agamben, nuda vita, oikonomia
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Agamben, nuda vita, oikonomia
di Andrea De Santis
1. L’argomento
La prima domanda da fare sarebbe: che senso ha isolare la nuda vita come problema filosofico?
Nuda vita indicherebbe, in maniera fin troppo facile a dirsi, un ipotetico grado zero, o grado minimo
della vita, vita in quanto tale, “semplice esistenza biologica”, come ci hanno detto, e richiamerebbe
immediatamente lo spettro di qualcosa d’altro, una vita vestita e presa in commerci di ogni tipo, più o
meno umana, più o meno parlante, la vita che conosciamo e che incontriamo ovunque, e di cui la nuda
vita rappresenterebbe, appunto, il residuo, o il fondamento, o la parte più intima.
Quando pubblica Homo Sacer nel 1995, Agamben non ha probabilmente in mente la fortuna editoriale
cui andrà incontro, né la maniera in cui alcuni concetti chiave presenti nelle sue riflessioni (lo stato
d’eccezione, la nuda vita stessa) sarebbero diventati i protagonisti collaudati di qualsiasi discorso
filosofico-politico della fine del millennio.
L’uso forte e ridondante della formula “nuda vita” comincia in Agamben con Homo Sacer (“protagonista
di questo libro è la nuda vita, la cui funzione essenziale nella politica moderna abbiamo inteso
rivendicare” scrive Agamben nell’introduzione) e resta il filo conduttore di tutte le ricerche sulla
sovranità, andando a scomparire quasi del tutto solo con l’ultimo libro, Il Regno e la Gloria. Ed è stata
senz’altro una scelta, da parte di Agamben, quella di usare come concetto strategico, quindi di mettere al
centro dei suoi discorsi, quello che era stato usato prima di lui piuttosto come la formula di un
problema-limite. (Va detto inoltre che l’uso sistematico del concetto di nuda vita nelle ricerche politiche
rappresenta per Agamben l’abito di una tematica che attraversa la sua riflessione sin dai suoi esordi).
Tra le fonti agambeniane, Benjamin aveva parlato di nuda vita alla fine della sua Critica della Violenza,
accusando la sacralizzazione, il mito che intorno a essa il pensiero borghese, nel suo lungo viaggio,
aveva creato, nello sforzo di stabilire un contrappeso alla violenza della forza rivoluzionaria che
percorre la storia: sacralizzare la vita per salvarsi la pelle. Heidegger aveva parlato, a più riprese,
dell’impossibilità di un’’ontologia della vita’, le cui condizioni sono piuttosto costrette ad una
“interpretazione privativa” del vivente che può tutt’al più ipotizzare qualcosa come un “nur-noch-
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lieben”, qualcosa come un “solo più vita” la cui consistenza ci è preclusa per ragioni essenziali. La vita
nuda, solo più vita, non è né semplice-presenza, né ancora un esser-ci. Allo stesso tempo, dice
Heidegger anticipando il punto dal quale si muoverà il discorso agambeniano, l’esser-ci non può essere
pensato “come un vivere … a cui si aggiunga, oltre al vivere, qualcos’altro”. L’uomo non è il vivente-
che-ha-il-linguaggio, almeno non in maniera così pacifica.
Hannah Arendt, le cui riflessioni nelle prime pagine di The Human Condition rappresentano il nucleo di
quel meccanismo “eccettivo” della politica occidentale di cui Agamben traccia una analisi pervasiva e
radicale, si sofferma abbondantemente sull’idea di una doppia struttura della vita dell’uomo. Tale
duplicità segna lo schema costante delle ricerche agambeniane. E’ Arendt a parlare per prima in maniera
netta di una frattura tanto insanabile quanto inapparente tra l’oikos, dove si tiene capo, si amministra, si
governa la vita nelle sue mute necessità biologiche, e la polis, luogo della vita politica, la “buona vita” di
Aristotele, che si gioca tra gli onori, gli scontri e le pubbliche parole. Avere linguaggio, avere politica,
storia, è ciò che rende realmente umana una vita, e la nuda vita è di tutto ciò il presupposto nascosto.
La politicità dell’uomo è qualcosa di aggiunto alla sua natura di essere vivente, ma questa aggiunta, o
congiunzione, non può essere tematizzata in nessun modo. Di più, la politicità dell’uomo, la sua vera
umanità, non ha nulla a che fare, né deve portare alcuna traccia, della sua animalità, ma anzi deve essere
da essa sempre ben distinta (come noto, nel passo della Politica cui fa riferimento Arendt, e che
Agamben cita in continuazione nel corso degli anni, Aristotele distingue la voce, contrassegno
dell’essere in vita, e comune a tutti gli animali, al linguaggio come proprio dell’uomo, ed è proprio il
linguaggio a fondare per l’uomo storia politica e tradizione).
E’ questo senso della nuda vita che Agamben prende e pone a punto di partenza delle sue ricerche
filosofico-politiche. Ciò che è in gioco, e tutto nello stesso tempo, non è solo una analisi dei
meccanismi attraverso i quali la politica occidentale nasce originariamente come luogo in cui la “vita
biologica” è catturata e nascosta, ma anche la critica alla fondamentale complicità tra politica e
metafisica:
La domanda: ‘in che modo il vivente ha il linguaggio?’ corrisponde esattamente a quella: ‘in che modo la
nuda vita abita la polis?’. Il vivente ha il logos togliendo e conservando in esso la propria voce, così come
esso abita la polis lasciando eccepire in essa la propria nuda vita. La politica si presenta allora come la
struttura in senso proprio fondamentale della metafisica occidentale, in quanto occupa la soglia in cui si
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compie l’articolazione fra il vivente e il logos. La ‘politicizzazione’ della nuda vita è il compito metafisico
per eccellenza…1
2. La nuda vita e i suoi abiti
Dunque il senso più generale della formula “nuda vita” usata da Agamben ricalca la definizione classica,
diciamo pure arendtiana, della nuda vita come “semplice esistenza biologica” contrapposta alla vita
politicamente qualificata. Tale scissione sarebbe all’opera sempre, in ogni ambito della nostra cultura, la
cui impresa principale consiste nel non lasciare alcuna traccia della sua pericolosa presenza. In questo
suo primo senso, più ampio e originario, la nuda vita ha direttamente a che fare con l’oikonomia
(anch’essa intesa nel senso arendtiano): nuda vita è affare non politico, muto, biologico, legato alle
pratiche che presiedono alle necessità della sua cura e conservazione. Sono argomenti noti: a questo
livello esiste una circolarità, quasi una interscambiabilità, tra i concetti biologico-economico-vivente,
che rappresentano la sponda sulla quale si stagliano la politica e la metafisica occidentali.
Nelle ricerche di Homo Sacer e di Stato di Eccezione, però, la nuda vita, incrociandosi con Schmitt e
Benjamin, diventa un vero e proprio paradigma fondamentale, perdendo la sua connotazione
arendtiana e diventando, più fortemente, “il nome più generale” dei problemi che di volta in volta
Agamben affronta. Dovendo mostrare in tutti i suoi tentacoli la perniciosa e duratura alleanza tra
politica e metafisica occidentali, occorrerà innanzitutto portare i termini su un unico campo di gioco,
sempre in bilico tra le due sponde: nuda vita diventa il nome metafisico che serve ad Agamben per
condurre le sue riflessioni alla loro dovuta altezza, mostrando la centralità del meccanismo
dell’eccezione e la sua portata, il suo essere il dispositivo originario della nostra tradizione.
Conosciamo la teoria di Schmitt: la possibilità del potere e della legge, la sua specifica forza, riposa nella
possibilità per il sovrano - inteso tanto come persona realmente esistente in un dato momento storico,
sia come luogo logico-giuridico - di tracciare sulla “vita effettiva” (così la chiama Schmitt, cioè la vita
presa in una sua ipotetica consistenza anomica) la normalità, cioè il campo di applicabilità della legge
stessa: “prima dev’essere stabilito l’ordine, solo allora ha un senso l’ordinamento giuridico, e sovrano è
colui che decide in modo definitivo se questo stato di normalità regna davvero”. Il sovrano agisce di
qua dal diritto, si muove in una esteriorità originaria, non riferibile, a partire dalla quale, tracciando una
linea, crea un fuori e un dentro, che costituisce la forza della legge. La possibilità che la legge si applichi ai
casi della vita riposa nel fatto che il sovrano, il diritto, ha “marcato” la vita, proprio nel senso col quale si potrebbe dire
1 G. Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita. Torino, Einaudi 1995. p.11 dell’introduzione.
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“ha stregato”, e l’ha resa riferibile ad un campo di normalità. Ma chi è il sovrano? Sovrano è colui che può
decidere lo stato di eccezione, cioè colui che, nel caso estremo in cui “un fatto della vita” sia tale da non
poter essere ricondotto in nessun modo al diritto che la normalizza, può sciogliere l’ordinamento
proclamando lo stato d’eccezione, attraverso il quale fronteggiare il pericolo, in nome - come dice
Schmitt - della conservazione dell’ordinamento stesso.
La connessione tra lo stato di eccezione schmittiano e l’originaria cattura della nuda vita nello spazio
politico è evidente. La nuda vita, l’anomia, dice Agamben, è al contempo l’origine, il prodotto e la posta
in gioco della nostra tradizione politica. Ciò che è meno evidente è che la vita di cui qui si comincia a
parlare non ha più niente di vivente: non è più la nuda vita che cercavamo, con Arendt, di maneggiare
come traccia biologica della vita, ma diventa, nello stato d’eccezione eretto a fondamento, un
paradigma, un fantasma e quasi uno slogan: diventa quello che è, cioè un limite metafisico, oppure un
luogo logico. All’esposizione di tale luogo, sostiene Agamben, allo smascheramento del suo artificio
originario, è legata la possibilità di revocare la nostra intera tradizione filosofico-politica, e la sua
millenaria oppressione.
La generalità che assume l’idea di nuda vita, e la contiguità con molti altri discorsi in voga, primo fra
tutti la biopolitica e Foucault, ha fatto sì che si facesse confusione. Senza dilungarci troppo, va detto qui
che - anche se Agamben stesso vi fa continuo riferimento, e spesso mischia le carte – nulla è più
distante da questo senso paradigmatico e onnicomprensivo della nuda vita agambeniana, quanto “la vita
governata” di cui cerca di parlare Foucault nelle sue ricerche sulla governamentalità. Come ha mostrato
nei suoi corsi degli anni ’78 e ’79, il biopotere funziona proprio, e tanto più a fondo, in quanto lavora
economicamente, dinamicamente, sulla vita degli individui proprio in quanto essa è vissuta, non in quanto
può anche essere nuda: così come il potere funziona tanto meglio sul corpo vivente dei governati (li si
chiami o meno popolazione) che sul suo fantasma, allo stesso modo la vita che il biopotere gestisce non
sa nulla della sua interna scissione tra zoe e bios, ma splende di una unità e una scomponibilità che
finora solo il capitalismo è stato capace di sfruttare.
La nuda vita diventa quindi con Agamben ad un tempo concetto-limite e materia dell’agire politico; si
tratta di un’immagine, un’idea, che all’occorrenza racconta i molto concreti avvenimenti della nostra
storia. Quando parla del campo come “paradigma biopolitico della modernità”, Agamben descrive
lucidamente la maniera in cui, negli ultimi secoli, e fedelmente a un patto millenario, il potere, mentre
dal lato “secolare” andava organizzando economicamente la propria presa sulla vita degli individui,
agiva parallelamente, su un livello di più difficile estrazione, concentrando il suo carattere e le sue
maglie intorno alla nuda vita intesa metafisicamente: la biologizzazione del politico, di cui Foucault
cercava di tracciare i tratti generali alla metà degli anni settanta, è analizzata da Agamben come
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fondamentale scelta di campo e orizzonte strategico, più che come pratica. Lo stesso Homo Sacer,
l’ambigua figura giuridica che Agamben sceglie nel diritto romano per dar titolo alla sua opera,
rappresenta la condizione moderna dell’uomo, sul quale si disegna la doppia cattura della nostra
tradizione politico-metafisica (l’esposizione, in quanto corpo vivente, alla morte - ma anche alla paura,
al mutuo, al lavoro, alla noia – e in quanto corpo politico alla presa del potere sovrano), ma con una
intensità tale che, a differenza forse di ogni epoca precedente, i confini tra esposizione alla morte e
esposizione al potere sovrano si sovrappongono perfettamente, mentre la relazione stessa con tale
duplice cattura è inservibile, perché coestensiva allo stesso essere-in-vita.
3. oikonomia
Nell’ultimo libro del cantiere Homo Sacer, uscito nel 2007, la nuda vita, lo abbiamo detto, perde la sua
centralità. Il libro propone una “genealogia teologica dell’economia e del governo”, e, in sintonia col
metodo agambeniano, ricostruisce, attraverso una mole di fonti e riferimenti enorme, le peripezie di
quella “doppia struttura” della nostra tradizione politica che Agamben ci aveva raccontato nelle
precedenti ricerche. Con un passo in avanti fondamentale.
Nelle ricerche sulla sovranità il luogo dell’indagine era quello politico-metafisico dello stato di
eccezione: la pinza in cui era stretta la riflessione portava i nomi “nuda vita/politica”, “anomia/diritto”,
e il luogo dell’articolazione era, metafisicamente parlando, uno spazio vuoto:
Ciò che l’’arca’ del potere contiene al suo centro è lo stato di eccezione – ma questo è essenzialmente uno
spazio vuoto, in cui un’azione umana senza rapporto col diritto ha di fronte una norma senza rapporto
con la vita. (…) Ma se è possibile provarsi ad arrestare la macchina, esibirne la finzione centrale, ciò è
perché fra la vita e la norma non vi è alcuna articolazione sostanziale. (…) Esibire il diritto nella sua non-
relazione alla vita e la vita nella sua non-relazione al diritto significa aprire fra di essi uno spazio per
l’azione umana, che un tempo rivendicava per sé il nome di “politica”2.
In Il Regno e la Gloria Agamben sposta l’asse del discorso dal meccanismo dell’eccezione sovrana a
quello dell’articolazione economica tra Regno e Governo. La storia della politica occidentale, dice
Agamben, risulta dal gioco incessante tra due paradigmi, eterogenei e irriducibili: da una parte
2 G. Agamben, Stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri 2003. pp. 110-112. La “filosofia che viene” di Agamben ha appunto a che fare con la possibilità di un pensiero e di un’etica che spodesta lo stato d’eccezione e procede in una reale, vivente indistinzione tra nuda vita e politica. Si tratta di un tema che nelle prime ricerche agambeniane era quello della “voce umana” (cfr. in particolare G. Agamben, Infanzia e storia, Torino, Einaudi 1978, e Il linguaggio e la morte, Torino, Einaudi 1982.).
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l’economia, cioè l’aspetto esecutivo, amministrativo del potere, nel suo essere un ordine “immanente,
non epistemico” degli affari del mondo, dall’altra la politica in senso stretto, il potere nel suo aspetto
trascendente e rituale, “la legge”, “la sovranità”. Ciò che la nostra epoca ha mostrato abbondantemente,
e che le analisi di Foucault avevano descritto per tempo, è che, nell’esistenza del potere e di ogni spazio
politico, centrale è non tanto la legge, quanto il suo effettuarsi. Il Governo, che pure è sempre stato
considerato una derivazione della sovranità, cioè del Regno, è in realtà la sua condizione: solo perché
esiste l’economia attraverso la quale si dà, storicamente, una presa della legge sui casi della vita, solo
grazie a questo la legge e la sovranità possono avere senso. Vero mistero del potere non è la sovranità e
il suo fondamento nascosto, ma l’evidenza dell’economia, la semplice ricorsività attraverso la quale
esiste un’ordine immanente alla vita, che alla luce del sole la gestisce e la trattiene in una tradizione di
assoggettamento.
L’elemento mistico intorno al quale si gioca la gigantomachia della vita e della sovranità è tenuto
insieme da tutti quegli apparati, dalla burocrazia alle questure ai supermercati, in cui la vita e la legge si
incontrano per davvero. Lo spazio vuoto tra la casa e la città, tra la vita curata e amministrata e la vita
politicamente qualificata o soggiogata, non è uno spazio vuoto, ma economia. Come Agamben conclude in uno dei
passi più densi del libro: “Il vero problema, l’arcano centrale della politica non è la sovranità, ma il
governo, non è Dio, ma l’angelo, non è il re, ma il ministro, non è la legge, ma la polizia – ovvero, la
macchina governamentale che essi formano e mantengono in movimento”3.
5. Una vita ancora più nuda
Abbiamo finora isolato due modi in cui Agamben usa il concetto di nuda vita, che alla fine sono uno la
diretta conseguenza dell’altro. Il primo e più generico è quello arendtiano di vita biologica, la scissione
originaria tra la casa e la città, tra la vita nuda e quella politicamente qualificata; il secondo è la
trasformazione della vita biologica in un fantasma, uno spazio operativo che fa da base all’eccezione
sovrana-metafisica e ne inaugura le sorti. C’è però un altro significato forte di nuda vita, che Agamben
lascia scorrere qua e là nelle sue riflessioni, e che a tratti sembra essere il vero problema di cui vorrebbe
parlarci. Cerchiamo di tracciarne i contorni velocemente. Un passo aristotelico cui Agamben ricorre
spesso, oltre a quello già citato della Politica, è quello in cui, nel De Anima, con un gesto parallelo a
quello col quale nella Politica distingue l’uomo dagli altri viventi, Aristotele si trova a distinguere il
vivente dal non vivente. L’animato, ciò che porta in sé il principio della vita, si distingue dall’inanimato
3 G. Agamben Il Regno e la Gloria, Vicenza, Neri Pozza 2007, p. 303.
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per il fatto di vivere. Però vivere si dice in molti modi, dice Aristotele: vive un vegetale, un pensiero,
un’affezione, un movimento e così via. Così Aristotele isola una facoltà minima comune a tutti i viventi,
senza la quale non si può dire che essi vivano: la facoltà nutritiva. Come osserva Agamben, e Heidegger
prima di lui, non c’è qui alcuna definizione della vita o del suo principio: Aristotele può solo isolare un
minimo comun denominatore, un minimo di vita, un appena più che vita, una vita che è già in qualche
modo la vita biologica, la nuda vita intesa come vita biologica, che ritroviamo nella definizione
dell’uomo. Come se, appunto, non fosse possibile pensare la vita al di qua dal suo commercio col
mondo, le sue facoltà, la sua consistenza economica. Ancora di più, come se non fosse possibile
pensare la vita al di là della sua ipoteca antropomorfa, di cui la scelta della facoltà nutritiva rappresenta il
dazio, la stessa ipoteca che definisce l’uomo come “animalità più linguaggio” senza poter tematizzare né
l’uno né l’altro. Perché, anche se non sapremmo proseguire, è proprio così come dice Aristotele: anche
una pianta vive, anche un pensiero, un’affezione…
Ora, la filosofia di Agamben è costellata di figure, veri e propri personaggi, che cercano di render
testimonianza di una possibile forma di vita che partecipi di una vita-limite di là dal suo commercio col
mondo, di là da ogni sua consistenza biologica. Il musulmano dei campi di sterminio, di cui parla in uno
dei suoi libri più discussi, ne è l’esempio. Ma anche la figura del malinconico, o la ripresa della
trattazione heideggeriana della noia come “stato d’animo fondamentale” che interrompendo il contatto
immediato tra l’uomo e il suo mondo mostra l’aperto di cui è custode. Agamben arriva a dire che il
musulmano, l’opacità inattingibile che il musulmano incastra al centro della logica mortifera del campo,
rappresenta forse “una forma inaudita di resistenza”, proprio perché la sua esistenza muove di là sia
dalla presa sulla vita che dall’economia di morte che il campo, avamposto della nostra tradizione
politica, istituisce.
Come andrebbe pensata una nuda vita completamente non riferibile e impersonale? Come assenza di
mondo tout-court, come non-vita? Come il luogo in cui il soggetto classico assiste al suo dissesto,
scopre l’impersonalità della vita come ciò che ha di più proprio? Agamben non lo dice mai
direttamente, esponendosi alle critiche più feroci. Certo è che se l’originaria natura irriducibilmente
economica della vita è il primo segno del suo destino di oppressione, o anche solo della sua
catalogazione metafisica, nascosta e funzionante, ogni forma di conflitto che la vita possa muovere
passerà anche dalla sua capacità di trattenere il fiato, di interrompere per un attimo il suo inesorabile
commercio.
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5. Conclusione
Dunque, di nuovo, la nuda vita è propriamente qualcosa? E se sì, come dovrebbe essere intesa? Finché
se ne parla, davvero la nuda vita sembra essere una possibile natura originaria, liscia, integra della vita
dell’uomo, sulla quale interviene, ad un certo punto, l’incantesimo maligno del linguaggio e della
politica. Macchina biopolitica, macchina antropologica, sono i nomi che Agamben dà ai progetti che,
rinnovando il patto col meccanismo eccettivo che fonda la nostra cultura, mantengono in moto
l’articolazione e l’assoggettamento del vivente nelle parole e nella politica che abbiamo. Per questo la
filosofia che viene, dice Agamben, ha a che fare con il lavoro paziente che ovunque riconosce e
disarticola quello che la nostra tradizione filosofica ha preteso unire, nascondendone lo iato centrale.
Questo il grande telos di Agamben. In questo modo, seguendo le sue parole, ad ogni riorganizzazione
della legge sul corpo vivo dell’uomo, corrisponderebbe la possibilità di un Ingovernabile (sic) che
rappresenta ad un tempo la posta in gioco e lo spazio di intervento della legge, quanto la bandiera degli
oppressi, lo scoglio sul quale si ricompone la loro estraneità alla presa di questo potere e di questo
linguaggio. Dunque esiste un ingovernabile, una sostanza vivente che non ha nulla a che fare col suo
riferimento alla legge o all’economia che la gestisce? Bisognerebbe saperlo. L’eterogeneità di vivente e
politica, vivente e linguaggio, oikos e polis, rappresentano la speranza e la garanzia che un giorno tutto
questo finirà.
Se non ci si accontenta di questa speranza, occorre fare attenzione ed indagare il significato della
centralità concettuale che nell’ultimo Agamben l’oikonomia assume davanti alla nuda vita. Provare a
percorrere lo spazio vuoto tra la casa e la città pensandolo – metafisicamente - come fosse uno spazio
veramente vuoto, è diverso dal percorrerlo accorgendosi che tale spazio è in effetti vuoto solo per le
lenti troppo spesse del metafisico, mentre è invero il luogo concreto e misterioso in cui si organizza e
spende una vita, coi cento dispositivi che, mentre la nutrono, la stringono in un destino inafferrabile.
Una vita che non porta alcun segno né della sua nudità sacrificata, né di quella da riconquistare.
Alla fine di Stato di Eccezione Agamben scrive:
Non vi sono, prima, la vita come dato biologico naturale e l’anomia come stato di natura e, poi, la loro
implicazione nel diritto attraverso lo stato di eccezione. Al contrario, la stessa possibilità di distinguere vita
e diritto, anomia e nomos coincide con la loro articolazione nella macchina biopolitica. La nuda vita è un
prodotto della macchina e non qualcosa che preesiste ad essa.4
4 G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p.112.
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La possibilità di disattivare la macchina governamentale (è questo, nientemeno, il punto) è legata alla
necessità di mostrarne il vuoto centrale, la finzione della sua origine. Essa non può tendere al ripristino
di una posizione originaria, che risulterebbe altrettanto fittizia del suo nascondimento nella macchina, e
che, soprattutto, non esiste. La ricerca iniziata rivendicando “il ruolo centrale che la nuda vita ha nella
nostra politica” non ha come contenuto la sua emancipazione, ma la destituzione della tradizione che,
trattenendo la nuda vita in una eccezione, ne ha prodotto il mito.
C’è un risvolto molto concreto del lavoro che Agamben svolge intorno al problema della nuda vita. A
studiare i lavori del cantiere Homo Sacer si vede bene che, tra continue oscillazioni e temibili peripezie
filologiche, Agamben vuol mostrare fino in fondo come, nel suo essere il paradigma fondamentale della
nostra tradizione filosofica e politica, la nuda vita non esiste. L’apparente opposizione tra nuda vita e
politica, tra casa e città, non è che il trucco attraverso il quale, cercando continuamente le tracce di una
cesura alla quale non abbiamo accesso, possiamo continuare a non fare uso della loro effettiva
indistinzione, e restare, prendendo tutto molto sul serio, nel miraggio di una condizione ulteriore che
sarà sempre dell’avvenire, come il famoso sole, e davanti alla quale non possiamo che esitare. La fatica
di Agamben, il suo ingombrante telos, si concentra intorno alla possibilità di una filosofia che viene di
là dallo scacco che l’eccezione della nuda vita gli ha durevolmente teso. Con lei, detto esplicitamente,
smetterebbe di esistere ogni tentativo filosofico che cerca di isolare (attraverso la lente, più o meno
consapevolmente utilizzata, della “vita umana”), un possibile limite o grado zero della vita, o
dell’ontologia – come se in esso si esponesse un punto filosofico, l’ultimo, che è sempre anche il primo.
La nuda vita (o il problema che con tale formula Agamben rintraccia e decodifica) non esiste, ma esiste,
e non smette di funzionare, la macchina che ne produce il mito e fa sì che essa appaia di volta in volta
effettivamente come “qualcosa”; macchina che a ben vedere funziona più come un sortilegio che come
una macchina vera e propria. Il fatto che ancora possiamo insistere su questo problema, ritrovandocelo,
secondo il vecchio meccanismo, sempre di nuovo davanti, mostra che, contrariamente a quanto
avevamo sperato, alla filosofia ancora non basta risalire un arcano, ed esibirne il vuoto centrale, perché
l’incantesimo che la trattiene smetta di funzionare.
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Per una cura dell’habitat
Pensieri sull’economia e sull’imperativo della crescita
di Stefano Maschietti
A Ste, Giggio e a xx
Augusta e pontefice la nostra civilità vuole crescere. Lo vuole tanto nelle forme di governo autoritarie
(Cina), quanto nelle più diluite e democratiche governances (EU, USA). Lo vuole avendo incorporato il
senso creazionistico della tradizione religiosa che l’ha unificata e globalizzata. Lo vuole perché, ora che
il disincanto, la relativizzazione dei valori e la dissoluzione dei criteri di distinzione assiologica tra i
diversi mondi della vita hanno reso quello economico il solo ordine integralmente pervasivo del vivere
stesso, l’imperativo della crescita resta l’unica coazione organica dei comportamenti di massa1.
Parlare in termini di decrescita o di diverso crescere, e tentare di farlo in prospettiva realistica, è impresa
ardua, perché mai un ultimo dogma è stato così restio a cedere alla critica, quanto quello dominante un
contesto di vita, l’economia, che si è rivelato onnipervasivo proprio perché capace di relativizzare ogni
fattore transitante sul suo territorio semantico.
L’«economia», intesa come allocazione calcolata delle risorse disponibili in un contesto di scarsità
percepita, funzionalizza ogni evento a fattore del ciclo di produzione e consumo. L’asse di rotazione
dell’orizzonte economico, un piano inclinato come meglio vedremo, è il valore di scambio, la moneta,
rispetto al quale ogni utile è un convertibile. Proprio perché niente nel dominio dell’economia ha valore di
principio non negoziabile, non mercificabile, proprio per tale assenza di fondamenti l’universo
economico e la sua autocoscienza non tollerano, inconsapevole paradosso quest’ultimo, che sia messo
in discussione il loro motore immobile.
È questo il fattore della crescita, misurato quantitativamente come PIL, il valore complessivamente
monetizzabile dei beni e dei servizi prodotti all’interno di un’area o di un paese. Parlare in termini di
1 L’aggettivo «augusto» deriva dal verbo latino augeo, a sua volta dal greco auxo, nel senso dell’accrescere e dell’innalzare. Lo leggiamo ad esempio nel seguente passo paolino: «Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere» (1 Cor 3,6). Nietzsche, che pur afferma: «la vita stessa è per me istinto di crescita, di durata, teso ad un’accumulazione di forze, alla potenza» (L’anticristo [1888], § 6), di seguito coglie nel cristianesimo solo la per lui nichilistica e deprimente vocazione compassionevole (§ 7). Il retroterra dell’accezione nietzschiana di vita è in SPINOZA, Ethica, III, propp. 6-13. Quanto al «creare», deriva dal greco kraino, cui è legato anche il nome krònos.
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decrescita è come parlare di ateismo all’interno di una comunità esternamente tollerante, ma
incoffessatamente integralista2.
Il lato oscuro della crescita, vale a dire la progressiva e inesorabile distruzione delle risorse necessarie
alla conservazione della vita e dell’equilibrio della biosfera, è l’ospite ingrato, per riprendere
l’espressione cara a Nietzsche, della dimensione economica. Nella sua incontenibile capacità espansiva
l’oikonomia ha abbattuto i muri della casa, ha dilatato le norme volte a conservare la divisione tra spazio
interno, domestico, della ri-produzione, e spazio esterno dello scambio, fino a far coincidere la
dimensione dell’oikos con quella globale delle aree di cosiddetta «libera» transazione. L’economia globale
è transfrontaliera e interdipendente, è cosmopolita in un senso eticamente opposto al nesso che gli
stoici aveveno immaginato potesse darsi tra la situazione dell’oikéiosis individuale da una parte e quella
interrelata della kosmopolitìa generale dall’altra3.
L’«economia preglobale», con il che non intendiamo un’economia meno evoluta o, ancor peggio,
un’economia incontaminata (che semplicemente è un parto scialbo dell’immaginario religioso), è (stata)
quella che ha cercato di conservare l’habitat ancor più che il valore di scambio, quale asse portante delle
attività di ri-produzione e di transazione. In ciò coadiuvato da un fervido immaginario religioso e
dall’implicita organizzazione degli spazi sociali relativi, come ha ben evidenziato Vernant4.
Secondo il grande studioso francese, i numi tutelari della dimensione domestica ed economica sono da
individuare nella coppia Hermes/Hestia. Hermes charidótēs, amante degli spostamenti in spazi aperti,
promotore dello scambio, forza centrifuga. Hestia, raccolta nell’intimità di un sacro focolare, fuoco che
si conserva mettendo(si) al riparo dal suo stesso mutare e fluire, forza centripeta ed equilibrante la
prima. Hestia, apparentemente immobile, in realtà artefice dello spostamento e dello scambio che
stabilizza, rende feconda la dimora dello sposo nel grembo della consorte, principio d’ordine e di
ragionevole generazione. Hestia chiude per riaprire il cerchio domestico e familiare dell’oikonomia. Lo
dice il verbo hestiáō, riferibile tanto all’ospite che si riceve nel focolare, intorno alla propria tavola,
quanto al supplice che si integra, condividendo con lui il pasto, in un nucleo di familiarità e di intimità,
strappandolo alla condizione di straniero. Anche l’economia pregobale è razionalizzazione, attenta però
al misterioso ricettacolo in cui la vita, delicatamente, prende forma e si continua.
2 Cfr. S.LATOUCHE, La scommessa della decrescita, tr. it di M. Schianchi, Milano 2006, p. 11, da cui ho tratto alcune suggestioni pur non seguendo il realismo solo altalenante della sua impostazione. Cfr. cap. 2 sulla questione del prodotto interno lordo (PIL). Cfr. anche la n. 40 dell’introduzione, per una semantica comparata, nelle lingue moderne, della parola décroissance. 3 L’oikéiosis è, nell’etica stoica (ben nota anche a Spinoza), la capacità degli esseri viventi di conservare sé stessi e realizzarsi tendendo ad un rapporto di armonia con l’ordine del mondo, cui si risulta «appropriati» sulla base di una synaesthesis, una percezione interna di sé. 4 Cfr. J.-P.VERNANT, Hestia-Hermes.Sull’espressione religiosa dello spazio e del movimento presso i Greci (1963), in Mito e pensiero presso i Greci, Torino 2001, pp. 155-69.
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Bisogna quindi riprendere ad indagare il nesso profondo che si dà, o si può scorgere, tra la vita da una
parte, intesa come capacità di ricevere, ri-produrre e restituire, e dall’altra l’economia, intesa come il
tessuto infrastrutturale del vivere stesso. E bisogna provare a partire proprio da una nozione economica
del vivente.
Cosa sia il vivere possiamo, noi viventi dotati di coscienza, intuirlo, ma non ridurlo e riprodurlo
concettualmente, perché l’atto di vivere è presupposto dallo stesso tentativo di obiettivarlo in una
definizione: il vivere è il presupposto non riducibile all’atto definitorio che il vivente rende possibile,
sottraendosi alla sua presa concettuale e residuando quindi in un’equivoca marginalità.
Con riferimento alla teoria degli insiemi e alla sua connatuarata incompletezza, potremmo indicare nel
«vivere» la capacità di costituire domini, ripetto ai quali la vita è, al contempo, grazie alla sua capacità
linguistico-performativa, tanto elemento incluso, quanto principio residuante il dominio stesso.
La vita è capacità di costituire domini in un contesto aperto, molteplice e ricettivo di opportunità date.
In questo senso la vita, in quanto equivoca e residua marginalità dei domini costituiti, è habitat. La vita
ha, possiede, in quanto riceve, in quanto è irriducibile ricettacolo del materiale organico che si trasforma
in movimento, produzione e psichichismo. La vita va allora intesa intorno all’asse differenziale della
coppia concettuale e aporetica di materia e massa.
La «materia» è il limite ideale del semplice e naturale darsi di una molteplicità di punti-evento non
riducibili ad un ordine unitario, ad un cosmo retto da sé stesso o da un dio. La materia è il caso limite,
inattingibile e sempre differito dalla vita, di una pura e simultanea spazialità degli eventi, è il momento di
scomposizione ultima dei fattori costitutivi di tutto ciò che accade. Ma è anche, di converso, il punto di
origine (mater), il limite dell’eventuale ordinamento (da orior, nascere) del vivente stesso.
Rispetto a questo secondo punto, la «massa» è la quantità di energia ricevuta materialmente e passibile
di trasformazione organica o artificiale. Sappiamo ora, in virtù della seconda legge della termodinamica,
che nel processo di conversione della massa potenziale in movimento e lavoro effettivo, parte
dell’energia viene uniformenente dispersa sotto forma di calore, non a sua volta riconvertibile in energia
organizzata. È tale la naturale tendenza alla caoticità del potenziale energetico che sostiene la vita, la
tendenza ad una inesorabile e non reversibile situazione di entropia, quella che segna la fine del tempo
fisico e l’ideale risoluzione di ciò che è ad elemento informe di una materia ultima, pura e pulviscolare,
eterna. E così torniamo circolarmente al primo punto, alla nozione ideale di materia.
Riassumendo i termini della questione possiamo, in prospettiva bioenergetica, definire la «vita» come la
capacità di contrastare l'entropia mantenendo l'omeostasi in un ambiente interno ben distinto
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dall'universo esterno. La vita è quindi, spazialmente parlando, tensione, spanna (Spannung), espansione:
dell’interno nell’esterno (produzione), e dell’esterno nell’interno (immaginazione, riproduzione creativa).
La vita è inoltre, temporalmente parlando, differimento dell’entropia, è divisione, distribuzione ed
organizzazione nel tempo: è temnein, da cui il suo essere habitat, il suo essere tèmenos.
La vita si distende, ricevendosi dalla propria irriducibile base organica, nello spaziotempo delle sue
formazioni. La vita si muove, pro-duce avanzando e crescendo, soggetta alle costanti inesorabili del
movimento, la velocità e l’accelerazione. La vita è endogena capacità di dare movimento al corpo, senza
averlo ricevuto effettivamente da altro, ma solo imprimendolo alla base organica da cui ne riceve le
potenzialità.
La vita è intrinseca al movimento della natura e delle sue basi organiche, il suo stesso essere ricezione è
modificazione sensibile, quindi interno movimento. La vita partecipa della stessa aporeticità del
movimento, dato intuitivo del vivere e non concettualizzabile se non attraverso la paradossale
immobilizzazione delle sue fasi.
La vita è infatti la «potenzialità» del movimento, è la sua vis, la sua forza, la sua organica energheia. Le sue
membra, gli organi, sono veicolo per la trasmissione di forze. E se il movimento è passaggio dalla
potenza all’atto, la vita è la capacità stessa di questo inafferrabile e aporetico passare. Non è infatti l’atto
di per sé a render possibile il passaggio dalla potenza all’atto, perché l’atto è perfetto e quindi già
compiuto, mentre il passaggio è sempre sul punto di compiersi, e non è mai mera possibilità.
È allora il passaggio una forma di «potenza attiva»? Ma cosa significa tale ossimoro se non
l’inafferrabilità concettuale di quel dato intuitivo che diciamo il movimento (del vivente)? Una potenza
attiva è una potenza che non è (più) possibilità pura, ma neanche è (già) atto compiuto. Cosa significa
quindi il sintagma potenza attiva, se non la messa in moto di un progresso ad infinitum, quello del
movimento intuibile ma non concettualmente fissabile?
Lo stesso si ricava e si riceve se al dato intuitivo del movimento si dà il nome complementare a quello
della potenza attiva. È questo il nome dell’«atto imperfetto». Il movimento è un atto imperfetto. E cosa
significa tale nuovo sintagma, se non la messa in moto di un’ennesima aporia, quella per cui il
movimento è un atto che non è atto, visto che l’atto è sempre compiuto e perfetto, quindi giammai
imperfetto, mentre un atto imperfetto dice appunto di un perfetto (l’atto) che non è appunto tale, atto
(perfetto)?
Se quindi la «potenzialità della vita» dei mortali è una tendenza alla realizzazione di sé che non si è mai
compiutamente data come tale, possiamo dire, in ultima istanza, che l’interno/esterno della vita è
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intessuto di «virtualità». E cos’è la virtualità se non la condensazione semantica, in una parola oramai
corrente e inflazionata, dell’impossibilità di definire la vita e il relativo movimento intuitivo e intuibile?
In effetti non c’è niente di più reale, oggi che il mondo si è desostanzializzato a realtà effettiva e a
fondaco di risorse disponibili all’uso, di ciò che diciamo virtuale. E non solo perché, per fare un banale
esempio, la banca (dati e valori) virtuale, quella on-line, è più effettiva ed accessibile di quella che la
nostra superstizione ha bisogno di rappresentarsi in blocchi di cemento armato (dentro i quali non si
trovano più né i valori, né, tantomeno, i dati), ma perché il virtuale è il terreno di coltura dell’economia,
che oggi è, ancor prima che produzione di beni, induzione al bisogno dell’effimero attraverso la
pubblicità e le potenze dell’immaginario collettivo.
Ancor prima che nelle sentenze di Nietzsche è allora nei presupposti dell’ontologia aristotelica che
possiamo scorgere come la vita, nella sua forma più intuitiva ed elementare, sia volontà di potenza,
volontà di vita, secondo un ritmo circolare nel quale la massa potenziale è il punto di partenza e la materia
possibile il punto di arrivo di una dinamica sistemica che ha come sfondo oscuro la tendenza entropica
della forze naturali5.
L’economia è l’infrastrutturazione senza termine ultimo di questo movimento circolare della vita: è
l’insieme di tecniche volte a divaricare il punto di partenza e quello di arrivo del circolo, volte a differire
il momento del loro inesorabile reincontro.
In termini economici la vita si dà storicamente nell’ordine della natura, secondo i due sensi di questo
genitivo equivoco: la vita è capacità di dare ordine (ordinamento) alla natura, quindi di generare,
trasformare e produrre i suoi spazitempi, accellerandone i relativi processi; ovvero la vita è soggetta
all’ordine che la natura le impone, è dis-ordinata attraverso effetti di rimbalzo (rebound effects), nel
momento in cui controtendenze inesorabili spingono la vita e la relativa energia nei gorghi del caos e
dell’entropia6.
5 Non è ora il caso di tentare una ricognizione storica della terminologia e del problema qui appena toccato. Essenziale sarebbe un riferimento, oltre che ad Aristotele, anche a Leibniz (e a Suarez). I principali due autori erano certo noti a Bergson, di cui tornerebbe utile tornare a leggere alcune parti della Evoluzione creatrice (1907). Qui rinvio solo ad un suo breve saggio, molto fortunato tra i filosofi della successiva generazione, Il possibile e il reale (1930), in La pensée et le mouvant (1938), tr. it. di F. Sforza, Milano 2000, pp. 83-97, dove il tempo è detto «ciò che impedisce che tutto sia dato in un colpo solo. Esso ritarda o piuttosto è ritardo», cioè «l’indeterminazione stessa nelle cose» (p. 85), e dove «il possibile non è altro che il reale con, in più, un atto dello spirito che ne rigetta l’immagine nel passato una volta che questo si è prodotto» (p. 92). Come a dire che il «possibile» è il «reale» differito, ritardato. Si noti che la traduzione italiana più pertinente di mouvant (il movente, il mobile, il non stabile), potrebbe essere «il movente(si)». 6 Di «rebound effects», altrimenti detti «paradosso di Jevons», ne illustra molteplici, nella pars destruens del suo libro (la più facilmente condivisibile), S.LATOUCHE, op. cit., p. 33.
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In quanto l’economia è la strumentazione, l’infrastruttura amplificante la naturale tendenza della vita ad
espandersi, essa è l’attività di estensione e proiezione del governo della casa a quello dell’intero orbe
terracqueo. L’economia, orizzonte inclinato ed onnipervasivo delle dimensioni del vivere, è per
definizione globale e per naturale inclinazione gerachizzante, costituente domini articolati secondo il
rimando senza termine ultimo tra mezzi e scopi. L’economia amministra il movimento espansivo della
vita e vi imprime ogni reperibile accelerazione produttiva: dinamismo, flessibilità e velocità sono le
direttrici fondamentali del dogma della crescita.
Velocità e accelerazione voglion dire rapporto tra spazio e tempo. In quanto pure grandezze intuitive
dotate di indistinta e illimitata continuità potenziale, spazio e tempo necessitano di essere misurati. È la
vita in quanto mente a dare allo spazio abitabile un’unità di misura (mensura) utile ad ordinare nel tempo i
processi produttivi. Serve un numero, un convenzionale nomos, che appropri, nomini e segni lo
spaziotempo, per immobilizzarvi gli istanti del processo. È Il valore di scambio, la moneta, il convenuto
adatto a tale scopo, è ciò che conviene, nello spazio-tempo, a stringere i nodi strutturali del processo
produttivo della vita.
La «moneta» è un indicatore del tempo, serve ad accelerare i processi di scambio in quanto astrae il
tempo da una situazione circoscritta ad un mondo vissuto, quindi lo incorpora, il tempo, in unità di
misura e conversione tra produzioni lontane nello spazio. La moneta è il segno che istituisce la drastica
frattura gerarchica, nello spazio-tempo, tra i fattori del ciclo economico, disponendoli su di un piano
inclinato, dove è impossibile star fermi o chiamarsi fuori dal gioco o giogo di forze. Perché?
Perché il capitale viaggia, volatilizzandosi (ora nei cyberspazi della tecnofinanza), a velocità difficilmente
sostenibili dalla mobilità del lavoro. Questo, nelle sue forme di base, ad alta intensità di manodopera, è
ancorato a terra e costringe il lavoratore ad una sfiancante rincorsa del capitale, che appunto s’innalza
attraverso il cielo virtuale della rete, non per divenire astratto, si badi, bensì per concretizzare la
premessa critica della crescita stessa, vale a dire l’abbattimento dei costi di produzione e la messa in
concorrenza delle relative forze lavoro a bassa qualificazione.
È da questo dato che occorre partire se si vuole provare a reimpostare un discorso realistico sui destini
dell’economia, tenendo conto anche degli anelli più deboli della catena, ovvero i due fattori energetici:
a) del lavoro umano prestato; b) delle risorse ambientali sfruttate senza cura né lungimiranza. Del resto,
economia ed ecologia, stando almeno al corpo verbale dei due termini, dovrebbero voler dire lo stesso.
Chiediamoci quindi, come spesso si fa nel dibattito corrente di cui leggiamo i rapporti sui giornali e sul
web, se la globalizzazione, vale a dire l’estensione del regime di interdipendenza tra le diverse regioni
della produzione mondiale sotto l’egida dell’organizzazione mondiale del commercio (WTO), sia un
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insieme di processi che: a) emancipa la forza lavoro del pianeta; b) conserva e rigenera le risorse
energetiche in esso disponibili. Si tratta di due domande strettamente correlate.
Circa la risposta alla seconda tutti, anche chi governa senza tener in alcun conto i relativi rischi, sono
d’accordo: se l’area del quasi benessere si estendesse, come sta di fatti avvenendo, fino ad includere nel
modello di consumo euroamericano la popolazione di subcontinenti quali l’India, la Cina, il Brasile,
l’impatto ambientale dovuto all’impiego inquinante della principale ed irrinunciabile fonte di energia, i
combustibili fossili (petrolio e carbone), risulterebbe insostenibile per la biosfera del pianeta, soffocata
in un effetto serra incendiario.
Del resto, un segnale indiretto di tale processo, sebbene equivocamente interpretato come meglio
vedremo oltre, è quello della spirale inflazionistica che oggi accompagna la crescita dell’economia
produttiva e della domanda interna di beni di consumo nei paesi emergenti.
Un segnale non univoco questo, perché noi esponenti delle classi medie europee percepiamo il
fenomeno in termini di scarsità e rischio d’impoverimento, senza tener conto dell’altro suo aspetto,
ovvero che la crescita dei prezzi dei beni primari, quali energia e derrate alimentari, è una barriera che
parzialmente difende le aree a maggiore benessere, mentre precipita nella disperazione quei paesi il cui
reddito personale è per circa l’80% (contro il nostro 20%) destinato ai consumi di prima necessità, e
risulta sismicamente sensibile alle minime oscillazioni del prezzo del riso o del mais alla borsa di
Chicago. Noi tagliamo il bilancio familiare, altrove, in Africa e in Asia, si cerca di assaltare i forni e i
silos. O si emigra, che è l’unico modo per oltrepassare la barriera protezionista con cui USA ed EU
hanno recintato le rispettive agricolture, facendo dei loro non più competitivi contadini i difensori del
suolo, sovvenzionati del welfare.
Possiamo ora provare ad affrontare il primo punto, che è più controverso perché interamente partecipe
dell’ambiguità percettiva cui sopra abbiamo accennato. La globalizzazione emancipa la forza lavoro?
Tale domanda assilla le nostre speranze da quando i sogni dell’ideologia sono sfumati con il definitivo
tramonto del comunismo, al termine di un processo economico inaugurato dalla Cina della metà degli
anni ’70 con le politiche di accumulo individuale benedette da Deng.
Ora che l’unico sistema economico imperante è quello a minor tasso di ideologismo, vale a dire la libera
economia di mercato finalizzata al profitto (amica del relativismo culturale di cui abbiamo detto sopra,
ma anche del welfare e della redistribuzione), restano le cifre statistiche e il loro uso prospettico ad aprire
panoramiche sul mondo. Da quando, circa 15 anni or sono, il WTO è diventato il principale motore
dell’allargamento delle aree di libero scambio, alcuni calcolano che circa 500 milioni di famiglie nel
mondo sono risalite al di qua della soglia che definisce la povertà massima.
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Questo dato quantitativamente positivo va letto a riscontro di un altro su cui anche i più accesi
sostenitori della globalizzazione e della liberalizzazione dei fattori produttivi sono d’accordo: nell’ultimo
quindicennio la polarizzazione della ricchezza mondiale si è drammaticamente accentuata, spingendo
persino molti esponenti delle classi medie dei paesi sviluppati e di quelli in via di sviluppo, vicino a
quelle soglie di povertà da cui si sono parzialmente emancipati alcuni lavoratori a basso costo delle aree
in via di impetuoso sviluppo.
È un processo inevitabile la polarizzazione della ricchezza? In certo qual modo sì, ed il motivo è la
diversa e sproporzionata velocità con cui viaggiano, sul piano inclinato tra cielo e terra, il capitale da una
parte, e l’esercito di riserva della forza lavoro dall’altra. Diciamo intanto che la polarizzazione è un
tipico processo che, nelle economie preindustriali, accompagnava il tendenziale aumento della
popolazione. Gli storici lo documentano con sufficiente approssimazione per i periodi 1250-1350 e
1550-16507.
Nelle economie industriali, invece, non è solo l’aumento della popolazione a mettere in moto la
dinamica, quanto l’aumento della popolazione inclusa nell’area del benessere, ovvero quella che lavora
in aree in cui cresce anche la domanda interna di prodotti finiti, aree quindi non più sottosviluppate e
solo costrette all’esportazione delle proprie risorse di base. Quando si dà, come oggi nei tre
subcontinenti, tale positivo processo, nel quale l’accumulo si accompagna anche a forme di globale
redistribuzione del reddito, ecco che il capitale si mette in moto impetuoso.
Poiché l’aumento del benessere comporta il rischio dell’inflazione, intollerabile in economie
iperconsumiste di effimero come quella occidentale, è necessario abbassare i costi di produzione. E
visto che i costi delle materie prime in tempi di accumulo e redistribuzone crescono, bisogna operare
sulla leva del lavoro, automatizzando e cercandone altrettanto a bassa qualificazione e a basso costo8.
È tale lo scenario in cui ci muoviamo da quando è crollato il comunismo. Svaniti i sogni degli
intellettuali organici è il momento questo di considerare un paradosso che ha accompagnato il ciclo del
benessere occidentale delle aristocrazie operaie, il cui massimo risultato culturale è stato il welfare state. A
ben vedere, ciò che dal dopoguerra fino agli anni ottanta ha reso possibile un dignitoso tasso di
7 Cfr. C.M.CIPOLLA, Storia economica dell’Europa preindustriale, Bologna 1980, pp. 221 e sgg. La dinamica ruota intorno al punto dell’aumento della popolazione, che è causa dell’aumento dei prezzi della terra, fonte della ricchezza per chi ci ricava una rendita, fonte di sostentamento per chi aspira, a costi sempre maggiori, coltivarla. Per il rentier diventa così più conveniente speculare che investire in attività produttive, mentre il lavoratore non riesce ad entrare nel ciclo del benessere. L’esito di questo avvitamento è poi l’alta mortalità e il decremento demografico. 8 In epoca protocapitalista tale fine era quello perseguito dal cosiddetto «mercante imprenditore», che acquistava materia prima da far lavorare, non più nei centri urbani condizionati dai vincoli (anche salariali) corporativi, bensì nei piccoli centri o in campagna, dove si trovava mano d’opera sostitutiva a minor costo, una volta fornita di un telaio.
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redistribuzione del reddito nell’area dei paesi sviluppati, è stato proprio quel comunismo che, nei paesi
orientali ed in Cina, immobilizzava un imponente esercito di lavoratori nell’indigenza e nella sudditanza.
Tutto questo è venuto meno con la caduta della cortina di ferro, la quale ha di rimbalzo messo a rischio
le basi del consenso nelle democrazie del benessere e trasformato le strutture della loro sovranità
economica. E ciò perché ha liberato un’immensa fonte di energia primaria, il lavoro umano di un
esercito di ex affamati ora pronto a sostenere ritmi produttivi che, nei settori primari, sia leggeri che
pesanti, riducono a zero la competitività dei colleghi occidentali.
Sembra un paradosso, ma non lo è per chi sa leggere in profondità le tendenze relative alla
mobilitazione multinazionale dei capitali e alla difficoltà del lavoro umano di correre ad un ritmo
paragonabile a quello dei flussi finanziari. Le classi medio-basse che in Occidente hanno beneficiato
delle prestazioni dello stato sociale - e talvolta avversavano il pericolo comunista mentre talvolta ne
agitavano con furore simpatetico lo spettro - devono il ciclo quarantennale del loro benessere alla forza
d’inerzia con cui il blocco comunista orientale ha resistito alla globale liberalizzazione della forza lavoro
e dei capitali, liberalizzazione che oggi spinge invece quelle classi in una corsa accelerata verso il ribasso
delle retribuzioni. Così, chi prima stava sotto giogo ora può, certo tra stenti, sognare il benessere
occidentale, mentre chi godeva di questo sogno è ora visitato, certo tra gli agi, dallo spettro del declino e
della povertà.
Il risultato di questa dinamica epocale è quello sfruttato dall’impiego delle tecnologie dell’informazione,
grazie a cui è possibile compiere sforzi produttivi di beni standardizzati come nessun’altra era ha mai
conosciuto. I costi sociali per questa disponibilità, apparentemente senza limiti, di beni di consumo alla
portata dei piccoli portafogli, sono tre: a) l’impoverimento della forza lavoro globale; b) il drenaggio e la
redistribuzione delle risorse delle classi medie euroamericane a favore dei lavoratori poveri dei paesi
emergenti (uno dei fenomeni più democratici dell’ultimo ventennio!); c) da ultimo, ed è questo il
problema inoltrepassabile, la crescita esponenziale del tasso di inquinamento del pianeta, dovuto al
decentramento produttivo senza vincoli ambientali e al traffico planetario delle merci low cost.
Gli economismi più ottimisti sostengono che l’antidoto alle distorsioni della globalizzazione sia
rappresentato dall’innalzamento dei livelli di istruzione e di specializzazione professionale. Se questo,
però, può esser vero ai vertici delle società più sviluppate, lo è molto meno per quanto riguarda il grosso
della forza lavoro globale. Nel Sud del mondo, infatti, la polarizzazione della ricchezza rende evidente
quale sia l’inclinazione del piano dell’economia globale: la forza lavoro costa sempre meno; i costi di
accesso agli strumenti di produzione e della ricchezza accumulabile, vale a dire la conoscenza, l’energia
e le macchine, progrediscono a causa di una domanda in crescita; infine, le attività speculative ai danni
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di una forza lavoro in movimento e in cerca di alloggio e allocazione divengono sempre più comode e
fruttuose.
Ma anche nel Nord del mondo non sarà l’istruzione, mito venerabile e monumentale della Rivoluzione
Francese, ad emancipare dal bisogno. E ciò per due ragioni. La prima è che una maggior
consapevolezza critica rende meno vulnerabili all’irrinunciabile strapotere della pubblicità, di indurre
compulsivamente a soddisfare bisogni effimeri. L’istruzione tenderebbe insomma a raffinare troppo le
aspettative dei consumatori, mentre i beni e i servizi del nostro tempo necessitano, nella loro
sovrapproduzione quotidiana (la stessa, si badi, che alimenta i costi di redistribuzione del reddito
sociale, tra cui l’istruzione appunto), di un consumatore passivo, interattivo semmai, malleabile e
bulimico, prossimo all’obesità.
Per avere un riscontro indiretto di tale tendenza basterebbe considerare statisticamente l’impiego, nelle
aziende medio-grandi, delle figure più professionalizzate, quali gli ingegneri, i tecnici, ma anche i
professionisti come gli avvocati. Si vedrà che la maggior parte di loro non svolge mansioni conformi
alla propria preparazione professionale, bensì è allocata nell’amministrazione, e principalmente negli
uffici di marketing e di customer-hunting.
La qualità del prodotto, oggigiorno, è data da standard tecnologici controllabili attraverso non molti
professionisti. Quello che conta è la commercializzazione della produzione in serie, sempre più
eccedente. Saremo sempre più tutti, nessuno escluso, alla ricerca, sul piano inclinato della
globalizzazione che spinge a ribassare l’offerta, di un consumatore pronto a digerire il bene inutile (ma
emozionale) che ci sarà dato di sovraprodurre. Tra questi inutilia anche l’istruzione di massa, perché tutti
siamo risucchiati in questo collo d’imbuto. Il colpo decisivo all’istruzione della cittadinanza verrà dato
proprio dal Sud del mondo. Come? È necessaria una premessa per dare un risposta.
Gli ambiti di spesa dello stato del benessere sono stati e tuttora sono i seguenti quattro: 1) la stessa
amministrazione, i cui costi verranno riassorbiti e compressi grazie alla sua messa on-line e progressiva
automazione (il numero eccedente di funzionari verrà convertito in sales manager e operatori di customer
services nel terziario privato); 2) le pensioni, i cui costi verranno bilanciati dall’innalzamento dell’età
lavorativa e dall’integrazione con polizze private (quelle che, attraverso i fondi pensione, il più
importante investitore finanziario globale, già permettono operazioni speculative e di mercato, le quali,
senza che noi risparmiatori ce ne accorgiamo, accelerano il moto dei capitali, aumentano l’inclinazione
del piano economico globale schiacciando i paesi dove non si danno risparmio in eccedenza e borse di
rilievo, e contribuendo, come l’inflazione, alla barriera protettiva che in parte scherma e difende il
Nord); 3) la sanità, che comunque, anche nelle versioni più pubbliche e civili, fa già la fortuna
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dell’industria farmaceutica privata, e che quindi continuerà a sperimentare forme di riequilibrio
finanziario con le agenzie private e le relative polizze assicurative (quelle che stanno oggi, ad esempio.
dietro alla planetaria campagna etica contro il fumo, in lotta intestina con lobbies uguali e contrarie); 4)
l’istruzione, di cui vedremo crescere il segmento materno e primario, in modo da rendere le
riproduttrici libere e al più presto performanti e produttrici (di beni e servizi di consumo), mentre
continueremo ad osservare attoniti il declino del segmento medio-superiore, perché la nostra economia
ha bisogno di consumatori-produttori malleabili – li formano già diplomifici e masterifici - disponibili al
ricambio e adatti alle relative tecniche di commercializzazione. (Collaterale a ciò è già la crescita della
devianza giovanile e l’esposizione sempre più frequente ai relativi eccessi, da consumo appunto).
Dicevamo che il colpo decisivo alle spese occidentali in istruzione lo daranno proprio internet ed il Sud
del mondo. Come? Il Sud, che non può affrontare i costi infrastrutturali di un’istruzione di medio
livello, cercherà di rendere le attuali infrastrutture, allo stesso modo del cemento armato delle banche
cui accennavamo prima, obsolete. Già oggi è infatti possibile, lo fanno le migliori università come le più
dinamiche agenzie di formazione dei paesi emergenti quali l’India, mettere on-line tutte le nozioni da
interiorizzare per costruire una personalità applicativa di adeguato livello. Scuole e insegnanti reali
verranno ridotti ai minimi termini da lezioni virtuali, persino curate nella forma e riproducibili tramite
internet, che provvederà anche alla somministrazione dei test di verifica della comprensione. I pochi
insegnanti necessari verranno riconvertiti in tutors (l’automazione non può del tutto sostituire il fattore
antropico), così che la spesa in istruzione verrà compressa, zippata, come quella della pubblica
amministrazione.
È inevitabile tale ristrutturazione? Quando una democrazia colossale come l’India deciderà di
organizzarsi su queste basi, e sarà il modo più veloce per superare un cultural divide con l’Occidente, le
sue aziende pagheranno meno tasse per l’amministrazione della formazione, con un ulteriore salto in
avanti della competitività del sistema-paese, cosa che frenerà la produttività occidentale, costringendo
ad abbassare i costi dei servizi sociali intermedi, in questo caso l’istruzione. Il tutto all’interno di
un’ottica di parziale redistribuzione del reddito mondiale a favore dei paesi emergenti, e di una
planetaria diffusione di comportamenti consumistici, divoratori ed inquinanti9.
Abbiamo così concluso un giro d’orizzonte relativo ai fattori della produzione (capitali, cervelli,
braccia), e abbiamo visto come essi si dispongano su di un piano inclinato dove le delocalizzazioni e le
accelerazioni informatiche dei detentori di capitale mettono in crisi gli altri due fattori, costringendo alla
9 Sulla condizione paradossale della scolarizzazione, cfr. anche S.LATOUCHE, op. cit., p. 104 e sgg.
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compressione dei relativi costi e alla riallocazione delle relative componenti in una catena di montaggio
interminabile quanto effimera, una catena di produzione-consumo onnipervasiva delle dimensioni del
vivere e dell’immaginario collettivo.
Ciò che non è ancora stato preso in considerazione da questo schema è l’evento che contrasta e rallenta
le sue dinamiche strutturali, mettendole in disordine. Non mi riferisco alla guerra, che tengo
volutamente fuori dal discorso, bensì all’inquinamento, agli «effetti di rimbalzo» di quello stato di
occupazione militare cui il produttivismo incontenibile della volontà di crescita sottopone l’ambiente
delle risorse energetiche disponibili e la biosfera del pianeta.
Proprio in questi mesi il problema del dissesto ambientale e del riscaldamento globale sono tornati
all’ordine del giorno, ma attraverso l’ambiguità, o meglio, la distorsione percettiva di cui dicevamo
prima, ovvero la scoperta (una simile la si fece nel 1973, all’indomani della guerra arabo-israeliana dello
Yom Kippur e della reazione dell’OPEC) che le riserve di petrolio scarseggiano in modo più che critico.
Non già quindi la presa d’atto che il petrolio, oggi richiesto da un parco consumatori almeno triplo
rispetto a quello degli anni ’70, impiegato su vasta scala porta al collasso delle riserve organiche della
biosfera. Bensì la scoperta (che la notizia di nuovi giacimenti di gas naturale non basterà a rimuovere),
che il petrolio è agli sgoccioli e quindi l’aumento della sua richiesta porterà ad un decennio di probabile
stagflazione e di brusca contrazione dei consumi, con tutto quello che ciò comporterà per i destini
dell’occupazione, del welfare state e della sua incombente riduzione.
Ci accorgiamo di vivere al di sopra delle nostre possibilità materiali, senza però mettere in discussione
l’implicita convinzione di essere noi i sovrani della materialità e della natura. Dovremmo invece renderci
conto di vivere al di sopra di quelle possibilità ambientali da cui riceviamo le basi naturali della
rigenerabilità e della trasformabilità delle energie, patrimonio esauribile e da prendere in gran cura.
Dovremmo insomma fingerci non già signori e padri della materialità, quanto umili e deperibili figli
della naturalità, della possibilità del darsi di nuova vita.
È possibile, nell’epoca del compiuto disincanto e della riduzione della natura a dominio di forze, è
possibile recuperare un’idea apparentemente arcaica e infantile, quella che attribuisce all’ambiente
paesistico una dignità personale rispetto a cui noi saremmo in debito, tributari delle risorse energetiche
che permettono la vita sulla terra? Solo le riserve simboliche dell’immaginario religioso possono dare
vita e forma ad una tale visione degli scenari naturali, che l’odierna velocità dei processi di
trasformazione dei relativi paesaggi potrebbe invece far apparire di candore appunto puerile.
È difficile, inutile nasconderselo, parlare in termini di un’etica della naturalità e delle forze vitali della
materia. È addirittura impossibile forse, perché non sarebbe arduo rilevare in ogni atto ed in ogni
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intendimento di tipo etico, nient’altro che un’azione o una strategia di tipo anti-economico, quindi non
dotata di valore autonomo, bensì subordinata alle dinamiche del paradigma stesso che vorrebbe
riformare od oltrepassare. È la situazione di chi scopre di poter rispettare l’altro solo perché ha provato
in profondità la possibilità di ucciderlo e si è quindi deciso per la rinuncia a tale atto così connaturato
all’umanità, risentendosi contro un proprio irrinunciabile istinto.
Di questa situazione, che è come il cuore della questione relativa agli statuti e alle possibilità di un’etica,
potrebbe tornar utile recuperare una variante, che troviamo nella più importante filosofia pratica della
modernità. Ci riferiamo ad una pagina problematica della Fondazione della metafisica dei costumi, nella quale
Kant, illustrando esempi della procedura di univirsalizzabilità della massima soggettiva e di verifica del
suo carattere morale e non solo economico-strumentale, ne presenta uno in qualche modo fuorviante.
Egli sottopone a verifica la massima che assume la liceità di non restituire un prestito ricevuto, per
giungere alla conclusione che essa non è morale perché, se tutti agissero così, verrebbero semplicemente
meno le condizioni per concedere a chicchessia un prestito10.
Perché è fuorviante tale esempio? In prospettiva kantiana, il rifiuto della liceità morale alla massima di
non restituire il prestito ricevuto non dà come conseguenza il riconoscimento della moralità
dell’opposto atteggiamento, quello di chi decide di sanare il debito contratto e di assumerne la massima
come regola di vita. Chi agisce così, infatti, non lo fa in base ad un imperativo categorico ed
incondizionato, bensì in ossequio al principio ipotetico-economico della reciprocità, quello che ci spinge
a saldare un debito al fine di poter anche noi legittimamente avanzare la pretesa che un analogo debito,
contratto da altri con noi, venga altrettanto civilmente sanato. Siamo appunto in pieno ambito di
reciprocità, di reciproco condizionamento dei soggetti, in ambito di imperativo ipotetico-economico e
non di imperativo categorico-morale.
Eppure è proprio in prospettiva bio-economica, legittimata non da cristalline argomentazioni
filosofiche, bensì da riserve dell’immaginario simbolico-cosmico-religioso, è solo così che a noi è dato
porre la questione della dignità dell’ambiente circostante e della necessità ecologica della sua tutela. È
solo valorizzando il nostro circolare rapporto con le risorse energetico-naturali in termini di reciprocità,
di debito contratto e di reciproco condizionamento (oikonomico e preglobale), che la natura non sarà più
solo intesa come ostacolo limitante e condizionante le potenzialità dell’azione pratica e dei relativi
imperativi (ipotetici), bensì come la condizione di possibilità stessa della presente e delle future azioni.
La natura va intesa come la condizione positiva e non limitante per tessere un rapporto intergenerazionale
10 Cfr. Akademie-Ausgabe, IV, p. 422, tr. it. *** ***
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tra presente e futuro e per fare dell’habitat il dignitario di cui postulare, non già la necessaria esistenza
(ontologica), bensì la deperibilità e la dovuta e necessaria (assiologica) conservazione11.
Oggi che incombe una probabile contrazione dell’iperconsumismo occidentale, dovuta alla crescita dei
costi delle materie prime, tale situazione va intesa non solo come negativo ostacolo alle potenzialità
della crescita, bensì come occasione di rilancio della questione ambientale, habitativa e dell’etica
dell’austerità, della rinuncia all’effimero.
La contrazione dei consumi, che certo porterà disoccupazione e tagli al welfare state, è l’unico antidoto
agli eccessi dell’imperativo autodistrutttivo della crescita a tutti i costi. Non ce ne sono più di carattere
politico-ideologico, di antidoti, oggi l’unica rivoluzione è un gesto individuale con scarse probabilità di
divenire comportamento responsabile condiviso. È il gesto di chi dice no alle seducenti promesse di
consumo illimitato liberate e indotte dalla pubblicità (la più importante forma di comunicazione e
cultura dei nostri tempi), di chi volge l’attenzione altrove, ad altri modelli di (de)crescita e di
organizzazione del consumo.
Non sono i soggetti politici tradizionali a poter convogliare tale gesto in un comportamento collettivo,
perché interamente irretititi nella logica populistico-pubblicitaria che mette in scacco ogni pia illusione
circa le possibilità di formazione di un’opinione condivisa di tipo antieconomico o resistente alla logica
della continua sostituzione e ricreazione dei prodotti, anche di quelli durevoli. Sono i barlumi di nuovi
movimenti a poterlo fare, e internet in minima misura agevolare. Perché la rete determina le condizioni
per il massimo decentramento possibile di quel pilastro costituente del potere, che è la formazione
dell’opinione e del consenso.
La rete non può fare miracoli e qui nessuno vuole benedire tale labirinto di strumentazioni atte a
rendere onnipresente l’altrove. Solo che nella rete chi riceve un’informazione è allo stesso tempo
qualcuno che può a sua volta produrne altrettanta e metterla in circolazione. Il consumatore è anche
11 È in questa prospettiva che può essere letto il tentativo operato da Jonas, autore di un’etica della responsabilità (ambientale), di adattare ai criteri di questa, riformulandoli, gli imperativi dell’etica kantiana, che è un’etica dell’intenzione e non già della responsabilità relativa alle conseguenze della propria azione. L’imperativo di Jonas, indicando la necessità morale di agire in modo «che le conseguenze della propria azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra», sospende in qualche modo la condizione dell’umanità e quella connessa all’amor proprio, all’istinto di conservazione. L’umanità è infatti intesa, da questo imperativo, sia come il fine dell’azione, sia come la condizione positiva di un’azione responsabile dei mezzi impiegati. L’umanità, quindi, si rivela fine dell’azione, solo in quanto la sua materiale fragilità sia colta come condizione delle scelte relative al nostro amor proprio. Questo viene in qualche modo rivalutato, allargandone la portata non alla dimensione individuale, bensì a quella delle generali condizioni che consentono la prosecuzione in futuro della vita sulla terra. Cfr. H. JONAS, Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino 1993, pp. 16-18.
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produttore di opinione, quindi accede in un circolo di idee non solo perché stimolato e sedotto da un
potente messaggio pubblicitario o propagandistico.
Proviamo a sondare, come esempio, il terreno dell’agricoltura. I prezzi delle derrate stanno crescendo e
si prevede la necessità di una contrazione del consumo. Quale occasione più opportuna per riscoprire e
promuovere una dieta di tipo glocal, basata cioè sui prodotti primari della terra dove si abita e sulla
riscoperta del sapore e del valore nutritivo degli alimenti poveri, quelli meno sfruttati dai saporifici con
lo scopo di determinare già nei bambini, allo stesso tempo, regressione nella facoltà del gusto e
dipendenza dagli additivi chimici? Produrre carne ha costi energetici altissimi, come alternativa i legumi
possono in buona parte soddisfare il fabbisogno proteico quotidiano, aiutano la fertilizzazione dei
terreni e sono l’ingrediente centrale di un’arte povera di lunga tradizione.
La rete può a basso costo e in forma wiki convogliare le conoscenze relative a questa sobria dieta,
preparare il terreno per un suo sviluppo sistematico e creativo, rilanciare un progetto di solidarietà che
garantisca condizioni di mercato competitivo anche alle leguminose dei paesi poveri, senza che a ciò
provvedano mastodontiche e parassitarie burocrazie, che bruciano il 90% dei trasferimenti ricevuti dai
governi nazionali per alimentare la loro sontuosa volontà di convegno, in grado di partorire
imbarazzanti documenti dal contenuto nullo. Molto meglio la selvatica anarchia delle più coraggiose ed
oneste Ong. Non è anche questa liberalizzazione (della solidarietà)?
La rete può inoltre favorire la nascita di cooperative di consumo finalizzate ad una distribuzione di
qualità e solidale. Difficile proibire la pubblicità dei prodotti nella società della comunicazione totale12.
È però possibile in parte aggirarne il potere. Come? Investendo in supermercati che pubblicizzino come
unico brand quello del distributore stesso, garante dei soci cooperanti. Il brand unico garantisce la qualità
del prodotto e rispetta le aspettative dei consumatori. Sugli scaffali di questi centri dovrebbero poter
accedere, non pubblicizzate: merci di largo consumo, dagli ingredienti poco elaborati e di media qualità;
prodotti biologicamente all’avanguardia, per un consumo di qualità seppure più costoso; prodotti del
circuito equo-solidale per il sostegno a distanza delle agricolture meno avvantaggiate dal mercato.
Se nelle aree povere del mondo arrivassero un po’ di elettricità e la rete, in forma wiki potrebbero
giungere anche le consulenze agronomiche necessarie per un uso intensivo di terre desolate. E spesso
povere d’acqua, altro elemento simbolico su cui costruire forme di nuovo consumo e nuova
propaganda attraverso la rete. L’Onu continua a ri-fissare l’obiettivo della globale accessibilità all’acqua,
regolarmente lo manca e differisce, mentre il divario dei popoli assetati si allarga. Esplodono guerre tra
12 Come sembra alludere, poco realisticamente, S.LATOUCHE, op. cit., pp. 140-42.
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poveri e ne esploderanno di nuove per accaparrarsi le falde acquifere lasciate indifese da gruppi umani
sfollati con la violenza. I corifei del mercato libero (in un solo senso di marcia) sono pronti a dichiarare
anche l’acqua bene privatizzabile, per imbottigliarla in direzione delle aree del benessere. Che fare?
Da noi potrebbe partire l’esempio della sobrietà. Basterebbe ridurre ai minimi termini il consumo di
acqua imbottigliata, specie quella proveniente da lontano. Ogni giorno migliaia di tir inquinano i valichi
di montagna trasportando acqua francese in Italia e acqua italiana in Germania. Come la terra, l’acqua
deve essere in parte rilocalizzata attraverso le spinte dei potenziali consumatori. L’informazione in rete
ci sensibilizzi e aiuti a consumare acqua naturale delle falde vicine al nostro abitato, le confezioni
imbottigliate in plastica siano restituite al proponente l’allettante offerta.
Dall’acqua si potrebbe infatti passare all’obiettivo simbolico dei contenitori, sempre sotto l’egida e il
coordinamento del centri di distribuzione dal brand unico di qualità. La gran parte di ciò che
consumiamo è contenuto in flaconi di plastica imballati. Il contenitore è la più tipica concrezione della
spazialità, intesa come ricettacolo. Si scateni la fantasia del designer, questa volta con un obiettivo
inverso a quello della consueta e inutile sofisticazione. Sul modello dell’i-pod, oggetto dal design
funzionale, limpido, e per questo assurto già a capolavoro da museo (reazione nervosa ma positiva alla
sovrapproduzione di tecnologia portatile tanto complicata quanto inutilizzata dai più), si provi a
standardizzare la produzione dei flaconi e di altre tipologie di prodotti dalle caratteristiche affini.
Quanto più i recipienti plastici, il cui smaltimento mette in moto un ciclo della durata di 200 anni,
potranno rivelarsi intercambiabili tra più prodotti, tanto più tornerà utile non già riciclarli, quanto
restituirli al distributore, affinché vengano disinfettati e riutilizzati per contenere prodotti analoghi.
Ma il contenitore di tutti i contenitori, il ricettacolo di tutti i ricettacoli, simbolo cosmico
dell’impossibile oggettivazione della soglia tra interno ed esterno, è la casa in cui abitiamo, nel suo
rapporto con la città, con il tessuto urbano che ingloba le case nelle piazze e nel circuito della viabilità. Il
divario abitativo tra centri e periferie è da sempre un indiretto riscontro della difficoltà del lavoro a
muoversi a velocità paragonabili a quelle del capitale. Sono gli alti costi di accesso ai presupposti della
ricchezza.
La crescita convulsa attrae sovraffollamento, che a sua volta provoca un abbassamento del livello della
domanda e degli standard di qualità. Eppure, dal modo in cui si decide di edificare – e l’architettura è
perlopiù edilizia civile – dipende una quota circa del 30% complessivo dell’energia che consumiamo e
che potrebbe essere ridotta se fossero frenate le fameliche lobbies dei costruttori. I quali hanno come
primario obiettivo di riversare, per ogni unità abitativa, quanto più cemento armato possibile. Compito
della politica e del city-planning dovrebbe allora essere quello di difendere le buone ragioni del progetto,
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specie se finalizzato ad una riduzione dell’impatto energetico e ad un’armonizzazione dell’edificazione
con le condizioni di traffico di uno spazio urbano dato. Il progettare e l’abitare devono riscoprire il
potenziale edificante ed ospitale del vuoto, che è il presupposto stesso del poter uno spazio prender
forma e attrarre luce, movimento e vita.
Qui entrerebbero in gioco le responsabilità di una politica democratica, mai come oggi in crisi, tanto a
livello locale quanto a livello globale. Da quando Machiavelli si è espresso sulle buone ragioni della
repubblica, dovrebbe essere più o meno acquisito che una politica è democratica se, e solo se in grado
di mettere un freno agli impeti della parte grassa della società, in modo che il popolo minuto non finisca
in sua balia e dei suoi interessi, secondo la logica scontata di un utile chiamato sofisticamente e
populisitcamente giustizia. Il linguaggio propagandistico-pubblicitario in cui è oggi irretita la
comunicazione politica rende la platea plagiata dei consumatori-produttori sempre più desiderosa di
circenses e sempre meno preoccupata di come si possa procurare panem ad una popolazione globale tra
poco di 7 miliardi di anime.
Se oggi esistesse una politica, se insomma non continuasse a nascondersi nei labirinti di imponenti
burocrazie autoreferenziali, i paesi leaders dell’occidente si preoccuperebbero non già di mettere in
mano alle lobbies le organizzazioni della finanza mondiale (FMI e BM), ma di incrementare il margine
di azione autonomo di queste, fissando l’obiettivo dell’introduzione di un prelievo di solidarietà sulle
transazioni finanziarie (capital gains). Esso rallenterebbe la velocità dei circuiti finanziari e i suoi proventi
tornerebbero utili a sostenere le economie povere, vietando se possibile il loro investimento in
tecnologia militare per i capobanda al potere in molte di quelle aree. Ci si dice che tale provvedimento è
di difficile attuazione. Strana la politica mondiale. Si parla da vent’anni di uno scudo stellare dalle
probabilità di riuscita pari a quelle del volo libero degli elefanti, e non si tirano fuori i prodigi della
tecnologia informatica per operare su un circuito, la finanza, che non può non servirsi della stessa rete
su cui verrebbe applicato il dazio di solidarietà.
Il grande problema dell’economia globale è la difficoltà ad elaborare e mettere in vigore pratiche tanto
di redistribuzione del reddito in favore del lavoro personale, quanto di restituzione del patrimonio
energetico all’habitat indispensabile alla prosecuzione della vita organizzata. L’esempio più lampante di
ciò è quello delle risorse energetiche disponibili. Intorno ai giacimenti di petrolio è andata prendendo
forma, negli ultimi 120 anni, la geopolitica dei più importanti stati nazione, tanto dei paesi
industrializzati quanto di quelli emergenti. L’accaparramento di riserve per fronteggiare congiunture
critiche è la fondamentale ragione tra quelle che si definiscono le ragioni dello stato centralizzato.
L’energia viene conquistata attraverso la lunga mano degli stati, le compagnie petrolifere (sostenute
persino dai servizi segreti), quindi distribuita attraverso la rete attraversante il territorio nazionale. Dal
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centro alla periferia, in un’unica direzione di trasmissione. Tutto ciò mentre buona parte dell’umanità
fatica ad entrare in un sistema adeguato di distribuzione dell’elettricità.
L’acqua, la terra impoverita e la mancanza di elettricità sono i tre fattori che mantengono bassa la
capacità di accelerazione dei processi produttivi nelle aree depresse del mondo, costringendole all’unica
alternativa possibile, essere fornitrici di manodopera migrante a basso costo. Eppure proprio a partire
dall’acqua, dall’elemento di Talete, potrebbe prendere forma una futuribile rivoluzione energetica,
industriale ed ambientale. È quella legata al processo elettrolitico attraverso cui ricavare una
straordinaria fonte di energia pulita, l’idrogeno con cui alimentare le celle a combustibile per garantire
una propulsione diversa da quella finora resa possibile dagli idrocarburi. I problemi legati a tale
rivoluzionario ciclo di produzione energetica sono riducibili a quello, certo imponente, della sua ancor
costosa dipendenza proprio dall’energia elettrica necessaria all’elettrolisi e dal connesso processo di
steam reforming che fa degli idrocarburi e del metano i fattori di avvio del processo stesso.
Si tratta di un classico problema strutturale dell’economia, la quale è paragonabile ad una squadra di
biciclette lanciate in corsa su di un piano inclinato. Non si può mutare la loro rotta smettendo di
pedalare o addirittura scendendo dal sellino e mettendosi ad esaminare, da fermi, la fattura degli
ingranaggi. È questo il sogno utopico di chi crede che i processi politici ed economici possano essere
modificati rifugiandosi nella posizione dello spettatore neutrale, estraneo al gioco, desideroso (in modo
puerile) di dibattere soltanto la natura dei problemi, di discettare esteticamente sulla fattura dei pedali.
Purtroppo le biciclette, che poi sono treni inarrestabili, possono essere in parte riorientate solo restando
aggrappati al loro instabile manubrio, spingendo sui loro scomodi sellini.
Se uno sforzo condiviso di ricerca e sviluppo, oltre che delle fonti di energia rinnovabile (il fotovoltaico
e il suo costoso semiconduttore in silicio, il promettente geotermico, l’eolico), riuscisse ad alleggerire i
costi di conversione dei modi di produzione dell’energia, rendendo quella ad idrogeno più conveniente
e in grado di sostenere i costi della nascita di una rete alternativa a quella elettrica, sarebbe possibile uno
stravolgimento dei tradizionali modi di trasmissione del potere stesso, uno stravolgimento paragonabile
a quello in corso attraverso internet, che rende ogni periferia un possibile centro di selezione e
produzione delle informazioni, non solo un ricettore passivo di pacchetti preconfezionati di
conoscenza.
Bisogna riconosce a Jeremy Rifkin di aver illustrato efficacemente questo possibile parallelo moto di
mutamento delle gerarchie spaziali tipiche della lunga storia degli stati sovrani, basati appunto sul
rapporto, per lo più unidirezionale, o quantomeno sbilanciato sul centro, tra centro e periferia. Internet
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fa di ogni periferia un possibile centro, e ciò mette in questione la possibilità di controllare fattori
decisivi della produzione, basti pensare solo alla proprietà intellettuale dei prodotti dell’ingegno.
Ma una dinamica analoga si potrebbe ottenere se un’infrastruttura adeguate alle modalità di conversione
delle energie attraverso l’idrogeno, facesse sì che il consumatore di energia riuscisse ad essere anche
produttore di quantitativi determinati di essa. Attraverso una dinamica analoga a quella del web, il web,
alimentato appunto dall’energia elettrica, potrebbe essere esteso su base planetaria, abbattendo
quell’impercettibile digital divide che rende gli uni, a sud, molto più lenti degli altri, a nord. Riportiamo le
parole, scontandole certo di qualche eccessivo ottimismo, dello stesso Rifkin.
Se tutti gli individui e le comunità del mondo diventassero produttori della propria energia, il risultato
sarebbe un radicale cambiamento della configurazione dei flussi di potere: non più dall’alto verso il basso,
ma dal basso verso l’alto. Le persone non sarebbero più soggette alla volontà di centri di potere lontani; le
comunità potrebbero produrre molti dei beni e dei servizi di cui necessitano, e consumare localmente i
frutti del proprio lavoro. Ma essendo tutti, comunque, connessi attraverso le reti globali dell’energia e delle
comunicazioni, ciascuno potrebbe condividere con altre comunità in tutto il mondo prodotti, servizi,
competenze tecniche e capacità economiche […], punto di partenza di un’interdipendenza globale, assai
diversa dai regimi coloniali del passato13.
Il principale difetto della globalizzazione è la sua incapacità di elaborare meccanismi di rallentamento, il
suo procedere per shock di liberalizzazione per lo più a senso unico, che costringono il lavoro, specie
quello delle aree povere, a rincorrere l’innovazione rendendosi disponibile a prezzi non più dignitosi per
la vita della persona. E privato di dignità risulta l’habitat in cui la grande povertà risiede, perché a
renderlo appetibile a nuovi investimenti ci pensa la deregulation, che mina le norme a tutela dell’ambiente
e della salute, rendendo meno competitive le aree più vincolate e spingendo ad una corsa al ribasso delle
condizioni di vivibilità. E così il pianeta si fa discarica, serbatoio della sempre maggior entropia generata
dalla velocità produttiva. Tutto ciò noi fingiamo di non vederlo, e del resto i media non possono fare a
meno di venderci cirecenses apparentemente inesauribili, perché il divertimento è un fattore compulsivo
della crescita.
Dovremmo provare a riattingere al serbatoio di riserva dell’immaginario simbolico e religioso, provare a
riscoprire l’utilità sociale e il valore ambientale di istituti che, nelle profondità della nostra storia,
invitano alla redistribuzione del reddito, prendendosi cura del debito contratto dai più deboli anelli della
13 Cfr. J.RIFKIN, Economia all’idrogeno, tr. it. di P. Canton, Milano 2003, p. 296. Cfr. anche p. 225 (sull’elettrolisi); p. 232 (sulle celle a combustibile); p. 302 (sulla geopolitica); infine p. 305 e sgg., le pagine conclusive, che riprendono il dibattito relativo all’«ipotesi di Gaia» e al carattere di vivente della biosfera. Cfr. anche S. LATOUCHE, op. cit., pp. 124-26 e p. 134.
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catena. Si pensi soltanto al significato della pratica periodica dell’indulgenza nella tradizione ebraica.
L’indulgenza allevia e rende dolce, o meno amara, la situazione di svantaggio del povero, o forse spinge il
ricco ad un atto quasi dovuto, dovuto alla comune appartenenza, del ricco e del povero, ad un ordine
ambientale e naturale di risorse disponibili quanto deperibili.
L’invito alla moderazione e all’umile sobrietà, proprio quando si cavalca l’onda inebriante del benessere,
è quanto raccomanda anche la saggezza dei poeti tragici, i cantori della catena delle appropriazioni di
beni e poteri, foriere di delitti e sciagure. Chiudiamo quindi con l’invito-invocazione pronunciata dal
coro dell’Agamennone.
Purtroppo, l’eccessiva salute è limite che non sa placarsi: il male muro a muro, insidioso vicino, è il suo puntello! Così la sorte umana – nave dalla dritta scia – ecco, è in pezzi su uno spuntone che non vedi affiorare. Cautela ci vorrebbe, gettare a mare parte del carico ricco: un colpo di fionda, ben misurato. Non sprofonda allora, l’intera casa, lei e la sua straripante ricchezza, non si prende il mare la chiglia. I doni a piene mani di Zeus, i doni della zolla, solcata stagione dopo stagione scacciano il famelico tormento14.
14 Vv. 1001-1017 (tr. it. di E. Savino, Milano 1989). Mi piace ricordare che anche quel complesso intreccio di miti tragici condensati nella Tetralogia wagneriana, composta negli anni della piena industrializzazione dell’economia europea, ruotano intorno all’idea che l’oro sottratto alle figlie del Reno, simbolo di un potere bramato a costo della rinuncia all’amore e della contrazione del male intrinseco al ricco possesso (l’inevitabile decadenza), venga restituito incontaminato al suo luogo d’origine, affinché l’integrità della terra sia preservata e sia impedito (come invece accadrà nel mito) il finale olocausto del mondo. Sull’etica dell’accoglienza e della restituzione, e sul dono, cfr. S.LATOUCHE, op. cit., pp. 67-69, pp. 110-115, pp. 155-56, e p. 13 (su un rituale indiano di restituzione).
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Economia generale ed economia ristretta in G. Bataille
“Io appartengo a coloro che destinano gli uomini a qualcosa di diverso
dall’incessante aumento della produzione, che li incitano all’orrore sacro1”.
di Ambra Guarnieri
Tra gli oggetti della speculazione batailleana – tanto intensa quanto frammentaria– uno spazio di rilievo
è occupato dalla sua riflessione economica.
Il progetto cui l’autore intende dar vita si può realizzare solo a condizione di superare la concezione
propria dell’economia ristretta – la cui operazione è limitata alla produzione ed all’accumulazione utile delle
ricchezze – in direzione di un’economia generale, in cui “ il dispendio (il “consumo”) delle ricchezze [sia],
in rapporto alla produzione, l’oggetto primo2”.
La ricostruzione di questa operazione è affidata da Derrida al suo saggio Dall’economia ristretta all’economia
generale3. In questo testo, l’autore riproduce l’intenzione di Bataille oltrepassando, sulla scia del primo, i
margini dell’economia intesa come la “scienza che tratta l’uso delle ricchezze, limitata al senso ed al
valore degli oggetti, alla loro circolazione4”, e, aprendone il circuito concluso, approda ad un contesto
illimitato in cui si evidenzia l’esistenza di un’eccedenza di energia che non si lascia utilizzare, ma viene
inevitabilmente perduta5.
Ma vediamo di individuare quali questioni solleva il passaggio tra le due prospettive.
1 G. Bataille, Il limite dell’utile, tr. it. a cura di Felice Ciro Papparo, Adelphi edizioni, Milano 2000, p. 113. 2 G. Bataille, La parte maledetta preceduto dalla nozione di dépense, tr.it a cura di Francesco Serna, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 63. 3 J. Derrida, Dall’economia ristretta all’economia generale, in La scrittura e la differenza, tr.it. a cura di Gianni Pozzi, Einaudi, Torino, 1971. 4 Ibid, p. 351. 5 Derrida sembra in maggior grado interessato a declinare il passaggio tra le due prospettive nell’ambito della scrittura. Il paradigma dell’economia intesa nel suo significato classico, in cui essa è limitata alla “circolazione delle ricchezze”, definisce una forma di scrittura caratterizzata dalla circolazione del senso, in cui nessun valore viene perduto: l’esempio più calzante di questa scrittura è rappresentato dalla Fenomenologia dello spirito. Viceversa, il paradigma dell’economia intesa in una accezione estesa, generale, definisce una scrittura che fa del “debordamento” del senso il suo tratto principale, mostrando come qualche valore fuoriesca inevitabilmente dal circolo del sapere. Scrittura di sovranità, essa trova nella scrittura del sogno proprio della Traumdeutung di Freud un contributo essenziale alla sua esemplificazione.
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Se l’ambito che designa l’economia ristretta mantiene una “struttura odisseica” – in cui ogni valore
ritorna e rientra nel circuito del consumo produttivo – ammettere, viceversa, che esiste uno spazio in cui
l’energia determina un plusvalore che non si può impiegare, comporta per la specie umana di non essere
più limitata alla sola funzione della produttività.
Per sfociare nella generalità di una economia “à la mesure de l’univers6”, che – non più legata a funzioni
parziali – comprenda in sé non solo i processi produttivi ma anche quelli improduttivi, occorre
“inserire” l’ambito dell’economia intesa nel suo contesto ristretto – in cui si riconosce esclusivamente il
valore del dispendio produttivo – all’interno di un insieme “più vasto”, in cui a quest’ultimo si preferisce il
dispendio improduttivo.
Per realizzare una simile operazione teorica è di fondamentale importanza, innanzitutto, distinguere il
consumo in “due parti”. Osserva a questo proposito Bataille:
L’attività umana non è interamente riducibile ai processi di produzione e di conservazione, e il consumo
dev’essere diviso in due parti distinte. La prima, riducibile, è rappresentata dall’uso del minimo necessario,
agli individui di una data società, per la conservazione della vita e per la continuazione dell’attività
produttiva: si tratta dunque della condizione fondamentale di quest’ultima. La seconda parte è
rappresentata dalle spese cosiddette improduttive: il lusso, i lutti, le guerre, i culti, le costruzioni di
monumenti suntuari, i giochi, gli spettacoli, le arti, l’attività sessuale perversa (cioè deviata dalla finalità
genitale) rappresentano altrettante attività che, almeno nelle condizioni primitive, hanno il loro fine in se
stesse7.
La “prima parte” del consumo si inserisce ancora nell’ottica dell’attività produttiva, di cui rappresenta
insieme la condizione ed il termine intermedio. Per ora, limitamoci a chiamare la “seconda parte” di
quest’ultimo consumo improduttivo, ed a rilevare che esso mostra una certa corrispondenza con
l’economia generale.
Ora che iniziamo ad intravedere l’orizzonte dischiuso dall’economia generale, sarebbe opportuno
spendere qualche parola sulle basi su cui Bataille intende fondarla. Innanzitutto ci chiederemo: quali
principi garantiscono la sua possibilità? Imiterò qui abbastanza fedelmente l’andamento seguito della
riflessione di Bataille nella Parte Maledetta.
L’organismo vivente riceve in teoria più energia (..) di quanta sia necessaria al mantenimento della vita:
l’energia (la ricchezza) eccedente può essere utilizzata per la crescita di un sistema (per esempio di un
6 Si veda OC, vol.VII, pp. 7-16. 7 G. Bataille, La parte maledetta preceduto dalla nozione di dépense, tr.it a cura di Francesco Serna, Bollati Boringhieri, Torino 1992 p. 44.
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organismo); se il sistema non può crescere, o se l’eccedenza non può per intero essere assorbita nella sua
crescita, bisogna necessariamente perderla senza profitto, spenderla, volentieri o meno, gloriosamente o in
modo catastrofico8.
L’esistenza di una sovrabbondanza di energia di cui l’organismo, o il sistema, dispongono normalmente
in natura – e che questi ultimi non possono impiegare né per la crescita né per la riproduzione – è il
presupposto su cui si fonda l’economia generale. Essa annuncia l’esistenza di un’eccedenza di energia che
– non potendo prendere parte ai processi produttivi – è inevitabilmente perduta, spesa senza profitto.
Del resto, è un fatto evidente che, in natura:
Solo l’impossibilità di continuare la crescita apre la via alla dilapidazione. La vera eccedenza comincia
dunque soltanto una volta che sia limitata la crescita dell’individuo o del gruppo9.
Seguendo la via tracciata da Bataille, ammettiamo, allora, che, “per la materia vivente in generale,
l’energia [sia] sempre in eccesso10”.
A dire il vero, guardando le cose dall’angolazione propria dell’economia ristretta, siamo portati a
ricevere l’impressione contraria: la “scienza economica” tradizionale, considerando solo il punto di vista
dei sistemi particolari ( siano essi organismi od imprese), e, limitando il suo oggetto alle operazioni fatte
in vista di un “fine limitato”, finisce inevitabilmente per accentuare l’aspetto di separazione che esiste sia
tra gli esseri viventi sia tra le risorse che essi hanno a disposizione, portando ad evidenza, di queste
ultime, la sostanziale mancanza. Avviene così che l’essere “separato” – osserva Bataille – “
incessantemente manca di risorse, (..) è soltanto un eterno bisognoso11”.
Un’ alternativa ci è offerta dall’assunzione del punto di vista dell’economia generale. Attraverso il suo
“spettro” si rende evidente il “gioco della materia vivente in generale, presa nel movimento di luce di
cui è effetto12”, e il problema non è più posto dall’insufficienza delle risorse, bensì dal loro eccesso.
Stando così le cose l’individuo, coinvolto in un “movimento generale di essudazione della materia
vivente13”, poiché la questione, che all’essere separato si poneva in termini di necessità, si presenta ora in
termini di lusso, può limitare la sua scelta al modo di dilapidare le ricchezze. Come negare, del resto, che
“ l’insieme della vita è per essenza un traboccare14”?
8 Ibid, p. 73. 9 Ibid, p. 80. 10 Ibid, p.74. 11 Ibid, p.75. 12 Ibid. 13 Ibid. 14 Ibid.
33
Ora che abbiamo individuato nella sovrabbondanza di energia disponibile nell’universo la condizione
sine qua non per un’economia generale, sarebbe opportuno riflettere su quali siano gli oggetti ai quali
questa scienza15 si applica e le modalità in base alle quali questo rapporto si istituisce.
Se infatti possiamo affermare con certezza che l’economia generale non si interessi alla circolazione
delle ricchezze e al loro investimento produttivo – che costituiscono nel complesso gli oggetti
privilegiati di indagine di una economia ristretta “ai valori di mercato16” – quali fenomeni può essa
riguardare? Quali fenomeni cioè possono essere inclusi, o meglio, inscritti nel suo orizzonte, in qualità di
manifestazioni di quell’energia eccedente che sembra, da ogni parte, animare l’universo? Al di là delle
intenzioni “ristrette” degli esseri individuali, quali forme prende il movimento generale della
dilapidazione dell’energia? Si può, con qualche ragione, iniziare a cercare una risposta a queste questioni
sviluppando preliminarmente alcune implicazioni contenute nel concetto di dépense.
È, in definitiva, nella nozione di dépense17 che Bataille sembra gettare le premesse teoriche per il suo
discorso sull’economia generale. Nelle prime pagine del saggio, Bataille illustra quel “vizio” che sembra
inficiare la coscienza comune, il quale consiste nella sottomissione quasi “incondizionata” al principio
classico dell’utilità (cioè della “pretesa utilità materiale”) come fine implicito di ogni attività. Osserva
Bataille:
Tuttavia, la pratica corrente non si preoccupa di queste difficoltà elementari, e la coscienza comune, al
primo approccio, sembra non possa opporre altro che riserve verbali al principio dell’utilità , cioè della
pretesa utilità materiale. Questa, teoricamente, ha per fine il piacere – ma soltanto in una forma blanda,
temperata, essendo considerato patologico il piacere violento – e viene limitata all’acquisizione
(praticamente alla produzione) e alla conservazione dei beni, da un lato; alla riproduzione ed alla
conservazione delle vite umane, dall’altro(..)18.
Fedelmente a questa concezione dell’esistenza, la “parte più apprezzabile della vita” è destinata a essere
la condizione, talvolta deplorevole, dell’“attività produttiva”, mentre un ruolo marginale è affidato al
piacere, poiché, “si tratti di arte, di vizio consentito o di gioco19”, esso è ridotto a una concessione.
15 Nel Methode de méditation, compare questa definizione di economia generale: “ La scienza che rapporta gli oggetti di pensiero ai momenti sovrani non è di fatto se non una economia generale, che studia il senso di quegli oggetti, gli uni in rapporto agli altri e, infine, in rapporto alla perdita di senso51”. La definizione è citata da Derrida,in J. Derrida, Dall’economia ristretta all’economia generale, in La scrittura e la differenza, tr.it. a cura di Gianni Pozzi, Einaudi, Torino, 1971, p. 349. 16 Ibid, p. 349. 17 G. Bataille, La nozione di dépense in La parte maledetta preceduto dalla nozione di dépense, tr.it a cura di Francesco Serna, Bollati Boringhieri, Torino 1992. 18 Ibid, p. 42. 19 Ibid.
34
La spartizione tra utilità e piacere, con la relegazione del secondo ad aspetto marginale della vita sociale,
sottintende chiaramente il principio dell’utilità, in base al quale la maggior parte dell’attività sociale deve
essere votata alla produzione ed alla conservazione delle ricchezze. Insieme al primo, la specie umana
ha adottato il principio del lavoro, nella cui prospettiva essa si pone inevitabilmente in una costante
protensione verso il futuro, con l’evidente rischio di perdere la centralità del tempo presente e di
misconoscere il valore dell’istante.
Smentendo le concezioni dominanti, Bataille fa del principio di utilità un valore relativo, ed, insufficiente a
far fronte ai bisogni reali della società, gli oppone il principio della perdita.
Sulla base della distinzione tra il consumo produttivo – che comprende solo le spese che servono da
condizione e da termine medio alla produzione, ed è “rappresentato dal minimo necessario, agli
individui di una data società, per la conservazione della vita e per la continuazione dell’attività
produttiva20” – ed il consumo improduttivo – di cui “ il lusso, i lutti, le guerre, i culti, le costruzioni di
monumenti suntuari, i giochi, le arti, l’attività sessuale21” sono solo alcune forme – Bataille trova in
quest’ultimo un terreno fertile per evidenziare la portata della “legge” della perdita:
Orbene, è necessario riservare il nome di dépense a queste forme improduttive, escludendo tutti i modi del
consumo che servono da termine medio alla produzione. Pur essendo sempre possibile opporre le diverse
forme enumerate le une alle altre, esse costituiscono un insieme caratterizzato dal fatto che, in ciascun
caso, l’accento viene posto sulla perdita, che dev’ essere la più grande possibile affinché l’attività acquisti il
suo vero senso22.
Se cerchiamo di interpretare queste prime riflessioni sulla dépense un po’ più ampiamente, diremo che
l’autore, che pur riconosce nei processi di produzione e di conservazione dei beni uno dei fini che può
assumere l’attività umana, non condivide una posizione che la limiti all’orizzonte dei processi utili,
essendo ai suoi occhi evidente come – nel rovescio di queste attività – si nasconda sempre un lato
oscuro che è consacrato al dispendio di quelle stesse energie e ricchezze che i primi miravano a far
fruttare. È in definitiva su questa zona d’ombra che egli intende porre la propria attenzione.
In effetti, una delle intenzioni proprie dell’operazione di Bataille sembra consistere nel rivendicare la
necessità, per l’attività umana, di ritagliarsi uno spazio autonomo dai processi di produzione e di sviluppo:
chiamato parte maledetta, esso si configura come l’insieme delle forme improduttive in cui il segnale più
evidente del ritiro dal circuito della produzione è dato dal desiderio dello spreco. Tutte queste queste
20 Ibid, p.44. 21 Ibid. 22 Ibid.
35
forme, poiché trovano il loro fine in se stesse, o anche, non “servono a nulla”, sono chiamate da
Bataille sovrane, e si basano evidentemente sul principio della perdita.
Pensando l’umanità nell’orizzonte configurato dai momenti sovrani, si aprono per la prima nuove
possibilità. Innanzitutto, essa può iniziare a ritrovare il proprio spazio di realizzazione nel presente, cosa
che il lavoro, subordinando sempre il presente ad un risultato collocato nel futuro, le aveva reso
impossibile. E, ancor più importante, essa può “riconvertire” in sovrana la sua natura, degradata in servile
per la sottomissione a scopi ulteriori, riacquistando la libertà di scatenare il suo desiderio oltre ogni
“incatenamento ragionevole”. Osserva Bataille:
L’introduzione del lavoro nel mondo sostituì sin dall’inizio all’intimità, alla profondità del suo desiderio ed
al suo libero scatenarsi, l’incatenamento ragionevole ove la verità dell’istante presente non conta più, bensì
importa l’ulteriore risultato delle operazioni23.
A quanto pare, la scoperta di una zona d’ombra nel rovescio del “senso” del lavoro non rappresenta la
fase più compiuta della riflessione condotta dall’autore, ma solamente il primo passo in direzione di una
riaffermazione categorica del carattere sovrano, gioioso e risibile dell’esistere.
L’ ipotesi avanzata da Bataille mira infatti a dimostrare – per quanto paradossale questa operazione
possa apparire sulle prime – come la dépense, in qualità di funzione sociale, abbia un ruolo centrale e forse,
talmente preminente, da subordinare a sé i processi ai quali è attualmente consacrato il nostro mondo, e
che appaiono ad essa opposti: la produzione e l’acquisizione.
E se è vero che la produzione e l’acquisto, cambiando forma nel loro sviluppo, introducono una variabile
la cui conoscenza è fondamentale per la comprensione dei processi storici, essi , tuttavia, non sono altro
che processi subordinati alla dépense24.
È così che il discorso batailleano intreccia la prospettiva storica25: una “economica generale” deve
iniziare proprio con i dati storici, è portata a percorrerli secondo una nuova angolazione, in modo tale
da introdurre una “variabile” alla loro comprensione.
23 G. Bataille, La parte maledetta preceduto dalla nozione di dépense, tr.it a cura di Francesco Serna, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p.105. 24 G. Bataille, La nozione di dépense in La parte maledetta preceduto dalla nozione di dépense, tr.it a cura di Francesco Serna, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 47. 25 Possiamo affermare a buon diritto che l’economia generale si presta a diventare un valido strumento ausiliare all’ indagine storica, orientandola in direzione di una fuoriuscita da quel “contenitore” limitante che è rappresentato dall’utilità, come principio di valutazione di ogni attività.
36
Questa operazione comporta di fare spazio ad aspetti che prima, nello studio delle società, erano
considerati secondari, marginali, e mira a metterne in luce la primarietà: per il loro tramite si rivela,
innanzitutto, un modo diverso di abitare la terra.
A questo punto, incuriositi dall’operazione bateilliana, ci chiediamo: cosa avviene se l’indagine storica,
che di preferenza si è soffermata sui fattori che determinano la crescita delle società, comincia la sua
ricerca partendo proprio dal modo in cui queste impiegano il sovrappiù dell’energia? In poche parole,
cosa avviene se ci accingiamo alla comprensione storica adottando un punto di vista che privilegia la
dépense improduttiva? Partendo da questo punto di vista, è possibile arrivare a dimostrare, a parere
dell’autore, la primarietà della dépense rispetto ai processi di acquisizione e sviluppo, che apparirebbero
così come dei semplici derivati della prima:
Il carattere secondario della produzione e dell’acquisizione in rapporto alla dépense appare nel modo più
chiaro nella istituzioni primitive, dal fatto che lo scambio vi è ancora trattato come una perdita suntuaria
degli oggetti ceduti: si presenta così, alla base, come un processo di dépense sul quale si è sviluppato un
processo di acquisizione26.
La via per la dimostrazione della primarietà della spesa improduttiva è offerta all’autore dall’analisi di
alcune istituzioni primitive. In particolare, il carattere derivato dell’economia dello scambio rispetto alla
dépense sarebbe verificabile nel potlàc27– istituzione molto antica ma praticata tutt’oggi dagli indiani in
alcune regioni del Nord-america – che è stata oggetto d’indagine anche da parte di Marcel Mauss28.
In verità, il tema del potlàc – incluso generalmente in un campo estrinseco all’economia – rappresenta
uno dei termini-chiave di cui la ricerca batailleana si avvale per declinare il punto di vista dell’economia
generale, e per pensare il suo rovesciamento:
L’esame di questa istituzione cosi’ strana – e tuttavia cosi’ familiare(..) – ha del resto, nell’economia
generale, un valore privilegiato29.
Infatti, se Bataille considera questa “strana” istituzione uno dei “cardini” per la formulazione dei
principi che stanno alla base di una economia generale, è perché essa esibisce delle modalità che
riflettono – e si riflettono – nell’economia generale. Sin dall’inizio il potlàc mostra una contraddizione,
26 Ibid, p. 48. 27 Il potlàc consiste, per farla breve, nel dono di ricchezze che un capo fa al suo rivale, offerta al quale questi risponde con un dono ancor piu’ generoso del primo. Si innesca cosi’ un sistema di doni a catena, uno scambio-di-doni. 28 Mauss si è soffermato sul fenomeno del potlàc nel celebre Saggio sul dono, dove ha avanzato l’ipotesi che quest’ultimo, e non il baratto, si situi alle origini dello scambio mercantile. 29 Ibid, p. 115.
37
un’ambiguità fondamentale: regolato da un movimento dell’energia che non è riducibile all’utilità, esso
sembra fare della dilapidazione, inaspettatamente, un oggetto di “appropriazione”.
Ma, se il movimento che regola il potlàc è lo stesso dell’economia generale, Bataille ne riassume in questo
modo le leggi fondamentali:
– Un sovrappiù di risorse di cui le società dispongono in modo costante, in certi luoghi, in certi momenti,
non può essere oggetto di una piena appropriazione (non se ne può fare un impiego utile, non lo si può
impiegare nella crescita delle forze produttive), ma la dilapidazione di queste risorse diventa essa stessa
oggetto di appropriazione.
– ciò di cui ci si appropria nella dilapidazione è il prestigio che essa dà al dissipatore ( individuo o gruppo),
prestigio che viene da lui acquisito come un bene e determina il suo rango
– reciprocamente, il rango nella società (o il rango di una società o di un insieme) può essere un oggetto di
cui ci si appropria nello stesso modo in cui ci si appropria di un utensile o di un campo; se infine è fonte di
profitto, il principio non è meno determinato da una dilapidazione decisa di risorse che avrebbero potuto,
in teoria, essere acquisite30.
Secondo l’autore, l’aspetto di acquisizione che si sviluppa nel potlàc31, non è tanto rappresentato
dall’“inevitabile sovrappiù dei doni di rivincita” che tornano al donatore – quanto piuttosto dal rango e
dal prestigio che il dono di rivalità conferisce “a chi ha l’ultima parola32”
Ma se è vero che il potlàc resta l’inverso di una rapina, di uno scambio redditizio o, generalmente, di una
appropriazione di beni, ciò nondimeno l’acquisizione ne è il fine ultimo33.
Animato da un movimento affine a quello del potlàc, il sacrificio risponde alla volontà di negare
l’impiego servile di una cosa, ciò che sia la schiavitù, ma anche, primariamente, il lavoro, hanno come
diretta conseguenza:
Il sacrificio restituisce al mondo del sacro ciò che l’uso servile ha degradato, reso profano. L’uso servile ha
reso cosa (oggetto) una realtà che, nel profondo, è della stessa natura del soggetto, che si trova con il
soggetto in un rapporto d’intima partecipazione34.
30 Ibid, p. 118. 31 Quale forma sovrana , che proclama la dissipazione gloriosa e senza profitto della ricchezza, il potlàc si configura come un fenomeno di pura perdita (dal momento che, come il dono, permette la sospensione di ogni calcolo economico) – dall’altro, tuttavia – è visto come un mezzo attraverso il quale le ricchezze in linea di massima possono circolare, e – riprendendo su questo punto l’esito della ricerca di Mauss – come quella forma “arcaica” di commercio che si pone ai primordi dello scambio mercantile vero e proprio. Da un lato – “gioco”, e come tale “contrario ad un principio di conservazione”– dall’altro – mezzo che garantisce la circolazione della ricchezza, il potlàc sembra riflettere in tutto e per tutto le ambiguità e le contraddizioni proprie del dono. Sulla problematica del rapporto dono-economia, cfr. J.Derrida, Donare il tempo, tr.it. a cura di Graziella Berto, Raffaello Cortina editore, Milano, 1996. 32 Ibid, corsivo mio, p. 117. 33 Ibid, p. 118.
38
Nel tentativo di restituire al mondo del sacro ciò che l’uso profano, cioè servile, ha degradato, rendendo
“oggetto” una realtà che si poneva conforme alla natura di un “soggetto35”, questo gesto estremo si
serve della distruzione, poiché quest’ultima appare, in definitiva, “il miglior mezzo per negare un
rapporto utilitario tra l’uomo e l’animale o la pianta36”.
Il sacrificio è votato alla distruzione senza profitto delle ricchezze, operazione il cui scopo è, al limite,
quello di garantire una comunicazione sacra tra i suoi partecipanti, conquistata tramite l’annientamento
della cosa e della sua utilità. Tuttavia, il movimento che lo rivela è talmente denso di contraddizioni da
farne un enigma. Si verifica nel sacrificio qualcosa di simile a ciò che abbiamo visto (in opera) nel potlàc:
se in quest’ultimo la perdita è mutata in acquisto nel rango, la consumazione che si mette in gioco nel
sacrificio è volta ad una sostanziale conservazione.
Il sacrificio è il calore, dove si ritrova l’intimità di quelli che compongono il sistema delle opere comuni. La
violenza né è il principio, ma le opere la limitano nel tempo e nello spazio ; essa si subordina alla
preoccupazione di unire e di conservare la cosa comune37.
Non più la distruzione assoluta e sfrenata delle ricchezze, ma, diversamente, la distruzione delle
ricchezze in vista della loro preservazione sembra racchiudere il significato più profondo del rito
sacrificale. Lungi dal segnare l’interruzione del calcolo economico, il suo movimento potrebbe rientrare
– per un “colpo di dadi” – negli stessi margini di quel consumo produttivo o ri-produttivo che
intendeva interrompere. Riflettiamo su una metafora:
Alla nostra sinistra non basta sapere ciò che dà la destra: cerca di riprenderlo tortuosamente38.
Oltre al sacrificio, esiste un altro momento sovrano in cui la relazione tra soggetto ed oggetto appare
spostata oltre le coordinate oppositive e frontali: la modalità comunicativa esibita dal primo si ritrova
infatti nel riso, quella “forma di comunicazione maggiore in cui tutto è violentemente messo in
questione”, che rappresenta un altro dei temi e dei termini-chiave di cui Bataille si serve per declinare il
34 Ibid, p. 104. 35 Rendendo indistinguibili il sacrificante e la vittima, che si fondono e si confondono in una partecipazione intima, assoluta, il sacrificio apre la possibilità di pensare una forma di comunicazione estrema, realizzabile solo a condizione di quella “perdità di sé” che segna la distruzione dell’ipseità. 36 Ibid, p. 104. Se è vero che la violenza è il principio che domina il sacrificio, è opportuno sottolineare come quest’ultima sia sempre controllata: limitata dalla parte della vittima, essa non coinvolge il resto della comunità, la quale, oltre ad essere preservata dalla rovina, è garantita dal sacrificio stesso. In definitiva, se la comunità si dedica al rito, è nella speranza che questo sia un mezzo adatto per garantirla. 37 Ibid, corsivo mio, p. 107. 38 Ibid.
39
suo originale pensiero della soggettività, orientato in direzione di una fuoriuscita dell’uomo dal suolo
solo “calcolante”.
Colui che inavvertitamente cade [colui di cui si ride] è il sostituto di una vittima messa a morte, la gioia
comune del riso è il sostituto di una comunicazione sacra39.
Se è vero che il riso ed il sacrificio si muovono su di un terreno comune, è perché entrambi i fenomeni
rivelano la capacità di aprire, per coloro che hanno la possibilità di farne esperienza, uno spazio – in cui
vigono logiche e principi differenti rispetto a quelli che dominano il mondo del serio – caratterizzato da
una modalità di comunicazione che si gioca sulla perdita di sé.
Ciò non significa propriamente che il riso riproduca in senso concreto la pratica sacrificale, quanto
piuttosto che esso imiti la modalità relazionale che è in esso inscritta, avvalendosi di quella “perdità di sé”
come condizione imprescindibile che, sfiorando il limite della morte, equivale ad una messa in gioco40
totale, violenta, in cui il soggetto può trovare coinvolta anche la propria vita:
La comunicazione può mettere in gioco la vita intera, e le possibilità minori si cancellano in confronto ad
una possibilità così grande41.
Modo per eccellenza dell’operazione sovrana, il riso è presentato da Derrida42 come lo strumento che
Bataille predilige per prendere le distanze dal sistema hegeliano, e per “scardinare” i concetti sui quali
esso si fonda. Introdotto come quel tratto che“ [esploso] solo in seguito alla rinuncia assoluta al senso,
in seguito al rischio assoluto della morte43” permette alla sovranità di “farsi beffe” del sistema hegeliano
e di vanificare la sua pretesa compiutezza, esso è l’elemento chiamato a dimostrare come sia possibile
“eccedere” la dialettica, ed il dialettico, in direzione di un orizzonte in cui il “lavoro del senso” proprio
della Fenomenologia può essere inscritto in uno spazio illimitato di non-senso e di gioco.
39 G. Bataille, Il limite dell’utile, tr. it. a cura di Felice Ciro Papparo, Adelphi edizioni, Milano 2000, p. 146. Su questo argomento, l’introduzione del riso a partire dall’enigma del sacrificio, cfr. Il limite dell’utile di Bataille. Come il sacrificio, il riso rappresenta un enigma; anzi, i due enigmi sono tra loro sostituibili: la questione del riso è solamente un’altra formulazione dell’enigma del sacrificio, una ri-formulazione del primo che si serve di termini differenti.
40 La messa in gioco della propria vita della vita – oltre ad evidenziarsi nel sacrificio e nel totale “dono di sé” – si serve della maschera del riso, indossata ed esibita dalla sovranità come quel simbolo di “rischio assoluto” che le consente di superare la signoria hegeliana. Ma che distanza intercorre tra le due figure? Secondo Derrida, l’intervallo che distingue la signoria dalla sovranità si può così esprimere : “la differenza del senso[ e ] l’intervallo unico che separa il senso da un certo non-senso”(Dall’economia ristretta all’economia generale, cit., p. 330). 41 Ibid, p. 144. 42 Su questo argomento, cfr. J. Derrida, Dall’economia ristretta all’economia generale, in La scrittura e la differenza, tr.it. a cura di Gianni Pozzi, Einaudi, Torino, 1971. 43 Ibid, p. 331.
40
Sarebbe bastato, del resto, attenersi alla ricostruzione dell’operazione sovrana compiuta da Derrida44, per
coglierla in tutta la sua portata complessa e paradossale. Osserva in proposito l’autore:
Ben lungi dall’interrompere la dialettica, la storia ed il movimento del senso, la sovranità dà all’economia
della ragione il suo elemento, il suo ambiente, i suoi margini illimitati di non-senso. Lungi dal sopprimere
la dialettica, essa la inscrive e la fa funzionare nel sacrificio del senso45.
A questo punto, la nostra breve ricerca attraverso i momenti sovrani contenuti nella riflessione di
Bataille sta per concludersi, nella speranza che la loro analisi abbia fornito una piccola “mappa” per
esplorare i margini propri di una economia generale. Richiamo, infine, la nostra attenzione ad una delle
sue definizioni:
La scienza che rapporta gli oggetti di pensiero ai momenti sovrani non è di fatto se non una economia
generale, che studia il senso di quegli oggetti, gli uni in rapporto agli altri e, infine, in rapporto alla perdita
di senso46.
Tuttavia, se è possibile raccogliere insieme le considerazioni che sono state elaborate fino a qui, è
ancora opportuno considerare il consumo dell’energia eccedente – che si mette in gioco nel contesto
dell’economia generale – come un movimento volto alla consumazione “distruttrice” del senso? Non si
rischia forse di incorrere in un errore grossolano ad interpretare le definizioni intorno a questa scienza
in senso così “reazionario”? Ancora, se la trasgressione del senso messa in moto dall’operazione
sovrana non comporta l’accesso ad un non-senso assoluto, che valore può essa rivestire?
Una breve precisazione di Derrida alla definizione appena citata contiene, a mio avviso, il significato più
compiuto di economia generale:
Il consumo dell’energia eccedente da parte di una classe determinata non è la consumazione distruttrice
del senso: è la riappropriazione significante nello spazio dell’economia ristretta47.
Rileggendo la questione relativa all’economia generale e all’economia ristretta secondo questa chiave,
l’economia generale ci apparirà attraversata dal suo stesso limite, l’economia ristretta, che, in questi
termini, non appare più un contesto ad essa esterno, ma l’elemento che dall’interno ne marca il margine.
Ci si offre la possibilità di ri-considerare la relazione che, sulle prime, ci è apparsa segnata da una netta
discontinuità – da un profondo iato – tra l’economia ristretta e l’economia generale: quale intervallo
44 Ibid. 45 Ibid, p. 337. 46 Ibid, p. 349. La definizione, citata da Derrida, è contenuta nel Méthode de méditation di Bataille. 47 Ibid, p. 349.
41
divide l’ambito della cosiddetta spesa senza riserva, dell’ “usura irreversibile dell’energia48” che – al
limite come “pulsione di morte” – interrompe ogni economia, e quello proprio – invece – del calcolo
economico?
Accogliendo questa prospettiva, la condizione per la significazione di entrambi i contesti richiede che
ciascun elemento si rapporti all’altro. Così come il consumo, sia pure nella sua forma produttiva, cioè
limitata razionalmente, è sempre il rovescio o l’altra faccia dell’attività49, in quanto l’attività lo produce
inevitabilmente, ed un certo consumo appare sempre funzionale all’attività produttiva, allo stesso
modo, partendo dalle forme del puro dispendio improduttivo – che abbiamo visto assumere le
sembianze delle forme sovrane – è sempre possibile ravvisare in esse degli aspetti che rimandano
all’economia come movimento di circolazione ed acquisizione di ricchezze .
Una scommessa ci porta, infine, ad inscrivere l’intervallo tra l’economia ristretta e l’economia generale
nella différance, né parola né concetto, ma movimento di spaziamento e temporeggiamento, “divenir-
spazio del tempo o divenir-tempo dello spazio50”. Con questo, non si vuole cancellare l’opposizione
che divide i due ambiti, l’orizzonte del lavoro e dell’utile dalla parte maledetta del dispendio assoluto, il
futuro come temporalità in cui è inscritta l’attività dell’uomo serio, dal presente che abita l’uomo
sovrano, né abolire la distanza tra la necessità ed il piacere come principi sottesi, rispettivamente, alla
condotta di ciascuno. Si vuole mostrare piuttosto come “ uno dei termini appaia come la différance
dell’altro, come l’altro differito nell’economia del medesimo51”. Sicuramente i due ambiti sono tra loro
differenti e discernibili: c’è uno scarto a dividerli, uno spaziamento.
Tuttavia, la differenza che solca le due prospettive può essere esplorata anche in chiave storica:
Un tempo il valore era attribuito alla gloria improduttiva, mentre ai nostri giorni lo si riferisce alla
produzione: la dépense deve cedere il passo all’acquisizione dell’energia52.
La prospettiva storica è quella che, tutto sommato, riveste maggior interesse agli occhi di Bataille, dal
momento che l’analisi dei dati storici attinenti alle società diventa il mezzo più adatto per informare il
lettore su quel “sentimento arcaico” – suscitato dal conferire valore alla “gloria improduttiva” – che
nell’epoca presente sembra velato, se non, addirittura perduto, verificandosi al giorno d’oggi che “ il
valore [risulti] proporzionale alla produzione53”.
48 J. Derrida, La “différance”, in Margini della filosofia, tr.it. a cura di Manlio Iofrida, Einaudi, Torino 1997, p. 48. 49 Vedere più sopra, quando si è parlato della differenza tra il consumo produttivo e quello improduttivo. 50 Ibid, p. 40. 51 Ibid, p. 46. 52 G. Bataille, La parte maledetta preceduto dalla nozione di dépense, p. 79. 53 Ibid, p. 79.
42
Ma se è necessario – come sembra difatti essere – “procedere a ritroso” per guadagnare, o riguadagnare,
quell’inversione della morale comune che l’assunzione del punto di vista dell’economia generale porta
con sé, allora la différance – che inscrive in sé il gioco, il dialogo, o anche la discordia tra l’economia
ristretta e l’economia generale – è qui anche temporeggiamento: il punto di vista che privilegia la
produzione si presenta storicamente con un certo ritardo rispetto a quello che esalta la gloria
improduttiva, rappresentandone, forse, una deviazione.
Non è già questa la svolta (Aufschub) che instaura [in Freud], il rapporto tra il piacere e la realtà( Al di là del
principio di piacere)?54.
54 J. Derrida, Freud e la scena della scrittura, in La scrittura e la differenza, tr.it. a cura di Gianni Pozzi, Einaudi, Torino, 1971, p. 261.