e sensazionalistico il modo con cui i mass-media affrontano il tema della violenza da parte di pazienti psichiatrici e che ciò comporta il rischio di una connotazione negativa indiscriminata per tutti i pazienti affetti da patologie psichiatriche.

Molti studi non distinguono tra aggressività recidivante ed episodica, ma questa distinzione è importante. La violenza persistente (recidivante) e quella episodica possono avere cause, trattamenti e conseguenze sociali diverse. Un piccolo numero di pazienti può essere responsabile della maggior parte di tutti gli episodi. Questo dato è supportato da 2 studi.Il primo studio55, condotto negli USA, indica che un piccolo gruppo (5%) di pazienti recidivi causava il 53% degli episodi di violenza. Il secondo studio56, eseguito in Australia, ha riscontrato che il gruppo dei rcidivi (12%) era responsabile del 69% degli episodi.

In effetti, di base c’è una convinzione popolare che sia più facile che una persona con una malattia mentale si comporti in modo violento di chi non ne è affetto57. Le persone, comunemente, temono ciò che non capiscono e per la maggior parte di loro la malattia mentale è incomprensibile. La paura è amplificata dalla presentazione viziata da parte dei media (vittime anche loro della scarsa informazione e dei pregiudizi) e dalla convinzione erronea che il termine “malattia mentale” sia una diagnosi e che, di conseguenza, ogni malattia mentale sia simile all’altra, rendendo così tutte le persone con malattia mentale ugualmente sospette e pericolose. In più, anche la deistituzionalizzazione è stata spesso collegata a una presunta escalation di reati violenti e arresti a carico di persone con disturbi psichiatrici.58 Tuttavia, quando, negli anni ’60 e ’70, iniziarono le ricerche di scienze sociali su questo problema, si concluse che non ci fosse una relazione significativa tra la violenza e la malattia mentale, quando si teneva conto di altre variabili come l’abuso di sostanze, la povertà, il sesso, l’età e precedenti vittimizzazioni. Queste ricerche di “prima generazione”, soggette però a svariate critiche successive per diversi motivi, concludevano che “la relazione tra crimine e disturbo mentale può essere spiegata più dalle caratteristiche demografiche e storiche condivise dai due gruppi” e che, se si applicano adeguati controlli statistici, “scompare ogni correlazione tra crimine e disturbo

51 Wallace C, Mullen P, Burgess P, Palmer S, Ruschena D, Browne C. Serious criminal offending and mental disorder. Case linkage

study. Br J Psychiatry. 1998;172:477-484.52

Volavka J, Zito JM, Vitrai J, Czobar P. Clozapine effects on hostility and aggression in schizophrenia. J Clin Psychopharmacol. Aug 1993;13(4):287-9.53

M.M. Large e O. Nielssen, Violence in first-episode psychosis: A systematic review and meta-analysis, Schizophr. Res., 125, 209-220, 201154

D. Berardi e al., Atti violenti dei pazienti in trattamento psichiatrico, QUIP, 22, 124-132, 2003.55

Convit A, Isay D, Otis D, Volavka J. Characteristics of repeatedly assaultive psychiatric inpatients. Hosp Community Psychiatry. Oct 1990;41(10):1112-5.56

Owen C, Tarantello C, Jones M, Tennant C. Repetitively violent patients in psychiatric units. Psychiatr Serv. 1998;49:1458-1461.57

J. Monahan, Mental disorder and violent behavior: perceptions and evidence, Am. Psycol., 47, 511-521, 1992.58 .R. Lambe e L.L. Bachrach, Some perspectives on deistitutionalisation, Psychiat. Serv., 52, 1039-45, 2001.

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mentale”.59 Una “seconda generazione” di studi in seguito ha messo in dubbio il punto di vista delle scienze sociali, ipotizzando che sussista una relazione significativa tra violenza e disturbi mentali60. Queste ricerche suggeriscono che “il disturbo mentale può essere un fattore di rischio importante e significativo per il verificarsi della violenza”.61 In generale, la probabilità che una persona con una grave malattia mentale commetta atti violenti è 5 volte maggiore di una persona senza disturbi mentali; questa probabilità si riduce a 3 volte se si elimina il fattore abuso di sostanze.62 Inoltre, la prevalenza di gravi disturbi mentali è circa 3-4 volte maggiore tra chi commette atti violenti di chi non li commette.63 Ad ogni modo, rimane un dato di fatto che la stragrande maggioranza delle persone che sono violente non soffrono di un disturbo mentale. Più di una diagnosi specifica, come fattori di rischio sembrano importanti la presenza di sintomi psicotici attivi, se la persona si sente minacciata o se il suo controllo interno è compromesso (come nel caso d’influenzamento o furto del pensiero).64 In generale, sembra essere più probabile che siano aggressivi prima del ricovero i pazienti schizofrenici e maniacali, mentre in reparto è più probabile che lo siano i maniacali; in ogni caso il rischio di violenza tra i diversi gruppi di pazienti varia in funzione del contesto e delle variabili ambientali.65 È indispensabile, quindi, pensare alla violenza delle persone con disturbi mentali come un problema interpersonale e contestuale. Nel valutare il rischio di comportamenti violenti si devono tenere presenti il contesto sociale e interpersonale del paziente, la qualità delle sue relazioni con gli altri, la sua esperienza soggettiva e la situazione clinica del momento, come fattori sia interrelati, sia indipendenti.66 Le condizioni che aumentano il rischio di violenza sono le stesse per le persone “normali” e per quelle con disturbi mentali: l’abuso di sostanze, un ambiente di origine e/o di vita violento, l’essere stato vittima di abusi fisici o sessuali e lo stress.67

Le ricerche degli anni ’80 e ‘90, pertanto, sembrano indicare l’esistenza di un’associazione diretta tra malattia mentale e violenza68, in particolare nel caso della schizofrenia. In seguito, però, questa affermazione è stata messa in dubbio, in quanto la maggior violenza associata alla schizofrenia – pur confermata - è stata attribuita a fattori multipli (come l’uso di sostanze, la personalità premorbosa, lo svantaggio sociale, ecc.) che agiscono prima, durante e dopo le fasi attive della malattia, più che alla malattia in sé.69

D’altra parte, è vero che una piccola minoranza di pazienti con disturbi mentali sono portati all’aggressività. Si è visto, però, che una piccola parte di recidivi (5%) è responsabile della maggior parte (53%) degli incidenti. Le diagnosi prevalenti erano, logicamente, schizofrenia (più nei maschi) e disturbi della personalità (equamente divisi)70.

In conclusione, sembra confermata l’esistenza di un’associazione non casuale tra malattia mentale e comportamento violento, anche se non è chiara la natura del legame71.

Scheda 1 la relazione tra disturbi mentali e violenza72

59 J. Monahan e H. Steadman, Mentally disordered offenders: perspectives from law and social science, Plenum, 1983, p. 152.

60 La maggior parte delle ricerche si basa però su dati criminali, per cui la trasferibilità in realtà diverse (come i diversi ambienti ospedalieri) è problematica.61 J. Monahan, cit., 1992.62 J.W. Swanson e al., Violence and psychiatric disorder in the community, Hosp. Comm. Psychiat., 41, 761-70, 1990.63 J. Monahan, cit., 1992.64 B.G. Link e al., The violent and illegal behavior of mental patients reconsidered, Am. Sociol. Rev., 57, 275-92, 1992.65 R.L. Binder e al., Effects of diagnosis and context on dangerousness, Am. J. Psychiat., 145, 728-32, 1988.66 S.E. Estroff e al., The influence of social networks and social support on violence by persons with serious mental illness, Hosp. Comm. Psychiat., 45, 669-79, 1994.67 A.P.A., Violence and mental illness, Factsheet, gennaio 1998.68 G.M. Asnis e al., Violence and omicida behaviors in psychiatric disorders, Psychiat. Clin. North Am., 20, 405-425, 1997.69 C. Wallace e al., Criminal offending in schizophrenia over a 25-year period marked by deistitutionalization and increasing prevalence of comorbid substance use disorder, Am. J. Psychiat., 161, 716-27, 2004.70 S.M. Musisi e al., A psychiatric intensive care unit in a psychiatric hospital, Can. J. Psychiat., 34, 200-4, 1989.71 J. Monahan, cit., 1992; R.J. Miller e al., Profiles and predictors of assaultiveness for different psychiatric ward populations, Am. J. Psychiat., 150, 1368-73, 1993; G.M. Asnis e al., cit., 1997.72 S.E. Davison, The management of violence in general psychatry, Adv. Psychiat. Treat., 11, 362-70, 2005.

18

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Gli studi epidemiologici dimostrano che:

Le persone con disturbi mentali è più probabile siano violenti in confronto ai controlli L’abuso di sostanze aumenta moltissimo il rischio di violenza sia nelle persone con

disturbi psichiatrici, sia nei controlli Il sesso, l’età, i precedenti di violenza e lo stato socio-economico hanno un maggiore

effetto sul rischio di violenza rispetto alla presenza di un disturbo mentale La comorbidità di disturbi di personalità aumenta in modo indipendente il rischio di

violenza L’aumentato rischio di violenza è mediato in parte dalla presenza di sintomi psicotici attivi Di questi sintomi sembrano essere particolarmente importanti i deliri di persecuzione e di

controllo e i fenomeni di passività (ad es. controllo o lettura del pensiero) La grande maggioranza delle persone con disturbi mentali non è violenta

Ci sono tre diversi modi di considerare il rischio di violenza rappresentato da una persona con un disturbo mentale:

Rischio assoluto: la frequenza assoluta di atti violenti commessi da persone con disturbi mentali, che è molto piccola73

Rischio relativo: è il rischio di violenza per opera di persone con disturbi mentali in confronto a quello da parte di persone senza disturbi mentali (circa 3-5 volte maggiore)

Rischio attribuibile: si riferisce alla proporzione della violenza globale nella società attribuibile alla malattia mentale (circa 3%).74

I fattori che sono correlati all’aumento del rischio di violenza sono, dal punto di vista clinico, la psicosi, la mania, alcuni disturbi di personalità, l’abuso di alcol e/o sostanze, le lesioni neurologiche. Atri fattori collegati sono il background sociale e un’anamnesi positiva per atti di violenza o per altri comportamenti impulsivi.75

73 E.P. Mulvey, Assesing the evidence of a link between mental illness and violence, Hosp. Comm. Psychiat., 45, 663-8, 1994.74 R. Borum e al., cit., 1996.75 K. Tardiff, cit., 1998.

19

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4. Modelli interpretativi del comportamento aggressivo76

La Teoria Evoluzionistica

E' soprattutto con gli studi di C. Darwin (1809-1882) che il pensiero evoluzionistico ha cercato di dare una spiegazione ai comportamenti aggressivi presenti nelle varie specie animali; con questo scienziato infatti, il trasformismo biologico presente in altri studiosi dell'epoca, assume i caratteri di una teoria sistematica scientifica, solo parzialmente presente in Lamarck, in Lyell ed in altri studiosi contemporanei. Il più importante contributo scientifico del grande biologo è considerato: "L'Origine della Specie" (1859) che ha influenzato i successivi studiosi; a questa opera basilare ne sono seguite altre come: "L'origine dell'uomo " (1871) e "L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali" (1872).

Alla base della teoria evoluzionistica di Darwin sono presenti due concetti essenziali: il primo che riconosce l'importanza di piccole, continue e vantaggiose variazioni organiche che si verificano negli esseri viventi sotto l'influenza dell'ambiente ed il secondo che vede nella lotta per la sopravvivenza la tendenza di ogni specie a moltiplicarsi. Più specificatamente, a proposito delle manifestazioni di aggressività nell'uomo, possiamo schematizzare il pensiero di Darwin in alcuni assunti fondamentali: a) il genere umano possiede istinti brutali ed egoistici necessari alla propria sopravvivenza; b) il "gruppo sociale" nasce con lo scopo di protezione sia dei singoli che, successivamente, dei gruppi; c) la selezione naturale inizia più tardi nel favorire i sentimenti altruistici che rendono gli uomini adatti a costruire la società. Per Darwin l'egoismo umano è l'eredità di impulsi animaleschi "anacronistici" che sono in conflitto con la vita sociale contemporanea.

Teorie Psicoanalitiche

Grande importanza, nelle teorie psicoanalitiche, viene data al ruolo della aggressività nel normale sviluppo psichico dell'individuo oltre che in determinati "stati psicopatologici". La problematica di fondo tuttavia rimane quella di stabilire se l'aggressività sia un istinto necessario ed immodificabile al centro delle esperienze emotive o, contrariamente, una reazione con eterogenei significati, ora adattivi ora difensivi, ma senza un vero e proprio significato "dinamico". A questo riguardo la metodologia di studio psicoanalitica ha valorizzato in modo particolare il rapporto tra aggressività ed istinto di morte, pur con aspetti e posizioni diversificate tra i vari studiosi. La nozione di pulsione aggressiva viene descritta per la prima volta in psicoanalisi da A. Adler (1908) che parla espressamente di pulsione primaria ed innata; questa costituisce il punto di partenza della teoria per la quale il comportamento di un uomo scaturisce dalla "protesta" aggressiva nei confronti dei sentimenti di inferiorità; solo più tardi S. Freud (1856-1939) parlerà di istinto aggressivo e di istinto di morte. La concezione di questo studioso sulla "mente umana" è complessa soprattutto per la continua evoluzione delle idee sulle questioni più importanti; la mente umana viene vista come una stratificazione di livelli strutturali e funzionali: energie primitive del passato riaffiorano nella mente e generano desideri e bisogni; sarà il conflitto tra queste due "realtà" a generare scompensi psicopatologici alla base delle "nevrosi". Nella trattazione di questi argomenti l'Autore non ignora gli studi di Darwin e spesso l'influenza di quest'ultimo è evidente nella costruzione teorica dello psicoanalista: il fenomeno della aggressività viene spiegato in un primo tempo derivandolo dal conflitto tra le pulsioni sessuali o libidiche e le pulsioni dell'Io; le prime deputate alla soddisfazione dei desideri, le seconde alla autoaffermazione dell'individuo. Successivamente Freud ha rivisto le proprie teorie e da una concezione dualistica della libido si passa ad una libido unica narcisistica descritta nel 1914 in: "Introduzione al narcisismo"; in seguito, attraverso varie fasi di revisione delle proprie teorie, l'Autore concepisce un istinto di morte che si contrappone alla pulsione di vita ed in "Al di là del principio del piacere" (1920), Freud inizia a teorizzare una pulsione "elementare" anteriore allo stesso principio del piacere;

76 Miniati

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nel 1923 con "l'Io e l'Es" l'aggressività viene più precisamente ricondotta alla "pulsione di morte" e non più alle conflittualità tra eterogenee istanze psichiche.

Il concetto di "pulsione di morte", tuttavia, possiamo già trovarlo nel pensiero di illustri personaggi della cultura romantica come ad esempio in Von Schubert (1820) il quale aveva descritto il "desiderio di amore" come strettamente collegato con quello "di morte" ed in Metchnikoff (1905) che aveva parlato del "desiderio di morire" come un sentimento naturale.

Altri psicoanalisti hanno affrontato questo aspetto della vita umana tra i quali P. Federn (1932) e M. Klein (1938). Per quest'ultima studiosa l'aggressività è componente precoce della relazione che il bambino ha con il seno materno anche se questa si esprime con l'atto di succhiare e non di mordere; intorno ai 2-4 anni (stadio sadico - anale) le reazioni di ostilità sarebbero più evidenti coinvolgendo l'attività del controllo degli escrementi; l'IO infantile quindi sarebbe sottoposto al conflitto tra "istinto di vita" ed "istinto di morte" e, dopo un processo di scissione, viene proiettata all'esterno la parte di sé cattiva (posizione schizo-paranoide); la componente dell'istinto di morte che non viene proiettata si converte quindi in aggressività contro i persecutori "esterni"; il timore che questa aggressività possa distruggere l'oggetto buono determina l'origine della posizione depressiva del soggetto.

Tra gli studiosi di questa formazione, non mancano, tuttavia, posizioni critiche nei confronti dell'istinto di morte: R. Fletcher (1957), ad esempio, nega l'esistenza di un istinto di morte, considerato non verificabile dalle sperimentazioni, R. Waelder (1960) pur accettando il concetto di "pulsione aggressiva" non accetta quella di "morte" e O. Fenichel è dell'opinione che l'aggressività non rappresenti un istinto originario.

Secondo H. Hartmann (1939) l'aggressività va intesa come una pulsione endogena e spontanea ma separata dall'istinto di morte.

Critica nei confronti delle teorie freudiane è anche la posizione di E. Fromm (1900-1980), il quale sembra non accettare la posizione estremamente "statica e semplicistica" di una contrapposizione tra individuo con i propri desideri e bisogni e la società con le esigenze di repressione e sublimazione; l'Autore ha dedicato molte opere al tema della aggressività ed in "Anatomia della distruttività umana" (1973) fa una netta distinzione tra "pulsioni organiche-biologiche" comuni all'uomo ed agli animali e "pulsioni del carattere" di natura culturale proprie dell'uomo; da questa deriva una differenziazione tra aggressività positiva ed aggressività negativa, quest'ultima non avrebbe scopo adattativo ma sarebbe espressione di crudeltà fine a se stessa. Pur accettando l'idea di Lorenz, per il quale l'istinto guida sia nell'uomo che nell'animale è l'aggressione, distingue un'aggressione "benigna" ed una "maligna" dove la prima è un adattamento alle necessità biologiche e quindi al servizio della vita, mentre la seconda non serve all'adattamento, non è prodotto della evoluzione biologica ed è esclusiva dell'uomo.

Il modello etologico

Nell'animale l'aggressione è presente specialmente nel combattimento per il cibo, per la messa in fuga dell'avversario, e per la competizione sessuale; mentre sembra priva del carattere di "ostilità" presente nell'uomo: l'animale carnivoro si nutre della carne di altri animali, dopo averli uccisi, così come un erbivoro si nutre di erba. Sembrano esistere tuttavia anche nell'animale dei comportamenti aggressivi che non hanno il significato di un combattimento con la ricerca dell'esito mortale: ad esempio alcune specie mettono in atto comportamenti intimidatori con significato aggressivo (il toro che gratta il terreno prima di attaccare).

Nell'animale le funzioni riproduttrici sono riservate al più forte per la continuazione della specie e la difesa del territorio ha il significato di evitare un affollamento con la possibile conseguente mancanza di cibo. Il modello etologico riconosce come opera essenziale quella di K. Lorenz

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(1903-1989), uno dei fondatori dell'etologia e premio Nobel nel 1973. L'Autore, studiando le abitudini comportamentali degli animali ha nel tempo elaborato una teoria (per alcuni studiosi "ambiziosa") estesa al genere umano. Lorenz, distingueva componenti innate e componenti apprese; come la selezione naturale aveva determinato caratteristiche fisiche per la sopravvivenza così pure si erano strutturate caratteristiche psicologico - comportamentali. Come Freud anche Lorenz per spiegare l'aggressività recupera il concetto di istinto ma mentre in Freud l'aggressività è il conflitto tra pulsione di vita e pulsione di morte, in Lorenz l'aggressività è considerata "istinto primario" che negli animali ha solo il valore di sopravvivenza. L'analisi di Lorenz rimandava alla idea romantica di Rousseau della "bestia" dentro di noi e l'aggressività doveva trovare dei "buoni" canali per scaricarsi (Lorenz, 1976). L'approccio etologico alla aggressività tuttavia non si identifica solo con la visione di Lorenz, altri etologi come Tinbergen (1953) e Van Lawich, ad esempio, valorizzano maggiormente l'ambiente; l'aggressività non è solo "endogena" ma anche reazione a stimoli ambientali.

Dobbiamo tuttavia nuovamente notare come il mutuare ipotesi, dati e modalità di osservazione del comportamento animale per riportarlo a quello umano sia un procedimento spesso rischioso e dove possono non essere adeguatamente valutati con il loro peso altri numerosi ed importanti aspetti quali i meccanismi biochimici, neurofisiologici e neuroanatomici alla base dei comportamenti tra specie diverse (Laborit H., 1970, 1973).

Il modello comportamentista

Nel modello comportamentista l'aggressività assume altre connotazioni; questa non è più considerata una caratteristica innata, bensì una reazione alla frustrazione e contemporaneamente la sua inibizione dipende dalla punizione attesa; il rapporto aggressività/frustrazione tuttavia, non sembra così rigidamente univoco; per Rosenzweig (1941) ad esempio l'aggressività non è altro che una delle possibili reazioni alla frustrazione, così come per Berkowitz (1962) e Buss (1961) che si ispirano alla scuola di Yale. In contrapposizione alla scuola di Yale, Bandura (1973) sostiene che l'aggressività è un comportamento appreso per imitazione di modelli sociali; l'Aggressività quindi non nasce necessariamente da una reazione alle frustrazioni, ma deve esserci un terreno favorente rappresentato dall'apprendimento sociale. Buss e Durkee (1957) nei loro studi evidenziano alcuni tipi di aggressività: a) diretta: consiste nel mettere in atto azioni volte a far del male senza un controllo sui propri impulsi; il soggetto ammette che con facilità perde la calma e che nel risolvere i problemi ricorre spesso alla forza fisica; b) indiretta: in questi casi l'individuo tende a denigrare e scarica l'aggressività con modalità indirette; c) irritabilità: caratterizzata da una frequente insoddisfazione ed intolleranza, anche se il soggetto ha la capacità di controllare i propri sentimenti ostili e violenti; d) negativismo: consiste nell'atteggiamento del soggetto a rifiutare o a fare il contrario di quello che gli si chiede; e) risentimento: il soggetto manifesta la propria convinzione di non essere trattato come gli altri, non merita quello che accade ed è presente una notevole quota di pessimismo; f) sospettosità: coincide con l'idea di essere imbrogliati, denigrati, detestati; il soggetto diffida sempre degli estranei perché gli altri sono sempre pronti a deridere ed a provocare; g) verbale: si manifesta con un atteggiamento di continua disapprovazione, con l'impiego di cattive parole ed offese, il soggetto alza subito la voce e si lascia facilmente andare a minacce; h) colpa: caratterizza persone con elevato senso della morale; solitamente rigide non si permettono errori e si rattristano se non raggiungono un determinato scopo; la colpa può arrivare alla preoccupazione di non aver vissuto con rettitudine, fino al chiedersi se potrà essere ottenuto il perdono dagli altri.

Il modello sociologico

Quando studiamo l'influenza dei fattori socio-culturali sui comportamenti aggressivi, il campo di indagine si dilata fino ad assumere contorni sfumati, imprecisi dove spesso rischiamo di confondere opinioni personali con dati oggettivi e/o inconfutabili; d'altra parte le anomalie neurobiologiche non sono sufficienti a spiegare la "cultura della violenza" che esiste in certi

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strati sociali di molti paesi, né dall'altra a spiegare come in piccole comunità religiose e/o laiche esista una insignificante frequenza di atti violenti.

La metodologia di studio si differenzia sostanzialmente da quella applicata sul singolo ed in questo campo si osservano ed enfatizzano le dinamiche relazionali tra individuo e gruppo, tra gruppo e gruppo. Il problema "essenziale" rimane tuttavia, quello affrontato dagli altri tipi di approccio, vale a dire "quanto di innato" e "quanto di reattivo e/o acquisito" possiamo riconoscere nel comportamento aggressivo dell'uomo. Se da una parte, ad esempio, le teorie psicodinamiche hanno privilegiato il primo aspetto, sociologi e filosofi hanno messo l'accento sulle componenti sociali quali fattori determinanti i comportamenti violenti. Nel modello sociologico si è propensi a spiegare l'aumento dei tassi di violenza con la crisi di valori "coesivi" quali quelli della famiglia, quelli etici e religiosi. La caduta di modelli esistenziali ai quali ispirarsi, il rapido cambiamento dei modi di pensare e di vivere comporta una precarietà anche dei parametri di misura e riferimento tanto che "quello che è valido oggi potrebbe non esserlo domani" e quindi non conviene riferirsi esclusivamente ad uno schema, sia questo buono o cattivo. I sempre più veloci mutamenti economici e politici incidono sul continuo divenire della struttura della società; la competitività e la ricchezza, assunte a valore positivo e di gratificazione esistenziale, la disponibilità di armi e droghe, completano il quadro come fattori di rischio per le numerose azioni violente e di sopraffazione.

D'altra parte non possono essere sottovalutate le condizioni di sopportazione del singolo che può trovarsi ad agire in situazioni estreme per difesa della propria dignità e sicurezza vitale.

In E. Durkheim (1858-1917) qualsiasi azione e comportamento dell'individuo sono determinati dalla società; lo studioso sostiene che "ogni società ha (...) ad ogni momento della sua storia una caratteristica attitudine al suicidio", e che "il tasso sociale dei suicidi si spiega solo sociologicamente. E' la costituzione della società a fissare ad ogni istante il contingente delle morti volontarie". Le opere di Durkheim nelle quali troviamo questa "estrema" posizione della sociologia possono essere considerate: "Le regole del metodo sociologico" (1895) ma soprattutto "Il suicidio", dove l'Autore sviluppa la propria idea sul determinismo della società anche riguardo ad un comportamento quale il suicidio che "sembrerebbe" il più "intimo e personale"; sia il suicidio altruistico, sia quello egoistico sia il suicidio anomico riconoscono quindi, per questo Autore, cause sociali.

In H. Marcuse (1898-1979) ritroviamo un tentativo di sintesi tra marxismo e freudismo. "Eros e Civiltà" è l'opera probabilmente più conosciuta; in questa ritroviamo la convinzione, mutuata da Freud, che la civiltà nasce solo in virtù della repressione degli istinti individuali, improntati alla ricerca del piacere. A differenza di Freud, tuttavia, Marcuse riteneva che non "la civiltà" in quanto tale è repressiva ma un tipo di civiltà, quella strutturata cioè con le leggi di classe; in una società capitalistica il principio di realtà coincide con il principio di prestazione dove la produttività rappresenta il vero valore e l'esigenza di un profitto determina alla fine alienazione; "...l'istinto di morte è distruttività non fine a se stessa, ma presente solo per liberare da una tensione. La discesa verso la morte è una fuga inconscia dal dolore e dal bisogno. È espressione della lotta eterna contro la sofferenza e la repressione" (Eros e Civiltà, 1977). È facilmente intuibile quindi il significato e il ruolo che viene dato al fenomeno della aggressività, ora spinta liberatrice del singolo ora forza rivoluzionaria di una società.

Il modello dell’attaccamento77

Bolwby ha dimostrato che i bambini, come tutti i mammiferi, sono geneticamente predisposti al cercare accesso e vicinanza a una figura di attaccamento e che questo comportamento è indotto dalla paura. La stessa paura e il sentimento di disperazione che l’accompagna è inerente all’esperienza del trauma psicologico, fatto che può spiegare in parte

77 D.O. Lewis, From abuse to violence: psychphysiological consequences of maltreatment, J. Am. Acad. Child Adolesc. Psychiat., 31, 383-

91, 1992.

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perché la teoria dell’attaccamento è un modello psico-biologico utile alla comprensione dell’origine e dei sintomi di molti disturbi mentali e dell’aggressività. Infatti, nel 1944, Lindeman ha definito il trauma psicologico come “la rottura improvvisa e incontrollabile dei nostri legami di affiliazione”78. La psicopatologia, in base a questa teoria, è vista come la conseguenza di un attaccamento disturbato, tale da aver indotto uno sviluppo alterato. Il periodo neonatale, l’infanzia e l’adolescenza sono considerati periodi sensibili durante i quali l’attaccamento si sviluppa – in modo normale o deviato – in funzione delle esperienze che la persona ha con le sue figure di attaccamento.

Il genitore che non è in grado di concepire l’esperienza mentale del figlio lo priva della base per costruire un senso di sé valido. La mancanza o l’assenza della funzione rispecchiante può generare un mondo psicologico nel quale l’esperienza interiore è scarsamente rappresentata e quindi nasce un disperato bisogno di trovare un modo alternativo di contenere l’esperienza psicologica e il mondo mentale. Dal punto di vista clinico ciò significa che il bambino che ha ricevuto immagini dei suoi stati affettivi irriconoscibili e modificate, più tardi farà fatica a distinguere la realtà dalla fantasia e la realtà fisica da quella psichica. Questo può indurlo a un uso strumentale (manipolativo) e non di segnalazione (comunicativo) degli stati affettivi. Questo uso strumentale degli affetti è un aspetto chiave della tendenza dei pazienti violenti a esprimere e gestire i pensieri e le emozioni per mezzo di azioni fisiche, agite contro il loro stesso corpo o contro gli altri. Essendo incapaci di sentire se stessi dall’interno, sono obbligati a percepire il sé dall’esterno.

È noto che il trauma ha un ruolo importante nella psicogenesi della violenza. Se il trauma è provocato da una figura di attaccamento, ciò può interferire con i processi di sviluppo del mondo psicologico interno. Le prove di ciò si possono vedere nei bambini gravemente abusati: la persistenza di un modo psichico equivalente di sperimentare la realtà interna; la tendenza a agire sempre in un modo pretenzioso (dissociazione); un’incapacità parziale a riflettere sui propri stati mentali e su quelli degli altri. È probabile che questi modi di pensare continuino a essere presenti nel’età adulta e che abbiano un ruolo negli agiti di violenza rabbiosa79.

I comportamenti antisociali e aggressivi sono profondamente legati alla presenza di genitori trascuranti, minacciosi e/o violenti. Un fattore importante frequentemente associato alla psicopatia è una madre che minaccia l’abbandono come mezzo di disciplina.

Inoltre, dalla mescolanza di sentimenti di ansia e di rabbia indotti da minacce di questo tipo sembra nascere un circolo vizioso. Da un alto il bambino è reso furibondo dalla minaccia di abbandono, dall’altro non può manifestare questa rabbia per paura che il genitore lo abbandono davvero. Questa è la ragione principale per cui in questi casi la rabbia verso il genitore è repressa e poi reindirizzata verso altri bersagli.

Gli studi hanno dimostrato che il tipo di attaccamento precoce è direttamente collegato con gli atteggiamenti adulti verso coetanei, figli, genitori, amici, coniugi, comunità, idee e pregiudizi culturali, educativi, politici e con la capacità di amare e di farsi amare, con la crudeltà, l’aggressività, la capacità di fare il genitore e così via80.

In situazioni sperimentali si è evidenziato che il surriscaldamento, i cattivi odori e l’alta densità della popolazione (condizioni di vita stressanti) determinano ostilità e aggressività.

La trascuratezza (neglect) ha un’influenza potente sulla genesi dei comportamenti aggressivi ed è associata a relazioni sociali povere. I bambini trascurati possono essere anche più disfunzionali e aggressivi di quelli abusati81.

78 E. Lindemann, Symptomatology and management of acute grief, Am. J. Psychiat., 101, 141-9, 1944.

79 P. Fonagy, The psychoanalysis of violence, Dallas, 15 marzo 2001.

80 J.C. Garelli, Aggression and attachment, Pol.it, 3, 1, 1997.

81 C.S. Widom, The cycle of violence, Science, 244, 160-6, 1989.

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La qualità del comportamento genitoriale nei primi tempi influenza anch’essa l’aggressività. L’aggressività può essere appresa e rinforzata dal comportamento altrui: l’esposizione alla violenza in casa, specie se tra i genitori, è associata in modo significativo con i comportamenti violenti dei figli.

Probabilmente il generatore più potente dell’aggressività è l’infliggere ripetutamente il dolore. I bambini abusati hanno molta difficoltà a manifestare le loro emozioni col linguaggio e tendono a dimostrare la loro rabbia e la loro sofferenza attraverso gli atti (e continueranno a farlo anche da adulti).

Il fatto che influenze ambientali o esperienziali influenzino lo sviluppo dell’aggressività non significa che questi effetti siano esclusivamente o anche solo primariamente psicodinamici o sociali. I bambini non diventano violenti semplicemente come esito del modellamento o del rinforzo, sebbene imitazione e le risposte condizionate contribuiscano. Gli studi suggeriscono che le condizioni ambientali e i fattori di stress che generano l’aggressività siano, almeno in parte, mediati fisiologicamente.

Le esperienze influenzano lo stato fisiologico che, a sua volta, influenza il comportamento. Queste interazioni dimostrano che lo stato biologico di un organismo non è fisso, ma che cambia in continuazione e risponde all’ambiente. Così, quello che può sembrare un temperamento aggressivo innato può, in realtà, essere il riflesso di uno stato fisiologico indotto e rinforzato da fattori di stress ambientali.

Violenza e autostima82

The theoretical relation is currently being debated. One view suggests that low self-esteem leads to violent behavior, whereas another view suggests that violent behavior stems from high self-esteem. Recent theorizing also suggests that narcissism, which is generally associated with high rather than low self-esteem, contributes to violent behavior. In terms of empirical research, the literature reveals inconsistent findings

82 M.K. Ostrowsky, Are violent people more likely to have low self-esteem or high self-esteem?, Aggression and Violent Behavior 15

(2010) 69–75

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5. BIOLOGIA DELL’AGGRESSIVITA’83

Dal punto di vista evolutivo, l’aggressività sembra essere, in molte specie, una risposta a una potenziale minaccia o a una provocazione e sembra una tendenza innata. Negli esseri umani si sarebbero evoluti dei centri corticali superiori che avrebbero la funzione di bloccare l’emergenza delle forme più primitive di aggressività quando queste siano giudicate inappropriate.

La risposta del cervello a minacce ambientali o endogene può essere profondamente modificata da lesioni anche minime in sedi specifiche, indipendentemente dalla natura della lesione.

Alcune persone che commettono impulsivamente azioni violente sembrano avere una soglia ridotta per l’aggressività a causa di un ridotto controllo top-down della corteccia prefrontale, forse a causa di difetti strutturali del cervello o di una neuro modulazione corticale imperfetta. Tra i meccanismi neurobiologici candidati sono la serotonina ridotta, un aumento delle catecolamine e un’ipersensibilità dell’amigdala e di altre parti del sistema limbico come risposta a stimoli negativi, modulata da uno squilibrio tra i sistemi colinergico, glutamatergico e gabaergico84.

L’aggressività e il suo controllo sono gestiti da vari gruppi di neuroni, sia eccitatori, sia inibitori, posti bilateralmente nella corteccia orbito-frontale, nell’area settale, nell’ippocampo, nell’amigdale, nella testa del nucleo caudato, nel talamo, nei nuclei ipotalamici ventromediale e posteriore, nel tetto del mesencefalo, nel ponte, nel nucleo del fastigio e nel lobo cerebellare anteriore. In condizioni normali, la neocorteccia ha un certo controllo su queste strutture, ma la sua capacità di inibire è debole e può essere superata nelle persone normali da pulsioni interne o da provocazioni esterne.

Le aree prefrontali, in particolare la corteccia orbitale e quella ventro-mediale, hanno un ruolo chiave85 nell’inibire le regioni limbiche coinvolte nella generazione dell’aggressione. La corteccia cingolata anteriore può essere implicata nella valutazione degli stimoli con carica affettiva, come l’amigdala risponde alle minacce e agli stimoli provocatori. Queste regioni sottocorticali possono inviare segnali ad altre sedi critiche, come l’ipotalamo, che regola le risposte ormonali, e le regioni corticali deputate al dare inizio all’attività motoria.

Le indagini di neuroimaging funzionale sullo sviluppo dei comportamenti antisociali86

PET antisociale87 Normal individuals who scored high on a measure of impulsive/antisocial traits display a hypersensitive brain reward system.

Psychopathy is a personality disorder characterized by a combination of superficial charm, manipulative and antisocial behavior, sensation-seeking and impulsivity, blunted empathy and punishment sensitivity, and shallow emotional experiences. Psychopathy is a particularly robust predictor of criminal behavior and recidivism.

Psychopathy is a personality disorder that is strongly linked to criminal behavior. Using [18F]fallypride positron emission tomography and blood oxygen level–dependent functional magnetic resonance imaging, we found that impulsive-antisocial psychopathic traits selectively predicted nucleus accumbens dopamine release and reward anticipation-related neural activity in

83 F.A. Elliott, cit., 1992; S. Cherkasky e E. Hollander, cit., 2000; L.J. Siever, Neurobiology of impulsive-aggressive personality-

disordered patients, Psych. Times, 19, 8, 2002.84

R. Freedman e al., Psychiatrists, Mental Illness, and Violence, Am. J. Psychiat., 164, 1315-17, 2001.85

P. Pietrini e al., Neural Correlates of Imaginal Aggressive Behavior Assessed by Positron Emission Tomography in Healthy Subjects, Am. J. Psychiat., 157:1772–1781, 2000.86

S.L. Crowe e R.G.L. Blair, The development of antisocial behavior, Develop. Psychopath., 20, 1145-1159, 200887

J.W. Buckholtz e al., Mesolimbic dopamine reward system hypersensitivity in individuals with psychopathic traitsNat. Neurosci., 419 – 421, 2010

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response to pharmacological and monetary reinforcers, respectively. These findings suggest that neurochemical and neurophysiological hyper-reactivity of the dopaminergic reward system may comprise a neural substrate for impulsive-antisocial behavior and substance abuse in psychopathy.Since psychopathic individuals are at increased risk for developing substance use problems, the Vanderbilt team decided to investigate possible links between the brain’s reward system (activated by abused substances and natural reward), and a behavioral trait (impulsive/antisociality) characteristic of psychopathy. Researchers used two different technologies to measure the brain’s reward response.

In the first experiment, positron emission tomography (PET) was used to image the brain’s dopamine response in subjects who received a low oral dose of amphetamine. Dopamine is a brain chemical associated with reward and motivation.

In the second experiment, the same subjects participated in a game, in which they could make (or lose) money while their brains were being scanned using functional magnetic resonance imaging (fMRI).

The results in both cases show that individuals who scored high on a personality assessment that teases out traits like egocentricity, manipulating others, and risk taking had a hypersensitive dopamine response system. The picture that emerges from these high resolution PET and fMRI scans suggests that alterations in the function of the brain’s reward system may contribute to a latent psychopathic trait.

The researchers speculate that a heightened response to an anticipated reward could make such individuals less fearful about the consequences of their behavior, which, combined with a reduced sensitivity to others' emotions and resistance to learning from mistakes, could lead to the manipulative and aggressive style of behaviors that is common in psychopaths.

I substrati neurochimici che regolano il comportamento violento includono neurotrasmettitori eccitatori e inibitori e una grande varietà di neuro modulatori a effetto prolungato, compresi gli ormoni sessuali. L’acido -aminobutirrico e la serotonina inibiscono l’aggressione predatoria e affettiva ed è dimostrata una stretta correlazione tra un’anamnesi positiva per comportamenti di rabbia aggressiva e i livelli di noradrenalina. Una disfunzione serotoninergica, in particolare, influenzerà l’aggressività in modo diverso in relazione alla capacità di controllo degli impulsi, alla regolazione emotiva e alle abilità sociali dell’individuo. Inoltre, poiché gli atti aggressivi avvengono in un contesto sociale, la funzione serotoninergica ha un effetto non solo sull’individuo, ma anche sulle dinamiche di gruppo e queste, a loro volta, la influenzeranno. Quindi, il verificarsi di un’aggressione quando è presente una disfunzione serotoninergica dipenderà sia dalle differnze tra gli individui, sia dal contesto sociale generale.88

88 M. Krakowski, Violence and serotonin,: influence of impulse control, affect regulation and social functioning, J. Neuropsychiat. Clin.

Neurosci., 15, 295-306, 2003.

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È ancora da chiarire se l’episodicità dei comportamenti aggressivi predatori e affettivi è correlata, tra l’altro, alle fluttuazioni circadiane o stagionali dei livelli di diversi neurotrasmettitori e neuro modulatori, fluttuazioni che potrebbero spiegare non solo l’occasionalità della violenza, ma anche le fluttuazioni stagionali della frequenza degli omicidi e dei suicidi.

Genetica

I bambini non nascono tutti con lo stesso temperamento: alcuni sono più tesi e irritabili di altri e più portati a comportamenti bizzosi quando sono stressati da vicende normali della vita. Alcuni bambini, pertanto, possono essere più suscettibili di altri agli effetti favorenti la violenza dell’abuso e del neglect. Il bambino che è di per sé già intrinsecamente vulnerabile a malinterpretazionii paranoidi per una predisposizione neurofisiologica o quello che soffre di una disfunzione del SNC che incrementa l’irritabilità e l’impulsività, può rispondere in modo particolarmente aggressivo agli ulteriori danni psicologici o neurofisiologici prodotti dai comportamenti abusivi o trascuranti.

È noto che quando una risposta fisiologica si è costituita, può essere richiamata facilmente dall’esposizione a stimoli simili. Di conseguenza, è ragionevole ipotizzare che l’abuso e la trascuratezza, specie se si verificano nella prima infanzia, abbiano degli effetti condizionanti, inducendo la formazione di circuiti e di risposte neurofisiologici che contribuiscono alla violenza. Quando dei deficits neurofisiologici e cognitivi sono copresenti, il maltrattamento è un fattore precipitante estremamente potente dell’aggressività. Cioè, quando impulsività, ipervigilanza e deficit cognitivi coesistono, allora la condizione psicofisiologica è predisposta alla violenza. Le disfunzioni cerebrali di ogni tipo sono spesso associate a irritabilità, impazienza e labilità emotiva. L’ideazione paranoide e le percezioni erronee, sintomi associati a diverse patologie psichiatriche, aumentano timori e una tendenza a rivalersi per minacce vere o immaginarie. I deficit cognitivi non solo danneggiano la capacità di giudizio, ma diminuiscono anche l’abilità di concettualizzare le emozioni e di metterle in parole piuttosto che in azioni.

Il maltrattamento esacerba queste vulnerabilità e incoraggia la violenza in diversi modi: causando rabbia e fornendo un modello per il comportamento violento; modificando la fisiologia dell’organismo, aumentando l’ipervigilanza, la timorosità e la paranoia; rendendo incapaci di comprendere i principi morali (riconoscere il dolore proprio e altrui) quando posti in condizioni di stress; riducendo le capacità di giudizio e le competenze verbali89.

Le ricerche sui gemelli monozigoti supportano un aspetto ereditario del comportamento aggressivo e suggeriscono che i comportamenti antisociali siano correlati più a fattori genetici che a fattori ambientali. Le stime dell’ereditarietà variano dal 44 al 72%.

È chiaro che non esiste un gene specifico per l’aggressività, ma è possibile che il polimorfismo dei geni che regolano l’attività di neuro modulatori o che geni per componenti strutturali di regioni del cervello critiche nella regolazione dell’aggressività possano contribuire alle differenze individuali nella predisposizione a comportamenti aggressivi. Per esempio, un deficit di origine genetica dell’enzima monoamino-ossidasi A (MAOA) è stato messo in relazione con l’aggressività nella scimmia e nell’uomo90 ed è stato dimostrato che l’associazione tra maltrattamento infantile e comportamenti antisociali nell’adulto non è diretta, ma è funzione del genotipo MAOA dell’individuo.91 Inoltre, sembra esistere una relazione tra gli alleli dei recettori della serotonina (5-HT1B e 5-HT1A) che ne modulano la funzione e l’aggressività impulsiva92.

89 D.O. Lewis, cit., 1992.

90 D.C. Rowe, Biology and crime, Roxbury, 2001.

91 A. Caspi e al., Role of genotype in the cycle of violence in matreated children, Science, 297, 851-4, 2002.

92 B. Olivier e R. van Oorschot, 5-HT1B receptors and aggression: a review, Eur. J. Pharm. 526, 207-217, 2005; S.F. de Boer e J.M.

Koolhaas, 5-HT1A and 5-HT1B receptor agonists and aggression: a pharmacological challenge of the serotonin deficiency hypothesis, Eur. J. Pharmacol., 526, 1-3, 125–39, 2005

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6. Violenza e psichiatria

In ambito psichiatrico si deve circoscrivere l’esame e la gestione di quelle forme di comportamento violento che hanno a che fare con la psicopatologia e non con motivazioni sociali o criminali. D’altro lato, poiché la percezione pubblica della pericolosità dei pazienti psichiatrici gioca un ruolo importante nell’alimentare lo stigma, è indispensabile una valutazione concreta del problema93. Infatti, il tema dell’aggressività e della violenza connesse alla malattia mentale (ma non necessariamente derivazioni dirette da questa) è sempre di attualità, ma contemporaneamente fonte di equivoci94.

L’equazione violenza=malattia mentale si ripete stereotipatamente e quando di un delitto non si trovano le motivazioni sorge subito il sospetto che chi l’ha commesso possa (o, meglio, debba) essere psichicamente malato. Questa correlazione stereotipa deve essere smentita. In proposito, come esempio, gli omicidi commessi in Italia nel 2003 sono stati 658: di questi, solo 27 (cioè il 4,1%) per opera di soggetti sicuramente affetti da un disturbo mentale.

The relationship between mental illness and violence is controversial. On the one hand, there is considerable unfounded stigma and discrimination toward the mentally ill based on the popular notion that psychiatric patients are dangerous people. On the other hand, there is a legitimate need for psychiatrists to identify and manage what risk of violence does exist in their patients.

Si devono fare anche delle precisazioni lessicali. Nel linguaggio comune usiamo spesso, come fossero sinonimi, termini quali aggressività, violenza, ira o collera, rabbia, impulsività. Ognuno di questi termini, però, ha in psicologia e in psichiatria sue specifiche connotazioni e indica comportamenti che sul piano neurobiologico, psicodinamico, etnico ecc. hanno elementi in parte comuni, in parte no. È scorretto, per esempio, usare come sinonimi i termini impulsività e aggressività (o violenza). Infatti, un delitto premeditato non presume un discontrollo degli impulsi. Nel gioco d’azzardo patologico, l’impulsività è una componente, ma non per questo il giocatore è aggressivo o violento verso terzi. Violenza e aggressività sono in correlazione tra loro, ma usarli come sinonimi è spesso improprio. Infatti, l’aggressività non va intesa solo come una tendenza che sul piano comportamentale è volta alla etero- o auto-distruzione, ma anche come una tendenza all’autoaffermazione, in termini di spirito d’iniziativa, energia e attività. La violenza, invece, che deriva sul piano comportamentale da un’aggressività non controllata, ha sempre una connotazione negativa, distruttrice, sia individuale sia gruppale (in quest’ultimo caso diretta verso terzi, come nella manifestazioni di piazza, oppure verso gli stessi membri del gruppo, come nei suicidi collettivi o di massa).

Quella dell’aggressività non è una categoria clinica, ma una dimensione psicopatologica attinente ai disturbi di personalità, a quelli dello spettro schizofrenico, maniacale, ossessivo e depressivo, ali disturbi mentali organici. Il carattere trans-nosografico dei comportamenti aggressivi e violenti si fa palese il più delle volte nelle condizioni di urgenza psichiatrica, che si può configurare in tre classi:

crisi individuale: scompensi psicotici acuti; crisi ambientale: disturbo psicotico breve, di adattamento, post-

traumatico, ecc.; crisi relazionale: come quella ambientale, in un contesto familiare.

93 B.G. Link e A. Stueve, New evidence on the violence risk posed by people with mental illness, Arch. Gen. Psychiat., 55, 403-4, 1998.

94 A. Giannelli, Lo psichiatra e il paziente aggressivo, Psichiatria Oggi, 19, 1, 17-19, 2006.

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Esiste, e non deve essere dimenticata, anche una violenza più subdola che, per le circostanze più diverse, può circolare nell’ambiente: quella degli operatori, che si esprime tramite l’indifferenza o il rifiuto al dialogo o il ricorso a parole o atteggiamenti inappropriati.

L’importanza della violenza in ambito psichiatrico si basa su tre ragioni:

La responsabilità del trattamento dei disturbi psichiatrici, dei quali la violenza può essere un sintomo.

La responsabilità etica e legale di proteggere le vittime potenziali della violenza.

La responsabilità di mettere gli operatori della salute mentale al riparo dai rischi dei comportamenti violenti dei quali possono essere vittime.

Un aspetto peculiare è il rapporto tra psichiatria clinica, da un lato, e psichiatria forense e sistema giudiziario, dall’altro. La riforma della 180 sottolineava, con tutte le remore tutt’ora in atto, la necessità di restituire alla malattia mentale la dimensione di problema medico, sottraendole la connotazione di problema di ordine pubblico95. Questa posizione ha portato ad una contrapposizione tra clinica e sistema legale, con procedimenti legali nei confronti di psichiatri in occasione di episodi di violenza agita da parte di pazienti, scenario inquietante, in cui la magistratura sembra investita di un ruolo vicariante supposte carenza legislative. Lo psichiatra si trova, in questo modo, sottoposto ad un doppio legame: da un alto, gli è richiesto – legalmente ed istituzionalmente – di privilegiare la volontarietà del trattamento, di ridurre i ricoveri, di considerare la coercizione una spiacevole necessità eccezionale, svincolata in ogni caso da qualsiasi valenza di pericolosità, mentre, dall’altro lo si rinvia a giudizio e lo si sanziona penalmente se da un suo impegno coerente con i dettami legali ed istituzionali derivano fatti pericolosi e/o lesivi96.

Un altro scollamento, questa volta all’interno del sistema legale, è evidente quando, pur in presenza della legge 180/78, in ambito giudiziario è richiesta la valutazione della “pericolosità sociale” per malattia mentale: tale valutazione richiede non solo l’accertamento di un rischio attuale, ma anche della sua persistenza nel tempo e da essa deriva l’internamento in OPG. Attualmente l’accertamento della pericolosità sociale psichiatrica è svincolato da ogni carattere di scientificità ed ubbidisce a convenzioni finalizzate a tutelare il perito stesso e la società, piuttosto che ai bisogni del malato97.

I pazienti psichiatrici sono responsabili solo di una piccola percentuale degli atti violenti che si verificano nella società; tuttavia, esiste un rapporto tra “malattia mentale” e maggiore rischio di violenza98. Il rapporto tra comportamenti violenti e psicopatologia è stato considerato in modi diversi, di solito sulla base di orientamenti professionali ed ideologici e, meno, sulla base dei dati oggettivi.

95 Esattamente l’opposto è accaduto negli Stati Uniti, dove il principio della necessità di curare (“need for treatement”) quale ragione

del ricovero coatto è stato giudicato troppo paternalistico ed è stato sostituito con i criteri della pericolosità per gli altri o per se stessi.96

R. Ariatti e G. Neri, Il giudizio di pericolosità, Nóoς, 4, 143-9, 1998. Una richiesta personale di chiarimenti all’autorità giudiziaria da parte dello scrivente ha ottenuto l’indicazione che, in caso di rischio di atti violenti, il professionista può segnalare il sospetto alle forze dell’ordine, ma che il suo intervento deve essere di “trattare” la patologia in atto. In caso di adesione del paziente al trattamento, fatto che esclude il ricorso al TSO, ma che non esclude il rischio, non sarebbe consentito altro mezzo per tutelare le persone esposte al rischio. D’altra parte, le forze dell’ordine, come da esperienza diretta, non intervengono se non in caso di flagranza di reato o ad atto compiuto.97

U. Fornari, Psicopatologia e psichiatria forense, UTET, 1989.98

K. Tardiff, Violenza, in: Hales R.E. e al. (Eds), Psichiatria, CSE, 2003, cap. 37 (ed. orig. 1999); L.L. Citrome, Aggression, 9/11/2010 http://emedicine.medscape.com/article/288689-overview.

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Il comportamento violento del paziente psichiatrico è multideterminato, è influenzato da molte variabili, difficili da determinare, ed è, di conseguenza, difficile da definire e da categorizzare99.

La valenza etica e le conseguenze pratiche della concezione del legame tra malattia psichiatrica e comportamento violento hanno sempre creato dibattiti, incomprensioni e dubbi sulla necessità o meno di ricorrere a cure coercitive e, se nel caso, a quali condizioni ed in quali modalità.

L’approccio al rapporto tra malattia psichiatrica e comportamento violento è riconducibile a quattro posizioni100:

1. esiste un nesso inscindibile e naturale tra la malattia mentale e la violenza;

2. questo nesso non esiste, ma i due fenomeni sono reciprocamente indifferenti;

3. l’associazione tra malattia mentale e comportamento violento ha rilevanza a causa dei risvolti medico-legali in materia di responsabilità professionale;

4. i risultati degli studi epidemiologici condotti su popolazioni naturali.

A prescindere dalle prime due posizioni, socio-politicamente datate e a proposito delle quali è stato detto che gli studi antecedenti al 1990 sulle relazioni tra violenza e disturbi mentali erano metodologicamente inadeguati per stabilire se esiste una tale relazione101, ci soffermiamo sulle ultime due.

Dal punto di vista medico-legale il problema verte sulla prevedibilità del comportamento violento. Le modifiche sociali e legislative che hanno portato alla psichiatria di comunità hanno contribuito a portare alla luce l’impossibilità della previsione del comportamento violento a lungo termine e, almeno negli Stati Uniti in seguito alla sentenza Tarasoff (1975), all’approfondimento della possibilità di prevedere “scientificamente” il rischio di violenza nel breve periodo. Gli studi degli anni ’80 sembravano suggerire la prevedibilità del comportamento violento del paziente psichiatrico, almeno nel breve periodo. Ma le metodologie e, quindi, le conclusioni sono criticabili e inaffidabili102.

La prospettiva epidemiologica ha dato i primi risultati con lo studio statunitense ECA (Epidemiological Catchment Area), condotto su una popolazione naturale103. I dati, confermati da altre ricerche successive anche in altri paesi, indicano che i comportamenti violenti si verificano nel 2% delle persone normali, nel 10-12% delle persone con disturbi psicotici o affettivi maggiori, nel 25% degli alcolisti e nel 35% di quelle che abusano di sostanze. Il contributo complessivo dei disturbi mentali alla violenza sociale è, quindi, minimo: l’alcolismo e la tossicodipendenza hanno un peso molto maggiore104. Dati simili sono forniti da uno studio australiano105.

99 P.M. Marzuk, Violence, crime and mental illness, Arch. Gen. Psychiat., 53, 481-6, 1996.

100 M. Sanza, Gli studi sul comportamento aggressivo e violento in psichiatria, in: Sanza M. (Ed.), Il comportamento aggressivo e

violento in psichiatria, CSE, 1999, cap. 1.101

J.C. Beck e H. Wencel, Violent crime and axis I psychpathology, in: Skodol A.E. (Ed.), Psychopathology and violent crime, APP, 1998, cap. 1.102

J. Monahan, Risk assessment of violence among the mentally disordered: generating useful knowledge, Int. J. Law Psychiat., 11, 249-57, 1988.103

J.W. Swanson e al., Violence and psychiatric disorders in the community, Hosp. Comm. Psychiat., 41, 761-70, 1990.104

J.C. Beck e H. Wencel, cit., 1998.105

C. Wallace e al., Serious criminal offending and mental disorder. Case linkare study, Br. J. Psychiat., 174, 477-84, 1998.

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Dagli studi epidemiologici sembra che si possa dire che i pazienti con solo un disturbo psicotico presentano un aumento modesto di rischio di comportamento violento, mentre il rischio maggiore è associato ai disturbi di personalità, all’abuso di sostanze e alle situazioni di comorbidità dove l’abuso di sostanze è associato a una grave patologia mentale106 e a una scarsa aderenza al trattamento107.

Una meta-analisi108 sui comportamenti violenti conclude che i principali fattori predittivi della recidiva dei comportamenti violenti sono simili negli autori con o senza disturbi mentali: in effetti, se una persona con un disturbo mentale è violenta, ciò non significa che sia dovuto alla malattia, ma ad altre variabili che aumentano il rischio di violenza. I precedenti, la personalità antisociale, l’abuso di sostanze e una famiglia disfunzionale sono fattori importanti per tutti gli autori di aggressioni. Sembra infatti che i fattori maggiormente correlati al crimine siano gli stessi per tutti, indipendentemente dal sesso, la razza, la classe sociale e la presenza o l’assenza di una malattia mentale. Le variabili cliniche o psicopatologiche non sono correlate col recidivismo o hanno una correlazione negativa con esso. La presenza di un disturbo mentale sembra, anzi, associata con una minor tendenza alla recidiva, dando ulteriore supporto all’opinione che i malati mentali non sono pericolosi, almeno in confronto con gli aggressori non malati.

Le conclusioni generali che si possono trarre sono:

la maggior parte delle persone con disturbi mentali non commettono atti violenti;

quando una persona con problemi psichiatrici commette atti di violenza, in genere, lo fa contro persone della famiglia o per lui significative, non contro estranei;

un trattamento appropriato può ridurre notevolmente la probabilità che un paziente psichiatrico commetta atti di violenza;

il reale problema pubblico della violenza riguarda principalmente l’alcolismo e la tossicodipendenza.

Una ricerca109 indica che il 9% degli schizofrenici manifestano comportamenti violenti nelle 20 settimane successive al ricovero, a confronto del 19% dei depressi, del 15% dei bipolari, del 17,2% degli altri disturbi psicotici, del 29% dei pazienti con abuso di sostanze e del 25% di quelli con disturbi di personalità non complicati.

Sembra, quindi, vero che esiste una certa associazione tra psicosi e violenza, ma il 95-99% della violenza nella società deve essere spiegato in un altro modo. Quando la violenza è un problema, allora le persone più vicine al paziente sono quelle più a rischio. La psicosi può collegarsi alla violenza in due modi: uno è che una persona fosse normale prima dell’esordio della malattia e che la violenza sia indotta dai sintomi psicotici; nell’altro la psicosi è stata preceduta da problemi emotivi e comportamentali, da abusi o traumi e può essere accompagnata da modi di vita e da abusi di sostanze, tutti fattori importanti nell’induzione della violenza, indipendenti dalla psicosi.110

106 E. Walsh e T. Fahy, Violence in society, Br. Med. J., 325, 507-8, 2002.

107 M.S. Swartz e al., Violence and severe mental illness: the effects of sostance abuse and nonadherence to medication, Am. J. Psychiat.,

155, 226-231, 1998.108

J. Bonta e al., The prediction of criminal and violent recivism among mentally disordered offenders: a meta-analysis, Psychol. Bull., 123, 123-142, 1998.109

J. Monahan e P. Appelbaum, Reducing violence risk, in: S. Hodgins Ed.), Effective prevenction of crime and violence among mentally ill, Kluver, 2000, pp. 19-34.110

P.J. Taylor, Psychosis and Violence: Stories, Fears, and Reality, Can. J. Psychiat., 53, 647-659, 2008.

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I pazienti schizofrenici sono quelli più “temuti” e quindi maggiormente vittime dello stigma. In realtà, gli studi tendono a indicare che l’associazione esiste, ma che è molto piccola: pertanto, si dovrebbe tener conto più del rischio assoluto che di quello relativo allo scopo di ridurre lo stigma e considerare l’abuso di sostanze come fattore aggiuntivo e più prevenibile.111

Dal punto di vista categoriale, i fattori clinici che indicano un maggior rischio di violenza nel paziente psichiatrico sono la psicosi (delirio di nocumento o di controllo), l’eccitamento maniacale, alcuni disturbi di personalità (borderline e antisociale), oltre all’alcolismo ed alla tossicodipendenza112. I pazienti violenti, pertanto, non costituiscono un gruppo omogeneo e la violenza non è un sintomo specifico che possa essere messo in relazione con una determinata diagnosi. Trattandosi di un comportamento, è soggetto all’influenza di diverse determinanti. Fattori soggettivi e oggettivi, legati all’ambiente e/o alla relazione con la vittima, hanno una grande importanza, sia nella predisposizione, sia nello scatenamento degli eventi acuti.

Dal punto di vista soggettivo, la violenza dei pazienti psichiatrici può essere in relazione a sintomi di persecuzione percepita, può derivare da una situazione di disorganizzazione psicotica, mentre in altri casi la difficoltà a dilazionare la gratificazione (o una soglia molto bassa alla frustrazione) sono la vera causa scatenante degli episodi di violenza. In altri casi, l’aggressività (o il suicidio) possono essere in relazione con l’acatisia indotta da farmaci113.

Indipendentemente dalla diagnosi, una storia precedente di comportamenti aggressivi è il principale indicatore di rischio per nuovi episodi di violenza, per cui è fondamentale prestare attenzione all’identificazione dei patterns abituali che scatenano la violenza. La mancata raccolta di dati rilevanti al fine di una previsione può avere rilevanza medico-legale (tab. 1114: com’è evidente gli elementi da considerare sono difficilmente ottenibili in ogni situazione, in particolare in quelle d’emergenza).

Tabella 1

Elementi da valorizzare nella valutazione della pericolosità a breve termine

Aspetto del paziente: segni di uso di alcool o di droghe, agitazione, rabbia, grado di accettazione delle procedure, comportamento disorganizzato

Grado di dettaglio nell’esporre i piani di violenza e grado di dettaglio nelle minacce

Disponibilità di oggetti in grado di procurare ferite, ad esempio possesso di armi o presenza di tali oggetti nell’ambiente

Storia di precedenti comportamenti violenti, inclusi il suicidio, guida pericolosa, comportamenti sessuali a rischio, danni a oggetti

111 E. Walsh e al., Violence and schizophrenia: examining the evidenceViolence and schizophrenia: examining the evidence, Br. J.

Psychiat. 180, 4 9 0-4 9 5, 2002.112

K. Tardiff, Malattia mentale e violenza, Nóoς, 4, 93-103, 1998.113

M. Sanza, Gli studi sul comportamento aggressivo e violento in psichiatria, in: M. Sanza (Ed.), Il comportamento aggressivo e violento in psichiatria, CSE, 1999, cap. 1.114

K. Tardiff, The current status of psychiatry in the treatment of violent patients, Arch. Gen. Psychiat., 49, 493-99, 1992.

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Obiettivi delle precedenti azioni violente

Grado delle lesioni nei casi di violenza già agita

Circostanze e schemi comportamentali della escalation di violenza che in altre occasioni avevano condotto fino all’aggressione

Storia di abusi fisici subiti durante l’infanzia o di altri tipi di violenza subita o presente nella famiglia

Assunzione recente di alcool o droghe

Disturbi organici del SNC

Disturbi psicotici, in particolare ideazione paranoide o allucinazioni imperative

Disturbi di personalità, in particolare borderline o antisociale

Appartenenza a un gruppo socio-demografico a maggiore rischio per condotte violente: giovane età, sesso maschile, classe socio-economica bassa

Il “MacArthur Violence Risk Assessment Study” è stato condotto negli anni 1992-5 con l’obiettivo di stabilire la frequenza di comportamenti violenti da parte di pazienti psichiatrici dimessi. I primi risultati furono pubblicati nel 1998 e da allora lo studio è stato ampiamente citato come prova della maggiore pericolosità dei pazienti psichiatrici rispetto alla popolazione generale.

Queste conclusioni sono state messe in discussione e si è evidenziato che non esistono soluzioni magiche né cause uniche per il problema della violenza: “i dati confermano che l’inclinazione alla violenza deriva dall’accumulo di fattori di rischio, nessuno dei quali è da solo necessario e sufficiente perché una persona si comporti aggressivamente verso gli altri. Le persone diventano violente in funzione della presenza di diversi complessi di fattori di rischio. Non esiste un’unica via che porti alla violenza”115.

Un’altra revisione116 dei dati dello studio MacArthur ha evidenziato diversi punti controversi. In ogni modo, sembra di poter concludere da questo studio che il rischio di violenza attribuito alle persone con disturbi mentali è molto maggiore del reale. Infatti, per persone che non abusano di alcol o droghe, non c’è ragione che presentino un rischio maggiore dei loro vicini. I fattori che possono prevedere la violenza delle persone con disturbi mentali sono più simili che diversi di quelli che riguardano la popolazione generale, alcol e droghe compresi. Le persone con disturbi mentali in genere non aggrediscono gli estranei, a differenza di quelle “sane”, né agiscono in luoghi pubblici. Sebbene ci siano indicazioni che una buona aderenza al trattamento può ridurre la frequenza della violenza, i dati sono ancora insufficienti; è improbabile che il trattamento da solo possa eliminare il rischio di violenza.

Ma il dibattito è tutt’altro che concluso. Uno studio longitudinale sui comportamenti violenti in caso di disturbi mentali gravi, basato sui dati del National Epidemiologic Survey on Alcohol and Related Conditions (NESARC),

115 J. Monahan e al., Rethinking risk assessment: the MacArthur study of mental disorder and violence, OUP, 2001.

116 E.F. Torrey e al., The MacArthur Violence Risk Assessment Study Revisited: Two Views Ten Years After Its Initial Publication,

Psychiat. Serv., 59, 147-152, 2008.

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condotto dal National Institute on Alcohol Abuse and Alcoholism117, ha evidenziato che l’incidenza di comportamenti violenti è maggiore nelle persone con disturbi mentali gravi, ma che questa maggiore incidenza è significativa solo quando è presente anche abuso o dipendenza da sostanze. La maltaaia mentale da sola non sarebbe un fattore predittivo di violenza. Questa, invece, è associata a fattori anamnestici (precedenti di violenza, abusi fisici, ecc.), clinici (abuso di sostanze, minacce percepite), predisponenti (età, sesso, reddito) e stress ambientali (divorzio recente, disoccupazione, vittimizzazione). La maggior presenza di comportamenti violenti tra persone con gravi malattie mentali sembra derivare dall’associazione frequente con gli altri fattori. Tuttavia, una rianalisi dei dati118

mette in dubbio queste conclusioni: per quanto piccola, esiste una relazione statisticamente significativa tra violenza e grave malattia mentale e una maggiore con l’uso di sostanze; questa analisi indicherebbe la grande importanza nel comportamento violento delle condizioni premorbose e di altri contemporanei fattori clinici.

La relazione tra disturbi mentali e violenza è chiaramente complessa. Tra le variabili che sono state individuate come responsabili di un incremento del rischio di violenza, oltre ai sintomi psicotici acuti e all’abuso di sostanze, ci sono il livello socio-economico ed anche il risiedere vicino a una persona con disturbi mentali. È probabile che nessun approccio singolo per cercare di ridurre il rischio possa essere completamente efficace. Inoltre, considerato il contributo relativamente modesto al rischio generale di violenza da parte dei malati mentali, si deve soppesare con cura la probabilità e la grandezza degli effetti negativi di ogni intervento prima di renderlo obbligatorio per legge. La psichiatria dovrebbe assumere un ruolo importante in questo processo. Quando le passioni si accendono per tragici atti di violenza, essa dovrebbe chiaramente e basandosi sui fatti richiamare alla ragione. I rischi reali dovrebbero essere riconosciuti e gli interventi appropriati sottoscritti, mentre si dovrebbero condannare le distorsioni e il ricorso ad azioni discriminatorie e stigmatizzanti.119

È evidente, quindi, che sfortunatamente nessun test psicologico o metodo di conduzione del colloquio può predire una violenza futura. In generale, i fattori di rischio120 generici da tenere in considerazione sono:

1. età: il comportamento violento è associato in genere con i gruppi di età più giovane;

2. sesso: i maschi compiono azioni violente 10 volte più frequentemente delle femmine; tuttavia, tra i pazienti psichiatrici, non c’è una differenza significativa tra maschi e femmine nella frequenza dei comportamenti violenti;

3. livello economico: la violenza è tre volte più frequente tra chi ha un basso livello;

4. intelligenza ed educazione: la violenza è più frequente ai livelli bassi;

5. storia di “abusi” nell’infanzia;

117 E.B. Elbogen e S.C. Johnson, The Intricate Link Between Violence and Mental Disorder. Results From the National Epidemiologic

Survey on Alcohol and Related Conditions, Arch Gen Psychiatry. 2009;66(2):152-161118

Richard Van Dorn, Jan Volavka and Norman Johnson, Mental disorder and violence: is there a relationship beyond substance use?, SOCIAL PSYCHIATRY AND PSYCHIATRIC EPIDEMIOLOGY, online 26.02-2011119

P.S. Appelbaum, Violence and Mental Disorders: Data and Public Policy, Am. J. Psychiat., 168, 1319-21, 2006.120

C.L. Scott e P.J. Resnick, Assessing risk of violence in psychiatric patients, Psychiatric Times, 19, 4, 2002; M. Amore, Aspetti psicopatologici del comportamento aggressivo e violento, in: M. Sanza (Ed.), Il comportamento aggressivo e violento in psichiatria, CSE, 1999, cap. 9.

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6. storia personale, familiare e/o ambientale di comportamento violento;

7. deterioramento del funzionamento sociale ed emarginazione.

In confronto a questi fattori di rischio, il rischio legato ai disturbi mentali è modesto121. Tuttavia, il comportamento violento dei pazienti psichiatrici è funzione di fattori clinici, personali e situazionali interagenti tra loro122.

Variabili cliniche sono la diagnosi, l’acuzie sintomatologica e la fase della malattia;

Variabili demografiche sono l’età, il sesso e l’etnia di origine; Variabili anamnestiche sono la storia personale di precedenti

comportamenti violenti, di abuso di sostanze e l’essere cresciuto in una famiglia violenta.

Il rischio di violenza è dinamico, variabile in funzione della misura in cui certe dimensioni della personalità sono presenti e del grado con cui i fattori ambientali ne riducano o esacerbano l’espressione. Così, solo alcune persone con disturbi mentali manifesteranno un maggior rischio di violenza e questi soggetti a rischio avranno presumibilmente certe configurazioni di personalità vulnerabili all’espressione patologica dell’aggressività123. Dal punto di vista specificatamente psichiatrico si deve tener conto che:

1. pur tenendo conto della debole correlazione tra malattia mentale e violenza, i comportamenti aggressivi sono più probabili nelle fasi sintomatiche acute;

2. nei pazienti paranoidi la violenza è, in genere, ben pianificata e in linea con le loro convinzioni; essa è spesso diretta verso chi è vissuto come un persecutore (spesso familiari, amici o conoscenti);

3. la presenza di deliri non è un fattore predittivo di una maggiore frequenza di atti violenti; tuttavia, la sospettosità non delirante, come il percepire erroneamente il comportamento altrui come indicativo di un’intenzione ostile, sembra collegato a successivi atti violenti; inoltre, la presenza di altre emozioni collegate al delirio, come infelicità, paura, ansia o rabbia, può rendere più probabili azioni aggressive;

4. in generale, le allucinazioni non sono correlate a comportamenti violenti, ma certi tipi di allucinazioni possono aumentare il rischio di violenza; la violenza è più probabile quando le allucinazioni inducono emozioni negative (rabbia, ansia, tristezza) e se il paziente non ha sviluppato strategie efficaci per gestire le voci;

5. la depressione può indurre ad atti violenti a causa della disperazione (suicidi, omicidi-suicidi);

6. i pazienti in fase di eccitamento maniacale hanno frequentemente comportamenti aggressivi o minacciosi, ma la violenza grave è rara; questi pazienti mettono in atto comportamenti violenti nella maggior parte dei casi quando sono segregati o quando si cerca di porre dei limiti al loro comportamento;

7. i danni o le malattie neurologiche possono determinare comportamenti aggressivi; gli aspetti più tipici sono comportamenti reattivi a stimoli banali, mancanza di pianificazione o di riflessione, azioni senza scopo, scoppi esplosivi immotivati;

121 J. Monahan, Clinical and actuarial predictors of violence, in: D. Faigman e al. (Eds.), Scientific evidence: the law and science of

expert testimony, WPC, 1997, pp. 300-18.122

M. Amore, cit., 1999.123

P.G. Nestor, Mental disorder and violence: personality dimensions and clinical features, Am. J. Psychiat., 159, 1973-8, 2002.

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8. i disturbi di personalità sono spesso associati a comportamenti aggressivi impulsivi; il disturbo più spesso associato alla violenza è quello antisociale, nel quale è spesso motivata dal desiderio di vendetta, è fredda e calcolata e priva di emozioni;

9. i tratti di personalità più frequentemente associati al rischio di comportamenti violenti sono l’impulsività, la scarsa tolleranza alle frustrazioni, l’incapacità a sopportare le critiche, i comportamenti antisociali ripetuti, la guida spericolata, la sensazione di avere dei diritti speciali e la superficialità; inoltre, le persone rabbiose e prive di empatia per gli altri sono più a rischio di violenza.

STIGMA

I pregiudizi che legano malattia mentale e violenza sono diffusi e spesso scorretti. Inoltre, sembra che, forse in funzione della chiusura dei manicomi, le persone con disturbi mentali, in particolare psicotici, siano percepiti come più violenti rispetto al passato. Negli USA, negli anni ’50, quando la maggior parte dei malati mentali erano ospedalizzati, solo il 13% delle persone assiciava la malattia mentale con la violenza, mentre negli anni ’90 il 31% faceva tale collegamento.124

Sembra chiaro che si farà poca strada nel ridurre lo stigma fino a quando no si affronterà anche il problema della violenza.125

Uno studio126 ha evidenziato che la maggior parte delle persone indentifica la schizofrenia e la depressione maggiore come malattie mentali aventi una spiegazione multicausale, comprendente circostanze stressanti unite a fattori biologici e genetici. Tuttavia, è emerso anche che molte meno persone associano l’alcolismo o la tossicodipendenza con la malattia mentale e che solo i sintomi delle malattie mentali considerate tali sono collegati col timore della violenza e con il desiderio di tenere a distanza. Persiste, quindi, lo stereotipo della pericolosità del malato mentale e il desiderio di tenerlo isolato. L’essere educati e informati sui reali collegamenti tra malattia mentale e pericolosità, come sui rischi dell’alcolismo e della tossicodipendenza, possono migliorare il rapporto coi malati e ridurre lo stigma. 127

Violenza e disturbi psichiatrici

La classificazione dei soggetti che presentano un comportamento aggressivo-violento episodico ha subito notevoli variazioni nel corso degli anni, in letteratura clinica. Il DSM I descriveva una personalità "aggressivo-passiva, caratterizzata da una persistente reazione alla frustrazione, con irritabilità, scoppi di collera e comportamento distruttivo" (American Psychiatric Association, 1952). Nel 1956 Menninger e Mayman128 hanno introdotto il termine di discontrollo episodico, suddividendo, successivamente, il disturbi del controllo con aggressività e violenza in tre sottogruppi: 1. comportamenti aggressivi ripetitivi e cronici, tipici della personalità antisociale e borderline; 2. violenza impulsiva episodica, frequente nella psicosi traumatica, ma anche nelle sindromi deliranti e nell'ipomania; 3. violenza episodica disorganizzata, più frequente nei soggetti epilettici e/o con lesioni cerebrali. La "personalità esplosiva" del DSM II era caratterizzata da "accessi di collera o di aggressività, verbale o fisica, nettamente diversi dal comportamento abituale del paziente" con soggetti generalmente "eccitabili,

124 Mental Health: A Report of the Surgeon General. Washington, DC, US Department of Health and Human Services, 1999

125 E.F. Torrey, Stigma and violence, Psychiatr Serv 53:1179, September 2002

126 B.G. Link e al., Public conceptions of mental illness: labels, causes, dangerousness, and social distance, American Journal of Public

Health, Vol. 89, Issue 9 1328-1333, 1999.127

D.L. Penn e al., Dispelling the Stigma of Schizophrenia: II. The Impact of Information on Dangerousness, Schizophr Bull (1999) 25 (3): 437-446.128

Menninger KA, Mayman M. Episodic dyscontrol: a third order of stress adaptation. Bull. Menninger Clin., 1956; 20,153-165

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aggressivi ed eccessivamente responsivi alle pressioni ambientali". Nel 1970, Mark & Ervin129 hanno definito una "sindrome da discontrollo" caratterizzata da: 1. storia di aggressioni fisiche soprattutto sulla moglie e sui figli; 2. sintomi di intossicazione patologica; 3. storia di comportamento sessuale impulsivo, con occasionali aggressioni sessuali; 4. storia di ripetute violazioni del codice stradale con gravi incidenti automobilistici. Questa sindrome, secondo gli autori dipende da una lesione funzionale del sistema limbico. Una disfunzione cerebrale minore poteva essere la causa di un comportamento violento episodico e propose l'introduzione, nella pratica diagnostica, del termine di "discontrollo episodico", interpretato sul piano etiopatogenetico, come conseguente a una disfunzione della circuitazione cerebrale limbica. Il termine di "discontrollo episodico" è restato nella terminologia neurologica, nonostante la sua relativa aspecificità diagnostica130. Il termine diagnostico di "disturbo esplosivo intermittente" è apparso nella letteratura clinica, per la prima volta, nei criteri diagnostici dell'ICD-9-CM (World Health Organization, 1978). In tale occasione, veniva classificata la violenza episodica come un disturbo separato dai disturbi di personalità. Il disturbo esplosivo intermittente è stato incluso successivamente nel DSM III e nel DSM III R. Questa categoria diagnostica è stata mantenuta malgrado forti perplessità circa l'esistenza di una sindrome clinica autonoma e non sintomatica d'altro disturbo mentale. Il disturbo esplosivo intermittente è stato mantenuto nel DSM IV, nonostante queste riserve. Il comportamento violento episodico, in realtà, per lo stesso DSM IV può essere classificato in due diverse categorie diagnostiche: 1. il disturbo esplosivo intermittente; 2. le modificazioni della personalità dovute ad una condizione medica generale di tipo aggressivo. Il disturbo esplosivo intermittente ha numerosi criteri d'esclusione. Le modificazioni della personalità dovute ad una condizione medica generale presuppongono una condizione medica generale e/o un danno organico specifico, patogeneticamente correlato alla violenza ed all'aggressività. La maggior parte dei soggetti con disturbi del comportamento violento-aggressivi non rispetta i criteri diagnostici per uno dei due disturbi citati, ma è affetta da altri quadri psicopatologici come schizofrenia, mania, abuso di sostanze, delirium, ritardo mentale o patologia mentale organica131.

I disturbi da abuso di sostanze

Sono innumerevoli i casi riportati non solo dalla letteratura scientifica, ma anche dalla cronaca di tutti i giorni sui mass media che evidenziano la stretta relazione tra abuso di alcool e/o di sostanze stupefacenti e condotte aggressive sia nel soggetto che agisce ma anche nella vittima.

In alcune fasi della malattia alcoolica, quando questa determina una alterazione del pensiero (delirio di gelosia) o di persecuzione o un'alterazione della percezione (voci minatorie, insultanti), l'atto aggressivo si giustifica come un tentativo di auto-difesa. Secondo alcuni autori possono essere identificabili due modelli situazionali nelle condotte criminose degli etilisti: il primo modello indica l’assunzione di alcool come fattore determinante l'atteggiamento violento, mentre nel secondo assume un ruolo essenziale la personalità già alterata.

Come nell'abuso e nella dipendenza alcoolica così nell'abuso di altre sostanze possono manifestarsi comportamenti violenti ed in particolare con "stimolanti" quali la cocaina, gli allucinogeni e più recentemente il crack e l'ecstasy. Se d'altra parte in ogni comportamento tossicomanico esiste un aspetto aggressivo, ancora una volta dobbiamo ricordare come la condotta tossicofilica sia interpretata da

129 Mark V, Ervin F. Violence and the brain. New York, Harper & Row., 1970

130 Elliott FA. Neurology of aggression and episodic dyscontrol. Semin. Neurol., 1990; 10, 303-311

131 Tardiff K. The current state of psychiatry in the treatment of violent patients. Arch. Gen. Psychiatry, 1992; 49, 493-499

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alcuni studiosi come un "microsuicidio", proponendo nuovamente la stretta relazione tra auto ed eteroaggressività.

L’abuso di sostanze rappresenta di gran lunga il fattore più strettamente correlato alla violenza tra tutti i disturbi psichiatrici. In più, l’abuso di sostanze si accompagna a numerose condizioni di comorbidità, in particolare i disturbi di personalità del cluster B (antisociale in primo luogo), i disturbi depressivi e i disturbi dello spettro schizofrenico. Tutti questi disturbi compromettono invariabilmente sia il controllo degli impulsi, sia la regolazione emotiva, sebbene a diversi livelli e in modi differenti: ognuna di queste condizioni può aumentare in modo esponenziale il rischio di violenza, attraverso effetti additivi o interattivi.

Disturbi d’ansia

In tutti i Disturbi d'Ansia possono presentarsi condotte aggressive. Una modalità infatti di risposta del soggetto di fronte ad un pericolo (paura) è quella di opporsi ad esso con una risposta aggressiva, anche se tuttavia possiamo avere sia una risposta con atteggiamenti di fuga oppure di "blocco psicomotorio". D'altra parte la paura e l'aggressività possono riconoscere a livello fisiologico alcuni aspetti comuni quali l'aumento dell'attività del sistema nervoso vegetativo preparatorio nei compoirtamenti di attacco o di fuga. A livello neurochimico sembrano essere implicati nella relazione panico ed aggressività vari sistemi neurotrasmettitoriali con una particolare evidenza del sistema serotoninergico.

Disturbo del controllo degli impulsi e della condotta

L'Organizzazione Mondiale della Sanità, nella eleborazione della decima revisione della classificazione dei disturbi psichici e comportamentali (ICD-10, 1992), dedica ampio spazio ai Disturbi delle Abitudini e degli Impulsi. I soggetti affetti dalla patologia in questione compiono ripetutamente atti che: "danneggiano gli interessi personali del soggetto e quelli di altre persone" con modalità impulsive e con impossibilità di autocontrollo. Tali Disturbi comprendono quadri quali la Cleptomania, il Gioco d'Azzardo, la Piromania, la Tricotillomania. Il DSM-IV-TR raggruppa, assieme a questi sopracitati, il Disturbo Esplosivo Intermittente; in questo disturbo i comportamenti aggressivi rivestono una importanza primaria. L'aggressività può essere diretta sia verso le persone sia verso gli oggetti ed in seguito a questi atti non controllati, il soggetto vive spesso un sentimento di colpa per non essere stato capace di dominarsi; l'impulsività determina quindi difficoltà relazionali che si evidenziano nelle frequenti sospensioni dalla scuola, nella perdita del posto di lavoro, nel divorzio, e nell'elevato rischio di incidenti e di carcerazioni. L'impulso aggressivo è descritto come un "improvviso attacco" che non supera solitamente alcune ore di durata anche se tra un attacco ed un altro può essere presente una tendenza alla impulsività. Questo tipo di disturbo può essere diagnosticato solo quando sono state escluse altre patologie quali i Disturbi di personalità Antisociale e Borderline, oppure il Disturbo della Condotta o il Deficit dell'attenzione o altri Disturbi Psicotici dove può essere presente, anche in questi casi, un non controllo degli impulsi. D'altra parte a livello nosografico-diagnostico la separazione del Disturbo del controllo degli impulsi dal disturbo esplosivo di personalità è stata introdotta nel 1980 con la stesura del DSM-IV-TR; il disturbo presenta una familiarità, l'esordio è nella tarda adolescenza e tende a protrarsi fino alla terza decade di vita. L'etiologia è incerta, tuttavia tra le ipotesi biologiche attualmente più consolidate particolare importanza rivestono: quella relativa ad alterazioni del sistema limbico e delle vie serotoninergiche132 e l'ipotesi che prevede lesioni organiche cerebrali e squilibri ormonali (aumento androgeni).

132 J.H. Pincus e J.G. Tucker, Behavioral nuerology, 1978.

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Vengono riconosciute forme a etiopatogenesi psicologica e mista133. Le ipotesi psicodinamiche riconoscono diverse posizioni: Alexander134 (1930) ad esempio, parla di gratificazione che deriva dal comportamento impulsivo stesso in quanto l'IO non riuscirebbe a respingere impulsi inconsci; Fenichel135 (1945) parla di una fissazione alla fase orale concomitante ad altri fattori costituzionali ed esperienze traumatiche precoci. L'ipotesi comportamentale vede nell’impulsività una modalità reattiva appresa, una risposta alla frustrazione ed alla punizione che non passa attraverso una fase di riflessione. L'ipotesi cognitiva è basata sulla incapacità da parte del bambino a mantenere l'attenzione per difficoltà nell'operare una discriminazione percettiva, incapacità inoltre ad inibire una risposta impulsiva e nel mantenere una serie di incombenze136.

A livello clinico-descrittivo Kretschmer137 (1950) distingueva tre tipi di comportamento impulsivo: 1) iperormia (reazioni impulsive particolarmente intense e rapide), 2) anormia (reazioni deboli e rallentate), 3) disormia (reazioni sproporzionate); suddivideva inoltre le azioni impulsive in: esplosive (che insorgono rapidamente e rapidamente si estinguono) ed a corto circuito quando l'azione non viene minimamente ponderata. Per Frosh138 (1977) i Disturbi degli impulsi possono essere suddivisi in: sintomatici e del carattere.

I disturbi di personalità

Il termine "personalità" deriva da "persona" che nella lingua latina significa "maschera", e si riferisce a quella indossata dagli attori durante una rappresentazione scenica. In realtà mentre la "maschera" individua un certo personaggio, con caratteristiche sempre uguali, con "personalità" vogliamo genericamente indicare un insieme di qualità intrinseche al soggetto che si integrano con elementi esterni, la risultante cioè del rapporto che si viene a stabilire fra l'azione del mondo esterno e la reazione del soggetto a tale influenza. Il termine è stato comunque spesso impiegato con vari significati: ora sinonimo di "carattere" ora di "temperamento".

Attualmente non esiste una definizione "univoca" di personalità, limite questo, che ha coinvolto la stesso concetto di "disturbo".

I tratti di personalità possono definirsi infine come: "modi costanti di percepire, rapportarsi e pensare nei confronti dell'ambiente e di se stessi, che si manifestano in un ampio spettro di contesti sociali e personali importanti". Quando i tratti di personalità così definiti diventano "rigidi e non adattivi" con una compromissione del funzionamento sociale e/o lavorativo o con una sofferenza soggettiva, costituiscono i Disturbi di Personalità. L'approccio al disturbo di personalità ha risentito quindi, ora del prevalere degli aspetti dimensionali ora di quelli categoriali; la Psichiatria Americana ha valorizzato essenzialmente l'aspetto descrittivo, adottando per altro nei termini generali la descrizione utilizzata dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): "I disturbi di personalità comprendono modalità di comportamento profondamente radicate e durature che si manifestano come risposta costante ad una vasta gamma di situazioni personali

133 G. Bach-y-Rita e al., Episodic dyscontrol, Am. J. Psychiat., 127, 1473-8, 1971.

134 F. Alexander, The neurotic character. International Journal of Psychoanalysis, 11, 292-311, 1930.

135 O. Fenichel, Trattato di psicanalisi delle nevrosi e delle psicosi, 1970.

136 K.H. Neuchterlein e R.F. asarnow, Contribution of psychological sciences, in: Kaplan & Sadock (Eds.), Comprehensive Textbook of

Psychiatry, 1989.137

E. Kretschmer, Manuale teorico-pratico di psicologia medica, 1952.138

J. Frosh, The relation between acting out and disorders of impulse control, Psychiatry, 40, 295-315, 1977.

40

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e sociali. Esse rappresentano deviazioni estreme o significative dal modo in cui l'individuo medio in una data cultura, percepsice, pensa, sente e, in modo particolare, si pone in relazione con gli altri. Queste modalità comportamentali sono frequentemente, ma non sempre, associate con vari livelli di sofferenza soggettiva e con problemi nel funzionamento e nelle prestazioni sociali".

La caratterizzazione clinica, d'altra parte, deve essere considerata puramente descrittiva e non implica una costruzione teorica particolarmente "rigida", e come evidenziano Frances e Widiger139 (1987), il modello clinico del Disturbo di Personalità altro non è che la descrizione di tipi ideali che rappresentano l'accentuazione di particolari tipi di personalità.

Riguardo alla relazione tra comportamenti aggressivi e violenti e Disturbi di Personalità dobbiamo evidenziare come alcuni di essi presentino una relazione più stretta e costante. E' il caso ad esempio del Disturbo Antisociale di Personalità che con alta frequenza è associato a condotte eteroaggressive e del Disturbo Borderline per le caratteristiche d’instabilità e di facilità di passaggio all'atto.

Inoltre, la coesistenza di un DP con altre patologie psichiatriche accresce la probabilità di comportamenti violenti140.

TAB. XIII Caratteristiche dei Disturbi di Personalità

Paranoide: caratterizzata da sospettosità abnorme, ipersensibilità, invidia e rigidità, intolleranza, eccessiva autoconsiderazione e tendenza a pensare che gli altri siano nemici.

Schizoide: caratterizzata da abnorme chiusura dell'individuo ripetto al mondo circostante, tendenza a sognare ad occhi aperti, eccentricità, diffidenza ed ipersensibilità.

Schizotipico: strane convizioni che somigliano a bizzarrie schizofreniche, pensiero autistico,

Ossessivo-compulsivo: rigidità, pedanteria, scrupolosità, sentimenti di dubbio, preoccupazioni per regole e dettagli, perfezionismo abnorme che interferisce nello svolgimento delle azioni

Istrionico: drammatizzazione, suggestionabilità, labilità affettiva, comportamento seduttivo, tendenza ad essere al centro dell'attenzione, autocompiacimento

Da Evitamento: persistente apprensione, preoccupazione di non essere all'altezza delle situazioni, eccessivo bisogno di sicurezza, evitamento di

139 A. Frances e T. Widiger, Methodological issues in personality disoder diagnosis, in: Millon & Klerman (Eds.), Contemporary

Directions in Psychopathology, 1986.140

P. Moran e al., Impact of comorbid personality disorderomorbid personality disorder on violence in psychosison violence in psychosis. Report from the UK70 0 trialReport from the UK70 0 trial, Br. J. Psychiat., 182, 129-134, 2003

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situazioni e contatti sociali per paura di critiche e disapprovazioni

Antisociale: stile di vita non conforme alle norme sociali, non rispetto delle leggi, impulsività, aggressività, irritabilità, irresponsabilità.

Borderline: instabilità affettivo-emotiva con marcata impulsività: "stabili nella loro instabilità". Incapaci a progettarsi nel presente e nel futuro, con aspetti ora di abulia, astenia ora di esplosività.

Dipendente: il soggetto presenta un eccessivo bisogno di essere protetto e mostra abnorme paura di essere abbandonato. Mostra difficoltà nel prendere decisioni e necessita della costante rassicurazione degli altri.

Narcisistico: persistente atteggiamento di grandiosità, necessità di ammirazione. E' presente arroganza; mancanza di empatia.

Disturbo Antisociale di Personalità

I soggetti affetti da questo disturbo presentano spesso un comportamento che si caratterizza per frequenti atti di aggressività e d’intolleranza alle norme sociali prevalenti. Queste persone hanno una scarsa capacità a mantenere delle relazioni stabili e sintoniche, spesso sono insensibili ai sentimenti degli altri, intolleranti alle frustrazioni alle quali reagiscono con violenza; mostrano raramente sentimenti di colpa, mentre tendono ad accusare gli altri anche dei propri errori.

Disturbo Borderline di Personalità

Nel Disturbo Borderline di Personalità, che abbiamo già visto a proposito delle condotte suicidarie, è presente una spiccata impulsività, con comportamenti violenti. Questi comportamenti possono essere compresi solo quando siano considerati i numerosi ed eterogenei fattori etiologici e facilitanti che interagiscono nel loro determinismo. Come per le condotte autolesive così per gli atti di violenza la ricerca più recente enfatizza il ruolo del discontrollo degli impulsi; questo si evince nel constatare come mentre la descrizione del disturbo nel DSM III-R parlava di: "una modalità pervasiva di instabilità dell'umore, delle relazioni interpersonali, dell'immagine di sé", il DSM IV evidenzia la "marcata impulsività". Spesso, tuttavia, questi atteggiamenti vengono scatenati dall'abuso di sostanze stupefacenti o di alcoolici, tale abuso contribuisce ad acuire l'intolleranza alle frustrazioni tipica di questi soggetti. Instabili emotivamente, i "borderline" esperimentano sentimenti di solitudine e vuoto che, se da una parte possono arrivare a spingerli a condotte autoaggressive, dall'altra alimentano comportamenti violenti contro gli altri, ritenuti responsabili della propria drammatica situazione esistenziale.

Gli studi longitudinali tendono a indicare che i disturbi di personalità rappresentano un fattore clinico di rischio rilevante per la violenza, anche se i risultati sono a volte eterogenei. L’interpretazione dei dati disponibili, in

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particolare di disturbo borderline, è complicata da vari problemi. Il principale è senz’altro il fatto che la presenza della rabbia sia uno dei criteri diagnostici del disturbo borderline; pertanto, il processo d’identificazione dei soggetti borderline e la valutazione del comportamento violento non sono fattori indipendenti. Ciò indica una relazione tautologica e circolare tra diagnosi e comportamento che si vuole studiare, in questo caso la violenza, fatto che impedisce un reale approfondimento dei fattori psicologici implicati a causa della preselezione categoriale dei soggetti. Questo problema, comune alla maggioranza dei disturbi di personalità diagnosticati su base categoriale, è ancora più rilevante nel caso del disturbo antisociale di personalità141.

Un fattore particolare può collegare i disturbi di personalità e la violenza: il narcisismo o l’egoismo minacciato. Gli studi socio-psicologici hanno identificato nell’egoismo minacciato una dimensione della personalità importante, distribuita normalmente, che è predittiva dell’aggressività.

La ferita narcisistica può giocare un ruolo particolarmente significativo nella violenza delle persone definite “psicopatiche”. Sebbene non rientri nelle categorie del DSM, la psicopatia rappresenta una forma virulenta di disturbo antisociale di personalità che è inspiegabilmente praticamente priva di sensibilità emotiva. Gli psicopatici hanno un senso di sé e della propria importanza esagerati, un egocentrismo ed un senso che gli sia tutto dovuto assolutamente straordinari e si vedono al centro dell’universo, come esseri superiori142.

Disturbi dello spettro schizofrenico

Comportamenti violenti, aggressivi o autodistruttivi in pazienti schizofrenici sono per lo più espressione di una reazione ad allucinazioni uditive o visive, a deliri di nocumento, di minaccia e di persecuzione dove il soggetto aggredito rappresenta il persecutore dal quale difendersi. Il paziente affetto da schizofrenia paranoide, in particolare, può vivere il delirio con grande partecipazione affettiva. La presenza di sintomi negativi, invece, riduce il rischio di violenza.

Nel relazionarsi con questo tipo di paziente é sempre necessario non contrapporsi ostinatamente alla sua realtà, ma cercare di comprenderlo, di dargli soluzioni che non lo facciano sentire umiliato e non creduto. In alcune circostanze è utile che il paziente si senta libero, non "costretto" da ambienti chiusi, che abbia possibilità di scegliere tra diverse soluzioni consigliate dal medico: talvolta in una situazione di crisi, l'atto violento deriva anche dalla sensazione del soggetto di non avere vie di scampo; in questo caso far capire al paziente di avere delle alternative, delle possibilità di scelta, può essere rassicurante, consentendo inoltre l'instaurarsi di un rapporto di fiducia con il medico. Spesso il paziente schizofrenico agisce sotto l'effetto di alcoolici o di sostanze stupefacenti, che peggiorano la capacità di entrare in contatto con gli altri. Le stesse condizioni psico-fisiche tuttavia possono portare il soggetto schizofrenico ad aggredire e/o a suicidarsi. E' il caso di pazienti che non sopportando la sensazione di acatisia indotta dai neurolettici, o che prendendo parzialmente coscienza della patologia dalla quale sono affetti, commettono l'omicidio o il suicidio.

Attualmente è generalmente accettato che gli schizofrenici, pur a causa dell’attività di un piccolo sottogruppo, hanno una maggiore probabilità di essere violenti in confronto alla popolazione generale143, ma la proporzione di violenza sociale attribuibile loro è piccola.

141 M. Amore, cit., 1999.

142 R.D. Hare, Without conscience, Simon & Schuster, 1993.

143 J.W. Swanson e al., A National Study of Violent Behavior in Persons With Schizophrenia, Arch. Gen. Psychiatry, 63, 490-499, 2006.

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È stato stimato che circa il 20% degli schizofrenici abbiano commesso atti pericolosi per la vita altrui prima del primo ricovero. La relativamente alta frequenza di comportamenti aggressivi durante il ricovero può essere più una risposta alle condizioni ambientali del reparto che allo stato mentale della persona. La frequenza di comportamenti violenti dopo le dimissioni è inferiore a quella dei pazienti con altre diagnosi.

Gli schizofrenici seguiti per molti anni hanno dimostrato di commettere crimini violenti da due a sette volte più frequentemente della popolazione generale144.

Ci sono dati che indicano l’importanza di variabili correlate allo stile cognitivo paranoide di personalità nel rischio di violenza in questi disturbi. Lo stile cognitivo della personalità riflette una tendenza caratteristica a comportarsi, sentire, pensare e percepire – in altre parole, è un pregiudizio nella visione del mondo. Dal punto di vista psicopatologico può manifestarsi in un continuum che va da pregiudizi che considerano il mondo come ostile e minaccioso a deliri di controllo da parte degli extraterrestri.

Nei deliri paranoidi gli atti di violenza sono spesso spinti da motivazioni di auto-difesa psicotica.

Caratteristiche della violenza nei sottotipi della schizofrenia

Paranoide violenza ben pianificata ed in linea con il delirio

importanza dell’elemento interpersonale

maggior frequenza al di fuori del ricovero

Non paranoide violenza meno pianificata e meno focalizzata

maggior frequenza durante il ricovero

Due fattori sembrano discriminare tra gli schizofrenici a maggior rischio di violenza: la contemporanea presenza dell’abuso di sostanze145 e la fase psicotica acuta. Sembra che l’abuso di sostanze sia un additivo, mentre tra i sintomi sembra essere importante il delirio146.

Un dato è che è cinque volte più probabile che i maschi schizofrenici siano condannati per gravi violenze rispetto alla popolazione generale. Inoltre il 99,7% degli schizofrenici non saranno condannati per gravi violenze in un anno e la probabilità che un dato paziente commetta un omicidio è piccolissima (rischio annuale di 1:3000 per gli uomini e di 1:33000 per le donne)147.

Psicosi croniche

Determinano di solito un effetto disorganizzante sul comportamento, il pensiero e le percezioni. Un cedimento nella regolazione delle emozioni negative – come rabbia, ostilità ed irritabilità –, associato alla perdita del controllo degli

144 E. Walsh e al., Violence and schizophrenia: examining the evidence, Br. J. Psychiat., 180, 490-5, 2001.

145 Fazel S, Gulati G, Linsell L, Geddes JR, Grann M (2009) Schizophrenia and Violence: Systematic Review and Meta-Analysis. PLoS

Med 6(8)146

P.J. Taylor, Motives for offending among violent and psychotic men, Br. J. Psychiat., 147, 491-8, 1985. Questa affermazione è stata recentemente contestata dal riscontro che nessun delirio è associato in modo particolare con la violenza (P.S. Appelbaum e al., Violence and delusions, Am. J. Psychiat., 157, 566-72, 2000).147

C. Wallace e al., Serious criminal offending and mental disorder, Br. J. Psychiat., 172, 477-84, 1998.

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impulsi, può portare a comportamenti reattivi di aggressione e violenza. Le vittime sono spesso membri della famiglia o del gruppo di trattamento.

Disturbi affettivi

I comportamenti aggressivi possono essere presenti sia nella malattia depressiva, sia nella fase di eccitamento maniacale. Nel maniacale i comportamenti violenti nascono soprattutto dalla sensazione di onnipotenza, sicurezza di sé, dal non riconoscere né accettare limiti alla propria spavalderia, gioia, esuberanza; ma il maniacale è anche spesso disforico ed impulsivo e non riesce a fermarsi ed a mettersi in relazione con gli altri. La vivacità della fantasia, l'accelerazione ideica, riducono la capacità di critica e di riflessione, le azioni sono così avventate, precipitose ed impulsive.

Nella mania la violenza tende a verificarsi nel contesto di una marcata irritabilità ed agitazione; ma, a dispetto della frequenza di questi sintomi nei disturbi affettivi, i gravi episodi di violenza in questo disturbo sono rari. Gli studi che riportano un’alta percentuale di comportamento aggressivo o minaccioso nei pazienti maniacali, in realtà non differenziano le minacce dalle aggressioni reali148.

Traumatic experiences in childhood have been linked to the potential for violence in adults and to vulnerability to adult psychiatric disorders.149 Bipolar disorder has been linked to both traumatic childhood experience and to the poten-tial for violence.

Studies have found that a high proportion (around 50%) of patients with bipolar

disorder endorse histories of childhood trauma, with a high incidence of emotional

abuse. A history of trauma in bipolar disorder has also been associated with a worse

clinical course—including earlier onset of bipolar disorder, faster cycling, and

increased rates of suicide. Trauma history has further been associated with more

comorbidity in bipolar disorder, including anxiety disorders, personality disorders, and

substance use disorders. Here are several pathways by which childhood trauma could

lead to the development of bipolar disorder150:

• Affective disturbances in relationships between parents and their children

directly predispose the children to affective disturbances in adulthood

• Children in whom bipolar disorder later develops are prone to more

behavioral disturbances in childhood (a prodrome or early onset of bipolar

disorder), which could disrupt relationships with parents and lead to

dysfunctional parenting• Children of affectively ill parents could be affected by genetic transmission of

affective illness predisposition as well as by parental psychopathology, which increases the likelihood of childhood trauma.

148 M. Amore, cit., 1999.

149 A.M.R. Lee e I.I. Galynker, Violence in Bipolar Disorder. What Role Does Childhood Trauma Play?, Psychiatric Times, 27, 11, 2010

150 Etain B, Henry C, Bellivier F, et al. Beyond genetics: childhood affective trauma in bipolar disorder. Bipolar Disord. 2008;10:867-

876.

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Childhood trauma history has been found to correlate with increased aggression in adults with and without affective disorders.151 In addition, there is an overlap between the neurochemical changes found in adults with histories of traumatic stress and those in adults with increased impulsive aggression, in particular, increased functioning of both the catecholamine system and the hypo-thalamic-pituitary-adrenal axis.152

Studies have found that just under 50% of people with bipolar disorder have some

history of violent behavior.153 Bipolar patients are prone to agitation that may result in

impulsive aggression during manic and mixed episodes. However, depressed states,

which can involve intense dysphoria with agitation and irritability, may also carry a risk

of violent behavior.154 Even during euthymia, bipolar patients—especially those with

comorbid features of borderline personality disorder—may have chronic impulsivity

that predisposes them to aggression.155

Impulsive aggression (as opposed to premeditated aggression) is most commonly associated with bipolar and other affective disorders. In animal models, premeditated aggression corresponds to predatory behavior, while impulsive aggression is a response to perceived threat (the fight in fight-or-flight). As either a state or trait, increased impulsive aggression is driven by an increase in the strength of aggressive impulses or a decrease in the ability to control these impulses. Neurochemically, impulsive aggression has been associated with low serotonin levels, high catecholamine levels, and a predominance of glutamatergic activity relative to g-aminobutyric acid (GABA)ergic activity.156

Ritardo mentale

Il DSM distingue quattro gradi di gravità clinica: Lieve (QI 50-70), Moderata (QI 35/40-50/55), Severa (QI 20/25-35/40), Profonda (QI sotto 20-25); in tutte le gradazioni del ritardo mentale è presente una deficienza del controllo degli impulsi ed una labilità emotiva, caratteristiche queste che si accompagnano spesso ad atti auto-lesivi ed etero-aggressivi. Il soggetto affetto da ritardo mentale presenta una bassa soglia alle frustrazioni e, d'altra parte, è esposto in particolar modo alle difficoltà e delusioni che gli provengono dal mondo esterno. Spesso l'unica modalità con la quale queste persone riescono a dimostrare la propria protesta è quella di compiere atti aggressivi sproporzionati, che agli occhi degli altri risultano il più delle volte inspiegabili. Il vissuto di frustrazione può portare ad una tonalità d'umore di fondo caratterizzata da irritabilità ed oppositività, che rende il soggetto non collaborante e reattivo ai tentativi di educazione e di socializzazione.

151 Widom CS. Child abuse, neglect, and violent criminal behavior. Criminology. 1989;27:251-271; Pollock VE, Briere J, Schneider L, et

al. Childhood antecedents of antisocial behavior: parental alcoholism and physical abusiveness. Am J Psychiatry. 1990;147:1290-1293; Brodsky BS, Oquendo M, Ellis SP, et al. The relationship of childhood abuse to impulsivity and suicidal behavior in adults with major depression. Am J Psychiatry. 2001;158:1871-1877.152

De Bellis MD, Baum AS, Birmaher B, et al. A.E. Bennett Research Award. Developmental traumatology. Part I: Biological stress systems. Biol Psychiatry. 1999;45:1259-1270.153

Goodwin FK, Jamison KR. Manic-Depressive Illness. New York: Oxford University Press; 1990.154

Maj M, Pirozzi R, Magliano L, Bartoli L. Agitated depression in bipolar I disorder: prevalence, phenomenology, and outcome. Am J Psychiatry. 2003;160:2134-2140.155

Garno JL, Gunawardane N, Goldberg JF. Predictors of trait aggression in bipolar disorder. Bipolar Disord. 2008;10:285-292.156

Swann AC. Neuroreceptor mechanisms of aggression and its treatment. J Clin Psychiatry. 2003;64(suppl 4):26-35

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Epilessia

La relazione tra Epilessia e Psicopatologia è oggetto di studio da molti anni, e sia ricercatori che clinici hanno cercato di spiegare come una o più scariche epilettogene determinino eterogenei disturbi e come questi possano essere causati dalla influenza della scarica su strutture anatomiche sia contigue che lontane. Le reazioni violente sono, tra le manifestazioni psicopatologiche, quelle più frequentemente descritte in letteratura a questo proposito; d'altra parte già Delasiauvè nel 1854 prevedeva comportamenti violenti nel corso di automatismi epilettici e, nel suo trattato sull'Epilessia, dedicava un ampio spazio alle responsabilità legali dei pazienti affetti da questa malattia. Le condotte aggressive sarebbero caratterizzate da impulsività, irritabilità fino a rabbia distruttiva solitamente seguite da completa amnesia. Dobbiamo ricordare che l'aggressività esplosiva e la instabilità dell'umore, la disforia e l'irritabilità, quando non temporalmente collegate con la crisi sono state considerate espressione della "personalità epilettica" e che d'altra parte, più recentemente, i comportamenti aggressivi nei periodi intercritici sono da alcuni autori considerati veri e propri sintomi dell'epilessia temporale.

Le ipotesi etiopatogenetiche chiamate in causa di volta in volta, sono state ora il danno organico sottostante al focolaio epilettogeno, ora il coinvolgimento delle strutture amigdalo-ipotalamiche da parte della scarica epilettogena; ora alcune motivazioni psicologiche quali l'elevato livello di frustrazione che il soggetto affetto da epilessia cronicamente presenta.

La prevalenza di episodi aggressivi nei pazienti affetti da epilessia del lobo temporale varia molto a seconda della popolazione presa in esame e certamente aumenta se prendiamo in considerazione la popolazione ricoverata, dove spesso ritroviamo i casi più gravi.

Disendocrinie

Il fattore endocrino può essere chiamato in causa in condizioni particolari. Un esempio è la sindrome premestruale (caratterizzata da una marcata labilità emotiva, irritabilità, ansia, tensione, perdita di interessi e di energia, cefalea, dolori muscolari ed aumento di peso; in questo periodo sono stati descritti più numerosi gli atti di violenza delle donne. Altro fattore che può essere chiamato in causa è uno stato ipoglicemico: l'ipoglicemia può causare irritabilità, confusione, aggressività, fino a quadri amnesici o convulsivi. Ipoglicemia intermittente è stata osservata in soggetti con insulinomi pancreatici che, prima di avere la diagnosi definitiva, hanno presentato gravi alterazioni comportamentali.

Demenza

Nella demenza sono presenti alterazioni del pensiero astratto, del giudizio critico, delle funzioni corticali superiori ed in particolare della sfera della memoria. In questa costellazione sintomatologica i disturbi del comportamento rivestono un aspetto importante e frequenti sono gli episodi di irritabilità, aggressività e perdita di controllo.

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7. DALLA PREVISIONE ALLA VALUTAZIONE DEL RISCHIO

Nell'uomo il comportamento aggressivo non può essere considerato sempre come l'immediata conseguenza di un impulso, come avviene nell'animale, ma è spesso il risultato di un'interazione tra elementi temperamentali, fattori morali e sociali. Distinguere pertanto le condotte aggressive in auto ed etero dirette, cioè solo sulla base della loro direzionalità, è estremamente riduttivo. Tuttavia tale distinzione è importante soprattutto per quanto concerne una valutazione generica, che pur non tenendo conto delle motivazioni psicologiche che stanno alla base del comportamento, possa fornire un’indicazione di predittività. In particolare possiamo dire che un soggetto è prevalentemente autoaggressivo oppure eteroaggressivo, sulla base del comportamento mostrato in precedenza.

È oggetto di controversia scientifica quanto possano scattare meccanismi d’imitazione assistendo ad atti di violenza, nella realtà e nella finzione.

L'influsso della trasmissione di comportamenti violenti eteroaggressivi è stato oggetto di studi di psicologia sperimentale157). L'ipotesi era che l'esposizione alla proiezione di scene di violenza, filmate, potesse determinare un aumento significativo di tali comportamenti. Nei primi studi di Bandura (1963) ad alcuni bambini venivano proposti brevi filmati nei quali dei modelli adulti in modo alquanto inusuale secondo una certa sequenza, aggredivano un pupazzo, truccato come un clown. I bambini poi venivano lasciati giocare liberamente in una stanza con molti diversi giocattoli; venivano presto ripetuti i comportamenti osservati, con l'impiego degli stessi oggetti e degli stessi bersagli, ricalcando quindi le sequenze della scena filmica. Queste osservazioni hanno dimostrato il forte rilievo dei meccanismi d’imitazione.

Gli studi di Bandura si trovarono al centro di una controversia dai toni accesi perché si ritenne dimostrato il ruolo dei mass media nell'amplificare il livello di violenza nella società. L'utilizzazione in sedi diverse dal dibattito scientifico indusse Bandura a circoscrivere il rilievo delle sue osservazioni, sostenendo che non era provato che i bambini avrebbero attualizzato nella realtà i comportamento osservati.

In ricerche successive si prolungò l'osservazione non limitandola alle condizioni sperimentali. Si giunse alle stesse conclusioni: quanti visionavano scene di violenza con maggiore facilità si lasciavano andare essi stessi a tali condotte.

I primi studi sulla valutazione delle persone riguardo al rischio di comportamenti violenti si riferivano alla “predizione della pericolosità” o alla “predizione della violenza” e la esaminavano quasi esclusivamente in base alla persona quale fattore determinante della violenza potenziale. Gli studi di “prima generazione” sulla predizione della violenza suggerivano che la capacità degli operatori psichiatrici di prevedere i comportamenti violenti era molto limitata158. Questa affermazione è stata criticata per diverse ragioni159 e gli studi successivi hanno cercato di esaminare il problema su un piano più clinico (in particolare previsioni a breve termine – studi di “seconda generazione”): la valutazione del rischio a una settimana sembra essere accettabile, mentre sul lungo termine diventa sempre più inattendibile. Gli studi, inoltre, sono viziati dalle popolazioni particolari su cui sono stati condotti e dalla non omogenea definizione di violenza, per cui i dati sono difficilmente generalizzabili160. Pertanto, l’attenzione si è rivolta maggiormente sulle interazioni individuo-ambiente come condizioni dinamiche di rischio. Questo è ciò che si chiama “valutazione del rischio”. Questa dovrebbe fornire descrizioni

157 A. Bandura, Aggression: a social learning analysis, 1973.

158 J. Monahan, The clinical prediction of violent behavior, NIMH, 1981; J. Monahan, The prediction of violent behavior: toward a

second generation of theory and policy, Am. J. Psychiat., 141, 10-15, 1984; C.W. Lidz e al., The accuracy of predictions of violence to others, JAMA, 269, 1007-1011, 1998.159

T.R. Litwack e L. Schlesinger, Assessing and predicting violence, in: Weinre I. e Hess A., eds., Handbook of forensic psychology, Wiley, 1987, pp. 205-257.160

L.E. Ferris e al., Risk Assessments for Acute Violence Third Parties: A Review of the Literature , Can J. Psychiat., 42, 1051-60, 1997.

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clinico/comportamentali e un’analisi dei correlati comportamentali del recidivismo della violenza, dando origine a una valutazione di probabilità del rischio. Il rischio deve essere visto come un costrutto dinamico, continuo e legato al contesto. L’approccio attuale alla valutazione del rischio suddivide il costrutto “pericolosità” nei suoi componenti, che vanno posti in un continuum:

Fattori di rischio: variabili utilizzate per prevedere l’aggressione Minaccia: intensità e tipo dell’aggressione prevista Livello di rischio: probabilità della minaccia

Per sviluppare un sistema di valutazione del rischio utile in psichiatria, si ritiene conveniente passare dal cercare di prevedere il rischio alla valutazione, gestione e riduzione del rischio, è necessario integrare gli approcci attuariali e clinici, comunicare il rischio e coinvolgere il paziente nel processo di valutazione.161

Quando un clinico inizia a preoccuparsi del potenziale di violenza futura di un paziente, l’obiettivo è prima di tutto su come “gestire” il rischio, piuttosto che sul fare una previsione esatta.162 Le conclusioni degli studi di “seconda generazione”, pur essendo più ottimistiche, portano alla conclusione che, nel migliore dei casi, gli operatori psichiatrici faranno molte previsioni errate, principalmente sotto forma di falsi positivi163, che le previsioni a breve termine non sembrano essere più accurate di quelle a lungo termine e che il comportamento passato è uno dei predittori migliori164.

Le ricerche indicano che i clinici tendono a sovrastimare il rischio di violenza quando le loro previsioni si basano solo su un giudizio clinico non strutturato. Si è cercato di sviluppare diversi strumenti per la previsione e la valutazione del rischio di violenza, allo scopo di migliorare l’attendibilità, e quindi la validità, delle previsioni165. Questi strumenti possono essere suddivisi in due categorie, non necessariamente escludentisi: 1) scale attuariali (quantitative), che si basano su dati statistici166; 2) scale cliniche, che si basano su una valutazione strutturata dei casi singoli167. Tra gli strumenti per la valutazione e la previsione, da parte del personale infermieristico, del rischio a breve termine per pazienti degenti sono in uso la BVC168, la HCR-20169 e la SOAS-R170 (in inglese), le quali sembrano promettere una certa capacità di discriminazione tra pazienti violenti e non nell’arco delle prossime 24 ore171.

Quando un paziente minaccia azioni violente, il professionista si trova davanti a una decisione con potenziali conseguenze cliniche, etiche e legali. Prima di tutto, deve decider se il rischio di violenza è reale o se il paziente sta esprimendo solo delle fantasie o manifestando insofferenza. Le valutazioni di pericolosità dovrebbero essere considerate delle valutazioni del rischio e non delle previsioni. Dato che non è possibile prevedere con sicurezza o

161 S. Kumar e A.I.F. Simpson, Application of risk assessment for violence methods to general adult psychiatry: a selective literature

review, Aust. N. Z. J. Psychiat., 39:328–335, 2005.162

R. Borum e al., cit. 1996.163

R. Otto, The prediction of dangerous behavior: a review and anlysis of “second generation”research, Forensic Reports, 5, 103-133, 1992.164

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S. Kumar e A.I.F. Simpson, Application of risk assessment for violence methods to general adult psychiatry: a selective literature review, Aust. N. Z. J. Psychat., 39, 328-35, 2005.166

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H.L. Nijman e al., Fifteen years of research with the Staff Observation Aggression Scale: a review, Acta Psychiat. Scnad., 111, 12-21, 2005.171

J. Kennedy, Assessing Violence Risk in Psychiatric Inpatients: Useful Tools, Psychiatric Times. Vol. 24 No. 8 July 1, 2007

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quasi se una persona sarà o no violenta, la valutazione dovrebbe essere un tentativo di dare una descrizione clinica e comportamentale il più completa possibile della persona. Inoltre, la valutazione dovrebbe essere continua, non limitata a un solo momento.172

Prior history of violent behavior is the single best predictor of future violence. It is important for clinicians to fully characterize prior acts of violence so that they can examine the patient's history for patterns of violent behavior and current situational similarities. Who did what to whom? When, where and under what circumstance? Who was the victim and what was their relationship to the patient? Were there per-ceived precipitants? Was there a motive or provocation? Did the violence appear to be impulsive or spontaneous, or was it premeditated?

Prior history of violent behavior is the single best predictor of future violence. Demographic variables such as younger age and lower socioeconomic status may increase risk. Males in the general popula-tion do commit more violent offenses. However, among male and female psychiatric patients, the rates are similar. Mental status can influence the likelihood of violence. The strongest correlation has been the presence of active psychotic symptoms, especially command auditory hallucinations of a familiar voice or of influence and control.

Patients may be violent based on character as well as psychosis, and it is wise to identify traits such as sociopathy, narcissism, risk-taking, low frustration tolerance, inability to tolerate criticism and difficulty managing temper. In specifically considering potential for impulsive violence, it is important for clinicians to evaluate general impulsiveness.

The fundamental principle in this situation is to treat the potential violence as a clinical issue. Once the clinician has decided that violence is a real risk, then they should discuss this assessment with the pa-tient and treat the risk of violence as a serious problem for the two of them to work through together. In our experience, this approach usually leads to an agreement between the clinician and the patient on how to proceed--whether to warn the potential victim, modify the current treatment or hospitalize the pa-tient.

In ogni caso, il problema nella valutazione del rischio di violenza è lo stesso che si presenta nel valutare il rischio suicidario173. Salvo che il paziente non ammetta spontaneamente un’intenzione e un piano, è possibile determinare solamente quanto quella persona rientra in un gruppo a maggior rischio di comportamenti violenti rispetto alla popolazione generale. I fattori che possono determinare il momento e il luogo di un atto violento, come se e quando potranno verificarsi uno stress o una provocazione casuali, non sono noti né al clinico, né al paziente al momento del colloquio.

Le variabili identificate come utili alla previsione del comportamento violento in psichiatria sono i precedenti di violenza, l’abuso di sostanze, la psicopatia, l’instabilità delle relazioni, i problemi sul lavoro, alcuni sintomi di disturbi psichiatrici maggiori, i disturbi di personalità, l’impulsività, la mancanza di supporti sociali, la non aderenza ai trattamenti, lo stress e la rabbia174.

Scheda 2A. Fattori individuali/predisponenti associati a un aumento della violenza175

DemograficiSesso: i crimini violenti sono commessi nella maggior parte dei casi da uomini, ma tra

i pazienti con disturbi mentali questa prevalenza si attenua molto

172 B. Molbert e J.C. Beck, Assessing Violence in Patients: Legal Implications, Psychiat. Times, 20, 1, 2001.

173 R. Freedman e al., Psychiatrists, Mental Illness, and Violence, Am. J. Psychiat., 164, 1315-17, 2001.

174 E. Silver e al., Assessing violence risk among discharged psychiatric patients: toward an ecological approach, Law Human Behav.,

23, 237-255, 1999.175

R. Borum e al., cit., 1996; P.E. Mullen, Assessing risk of interpersonal violence in the mentally ill, Advances in Psychiatric Treatment (1997), vol. 3, pp. 166-173.

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età: in generale stretta associazione con la giovane età (picco tra i 15 e i 24 anni); gli psicopatici e chi abusa di sostanze tendono a conservare nel tempo la tendenza alla violenza; però l’associazione giovane età/maggiore probabilità di violenza si attenua tra i malati mentali

condizione socioeconomica: la violenza è più frequente ai bassi livelli, ma anche in questo caso l’associazione tende ad attenuarsi nei pazienti psichiatrici

stato civile: in generale avere una relazione stabile è un fattore prognostico favorevole, ma ciò non è altrettanto vero per i pazienti psichiatrici

CognitiviLivello d’intelligenza: il ruolo di QI basso o ritardo mentale è controverso;

probabilmente, si dovrebbe tener maggiormente conto delle ridotte capacità di gestione (coping skills) e della probabile tendenza a fraintendere le situazioni

Danno neurologico: anamnesi di trauma cranico o di altre alterazioni neurologiche è talvolta associata a un maggior rischio di aggressività

PersonalitàPsicopatia176: stretta associazione con la violenza e il comportamento criminale in

genereDisturbi di personalità: nella definizione di diversi di questi disturbi sono compresi i

comportamenti violenti. Tuttavia, il miglior fattore predittivo di comportamento in questi disturbi non è l’etichetta o il punteggio di una check-list, ma il comportamento passato.

Predisposizioni cognitive: tendenza a interpretare come provocatori o intenzionali i comportamenti altrui (distorsione di attribuzione ostile), fantasie violente, autovalutazioni errate, attese eccessive di successo o di risultato per mezzo della violenza

Predisposizioni affettive: la rabbia, la paura, la frustrazione, l’umiliazione e l’ostilità possono aumentare l’attivazione associata alla violenza (empatia, colpa, ansia o paura possono invece ridurre il rischio)

Controllo della rabbia: la rabbia può attivare molto l’aggressività; la difficoltà nel gestire la rabbia, in particolare nei temperamenti esplosivi, è associata al rischio maggiore

Impulsività: le persone molto impulsive tendono a rispondere in modo aggressivo senza riflettere e, spesso, senza rimorsi successivi

Scheda 2B. Fattori anamnestici associati a un aumentato rischio di violenza

Anamnesi socialeAmbiente familiare: l’aver subito abuso da bambino o l’essere stato testimone di

violenza a casa sono correlati con comportamenti abusivi da adulti; esperienze infantili che predispongono sono quelle che danno come modello la violenza, consentono la violenza o rinforzano o ricompensano la violenza; una storia di devianza familiare è correlata alla violenza, al contrario di un ambiente stabile

Instabilità lavorativa e residenzialeLivello di educazione basso

Anamnesi di crimini o violenzaPrecedenti di violenza o di comportamenti criminali probabilmente sono il miglior

fattore singolo di predizione di violenze future; il rischio aumenta a ogni episodioEtà del primo grave delitto: il rischio è maggiore se avviene il età giovanile

Scheda 2C. Fattori ambientali associati a un aumentato rischio di violenza

Stress percepito: fattori stressanti in ambiente familiare, amicale o di lavoro (frustrazioni, seccature o affronti possono essere fonte di stress interpersonale)

Sentirsi intrappolati in una situazione stressante

176 Psicopatia non è sinonimo di personalità antisociale. Essa comprende i seguenti tratti di personalità e comportamenti devianti:

fascino superficiale e volubile, egocentrismo, egoismo, mancanza di empatia, di sensi di colpa e di rimorsi, falsità e capacità di manipolazione, mancanza di attaccamento duraturo alle persone, di principi o di obiettivi, tendenza a violare le regole sociali.

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Supporto sociale limitato: mancanza di supporti sociali significativi; ambiente familiare caotico, in particolare se violento (il rischio è ridotto in ambienti familiari stabili e di appoggio)

Vittime disponibili: storia di aggressioni indiscriminate o verso una classe particolare di vittime (per es., violenza verso il coniuge)

Disponibilità di armi o di strumenti per la violenza: facilità all’accesso a mezzi potenzialmente letali; interesse particolare, addestramento, uso regolare o precedenti con armi

Disponibilità di alcol/sostanze: consumo e/o facile accessoSomiglianza ambientale alle violenze precedenti

Fattori importanti nella previsione del rischio di violenza in pazienti psichiatrici

Livello di rischio Direttamente collegato alla malattia Non o indirettamente collegato alla malattia

Alto Deliri di persecuzione con la paura di un’aggressione imminente Gelosia patologicaCoinvolgimento di persone care nel conflitto derivante dalle idee delirantiRiduzione dello stato di coscienza e confusioneStato di rabbia o di paura prolungato

Non- or indirectly illness-related History of previous violence History of threats Plans for, and fantasies of, attack Escalating conflict with specific

individuals Impulsivi ty Substance abuse

Moderato Passivity experiences reducing sense of self-controlLitigious, erotomanie, religious and mis-

identification disorders Command hallucinations

Lack of social support Youth Poor social coping Recent stress related to life events

(especially losses)

Fattori protettivi Responding to treatment Compliant with treatment Good insight Amotivational

Good social networks Valued home environment No interest in or knowledge of weapons

or the means of violence Fear of own potential for violence

Predictions of dangerousness to be ethical should be: Based on reasonable empirical evidence, e.g. that patients who are currently deluded, abusing alcohol and making threats are at risk of acting on those threats Expressed in terms of probabilities which make clear the inevitabily partial and tentative nature of any such prediction Based on the relevant characteristics of the individual patient who has been personally examined, and the information confirmed, wherever possible by independent informants Formulated to take account of the implications for the patient of the prediction (it is one thing to base a therapeutic decision on such a prediction, quite another to issue reports which affect adversely the patient's interests in court appearance) Motivated primarily by the intention to provide the patient with the best available treatment and care (which may involve some degree of containment as it is to the patient's advantage, as well as that of the potential victims, to be prevented from hurting others)

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8. Diagnosi differenziale di agitazione e aggressività177

Nello stabilire un programma di cura ovviamente la diagnosi deve precedere il trattamento. L’anamnesi del contesto biopsicosociale in cui si sono sviluppati sintomi è fondamentale. L’agitazione è trasversale tra diverse categorie diagnostiche comprendenti i disturbi psichiatrici primari, disturbi somatici (in particolare neurologici) e stati di astinenza, ma la sua fenomenologia è relativamente stabile e coerente nei diversi stati di malattia.

L’agitazione può essere definita come un’eccessiva attività motoria o verbale. Esempi comuni sono l’iperattività o attivazione psicomotoria, la mancanza di cooperazione, l’irritabilità, l’aggressività, gli sfoghi o gli abusi verbali, la comunicazione di disagio, gesti o verbalizzazioni minacciosi, labilità affettiva e comportamento distruttivo. Nei casi più gravi l’agitazione può portare a comportamenti violenti e distruttivi, ad angoscia personale estrema o a lesioni a sé o agli altri.

Eziologie comuni di agitazione e aggressività indotte da disturbi neurologici

Lesione cerebrale traumatica

Ictus e altri disturbi cerebrovascolari

Farmaci, alcool e altre sostanze di abuso, farmaci da banco

Stati confusionali (per es., da ipossia, squilibrio elettrolitico, anestesia e chirurgia, uremia)

Demenza

Patologie neurologiche croniche (Huntington, Wilson, Parkinson, SM, LES)

Tumori cerebrali

Malattie infettive (encefaliti, meningiti, AIDS)

Epilessia (ictale, postictale e interictale)

Disturbi del metabolismo (iper- o ipo-tiroidismo, ipoglicemia, carenza di vitamine, porfiria, ecc.)

Farmaci che possono essere causa di agitazione

Sedativi, ipnotici e ansioliticiAlcoolSedativi del SNCBarbituriciBDZ (sospensione, intossicazione o effetto paradosso)AnalgesiciOppiacei e altri narcotici (stati di sospensione o intossicazione)Steroidi

177 S.C. Yudofsky e al., Trattamento degli stati di agitazione e aggressività, in A.F. Schatzberg e C.B. Nemeroff (Eds.), Psicofarmacologia, CSE, 2000, cap. 42; D.L. Zimberoff, Clinical management of agitation, Medscape, 8 aprile 2003.

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PrednisoneCortisoneAnabolizzanti (dosi terapeutiche e stati di sospensione)AntidepressiviTutte le categorie (soprattutto nelle fasi iniziali del trattamento)StimolantiAmfetamineCocainaCaffeina (a dosi elevate)AntipsicoticiFenotiazineButirrofenoni (acatisia)AnticolinergiciSedativi da bancoAllucinogeniLSDFenciclidinaPsilocibina (stati di intossicazione)

Aspetti caratteristici che indicano potenziale aggressività neurologicamente indotta

Reattività Scatenata da stimoli modesti o banali

Non riflessività Di solito non implica premeditazione o pianificazione

Afinalismo L’aggressione non ha evidenti obiettivi a lungo termine

Esplosività Non si genera gradualmente

Periodicità Brevi scoppi di rabbia o aggressività; lunghi periodi di relativa calma

Ego-distonia Dopo gli scoppi i pazienti sono sconvolti, sconcertati e imbarazzati e non giustificano il proprio comportamento né biasimano gli altri

Patient Assessment

Patient assessment involves (1) the gathering of information about past and current behavior from the patient, health care providers, family, and friends; (2) a review of past treatment (successful and unsuccessful); and (3) a clinical examination of the patient over time.

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In the assessment of a patient who is acutely agitated and whose history is unknown, attempts are made to rule out somatic conditions that require emergency treatment. Delirium is a medical emergency. Once the patient is under behavioral control, further medical and psychiatric workups can be accomplished. Mechanical restraints may be necessary to prevent agitated patients from injuring themselves or others while the medical workup is being conducted. For patients who are acutely agitated and for whom the episode is one of many, the acute episode is managed, and, subsequently, time is devoted to strategies designed to reduce the intensity and frequency of episodes.

Included in a physical examination should be a thorough mental status examination. Key elements include an assessment of affect and thought content, especially hallucinations, delusions, suicidal ideation, and homicidal ideation. An assessment of orientation and memory is also crucial for establishing a differential diagnosis. Disorientation may be the first clue that an underlying somatic condition is altering the patient's mental status.

Care must be taken to not miss comorbid conditions that may manifest as acute intoxication or withdrawal, such as alcohol or sedative abuse or dependence. A concomitant seizure disorder may complicate the clinical picture, especially if neuroleptic therapy appears to worsen the condition. Adverse drug effects, such as akathisia, may serve as stimuli for striking out. Antisocial personality traits may be the most important factor in some instances of patient violence in which goal-directed behavior, such as extortion of money or cigarettes, is evident.

Differential Diagnosis

Differentiating patterns of violence central to the development of a differential diagnosis is achieved by analyzing the pattern of the violence. Whether aggressive episodes are singular or repetitive, with low or high potential for actual injury, helps guide the clinician in formulating immediate management plans, a provisional diagnosis, and a long-term strategy. Some patients are violent only when in a chaotic environment; others are persistently violent regardless of the milieu. Patients who were persistently violent were found to be more likely to have impairments in stereognosis, graphesthesia, tandem walk, and walking-associated movements and selective impairment in visual-spatial functioning as determined by neuropsychological testing. More detailed discussions regarding the neurology of aggression in general are beyond the scope of this article.

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In contrast to the patient who is persistently violent, those who are transiently violent respond to the introduction of a new, structured environment. Environmental factors leading to increased aggressive behavior in a psychiatric ward include crowding and, possibly, an overauthoritative attitude by nursing staff and underinvolvement of medical staff with regard to ward activities. Time of day may be a factor, with a peak problem period of 7:00-9:00 AM reported in one facility. Apparently, patients who are transiently violent are more responsive to typical neuroleptic medication and have less neurological impairment than those who are persistently violent.

Il passaggio chiave nella valutazione iniziale è lo stabilire se c’è una causa medica dell’agitazione e determinare la categoria generale del problema (stato confusionale, intossicazione o disturbo psichiatrico). Il determinare lo stato mentale prima dell’episodio, la natura del fattore scatenante, l’ambiente fisico e sociale in cui l’episodio si manifesta. I modi in cui l’episodio viene attenuato e gli utili primari e secondari all’agitazione sono dati essenziali.

Quando l’agitazione è potenzialmente pericolosa e il medico si sente obbligato a intervenire, allora diventa importante la distinzione tra ciò che è considerata una “contenzione chimica” e ciò che è un trattamento, tra ciò che fa parte di un programma di cura e ciò che ha solo lo scopo di controllare il comportamento del paziente (vedi Expert Consensus Guideline, 2001). La maggior parte degli esperti ritengono che un farmaco usato per trattare dei sintomi, anche in mancanza di una chiara diagnosi, debba essere considerato un trattamento. Gli esperti ritengono che qualunque dose di farmaco orale che il paziente accetti di assumere in una situazione di emergenza possa essere considerata volontaria e rifiutano l’idea che la situazione sia così coercitiva che ogni farmaco debba essere considerato involontario anche se il paziente sembra accettarlo.

La gestione dell’emergenza di un paziente agitato dovrebbe essere considerata un breve allontanamento dalla normale collaborazione medico-paziente, allo scopo di porre fine all’emergenza nel modo più accettabile per il paziente e di riportare a un dialogo più normale. Gli esperti considerano appropriato iniziare un trattamento di emergenza quando un paziente è direttamente minaccioso e aggressivo. Raccomandano di iniziare con gli approcci meno aggressivi – interventi verbali, offrire cibo o altra assistenza e farmaci che accetta volontariamente – per ridurre la tensione e per cercare di detendere la crisi prima di ricorrere a strategie più intrusive. Il passo successivo dovrebbe essere una dimostrazione di forza. Se questi interventi non hanno successo, allora va preso in considerazione l’uso di terapie di emergenza, della contenzione o dell’isolamento.

Quasi senza eccezioni il trattamento dell’agitazione e dell’aggressività richiede un approccio multidimensionale che spesso combina trattamenti farmacologici, trattamenti comportamentali e/o psicoterapie diverse.

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9. Tipi e fasi della violenza178

I dati di psicologia evolutiva e sociale richiamati in precedenza sottolineano l’importanza degli automatismi che si cristallizzano nel sistema motivazionale delle persone che abbiano assunto uno schema comportamentale aggressivo-violento di tipo impulsivo o premeditato, per cui, di conseguenza, essi diventano facilmente il fattore preminente nella loro modalità di affrontare le situazioni stressanti o difficili. L’eventuale successo che tali automatismi ottengono nel momento del confronto, in particolare nei casi in cui è presente anche una compromissione del ruolo sociale o una diminuzione dell’autostima, può favorire la generalizzazione di tali schemi già usati per affrontare delle situazioni problematiche.

Quando questi schemi aggressivo-violenti diventano abituali, le possibilità relazionali si riducono e l’accettazione di un aiuto/supporto/trattamento diventano precarie. In queste condizioni diventano frequenti gli agiti di competizione violenta con gli operatori, che rendono più difficile e pesante il carico emotivo dell’assistere e del cercare di ottenere una relazione possibilmente positiva. Il paziente diventa, a questo punto, un oggetto di confronto sgradevole, tendenzialmente evitato dagli operatori, e le possibilità d’intervento diventano minime.

Le ragioni pratiche di un comportamento violento si possono sintetizzare come segue:

paura: quando le persone si sentono attaccate o temono di perdere qualcuno o qualcosa d’importante, possono reagire con violenza espressiva;

frustrazione: frustrazioni accumulate possono scatenare rabbia e violenza distruttiva di tipo espressivo contro cose o persone;

manipolazione: per obbligare altri a concedere qualcosa di desiderato o per attirare l’attenzione su di sé, alcune persone possono diventare impulsive e violente in modo strumentale;

intimidazione: alcune persone possono minacciare freddamente di mettere in atto una violenza strumentale per ottenere quello che vogliono.

Ciascuna di queste ragioni ha delle caratteristiche specifiche.

Paura. - Segnali visivi e uditivi: tensione del corpo, pronto all’attacco o alla fuga.- Respirazione: irregolare, rapida e superficiale.- Faccia: pallida e cerea, occhi spalancati e spaventati.- Voce: tremolante, piagnucolosa e implorante.- Storia personale: di privazioni e vittimizzazioni, costellata di comportamenti

aggressivi. Frustrazione.- Segnali visivi e uditivi: corpo teso e pronto all’attacco.- Respirazione: respiri lunghi, profondi e pesanti.- Faccia: paonazza ed esprimente rabbia.- Voce: forte e aggressiva.- Storia personale: di scarsa tolleranza alle frustrazioni e di episodi impulsivi di

aggressività. Manipolazione.

178 Fonti: M. Sanza, Il trattamento psichiatrico: interventi in acuto, in: Il comportamento aggressivo e violento in psichiatria, cap. 2,

1999; V. Bowie, Coping with violence, 1989;

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- Segnali visivi e uditivi: spesso non chiari come nei casi precedenti, ma tendono a seguire una progressione. Inizialmente, ci possono essere delle richieste confuse, spesso poste con voce piangente, da vittima. Poi, accuse e confronti espressi in modo più aggressivo. Infine, minacce seguite da azioni violente.

- Storia personale: di scarso controllo degli impulsi e di reazione con attacchi fisici davanti alle privazioni.

Intimidazione.- Segnali visivi e uditivi: neutri o poco significativi, tranne che per parole minacciose,

per il tono della voce o l’atteggiamento minaccioso. Anche in questo caso ci può essere una progressione. All’inizio è posta con decisione una richiesta chiara. Poi, sono fatte delle minacce se la richiesta non è soddisfatta, talvolta accompagnate dal danneggiamento di oggetti. Infine, la mancata o ritardata soddisfazione può portare all’aggressione.

Il rischio che l’aggressione sia selezionata e adottata dal paziente in modo generalizzato per la soluzione dei conflitti interpersonali, diventando così una modalità ripetitiva di affrontare le crisi emotive, i conflitti psicologici ed i contrasti relazionali, impone di adottare degli interventi che riducano il confronto, portandolo verso la negoziazione.

Il ciclo dell’aggressione179 schematizza le fasi che, tipicamente, si succedono in un episodio di aggressività e si basa su due concetti fondamentali.

Il primo, l’arousal, si basa sul fatto che qualunque atto di aggressività comporta un’attivazione psicomotoria, caratterizzata da cambiamenti emotivi, fisici e psicologici, primariamente cognitivi, che si producono in risposta a una minaccia, reale o presunta. In questa condizione le abituali capacità di comunicazione e di risoluzione dei problemi sono inibite; in particolare, si riduce la capacità di discriminare gli stimolo fini e, quindi, di ricostruire gli aspetti complessivi della situazione cui ci si trova di fronte a partire dai dettagli. Inoltre, le alterazioni cognitive inducono la prevalenza delle idee dominanti, che non sono più sottoposte a verifica e bilanciate da possibili alternative. L'arousal è la condizione di attivazione psicomotoria che è alla base di qualunque atto di aggressività e che è caratterizzata da cambiamenti emotivi, fisici e psicologici, come l'attivazione dell'apparato cardiocircolatorio, del sistema endocrino, del sistema nervoso centrale (in particolare il sistema limbico) e periferico, della muscolatura scheletrica, l'inibizione delle abituali capacità di comunicazione e risoluzione dei problemi, il prevalere delle idee dominanti. L'organismo si predispone così alla lotta o alla fuga.

9.1 Aspetti dell’attivazione da considerare nella gestione

A. La modificazione della percezione e della ricostruzione della realtà circostante è tale che non permette più di cogliere stimoli fini o valutare quelli complessi.

B. La tendenza è verso comportamenti estremi, basati su modi di pensare semplici e diretti.

Il secondo concetto è la descalation (riduzione, diminuzione), che consiste in interventi di desensibilizzazione, mirati e progressivi, che hanno come obiettivo ridurre e contenere, per mezzo di azioni specifiche per le diverse fasi, lo sviluppo comportamentale naturale del ciclo dell’aggressione.

179 D. Berardi e al., Il trattamento del paziente psichiatrico aggressivo, Nóo, 4, 2, 149-156, 1998; M. Sanza, Il comportamento

aggressivo e violento in psichiatria, centro scientifico Editore, 1999.

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Gli interventi si devono basare sul comportamento bersaglio, quale indice del livello di attivazione, e sulle sue variazioni per valutare le opzioni da adottare.

Fondamentale è, inoltre, l’inquadramento della situazione, che è composta dalle caratteristiche dell’aggressore, da quelle della vittima e dello spazio circostante.

Individuazione del rischio

Comportamento bersaglio

Inquadramento della situazione

Il comportamento è funzione sia della persona, sia dell’ambiente. In questo contesto, l’ambiente più importante è quello soggettivo, cioè per come viene percepito.

9.2 Il ciclo dell’aggressione

Il modello del ciclo dell’aggressività descrive le diverse possibilità di un intervento appropriato e differenziato seguendo uno schema a cinque fasi.

figura

figura algoritmo

1. Fase dell’evento scatenante (trigger).

È il verificarsi di qualcosa che è percepito dal paziente come una grave minaccia per lui: il fattore chiave è la sua percezione, non la realtà dell’evento (una disinibizione indotta dall'assunzione di sostanze, la percezione da parte del paziente di mancanza di alternative al passaggio alla violenza, la presenza di fattori di provocazione (veri o presunti) come insulti o derisioni, il recente verificarsi di eventi stressanti, come perdite ed eventi catastrofici). Si manifesta con un primo scostamento dal livello psicoemotivo di base: comportamenti verbali ed espressivi (mimici e comportamentali) rendono percepibile l’avvio del processo. Gli eventi scatenanti rientrano in due tipi principali, quelli che inducono paura e quelli che provocano frustrazione.

Gli eventi che inducono paura fanno sentire la persona sotto minaccia o che è privata di qualcosa d’importante per lei.

Le circostanze che provocano frustrazione danno alla persona l’idea che i suoi sforzi o le sue richieste sono inutili o ignorate.

In ambiente psichiatrico fattori scatenanti tipici possono essere:

l’intensificazione di una stimolazione contrariante; la disinibizione indotta da sostanze; la percezione della mancanza di alternative; la presenza di fattori provocanti (veri o presunti), come insulti o

derisioni;

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la recente esperienza di gravi fattori stressanti (perdite, sconfitte); l’esplicita interpretazione clinica di comportamenti abnormi,

percepiti soggettivamente come del tutto normali.

In questa fase, l’intervento d’elezione deve essere diretto al riconoscimento del fattore scatenante e alla sua rimozione. Durante questa fase l'intervento di elezione è rappresentato dal riconoscimento del fattore scatenante e dal tentativo della sua rimozione. Non è sempre facile, ma in questa fase si dovrebbe cercare, per esempio, di far capire al paziente che nessuno ha inteso deriderlo o insultarlo, o che la sua situazione ha ancora possibili sbocchi di tipo negoziale. Non è invece necessario né opportuno il semplice assecondamento dei desideri o delle rivendicazioni del paziente, anche per evitare il rischio di una sorta di rinforzo premiante dell'atteggiamento violento o minaccioso.

L’azione più appropriata non può, d’altra parte, ridursi all’assecondamento della volontà o all’esaudimento dei desideri del paziente, soprattutto quando si rischia di mettere in discussione principi di maggiore rilievo, come ad esempio la necessità di continuare il trattamento farmacologico, il cui rifiuto rappresenta uno dei tipici fattori scatenanti dell’aggressività in reparto. D’altra parte, nelle manifestazioni precoci di aggressività, può essere insita una volontà di prevaricazione o di gestione del conflitto attraverso le minacce. In questo senso la rimozione del fattore scatenante non deve essere intesa come il venir meno, nella negoziazione, al principio del rispetto degli altri, sul quale non sono consigliabili mediazioni o deroghe. Di là delle ovvie considerazioni etiche, per le quali non è accettabile, ad esempio, che in un contesto residenziale si creino condizioni di disagio per alcuni pazienti in relazione alla posizione di un altro, sarebbe errato, per lo sviluppo delle capacità sociali di quel paziente, premiarne le attitudini violente. La percezione del successo di un proprio comportamento ne favorisce la generalizzazione attraverso il sistema del rinforzo.

2. Fase dell’escalation.

È contraddistinta da un ulteriore allontanamento dal livello di base. La persona si prepara fisicamente e mentalmente all’attacco. Assume un atteggiamento pronto all’azione e può deridere e insultare chi la minaccia. A questo punto, le probabilità di successo degli interventi dipendono anche dalla tempestività con cui sono messi in atto. Lo schema appropriato prevede, in questa fase, l’impiego dell’approccio verbale mirante alla riduzione progressiva della posizione violenta assunta dal paziente (talk down180), tramite il riconoscimento positivo e affermativo delle sue richieste (invece, simulare indifferenza può contribuire a rafforzare i fattori scatenanti). È necessario avviare una negoziazione che accolga il contenuto emotivo e razionale della crisi, ma che cerchi di deviarne il percorso comportamentale. Una manovra aggiuntiva, in questa fase, può essere l’allontanamento dal contesto, soprattutto quando fattori ambientali contribuiscano a determinare la condizione di crisi.Inizia l'intervento di descalation, che deve mirare ad avviare una negoziazione con il paziente. Bisogna cercare di riconoscere e recepire i messaggi emotivi e razionali del suo atteggiamento, ma al contempo farlo deviare dal percorso comportamentale che lo porterebbe all'aggressione.Si possono utilizzare le cosiddette tecniche assertive per la riduzione del comportamento aggressivo, che mirano al recupero della relazione con l'interlocutore. L'obiettivo principale è la

180 Indicazioni operative per l’intervento: non molestare, né minacciare, o comunque assumere un atteggiamento negativo verso il paziente; non invadere lo spazio occupato dal paziente, mantenendo una distanza utile; stabilire un contatto verbale; usare frasi brevi, dal contenuto molto chiaro; servirsi di un tono di voce caldo e rassicurante; rivolgersi al paziente usando il suo nome; ridurre la tensione dichiarandosi d’accordo con quanto sostiene il paziente; non polemizzare o contrastare; continuare a dichiararsi d’accordo con i contenuti espressi e fare subito presenti le proprie prescrizioni; porre il paziente davanti a delle scelte alternative, in modo da impegnarne l’attenzione e distrarlo dall’originario programma motorio; quando l’agitazione comportamentale è ridotta porre limiti crescenti fino al ristabilirsi del controllo e quindi della sicurezza.

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trasformazione dei contenuti di violenza e di minaccia in espressioni dialettiche che possano essere progressivamente negoziate.

Occorre introdurre una forma di comunicazione che sia diretta, specifica e positiva. Diretta perché rivolta espressamente alla persona che è di fronte, valorizzata nella sua individualità (può essere utile servirsi del nome personale per enfatizzare questo tratto). Specifica, perché rappresenta immediatamente gli elementi concreti posti alla base del conflitto in atto, e vi fa riferimento in modo comprensibile. Positiva, perché trasmette la disponibilità a collaborare per la soluzione del problema. È necessario, quindi, porsi in maniera non giudicante, e tantomeno contro aggressiva. Al contrario è utile predisporsi a una base di chiara, e non strumentale, accettazione dei contenuti espressi. Onde evitare il carattere palesemente opportunistico che questa posizione potrebbe avere, è meglio legare l'accettazione a qualcosa di concreto, che trovi spunto nelle argomentazioni del conflitto. La disponibilità in tal senso deve essere molto ampia, fino, quando è necessario, ad ammettere errori personali, veri o presunti, per rinforzare la positività della comunicazione.

Queste due prime fasi, che insieme costituiscono la preaggressione, sul piano clinico si presentano con segni prodromici, come manifestazioni di tensione e irrequietezza. Spesso il paziente, durante questa fase, parla da solo o inveisce contro altre persone. I segnali sono tali, in ogni modo, da suscitare allarme e preoccupazione negli operatori presenti.

Stadi dell’escalation181

Stadi comportamentali del paziente

Emozioni del paziente associate

Reazioni degli operatori

Comportamenti motori minori Ansia/frustrazione Empatia

Maltrattamenti verbali, minacce verbali

Ostilità Ansia

Comportamenti motori maggiori

Irritazione Paura/irritazione

Aggressione fisica Rabbia furiosa Controaggressione

Esaurimento Rilassamento Frustrazione (non tensione, senso di liberazione)

Segnali d’allarme di pericolo

181 G.J. Maier e G.J. Van Rybroek, Managing countertransference reactions to aggressive patients, in: B.S. Eichelman e A.C. Hartwig

(Eds.), Patient violence and the clinician, APP, 1995, cap. 7, pag. 85.

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Fattori da cercare

Agitazione

Labilità emotiva grave o rapidi cambiamenti dell’umore

Rabbia

Mania

Paranoia con agitazione emotiva

Fattori che associati aumentano il rischio

Paranoia

Atteggiamento vittimistico rabbioso

Disturbo psichiatrico attivo grave

(comprendente allucinazioni e/o deliri)

Rischio gravissimo

Associazione di malattia psichiatrica grave con l’abuso di sostanze

La preaggressione necessita di una rapida presa di coscienza e d’atto del problema e richiede un’altrettanto rapida valutazione del rischio. È cruciale cercare di assumere precocemente la responsabilità della situazione, senza indulgere in atteggiamenti di evitamento nella speranza che la crisi trovi una conclusione spontanea. La mancanza di una risposta appropriata di fronte ad una comunicazione violenta, verbale o meno, suscita di per sé un aumento del livello di confronto e, essendo interpretata come un segno di debolezza dell’interlocutore, incentiva, attraverso un meccanismo di soddisfazione personale (rinforzo), la prosecuzione del comportamento in atto.

In questa fase è essenziale effettuare una diagnosi rapida della situazione, che orienterà le decisioni successive. La diagnosi si dovrà basare sugli elementi disponibili e l’incertezza dipende, in primo luogo, dal fatto che il paziente sia noto oppure sconosciuto. Le fonti delle informazioni riguardo la pericolosità comprendono tutti gli elementi del colloquio col paziente: quello che dice, come lo dice e come ci si sente in quel contesto. Si deve prestare molta attenzione alle proprie emozioni nella situazione. Se si ha paura, questa è l’emozione più importante. Talvolta, non è il paziente che è pericoloso, ma la relazione diadica tra lui e l’operatore che fa diventare pericolosa la situazione182.

Nel caso di paziente noto, si devono considerare tutte le variabili che accrescono il rischio.

182 B. Crowley, The assessment of danger in everyday practice, Psychiatric Times, 20, 6, 2003.

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Variabili che aumentano il rischio

A. Fattori legati al paziente:- la diagnosi clinica;- l’assunzione di sostanze;- la mancanza dell’accettazione della terapia farmacologica;- i precedenti eventuali comportamenti aggressivi.

B. Fattori fisici e ambientali:- l’affollamento del reparto;- la temperatura troppo elevata

Riguardo ai precedenti aggressivi, si deve tener conto anche di possibili sentimenti rivendicativi o di desideri di vendetta nei pazienti con disturbi di personalità con tratti antisociali o con una storia di modalità di soluzione dei problemi basata sul ricorso alla violenza fisica. Alcune famiglie, come certi gruppi sociali, usano normalmente la violenza come modo di risolvere i problemi.

La disponibilità di oggetti potenzialmente lesivi deve orientare verso scelte operative di massima garanzia.

Nel caso di paziente sconosciuto è necessaria maggiore prudenza. È sempre bene agire come se le informazioni mancanti fossero indicatori di rischio prognosticamente negativi. Di conseguenza, si dovrà agire come se tutte le variabili di rischio fossero presenti, optando per scelte operative sicure.

Dopo aver preso in esame i fattori di rischio, si devono considerare i correlati verbali e non verbali dell’aggressività, che sono indicativi dello stato di tensione che prelude all’azione violenta e che costituiscono la principale fonte d’informazione sulle variazioni dello stato emotivo del paziente nel corso dell’intervento. In particolare, si deve tener conto dei seguenti segnali:

a. contratture della muscolatura facciale, stringere i pugni, serrare i denti, sguardi minacciosi;

b. minacce verbali, aumento del volume della voce, eloquio continuo, quasi automatico;c. aumento dei comportamenti motori evidenti, come gesticolare, passeggiare

rapidamente;d. molto importante è la risposta al primo intervento degli operatori ed alle direttive

eventualmente impartite. La mancanza di recettività è un segno di ostilità crescente; al contrario, una buona disponibilità al contatto è un segnale positivo.

Nell’ambito della descalation sono compresi gli interventi di negoziazione, che hanno lo scopo di stornare la condotta aggressiva e ricondurne le motivazioni su un piano di relazione dialettica condivisibile (talk down).

La comunicazione dovrebbe essere diretta, specifica e positiva.

1. Diretta perché deve essere rivolta espressamente alla persona che si ha di fronte. Per questo è utile servirsi del nome personale. È essenziale accompagnare la comunicazione con lo sguardo, evitando però di fissare in modo continuo perché potrebbe assumere un significato minaccioso. Non si deve invadere lo spazio del paziente, pur cercando di mantenere una distanza efficace in caso di necessità d’intervento fisico (protezione di altri).

2. Specifica, nel senso di cogliere immediatamente gli elementi concreti posti dal paziente alla base delle sue rivendicazioni, facendovi riferimento in modo comprensibile con frasi brevi e termini semplici. Se l’interlocutore non comprende,

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semplificare ancora, anche a scapito della completezza, della coerenza o della stessa logica. L’obiettivo, in questo momento, non è il raggiungere una comunicazione completa, ma cercare d’instaurare una comunicazione minima.

3. Positiva, nel senso di trasmettere la disponibilità a collaborare per trovare una soluzione del problema. E’ necessario che gli operatori si pongano in modo non giudicante e tantomeno controaggressivo: questo può essere fatto cercando di accettare le rivendicazioni del paziente e di stabilire una base chiara di contrattazione. Per evitare il carattere evidentemente opportunistico di questa posizione, è utile collegare l’accettazione delle richieste a fatti concreti, basati sulle sue rivendicazioni. Questa disponibilità deve essere ampia, se necessario fino all’ammissione di errori, veri o presunti, per cercare di stabilire una comunicazione positiva col paziente. La disponibilità deve essere accompagnata e bilanciata da decisione e sicurezza e dalla comunicazione di voler affrontare e risolvere il problema, ma non deve poter essere fraintesa come debolezza o ricattabilità. Se la comunicazione appare avere una certa efficacia (attenzione da parte dell’interlocutore, riduzione della sua tensione, inizio di una trattativa), si può ridurre la distanza fisica e aumentare le prescrizioni.

RACCOMANDAZIONI OPERATIVE PER LA PROGRESSIVA RIDUZIONE DEL COMPORTAMENTO AGGRESSIVO-VIOLENTO (DESCALATION)

a. Non molestare, minacciare o, in ogni modo, assumere un atteggiamento negativo verso il paziente.b. Non invadere lo spazio occupato dal paziente, cercando di mantenere una distanza utile.c. Stabilire un contatto verbale.d. Usare frasi brevi, dal contenuto molto chiaro.e. Servirsi di un tono di voce caldo e rassicurante.f. Rivolgersi al paziente usando il suo nome personale.g. Ridurre la tensione dichiarandosi d’accordo con quanto sostiene il paziente.h. Non polemizzare e non contrastare.i. Continuare a dichiararsi d’accordo con i contenuti espressi e fare subito presenti le proprie prescrizioni.j. Porre il paziente di fronte a scelte alternative, in modo da impegnarne l’attenzione e distrarlo dall’originario programma motorio.

Quando l’agitazione comportamentale è ridotta, porre crescenti limiti fino al ristabilirsi del controllo e della sicurezza.

Intervento in acuto

Assumere un atteggiamento positivo Mantenere una distanza utile Stabilire un contatto verbale Usare frasi brevi, dal contenuto molto chiaro Tono di voce caldo e rassicurante Usare il nome personale del paziente

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Mostrarsi d’accordo con le sue affermazioni Non polemizzare o contrastare Fare subito le proprie prescrizioni Porre di fronte a scelte alternative

Porre limiti crescenti

Una volta sicuri della trattabilità dell’interlocutore e accettate le prime prescrizioni, si potranno adottare strategie più complesse, come porre di fronte a più opzioni alternative per proseguire la trattativa. L’invito alla scelta porta il paziente in un senso diverso dall’azione aggressiva ed è una spinta distraente dal percorso intrapreso. Neutralizzata la crisi e avviata la negoziazione, diventa possibile fare prescrizioni sempre più stringenti per cercare di ristabilire una situazione di normalità.

3. Fase critica.

L’aggressore esplode in azioni violente contro la minaccia.

È la fase in cui viene raggiunto il culmine dell’eccitamento. L’attenzione di chi interviene deve concentrarsi sulla sicurezza e sulla riduzione delle conseguenze. Non si deve presupporre la possibilità di una risposta razionale, ma ci deve basare su interventi sintetici e massimali: contenzione, fuga, autoprotezione.

Quando si arriva a questo punto l'attenzione del medico e di tutti i presenti deve essere focalizzata sulla sicurezza e sulla riduzione delle conseguenze. A questo punto non sono possibili risposte fini o razionali, e le uniche opzioni sintetiche e massimali sono il contenimento, la fuga e l'autoprotezione. In ogni caso non è il momento per interventi terapeutici in senso stretto, almeno non fino a quando, per esempio, non sia stata realizzata una contenzione. Va sempre tenuta ben presente questa distinzione: la gestione in acuto dell'atto aggressivo è qualcosa di completamente diverso dall'atto terapeutico in senso stretto, e quest'ultimo può essere realizzato solo quando esistono alcune condizioni di sicurezza di base e un minimo di rapporto fiduciario.

L’aggressione vera e propria consiste nell’atto violento con le sue ripercussioni fisiche e psicologiche immediate sulla vittima. Durante la fase dell’aggressione si attivano importanti contenuti emotivi. Per il paziente, soprattutto se l’aggressione è portata a termine, è il momento della gratificazione, sia per la riduzione dell’attivazione, sia per la soddisfazione che rinforza, almeno temporaneamente, l’autostima. La vittima, e gli altri operatori, provano frustrazione e inadeguatezza. La gestione operativa basata sull’impiego di tecniche assertive e del contenimento sicuro riduce invece la gratificazione del paziente e migliora il senso di sicurezza degli operatori.

La messa in atto del contenimento fisico interrompe necessariamente la fiducia che è alla base di ogni rapporto terapeutico. Pertanto, è necessario mantenere una chiara distinzione tra terapia e gestione in acuto dell’atto aggressivo.

4. Fase di recupero.

Il corpo si rilassa e la mente riduce la vigilanza, lo scontro è considerato finito, almeno per il momento.

È una fase caratterizzata da un graduale ritorno alla linea psicoemotiva di base, ma anche da un livello di attivazione elevato e potenzialmente ricettivo nei confronti di nuovi fattori scatenanti. È la fase più delicata, poiché interventi troppo precoci e intempestivi, come tentativi prematuri di far elaborare l’episodio, possono scatenare una riacutizzazione della crisi. In questa

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fase è necessario mantenere un controllo attivo ma distante, senza sollecitare il paziente con stimoli inopportuni, come richieste di discutere l’accaduto o, peggio ancora, rimproveri.

In reparto questa fase può essere gestita portando il paziente in un ambiente isolato dagli altri, con sufficiente spazio intorno a sé e dove possa essere osservato dagli operatori. In questi casi l’osservazione deve essere esplicita e dichiarata. Simulare indifferenza comporta il rischio che il paziente si senta spiato e che percepisca un segnale di debolezza degli operatori che cercano, in ogni modo, di controllarlo. Questi due elementi, soprattutto il secondo, possono rinnovare l’azione violenta in un momento di tranquillità comportamentale.

5. Fase della depressione post-critica.

Mentre il corpo e la mente cercano di tornare a un livello stabile, gli aspetti fisici ed emotivi della crisi riappaiono spesso sotto forma di stanchezza, depressione e colpa.

Nell’autore della violenza compaiono emozioni negative legate a sentimenti di colpa, vergogna o rimorso. Si manifesta una recettività per interventi di carattere psicologico volti all’elaborazione dell’evento. Lo scopo degli interventi deve mirare alla risoluzione dei sentimenti più gravi, come i sensi di colpa, e alla comprensione razionale delle circostanze che hanno scatenato l’incidente. Il confronto con la vittima è un momento molto utile per evitare che sedimentino sentimenti tali da inquinare successivamente il rapporto. La discussione nell’evento in riunione di reparto costituisce un elemento di forte rassicurazioni nei confronti degli altri pazienti ed un’azione preventiva contro lo sviluppo di segreti sentimenti di paura e di rivalsa.

Per quanto utile, il concetto di ciclo della violenza deve essere limitato in diversi modi:

Ogni persona è diversa nel modo di sperimentare ed esprimere il comportamento violento, in base ad una gamma di fattori di personalità, di storia e di contesto.

Il ciclo può non seguire necessariamente tutte le fasi. Può essere cortocircuitato dagli interventi in ogni fase o nella fase di recupero si possono scatenare ulteriori comportamenti violenti.

Alcuni tipi di personalità non sembrano provare la colpa e la depressione dell’ultima fase, ma possono essere ulteriormente attivati dall’incidente.

Come farsi aiutare dai farmaci

Il trattamento farmacologico può essere uno strumento di grande aiuto nel contenimento del comportamento aggressivo. Ecco qui sotto elencate alcune indicazioni di massima, distinte per la violenza cosiddetta di tipo caldo (reattiva, non pianificata e di solito collegata a una frustrazione e a un aumento dello stato di arousal) e per quella di tipo freddo (pianificata, generalmente in relazione a deliri cronici di persecuzione, di gelosia o erotici)

Violenza di tipo caldo (trattamento acuto)

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Sono segni comportamentali prodromici:

contrattura della muscolatura facciale pugni stretti, denti serrati, sguardo minaccioso

minacce verbali, aumento di volume della voce, emissione della voce continua

gesticolazione, camminata rapida, altri movimenti corporei

assenza di recettività in risposta al primo intervento del terapeuta

in presenza di agitazione psicomotoria, irritabilità, ansia, disforia

benzodiazepine (lorazepam intramuscolo 4 mg oppure diazepam 5 mg per os, ripetibili dopo 2 ore)

se prevalgono sintomi psicotici, come ostilità percepita e ideazione delirante

aloperidolo intramuscolo 4 mg ripetibile dopo 6 ore oppure clotiapina intramuscolo 40 mg ripetibile dopo 8 ore.Possono associarsi le benzodiazepine

se prevalgono manifestazioni esplosive

benzodiazepine in associazione ad antiepilettici (per esempio carbamazepina da 200 a 400 mg ogni 8 ore)

se prevalgono sintomi affettivi (eccitamento maniacale)

benzodiazepine in associazione ad antipsicotici (clotiapina) e litio (da 600 a 1.200 mg/dì in tre somministrazioni)

Violenza di tipo freddo

in presenza di deliri paranoicali di origine depressiva

trattamento con antipsicotici e, dopo la riduzione dei sintomi, con antidepressivi (triciclici o serotoninergici)

disturbo paranoide di personalità

trattamento con basse dosi di farmaci antipsicotici

La gestione della fase acuta non può essere separata da importantissime considerazioni sulla sicurezza . Ogni azione tesa a ridurre e porre sotto controllo un comportamento aggressivo, potenzialmente o attualmente violento, dovrà essere effettuata in condizioni di garanzia per gli operatori e il paziente.

Il confronto con il paziente protagonista di comportamenti aggressivi provoca sentimenti di ansia e paura, che possono innescare comportamenti di diffidenza, con evitamento del paziente in questione o stabilendo nei suoi riguardi una distanza relazionale che ne accresce il senso di isolamento. Da qui la necessità di considerare la risoluzione dei sentimenti controtransferali una

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condizione specifica per la continuazione del trattamento del paziente che si sia dimostrato aggressivo.

Dal punto di vista del paziente, la risposta psicologica all’aggressione compiuta è spesso di implicita soddisfazione. Il venir meno della tensione attraverso un’affermazione di prestanza fisica non poche volte costituisce un’esperienza sintonica in grado da agire da rinforzo per quel comportamento, contribuendo a iscriverlo nello schema dei comportamenti sociali abituali. È utile un colloquio di confronto tra aggressore e vittima per evitare la scotomizzazione dell’evento, circostanza che accrescerebbe il senso di sicurezza del paziente nei confronti della vittima.

Dopo la conclusione dell’episodio, gli operatori devono approfondire la disamina degli eventi che hanno generato l’evento e rivalutare il progetto di cura (critical incident analysis).

In reparto un’attività di monitoraggio continuo, con l’adozione di semplici modelli di rilevazione, è considerata utile per la prevenzione dei comportamenti aggressivi, poiché consente di seguire nel tempo l’andamento del fenomeno e di rapportarlo ad alcune variabili significative.

Strategie di comunicazione nelle crisi183.

In una situazione di violenza potenziale o attuale ci sono tre modi principali per ottenere o mantenere il controllo. I primi due sono collegati e dipendono su processi intellettuali ed emotivi (persuasione verbale e ragionamento) e sulla pressione sociale (famiglia, cultura, agenti di controllo), mentre il terzo si basa sul contenimento fisico e chimico.

La persuasione verbale è un modo per cambiare una situazione per mezzo della parola, che a sua volta cambia il comportamento delle persone coinvolte. Gli eventi che richiedono l’attacco o la fuga hanno già oltrepassato lo stadio della persuasione. La situazione da controllare è influenzata dal problema, dalle persone coinvolte e dai vincoli.

Il problema deve essere una situazione che, potenzialmente o nell’attualità, può essere influenzato dalla persuasione verbale o da altri mezzi a disposizione dell’operatore.

Le persone coinvolte devono essere in grado di essere influenzate dalle parole o da altre azioni.

I vincoli sono altre persone, fatti, oggetti e relazioni facenti parte della situazione.

Una situazione di persuasione può essere semplice o complessa, molto o poco strutturata.

Una situazione semplice è quella dove interagiscono pochi elementi, come quando un operatore fronteggia una sola persona aggressiva.

10. VIOLENZA IN AMBIENTE OSPEDALIERO

Il rischio che un particolare incidente violento avvenga in un determinato momento e in un certo luogo dipende dalla combinazione delle caratteristiche e dallo stato del momento del perpetratore, dalle circostanze in quel determinato momento, dalla disponibilità di una vittima e dalle sue caratteristiche. Di conseguenza, si devono considerare altri fattori oltre al perpetratore quando si pianificano la prevenzione e/o la gestione della violenza.

La frequenza di comportamenti violenti nelle persone con disturbi psichiatrici non si discosta significativamente da quella della popolazione generale, anche se la percezione

183 V. Bowie, cit., 1989, cap. 3.

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pubblica di questo problema può essere molto sovrastimata, contribuendo allo stigma nei confronti dei pazienti psichiatrici.L’incidenza di comportamenti violenti nei pazienti con schizofrenia o maniacali in fase  acuta è 5 volte superiore a quella della popolazione generale, e diventa 12‐16 volte  maggiore se vi è un concomitante abuso di sostanze, evenienza oggi sempre più frequente.Il 40‐70% degli psichiatri ha subito un’aggressione fisica almeno una volta nella vita professionale. Gli psichiatri sono la categoria meno a rischio: l’80% delle aggressioni fisiche riguardano gli operatori non medici, in particolare quelli di sesso femminile e con più scarsa  formazione psichiatrica specifica.Il 30% degli operatori che subisce un’aggressione fisica sviluppa una reazione sintomatica con ansia, sentimenti di frustrazione, perdita di controllo, irritabilità e disturbi somatoformi.Il 10% presenta un disturbo da stress post‐traumatico. Significative conseguenze: perdita di sicurezza sul lavoro, paura e senso di vulnerabilità, riduzione del senso di competenza professionale.

È molto difficile trarre dagli studi conclusioni generali utili in un ambito specifico, date la diversità degli ambienti clinici, delle popolazioni dei pazienti e delle definizioni di violenza. La maggior parte degli studi sono osservazionali, senza gruppi di controllo. Le stime di comportamenti violenti in ambienti ospedalieri variano molto, da 0,07 a 7.9 episodi di violenza per paziente per anno e, come già indicato, l’accuratezza delle previsioni è tuttora scarsa. La violenza in reparto, ad ogni modo, non sembra avere una correlazione positiva con la schizofrenia o negativa con la depressione, mentre i fattori predittivi più significativi sembrano essere i frequenti cambi di terapia, l’uso di farmaci molto sedativi, comportamenti violenti pregressi, diagnosi di personalità antisociale o borderline e lunghi ricoveri. Altri fattori associati ai comportamenti violenti sono i TSO, le codiagnosi di asse secondo, i precedenti di auto-lesionismo e l’abuso di sostanze184.

Tuttavia, i fattori osservati che sono collegati ai comportamenti violenti possono essere suddivisi in fattori del paziente, fattori situazionali/ambientali e fattori della vittima185. Esistono anche dei dati indicanti che la frequenza delle aggressioni in un ospedale riflette il livello di violenza della popolazione che vi afferisce.

10.1 Fattori di rischio del paziente

I fattori che appaiono regolarmente come favorenti la possibilità di azioni violente da parte di pazienti psichiatrici ricoverati sono: l’essere giovane, l’avere precedenti di violenza e il ricovero coatto. I dati riguardanti il sesso e la razza sono inconsistenti. La diagnosi più frequente tra i pazienti violenti è la schizofrenia (che, però, è anche la più frequente nei reparti chiusi); il rischio è maggiore nella fase acuta ed è aumentato dall’uso di sostanze e dalla dipendenza. La compresenza di epilessia può complicare il quadro clinico, in particolare se la terapia neurolettica sembra peggiorare la situazione. Effetti collaterali come l’acatisia possono agire come stimolo per il passaggio all’atto.186

Basilare per una diagnosi differenziale è l’analisi delle caratteristiche della violenza. Se gli episodi di aggressività sono singoli o ripetitivi e il loro livello di danno potenziale sono fattori che devono guidare i clinici nella formulazione di un piano immediato di intervento, una diagnosi provvisoria e una strategia a lungo termine. Alcuni pazienti sono violenti solo in particolari circostanze, altri lo sono sempre, indipendentemente dall’ambiente.

A differenza da quelli che sono cronicamente violenti, i pazienti sporadicamente aggressivi rispondono bene a un ambiente nuovo e strutturato. I fattori di un reparto che possono favorire i comportamenti aggressivi sono il sovraffollamento, un atteggiamento eccessivamente autoritario da parte degli operatori e un ridotto coinvolgimento medico

184 A.E. Soliman e H. Reza, Risk factors and correlates of violence among acutely ill adult psychiatric inpatients, Psychiat. Serv., 52, 75-

80, 2001.185

S.E. Davison, cit., 2005.186

L. Citrome e J. Volavka, Psychopharmacology of violence, Psychat. Ann., 27, 691-703, 1997.

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nelle attività di reparto. Un fattore può essere anche l’ora del giorno, con un picco di rischio nelle prime ore del giorno187.

10.1.1 Schizofrenia188

Il comportamento aggressivo in genere è episodico e dovuto a momenti di scompenso acuto, spesso legati alla scarsa compliance farmacologica. Il comportamento aggressivo prevale nella forma paranoide e, in misura minore, nelle forme indifferenziate. In genere l’aggressività è motivata da un’idea delirante “logica”, generalmente diretta verso una figura in qualche modo significativa, identificata come il persecutore, che diventa oggetto di vendetta o di “autodifesa”. Gli schizofrenici paranoidi possono essere sufficientemente lucidi da progettare gli atti violenti, mentre negli stati psicotici indifferenziati gli atti non sono pianificati e raramente sono preceduti da atteggiamenti ostili verso la vittima. A particolare rischio di violenza etrerodiretta sono gli schizofrenici che aderiscono ad allucinazioni uditive imperative senza atteggiamento critico, soprattutto quando la voce è identificata come appartenente a persone conosciute, quando è correlata con il delirio e lo conferma, rafforzandolo, o sia già presente una storia di comportamento violento a seguito di allucinazioni.L’aggressività negli schizofrenici, pur potendosi manifestare in qualsiasi momento, è più frequente all’esordio e con periodi di acuzie, nei giorni immediatamente precedenti l’ospedalizzazione e nella prima settimana di ricovero.Tra gli psicotici cronici, quelli più deteriorati e disorganizzati o con problemi cognitivi organici sono i più aggressivi.

10.1.2 Abuso di sostanzeI comportamenti aggressivi e violenti possono essere favoriti intossicazione da alcol, cocaina, PCP o anfetamina. Sono state descritte anche intossicazioni da caffeina, da acqua, antistaminici, deodoranti e aerosols.

10.1.3 Condizioni mediche e neurologicheTraumi cranici, neoplasie cerebrali o disturbi metabolici possono indurre comportamenti aggressivi in pazienti normalmente non violenti. Nei pazienti epilettici, gli episodi di violenza intercritici sono più associati a disturbi psicopatologici e al ritardo mentale che ad attività epilettiforme o altre variabili collegate all’epilessia189.

10.1.4 Disturbo antisociale di personalitàLa diagnosi DSM o ICD-10 dipende da un costante comportamento criminale, mentre il più vecchio e ampio (e forse clinicamente più utile) concetto di “psicopatia” pone maggiore enfasi su caratteristiche di personalità, come il comportamento manipolativo e di sfruttamento). Questo disturbo, o singoli tratti di esso, possono coesistere con altri disturbi psichiatrici.La prima organica definizione e descrizione del disturbo risale a Cleckley190, che considerò la psicopatia una condizione caratterizzata da sintomi psicologici e comportamentali connessi, ma indipendenti, con le condotte criminali191. Cleckley poneva la mancanza di sentimenti umanitari e altruistici alla base della psicopatia. Negli anni successivi il termine “psicopatico” è

187 L. Citrome e J. Volavka, cit., 1997.

188 M. Amore e al., Psicopatologia del comportamento violento: una review, Noó∫, 12, 105-118, 1998; L. Citrome e J. Volavka, cit., 1997.

189 M.F. Mendez e al., Interictal violence in epilepsy, J. Nerv. Ment. Dis., 178, 566-9, 1993.

190 H. Cleckley, The mask of sanity, Mosby, 1976.

191 Fascino superficiale e buona “intelligenza”, assenza di deliri o di altri segni di pensiero irrazionale, assenza di “nervosismo” o di

manifestazioni psiconevrotiche, inaffidabilità, falsità e inautenticità, mancanza di rimorso o vergogna, motivazione inadeguata dei comportamenti antisociali, scarso giudizio e incapacità ad apprendere dall’esperienza, egocentricità patologica e incapacità di amare, povertà complessiva nelle relazioni affettive più importanti, mancanza specifica di insight, insensibilità nella generalità delle relazioni interpersonali, comportamento bizzarro e sgradevole in stato di ebbrezza alcolica e talvolta indipendentemente da essa, suicidio raramente portato a termine, vita sessuale impersonale, promiscua, scarsamente integrata, incapacità a seguire alcun progetto esistenziale.

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caduto in disuso e fu sostituito da quello di “sociopatico”, grazie al prevalere di teorie sociologiche anziché psicologiche per interpretare il comportamento criminale. Il DSM-III restringe il punto focale del disturbo antisociale di personalità a una popolazione criminale con caratteristiche di svantaggio sociale192. I criteri introdotti forniscono poco più di una descrizione comportamentale delle attività criminali, salvo la “mancanza di rimorso” che costituisce un tratto psicologico indipendente dalla condotta.Una diagnosi così definita non è utile per la ricerca, né per la clinica o la prognosi. Una condizione definita dalla storia passata di comportamenti socialmente devianti è stabile e non può fornire un punto di riferimento per l’intervento clinico. Un tale concetto rappresenta “poco più di un giudizio morale travestito da diagnosi clinica”193.Gli studi condotti sull’argomento hanno individuato alcuni fattori che possono determinare il comportamento violento nel disturbo antisociale di personalità:

1. Fattori sociali: il comportamento vioento è più comune in età giovanile, nel sesso maschile, tra le classi socioeconomiche più basse e nelle aree urbane.

2. Fattori biologici: il comportamento violento tende a ripetersi nelle stesse famiglie; esiste una differenza nella concordanza tra gemelli mono/diziogotici egli studi sugli adottivi indicano che la condotta violenta di un genitore rappresenta un fattore di rischio per la stessa condotta nella prole.

3. Fattori psicologici: come modelli comportamentali che possono avere un’influenza patogena sono considerati importanti l’avere un padre alcolista con comportamento antisociale e l’aver subito abusi fisici durante l’infanzia; tali fattori potrebbero riflettere, però, sia il ruolo della patologia genitoriale nel determinare l’apprendimento di comportamenti antisociali (causa ambientale), sia fattori genetici comuni (causa costituzionale).

10.1.5 Disturbo bordeline di personalitàQuesta categoria diagnostica, caratterizzata da “una modalità pervasiva e instabile delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore, e una marcata impulsività”, ha confini incerti e si sovrappone a numerosi altri disturbi, pur senza associazioni specifiche.Il tipico paziente borderline con sintomi nucleari – istrionico e con marcate oscillazioni dell’umore, rabbioso, impulsivo, facile all’acting-out, autolesivo – tende a mostrare l’intera gamma dei comportamenti aggressivi: irritabilità, rabbia, ostilità, fino all’aggressività verbale e fisica.Il modello interpretativo biosociale della Linehan194 è quello più utile in quanto offre possibilità operative terapeutiche. Questo modello suggerisce che il comportamento patologico di questi pazienti sia principalmente espressione di un disturbo della regolazione delle emozioni195, legato ad antecedenti biografici traumatici continuativi (aver subito abuso fisico e sessuale durante l’infanzia) e all’apprendimento sociale di pattern di comportamento patologici tipici dell’ambiente familiare, rinforzati da stimoli culturali forti.I fattori di rischio per il comportamento aggressivo in questo gruppo diagnostico sono: abuso di sostanze, una storia personale e familiare di comportamenti violenti, l’essere cresciuti in un ambiente violento, la giovane età e il sesso maschile.

10.1.6 Disturbi dell’umoreSono state riscontrate correlazioni tra comportamenti criminali e/o violenti e diagnosi di distimia. Lo stato maniacale può essere associato a comportamenti violenti.

10.1.7 Disturbi d’ansia

192 J.R. Meloy, The psychopathic mind: origins, dynamics and treatment, Aronson, 1988.193 R. Blackburn, On moral judgments and personality disorders. The myth of psychopathic personality revisited, Br. J. Psychiatr., 153, 505-12, 1988.194 M.M. Linehan, Dialectical behavior therapy for borderline personalità disorder: theory and method, Bull. Menn. Clinic, 53, 261-276, 1987.195 A.N. Schore, Affect dysregulation and disorders of the self, Norton, 2003.

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Il PTSD è stato associato a rabbia, ostilità e violenza, sebbene la presenza di comorbidità, come disturbi dell’umore e abuso di sostanze, crei confusione.In alcuni pazienti sono stati riportati, nel DAP, pensieri e comportamenti aggressivi associati ai sintomi di panico.

10.2 Fattori di rischio ambientali

L’ambiente è molto importante, anche perché può essere modificato per ridurre il rischio di violenza. Sono tre i gruppi di fattori ambientali che sembrano particolarmente importanti: le strutture fisiche messe a disposizione dei pazienti, dei visitatori e degli operatori; l’esperienza, l’addestramento, la supervisione e l’organico dello staff; la politica gestionale adottata in ambito clinico196. Tra i fattori in genere trascurati ma che sembrano importanti ci sono: la disposizione del reparto, il rapporto pazienti/personale, la composizione dello staff e il mix di tipologie di pazienti.

Scheda 3 Fattori di rischio ambientale che aumentano la possibilità di violenza

Mancanza di attività strutturate Alta presenza di personale temporaneo e/o con poca esperienza Scarsa comunicazione tra il personale e i pazienti Scarsità di personale Ruoli del personale mal definiti Programmi di reparto imprevedibili Mancanza di privacy Sovraffollamento197

Attrezzature limitate Disponibilità di oggetti potenzialmente pericolosi

10.3 Fattori di rischio della vittima

È difficile dare un quadro coerente dei fattori della vittima che aumentano il rischio di violenza. Il personale infermieristico è in genere il più esposto; non c’è accordo in letteratura se ha importanza l’addestramento specifico o meno. Il momento dell’applicazione di una contenzione è ovviamente il più rischioso. È più facile che le donne siano aggredite dalle donne e gli uomini dagli uomini. Certe caratteristiche personali (atteggiamenti autoritari e custodialistici, mancanza di rispetto verso il paziente) possono aumentare il rischio.

IL PAZIENTE CON COMPORTAMENTO VIOLENTO: GESTIONE E INTERVENTI

• Raccogliere tutte le informazioni disponibili • Coinvolgere altro personale preparato • Garantire la sicurezza del paziente e degli operatori • Utilizzare un ambiente tranquillo e sicuro • Evitare la sensazione di costrizione e di limitazione della libertà • Allontanare familiari o altri persone identificate come “nemici”

196 Royal College of Psychiatrists, Il trattamento della violenza imminente, CIC, 1999.

197 H.L.I. Nijman e G. Rector, Crowding and aggression on inpatient psychiatric wards, Psychiat. Serv., 50, 830-1, 1999.

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11 PREVENZIONE DELLA VIOLENZA

Lo scopo principale della gestione della violenza è di prevenirla ogni volta che è possibile.

11.1 Fattori del paziente

Gli operatori dovrebbero essere preparati alla valutazione clinica del rischio così da poter determinare se una persona è a rischio e, in tal caso, quando può esserlo, per chi e in quali circostanze. Ciò può consentire di realizzare un programma coerente di gestione che riduca la probabilità del verificarsi di tali circostanze. Un approccio è valutare il rischio utilizzando una semplice checklist e di compiere una valutazione più approfondita se un paziente sembra essere a rischio.

La valutazione del rischio comprende un’anamnesi accurata, la valutazione dello stato mentale (presente e passato), l’uso di sostanze e il funzionamento sociale. Deve essere posta attenzione particolare ai precedenti di violenza, indagando sulle circostanze in cui si sono verificate, sugli eventuali segnali premonitori e sugli interventi efficaci. Il rischio di violenza è variabile nel tempo, per cui deve essere regolarmente rivalutato. Una sua buona valutazione richiede l’accesso a informazioni di buona qualità da svariate fonti. Pertanto i dati sul paziente devono essere sempre disponibili e condivisibili. Le misure preventive più efficaci sono il trattamento efficace del disturbo mentale e il controllo dell’abuso di sostanze. Devono essere contemporaneamente trattati i disturbi della personalità e i deficit cognitivi198.

Scheda 4A. Domande anamnestiche di screening per comportamenti violenti

1. Lei è una persona che fatica a controllare la collera?2. Quando è arrabbiato le capita di colpire gli altri o di rompere oggetti?3. Qual è la cosa più violenta che ha mai fatto?4. Ha mai temuto di poter fare fisicamente male a qualcuno?

Scheda 4B. Domande da porre/porsi per un esame dettagliato sui comportamenti violenti

Ha mai ferito qualcuno? Ha mai usato armi per aggredire qualcuno? In che contesto o ambiente si sono verificate le violenze? Quali sono secondo il paziente i fattori scatenanti? Cosa pensava/sentiva il paziente in quei momenti? Gli episodi si sono verificati sotto l’effetto di alcol o sostanze? Il paziente aveva sintomi psicotici (allucinazioni, deliri)? Nel momento dei fatti era in terapia farmacologica? Chi è stata la vittima o l’obiettivo della violenza? In che relazione era col paziente? Ci sono schemi costanti negli episodi di violenza?

Scheda 4C. Fattori d’allarme valutabili durante il colloquio199

Prestare attenzione se il paziente parla a voce alta, gesticola, si muove a scatti

Evitare comportamenti che potrebbero essere interpretati come una minaccia, ad esempio: invadere lo spazio vitale del paziente con movimenti bruschiNon contrariare inutilmente il paziente con pareri apertamente negativi

Condurre il colloquio in una situazione di calma Accertarsi che l’uscita dalla stanza sia facilmente accessibile (il paziente non deve essere posto tra noi e l’uscita)

198 S.E. Davison, cit., 2005.199 G. Filocamo, Violenza e aggressione, Psichiatria Oggi, 19,10-15, 2006.

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Fare domande sulla percezione di stati depressivi e/o di agitazione e/o su pensieri suicidari

Interrompere il colloquio se ci si accorge di avere difficoltà nel condurlo in modo congruo, esponendo l’operatore a rischi inutili

11.2 Fattori ambientali

Le indicazioni del Royal College of Psychiatrists (nota 36) e del NICE200 sono sintetizzate nello schema 5.

Scheda 5. Un ambiente calmanteI seguenti fattori possono ridurre il rischio di violenza in un reparto psichiatrico

Un ambiente piacevole e non sovraffollato Una routine di reparto ordinata e prevedibile Una buona gamma di attività significative Ruoli degli operatori ben definiti Buona preparazione degli operatori Consentire privacy e dignità senza compromettere il controllo del reparto

Caratteristiche essenziali delle stanze per colloqui201

Presenza di sistemi di allarme Uscite facilmente accessibili Porte che si aprono verso l’esterno, che non possono essere chiuse

dall’interno e facilmente accessibili dall’esterno Localizzate vicino alle zone operative del personale Prive di tutti gli oggetti potenzialmente pericolosi Presenza di una finestrella di osservazione Un arredamento che riduca le possibilità di violenza

11.3 Fattori della vittima

Gli operatori devono individuare i pazienti che col loro comportamento attirano la violenza e spingerli a modificarlo. Gli stessi operatori devono essere addestrati e supervisionati a non mancare di rispetto e a non assumere atteggiamenti autoritari e custodialistici202.

200 NICE, Violence (clinical guideline), febbraio 2005.201 J. Galloway, Personal safety when visiting patients in the community, Adv. Psych. Treat., 8,214-222, 2002.202 S.E. Davison, cit., 2005.

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12 TRATTAMENTO

La violenza persistente e recidivante e quella episodica possono differire nelle loro basi neurobiologiche, nel trattamento e nelle conseguenze sociali.

12.1 Gestione della violenza imminente

Gli incidenti violenti si possono verificare nonostante i migliori piani di prevenzione. Nel considerare quali metodi usare per gestire un evento violento si devono considerare i rischi e i benefici in ogni situazione particolare.

12.1.1 Misure generali203

Gli interventi comportamentali, psicologici e farmacologici devono essere usati contemporaneamente.

Gli elementi principali della gestione non farmacologica del comportamento aggressivo sono i seguenti:

Valutare l'ambiente per i pericoli potenziali (ad esempio, oggetti che possono essere gettati o usati come arma);

Valutare il comportamento fisico del paziente (ad esempio, molti pazienti stringono i pugni prima di colpire o di calciare);

Sapere dove il paziente è in ogni momento (ad esempio, non voltare le spalle al paziente, non lasciare il paziente da solo e quindi inosservato).

Prendere sul serio le minacce verbali.Restano diversi metri di distanza per evitare l'affollamento del paziente.Chiaro che l'area di altri pazienti.Chiamare aiuto supplementare (uno spettacolo "di forza" o di uno spettacolo

"di interesse"), questo non è il momento di eroismo.Mantenere la calma, mantenere un atteggiamento fiducioso e competenti, e

tentare di deescalate invitando i pazienti in conversazione.Evitare discussioni tra i membri del personale di fronte al paziente.

Se le restrizioni sono necessarie, sono almeno 4 persone a disposizione.

Gli operatori devono controllare che non siano presenti armi potenziali, non devono voltare le spalle al paziente e cercare la presenza di altri operatori. È importante prendere seriamente le minacce verbali e osservare i segni premonitori non verbali (stringere i pugni, andirivieni). Come primo passo, un paziente aggressivo andrebbe isolato dagli altri pazienti e da possibili fattori diversivi, poiché gli stimoli esterni possono alimentare i sintomi di un paziente allucinato, delirante e agitato. Inoltre, gli altri pazienti possono interferire, intenzionalmente o inavvertitamente, con l’intervento. In generale, è più facile sgombrare l’area da molti pazienti calmi che da una persona agitata e pericolosa. Può essere necessaria la contenzione (o l’isolamento) e questo è il momento in cui il rischio di lesioni per il paziente e per gli operatori è massimo.

12.1.2 Metodi non coercitivi

Dovrebbero essere usati ogni volta che è possibile. Lo scopo è coinvolgere il paziente nel calmarsi e nel gestire la rabbia o la frustrazione in modo non violento. L’intervento non farmacologico di cui dispongono gli operatori è la comunicazione. Un operatore con buone

203 L. Citrome e J. Volavka, cit., 2002.

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attitudini comunicative ed empatiche sarà più difficilmente esposto ad atti violenti. Le attitudini comunicative devono quindi essere potenziate e sviluppate fra gli operatori, dando indicazioni sulle possibili strategie per identificare e neutralizzare un atto violento. L’empatia (la capacità di immedesimarsi nell’altro), il consenso (la capacità di informare correttamente l’utente) e la negoziazione (la capacità di concordare un intervento con lo stesso utente) sono caratteristiche della comunicazione importanti per la prevenzione dell’atto violento, riducendo la carica emotiva negativa del paziente. Per essere efficace il colloquio deve essere utilizzato sapendo come si vuole condurlo e quale obiettivo si vuole raggiungere (attenuare l’ansia, rivalutare un problema, coinvolgere il paziente in un’impostazione terapeutica).

Comprendono la de-escalation, il time-out, l’aumento dell’osservazione e del supporto e l’offerta di terapie al bisogno, se indicato.

12.1.2.1 De-escalation204

La de-escalation, o talking down, comporta l’uso di tecniche psicosociali atte a calmare i comportamenti agitati e a indirizzare il paziente a uno spazio personale più tranquillo. Per essere usata con efficacia richiede addestramento e una profonda comprensione dell’aggressività e della sua gestione.205 In ambiente ospedaliero ha tre componenti basilari: valutazione immediata della situazione; uso di comunicazioni verbali e non-verbali atte a facilitare la cooperazione; tattiche di problem-solving.

È stato suggerito che l’analisi situazionale sia una base utile per la valutazione della situazione. Questa considera l’episodio di violenza come un processo interattivo e implica il cercare di capire cosa ha fomentato l’aggressività del paziente, come pensa che si sia sviluppata la situazione, le sue risposte emotive e il comportamento che ne deriva.

Lo sviluppo di buone capacità di comunicazione richiede che gli operatori siano consapevoli dei loro comportamenti verbali e non-verbali (ad es., i movimenti del corpo, il contatto con gli occhi, il tono della voce, l’uso di un linguaggio chiaro, lo stare alla stessa altezza del paziente, la distanza dal paziente e l’evitare di toccarlo per tranquillizzarlo, cosa che può essere sentita come provocatoria) e che siano in grado di controllarli. L’operatore che affronta un paziente violento si dovrebbe presentare come uno che può risolvere il problema, come un ascoltatore e non come un controllore. Si possono usare diverse tattiche per cercare di collaborare nell’aiutare il paziente a trovare soluzioni diverse al problema.

12.1.2.2 Time-out

Il time-out è diverso dall’isolamento in quanto il paziente si allontana volontariamente dalla situazione a rischio verso un ambiente meno stimolante.

12.1.2.3 Osservazione

Il suo scopo principale dovrebbe essere impegnare positivamente il paziente (cfr NICE).

12.1.3 Contenzione

Se falliscono gli approcci più collaborativi o se la situazione è acutamente pericolosa, gli operatori devono agire immediatamente per mettere in sicurezza se stessi, gli altri e il paziente. Ciò implica di solito il contenere il paziente in qualche modo, ad esempio limitando i suoi movimenti in modo che non possa agire in modo violento. I metodi di contenzione possono essere suddivisi in contenzione geografica (spostare il paziente in un posto più tranquillo o metterlo in isolamento), contenzione fisica e contenzione chimica (sedazione rapida). Tutte dovrebbero essere usate come ultima risorsa, avendo tutte la possibilità di effetti collaterali potenzialmente fatali. Tuttavia, queste misure non sono evitabili se si deve prevenire un grave danno ad altri.

204 R. Dix, De-escalation techniques. In Psychiatric Intensive Care, D. Beer, S. Pereira e C. Paton eds., GMM, 2001.205 NICE, cit., 2005.

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Schema 6. Modi per ridurre i rischi fisici associati alla contenzione fisica, alla sedazione rapida e all’isolamento.

Avere presenti tutte le opzioni disponibili per soppesare i rischi per il paziente Avere sufficienti operatori addestrati per la tecnica da usare Accertarsi che gli operatori coinvolti nella contenzione fisica, nella sedazione

rapida o nell’isolamento siano addestrati nelle tecniche di rianimazione Avere rapido accesso a strumenti (defibrillatore) e farmaci di emergenza Avere a immediata disposizione un professionista autorizzato a prescrivere e

somministrare farmaci di emergenza Avere indicazioni sull’uso dei diversi mezzi d’intervento Avere dei mezzi adatti per controllare il loro uso e per rivedere gli eventi

avversi

12.1.3.1 Contenzione geografica

Consiste essenzialmente nello spostare il paziente in un ambiente dove può essere trattato in modo più sicuro, come una parte meno stimolante del reparto o una stanza d’isolamento. L’isolamento in una stanza non deve essere usato come alternativa all’avere un numero sufficiente di operatori adeguatamente preparati.

I rischi principali dell’isolamento sono il suicidio e, per i pazienti sedati farmacologicamente in precedenza, i rischi della sedazione rapida. Questi rischi vanno affrontati con protocolli chiari per l’osservazione e il controllo fisico dei pazienti isolati.

Sia la contenzione fisica, in particolare se prolungata, sia la sedazione farmacologica comportano rischi significativi, per cui a volte può essere preferibile l’isolamento (ad es., per evitare contenzioni prolungate o per un paziente ipereccitato che è già stato trattato con alte dosi di farmaci o se la contenzione ricorda al paziente trascorsi di abuso.

12.1.3.2 Contenzione fisica

Dovrebbe essere usata da personale addestrato e tenendo presente il rispetto, la dignità, la privacy e i bisogni particolari di ogni paziente. L’addestramento ha lo scopo di evitare danni agli operatori e al paziente. I fattori che aumentano il rischio per il paziente sono le cardiopatie, l’ipereccitamento, il lottare, l’obesità e i trattamenti farmacologici.

Scheda 7. Punti chiave nell’addestramento alla contenzione fisica206

Evitare pressioni sul collo, il torace, l’addome. La schiena e il bacino Sostenere i pazienti proni in modo che possano respirare liberamente Fare sì che uno degli operatori coinvolti sia responsabile di garantire che le vie

aeree e la respirazione non siano compromessi Contenere il paziente per il tempo minimo possibile

12.1.3.3 Contenzione chimica (sedazione rapida)

Idealmente, gli operatori dovrebbero avere il consenso del paziente prima di somministrare qualsiasi farmaco. Tuttavia, in alcune circostanze può essere necessaria una sedazione rapida. Il suo scopo è di sedarlo quanto basta per ridurre la sua sofferenza e il rischio di violenza, non di curare il suo disturbo.

I neurolettici sono i farmaci più prescritti per il trattamento dell’agitazione e dell’aggressività sia acute, sia croniche. Sono i farmaci appropriati se agitazione e aggressività derivano da una psicosi. Il loro uso però è diffuso nel trattamento di agitazione e aggressività croniche associate a patologie cerebrali. Nel tempo si sviluppa tolleranza agli effetti sedativi (e si può sviluppare acatisia, che può essere scambiata per agitazione) e si tende ad aumentare la dose per mantenere la sedazione. È indicato, quindi, stabilire dei termini massimi (ad es., 4 settimane) della durata del trattamento con neurolettici o

206 NICE, cit., 2005.

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con BDZ (al di fuori delle psicosi). Oltre questo periodo si deve valutare se l’agitazione o l’aggressività sia cronica, impostando di conseguenza un altro piano di trattamento.

Indicazioni sulle procedure: NICE, ecc

I rischi maggiori della sedazione rapida sono: depressione o arresto respiratorio; complicazioni cardiovascolari o collasso; crisi epilettiche; distonie.

Scheda 8. Capacità dei medici che prescrivono la sedazione rapida

I medici dovrebbero:

Avere familiarità con le proprietà delle benzodiazepine e dei loro antagonisti, degli antipsicotici, antimuscarinici e antistaminici

Essere in grado di valutare il rischio associato alla sedazione rapida, specialmente quando il paziente è molto eccitato e quando può avere assunto sostanze, essere disidratato o fisicamente malato

Conoscere gli effetti cardiovascolari della somministrazione acuta dei sedativi Conoscere l’importanza del controllo dei parametri vitali e del mantenimento

della pervietà delle vie aeree Essere preparato all’uso dei mezzi di rianimazione

In ogni caso non esistono trattamenti farmacologici specifici per il comportamento aggressivo o violento, quindi è usata una sedazione aspecifica. In generale, la somministrazione i.m. agisce più rapidamente di quella per os. Anche la somministrazione sublinguale agisce più rapidamente di quella orale.

Quando è necessaria una terapia farmacologica, i fattori di primaria importanza sono: disponibilità di formulazioni im, la rapidità d’azione, l’anamnesi farmacologica, la probabilità che il farmaco produca una sedazione clinicamente utile, la bassa probabilità di effetti collaterali intollerabili o pericolosi, le preferenze del paziente e la disponibilità di una formulazione liquida.

Il lorazepam sembra essere una buona scelta nel trattamento di un episodio acuto di agitazione, in particolare se non è nota la causa. Di tutte le BDZ è l’unica assorbita in modo attendibile quando somministrata i.m. La dose può variare tra 0,5 e 2 mg ogni 1-6 ore. Una preoccupazione possono essere le reazioni paradosse alle BDZ (ostilità o violenza), ma sono rare. La possibilità che la causa dell’agitazione sia l’astinenza da alcol o da sedativi è un altro punto a favore dell’uso del lorazepam; in questo caso, infatti, l’uso di NL non è ottimale e può abbassare la soglia epilettogena.

Uso del lorazepam nella gestione acuta di agitazione o aggressività207

1. iniziare il lorazepam – 1-2 mg per os o im

2. ripetere la dose ogni ora finché l’agitazione e l’aggressività non siano controllate

3. se si deve somministrare la dose ev, iniettare lentamente (non superare 2 mg/min per evitare depressione respiratoria e il laringospasmo)

4. se il paziente non è più agitato o violento, mantenere la dose a un massimo di 2 mg per os o im ogni 4 ore

5. se il paziente non è agitato o violento per 48 ore, scalare del 10% della dose giornaliera totale massima

6. se l’agitazione o la violenza ricompaiono, rivalutare l’eziologia e considerare un altro

207 S.C. Yudosfky e al., Pharmacological management of aggression in the elderly. J. Clin. Psychiat., 51 (suppl. 10), 22-28, 1990.

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farmaco più specifico per gestire l’aggressività cronica

7. dopo 6 settimane, se il lorazepam non può essere ridotto senza ricomparsa di agitazione o aggressività, rivalutare e rivedere il piano di trattamento per includere un farmaco più spcifico per la gestione di disfunzioni comportamentali croniche

Tutti i neurolettici danno sedazione se dati in dosi sufficienti. L’aloperidolo è stato molto usato nell’agitazione e nei comportamenti aggressivi. I suoi vantaggi su altri NL come la CPZ sono che causa meno ipotensione, meno effetti anticolinergici e che riduce meno la soglia epilettogena. È però meno sedativo della CPZ o di altri NL tipici. Oltre all’azione sedativa può essere utile l’azione antipsicotica dei NL, ma questa si manifesta lentamente.

Uso dell’aloperidolo nella gestione acuta di agitazione e aggressività208

1. iniziare l’aloperidolo – 1 mg per os o 0,5 mg ev o im ogni ora

2. aumentare la dose di 1 mg ogni ora finché agitazione e aggressività siano controllate

3. somministrare 2 mg per os o 1 mg ev o im ogni 8 ore

4. quando il paziente non è agitato o violento per almeno 48 ore, scalare del 25% della dose massima giornaliera

5. se l’agitazione o la violenza ricompaiono, rivalutare l’eziologia e considerare un altro farmaco più specifico per gestire l’aggressività cronica

6. non somministrare per più di 6 settimane – a meno che l’agitazione e l’aggressività siano secondarie a psicosi

L’uso di alte dosi di NL può provocare più effetti collaterali, compresa l’acatisia che, di per sé, aumenta l’irritabilità e non è più considerata una pratica terapeutica accettabile.209 La mania acuta può essere efficacemente e rapidamente controllata dai NL. Basse dosi di NL sono usate per controllare l’aggressività negli anziani. È diffuso l’uso di NL per controllare il comportamento nel ritardo mentale, ma efficacia e sicurezza di tale trattamento non sono sicuramente dimostrate.210

Data la disponibilità dei NL atipici, l’uso dei NL tipici non è più considerato “best practice” per le principali condizioni che possono contribuire all’agitazione.211

NL ATIPICI212

La US Food and Drug Administration (FDA) ha approvato nuove formulazioni per via intramuscolare di farmaci antipsicotici di seconda generazione, che può essere utilizzato per calmare i pazienti agitati213. Lo Ziprasidone i-m. è approvato per l’agitazione associata alla schizofrenia e l’olanzapina e l’aripiprazolo i.m. sono stati approvati per l'uso nell’agitazione associata alla schizofrenia o alla mania.

208 S.C. Yudosfky e al., cit., 1990.

209 P.F. Buckley, The Role of Typical and Atypical Antipsychotic Medications in the Management of Agitation and Aggression, J Clin

Psychiatry 1999;60[suppl 10]:52–60210

L. Citrome e J. Volavka, cit., 1997.211

G.W. Currier e A. Trenton, Pharmacological treatment of psychotic agitation, CNS Drugs, 16, 219-228, 2002.212

L. Citrome, Aggression, e-medicine, 6 novembre 2010, http://emedicine.medscape.com/article/288689-overview 213

Citrome L., Comparison of intramuscular ziprasidone, olanzapine, or aripiprazole for agitation: a quantitative review of efficacy and safety. J Clin Psychiatry. Dec 2007;68(12):1876-85.

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Lo ziprasidone i.m. è efficace nella dose di 10-20 mg e la concentrazione plasmatica raggiunge il picco in 30-45 minuti (8 ore per os). Il miglioramento clinico, con la dose di 20 mg, tende ad aumentare nelle due ore successive e si mantiene per circa 4 ore. Gli effetti collaterali più comuni sono nausea, cefalea e vertigini. La dose raccomandata è di 10-20 mg al bisogno, ripetibile ogni 2 (10) o 4 (20) ore, fino a un massimo di 40 mg al giorno. L’aumento del QT è paragonabile a quello descritto per la formulazione per os e a quello osservato per l’aloperidolo e non è considerato un ostacolo clinico.

L’olanzapina i.m. è efficace, alla dose di 10 mg, nel trattamento dell’agitazione in pazienti con schizofrenia, mania o demenza e agisce in circa 15-30 minuti (3-6 ore se somministrata per os). Nei casi di demenza sono state usate dosi più basse (2,5-5 mg), tuttavia l’uso in questi casi non è approvato dalla FDA. Non sono stati riscontrati allungamenti del QT.

L’aripiprazolo i.m. è efficace nell’agitazione nei casi di mania o schizofrenia alla dose di 10-15 mg. Non si sono evidenziati prolungamenti del QT.

La quetiapina sembra ridurre l’ostilità e l’aggressività nella schizofrenia acuta.

Questi NL i.m. hanno un’efficacia paragonabile all’aloperidolo, con minori effetti collaterali. Sono indicati nel trattamento di pazienti con agitazione associata a psicosi, mentre il farmaco di scelta in generale nel breve termine rimane il lorazepam i.m.

Nel caso che il paziente accetti la terapia orale è stata suggerita come migliore alternativa all’aloperidolo im un’associazione 2 mg di risperidone soluzione orale e di 2 mg di lorazepam214. In effetti, ci sono dati indicanti che una BDZ e un NL atipico sono superiori ai NL tipici nella riduzione dell’eccitamento, dell’ostilità e dell’aggressività; per un trattamento a più lungo termine, la clozapina ha un effetto antiostilità maggiore dell’aloperidolo o del risperidone215.

Inoltre, mentre l’agitazione nell’anziano ha un’eziologia molto varia, i rischi del trattamento con BDZ o NL tipici sono alti, per cui gli atipici possono essere una valida alternativa in fase acuta216.

Tabella x

Farmaci indicati in base all’eziologia217

Orali

Prima scelta

Orali

Alternative

Parenterali

Prima scelta

Parenterali

Alternative

Eziologia medica generica

NLtapbdz

NTtapBdz

Bdz+NLtapIntossicazione da sostanzestimolanti bdz Bdz+NLtpa

NLtpabdz Bdz+NLtpa

NLtpaalcol bdz Bdz

214 G.W. Currier e G.M. Simpson, Risperidone liquid concentrate ond oral lorazepam versus intramuscolar haloperidol and

intramscolara lorazepam for treatment of psychotic agitation, J. Clin. Psychiat., 62, 153-7, 2001.215

L. Citreome e al., Effects of clozapine, olanzapine, risperidone and haloperidol on ostility among patients with schizophrenia, Psychiat. Serv., 52, 1510-4, 2001.216

D.L. Zimbroff, cit., 2003.217

M. H. Allen e al, The Expert Consensus Guideline Series: treatment of behavioral emergencies, Postgraduate Medicine, 110(special no), 1–88, 2001

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allucingeni bdzBdz+NLtpa

bdz Bdz+NLtap

oppioidi * * * *Altro/sostanza sconosciuta

* * * *

Disturbo psichiatrico

Dati mancanti bdz Bdz+NLtapBdz+NLA

BdzBdz+NLtpa

Schizofrenia Bdz+NLtpaBdz+NLA

RisperidoneNLtpa

olanzapina

Bdz+NLtpa NLtpa

Mania Bdz+NLtpaBdz+NLA

BdzNLtpa

OlanzapinaRisperidone

Bdz+NLtpaBdz

NLtpa

Depressione psicotica

Bdz+NLABdz+NLtpa

BdzRisperidone

Bdz+NLtpa bdz

Disturbi di personalità

Bdz+NLABdz+NLtpa

Bdzrisperidone

Bdz+NLtpa bdz

PTSD bdz bdz Bdz+NLtpa

12.2 La gestione del comportamento cronicamente aggressivo

12.2.1 Strategie generali

Una piccola minoranza di pazienti è cronicamente aggressiva. Pertanto, è necessaria una strategia per ridurre i comportamenti aggressivi di queste persone.

In primo luogo, si deve approfondire la loro diagnosi, in modo da trattare nel modo più efficace il loro disturbo, e tenere conto del possibile contributo dell’abuso di sostanze, dei disturbi della personalità e dei deficit cognitivi (i pazienti cronicamente violenti è più probabile abbiano deficit neuropsicologici e segni neurologici sfumati)218. È molto utile cercare di comprendere psicologicamente il comportamento di una persona cronicamente violenta, per pianificare una strategia per gestirlo. Deve essere valutato anche il contributo dei fattori ambientali.

12.2.2 Interventi farmacologici219

Gli schizofrenici cronicamente violenti possono ricevere alti dosaggi di NL senza chiare indicazioni che ciò riduca l’incidenza dei comportamenti violenti. Inoltre, l’uso prolungato della sedazione per “coprire” l’agitazione e l’aggressività comporta alcuni svantaggi. Ad esempio, quando si usano neurolettici per gestire l’agitazione e l’aggressività, possono manifestarsi effetti collaterali quali eccessiva sedazione, ipotensione, confusione, sindrome maligna da neurolettici, parkinsonismo, acatisia, distonie e discinesia tardiva. Se si somministrano BDZ per periodi prolungati per la gestione dell’agitazione e dell’aggressività, gli effetti collaterali quali eccessiva sedazione, turbe motorie, scarso coordinamento, turbe dell’umore, compromissione della memoria, confusione, dipendenza, sovradosaggio, sindromi da astinenza e violenza possono complicare il trattamento220.

218 L. Citrome e J. Volavka, cit., 1997.

219 L. Citrome e J. Volavka, cit., 1997; L. Citrome e J. Volavka, Pharmalogic treatments for psychotic offenders, in: Violence, crime and

mentally disordered offenders, S. Hodgins e R. Mueller-Isberner eds., Wiley, 2000; L. Citrome e J. Volavka, cit., 2002.220

S.C. Yudosfky e al., cit., 2000.

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Un aspetto comune tra gli agenti proposti come antiaggressivi è la loro azione sul sistema serotoninergico. Questo sistema è coinvolto nella modulazione del comportamento aggressivo in molte specie e si suppone che una sua alterazione sia implicata nella violenza impulsiva anche dell’uomo.

Esistono crescenti indicazioni,221 anche da ricerche controllate, che la clozapina riduce l’aggressività cronica nella schizofrenia e che la riduzione dell’ostilità e dell’aggressività sembrano essere indipendenti dall’effetto antipsicotico e sedativo.222 Da quando è stata introdotta, si è constatata una riduzione delle contenzioni in reparto, una maggior possibilità di dimissione di pazienti cronici e una riduzione dei ricoveri ripetuti. Le linee guida pubblicate in base a una ricerca multicentrica (PORT) raccomandano la clozapina come farmaco di prima scelta nei pazienti schizofrenici cronicamnete aggressivi.223 È stata segnala224ta anche l’utilità nel trattamento dei disturbi borderline. La clozapina però abbassa notevolmente la soglia epilettogena per cui è sconsigliata nei pazienti con patologie cerebrali.

È in genere clinicamente indicato limitare l’uso dei neurolettici per il trattamento di agitazione e aggressività direttamente connesse a psicosi.

Anche il risperidone, la quetiapina e l’olanzapina sembrano avere, nel lungo termine, un’efficacia mirata sull’aggressività e sull’ostilità negli schizofrenici, maggiore dell’aloperidolo.225

Nel trattamento a lungo termine dell’aggressività cronica gli atipici sono i farmaci di prima scelta (in particolare la clozapina), ma i tipici possono essere utili come potenziamento, in caso di fallimento degli atipici. Le preparazioni long-acting sono utili in caso di scarsa compliance.

I beta-bloccanti226, in particolare il propranololo, sono stati usati nel trattamento del comportamneto aggressivo, in particolare in caso di malattie cerebrali organiche. La comparsa dell’effetto anti-aggrssivo è molto variabile nel tempo (da 12 ore a 2 mesi), in medi dopo 4-8 settimane dal raggiungimento della dose efficace, che deve essere raggiunta gradualmente e sulla quale non c’è accordo unanime. I beta-bloccanti sono stati usati come potenziatori nella terapia della schizofrenia e si è riscontrata una riduzione dei sintomi, compresa l’aggressività. Il problema principale con questi farmaci è l’alta frequenza di effetti collaterali cardio-vascolari (bradicardia e ipotensione). Il pindololo è il farmaco che ha meno effetti cardiovascolari avversi, essendo un agonista parziale simpaticomimetico.

Gli stabilizzatori, sebbene non siano prototipicamente dei farmaci antiaggressivi, sono usati comunemente in clinica come tali.227

Ci sono dati228 che indicano la loro utilità nel ridurre i comportamenti aggressivi; non tutti gli stabilizzatori, però, sono uguali. Ci sono dati a favore di

221 P.F. Buckley, cit., 1999; Citrome L, Volavka J, Czobor P, et al. Effects of clozapine, olanzapine, risperidone, and haloperidol on

hostility among patients with schizophrenia. Psychiatr Serv. 2001;52:1510-1514; Krakowski MI, Czobor P, Citrome L, Bark N, Cooper TB. Atypical antipsychotic agents in the treatment of violent patients with schizophrenia and schizoaffective disorder. Arch Gen Psychiatry. 2006;63:622-629.222

J. Volavka e al., Clozapine effects on hostility and aggression in schizophrenia. J Clin Psychopharmacol, 13:287–289, 1993223

Lehman AF, Steinwachs DM, and the PORT Co-Investigators. Translating research into practice: the schizophrenia PORT treatment recommendations. Schizophr Bull. 24, 1–10, 1998.224

F. Benedetti e al., Low-dose clozapine in acute and continuation treatment of severe borderline personality disorder, J. Clin. Psychiat., 59, 103–107, 1998.225

P.F. Buckley, cit., 1999; J.W. Swanson e al., Effectiveness of Atypical Antipsychotic Medications in Reducing Violent BehaviorAmong Persons With Schizophrenia in Community-Based Treatment, Schizophrenia Bulletin, 30, 3-20, 2004; L.L. Citrome, cit., 2010.226

L.L. Citrome, cit., 2010.227

L.L. Citrome, cit., 2010.228

R.M. Jones e al., Efficacy of mood stabilisers in the treatment of impulsive or repetitive aggression: systematic review and meta-analysis, Br. J. Psychiat.,

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CBZ, valproato, fentoina e litio, ma anche contrari, per cui sono necessari ulteriori studi.

Il litio è utile nel ridurre l’aggressività nei pazienti maniacali. Può essere efficace nel controllo dell’aggressività e dell’autolesionismo dei pazienti con ritardo mentale. Non sembra utile negli schizofrenici.

La CBZ sembra essere utile in aggiunta ai neurolettici nei pazienti schizofrenici e può ridurre l’aggressività in un ampio spettro di disturbi (demenza, danni cerebrali).

Nella maggior parte dei casi, gli studi non sono controllati e sono possibili interazioni farmacocinetiche imprevedibili, ma l’utilità sembra esserci.229

Il valproato sembra ridurre l’agitazione nei pazienti bipolari o con personalità borderline. Può essere utile negli schizofrenici in associazione ai neurolettici. È usato nel trattamento dell’agitazione e dell’aggressività in un gran numero di disturbi medici.

È stato indagato in molti studi, ma al momento è stato pubblicato un solo studio in doppio cieco con risultati positivi.230

Il gabapentin può essere utile nel trattamento del discontrollo comportamentale.

Pertanto, i dati disponibili indican che gli stabilizzatori possono ridurre i comportamenti aggressivi in un ampio spettro di diagnosi. Il loro meccanismo d’azione com e antiaggressivi non è chiaro. Poiché la maggior parte degli studi è stata condotta usando gli stabilizzatori come potenziatori, alcuni effetti possono dipendere da interazioni farmacologiche non note con gli altri farmaci. 231

Non esistono dati positivi sull’uso di BDZ o di NL ad alte dosi nel trattamento del comportamento cronicamente aggressivo. Studi su pazienti con danni cerebrali hanno riscontrato che i beta-bloccanti possono essere utili nel ridurre l’aggressività, ma la loro utilità nei disturbi mentali funzionali è meno chiara.

Il trazodone può ridurre gli episodi di agitazione violenta in pazienti dementi o con ritardo mentale.

La fluoxetina può ridurre l’aggressività impulsiva nei pazienti con depressione, disturbi di personalità, schizofrenia o ritardo mentale. Ciò sembra valere anche per altri SSRI (citalopram, fluvoxamina).

Il buspirone può migliorare l’aggressività e l’autolesionismo nei pazienti con ritardo mentaleo con patologie cerebrali. L’agitazione può aumentare durante la fase iniziale del trattamento, per cui si deve iniziare con basse dosi (5 mg x 2/die) e aumentare di 5 mg ogni 2-3 giorni. Possono essere necessarie dosi da 45 a 60 mg/die e la latenza dell’azione terapeutica può essere di 3-6 settimane.

229 L.L. Citrome, cit., 2010.

230 L.L. Citrome, cit., 2010.

231 N. Huband e al., Antiepileptics for aggression and associated impulsivity, Cochrane Database of Systematic Reviews 2010, Issue 2.

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