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Stampato in 60.000 copie su carta riciclata al 100% da post-consumo Milano, 27 Marzo 2006 Il crollo delle aspettative Incontro con Luca Doninelli Per te è stato facile fare lo scrittore a Milano? Rispetto ad altre realtà, o rispetto ad altri momenti nella storia della città... Ogni città ha le sue durezze, le sue refrattarietà, ma anche i suoi punti d’ingresso. Uno scrittore dovrebbe conoscere queste cose quando parla di una città, soprattutto se questa città è la sua. Il mio ingresso letterario a Milano ha avuto una guida, un “duca” particolare: Giovanni Testori. Naturalmente la Milano di oggi non è quella di Testori (che lui stesso, peraltro, provvide a radere al suolo ne “Gli angeli dello sterminio”), dopo di lui bisognava ricostruirla, anche letterariamente. Milano oggi è una città condominiale, come dice Albertini: ossia fatta di appartamenti, dunque appartata, fatta di gente appartata. L’appartamento non solo come oggetto ma anche come azione. CONTINUA A PAG 2 I lupi Raul Montanari Voci sotto la superficie Subway, il Tabloid Davide Franzini Dopo cinque anni di letteratura nelle metropolitane di Milano, Roma e Napoli, Subway “esce allo scoperto” e diventa anche un Tabloid con due numeri unici dedicati alle città di Milano e di Roma, distribuiti gratuita- mente nelle strade e in prossimità di luoghi d’incontro, librerie, teatri, cine- ma. In questo numero abbiamo voluto tracciare uno spaccato letterario della nostra città quasi sempre monitorata dal punto di vista politico, economico, sociologico e troppo spesso trascurata, o marginalizzata, rispetto alla sua vita- lità letteraria e creativa. Grazie ai con- tributi di scrittori affermati ed esor- dienti, di critici letterari e osservatori privilegiati del panorama culturale milanese siamo riusciti, credo, a com- porre un mosaico rappresentativo delle trasformazioni che Milano ha consu- mato tra gli anni Novanta e il Duemila. Ci auguriamo che “Subway- Tabloid” possa offrire una galleria di storie, di parole e pensieri, in cui la città e i suoi abitanti potranno spec- chiarsi e magari scoprire un risvolto nascosto e sorprendente. Lo spunto da cui siamo partiti per ideare questo “foglio” letterario è stato il pamphlet di Luca Doninelli “Il crollo delle aspettative - scritti insurrezionali su Milano” intorno a cui abbiamo costruito due interviste, una allo stesso Doninelli e l’altra ad Aldo Brandirali. Alessandro Zaccuri e Oliviero Ponte di Pino hanno realizzato due articoli di critica dedicati rispettivamente al romanzo e alla drammaturgia degli ultimi dieci anni. Due preziosi contribu- ti a cui abbiamo idealmente accostato la ricerca sociologica di Enrico Finzi sulle varie tipologie di lettori (e non...). Un’antologia di sette racconti, tutti ine- diti, si apre con “I Lupi” di Raul Montanari e prosegue alternando le firme di autori affermati, quali Roberto Perrone, Enrico Mottinelli e Alessandro Bertante, con quelle di gio- vani esordienti scoperti nelle preceden- ti edizioni di Subway. La pagina dedicata alla Poesia, curata da Davide Rondoni, racchiude e rac- conta squarci di vita quotidiana visti dal carcere, dal finestrino di un tram o da un marciapiede bagnato dalla piog- gia e si interroga, con un breve corsivo, dello stesso Rondoni, sui luoghi in cui fruire della Poesia. Le immagini fotografiche e le illustra- zioni sono state inserite per associazio- ne libera con i testi e forse costituiscono una storia nella storia, una sorta di ipertesto che potrà essere “letto” come l’ottavo racconto del nostro viaggio attraverso Milano. a cura di Davide Franzini, Oliviero Ponte di Pino e Davide Rondoni Vagone metropolitana Amalia Violi “Io li ho visti. Marina ha sparato un colpo solo, e Francesco è caduto in ginocchio davanti a lei, come in pre- ghiera, come se volesse chiederle qual- cosa di prezioso. Nessuno capiva cosa stesse succedendo; nessuno ha pensato alla verità. Lui si è piegato lentamente in avanti, e anche lei lo ha fatto. Si è chinata e gli ha stretto le tempie fra le mani, appoggiando la fronte alla sua come una madre. Era più giovane di lui, ma il gesto che ha fatto è stato pro- prio quello di una madre. Quelli intor- no a loro non l’hanno capito.” “E poi?” “Poi tutti si sono alzati in piedi, e la confusione è cominciata.” La notte prima del gran giorno, Francesco Alinei sognò una casa buia. C’era una tavola imbandita, nella can- tina della casa, e molte persone sedu- te intorno. Anche lui era seduto, in fondo alla tavola, e gli sembrava di essere tornato ragazzo. Mangiavano. Forse queste persone erano i suoi genitori e i suoi fratelli, ma le loro facce erano coperte da maschere mostruose che lui riusciva appena a intravedere perché la luce era spenta e la cantina rimaneva immersa in una tenebra senza scampo, rischiarata appena dal poco sole che filtrava attraverso una grata. A capotavola sedeva un uomo che doveva essere suo padre: grande, con le spalle lar- ghe come le aveva avute prima della malattia. Sul volto portava la masche- ra di un lupo e Francesco aveva paura di lui più che di ogni altro. Nessuno parlava eppure si sentiva un mormorio, come in chiesa o in una sala da concerto prima che l’orche- stra cominci. Francesco si alzò, perché non sop- portava più gli occhi gialli del lupo seduto là davanti, la vista del sugo della carne che gli colava fra le zanne, sul petto. Si accorse di pian- gere per la paura e per la nostalgia di quando suo padre gli aveva voluto bene e il futuro era pieno di promes- se e sorrisi come un’alba. Gli si avvi- cinò, mentre tutti lo guardavano. Con molto coraggio allungò le mani e afferrò la maschera, cercando di strappargliela. CONTINUA A PAG 14 Un Racconto inedito Settore Giovani Cross your legs Alessandro Belgiojoso SUBWAY- LETTERATURA. ORG VOCI SOTTO LA SUPERFICIE Incontro pubblico tra gli autori e i lettori di Subway-Tabloid *** 1 aprile 2006 ore 18.30 Sala delle Conferenze, Palazzo Reale Piazza del Duomo 12 - INGRESSO LIBERO - Poesia, respiro della città *** Contro le case chiuse (della poesia) Davide Rondoni A PAG. 3 Autori, racconti e pensieri su Milano Nuova creatività, nuove imprese Subway intervista Aldo Brandirali Aldo Brandirali è da cinque anni Assessore allo Sport e ai Giovani del Comune di Milano. Come responsa- bile delle Politiche Giovanili, segna- tamente alle creatività, ha avuto modo di toccare da vicino i muta- menti della città, ma non solo. In questi anni sono accaduti molti eventi significativi su cui Subway ha voluto porre alcune domande. SUBWAY La Scorsa estate il Corriere della Sera ha pubblicato un’inchiesta secondo cui a Milano c’è un grande fermento; molte realtà culturali che però faticano a tro- vare sbocchi. In questi giorni, di nuovo, un articolo del Corriere della Sera denuncia che Milano non riesce a rendere produttiva la sua attività culturale così ricca e viva. C’è uno scarto evidente fra i biso- gni e le cose che fanno le persone, e la capacità delle istituzioni e delle imprese di valorizzare queste risorse. ALDO BRANDIRALI E’ un nodo grosso, centrale. Uno dei principali argomenti all’ordine del gior- no per quanto riguarda la creatività giovanile, in particolare a Milano per il tipo di cultura del fare che la caratteriz- za, è l’utilità del proprio operato. Domanda devastante dal punto di vista della creatività e, allo stesso tempo, comprensibile perché il modello tradizionale e concettuale della società, della comunità e della città di Milano è sempre stato lo svi- luppo. Quando si ragiona in termini di sviluppo, la creatività diventa un “pro- duttore dello sviluppo”. CONTINUA A PAG 5 Con il Patrocinio e il Contributo di Partner di Subway-Letteratura 2006 I N F O R M A G I O V A N I www.comune.milano.it/giovani Vicolo Calusca, 10 - Via Laghetto, 2 Tel. 02.884.65760 - 02.884.65761

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Il crollo delleaspettative

Incontro con

Luca Doninelli

Per te è stato facile fare lo scrittore aMilano? Rispetto ad altre realtà, orispetto ad altri momenti nella storiadella città...Ogni città ha le sue durezze, le suerefrattarietà, ma anche i suoi puntid’ingresso. Uno scrittore dovrebbeconoscere queste cose quando parladi una città, soprattutto se questa cittàè la sua. Il mio ingresso letterario aMilano ha avuto una guida, un “duca”particolare: Giovanni Testori.Naturalmente la Milano di oggi non èquella di Testori (che lui stesso,peraltro, provvide a radere al suolone “Gli angeli dello sterminio”), dopodi lui bisognava ricostruirla, ancheletterariamente. Milano oggi è una città condominiale,come dice Albertini: ossia fatta diappartamenti, dunque appartata, fattadi gente appartata. L’appartamentonon solo come oggetto ma anchecome azione.

CONTINUA A PAG 2

I lupiRaul Montanari

Voci sotto la super ficieSubway,il Tabloid

Davide Franzini

Dopo cinque anni di letteratura nellemetropolitane di Milano, Roma eNapoli, Subway “esce allo scoperto” ediventa anche un Tabloid con duenumeri unici dedicati alle città diMilano e di Roma, distribuiti gratuita-mente nelle strade e in prossimità diluoghi d’incontro, librerie, teatri, cine-ma. In questo numero abbiamo volutotracciare uno spaccato letterario dellanostra città quasi sempre monitoratadal punto di vista politico, economico,sociologico e troppo spesso trascurata, omarginalizzata, rispetto alla sua vita-lità letteraria e creativa. Grazie ai con-tributi di scrittori af fermati ed esor-dienti, di critici letterari e osservatoriprivilegiati del panorama culturalemilanese siamo riusciti, credo, a com-porre un mosaico rappresentativo delletrasformazioni che Milano ha consu-mato tra gli anni Novanta e ilDuemila. Ci auguriamo che “Subway-Tabloid” possa of frire una galleria distorie, di parole e pensieri, in cui lacittà e i suoi abitanti potranno spec-chiarsi e magari scoprire un risvoltonascosto e sorprendente.Lo spunto da cui siamo partiti perideare questo “foglio” letterario è statoil pamphlet di Luca Doninelli “Il crollodelle aspettative - scritti insurrezionalisu Milano” intorno a cui abbiamocostruito due interviste, una allo stessoDoninelli e l’altra ad Aldo Brandirali.Alessandro Zaccuri e Oliviero Ponte diPino hanno realizzato due articoli dicritica dedicati rispettivamente alromanzo e alla drammaturgia degliultimi dieci anni. Due preziosi contribu-ti a cui abbiamo idealmente accostato laricerca sociologica di Enrico Finzi sullevarie tipologie di lettori (e non...). Un’antologia di sette racconti, tutti ine-diti, si apre con “I Lupi” di RaulMontanari e prosegue alternando lefirme di autori af fermati, qualiRoberto Perrone, Enrico Mottinelli eAlessandro Bertante, con quelle di gio-vani esordienti scoperti nelle preceden-ti edizioni di Subway.La pagina dedicata alla Poesia, curatada Davide Rondoni, racchiude e rac-conta squarci di vita quotidiana vistidal carcere, dal finestrino di un tram oda un marciapiede bagnato dalla piog-gia e si interroga, con un breve corsivo,dello stesso Rondoni, sui luoghi in cuifruire della Poesia.Le immagini fotografiche e le illustra-zioni sono state inserite per associazio-ne libera con i testi e forse costituisconouna storia nella storia, una sorta diipertesto che potrà essere “letto” comel’ottavo racconto del nostro viaggioattraverso Milano.

a cura di Davide Franzini, Oliviero Ponte di Pino e Davide Rondoni

Vagone metropolitana Amalia Violi

“Io li ho visti. Marina ha sparato uncolpo solo, e Francesco è caduto inginocchio davanti a lei, come in pre-ghiera, come se volesse chiederle qual-cosa di prezioso. Nessuno capiva cosastesse succedendo; nessuno ha pensatoalla verità. Lui si è piegato lentamentein avanti, e anche lei lo ha fatto. Si èchinata e gli ha stretto le tempie fra lemani, appoggiando la fronte alla suacome una madre. Era più giovane dilui, ma il gesto che ha fatto è stato pro-prio quello di una madre. Quelli intor-no a loro non l’hanno capito.”

“E poi?”“Poi tutti si sono alzati in piedi, e la

confusione è cominciata.”

La notte prima del gran giorno,Francesco Alinei sognò una casabuia. C’era una tavola imbandita, nella can-tina della casa, e molte persone sedu-te intorno. Anche lui era seduto, infondo alla tavola, e gli sembrava diessere tornato ragazzo. Mangiavano.Forse queste persone erano i suoigenitori e i suoi fratelli, ma le lorofacce erano coperte da mascheremostruose che lui riusciva appena aintravedere perché la luce era spentae la cantina rimaneva immersa in unatenebra senza scampo, rischiarataappena dal poco sole che filtrava

attraverso una grata. A capotavolasedeva un uomo che doveva esseresuo padre: grande, con le spalle lar-ghe come le aveva avute prima dellamalattia. Sul volto portava la masche-ra di un lupo e Francesco avevapaura di lui più che di ogni altro.Nessuno parlava eppure si sentiva unmormorio, come in chiesa o in unasala da concerto prima che l’orche-stra cominci. Francesco si alzò, perché non sop-portava più gli occhi gialli del lupo

seduto là davanti, la vista del sugodella carne che gli colava fra lezanne, sul petto. Si accorse di pian-gere per la paura e per la nostalgia diquando suo padre gli aveva volutobene e il futuro era pieno di promes-se e sorrisi come un’alba. Gli si avvi-cinò, mentre tutti lo guardavano. Conmolto coraggio allungò le mani eafferrò la maschera, cercando distrappargliela.

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Un Racconto inedito

SettoreGiovani

Cross your legs Alessandro Belgiojoso

SUBWAY-LETTERATURA.ORG

VOCI SOTTO LA SUPERFICIE

Incontro pubblico tra gli autori e i lettori

di Subway-Tabloid

***1 aprile 2006 ore 18.30 Sala delle Conferenze,

Palazzo RealePiazza del Duomo 12

- INGRESSO LIBERO -

Poesia, respiro della città***

Contro le case chiuse (de l la poes ia)Davide Rondoni

A PAG. 3

Autori, racconti e pensieri su MilanoNuova creatività,nuove imprese

Subway intervista

Aldo Brandirali

Aldo Brandirali è da cinque anniAssessore allo Sport e ai Giovani delComune di Milano. Come responsa-bile delle Politiche Giovanili, segna-tamente alle creatività, ha avutomodo di toccare da vicino i muta-menti della città, ma non solo. Inquesti anni sono accaduti moltieventi significativi su cui Subway havoluto porre alcune domande.

SUBWAYLa Scorsa estate il Corriere della Seraha pubblicato un’inchiesta secondo cuia Milano c’è un grande fermento; molterealtà culturali che però faticano a tro-vare sbocchi. In questi giorni, di nuovo, un articolodel Corriere della Sera denuncia cheMilano non riesce a rendere produttivala sua attività culturale così ricca eviva. C’è uno scarto evidente fra i biso-gni e le cose che fanno le persone, e lacapacità delle istituzioni e delle impresedi valorizzare queste risorse.

ALDO BRANDIRALIE’ un nodo grosso, centrale. Uno deiprincipali argomenti all’ordine del gior-no per quanto riguarda la creativitàgiovanile, in particolare a Milano per iltipo di cultura del fare che la caratteriz-za, è l’utilità del proprio operato.Domanda devastante dal punto divista della creatività e, allo stessotempo, comprensibile perché ilmodello tradizionale e concettualedella società, della comunità e dellacittà di Milano è sempre stato lo svi-luppo. Quando si ragiona in termini disviluppo, la creatività diventa un “pro-duttore dello sviluppo”.

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Con il Patrocinio e il Contributo di Partner di Subway-Letteratura 2006

I N F O R M A G I O V A N I

www.comune.mi lano. i t /g iovani

Vicolo Calusca, 10 - Via Laghetto, 2

Tel. 02.884.65760 - 02.884.65761

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le, buono (forse) per l’Italia di un seco-lo fa. Quando si dice “Tizio è un intel-lettuale di sinistra” si fa riferimento aun mondo gramsciano, in cui l’intellet-tuale è parte di un progetto politico.

Questo mondo è finito, e se qualcuno lovuol tenere in piedi lo fa solo per rac-cogliere gli spiccioli di una rendita poli-tica. Uno scrittore ha un solo ruolo:quello di scrivere libri importanti, capa-ci di dare inquietudine, malessere, ma

anche vera felicità: tutte cose chedestabilizzano, costringendo lo scritto-re stesso e il lettore a uscire -a propriorischio e pericolo- dal recinto del “giàdetto” e del “già sentito”. Tante volteapro un romanzo, leggo qualche pagi-na e mi accorgo che sono tutte parolegià note, volti e pensieri già conosciuti.Uno scrittore dovrebbe produrre terre-moti, piccoli o grandi che siano.Quanto ai professionisti della politica eaffini, mi auguro che facciano bene illoro lavoro, ossia con passione, curio-sità, gusto della vita e soprattutto dellenovità. Tra politica e cultura è finito,spero per sempre, il tempo delle lineepolitiche, è cominciato quello del giocodi sponda, che è un gioco necessaria-mente trasversale, dove non ci si scon-tra più, dove non si dice più “questo èdei nostri, questo no”, dove si gioca alrilancio, come nel poker. Un’ultima

INCONTRO CON DONINELLISEGUE DA PAG 1

Questo contrasta -anche nella confusio-ne di idee che domina nella testa deinostri politici, sia di destra che di sini-stra- con la natura sociale della città,con la sua secolare sensibilità alle que-stioni sociali. Però le cose esistonoentrambe. A Milano i grandi temi s’in-contrano nel compiere le azioni quoti-diane, il fermento è nello spicciolamedella vita.

Che cosa può (o deve) dare uno scrittorealla sua città?Deve amarla, oppure odiarla ma con lostesso struggimento e la stessa inten-sità dell’amore. Io non ho nulla controil cinismo, che a volte serve, ma credoche un testo letterario privo di un po’di pietà, di amore, o anche di odio main qualche modo “amoroso” sia untesto al massimo esibizionista, senzagrandezza. Voglio ricordare che esi-stono sentimenti (come la nostalgiadei bei tempi andati o anche il cinismofinto-oggettivo) che sulle prime sem-brano fare letteratura più di altri. Ma èun’illusione.

Hai dedicato un saggio, “Il crollo delleaspettative”, all’attuale situazione mila-nese. Perché hai sentito il bisogno difarlo proprio in questo momento? Checosa sta succedendo a Milano in questianni?Da molti anni avevo in mente di scrive-re un libro su Milano. E’ una città inte-ressante per uno scrittore perché èpiena di cose nascoste. Una città conmolti interni e pochi esterni, insommamette curiosità, voglia di conoscere.Una vita non basterebbe a conoscereRoma, tuttavia quando si cammina perRoma è come se tutta la città fosse lì,presente. Per Milano è diverso, c’èsempre qualcosa che sfugge, e questoaizza lo scrittore. Tuttavia un libro suuna città va fatto al momento giusto:quando cioè dentro la caligine sicomincia a intravedere qualcosa chebrilla. Non si scrive un libro su unacittà per dire che fa schifo. Si scrive unlibro su una città perché in essa c’èqualcosa che comincia a non fare piùschifo. Ho grandi amici milanesi, che civivono e hanno scelto di non andarse-ne. Sono queste presenze positive chesvegliano la coscienza di una metropo-li. C’è gente che usa Milano come suaproprietà privata, infischiandosene deicittadini, comprando e vendendo pezzidi città come prosciutto dal salumiere.Una città viva si ribella a tutto questo,insorge. Ma per svegliarla bisogna chein essa ci sia già qualcosa di vivo.

Nei tuoi romanzi e racconti Milano haun ruolo molto importante: i quartieri,le strade, i paesaggi sono una presenzacostante e molto incisiva. Anche ne “Ilcrollo delle aspettative” ci sono diversistraordinari sguardi sulla città. Cherapporto c’è nel tuo lavoro tra la scrittu-ra narrativa e la scrittura saggistica e

magari l’attività critica e giornalistica?Ti poni davanti alla scrittura con unatteggiamento diverso? Questi varigeneri e destinazioni dei tuoi testi fannoparte dello stesso percorso?Il persorso è uno, questo va da sé. Ma lediverse scritture, con i loro diversi sta-tuti, aiutano a stabilire diversi punti diosservazione sulle cose. La scritturasaggistica, ad esempio, è la più lieve, lapiù duttile, la meno sporca. Aiuta a lava-re il pensiero e il linguaggio, però nonse ne deve abusare, perché è anche iltipo di scrittura meno compromessocon il corpo della realtà. La realtà nelsaggio entra come “dato”, come ele-mento statistico, mentre nel romanzoentra come corpo reale, con cui è neces-sario fare i conti fino alla lotta fisica.Perciò ci vuole un po’ di astuzia, capirequando stai diventando astratto, quandoin nome dei tuoi sublimi pensieri staifacendo fuori la dura realtà dei corpi. Ne“Il crollo delle aspettative”, che è un sag-gio più che un romanzo, la mia ambizio-

ne era quella di trattenere il corpo dellacittà: scrivere, cioè, un libro che fosseun saggio nella forma ma che nellasostanza rimanesse un romanzo.

Nei tuoi romanzi tendi ad affrontaretemi più intimi, legati all’interiorità deituoi personaggi. “Il crollo delle aspettati-ve” è senz’altro un libro civile, politico.Verrebbe da dire “impegnato”. Che cosapuò e deve dire uno scrittore alla societàin cui vive? Che ruolo, che autorevolezzapuò avere rispetto ai professionisti dellapolitica e ai tecnici dei diversi settori?Mi sembra che ci troviamo alla fine diuna lunga (troppo lunga) epoca in cuila questione del ruolo dell’intellettualee dello scrittore è stata argomento diprimo piano. Siamo alla fine, e spero sia una finedefinitiva, del modello gramsciano, cheè e resta un modello post-risorgimenta-

considerazione: so perfettamente didire queste cose in un momento in cuisembra succedere l’opposto, e tutti cer-cano di accasarsi da qualche parte;forse perché i soldi sono pochi, e sidanno volentieri alle persone fidate.Ma sono certo che è solo un fuoco disbarramento delle vecchie rendite difronte alle domande nuove che la realtàci pone.

Nel sottotitolo del tuo libro parli di“insurrezione”. Quali effetti speravi otte-nere con il tuo pamphlet? E quali haiottenuto?Speravo che si cominciasse a parlare diMilano in termini che non fossero soloquelli soliti: capitale morale, politicicorrotti, viabilità, sicurezza e via dicen-do. Il problema degli immigrati -chesono, oggi, un’ingente forza economicaoltre che sociale di questa città- è statotrattato solo come un problema di ordi-ne pubblico (basti pensare a quellapovera gente che passa le notti all’ad-

diaccio davanti alla questura e perfinoagli uffici postali per poter ritirare unmodulo) mentre la gestione degli allog-gi e della vita sociale è stata lasciataagli avvoltoi. Una città che si comportacosì di fronte a un problema è una cittàsenza idee, che non si sa ritrovare, conuna classe dirigente completamentestaccata dal resto della popolazione.Questo speravo, e in parte l’ho ottenu-to, anche se non sempre le risposte misono venute da dove mi sarei aspettato.Ma questo è il destino dei libri.

De “Il crollo delle aspettative” si è moltodiscusso e si continua a discutere. C’èqualcosa che adesso, diversi mesi dopol’uscita del libro, non scriveresti più, onon scriveresti più allo stesso modo? Ec’è qualche tema con cui arricchirestiuna nuova edizione?Non ho mai pensato a quello che non

riscriverei più. A quel libro ho pensatoper anni, l’ho scritto, l’ho riveduto e,pubblicandolo, mi sono assunto tutte leresponsabilità: perciò non ritiro niente.Se mai, aggiungerei un paio di capitoli.Uno sugli ospedali, un grande tour nel-l’universo del dolore, non per amore disociologia ma perché il rapporto con lasofferenza è un rapporto che caratte-rizza la storia di questa città: pensiamoa San Carlo Borromeo, vescovo contro-riformista e tradizionalista e, al tempostesso, promotore di iniziative sociali diogni tipo e vero padre del cattolicesimosociale, ben prima di Leone XIII. Unafigura molto imbarazzante per i ben-pensanti della cultura. L’altro capitololo dedicherei al lavoro, alla sua storia aMilano negli ultimi trent’anni. Sonocerto che la cultura del lavoro a Milanoè stata rasa al suolo dall’importazionedi modelli aziendali americani: tale pro-blema però nel libro é solo accennato.Gli anni Ottanta in questo sono stati uncrocevia essenziale. Il crollo delleaspettative ha avuto un’inizio e unafine. Nel libro, mi occupo più dell’ini-zio, che situo alla metà degli anniSessanta, mentre una seria indaginesul mondo del lavoro ci aiuterebbe astabilire meglio anche la seconda data.

Un consiglio a un giovane scrittore chevive nella nostra città?Scrivere libri belli e avvincenti. Milanorinasce non perché si continua a parlaredi Milano (questa è una fase, niente dipiù) ma perché da qui escono cose inte-ressanti per il mondo intero. Se possoaggiungere un altro consiglio: non fatetroppo i “fighetta” e sporcatevi le manicon la realtà, amandola anche e soprat-tutto quando è sporca.

***A Milano i grandi temi

s’incontrano nel compierele azioni quotidiane, il fermento è nello

spicciolame della vita***

Milano, il crollo delle aspettative?Una città, tra speranza e disillusione, in cerca di una nuova identità

***Non si scrive un libro su una città per dire

che fa schifo. Si scrive un libro su unacittà perché in essa c’èqualcosa che comincia a non fare più schifo

***

SUBWAY-TABLOIDUn progetto editoriale ideato epromosso dalla AssociazioneLaboratorio-E20 con il patroci-nio e il contributo del SettoreGiovani del Comune di Milano

CURATORIDavide Franzini

Oliviero Ponte di PinoDavide Rondoni

REDAZIONEAndrea Chiurato

Concetta Simona Piccolo

PROGETTO GRAFICOSolaris Comunicazione

Michele Marchesi - Art Director

RELAZIONI ESTERNEE UFFICIO STAMPA

Cantiere di Comunicazione

Si ringraziaOlivia Agostini, Nadia

Baratella, Gisella Biroli, ElenaFilicori, Antonella Fornaro,Piero Frova, Manuela Kron,

Alessandra Medolago Albani,David Muldoom, Lorenzo

Nannariello, Federica Pala,Andrea G. Pinketts.

I Sette Palazzi Celesti - Anselm Kiefer alla Bicocca Alessandro Belgiojoso

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Via Dante Edoardo F. Tavola

Poesie inedite

Contro le case chiuse (della poesia)

Il corsivo di Davide Rondoni

Un nuovo spettro si aggira per le nostre città. Il Casismo. Ovvero la tendenza ainaugurare case per la letteratura, case per la musica, per il jazz, per arti di ognigenere. Eccetto le arti più facili al guadagno che le case (e sontuose) se le fannoda sole, grazie a galleristi, mercanti e collezionisti. C'è qualcosa di “sinistro” inquesta apparente generosità delle pubbliche amministrazioni verso le arti. Nonsolo perchè tali case ricordano lievemente l'esistenza dei sindacati sovietici degliscrittori etc., ma soprattutto per la tendenza di incasellare le cose. Cosa significache le iniziative della Casa della poesia hanno più valore pubblico di altre? Cheè, un marchio di utilità pubblica? E siamo sicuri che ci sia bisogno di una casaintesa come spazio e non piuttosto di biblioteche specializzate, borse di studio pergiovani che vogliano fare ricerca seria, supporti alla traduzione, agli scambiinternazionali etc.?Inaugurare una Casa della poesia (quando la poesia ama stare fuori casa, ovun-que, nei metrò, nei bar, nelle redazioni, nelle cucine) è un modo un po' sbrigati-vo di preoccuparsi di cultura. Fa un po' scena, ma la vera utilità?

Poesia, respiro della cittàTre poesie dal carcere

Milo De Angelis presenta Vladimiro Cislaghi

L’incontro con Vladimiro Cislaghi è stato il piùimportante che ho avuto in questi anni di inse-gnamento presso il Carcere di Opera. Hosubito colto in lui il talento di un poeta, l’amo-re per la singola parola, lo scavo nei suoichiaroscuri e nei suoi abissi. Lontano da tantovittimismo della scrittura carceraria, maanche lontano dal diario, la poesia diVladimiro tocca i grandi temi dell’infanzia edella perdita, della morte e della salvezza. E’una poesia verticale, orfica, asciutta, percor-sa da alcune ossessioni a cui rimane strenua-mente fedele. Una di queste -e lo possiamovedere nei testi qui proposti- è proprio la paro-la poetica, nella sua immensa forza, nella suacapacità di dare significato all’esistenza, ditrovarne il nucleo essenziale: essa è la voceche ci raccoglie, come scrive Vladimiro in unlimpido attacco, ci consente di dare espres-sione a ciò che sembrava inesprimibile, dicomporre in una provvisoria figura i frammen-ti della nostra vita.

Un accentomi attraversa,ritagliaun tempo,una cadenza,un coloretra le scarpedi chi èapparso.

* * *

Solo tu, miapoesia,

nel respiroche raccogliel’inverno,

nel tuo scuroabitoda sempre

tra le fogliee un’intesa di bende,

mentre un’attesa mi dimentica.

* * *

La vocemi ha raccolto,tra il gestoe le ombre,mentre il buioentra nelle ore,nel vuotoe nel coloredel nostro tempo,nel pallidochiaroredi questo respiro.

Queste tre poesie di Vladimiro Cislaghi fanno parte del libro“Madre e baratro”, di prossima uscita nella collana Niebo,diretta da Milo De Angelis per le Edizioni La Vita Felice.

E’ finita la pioggia stanotte

Davide Rondoni

E’ finita la pioggia stanotte ma non la sospensionedi qualcosa tra il cielo così di luminosoargento e la terra

non è la luce, non è la materia aerea del giorno, non l’attesa d’un ritorno che già si

[conosce…

non è la prima nebbia della sera, né il leggerosilenzio di settembre, né il respiro

del viale finalmente vuoto.

Che suggerimento ignoto, che strana bandiera

vederti passare nell’ora che si dovrebbesognare, e invece resto con gli occhi di bracea fissare l’aria

e il suo lampo muto, che più di ogni cosami piace, la memoria pienadi prodigi, e sì, vedere Milano nell’acqua…

Vieni ti prego, ma prima del sognosii la sua porta, poiché dopo non ricordopiù niente

e non voglio andare nel buiosenza un volto negli occhi

né risvegliarmi senza ricordarein tutta questa guerrache stendardi aveva l’amore

Tra un’oretta un’ora una carezza

Valerio Grutt

tra un’oretta un’ora una carezzail sole si addiziona

ombra o ventosatre baci tre alberi

mano nella mano scivoliamomilano

bionda come non mai o lucelatte

mare come sale come andaremimosa

immaginare con poca chiarezzala stessa cosa.

Lei corre senza guardare

Daniele Mencarelli

Lei corre senza guardareattraversa la strada spinta da una forza,noi immobili sul tram che viaggiala guardiamo venirci sottocome si guarda uno spettacolo già scritto,tenta il tram di aggrapparsi alle rotaie scintilla mentre gente urla oppure cade, lei ricompare intatta dall’altra parte,eccolo il centro di tutta la sua furiaun uomo forse il marito magari l’amantelo colpisce lo sradica lo inginocchiapoi col suo corpo lo copre.Rimangono così mentre noi ci allontaniamoognuno ritorna a pensare al suo arrivo,loro chi saranno stati quale amoreli avrà messi l’uno contro l’altropoi insieme come singola cosa sull’asfalto.Solitude 4 Alessandro Belgiojoso

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Una città che fa scenaPer una nuova drammaturgia milanese

Oliviero Ponte di Pino

Milano è senz’altro una delle capitali tea-trali d’Italia, con un’attività ricca e artico-lata, dalle grandi istituzioni come laScala e il Piccolo Teatro ai mega-palaz-zetti che ospitano i grandi show, da quel-la rete che ha caratterizzato il sistemateatrale milanese degli ultimi decenni alproliferare di piccole sale che stannoridisegnando il panorama dello spettaco-lo cittadino fino ai cabaret. Ma, in questa ricchezza di spazi ed espe-rienze, Milano riesce a raccontarsi? Daun certo punto di vista ci riesce senz’al-tro: nella ricchezza degli spazi e dell’of-ferta, nella molteplicità dei generi e deilinguaggi, la città si presenta come unametropoli europea in grado di conciliarei classici e la modernità, l’impegno e l’e-vasione, il divo della tv e la giovane pro-messa dell’off, l’avanguardia internazio-nale e gli stabili nostrani. E però, forse per la sua antica ritrosia oforse perché, come continua a ripetereLuca Doninelli, “la città non si ama abba-stanza”, Milano sembra faticare a rac-contarsi sulla scena. Magari perchéresta difficile confrontarsi con due pesimassimi come Gadda e Testori, i duemassimi cantori della Milano novecente-sca -quella borghese e quella delle peri-ferie- che non a caso tornano spesso neicartelloni dei nostri teatri (ma a colpadella città, va notato che la versione tea-trale di “Quer Pasticciaccio brutto de viaMerulana”, ovvero Gadda riletto daRonconi, a Milano non è mai arrivata-anche se era un Gadda “romano”...).

Intanto qualcosa è successo e continua asuccedere. Forse il tentativo più ambi-zioso di far raccontare la città alla città èstata la Maratona di Milano (nel 2000-2001), ovvero 24 ore della vita della cittàattraverso altrettanti “microdrammi” diuna ventina di minuti ciascuno, con 24drammaturghi (scrittori affermati comeRaboni e Tadini, Alda Merini e PaolaCapriolo, ma anche giovani scrittori) e24 compagnie (con le musiche dei LaCruz) impegnate in un megaspettacoloche -nella versione definitiva- è duratouna notte intera, nell’officina dell’ATMdi via Teodosio. Perché forse la ricchez-za peculiare della città è proprio nellaframmentarietà, in un mosaico che è dif-ficile comprendere in un disegno unita-rio (si può ricordare che il fortunatomonologo di Renato Sarti “Mai morti”con Bebo Storti ha debuttato in quellaoccasione). Un’altra interessante esperienza milane-se di questi anni (non certo l’unica, bastipensare allo sforzo di una realtà milanesecome Outis, da sempre impegnata asostegno della drammaturgia) è quella di“Città in condominio”: un gruppo didrammaturghi attivi a Milano (tra cuiRenata Ciaravino, Renata Molinari,Renato Gabrielli, Giampaolo Spinato,Roberto Traverso) che negli scorsi anni

ha organizzato una serie di incontri a sca-denza regolare in cui presentare e discu-tere i propri lavori, un work in progressin grado di misurarsi con la velocità delletrasformazioni della città e magari anchecon l’incalzare della cronaca. Alcuni degli autori di “Città in condomi-nio” hanno esplorato negli ultimi annialcuni degli aspetti della vita cittadina:per esempio l’universo giovanile (daparte di Renata Ciaravino, con “Moltiamori (diversi odii)” o il mondo del lavo-ro, da parte di Renato Gabrielli, con“Curriculum vitae”). Una delle funzionidel teatro è proprio quella di esplorare letrasformazioni del tessuto sociale, deicomportamenti, dei linguaggi, per por-tarle sulla scena e renderle “visibili”: inquesto l’attività di molti gruppi teatrali egiovani drammaturghi rappresentano unutilissimo indicatore. Un’operazione ambiziosa -e articolata inun percorso durato diversi anni- è la tea-tralizzazione di “Canti del caos”, il tor-renziale e discusso romanzo di AntonioMoresco da parte di Renzo Martinelli edel suo Teatro Aperto: un testo -e unospettacolo- che cercano di scavare nellecontraddizioni del presente. Anche que-sta è una delle funzioni da sempre piùdeterminanti del teatro, quella civile:portare alla consapevolezza collettiva le

contraddizioni che attraversano il corposociale, anche quelle in apparenza piùradicali, come per l’appunto quelleaffrontate da Moresco. Su un versante solo in apparenza più leg-gero, non si può dimenticare che da anniuno sguardo teatrale sulla città arrivaanche dai comici: a cominciare da DarioFo, se fosse solo un comico. Non è uncaso che Paolo Rossi e la sua ghengaabbiano prodotto nel 1994 uno spettaco-lo come “Milanon Milanin”, che ripren-deva e rilanciava (trent’anni dopo) unospettacolo-manifesto del Piccolo Teatrocome “Milanin Milanon” (con Milly esoci a raccontare la cultura popolare cit-tadina in forma di spettacolo. E di recen-te Walter Leonardi, attore-autore cre-sciuto nell’off-off della comicità cittadina(perché ora che lo Zelig è diventato un’i-stituzione da prima serata, anche il caba-ret milanese ha un off e un off-off), in“Milano a 70 all’ora” ha raccontato idrammatici -e insieme entusiasmanti-anni Settanta della nostra città. Un’ultima annotazione. A Milano è atti-va anche un’effervescente attivitàmusicale, dove brilla l’attivismo di ungruppo fuori dagli schemi comeSentieri Selvaggi. Nell’ultima edizionedi Crea-Mi (2005) proprio SentieriSelvaggi si è fatto promotore di una ini-

ziativa di grande interesse che ha coin-volto anche Subway: quattro operemusicali di giovani compositori chehanno utilizzato come libretti altrettan-ti racconti di giovani autori selezionatie pubblicati da Subway. Perché la vita-lità della cultura milanese nasce ancheda questo: dalla capacità di far incon-trare persone ed esperienze diverse,per far nascere il nuovo.

Alessandro Zaccuri

Abitavano nella stessa zona, a ridosso ocomunque non lontano da corsoBuenos Aires. Erano Emilio Tadini,Giuseppe Pontiggia, Giovanni Raboni.L’artista, il romanziere, il poeta. Capacidi scambiarsi le parti, quando se nepresentasse l’occasione, testimoni diuna Milano verace e mai conciliata conse stessa. Tadini era “La tempesta” diShakespeare ricondotta alla sua loca-tion originaria, Pontiggia rievocava ilgrigiore di un istituto bancario da attra-versare come in un rito iniziatico,Raboni eleggeva la geografia minima divia Lazzaretto e dintorni a sfondo diuna commedia più che umana. Se nesono andati tutti e tre in un paio d’anni,fra il 2002 e il 2004, preceduti in ordinedi sparizione da Giovanni Testori,morto già nel 1993, nel pieno del mara-sma che avrebbe dovuto portare lametropoli chissà dove e invece l’hariportata qui, più o meno al punto dipartenza.Anche per questo bisogna cominciaredalla fine. Se davvero vogliamo capireche cosa è successo alla Milano lette-raria nel concitato passaggio fra glianni Novanta e il Duemila, dobbiamoanzitutto stilare un bilancio delle perdi-te. Non abbiamo più l’eleganza e l’iro-nia di Tadini, dunque, né la profonditàgeometrica di Pontiggia. Non abbiamopiù la pronuncia esatta di Raboni né laforza visionaria di Testori, che nel1992, alla vigilia del congedo, conse-gnava alle pagine incandescenti de “Gliangeli dello sterminio” il resoconto diuna città soggiogata da un’apocalitticaorda di motociclisti, in marcia verso lemacerie del Duomo devastato. E nonabbiamo neanche -a voler completarel’elenco dei necrologi- la presenzadiscreta di Luigi Santucci, scomparsonel 1999, esempio insuperato di un nar-ratore nutrito dalle ragioni più autenti-che della Milano novecentesca.Ma il Novecento è finito e nei nostrianni Novantamila (non più Novanta,non ancora Duemila). A dominare èanzitutto lo spaesamento, l’inapparte-nenza, il sospetto appunto di essere

milanese contemporaneo.Ma è davvero così improponibile l’ideadi raccontare Milano Novantamila? Aprima vista, in effetti, sembrerebbel’esatto contrario. Perché, nel puntoesatto in cui il mainstream e la stessariflessione saggistica si arrestano,entrano in gioco -e di prepotenza- i“generi”. Mai stati così tanti, i thrillerdi rito ambrosiano. Mai stata piùfonda, la notte del noir meneghino.Con sfumature e intenzioni differenti,questo sì, anche se tutte in qualchemodo riconducibili al magistero diGiorgio Scerbanenco, che negli anniSessanta aveva raffigurato in DucaLamberti un cinico e credibile antie-roe metropolitano.In questa direzione, Piero Colaprico (giànarratore in proprio con il notevole“Kriminalbar”) ha prima lavorato conPietro Valpreda alle indagini dell’exmaresciallo Binda, poi ha affidato all’i-spettore Bagni le indagini di “Trilogiadella città di M.”, rimanendo semprefedele a un’impostazione sociologica delromanzo poliziesco. Una prospettivaradicalmente diversa da quella, scanzo-nata e provocatoria, perseguita da

Andrea G. Pinketts attraverso le ormainumerose avventure dell’anomalo inve-stigatore Lazzaro Santandrea (la piùrecente è “L’assenza dell’Assenzio”),oltre che nelle tappe di una beffardaautobiografia improntata alla più sfaccia-ta epica metropolitana. Marginale e con-traddittorio è pure il “Gorilla” diSandrone Dazieri, da poco arrivatoanche sul grande schermo nell’interpre-tazione di Claudio Bisio (“La cura delGorilla”, per la regia di Carlo Sigon).Detective con un passato, neppure trop-po remoto, di militante del centro socia-le Leoncavallo, nel corso delle sue inda-gini deve vedersela con l’ingombrantepresenza del Socio, il “doppio” schizofre-nico che gli subentra durante il sonno.Chiamato in servizio per la prima voltain “Catrame”, l’ispettore Guido Lopez èinvece il cattivo poliziotto ideato daGiuseppe Genna, che a partire da “Nelnome di Ishmael” lo ha reso protagoni-sta della trilogia composta poi da “Nontoccare la pelle del drago” e “GrandeMadre Rossa”, nella quale Milano sitrasforma in epicentro di una cospira-zione planetaria. Lo stesso Genna rap-presenta però il punto di contatto fra la

Milano NovantamilaCosa è successo nel passaggio fra gli anni Novanta e il Duemila?

metropoli del thriller e la città dellaletteratura, come confermano i testi diAssalto a un tempo devastato e vile epiù ancora negli scenari neoborgheside “L’anno luce” e nella magmaticanarrazione multipla dell’imminente“Dies Irae”.A voler guardare con attenzione, delresto, il vero anello di congiunzione trala Milano dei generi e quella delromanzo è costituito dal tempestosoprogetto de “I demoni”, straniatariscrittura collettiva del capolavoro diDostoevskij in chiave contemporanea.Un esperimento che ha coinvolto, oltreil già ricordato Genna e il milanesed’importazione Michele Monina,anche il padre nobile FerruccioParazzoli, che in questi anni si è a suavolta impegnato in una personalissimaricognizione nelle contraddizioni dellametropoli. Di nuovo, la MilanoNovantamila di Parazzoli è attraversatadalla bisettrice di corso Buenos Aires,attorno alla quale si allestisce la tramadi “Per queste vie familiari e feroci”.Ma è piazzale Loreto a fare da perno alcomposito racconto morale di “MMRossa”, di “L’evacuazione” e, infine, di“Piazza bella piazza”, i tre romanzibrevi ai quali Parazzoli consegna il pro-filo di una Milano allucinata e a trattiaddirittura dantesca. Un paesaggiourbano che richiama alla memoria,aggiornandola con le inquietudini del“dopo”, la città che già nel 1962Luciano Bianciardi descriveva ne “Lavita agra”. Magari sarà soltanto un’im-pressione, ma il libro che meglio diogni altro aiuta a comprendere laMilano imperfetta di questi anni è pro-prio “L’antimeridiano” che combattiva-mente ripropone l’opera narrativa delloscrittore grossetano scomparso nel1972. Uno che all’affaccio commercialedi corso Buenos Aires preferiva gli an-fratti di Brera. E che, come molti mila-nesi di oggi, diffidava dei grattacieli. Omeglio, dei “torracchioni”.

Alessandro Zaccuri, critico letterario e conduttore de “Il Grande Talk” (SAT2000)

postumi rispetto a ciò che Milano èstata e, forse, avrebbe potuto essere. Èsufficiente mettere uno in fila all’altroi libri apparsi negli ultimi anni per ren-dersi conto che il segno prevalente èquello della negazione, se non addirit-tura del disconoscimento. Si va dalperentorio “Milano non è Milano” del-l’ex cannibale Aldo Nove al polemico“Post-Milano” dell’ex assessoreSalvatore Carrubba, passando per lapungente constatazione che GiovannaZoboli sceglie come titolo di una suaintensa raccolta poetica: “A Milanonessuno è milanese”.Un senso di estraneità che sembra met-tere in discussione la stessa possibilitàdel racconto, quasi obbligando un auto-re come Luca Doninelli a prediligere ilterreno della riflessione saggistica, siapure attraverso la mediazione di unaprosa narrativamente motivata. Moltoapprezzati e dibattuti, gli “scritti insur-rezionali” del suo “Il crollo delle aspet-tative” sono una cronaca tutt’altro cherassegnata della transizione imperfettae delle sue conseguenze. In altre pa-role, un saggio che lascia intravederela sinopia di un impossibile romanzo

Piazza Fontana Edoardo F. Tavola

I melologhi di Sentieri Selvaggi

INSONNIAdi Stefano Taglietti

su testo di Tiziana Regine Insonnia, Subway2003

18 Novembre, ore 21 Teatro Litta

TWENTYFOURdi Mauro Montalbetti

su testo di Luca Fumagalli 24 ore su 24, Subway200419 Novembre, ore 18 NABA

L’OCEANO, COSTA E VOLTJEKdi Federico Cumar

su testo di Vincenzo GallicoCosta+Voltjek=L’oceano, Subway2004

19 Novembre, ore 20 NABA

POSTE ITALIANEdi Matteo Malavasi

su testo di Dino Campari Poste italiane, Subway2005

20 Novembre, ore 12 Teatro Litta

Coord. generale: Filippo Del Corno

www.sentieriselvaggi.org / www.creami.tvwww.subway-letteratura.org

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INTERVISTA A BRANDIRALISEGUE DA PAG 1

Tutto questo accadeva dopo la grande“epoca della plastica” e dell’enormeinvestimento creativo connesso allepossibilità tecniche di innovazione deimateriali. Gli anni Settanta e Ottanta,un momento storico in cui la creativitàsi sposava ancora con la produttività el’utilità.Oggi, di fronte al tasso di crescitadella Cina o dell’India, per esempio, citroviamo davanti a una sfida sul tema“concepire lo sviluppo”: il tema quali-tativo, in sostanza. Alla provocazione del critico che sidomanda sull’utilità dell’opera creativarispondo con una preoccupazionesostanziale: oggi l’Occidente compete alivello mondiale con le dinamichedell’Oriente, con una sola possibilità divittoria. Sappiamo che il progressoquantitativo ha un punto di crisi fonda-mentale: si può copiare all’infinito, macopiare non dà alla luce l’“innovazio-ne”. L’Europa ha questa carta da gioca-re: contrapporre alla dinamica quanti-tativa quella dell’innovazione.

L’Oriente ha una produzione di massa,con prezzi imbattibili. L’unica risposta èun alto tasso di creatività e novità deiprodotti italiani. Questo presuppone trecose: che questa creatività diffusa inqualche modo esista, che la si sappiariconoscere, che la si sappia indirizzarenei canali giusti. Chiaramente, quindi, il tema centralenon è l’indice di sviluppo, ma l’indice dimodificazione, di novità. L’enfasi sul cambiamento è l’unica veraattrattiva che il modello europeo puòoffrire ai suoi partner mondiali. Un tipo di rapporto con l’arte contem-poranea e con la creatività che mettain discussione la persona umana e ilsuo desiderio: conquistare l’attenzio-ne con il desiderio di cambiare model-lo di vita. Portare innovazione nellaqualità della vita. È un grande tema, che riguarda il com-pimento e l’estensione dell’umano, l’ap-profondimento del mistero dell’Io, l’api-ce della conoscenza della scienza. È chiaro che la creatività dell’operagioca un ruolo indipendente dalla suautilità. Gioca un ruolo di sorpresa, di stu-pore, di capacità di catturare interesse. Nella capacità di creare stupore, l’ope-ra suggerisce che si ha a che fare conl’umano; suggerisce un compimento,un cambiamento di qualitativo. Spazio, dunque, alla creatività perchépuò indicare una nuova “way of life”.

Quali sono i principali contenuti, itratti distintivi del panorama culturalegiovanile? Ho fatto l’assessore, ma la particolaredivisione del lavoro del Comune diMilano ripartisce le competenzeriguardo ai giovani in diversi settori.Il mio riguardava specificamente la“produzione culturale”. La specificità miha permesso di insistere particolarmen-te su questo aspetto, anche se i mezzi adisposizione erano decisamente ridotti. La promozione del “giovanile” costitui-sce solo una piccola parte della produ-zione culturale tout court; l’atteggia-mento dell’amministrazione e la suacapacità nel promuovere l’arte contem-poranea erano questioni più grosse dime. La mia non poteva che essere un’a-zione di stimolo, di punta. Tale azioneha fatto acquisire il convincimentogenerale che l’Assessore ai Giovani delComune di Milano promuovesse esostenesse l’arte contemporanea.Quando ho iniziato il mio compito,rispetto agli eventi di cui ho parlato eche ho sostenuto, ho tentato innanzi-

tutto di chiarire quale fosse la posizio-ne del mio assessorato. L’Assessoratoallo Sport e ai Giovani non ha il compi-to di produrre realtà, ma di riconosce-re e sostenere quelle già esistenti. Ilrischio, altrimenti, è che le cose acca-dano in modo artificiale, che assumanoun volto non reale.Non reale, a volte persino burocratico.Succede che si indirizzino in questosenso, ad esempio, rapporti stabili daanni: diamo sempre gli stessi soldi allestesse associazioni che fanno sempre lestesse cose. Anche se sono gloriosestrutture di sinistra, fanno cose noiose.Dunque, le iniziative diventano noiosee burocratiche e le associazioni nonsono il luogo in cui è possibile cerca-re l’emergere della novità o dellacreatività.Con questo obiettivo, ho lavorato moltopiù con i contributi che con i finanzia-menti diretti. Dando contributi, è evi-dente che i soggetti interessati doveva-no essere in grado di mettere in piediqualcosa. Questo processo è stato rischioso per-ché, oggettivamente, l’associazionismogiovanile non c’è quasi più. Non esisterealmente una pluralità di soggetti capa-ci di proporre uno sguardo attento sullavita dei giovani. Non esiste una societàcivile composta come comunità consa-pevole. Ci sono invece isole, nuclei, con-testi, grappoli di vitalità, parti di comu-nità più o meno consapevoli. Io sono comunque soddisfatto dell’evi-denza che la realtà milanese risultipiena di proposte positive e di presenzeinteressanti. Non saprei rispondere alCorriere della Sera che afferma una“Milano meno di Roma”.

L’articolo si riferiva a una cosa moltoprecisa: alle persone che lavorano nelleaziende, ai mestieri creativi dentro leaziende che, percentualmente, sono menoche a Roma e a Napoli. Non si riferiva altipo di persone di cui ti sei occupato o alleiniziative di cui parli, ma alle personeche lavorano nella moda e nella ricerca.E siamo di nuovo al punto di partenza.Se per “creatività” a Milano si intendela lettura dei designer milanesi deglianni Ottanta, allora è vero: non c’è piùla produzione del design. Ma c’è l’enor-me valore internazionale delle scuole

di design milanesi, note in tutto ilmondo. Quindi, data l’esistenza discuole come lo IED o il notevole lavorodell’Accademia di Brera, come si puòsostenere che Milano sia meno creati-va di Roma? Non sono assolutamentedell’opinione che ci sia una simile ari-dità nella nostra città.C’è, è vero, un enorme problema politi-co. La città non ha una classe dirigenteche la interpreti, né a destra né a sinistra.

Probabilmente è un problema generale,non solo milanese.Forse. In generale la politica è degene-rata, a Milano più che altrove.Milano è stata devastata nella storiadella sua classe dirigente. Personaggiformati e strutturati sono scomparsi ene sono apparsi altri, completamentenuovi alla vita pubblica. Ignorano labellezza e la profondità della politica.La politica è innanzitutto l’arte di saperriconoscere le dinamiche della realtà edi tenere insieme la complessità di talidinamiche. La politica non è programmazione, néprogetto, né dirigismo. Chi pensa il fal-limento della politica come mancanzadi progettualità è in errore.Nel nostro caso, se una città comeMilano non ha un grande progetto, laresponsabilità è anche delle sue forzeeconomiche e culturali. Non è solo unproblema di governo, ma di interpreta-zione della città. Da questo punto di vista Milano perdei colpi nel non sapersi riconoscerecome metropoli. Milano continua aconsiderarsi un comune, un piccolopaese, con la conseguenza demenzialeche l’area milanese non è governata.Demenziale, perché i grandi interventisono connessi a questo livello dellaquestione: gestire la grande area mila-nese nel suo complesso. Consapevo-lezza che manca alle forze economiche.

Quali sono le difficoltà che i giovani,lavorando con le associazioni, incontra-no interfacciandosi con la pubblicaamministrazione?La prima grande difficoltà che esprimeil tipo creativo in una città come Milanoè quella degli spazi. Tutti cercano lo spazio dove poter esse-re produttori e sperimentatori. La cittàè estremamente condensata su un ter-ritorio piccolo, da ciò deriva una gran-de richiesta di strutture. A Milano non è accaduto ciò che èaccaduto in molte città europee. Le exaree industriali, che dismettevano unospazio, decidevano di dare in affitto ibox trasformandoli in un nuovo tipo distruttura. È accaduto solo in due o tresituazioni, qui.La storia delle città europee è andatanell’oggettiva direzione di trasformazio-ne da città industriali a luoghi di pensie-ro e ha chiamato tutte le città occidenta-li a riflettere su questa possibilità.Milano è rimasta indietro da questopunto di vista e ora la paga cara. Così,rivolge la sua offerta al mondo per avereallievi nelle proprie realtà culturali manon ha il luogo dove ospitarli. L’esempiodrammatico sono i quarantamila stu-denti universitari fuori sede che non rie-scono a trovare un posto letto o che lotrovano solo sul mercato nero. Questa èla capacità ospitale della città. Inoltre bisogna considerare la capacitàdi mettere a disposizione spazi a prezzi“intermedi”. Le persone possono regge-re un certo tipo di impatto, ma non pos-sono concorrere con le multinazionali.Quindi, lo spazio costituisce un proble-ma terribile. Cento volte all’anno hodovuto dire: “No, non ho lo spazio.”La seconda difficoltà riguarda l’istitu-zione comunale ed è il passaggio dalSettore Giovanile al Settore Culturale,inteso tout court. La cultura milanese è gestita in chiaverigida e conservatrice. Le nuove pre-senze non riescono a farsi riconoscere.Restano il più possibile nel SettoreGiovani perché non riescono a fare ilsalto nel Settore Cultura. L’esempio tipico è Milano Film Festival.Persone che hanno lavorato benissimo,che continuano a lavorare benissimo eche hanno il diritto di essere riconosciu-te come realtà culturale.

La terza difficoltà è che il nuovo model-lo di impresa non ha un’interpretazioneassociativa. L’associazionismo giovanilenon è sostenuto, né aiutato, né protetto. Fare impresa oggi richiede, innanzitut-to, che istituzioni come Assolombardaprendano coscienza delle “nuoveimprese”. Le realtà aziendali chenascono ora non sono le arti e i mestie-ri tradizionali, sono nuovi mestieri enuove arti. Riconoscere quelle che sono le “nuoveimprese”. Siccome a Milano questo è unproblema effettivamente più presenteche altrove, diventa l’argomento all’ordi-ne del giorno. Saper interpretare la città.

Hai individuato un minimo comunedenominatore fra le proposte che sonoarrivate sulla tua scrivania? E inoltre:quali sono le aspettative, le aspirazioni,le tendenze espressive di queste proposte? L’indagine delle tendenze. Questo è unargomento molto interessante perchéc’è un vecchiume oggettivo mascheratoda “ipermoderno” e carico di pregiudizi. Non è vero che l’arte giovanile è un’ar-te ribelle. Non è vero che il problema èdissacrare e rompere le forme peressere più liberi. Almeno, non tutta l’arte giovanile. Questi sono assunti preistorici, chehanno fatto il loro tempo. I giovani sonofigli di questa esperienza preistorica. La conseguenza è che i giovani di oggisono tutti alla ricerca del segno, del-l’approfondimento di sé. Può dunquesembrare, in apparenza, che nella loroopera creativa e nella loro arte ci siameno impegno sociale, meno sensodella collettività e della comunità.Sono pagine bianche che si stannoriscrivendo. Pagine sull’Io, sull’amore,sulle emozioni, sull’essere. Io sonoentusiasta di questo. Le tendenze sono, poi, molto diversefra loro: alcune sono conservatrici,altre innovatrici.

Anche i racconti che arrivano alla reda-zione di Subway, per la maggior parte,non appartengono al genere di raccontosociale o di analisi del sociale. C’è sem-pre un Io dominante.Perché è “peggio” parlare dell’Io piut-tosto che del Noi? Non si può dire cheè peggio, si può valutare che è il pre-sente. Il presente parla dell’Io. La domanda, semmai, è: ha quest’Io glistrumenti necessari per portare fino infondo la sua ricerca?L’altra grande questione è che l’Io,quando si pone, cerca un maestro.Oggi, con chi può porsi? Con chi puòconfrontarsi? È come se si fosse rotto ilfilo di collegamento con i maestri. Proprio in occasione di Subway, abbia-mo potuto assistere a un confronto frascrittori affermati e giovani esordienti,ma è una formula unica che ci siamoinventati. Non c’è altro. La ricerca dell’Iooggi avviene senza padri nè maestri.

Se tu dovessi scrivere un racconto suMilano, come lo intitoleresti e che cosa tipiacerebbe narrare?Mi piacerebbe raccontare la mia sto-ria. Ho vissuto cercando sempre dimantenere la fiamma viva, la passione,lo spirito del divertimento, nel suosenso più alto.

Anche attraverso la storia di Milano?Può sembrare strano ma mi sonodivertito molto facendo l’assessore.Certo la fortuna ha avuto la sua parte,nel mio lavoro.Ma il valore della mia storia sta proprioin una certa concezione della libertà.Una libertà che qui a Milano bisognasempre giocare fino in fondo. Ho “gio-cato” a Milano, perché solo Milanopoteva garantirmi questo.

Nuova creatività, nuove impresePolitica e cultura, un equilibrio difficile ma possibile

***Perché è ”peggio” parlare

dell’Io piuttosto che del Noi?

Il presente parla dell’Io***

El domm de milan Gianni Zardin

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Sono diventato padre a cinquant’anni. Ilfatto, in sé, può non apparire straordina-rio o fuori dal normale. C’è chi è diven-tato e diventa padre anche a ottanta.Avessi detto “madre a cinquant’anni”,forse avrei suscitato più curiosità, anchese mi rendo conto che anche questa nonè più un’impresa. Il fatto è che io sono diventato padre diuna ragazza di 12 anni. Così, da un gior-no all’altro. Non l’ho vista nascere, nonho trepidato in una sala parto, non hopassato notti in bianco, non ho cambia-to pannolini, non le ho fatto credereche Gesù Bambino (o Babbo Natale)mette i regali sotto l’albero, non l’hoaccompagnata al suo primo giorno discuola. Ho saputo di avere una figlia el’ho incontrata per la prima volta quan-do aveva 12 anni. Io sono un uomo ricco. Molto ricco.Non è sempre stato così, ma questa nonè la storia di come sono diventato ricco.E’ la storia di come sono diventatopadre e di come sono diventato presi-dente di una squadra di basket che haappena vinto lo scudetto. Il mio mestiere è fare soldi con i soldi ein questo sono molto bravo. Sono unbroker. Insomma uno di quei signori chericevono i denari di qualcuno e li fannofruttare, trattenendo una percentuale. Ilsegreto è che chi mi dà i soldi a voltevince e a volte perde. Io non perdo mai.Vivo in una grande casa nel centro diMilano, davanti al parco. La mattina,prima che l’autista mi porti in ufficio -hodue auto, ma non mi piace guidare ameno che non sia strettamente necessa-rio- faccio due passi nel parco. E’ ilParco Venezia. C’è molta gente che fa jogging a quell’o-ra, prima delle sette. Ormai ci conoscia-mo, loro, almeno conoscono me perchésono l’unico con giacca, cravatta e paltòd’inverno, e con un completo di frescodi lana o di lino d’estate. Loro invecesono in tuta. Io non ho mai fatto sport. Mi sono infilato la mia prima tuta a cin-quant’anni, un mese dopo aver cono-sciuto Anna. Anna è mia figlia.

Un giorno è squillato il telefono del mioufficio. La mia segretaria -ma sarebbepiù giusto definirla “assistente” per ilruolo che svolge- che si chiama Claudia,mi ha detto, con un tono di voce diverti-to: “Sai chi c’è al telefono? C’è Daniela evorrebbe parlare con te”. Claudia lavoracon me da quando ho aperto questo uffi-cio. Mi conosce, mi sopporta, mi aiuta.Io sono diventato ricco e anche lei èdiventata ricca. Meno di me, ma ricca.Se lo merita. E’ brava. Anche Danielaaveva cominciato con me. Anche lei erabrava. Io e le due ragazze. Daniela, però,tredici anni fa se n’è andata. Così, dal-l’oggi al domani. Un giorno è venuta inufficio, mi ha dato una lettera e mi hadetto: “Sono le mie dimissioni”. Ho sem-pre pensato che avesse preso la decisio-ne per quello che era successo tra di noi. Non sono un uomo brutto. Sono alto,magro, sempre elegante. Ho dei beicapelli che porto quasi sempre spettina-ti. Con Daniela abbiamo avuto una sto-ria. Una sera ci eravamo fermati a lavo-rare in ufficio. La prossimità, la compli-cità, uno sguardo, l’accensione del desi-derio. E’ andata avanti per tre mesi. Poilei è venuta con la lettera di dimissioni.Non c’era niente su di noi in quella let-tera, solo che se ne andava dall’ufficio.Non ho fatto nulla per trattenerla. Tredici anni dopo mi ha chiamato. Havoluto incontrarmi. Ci siamo visti in cen-tro, in un bel bar dietro viaMontenapoleone. Lei è ancora bella.L’ho pensato appena l’ho vista. E hoguardato l’anulare. Niente fede. Si èseduta davanti a me, ha ordinato un cap-puccino (prendeva cappuccini a ogniora anche quando lavorava da me). “Ciao”. “Ciao Mario. Voglio subito dirti che midispiace disturbarti, ma mi sento in

colpa con una persona molto importan-te per me e voglio rimediare”. Non hodetto nulla. Io so ascoltare. Ha tirato fuori una foto dalla borsa e mel’ha fatta vedere. Una ragazzina sorride-va all’obbiettivo. Carina, alta, magra econ il naso leggermente arcuato. Comeil mio. “Questa è Anna, mia figlia e… tuafiglia”. Non sono un uomo che si emoziona. Maqualcosa, da qualche parte, dentro dime, ha creato una specie di vuoto d’aria,come quando, in volo, ci sono le turbo-lenze. Non ho detto nulla neanche que-sta volta. Ho guardato la foto. Neancheper un attimo ho pensato che fosseun’invenzione. Daniela ha continuato: “Sono rimastaincinta di te, tredici anni fa. Per questome ne sono andata. Tu non sei cattivo,ma sei un uomo inafferrabile, Mario. Ionon volevo un uomo che mi pagasseregolarmente il mantenimento di miafiglia, perché so che tu l’avresti fatto eanche generosamente, ma che nonfacesse realmente il padre. Non sapevocome ti saresti comportato e non volevocorrere rischi e causarle delle sofferen-ze. Ho pensato che fosse meglio chemia figlia credesse che suo padre fossesparito”. “E cos’è cambiato?”. Un piccolo velo (Di commozione? Diorgoglio?) è passato nei suoi occhi.“Adesso Anna è una ragazzina splendi-da, intelligente che non si accontentapiù di sapere che suo padre se n’è anda-to. Vuole sapere. E io mi sono sentita incolpa, per averle mentito. Oggi confessoi miei peccati e saldo i miei debiti. L’hodetto a te e -ha guardato l’orologio- traun ora lo dirò a lei. Vorrei che v’incon-traste. Sabato pomeriggio, lei gioca unapartita di basket alla palestra Forza eCoraggio, giù al Vigentino. Perché nonvai a prenderla? State insieme, rispondialle sue domande. Non ti chiedo di farleda padre, ma almeno d’incontrarla”.

Daniela si è sbagliata. Non sonoinaf ferrabile. Sono andato con il mio Suv. Una robaenorme, tedesca. Non so neanche per-ché l’ho comprata. Ma l’altra auto cheho è una Jaguar, forse un po’ esagerata.Almeno questa ha l’aria del gippone,apparentemente più sportiva. Ho par-cheggiato davanti al complesso. Intornoa me, genitori e bambini, gente in tuta,strade di periferia, palazzi, bar, pizzerie. Non ho trovato l’ingresso. Prima mi sonoinfilato in una palestra piena di ragazzinie ragazzine che facevano ginnastica. Poisono entrato sul campo di basket, madalla parte sbagliata. Ho dovuto percor-rere tutto il perimetro del campo, manessuno si è accorto di me. Una trentinadi persone seguiva la partita. Mi sono seduto in tribuna. La gente tifa-

va, ma tranquillamente. Mia figlia svet-tava sulle altre, con una treccia che lescendeva sulla schiena. Il suo numeroera il “5”. Non so niente di sport, ma miè parso subito chiaro che la sua squadrafosse inferiore all’altra. Si battevano male altre infilavano più spesso il pallonenel canestro. A un certo punto ho cerca-to con lo sguardo il punteggio. Lassù inalto c’era il conta punti: 68-8. C’è stato iltempo per un altro canestro, poi la par-tita è finita: 70-8. Le ragazzine si sonosalutate sportivamente, ma a me èdispiaciuto per la sconfitta della squadradi Anna.L’ho aspettata fuori. Anna portava unagiacca a vento sopra la tuta e in testaaveva un berretto di lana. Mi ha squa-drato. “Mi sembra di stare allo spec-chio” ha detto. Le ho fatto strada verso l’auto. Hamesso la borsa nel bagagliaio e si èseduta davanti. “Bella questa macchina,la mamma me l’aveva detto che eriricco”. “E cos’altro ti ha detto?”. “Che non te n’eri andato, che era unabugia. In realtà non ti aveva mai dettoche esistevo”. Ne parlava tranquilla, serena, come sefosse una storia naturale. Aveva unosguardo intelligente, sveglio e quelvuoto d’aria, quella turbolenza, si agita-va sempre di più dentro in me. “Cosavuoi che facciamo?”. “Ho un po’ di fame”. Erano le cinque del pomeriggio. “Unpezzo di pizza, un panino? Dimmi tu”. “Possiamo andare da McDonalds?”. “Possiamo fare tutto quello chevogliamo”. Siamo andati da McDonalds. Credo siastata la prima volta che ci sono entrato. Quando siamo usciti Anna mi ha detto:“Non lo dire alla mamma, però, lei nonmi ci porta mai, ma a me piace”. “Ogni tanto possiamo andare, ma nonsempre, sei d’accordo?”. “Sarà il nostro segreto”.

Tutti i sabati ero a vedere la partita dibasket, spesso andavo anche ai due alle-namenti durante la settimana. Poi io emia figlia andavamo a mangiare unapizza. Dopo un mese, mentre aspettavoAnna, il coach si è avvicinato e mi hachiesto se potevamo parlare. Si è pre-sentato. “Giuseppe Stancanelli”. Come ilnome della squadra, “F.Stancanelli”, gliho fatto notare. “E’ dedicata a mia sorel-la Fiorenza. Giocava a basket, era pro-mettente, ma venne investita da un’autopirata e morì dopo alcuni giorni dicoma. Così mio padre ha fondato lasquadra”. Ho fatto un cenno come direche avevo capito. Lui sembrava imba-razzato. “Mi scusi se glielo chiedo, maho visto che lei viene sempre alla parti-ta e che ha quella grossa macchina. Miaccompagnerebbe a Como a prendere

del materiale?”. “Materiale?”.“Noi non abbiamo grandi risorse, cosìalcune società di serie A ci aiutano. Cipassano palloni, magliette, altre coseche ci occorrono. A volte facciamo dueviaggi, ma lei ha una macchina cosìgrande”. Siamo andati un venerdì sera.E’ venuta anche Anna. CoachStancanelli (si chiamano così, senzaarticolo davanti) mi ha spiegato che nonhanno una palestra loro, ma girano,ospiti di altre società o di strutturecomunali. Ho scoperto un mondo che non cono-scevo, quello di uomini, donne, ragazziche s’impegnano senza nessun guada-gno per squadrette di ragazzini. Solopassione, in perdita. Per me, che hosempre vinto, è stata una scoperta sen-sazionale. E ho scoperto il gusto che siprova a dare una mano senza riceverenulla in cambio. O meglio, ricevendomoltissimo. Ho cominciato a fare l’assi-stente del coach. Il secondo. Andavo inpanchina (in tuta), passavo l’acqua alleragazze, ascoltavo il coach che dettavagli schemi (mi sono comprato dei libriper capire), davo il cinque a chi entravae a chi usciva. Un giorno è venutaDaniela e, quando mi ha visto in panchi-na con la tuta, è sbiancata. Ma non hadetto nulla. Mi sarebbe piaciuto parlar-le, ma lei si è sempre mantenuta distan-te, lontana. Non è mai entrata nel rap-porto tra me e Anna, come se la cosanon la riguardasse. Però so che è soddi-sfatta della scelta di averci detto tutto.

E’ arrivato Natale e ho voluto fare unregalo a mia figlia. Non solo a lei, vera-mente, ma a tutta la squadra. Ho chiestoaiuto a uno dei miei clienti, un immobi-liarista, e lui mi ha trovato un’area indu-striale dismessa tra Milano e SanDonato, poco oltre il Corvetto. In mezzoc’era un capannone in buone condizioni.Ho comprato tutto e non mi è costatoneanche tanto. La sera della pizza natali-zia della squadra mi sono offerto diorganizzare io e li ho portati tutti lì.Genitori e figli. C’era anche il padre delcoach, il signor Stancanelli, il presiden-te. E c’era anche la pizza (e non solo): inmezzo al capannone avevo organizzatoun bel buffet. Tutti si guardavano intorno stupiti. Hoconsegnato le chiavi del capannone alsignor Stancanelli. “Questo sarà ilcampo della Stancanelli, naturalmentedopo che l’avremo fatto mettere aposto”. “Non possiamo accettare” ha detto ilsignor Stancanelli. “E’ un regalo per mia figlia” era la primavolta che la chiamavo così e Anna mi hasorriso “Lei crede molto a questa squa-dra e a questo sport. E quindi ci credoanch’io. Voglio che la Stancanelli abbiauna sede, un luogo dove possa lavorare

Un Racconto inedito

in pace. Basta su e giù per Milano, bastaviaggi in giro per la Lombardia a cerca-re “materiale”. Se lo meritano le ragazzee ve lo meritate voi per i sacrifici cheavete fatto in questi anni”. Il signor Stancanelli mi ha dato la suamano da stringere. “Accetto, ma a unacondizione. Il nome FiorenzaStancanelli resterà, ma il presidentesarà lei”. “Senta, io…”. Mi ha interrotto. “No,ascolti me. Noi abbiamo mosso i primipassi, ma ora che questa società si statrasformando, ci vuole un presidenteall’altezza. Non parlo solo dei soldi. Leiha entusiasmo, mio figlio me l’ha detto.Può fare molto”. Ho guardato mia figlia che con lo sguar-do mi chiedeva di accettare. Ci siamostretti la mano tra gli applausi.

Anna è seduta sul divano e sta mangian-do un Big Mac. Abbiamo fatto un patto,dieci anni fa. Quando segna più di ventipunti in una partita, la porto daMcDonalds. Mangiamo lì, oppure pren-diamo un take-away. Oggi ne ha fatti 26e grazie a lei, ma anche alle due ameri-cane che abbiamo messo sotto contrattol’estate scorsa, durante il nostro abitua-le viaggio negli Stati Uniti, la Stancanelliha vinto il suo primo scudetto. ConAnna, che ora è alta un metro e ottanta-cinque, stiamo guardando i servizi sullavittoria nella gara-5 di finale nel palaz-zetto che ha sostituito il capannone nel-l’area industriale. La Stancanelli si chiama ancora così,senza sponsor. L’ho fatto mettere nellostatuto, come il Barcellona: la magliarossa è intonsa, c’è solo scritto“Fiorenza Stancanelli”. Non che gli sponsor non ci siano, manon esiste lo sponsor principale, quelloche, nel basket, prende il posto delnome originario. Per tre quinti del quin-tetto base la Stancanelli è ancora lasquadra di un tempo e il nostro settoregiovanile sforna atlete fortissime. C’è lalista di attesa per entrare. Il comune e il prefetto mi avevano chie-sto di giocare la finale in un impiantopiù grande. Gli ho risposto di no.L’ultima ristrutturazione ha portato lacapienza a 2.500 posti. “E’ il nostro sta-dio e qui giochiamo”.In molti, politici, imprenditori, mi hannochiesto cosa possono fare per noi.Vogliono aiutarci. “Investite a fondoperso. Anzi, non perso, basta vedere i300 ragazzini che ruotano attorno allaStancanelli. Investite nello sport di basesenza pensare al ritorno economico.Fate come gli Stancanelli e come me. Ionon pensavo di vincere lo scudetto, mavolevo un luogo pulito, organizzato,accogliente dove mia figlia e le sue com-pagne potessero praticare il basket”.Qualcosa mi è arrivato, molti non li hopiù visti. I giornalisti parlano di favola, di miraco-lo. Sullo schermo io sto rispondendo aun giornalista che vuole sapere da cosaè cominciato tutto. “Dalla prima voltache sono andato a vedere mia figlia. Lasua squadra perse 70-8 e io ci rimasimale. Non era giusto. Forse è comincia-to tutto da lì”. Anna è sorpresa. “E’ vero?”. “Insomma, alla cinquantesima intervistanon sapevo più che dire. La verità è cheil basket è stato un modo per recupera-re i dodici anni della mia vita senza di te.Però è anche vero che mi era dispiaciu-to per quella sconfitta”. “Allora meno male che non ne abbiamomai discusso”. “Perché?”. “Perché la società avversaria si era sba-gliata, avevano schierato la squadra diuna categoria superiore. Noi, quella par-tita, l’abbiamo vinta a tavolino”.

Roberto Perrone, giornalista sportivo e scrittore, ha pubblicato il romanzo “Zamora”,edizioni Garzanti 2003.

La mia squadra di basket(una favola sportiva metropolitana)

Roberto Perrone

Le Trottoir Edoardo F. Tavola

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.7Un Racconto inedito

“Ai valorosi di Monticelli - maggio1918” è scritto su una medaglietta qua-drata appuntata sul cappello del VReggimento Alpini di mio nonnoGiacomo, unico cimelio che ha lasciatooltre a qualche fotografia, ma che nonaveva conservato lui, morto troppopresto per avere il tempo di pensare acose del genere. E poi non era nemme-no il tipo. Gioviale, la battuta semprepronta, doveva averne viste abbastanzadurante la guerra, la prima, quellaGrande, per lasciarsi impressionare daqualcosa, tanto meno dalla morte, cosìstupida e sempre troppo a portata dimano per darsene pensiero. Le cosepassate, per lui, dovevano essere sol-tanto dei buoni spunti per delle storie,da tirare fuori al momento opportuno eda reinventare secondo l’occorrenza: leprove materiali, oggettive, l’avrebberomesso in difficoltà, costringendolo aun’aderenza ai fatti che avrebbe imbri-gliato la sua fantasia. E questo, secon-do lui, non doveva essere un buonmodo per rendere migliore la vita.La medaglietta celebra l’ultima offensi-va italiana, quella decisiva,sull’Adamello, quando finalmente,dopo quattro anni di battaglie este-nuanti e per lo più inutili, gli alpini riu-scirono a conquistare la cresta delMonticelli, che domina il Passo delTonale, controllando così uno dei var-chi principali attraverso il quale il gene-rale Conrad aveva ipotizzato di sfonda-re il fronte italiano: da lì a piazza delDuomo a Milano ci avrebbe messo sì eno un paio d’ore. Giacomo, quella volta, c’era anche lui.La sua compagnia, la 52°, aveva il com-pito di assaltare il Passo del Paradisoattaccandolo dal Castellaccio e di neu-tralizzare le postazioni austriache chenel Settembre del ’17 avevano raso alsuolo Ponte di Legno. Era un sergente,aveva ventisette anni, e non dovettemettercene molto di entusiasmo, men-tre attraversava la pietraia correndoincontro al nemico. Gli era toccato trop-po spesso, infatti, scendendo in paese,di dover passare a casa di questo o quelsoldato per comunicare ai familiari cheil loro caro era morto; da eroe, ovvia-mente, anche quando, invece, si erabeccato una pallottola in fronte perchéaveva acceso una sigaretta di notte,come dire al cecchino “sono qui”.

Durante l’attacco, mentre qualcheragazzino esaltato urlava il suo “Avanti,Savoia!”, immagino che Giacomo avràpiù coscienziosamente imprecato con-tro il governo e contro il re. Col suofucile modello ’91, quattro chili e duecon la baionetta inastata, e il suo cap-pello infilato nello zaino e l’elmetto intesta, e sperando che Dio gliela man-dasse buona anche quella volta,Giacomo mise piede sul Paradiso, daconquistatore, lì dove, soltanto quattroanni addietro, ci veniva a fare le suegite, prima che qualcuno decidesse chebasta, da quel momento per salire inmontagna bisognava ammazzare dellagente.In una tasca della giubba, con le duestellette sotto il mento e la fila di botto-ni sul davanti, scommetto aveva unadelle lettere che da qualche tempo unacerta ragazza di Milano gli spediva conuna buona regolarità. La prima, credo,dovette riceverla poco dopo il Nataledel ’16, dopo la storia del mulo, alMandrone.Enrica ha quindici anni, nel ’16, quandopartecipa alle riunioni di un gruppo diDame della Carità insieme a suamadre. Vive con la famiglia a Milano, invia Fiamma, al 5, in un palazzo che oggimette un po’ di tristezza, con la conge-stione di auto parcheggiate che glimordono i piedi, la facciata piatta,senza espressione. Dalle finestre dicasa vede il fianco della chiesa di SantaMaria del Suffragio, al di là della piaz-za, e la infastidisce lo sferragliare deltram che va su e giù per il corso XXIIMarzo, disturbandola quando si eserci-ta al pianoforte. Contempla atterrita,sulla copertina della “Domenica delCorriere”, le tavole a colori che raffigu-rano le azioni di guerra svolte durantela settimana. Qualche volta ci sonoanche gli alpini. Sollecitate dalla propaganda governa-tiva, che punta a diffondere un mini-mo di spirito patriottico perché lapopolazione accetti una guerra chenon ha voluto, le Dame si sono orga-nizzate per portare conforto ai soldatial fronte. Il gruppo di Enrica sceglie,come destinatari delle proprie cure,gli alpini del V Reggimento Alpini, eper il secondo Natale di guerra confe-ziona pacchi da inviare al fronte contacchino ripieno di castagne, panetto-

ni, torrone e vino buono. Un bendiddio da risuscitare un morto. Già, se riuscisse ad arrivare a destina-zione, perché l’inverno del ’16 è unodei più nevosi che si ricordi. E alMandrone, dove Giacomo è dislocatocon la 52° sotto dieci metri di neve, nonarriva un bel niente, perché l’unicomodo per mandarci qualcosa è la tele-ferica che, però, ha il cavo spezzato.Così, per non morire di freddo e difame, gli alpini della 52°, la sera dellavigilia di Natale, in pentola ci mettonoun mulo. Sanno di sfidare la sorte, per-ché quello che stanno facendo è controil regolamento e rischiano di finire tuttiquanti, capitano in testa, davanti al tri-bunale militare. Ma morire assiderati econ la pancia vuota, o fucilati, non fauna grande differenza: “Che ci venisse-ro i parrucconi del tribunale, su alMandrone, col regolamento in mano, afare la predica!”

Quando finalmente il cavo della telefe-rica viene sostituito, la vita ricomincia,e con essa, naturalmente, la guerra. Esulla faccenda del mulo qualcuno, alcomando, ha evidentemente deciso dichiudere un occhio: vuoi vedere chequel povero animale è morto di freddo? Il V Alpini è stato fondato a Milano dapoco più di trent’anni, nel 1882, e quiha sede il comando. Ci sono passatiCesare Battisti, arruolato volontariocome soldato semplice e assegnato alla52°, e Carlo Emilio Gadda, nominatosottotenente della milizia territoriale edestinato al Magazzino di Edolo, a duepassi dalla casa che il padre diGiacomo ha finito di costruire con leproprie mani solo tre anni prima, e chetutt’oggi è ancora lì.Non costa molto perciò, alle Dame del

gruppo di Enrica, farsi dare i nominati-vi dei loro assistiti. Li vogliono, e liottengono, perché adesso faranno lemadrine di guerra. Ognuna di loro rice-verà il nome di un soldato e si impe-gnerà a rincuorarlo con le parole,magari suggerite dal parroco, perchénon sia mai che qualche ragazzotto indivisa si faccia venire strani pensieri. A Enrica tocca un sergente della 52°compagnia del Battaglione Edolo, e ini-zia a scrivergli. Non si lascia scoraggia-re dal fatto che il suo alpino non rispon-de. Scrive altre lettere, che piano pianofanno breccia. Giacomo, dopo aver fiutato l’odore disagrestia appiccicato a quelle buste eaverne infilate più d’una nella boccadella stufa, a un certo punto cominciainvece ad aspettarle. Gli fanno compa-gnia. Per qualche ora lo portano via dalì, dal freddo, dalla paura, dalla vita pri-mitiva e feroce che gli tocca fare nelletrincee scavate a tremila metri. Quelleparole scritte con cura, eleganti, messein fila come Dio comanda, sono musicache gli intenerisce il cuore. Alla prima licenza buona perciò, all’ini-zio della primavera, Giacomo scendedalla montagna, si ferma in paese asalutare i suoi, e poi via, a Milano, aconoscere quella ragazza tenace e deli-cata. L’indirizzo lo conosce: viaFiamma, al 5, vicino alla chiesa di SantaMaria del Suffragio. Ci si arriva coltram, volendo. È nervoso, non sa bene come dovràcomportarsi, non è abituato a frequen-tare le case della gente di città. Inmano, nascoste dentro il cappello piu-mato che si è già tolto, ha due stellealpine, raccolte apposta per l’occasio-ne. Cammina su e giù lungo il marcia-piede davanti al palazzo. Non sa deci-dersi. Tutto il coraggio col quale è riu-scito a cavarsela fin lì nel furore dellebattaglie e nel rigore dell’inverno sullecime si è squagliato al tiepido sole mila-nese. Alla fine si riscuote -non può micatornare indietro!-, chiama a raccoltatutta la forza d’animo di cui dispone,poi… “Avanti, Savoia!”, mormora trasé, ed entra nel portone.“È gioia mista d’incertezza e di deside-rio che m’agita il sangue nelle vene!Potessi vedere nell’avvenire!”, scriveràEnrica nel suo diario, infilando a quellapagina le due stelle alpine. “Forse ho

capito qualcosa nei tuoi sguardi, e nelletue mani stringenti le mie, credo aversentito un fremito, una vampata di san-gue ardentissimo!”L’anno prossimo, di quest’epoca, saran-no trascorsi novant’anni giusti giusti daquando Enrica e Giacomo si conobbe-ro, al 5 di via Fiamma (che per me nonè più, ormai, il cognome di Galvano,“cronista milanese 1283-1343”, ma unfatto). Ogni volta che mi capita di passarci,davanti al 5, me lo vedo lì, mio nonno,tremebondo e ingessato nella sua divi-sa di sergente, che tormenta agitato ilcappello, poco prima di salire le scaledi quel palazzo, suonare il campanelloed essere sopraffatto dall’entusiasmodella sua Enrichetta che gli getterà lebraccia al collo al grido “Il mio alpino, ilmio alpino”. Se non lo avesse fatto ionon esisterei. Un pensiero banale, certo, però quan-do mi viene in mente, Milano mi appa-re diversa, finalmente un po’ mia, e iostesso riesco a considerarmi un mila-nese, da sempre, da prima di immagi-narmi che lo sarei diventato; uno che aMilano non ci abita per caso o pernecessità, ma ci vive. La sento, Milano, odo la sua vocina fle-bile di città dolorante, zittita, trattatacome una puttana (paghi e ci fai quelloche vuoi) e che invece pulsa ancora divita, di memoria e di futuro, quando lesi toglie il bavaglio e per un istante sismette di usarla soltanto.A volte mi viene la fantasia di portare invia Fiamma, per fargli fare un giro, ilcappello da alpino di Giacomo, cheadesso è mio, insieme con la sua meda-glietta. Tanto sui marciapiedi di Milanosi incontra di tutto, dalla quantità indi-cibile di merda di cane alle auto-allog-gio: chi lo noterebbe uno come me cheporta a spasso un cappello gualcito?Magari a Giacomo e a Enrica, in qua-lunque posto siano andati a finire, siapure il nulla, strapperei un sorriso.Rimetterei in circolo “vampate di san-gue ardentissimo”. E anche Milano,forse, per qualche minuto, riprende-rebbe coraggio, e si potrebbe sentirlafremere di avvenire.

Enrico Mottinelli ha pubblicato il romanzo“Lontano Padre”, edizioni E/O 2005.

(Via) Fiamma, al 5Enrico Mottinelli

***La sento, Milano,

odo la sua vocina flebiledi città dolorante, trattata

come una puttana, invece pulsa ancora di

vita, quando si smette diusarla soltanto

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1Sviluppare un’offerta di libri “facili” (ilche non significa “cattivi”), ossia benscritti (e tradotti), comprensibili, benstampati e non troppo lunghi, leggibiliper brevi moduli.

2 Accrescere l’offerta di libri coinvolgen-ti, offrenti emozioni forti e semplici,appassionanti (in senso stretto) ecostruiti con tecnica cinematografica otelevisiva (ben nota ai lettori potenziali).

3Cavalcare il bisogno -assai crescentespecie tra le donne- di conoscenza “byemotions” e di emozioni colte, di nuovomix di sapere e di intensità affettiva:laddove il pensare e l’approfondire nonsono alternative al “sentire col cuore econ la pancia”, ma anzi si integrano e sirilanciano a vicenda in un’esperienzatotale, più forte di tante altre esperien-ze di consumo e di vita.

4 Intersecare maggiormente mass-media (tv, radio, cinema, stampa, inter-net, ecc.) e libri, tramite un rinvio con-tinuo degli uni agli altri e viceversa, inmodo da far vivere la lettura d’un librocome un’esperienza preziosa ma acces-sibile, non avulsa dalla vita d’oggi.

5Considerare cultura a pieno titolo lacosiddetta editoria di consumo, ricordan-do che l’82% dei lettori “forti” ed alti leggeanche libri “facili”, mentre nel 67% deicasi iniziare a consumar libri partendodal basso spinge via via ad incamminarsisulle strade che portano verso libri viavia più complessi, sofisticati, “difficili”.

6Modificare -anche tramite la comunica-zione- l’immagine del lettore, presen-tandolo come un individuo moderno,socievole, positivo, che cerca e trovaemozioni e passioni, che ama vivereintensamente e amare e divertirsi,poliedrico ed anche perciò ricercantemomenti di coinvolgimento potente edi riflessione non depressiva.

7Contenere i prezzi e specialmentecomunicarli, in modo che il consuma-tore potenziale sia in grado di riposi-zionare il libro nella “scala prezzi” deidiversi beni e servizi a lui noti.

8Rendere diffusa, vicina e semplice ladistribuzione nel suo scalino d’ingres-so, per poi aiutare l’“upgrading” versolibrerie moderne e non respingenti.

9Favorire tutto ciò che -anzitutto nell’or-ganizzazione sociale- può dare tempoai nostri connazionali ed in primoluogo alle donne, dal momento chel’Italia arcaica ed ignorante é quasiimpossibile da scalfire; che la povertàmateriale -connessa alla diseguaglian-za sociale- é ardua da ridurre (ecomunque solo dopo parecchio tempodalla sua scomparsa consente un incre-mento del consumo di libri) e che inve-ce é proprio la vera nuova “povertà”,quella di tempo, a “strozzare” la letturadei libri e -appena si riduce- a liberarerisorse investibili subito in tale attività.

10Sviluppare la lettura gratuita o quasi,tramite lo sviluppo -come all’estero- diun efficiente e capillare sistema dibiblioteche (pubbliche e non), anchecircolanti o con servizio a domicilio.

Enrico Finzi

Mi é stato chiesto un contributo sul rap-porto tra i nostri connazionali e la lettu-ra dei libri. Accetto volentieri l’invitofacendo la sola cosa che so fare bene:riferire i risultati di ricerche sociali e dimarketing da me coordinate; in questocaso di un’indagine demoscopica svoltaqualche tempo fa per Harlequin.Se prendiamo in considerazione i 47,4milioni di italiani 14-79enni (esclusi inon residenti ed i membri delle convi-venze: ospedali, ospizi, carceri, caser-me, ecc.) ben 25,2 milioni -cioè il 53,2%-non amano o non sanno leggere libri.Molti di costoro non leggono perchénon possono farlo: a parte i non vedentiche non utilizzano l’alfabeto Braille,ancora circa 9,8 milioni di adulti (esclu-si i meno che 14enni e gli ultra 79enni)non ce la fanno a leggere in quanto anal-fabeti o semi-analfabeti, oppure in quan-to in grado di compitare testi brevi manon di affrontare un testo relativamentelungo e complesso, o ancora in quantoimpossibilitati a farlo per motivi di red-dito (non disponendo peraltro della pos-sibilità di ottenere libri in prestito ocomunque gratuitamente).

Quest’Italia marginale costituisce unarealtà “pesante” e difficilmente aggredi-bile: ed é un’Italia specialmente tardo-adulta e senile (cioè 55-79enne); senzaalcun titolo di studio o con la sola licen-za elementare (più raramente con lalicenza media); residente al Sud e nelLazio oltre che nei comuni al di sotto dei30mila abitanti e nelle metropoli; conreddito e consumi bassi ed anchemedio-bassi; composta in prevalenza dapensionati e casalinghe ma con presen-za anche di salariati e lavoratori autono-mi (più diversi disoccupati giovani meri-dionali); teledipendente (guarda la tvquattro o più ore al giorno) e non lettri-ce di quotidiani e periodici; di culturaarcaica o proto-industriale; con infimaForza della Personalità (ossia incapacedi influenzare gli altri). Con un’aggiun-ta: qui maschi e femmine quasi si equi-valgono, malgrado le “lei” siano piùfavorevoli alla lettura di libri (e ciò per-ché in Italia le donne in passato studia-vano meno a lungo e lavoravano assaimeno fuori casa). Ma c’è un’altra e crescente fetta dellatorta dei non lettori di libri che avrebbela capacità di farlo ma si rifiuta ed anziteorizza tale rifiuto presentandolo comeuna scelta consapevole e positiva.Stiamo parlando di circa 6,2 milioni diadulti, ossia un quarto dei non lettori di

libri ed il 13,1% della popolazione tra i 14ed i 79 anni d’età: per lo più maschi,meno che 45enni ed in particolare 18-34enni; residenti al Sud (ma poco inAbruzzo e Molise) oltre che nel Lazio enel Friuli Venezia Giulia/Veneto, pres-soché equidistribuiti nei comuni di tuttele dimensioni; disoccupati e salariati dilivello basso, con molti lavoratori auto-nomi e in parte impiegati pur essi“bassi” (e con diversi studenti degli isti-tuti tecnici e professionali, piccoliimprenditori, casalinghe); di classemedia o inferiore, con la licenza media o-più raramente- il diploma superiore;ascoltatori medi della tv e lettori nonregolari sia di quotidiani (specie sporti-vi ed a volte locali) sia di mensili con-nessi a specifici consumi (auto, moto,salute, fitness, ecc.); con Forza dellaPersonalità medio-bassa.Si tratta d’una novità radicale, almenodal punto di vista delle ricerche sociali edi marketing, emersa per la prima voltanel 1996 in occasione dell’indagine rea-lizzata da Astra Ricerche per contodell’Associazione Italiana Piccoli Editori.

Sino ad allora, appunto, le ricerchevedevano il non-lettore di libri in posi-zione difensiva, tutto teso a giustificaretale sua “colpa” (poiché avvertiva lariprovazione sociale del suo comporta-mento). Ma da qualche anno il leggerlibri é identificato spesso con l’assenzadel piacere, anzi come un ostacolo alpiacere; come noia e fatica senza sensoe senza riscatto; come frigida solitudinesenza calde interazioni sociali; comevecchia, triste, stressante espressionedel rifiuto della “modernità”. Molti nonlettori di libri rivendicano orgogliosa-mente la loro scelta, accusando i librid’esser perdenti sui due terreni del-l’informazione rapida e dello svago eufo-rizzante; di far perder tempo; d’esserestranei alla cultura contemporaneadella velocità, del ritmo incalzante, delconsumo rapido di micromoduli noncomplessi. L’immagine del lettore di

libri che costoro propongono é rabbrivi-dente: un individuo presuntuoso, anaf-fettivo, introverso, negativamente pienodi dubbi e sfumature, intellettualistico,complicato. Totale e rivendicato conforza é qui il rigetto di tutto ciò cherichiede approfondimento e dunque fati-ca, di ciò che non si brucia in un breveattimo, al fondo del pensare (sostituitodal sentire: spesso passivo perché indot-to dalla tv, dal cinema, dalla pubblicitànon fruiti con spirito critico).Colpiscono l’intensità e la diffusionedelle istanze anti-intellettuali che hannoaccompagnato tanta parte del populi-smo reazionario del ‘900 e che qui siripresentano con allegra aggressività:stanno riemergendo i veleni dell’odioantico per la ragione, il rigetto d’ogniattività di “scavo” dei problemi, la mitiz-zazione della semplicità, un edonismosuperficiale privo d’ogni cultura dell’in-vestimento (a partire da quello persona-le del conoscere per crescere, produrre,avere successo). L’inadeguatezza perce-pita dell’offerta dà, naturalmente, unamano: con i prezzi dei libri descritti

come troppo elevati, specie rispetto allaqualità percepita dei prodotti; con ladistribuzione insufficiente quantitativa-mente e qualitativamente e cioè in ter-mini di servizio al cliente; con la latitan-za d’un moderno e noto sistema dibiblioteche pubbliche eccetera.Esiste, poi, un terzo “partito” di non let-tori ed é quello di coloro che amerebbe-ro dedicarsi a quest’attività ma non nehanno il tempo: si tratta di 8,7 milioni diadulti (il 18,4% del totale adulti), preva-lentemente donne, 25-64enni ed in par-ticolare 25-44enni; residenti nel Centro-Nord (salvo il Lazio) e nei comuni da100mila abitanti in su; diplomate; di clas-se media; impiegate e lavoratrici auto-nome ma anche salariate e neo-casalin-ghe; lettrici di quotidiani e periodici,ascoltatrici medie e medio-basse dellatelevisione; con Forza della Personalitàquasi media.

All’opposto, in Italia, tra i 14-79enni il46,8% ama leggere libri (sono esclusidal novero quelli “indispensabili”come i manuali scolastici e le pubblica-zioni tecniche necessarie al lavoro): sitratta d’un mondo variegato, compostoda 22,2 milioni di adulti, in media 25-54enni; residenti nel Nord-Est (in par-ticolare in Emilia Romagna) e inLombardia; laureati e -meno- diploma-ti; di classe medio-alta/alta ed anchemedia (per l’esattezza la fascia alta ditale classe socio-economica); singles;imprenditori/dirigenti/professionistie studenti più molti impiegati/qua-dri/docenti; lettori di quotidiani eperiodici; medio-deboli ascoltatori tv(in media 1,4 ore al dì); forti spettatoricinematografici; con elevata Forzadella Personalità.All’interno di questo universo si può indi-viduare un nucleo forte di lettori intensi(circa 6,2 milioni di adulti), che non supe-ra il 28% di tale mondo e -intorno- unasorta di corona circolare, più ampia, chevale il 72% (16,0 milioni di persone), ovedominano largamente le donne; i 18-

44enni; diplomati (ma si trovano puresoggetti con la licenza media o la laurea);gli studenti e gli “attivi” nell’industria edancor più nei servizi, con diverse neo-casalinghe (specie nel Lazio e al Sud); iresidenti nei comuni con più di 10milaabitanti (il picco é tra i 30mila ed i250mila); le classi dalla medio-bassa allamedio-alta; gli ascoltatori della tv (inmedia 2,3 ore al giorno), i lettori regolaridi quotidiani e periodici; i soggetti conmedio-alta Forza della Personalità.Ebbene, due sono i macro-problemi del-l’editoria libraria in questo Paese: restrin-gere l’area della non lettura ed intensifi-care la lettura dei “lettori deboli”. Allaluce delle indagini svolte da AstraRicerche é possibile, con tutti i limiti delcaso, individuare un insieme di “must”,di operazioni da fare: insieme che qui diseguito presentiamo sotto forma di deca-logo (i 10 Comandamenti...).

I Lettori italianiIndagine su un lettore al di sopra di ogni sospetto

22%NON SANNO O NON POSSONO LEGGERE

18%POSSONO MA NON VOGLIONO LEGGERE

13%VORREBBERO MA NON POSSONO LEGGERE

34%LEGGONO POCO

13%LEGGONO MOLTO

Subway - by SolariS

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Generi dal sottosuoloBreve viaggio attraverso cinque anni di Subway

Nonostante l’elavata diversificazione, lafantascienza, l’horror, il noir e affinirappresentano altrettanti filoni minori.Ci sono poi le vere e proprie minoran-ze. Casi unici come “Il ricovero dellestorie sbagliate” di Emanuele Fant, sucui veglia il nume tutelare della più cal-viniania leggerezza, o il surreale diariodi una triglia militarista regalatoci daFlavia Ganzenua.Sono decisamente rari i casi in cui labilancia pende verso la forma, l’affabu-lazione, il piacere di riflettere sul rac-contare raccontando. La dimensioneprivilegiata è decisamente quella auto-biografica. I partecipanti di Subwayspesso scrivono per raccontarsi, inmaniere molto diverse ovviamente.Il racconto “storico” ha rappresentatonelle scorse edizioni (e si riconfermacon l’ultima) un vero e proprio outsider,capace di scavarsi una solida nicchia.Spazio angusto e problematico in cui siraccolgono storie agrodolci sul comeeravamo, incrocio problematico di pas-sato e presente. Nella corsa alla globalità a tutti i costi, lamemoria diventa un valore se non insenso assoluto, almeno in ragione dellasua fragilità. Soprattutto al Sud (da Napoli allaSardegna), rinasce il piacere di ritmi

Andrea Chiurato

Un fenomeno in particolare meritereb-be l’attenzione di ricercatori e studiosi.Potete osservarlo anche voi.L’esperimento che vi proponiamo èsemplice e relativamente poco costoso.Vi occorre innanzitutto un biglietto.Riesce meglio in metropolitana, ma cisi può accontentare di un qualsiasimezzo pubblico. Scegliete un tragittosuperiore alle due fermate e sedetevi.La vettura si mette in marcia ed eccoprodursi inevitabilmente il miracolo.L’occhio, nonostante il peso del sonno,rifiuta di stare calmo. Eccolo affannarsisulle punte delle scarpe del vostro vici-no. Inesorabilmente risale, ma eccoche l’altro reagisce. Il contatto è mini-mo, ma disastroso. Si richiede un’altraseppur minima distrazione.“Elimina i tuoi peli superflui in sole…”L’affissione sopra l’uscita (“Lasciarescendere prima di salire”) non fornisceargomenti sufficienti ad interessarci.Ripiegare su qualcosa di meno prosaico.Giungono in aiuto le sempre disponibilinorme di sicurezza. “In caso di emer-genza… blablabla…” L’inizio appassio-na sempre, ma poi ci si perde.Siamo prossimi ad una crisi. Un nervo-sismo strisciante si impossessa dellapupilla che sobbalza inquieta tra untitolo di giornale (da decifrare rigoro-samente al contrario) e il panoramasbiadito fuori dal finestrino. Il battitocardiaco aumenta… non siamo nean-che alla prima fermata.

Nonostante abbia destato l’interessedegli investitori della free-press e datoun pretesto al narcisismo di alcuniinguaribili grafomani, la dipendenza dalettura nei mezzi pubblici è ancora unfenomeno sottovalutato.Subway nasce proprio da questo micro-cosmo di vagoni rumorosi e pendolariaffrettati. Scandendo la lettura con ilmetronomo delle porte scorrevoli,costringendola negli spazi stretti delracconto. Dedicando la possibilità diriscattare questi tempi “morti” ai giova-ni scrittori italiani.A cinque anni dalla prima pacifica inva-sione dei juke-box letterari nella“metrò” di Milano, oggi il contagio dila-ga anche a Roma e a Napoli. Un con-corso di cui appare da subito forte l’i-dentificazione con una realtà urbana.Nato e distribuito (gratuitamente) nelpiù moderno “luogo di transito”. Manon solo questo. Perché se sottoterraformicola il variegato popolo dei pen-dolari è altrettanto vero che quaggiù, inattesa della nostra fermata, ci capita dilanciare uno sguardo attorno. A volte in questa piccola distrazione sinasconde la possibilità di un racconto.Un evento minimo, un piccolo inci-dente. I sismografi delle giovani pro-poste di Subway hanno una particola-re sensibilità nel cogliere i battitidella quotidianità.I personaggi, le irresistibili macchiette,che sembrano essere scappate da unromanzo, per paura di non riempirloabbastanza. Come l’indimenticabilestudentessa minimalista di SimonlucaMerlante: “Beh, Lei non lo può sapere,ma comunque sono una di quelleragazze postmoderne che veste abiticomperati il sabato pomeriggio con leamiche giù per i negozi del centro; mipiacciono tanto i jeans semifirmati cheti fasciano il culo, le cover per il

L’entità del terremoto prodotto daSubway deve essere ancora ben valutata.Dopo cinque anni sembra giunto iltempo di un primo, provvisorio, bilancio.In occasione della premiazione di que-st’anno sarà presentata la prima ricercasui “generi del sottosuolo”. Un pazien-te lavoro di scavo, attraverso cui faraffiorare le linee di sviluppo principali,le soluzioni più trend, le “linee” piùaffollate. Gettando un’occhiata veloce ai risultatiemergono due galassie, due poli diaggregazione.La prima, a cui abbiamo già accennato,è quella in cui i segnali di genere sonopiù evidenti. Lettori onnivori, i nostrigiovani frequentano volentieri i variega-ti sottoboschi della narrativa popolare. Eppure la direzione prevalente non èquella dell’evasione.

***I sismografi delle giovani

proposte di Subwayhanno una particolaresensibilità nel cogliere

i battiti della quotidianità***

narrativi più distesi e pacati attraversocui recuperare il piacere della novella,del giudizio tagliente, sempre conditoda un’amara ironia e da un coloratissi-mo dialetto.Sul versante opposto c’è chi preferisceafferrare la vita in un solo scatto.Nascono così gli “Incontri brevi” diAngelo Formica, membro esemplare diuna variegata tribù affezionata allospaccato quotidiano.Storie minime, piccoli incidenti di tuttii giorni, capaci di spalancare gli occhianche solo per un attimo.Dal piccolo “sacrificio umano” consu-mato (guarda a caso) in un vagonedella metropolitana in “Brevi incontrimetropolitani” alla casalinga disperatacapace di provocare una piccola strageper noia, al suo “Ottavo piano convista”, nella banlieu, poco fuori Milano.Storie di ordinaria follia e banalità.Capaci di spaventarci proprio per la loroverosimiglianza, difficile da ignorare. A volte è un fatto di sangue che porta alculmine braci sepolte sotto la routinequotidiana, altre volte è una silenziosaepifania, in scala ridotta. Una rivelazio-ne che può avere il sapore amaro dellaterra masticata come in “Insonnia” osvolgersi su un tono più lieve, ma nonper questo meno affilato, quando dopol’ennesimo, fallimentare, colloquio dilavoro il protagonista di “Che efficien-za!” riflette sul vero significato dellaparola flessibilità: “Nel tornare in bicidalla filiale WorkPoint a casa, piuttostomesto e silenzioso, ragiono che un but-tafuori e un cinese (che poi ho scoper-to essere mezzo coreano e mezzo man-tovano) son più inseriti di me nella miacittà. Come dire che mi sento un tantofuori dal giro.”Non basterebbero questi tra i milleesempi per raccontare la poliedricitàdei giovani scrittori di Subway. Nuoviscrittori, o meglio nuove “leve”. Perchéla quotidianità per non ridursi al solotono di grigio ha bisogno di essereaggredita, scalfita. Non bastano lemezze misure, e se non basta lo stuzzi-cadenti allora ben venga il piede diporco. L’importante è applicare lo sfor-zo nel punto giusto. Concentrare losguardo finché la realtà stessa perde lasua patina di “già visto” e, riguada-gnando colore, si metta in movimento.Ovviamente il linguaggio, quando pos-siede ancora in sé i benefici germi diquesta energia, non può che essere allarincorsa. Non è detto che, per una volta, unsimile “ritardo” sia necessariamenteun male.

Nocchia con su i cuoricini e RobbiUilliams, le borse tarocche che ti vendeil marocchino sulla spiaggia diCattolica.”Basta poco e così, con quattro virgoleveloci come proiettili di un plotone diesecuzione, la nostra studentessa vieneriassunta, condannata, liquidata. Unotra i tanti ritratti al vetriolo che affolla legallerie, lunghe e mal illuminate, dellasotterranea. Gallerie ormai ramificate, in profon-dità, attraverso i colori dei generi piùdiversi: dal giallo Agatha Christie, alblunotte delle “piccole” tragedie di pro-vincia, fino al rosso pulp, particolar-mente intenso nelle ultime due annate.Attraverso le centinaia di pagine sfo-gliate in questi anni emerge un retro-terra letterario ampio e ben conosciuto.Un vero e proprio bazaar delNovecento, dal minimalismo a Borges,in cui le nostre giovani penne si avven-turano con uno spirito giustamentedisinibito. Senza però abbandonare labussola di una tecnica padroneggiatacon abilità, frutto di allenamenti nottur-ni e silenziosi. Dal surreale al giallo sentiamo fremere emescolarsi le note più diverse, nella piùvera tradizione postmoderna. Senza chequesto “post-” diventi un “mai” feticcio.

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20

06

***Un vero e proprio bazaar

del Novecento, dal minimalismo a Borges

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Chiesa di San Marco Giovanni Franzi

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.10 Un Racconto inedito

Questa volta sarà tutto diverso. Nullapotrà cogliermi impreparata. Scopro diaspettare il terzo bambino e mi sento diaffermare che in materia ho una certaesperienza. A trentatre anni ho allespalle un curriculum di latte, poppate,rigurgiti, diarree, notti insonni, ciucci,pianti, pannolini di tutto rispetto. Cifosse ancora il fascismo almeno peruna medaglietta di bronzo sarei inlizza. Una giovane mamma piena dienergia per i suoi adorabili pargolettitra scuola, asili, pediatri e carrelli disupermercato da riempire. Rido felicee ignara. Cosa sarà mai farne un terzoquando si ha un curriculum come ilmio? La grande differenza è tra uno edue, ripeto a me stessa, ma tra due etre praticamente non si sente nemme-no. Deve essere un po’ come quando ticapita a cena qualcuno all’improvviso estai buttando gli spaghetti per tre einvece dici “Ma no dai non fare compli-menti… se mangiamo in tre mangiamoanche in quattro”. Ecco me lo immagi-no così questo terzo bambino, unnuovo irresistibile ospite che si aggiun-ge a quelli che ci sono già. Un tenerofrugoletto che si trova due adorabilifratellini che lo riempiranno di coccolee che, ne sono certa, mi saranno digrande aiuto. Sarà meraviglioso rico-minciare con un esserino completa-mente dipendente da me. Comunquenon voglio farmi cogliere impreparata.Una mamma efficiente in una grandecittà come Milano ha tutto sempre per-fettamente sotto controllo e soprattuttone sa una più del diavolo. Già al quarto-quinto mese mi fiondo in una libreria.Reparto salute. Alimentazione in gravi-danza, salute naturale in gravidanza,allattamento e svezzamento. Vogliosapere tutto, essere pronta a tutto, faretutto nel migliore dei modi. Caso maimi fosse sfuggito qualcosa le volteprecedenti. Non voglio farmi cogliereimpreparata dai pianti improvvisi,dalle notti insonni, dall’allattamentoselvaggio.Ma dove vivono quelli che scrivonoquesti libri? Avranno mai avuto almenoun neonato da accudire? Ne avranno difigli? Se fosse davvero vero quello chesentenziano i primi mesi con il puponuovo dovrebbero essere tra i miglioridella mia vita. Non sarò stanca perchémi basterà seguire i ritmi sonno/vegliadel neonato per ricaricarmi di energia,appoggiarlo sul mio cuore quando fa icapricci, creare un angolo della casaadatto all’allattamento (luce soffusa,cuscini comodi, magari qualche cande-la accesa, piccoli snack salutari dasbocconcellare tra una poppata e l’al-tra) e soprattutto stordirlo di Mozart intutti i momenti di crisi. Non credo aduna parola di tutto quello che leggo madivoro questi manuali che raccontanodel perfetto genitore che non perdecalma e controllo in ogni situazione.Spero che anche il mio neonato siacosì docile e romantico e predispostoall’ arte da apprezzare il mio cuore, lecandele accese e Mozart che suonasolo per noi. Chissà poi quanti corsi e controcorsi cisaranno da seguire, faccio scorta divolantini su massaggi al neonato, shiat-su, yoga e nuoto. E’ anche pieno dinumeri verdi, rassicuranti servizi delcomune e dell’ospedale in cui avrò ilbambino che offrono aiuto e confortoalle neomamme su allattamento e altrimille problemi che possono mandarein tilt.Tutto mi sembra estremamente propi-zio. Mi sento in una botte di ferro. Ognimia domanda avrà una risposta. Eanche i due fratellini sembrano entu-siasti dell’arrivo del piccolo. Non miresta che farlo venire al mondo.Stringerlo forte tra le mie braccia e dar-gli il benvenuto.

Eccolo qui il mio tenero frugoletto.Sono sopravvissuta anche questa volta

all’anestesia e al cesareo e lui è bello esano. Adesso che siamo tutti qui, vivi evegeti, in qualche modo faremo. E nonlo faremo in un modo qualunque mavantando conoscenze in materia per lomeno enciclopediche. Non vedo l’oradi essere dimessa dall’ospedale permettere in pratica tutti i buoni proposi-ti rimuginati in questi mesi. Non misfioreranno nemmeno le malinconiedelle altre due volte, non sarò in baliadegli ormoni, facile preda di piantiimprovvisi.Non mi farò incantare dal suo visinodolce e dal suo pianto insistente. Inbraccio solo il necessario. Lo lasceròpiangere nella sua culla fino a quandonon avrà capito chi comanda in casa eche non sono tipo da cedere a faciliricatti.Sarò molto disponibile con i due gran-di, chiudendo un occhio, di tanto intanto sulle loro marachelle. Loro capi-scono e soffrono. Il piccolino invece èpiù ignaro e va da sé che mi debbadedicare più a loro.

Esco dall’ospedale. Mi sento vagamen-te stordita. I bambini sono entusiastidell’arrivo mio e del fratellino. Mi riser-vano una accoglienza da regina. Il pic-colo frugoletto ha dormito come unangioletto per tutto il tragitto. Sono feli-ce di essere di nuovo a casa. E di inco-minciare un nuovo capitolo della miavita, con un nuovo ospite da imparare aconoscere ed amare.Facciamo piano! Eccolo finalmentenella sua culla che lo aspettava da qual-che mese. Non faccio in tempo adappoggiarlo e il tenero frugoletto si tra-sforma in un arrabbiatissimo animalet-to urlante. Però non avevo notato inospedale che avesse questa vocina cosìpenetrante. E nemmeno che fosse cosìinsistente. Il ragazzo ha carattere, miripeto compiaciuta. Dopo circa cinqueminuti di pianto ininterrotto, mentrediventa paonazzo e i bambini mi chie-dono perché è cosi noioso ripasso men-talmente il mio prontuario sul piantodel neonato. Piange perché ha fame.No, perché ha appena mangiato.Piange perché ha fatto la cacca. No,perché l’ho appena cambiato. Piangeperché è il suo unico modo di comuni-care, mi ripeto sicura. Passa mezz’ora emi sembra veramente disperato. Nonresisto e lo prendo in braccio. Perincanto smette. Realizzo che la causa ditanta disperazione è la culla.

Bellissima. Con tutti i pois colorati. Maenorme rispetto a lui. Quasi ci si perde.Provo a metterlo nella carrozzina. Lì sisente sicuro e protetto. A saperlo noncompravo la rolls delle culle e rispar-miavo un sacco di soldi.

Ormai sono a casa da una settimana.Mi sento bene e piena di energie.Saranno i semi di zucca che trangugiodisciplinata ogni mattina. O forse l’o-mega tre che pullula nel pesce azzurroe non mi ricordo per cosa ma fa molto

bene. Sono un soldatino del benessere,un manuale della mamma immolataalla causa dell’allattamento. Penso soloagli orari delle poppate. Mi compiacciodi ogni ruttino, esulto per le meravi-gliose cacche che pulisco, pannolinodopo pannolino. Lo ingrasso come untacchino da competizione. Bello con lesue manine cicciotte, il doppio mento.Cresce grazie a me. Sono in un deliriodi onnipotenza lattifera. Non mi sentopiù una ragazza giovane con tanti inte-ressi. Mi sento come un distributoreautomatico di latte. Aperto ventiquattroore su ventiquattro.

Inizio a sentirmi esausta. Mozart nongli piace. E appoggiarsi urlante sopra ilmio cuore gli fa un baffo. Girovago percasa indossando sformate tute da gin-nastica, ho le occhiaie e sono isterica.So tutto quello che è giusto e quelloche è sbagliato. Scivolo pericolosamen-

te in quest’ ultima direzione. Sono cosìstanca da non riuscire ad essere dolce,buona e comprensiva mentre i duebambini grandi scorrazzano per casaurlando e svegliando il piccolo faticosa-mente addormentato dopo averlo tenu-to in braccio per un’ora, non so cosarispondere alla mia bambina che recla-ma due ore tutte per lei sola con me emi accusa di non essere più quella diuna volta… sono stanca. Ho sonno. Unsonno cosmico. Sogno un letto. O ditrasformarmi in una pelle d’orso.Gambe e braccia divaricate. Testaabbandonata. Sdraiata. Appiattita su unpavimento morbido. Senza pensieri masoprattutto senza rumori. Approfittandodi un momento tranquillo sguscio inbagno, mi chiudo a chiave, riempio l’ac-qua della vasca, due gocce di essenzaalla lavanda. Entro nella vasca.Assaporo il piacere dell’acqua caldache scivola sulla mia pelle stanca. Misento rilassata. Mi metto nelle orecchieil mio iPod e provo a contare per quan-ti minuti riuscirò a starmene in pace a

guardare l’acqua che gocciola del rubi-netto con i REM nelle orecchie. Arrivoa due minuti circa. Il mio adorabilesecondogenito lancia il pallone nellaporta e mi urla che sua sorella gli hanascosto le figurine dei calciatori e chedevo aprirgli perché mi deve dire unacosa. Lei è cattiva perché lo prende ingiro, io perché non gli apro. Sono sem-pre più stanca, inizio a rimpiangere lavita d’ufficio e mi chiedo perché tuttisiano cosi pieni di richieste e pretese.Non mi sento più l’efficiente mammad’Italia di qualche mese fa. Mi sentopiù la strega di Biancaneve. Una stre-gona tettona. Adesso capisco perchéquando dicevo che a trentatre anni hotre figli mi guardavano tutti come unapazza. Perché come tutte le cose piùbelle e preziose della vita richiedonomolti sacrifici e anche una certa disci-plina. E anche un grande amore per sestessi, il proprio marito e tutto il resto.Perché non è un telefilm e nemmenoun piatto di pasta in più. E’ un meravi-glioso, costante, enorme sacrificio. Significa annullarsi nel bene di un’altrapersona, significa spogliarsi del pro-prio egoismo e mettersi a disposizione.Giorno dopo notte, notte dopo giorno.A ogni mia occhiaia ogni giorno un po’più profonda corrisponde un faccinosempre più rosa e paffuto. A ogni miocedimento un suo nuovo sorriso. A

In una bolla di latteMaria Novella Viganò - Autrice Subway 2005

ogni mio dubbio un sentimento di pacee completezza.E alla strega di Biancaneve, quella conla tuta sformata in crisi di astinenza dasonno che, come apoteosi dell’abbrutti-mento domestico, allatta di fronte aVerissimo covando disarmata invidiaper bellissime e scosciatissime ragaz-ze, si alterna una mamma buona. Sempre io. Quella che abita in una bolladi latte. E allora non importa se i nume-ri verdi di Milano valgono quel che val-gono e ai rassicuranti “Emergenzamamma che allatta” non risponde mainessuno. E pazienza se non applico esat-tamente il manuale del perfetto genitoree se forse in questo momento non soaccontentare proprio tutti.Questo è un momento stupito. Un pas-saggio irripetibile. In cui la mia vita siperde in quella di un altro essereumano, in cui io mi confondo nella suapiccola bocca vorace, nelle sue manineche mi stringono. Non sempre mi riconosco e non cono-sco ancora bene questo piccolo esseri-no pelato che amo inconsciamente esenza riserve. Chissà che tipo sarà. E’ così difficile cre-scere. Frase vomitosamente fatta, lo so.Ma estremamente reale. Lo guardomentre lui mi guarda, gli dovrò inse-gnare tante cose. Il rispetto per gli altrie soprattutto per sè stesso. Gli voglioinsegnare la tolleranza e la bontà.Penso in quante reti e in quanti tranellipotrà cadere. Me lo vedo diciottennebrufoloso in crisi adolescenziale acuta.Un brivido mi corre per la schiena. Ilmotorino, le ragazzine, la macchina, ledroghe, le notti ad aspettarlo sveglia.Ricomincio a rivalutare i rigurgiti e ipannolini da cambiare.Un surplus di amore gli insegnerà adamare.E quelli che mi sembrano sacrifici oggiavranno un senso domani. Avrò contri-buito a crescere una persona per bene.Anzi tre. Anche se non è facile e sonopiena di dubbi. Anche se anch’io mi sento una ragazzi-na da proteggere.Faccio una pila di tutti i miei libri edesco con i miei tre bambini.La grande spinge la carrozzina, quellodi mezzo mi stringe la mano e il picco-lo dorme.Entriamo nel parco, li porto in un bar afare la merenda, cioccolata con pannaper tutti.Mi raccontano della loro giornata ascuola, mi bombardano di domande emi riempiono di tenerezza.Non deve essere facile nemmeno perloro capire che con un po’ di fatica sipuò imparare a moltiplicare il bene enon a dividerlo.Ridono allegri, fa freddo. Non c’è nes-suno al parco alle cinque e mezza di ungelido pomeriggio di inverno milanese.Noi e un ubriaco che si scola una birragigante e ci guarda.Sorride vago, forse recupera ricordilontani. Sembra solo, molto solo. Anche lui avrà provato l’ amore.Mi sorride ed esce dal bar, stringendo-si la giacca. Guardo i bambini e forsenon mi serve altro. Respiro e non parlo.Forse sono felice.

***Una mamma efficiente inuna grande città comeMilano ha tutto sempreperfettamente sotto con-trollo e soprattutto ne sa

una più del diavolo***

Solitude 3 Alessandro Belgiojoso

***Sono stanca. Ho sonno.

Un sonno cosmico. Sogno un letto.

O di trasformarmi in unapelle d’orso

***

Max

Ern

st

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.11Un Racconto inedito

Nella grande sala bar dell’albergo le lucibasse soffocavano la giornata in un’at-mosfera di interminabile attesa. Sguardispenti, respiri affannosi, rigurgiti acidi,prurito e sudorazione biliosa. Alle tredel pomeriggio sembrava che non cifosse più nessuna speranza per i presti-giosi ospiti dell’undicesimo “Festival delCinemaletteratura Noir”. Costretti loromalgrado a digerire il copioso pranzo,schiantati come balenotteri sulle ampiepoltrone distribuite a raggio di fronte albancone. La temperatura della stanzastazionava costante sui trenta gradi, colrisultato di rendere ancora più difficilel’assorbimento del cibo trangugiato,prospettando ai molti dei meno giovanila possibilità neanche troppo remota diun attacco cardiaco. Mentre un came-riere dal passo maldestro, ed evidente-mente in là con gli anni, raccoglieva gliultimi bicchieri di spumante sfoderandouno sguardo da animale morente, unpovero uomo sconosciuto e mal vestito,e forse nemmeno retribuito, canticchia-va un motivetto melanconico accompa-gnandosi al piano: sembrava il pateticoaffresco di una provincia qualsiasi, qual-che decennio fa, in attesa che il pro-gresso portasse finalmente in dote deipassatempi più moderni a una genera-zione di inesausti vitelloni. Il cartelloposto all’inizio della hall illustrava conprecisa modestia il programma dellagiornata, con tanto di incontri dibattiti eproiezioni di film. Fuori nevicava.In fondo alla sala, quasi nascosti nell’o-paco brusio, poltrivano tre uomini anco-ra giovani sebbene in uno stato di formafisica desolante, sintomo di una vitasedentaria, di una dieta ipercalorica e diuna smodata predilezione per le bevan-de alcoliche. Bevande certo predilettedal noto scrittore Vittorio Baratti ilquale, evidentemente sudato, armeggia-va con il cellulare cercando di fare ilnuovo record allo Space Invaders, gio-chino molto in voga negli anni Ottanta eda poco ritornato, come le malattie epi-demiche, a nuova gloria nostalgica.Stravaccato nella poltrona di fronte,Alessio Slaviero, implacabile critico diun noto quotidiano nazionale, lamentavatra il divertito e l’indignato, la scarsaqualità del servizio ristorante rispettoall’anno precedente, intuendo in questainsinuante decadenza un probabileesaurimento dei fondi pubblici stanziatialla manifestazione. Dall’altra parte deltavolino sonnecchiava Nicola Santi,agente di Baratti e uomo dalle impreve-dibili risorse.

“Senti un po’ Vittorio, lascia stare quelcellulare e ascoltami un secondo.” Disse Slaviero interrompendo la pen-nichella collettiva. Baratti lo guardòsconcertato.“Te ci sei poi andato al dibattito questamattina?”Lo scrittore, scocciato per avere dovutointerrompere la partita, fece una smor-fia di disgusto.“Per forza, ero fra quelli invitati aintervenire.”“Caro il mio giovanotto… alle dieci delmattino sarai stato in forma splendida.Con tutto quello che hai bevuto ierinotte…”“Non proprio ubriaco fradicio ma sicu-ramente di cattivo umore, certo avreipreferito dormire fino a mezzogiorno,facendoti compagnia… del resto.”“Vittorio, tu non dovresti dare troppaconfidenza a quello, che poi scrive tuttosul suo giornale.” Disse come svegliandosi dal coma ilSanti, che talvolta doveva fare finta difare il suo mestiere.“Capirai che scoop.”“Be… Com’è andata allora?”“Come al solito, eravamo di più noi die-tro al tavolo di relatori che la gente insala. E che pubblico poi: a parte le duevecchie in prima fila venute a ripararsidal mal tempo, c’erano quattro o cinquesfigati ragazzotti fin troppo motivati che

ci hanno riempito di domande quando ilcalvario sembrava già bello che finito.Tutte le solite menate sul noir che saraccontare il sociale e la letteratura altache non lo fa più, la tiritera sui generiletterari e quanto siamo bravi noi equanto sono incapaci quegli altri… Erogià con l’occhio a mezz’asta quando unodei fans, uno così alto e magro che gliavrei offerto un panino tanto mi facevatenerezza, mi ha chiesto se ero d’accor-do con il titolo del dibattito: Il noir alpotere.“Che cosa gli hai detto..”“Gli ho detto che non doveva prende-re alla lettera i temi proposti dagliorganizzatori.”“Certo che potevi sforzarti di più.”“Guardate Rinaldi, com’è su di giri…”Disse Santi a bassa voce, indicando conlo sguardo il bancone.“Probabilmente sta cercando di convin-cere l’editor della Mondani di non esse-re finito come scrittore.”“Poraccio, ma non l’ho visto a pranzo….” “Deve essere andato con il suo amichet-to a mangiare con quelli dell’organizza-zione: ristoranti più selezionati, serviziodi prima, assessori a profusione.”“Taci Alessio e lustrati gli occhi con l’en-trata di Beltramelli.” “Sembra in forma il nostro granderomanziere metropolitano.”“Per essere in forma è in forma, daquando si è sposato la milionaria si èdimenticato dei problemi materiali.”“Beato lui. Sai che il suo ultimo roman-zo non ha venduto neanche tremilacopie.”“Certo che lo so. Da almeno cinque anniva avanti ‘sta decadenza.”“Tremila copie sono tutto grasso checola.” Sentenziò Santi che era un uomocoi piedi per terra.“Ieri sera ho tentato in tutti i modi di

portarmi in camera quella dell’ufficiostampa della Mondani ma non c’è statoniente da fare. Ride, scherza, finge com-plicità e poi ti saluta, lasciandoti lì esau-sto dall’alcol e dalle stupidaggini che haidovuto sentire.“Fece Slaviero con tono affranto.

“Cosa vuoi che ti dica…Ci provi tutti glianni, e non concludi mai niente. Mi faitenerezza. E lo sai perché? Perché nonsei ancora una firma. Quando farai car-riera ti si apriranno anche le porte del-l’amore.” Lo scherzò Baratti.“E avrò sessant’anni. Dove mangiamoquesta sera?”“E che ne so, per chi mi hai preso peruna specie di indovino?”“Tu dovresti saperlo, sei un famososcrittore, non possono mica tenerti all’o-scuro come fanno con me. A propositoper quanti giorni hai i buoni pasto per ilristorante?”“Tutto il festival mio caro.”“Devo fare una protesta, è un vergo-gna… a me ne hanno dati solo per tregiorni…”“Protesta. Protesta pure, che stannotutti in pensiero. Non hai ancora capitoche in questo caravanserraglio di scio-perati, i buoni pasto sono l’unica cosarimasta che delimiti un minimo i ranghisociali. Più ne hai più sei uno che conta.Primordiale, non lo nego, ma certomolto efficace. Infatti tu nei hai tre e non

ne meriti certo di più.”“Pensa quello che vuoi, comunque io...io questa sera mi rifiuto di mangiare lapolenta.”“Conversazione brillante mio caro.”Senza che nessuno avesse nulla da ecce-pire, Santi si era alzato per andare a par-lottare con il capo dell’organizzazione:una signora sui quarantacinque annidalle forme un tempo sinuose ma dallosguardo troppo impegnato per essereanche seducente.“Vittorio, ma quello sta lavorando pervenderti all’estero o sta sempre a fare iweekend con la sua segretaria?” DisseSlaviero, provocando l’amico.“E che ne so, qua io non ho ancora vistoun contratto e lui non c’è mai. In fin deiconti sono il suo autore di punta,dovrebbe dedicarmi più tempo.Cristo… non ho voglia di parlarne… vaial cinema oggi pomeriggio?”“Non lo so, cosa danno?”“Due film italiani tratti da dei romanzigialli, quelli di coso… come si chiama...e di quell’altro…”“Cos’è? Una specie di penitenza?”“Ne ha tutta l’aria. Ma guarda alle tuespalle per cortesia.”Slaviero si girò e si trovò di fronte la bel-lissima immagine di quattro testoni baf-futi che emergevano dalle acque dellapiscina riscaldata, posta per metà nelgiardino e per metà al coperto. I fiocchidi neve coprivano i capelli degli omoniche, nuotando a rana, sorridevano beatinella direzione del bar.”“Ma che diamine… sembra un film. Chisono quelli?”“Russi credo, ho visto le scritte sullevaligie, poi magari sono di Gorgonzola.”“Pazzesco. Ma che fanno qua?”“Mica sono del festival quei bei signori-ni. Sono russi ti dico, gente che viene acomprare l’Italia e che casualmente

dorme nel nostro stesso albergo.”“Che è abbastanza lussuoso per ospita-re frotte di milionari russi. E questo mifa pensare… qui al festival fra scrittori,giornalisti, addetti ai lavori e imbucativari saremo almeno un ottantina. Haimai provato a quantificare quanto spen-dono per darci da mangiare, da dormiree soprattutto da bere senza che nessunoconcluda niente e nemmeno finga difarlo?” “Alcune centinaia di migliaia di eurotemo.”“E sai caro il mio cinico scrittore quan-to guadagna una redattrice di una casaeditrice, ovvero quelle disgraziate checorreggono i tuoi maldestri errori diortografia?”“Sui mille euro… anche meno talvolta…”“Appunto mille euro! Che bel mondo eche bella gioventù.”“Non fare il sovversivo Alessio che mivacillano tutte le certezze…”Intanto una pattuglia di cameriericominciava distribuire ai tavoli dellecaraffe fumanti.“E questi adesso che fanno?”“Penso servano il tè. Dov’è finito il mioprezioso agente?”“E che ne so, sarà al bar.”I due amici smisero improvvisamente diparlare. Sembravano esausti. “Non mi sono mai annoiato così in vitamia. Mai ti dico, neanche a scuola da pic-colo quando aspettavi che passassero iminuti per l’intervallo. Alessio sono duegiorni che andiamo avanti in questomodo a stare stravaccati sul divano a con-sumarci dal caldo mentre fuori nevica.Sono due giorni che ascolto presuntiscrittori, sedicenti critici, editor senzaedizioni, belle donne in cerca di brividiche non troveranno, uomini brutti incerca di nulla, addette stampa sull’orlo diun esaurimento nervoso e prosaici mila-nesi in villeggiatura capitati per casonella serra riscaldata del giallo noir. Sonodue giorni e mi sembra di stare qui dadieci anni. E tu domani te ne vai. Torninella metropoli a lavorare. Beato te.”“Mica sei obbligato a rimanere.”Vittorio non rispose. Il cameriere anzia-no era già giunto al tavolo e con le manitremolanti tentava di servire il tè.Slaviero lo guardò perplesso.“Senta mi scusi, non potrei avere unbianco?”Il cameriere rimase inebetito dallarichiesta.Ci pensò Baratti.“Caro Alessio a quest’ora servono il tècoi biscotti, quasi obbligatorio nonchégentilmente offerto dall’organizzazio-ne.. Se vuoi alcolici devi andare al ban-cone e li devi pagare”. “Cristo! Il tè coi biscotti, mi sembra diimpazzire.”“Non fare il tragico! Sopravvivremoanche a questo. Tanto più che mi sem-bra immorale spendere denaro in que-sto posto. Vada per il tè… faremomerenda.”“Due uomini fatti e finiti che in un gior-no lavorativo fanno merenda alle quat-tro del pomeriggio con il tè e i biscotti.Cosa devo pensare di noi?”Mentre i due amici riflettevano sul lorodestino, il più grosso dei russi si levòdall’acqua e si avvicinò alla finestra.Quindi si tolse le mutande e, piroettan-do con una inaspettata eleganza, mostròil culo agli avventori, schiacciandolosulla vetrata e ondulandolo con movi-mento rotatorio.Un bel culone rosa.Baratti deglutì. Slaviero sorrise. Nella stanza la luce si fece ancora piùopaca.Il cameriere versò il tè nelle tazze.

Alessandro Bertante, critico letterario e scrittore, ha pubblicato il romanzo “Malavida”,Leoncavallo Libri 2000; ha curato l’antologia “Dieci Storie per la Pace”,Piemme Edizioni 2003. Nel 2005 ha realizzato per le Edizioni NDAPress il saggio “Re Nudo”.

Compagni di merendeAlessandro Bertante

***Le solite menate sul noir

che sa raccontare il socialee la letteratura alta che

non lo fa più***

A MilanoRoberta Castoldi

Guardo i piccioni affollare i monumenti, i binari, le nicchie nei muri: molti hanno zampe deformate, piumesporche e sgualcite, altri hanno la testa lucente, corteggiano in parecchi la stessa femmina. Molti litiga-no, altri non fanno proprio nulla, posano per le foto dei turisti attirati da riso o chicchi di mais; hanno uncanto poco melodioso ma non certo volgare come alcune cornacchie; di giorno sono nel traffico cometutti; dormono di notte e paiono gonfiati nelle piume, come se il sonno conferisse loro maggior volume;trovano tutti posto da qualche parte, sotto le grondaie, i pinnacoli e i mostri gotici del Duomo, nei pochidavanzali dove non vengono scoraggiati dal posarsi con punte metalliche. Mi chiedo cosa li guidi nellascelta dei luoghi. Forse amano le costruzioni religiose e le enormi piazze. Comunque sia, fanno una cosa luminosa, anzi abbagliante: si involano contemporaneamente, in un batti-to. La repentinità che sento nelle decisioni di cuore. Mi fanno pensare ai brividi e alle domande improvvi-se, come quando ci si vuole pensare il volto.

Vernissage Amalia Violi

Max

Ern

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.12 Un Racconto inedito

Antipasto

Mila arriva a casa dalla palestra col fiatocorto, entra in camera e appoggia lasacca sul letto. “Guarda che casino halasciato quello!” sbotta pensando a suomarito Vincenzo, che è andato fuoriMilano a pescare col Nando. Controllal’ora: presto, l’una e mezza. Tanto lo sache non si ripresenterà prima delleundici di sera, ormai così è l’andazzo. Ogni martedì, giorno di chiusura dellatrattoria, quei due se ne vanno a pesca-re al mare. Sul Ticino non sarebbe più comodo?Macché, saranno sei mesi, ormai, che sisono fissati. Cosa gli ha preso aVincenzo poi, non l’ha mai avuta la pas-sione per la pesca e tutto a un tratto si èfatto imbesuire da quello scimunito delsuo amico Nando. E adesso gira percasa con lenze e mulinelli mentre sullascrivania del tinello stazionano libri tipoEtica della nassa, Tecniche della pastu-razione, Autunno, tempo di saraghi eL’agonismo da riva. A dirla tutta, per lei quella giornata direlax senza il marito è una boccata d’ariafresca, visto che lavorano insieme tuttala settimana al Rustin Negaa, trattoriameneghina storica, nel cuore di Milano.Suo padre l’aveva lasciata in eredità aMila senza dimenticarsi di insegnarletutti i trucchi non scritti della cucinamilanese. “Il segreto”, le ripeteva sem-pre lui quando ancora affettava il lardo esminuzzava le carote giù al RustinNegaa, “sta in come tagli gli ingredienti,che siano carni o verdure: perché è cosìche prendono sapore, è così che perfinoun ingrediente mediocre può trasfor-marsi in qualcosa di eccezionale.” E adesso che il padre non c’è più, Milapassa i giorni in trattoria a reinventarespezzatini, trippe, risotti, mentre suomarito vizia i clienti con belle parole epelle abbronzata u.v.a. doc, garantita tre-centosessantacinque giorni l’anno.“Però in casa è un disastro vero, ilVincenzo, ha quarantacinque anni esembra un tredicenne! Guarda checaos, calzini dappertutto e poi cribbio,se si piegasse i pantaloni, una buonavolta, invece di lasciarli appallottolati sulservo muto! Eh certo, tanto c’è la schia-va che mette a posto, vero?” dice ad altavoce Mila come se qualcuno potesserisponderle. Ma non è arrabbiata sulserio, gli vuole bene a Vincenzo e non èvero che è così disordinato, è lei che èfissata con l’ordine. E poi è tanto attac-cato a Mila, al proprio lavoro, ci sa farecon i clienti. Certo, se almeno un mar-tedì ogni tanto arrivasse per cena,potrebbero mangiare insieme, stare unpo’ soli. “Eh sì, lo sa bene lui che con unbacio dei suoi mi mette a tacere!” conti-nua a borbottare, e intanto sbuffa, lemaniche della maglia rimboccate finsopra il gomito mentre raccoglie la robadel marito sparsa ai piedi del letto.“E questo computer?”, monologa adalta voce entrando in tinello, “Pazzesco,guarda la polvere sul monitor, non sipuò vedere!” Prende uno straccio dalmobiletto sotto la scrivania e si mette apulire lo schermo piatto. “E sì che lousa quasi sempre lui il computer,dovrebbe preoccuparsene, guarda chesegni, ci sono incrostazioni preistori-che.” Mentre spolvera i tasti alla basedel monitor, ne schiaccia uno senzaaccorgersene. Il monitor si accende. La videata diuna mail. Mila la guarda. “Quello c’hal’esca al posto del cervello ormai. Si èpersino dimenticato di uscire da inter-net e scollegare il computer, ha spen-to solo il monitor, lui!” Ride e scuote latesta. Ma torna a fissare il video quasisubito perché c’è qualcosa, lì sopra,che non quadra. Un momento. Questa non è la lorocasella Fastweb. Questa mail è diversa,non è la solita che usano per scambiarsi

le foto delle vacanze con Luca eFrancesca, per ordinare i sette chili diborlotti che Mila fa arrivare daVigevano o le casse di Barbacarlo che sifa spedire dall’Oltrepò. Stringe gli occhia fessura: davanti a lei, la posta ricevutadi quella casella mai vista. Un lungoelenco di mail spedite da un solo indiriz-zo: [email protected] .Mai sentita. E chi è? Apre l’ultima mail,la data è di ieri:

Da: [email protected]: [email protected]: programma per domani

Ciao pesciolino mio, nonvedo l’ora di vederti. Però,considerato che pur di starecon te mi sorbisco i tuoimartedì di pesca ormai dasei mesi, domani sera ilristorante lo scelgo io:basta con le trattorie fuoriporta, si va al Ko Tao, unposto fighissimo per l’happyhour che hanno appena aper-to dietro alle Colonne diSan Lorenzo e che fa anchecucina fusion. Eddai, nonfare il vecchio, ti vedosai! Domani voglio mangiaregiappo e bere una tisanarilassante (il vino ingras-sa, panzone! ;_)) anche laMichi è d’accordo, dillopure a quello stordito delNando. Ti bacio dappertutto.Ameliaps. Ti metti la camicia violache ti ho regalato io?

Mila appoggia la schiena alla spallieradella sedia, le mani molli in grembo.Pesca altre mail a caso in quel lungoelenco di Amelie soffermandosi solosulla sfilza di epiteti ittici che variano divolta in volta e che le danno sui nervi:pesciolino mio, bel pescatorino, lenzinoadorato. “No, non può essere. Questa non è lamail di mio marito. Di qualcun altro, unamico del Nando che oggi è andato apescare con loro forse, che è passato quicon Vincenzo mentre ero in palestra eha chiesto se poteva usare il pc. Dopotutto io sono uscita prima di lui, stamat-tina.” E d’istinto clicca sulla cartelladelle mail inviate.

Da: [email protected]: [email protected] Re: programma perdomani

Cotolettina mia, lo sai cheil pesce crudo mi fa schifoma va bene, touchè, domanisera sushi, come vuoi tu.Però, scusa, proprio qui aMilano dobbiamo stare? Lo saiche sono più tranquillo se siva fuori città, almeno nonrischio di incontrare genteche conosco. Sì, lo so che dinoi due dovrò parlare a miamoglie prima o poi, ma ti hodetto quanto è difficilecomunicare con lei di questitempi, bisogna trovare ilmomento giusto, le paroleadatte. E sai anche che allafine faccio sempre come vuoitu. Vada per il sushi aMilano. Stanotte ti sognerò.Baci*.Vincenzo*dappertutto, anch’io!

Piatto forte

Mila è immobile, lo sguardo fisso sulmonitor. Un senso di soffocamento leprende lo stomaco. Come se una mano ci

rovistasse dentro. E stringesse a pugno.Il cuore picchia. Così forte che sente ilbattito rimbombare nel timpano. La pellein faccia è talmente calda che le sembradi avere trentanove di febbre. Poi cacciaun urlo. Un urlo acuto e terrificato. Unsuono animale che le esce dalla bocca, ilgrido di una scimmia ferita.Corre in camera, si tuffa sul letto e iniziaa piangere, prima forte, tirando i pugni apioggia sul cuscino e sbattendo i piedisul materasso, poi più piano, fino a tra-sformare il lamento in una nenia, untentativo di cullarsi tra i singulti, per ore.“Come? Come hai potuto? Io che ti hodato tutto, la mia vita, il mio cuore,senza chiedere in cambio nulla, nulla.Perché?” gli domanda, come seVincenzo fosse lì e potesse darle unarisposta adesso, subito. “E quel nullafa-cente del Nando, falso di un falso! Apranzo qui tutti i giorni a sbafo, a farel’amicone, vero? Bravo Nando! E io?Che faccio io, ora?” dice tra le lacrimetirando su col naso “Cosa faccio men-tre il vitellone bastardo è a pescare lavaccasettantatrè?” grida, la mano apugno in caduta libera sul cuscino. Ma c’è qualcos’altro che stona in questastoria e che le ricorda la sensazione diquando a volte, da ragazzina, sentiva iquarantacinque giri in vinile suonaredistorti, come se girassero a trentatrè.Un altro tradimento che ancora lesfugge. Si alza. Va in bagno, si spoglia e si buttasotto la doccia. L’aveva già fatta in pale-stra la doccia, ma chissenefotte, ne fadue, va bene? Anche tre, se servissero!“Vitellone. Te lo sei scelto proprio beneil nome della mail!” Strofina la pelle delcollo fino a farla diventare rossa e sipassa il sapone dappertutto, sfregandoforte sul seno, quel seno che piace tantoa Vincenzo e che lo fa impazzire, dicevalui. “Tu! Sei tu che mi farai impazzire,maledetto!”, grida Mila, mentre l’acquascende fitta sul corpo e si confonde colsuo pianto, calda come le lacrime mainnocua, senza sale. Chiude il rubinetto,esce dal box e si asciuga rapida con l’ac-cappatoio. Poi, nuda, va in cucina eprende il coltello grande che usa pertagliare la carne. Apre il frigo e afferrala prima cosa che le capita sotto mano:un pomodoro rosso e maturo. “Va bene,benissimo”, sussurra poggiandolo sultagliere di legno. E lo fa a pezzi. Piccoli,minuscoli, fino a ridurlo in poltiglia.Lancia un occhiata al pavimento dimarmo e vede un’impronta in controlu-ce. Che schifo, è di Vincenzo, riconoscela suola a carroarmato. Molla il coltellosul tagliere e corre verso il ripostiglio,accende l’aspirapolvere e inizia a pas-sarlo prima in cucina, poi per tutta lacasa. Quella casa è sporca, ormai, e vapulita. “Via le sue impronte dai pavi-menti via, via!” grida Mila spingendol’arnese avanti e indietro con il bracciomentre i seni liberi oscillano per lo sfor-zo. Cucina, tinello, salotto, bagnetto diservizio, camera da letto e bagno gran-de. Lo specchio. Nel bagno grande c’è lospecchio. “Pieno di ditate, sicuramentedi quel porco di Vitellone!” sbraita Milamentre sfrega col vetril. “Ecco, adesso èpulito”, comunica poco dopo ad altavoce e ci si mette di fronte: scruta lapelle chiara, le tette ancora piene, si girasu un fianco per studiarsi la curva delsedere. Si squadra dalla testa ai piedi: legambe sono dritte come fusi, regalodella nonna, grazie. Si fissa negli occhi:quegli occhi piccoli e scuri da lombarda,troppo ravvicinati, poco lungimiranti.Forse sono loro, così vicini, che lehanno impedito di vedere lontano.“Forse sì”, si dice convinta a voce altamentre torna in camera da letto. Apreun cassetto del guardaroba e prende uncompleto di pizzo rosa cipria che piacetanto a quel vitellone di Vincenzo. Se lomette e si specchia ancora: sta bene,proprio bene. Si infila un paio di calzevelate nere, il vestitino leggero a fioriblu e gialli che le ha regalato lui per il

compleanno e ritorna in bagno: fondo-tinta, fard per le guance, ombretto gri-gio e bianco che le allarga lo sguardo,un filo di rossetto color prugna, tanto leiha le labbra carnose e se lo può permet-tere. Cappotto di cachemire nero com-prato nella boutique di Corso Vercellil’anno scorso e scarpe di vernice. Siallaccia l’orologio al polso e dà unocchiata all’ora: “Bene, già le otto. Tuttialle Colonne, stasera si va al Ko Tao.”

Per Mila le Colonne di San Lorenzohanno un’aria di incanto, come se la filadi pietre romane e il tram che sferraglialì sotto, fossero una cosa sola sotto laluce gialla dei lampioni. Eppure questasera, nell’istante in cui passa sotto laPorta Ticinese, le sembra che leColonne, il tram, i lampioni, siano suoinemici perché sono con Vincenzo,Nando e Ameliasettantatrè, la stannotradendo, come loro. Cammina a piccoli passi, l’equilibrioinstabile, i tacchi non li mette spesso,figuriamoci sul pavé. Un paio di ragazzisi voltano a guardarle le gambe cheescono dal cappotto. “Scusate, sapetedov’è il Ko Tao?”, chiede lei. Uno deidue si ferma, la squadra e sorride: ha undente di squalo appeso al collo, comequello che il Nando aveva portato aVincenzo dalla Florida. Quel bastardosfruttatore del Nando, mangia-risotti aufo!“Il ristorante tailandese, intendi?” fa ilragazzo col dente di squalo e continua:“Ti romperai là, bella. Comunque staqui dietro,” le indica senza smettere diguardarla, “vai a sinistra, poi giri nelvicolo, a destra. Se cambi idea comun-que, noi siamo al Luca’s bar.”“Grazie”, dice Mila. Grazie, chiunque tusia. L’ingresso del Ko Tao quasi non si notama l’effetto minimal è di breve durata. Appena varcata la soglia, Mila si trovascaraventata in uno scenario da bordel-lo di lusso bangkokiano. Non che neabbia mai visto uno, però se lo immagi-na più o meno così. Specchi al soffitto ealle pareti, cupole puntute, letti tailande-si pro relax, cuscini di seta arancione eoro, tavolini bassi in stile e un lungobancone sulla destra con il buffet del-l’happy hour. “Bella ora felice, questa”dice guardandosi intorno. “Scusi, haprenotato?”, la blocca un cameriere conpareo albicocca materializzatosi dalnulla. Mila volta la testa di scatto versol’uomo e con un gesto nervoso si siste-ma una ciocca di capelli dietro l’orec-chio: “Sono in ritardo, degli amici mistanno aspettando. L’area ristorante?”gli chiede. “Laggiù, oltre quella porta”,dice lui indicando un arco poco tailan-dese e molto moresco. Mila sa che in quella sala c’è Vincenzo,lo sente. E appena si affaccia alla porta,li vede, seduti in fondo, nell’angolo piùremoto. Incredibile come i suoi piccoliocchi neri non abbiano avuto unmomento di esitazione nell’individuareil quartetto. Eccolo là, quel demente del Nando, checon i suoi denti gialli sorride alla donni-na di turno (come si chiamava, Michi?)e corruga la fronte alta un centimetro emezzo, prova inconfutabile che Darwinaveva ragione. Di fronte a lui, Vincenzo,da qui lo vede proprio bene. Eccolo ilvitellone, che mangia sushi e sfoggia lacamicia-viola-che-gli -ha-regalato-Ameliasettantatrè. Che beve tisana e

VitellonePepa Cerutti - Autrice Subway 2003

non un bel Sauvignon bianco, per farpiacere ad Ameliasettantatrè. Che se nefotte di profumi e sapori perché così siscopa Ameliasettantatrè. E allora capisce cos’era quello stridorepercepito a casa, buttata sul letto a pian-gere, la sensazione di quand’era ragaz-zina e sentiva la musica uscire dal gira-dischi troppo lenta e stonata sul quaran-tacinque in vinile. Eccolo il tradimentodoppio, Vincenzo maledetto, hai traditome e con me il Rustin Negaa, mio padre,il riso con la zucca, la busecca, gli sbro-fadej in brodo, la cassoeula, il foijoeu, lafrittura piccata, il manzo al grass de rost,gli ossibuchi, i mondeghili, il vitel ton-nee, gli ambrosiani mandorle e cannellae la rossumada. Hai mandato tutto a put-tane e mi hai spappolato il cuore. Dà un occhiata ad Ameliasettantatrè evede una dozzina d’anni in meno rispet-to ai suoi, occhialetti rettangolari e unarisma di collane colorate al collo. Laguarda stringere tra le bacchette unpezzo di sushi che riesce a morderesolo a metà, mentre il riso si sfalda ecade maldestro nel piatto. Scoppia aridere, Mila. Scoppia a ridere e volta lespalle al bel quartetto muovendo lunghefalcate verso l’uscita. Ride Mila, ridefuriosa, sente un odio espandersi dentroe imbrattarla come petrolio. Ladro.Ladro di vita, sei. Tutto, mi hai rubatotutto. Ma quando esce all’aperto e respira l’a-ria fredda di Milano capisce che questacittà è sua e lo sarà sempre, che leColonne, i tram, i palazzi grigi e le lucigialle che tremano nelle notti d’inverno,non glieli toglierà nessuno mai, nemme-no Vincenzo. Guarda in alto verso ilcampanile di San Lorenzo e si mette acantare una strofa di una vecchia canzo-ne fine anni settanta: “Vincenzo io tiprenderò, sei troppo stupido per vivere,Vincenzo io ti ammazzerò perché seitroppo ladro per amare.”Si leva le scarpe e si mette a correrementre la pioggia inizia a scendere sot-tile, corre e supera il Cap Saint Martin,prosegue dritto fino alla Conca delNaviglio, la percorre tutta, le scarpe divernice in mano, il cappotto di cachemi-re aperto, tanto il freddo chi cazzo losente più, corre, corre Mila fino a sbu-care in via Arena, fino a vedere laDarsena sul fondo. Poi si ferma, i piedizuppi, il respiro in gola. “Oddio, adessomuoio. Ti odio, Vincenzo. Ti odio.”

Specialità del giorno

L’una e tre quarti di mercoledì. Il RustinNegaa è al completo, stipato di genteche arriva dall’ufficio per la pausa pran-zo. Seduto al solito tavolo di fiancoall’entrata, Nando beve il suo caffè cor-retto con l’aria mansueta di uno yak alpascolo. Mila gli fa un cenno di saluto egli si avvicina. “Complimenti Mila, grande cuocacome sempre! Vincenzo non è venutooggi?”, le chiede lui con la tazzina inmano, il mignolo alzato come uno spa-dino ricurvo. Lei sorride e appoggia sulla tavola unpiatto di ambrosiani alle mandorle:“Era qui poco fa, non te ne sei accorto?Dimmi, piuttosto: tutto buono?” Nando alza la testa e le regala un sorri-so giallastro: "Squisito, soprattutto laSpecialità del giorno. Una delicatezzadi sapori, una morbidezza! A proposito,cos’era di preciso?”“Cuore di Vitellone trifolato”, rispon-de lei. E aggiunge: “Sai tenere unsegreto?”Nando fa di sì con la testa e Mila sipiega verso di lui, le labbra a sfiorarglil’orecchio: “Basta tagliare come sideve e anche un ingrediente medio-cre può trasformarsi in qualcosa dieccezionale.”

***Il segreto sta in come litagli gli ingredienti, per-

ché è così che perfino uningrediente mediocre puòtrasformarsi in qualcosa di

eccezionale ***

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.13Un Racconto inedito

Por la blanda arena que lame el mar…

Via Torino morbida di neve cedeva alpasso fragile e zoppicante della piccoladonna. “Marìa Constelaciòn eres dema-siado pequena hija.” “Troppo piccola peruno sforzo da donna”. Così diceva sua nonna, un’india tozzadiscendente diretta degli incas coltivato-ri di cuori e di vendetta, trapiantata peruno scherzo del destino dal duro altipia-no ecuadoriano sulla costa morbida etanto odiata di Bahia de Caraquez. Tramontubios cotti di sole che si arrampica-vano sul caimito con la pancia pienad’acquavite, le dita ghiotte della polpadel succoso frutto come della verginitàdelle più addormentate. Baciata da uno squarcio di cielo e dallamadonnina d’oro lassù, in cima allaguglia, Marìa seguiva l’avanzare cautodelle ruote sulla strada …biancovelluto… e il riflesso del via vai dellagente infagottata fino alla sommità delleorecchie che scompariva appannandosinelle vetrine dei bar. Era tardi e la sera calava in silenziosi fio-chi, muta e insistente, la sera. Non hol’ombrello, pensò in italiano. Non aveval’ombrello ma il permesso di soggiornosì. Sorrise.

Su pequena huella no vuelve màsUn sendero solo de pena y silencio llegòHasta el agua profunda Un sendero solo de penas mudas llegòHasta la espuma.

“Donna di cosa ti preoccupi? L’italiano esigualito, igualito allo spagnolo. Miafiglia che è maestra di scuola, partitatempo fa, mi ha scritto che basta stareun poco attenti e parlare piano piano;vedrai che ti capiscono.” E piano aveva parlato MarìaConstelaciòn quando Don Francescoaveva smesso di raccontarle della suafamiglia che non c’era, dei figli che simangiavano i suoi risparmi, della guer-ra, le due guerre che lui aveva vissuto,da bambino prima e da uomo dopo,tanto tempo dopo.“Non conoscono la fame -diceva grattan-dosi le brutte macchie sulle mani- perquesto non apprezzano niente” conclu-deva smarrito. Constelaciòn aveva parlato all’anzianotrovato per terra, piano piano. Dopo tre anni si era addormentato tragli scaffali carichi di barattoli di borotal-co e flaconi vuoti, di garze e medicinaliscaduti, di confezioni intatte contenentitutto ciò che si poteva racimolare nel-l’immensa casa rigonfia di umidità ebuio.“Per risparmiare” diceva. Ma lui non era più in grado di capire.Lui non capiva più.

“Constelaciòn, che cosa pensi di fare?”-chiese la ragazza mentre buttava inacqua le mezzepenne, nel bilocale luci-dato a specchio, giù, in fondo a viaPadova. Nell’altra stanza -sul letto acastello dove dormiva da sei mesi condonne di servizio ad ore e levigatrici dipavimenti- “le altre” avevano appoggia-to una piccola televisione, che trasmet-teva un programma a quiz che guarda-vano cercando di indovinare la rispostagiusta. “Non so. Potrei iscrivermi ad un corsoper diventare assistente sociale, all’ASL,come hai fatto te”. Al tocco dell’acqua bollente il fondo dellavandino si piegò schioccando. Unadensa nuvola di vapore appannò gliocchiali della maestra che imprecò con-tro l’Ikea senza però smettere di versareil contenuto della pentola. Poi, pensiero-sa, aggiunse: “Mi sa che non basta.”“Possiamo aggiungerne un altro po’”disse Constelaciòn.“Marìa, Rodrigo ha perso il lavoro.Dobbiamo ancora pagare il mutuo. Nonposso più ospitarti.”“E dove vado?”

“Perché non torni in Ecuador. Nonavevi una lavanderia tutta tua là? Nonavevi una pensioncina che stava andan-do bene? Tu vuoi morire schiava india,tu vuoi morire come sei nata.”“Io non sono nata schiava.”“Bè, allora continua a pulire case e a per-dere lavori, continua a coltivare questicapelli alla tua età… -Alessia prese unadelle ciocche d’argento e gliela agitòmostrandogliela- Andando avanti così,voglio vedere come porterai qui tuofiglio.”“Lascia in pace Luca, lui deve finire lascuola, verrà quando sarà grande. Peraiutarmi.” “Ah Constelaciòn… Ti aiuterà come tiha aiutato suo padre. A proposito, c’èuna slava che sta cercando una sostitutaper la famiglia dove ora si trova.” “Come mai? Che le è successo?”“Non si sa. Dice che vuole uscire. Che èstanca di cambiare casa. Che in questopaese i vecchi non ce la fanno, che sispengono come cerini. Avrà trovato

qualche scemo.”“Povero Don Francesco!” “No Constelaciòn, non hai capito, pove-ri noi!… Comunque è tutto ciò cheposso fare. Tutto ciò.”

Sabe Dios que angustia te acompanòQue dolores viejos callò tu vozPara arrecostarte arrullada en el canto de lasCaracolas marinas.

Mentre superava faticosamente il tra-monto che trapelava tra le arborescenzecristallizzate del Duomo -eterne nellapiazza ora addobbata a festa- si vedevagià in via Mengoni, pochi metri più

avanti, sulle grate tremanti che soffiava-no un vento caldo che riscaldava i piedie le guance.

La canciòn que canta en el fondo oscurodel mar,La caracola…

Il Caffè Suisse era pieno e la doppia filadi tassì con gli uomini dentro ormai s’al-lungava, uomini salvi e asciutti. Magri,con la sigaretta in mano a contemplarela neve cadere…

“Te quiero.Te quiero.” Che dolci parole!Quanto le avevano tramato in testa que-ste parole. Le parole di Jacinto. Stupida! Era bello però, nella sua uniforme can-dida. Arrivò con la marea alta e unpugno di parole, due soltanto. Le formicolavano ancora sul collo. Unaformica e un silenzio di schiuma.

“Tu non puoi Marìa Constelaciòn, le tueossa non sopporteranno il peso -dicevala nonna intrecciando con le mani brunee rinsecchite le ciocche di luna- Non seifatta per essere madre, piccola mia, que-sti sono sforzi da donna.” Non aveva voluto sentire ragioni Marìae, mentre si sentiva crescere il ventredalle carni in movimento, euforica comeuna lupa, si accorgeva di quanto laschiena tirasse e si piegasse. La pancia le cresceva tra le lenzuola e letende lavate a mano e …odoravano dicampo e ondeggiavano… la schiena letirava e cedeva lentamente. La gente arrivava dormiva e se ne anda-va; arrivava dormiva e non tornava più e

lei tirava e si piegava come un arco, tira-va e si curvava fino al limite, fino a che,un giorno non si spezzò.

“Che cos’è? Cos’è successo?” “Non so”“Qualcosa è andato storto”“Stai zitta” “Oh povera Constelaciòn” “Buone, buone zitte” “Cos’è successo?” “Non so” “Povera Constelaciòn” “Che disgrazia!” “State zitte” “E’ vero?” “Sì” “Oh povera stella…”

Intimidita dall’enorme passo che avevaosato fare, la gamba le si accorciò. Così.Dopo il parto. Sprofondata nel letto materno, fissavadalla finestra il ramoscello scarno oscil-lare e affaticarsi di foglia contro il cielo

stellato e salmastro …Si no soy mujer,saré cometa… Si disse con un groppo ingola. Se non sono donna, volerò.

Te vas Alfonsina con tu soledadQue poemas nuevos fuìste a buscarUna voz Antigua de viento y de salTe requiebra el alma y la està llevando…Y te vas, hacia allà como en sueñoDormida Alfonsina, vestida de mar.

Cinco sirenitas te llevarànPor caminos de algas y de coral Y fosforescentes caballos marinos haràn Una ronda a tu lado Y los habitantes del agua van a jugar Pronto a tu lado.

Cinque sirenette ti porteranPer cammini di alghe e di coralloE fosforescenti cavalli marini faranUn girotondo al tuo fiancoE gli abitanti dell’acqua verranno a giocarePresto al tuo fianco.

Si fermò. La voce cavernosa e trascinatadell’indio arrivava, da là, dietro al monu-mento. Lamento d’altipiano. Un re mon-tava un cavallo bloccato su un esercitopronto a combattere, tra una marea diteste. Il pirla a cavallo, il pirla a cavallo!Esultò dentro. Così l’aveva chiamatoMarco, uno dei figli di Don Francesco. L’iscrizione diceva che erano tutti lì daicinquant’anni della Battaglia di SanMartino. “Sono in centro dal Novecento, Marìa”le aveva risposto Marco ridendo. Sarà,ma adesso erano coperti di neve e pic-cioni striminziti dal freddo, pensò. Il canto inondava la piazza, trasfigu-randola di lontananza. Gli altoparlantiavevano zampe sottili ma ben piantatenel fondale ghiacciato. Constelaciònimprovvisamente la riconobbe. La melodia si arrampicava sulle alghedi luci appese a fili invisibili tra lecostruzioni. Fluttuavano insieme amiliardi di minuscole madrepore chescendevano dal cielo per riposarsi sullabarriera di guglie e roccia che s’innal-zava in alto. Talmente in alto che non sivedevano più. Talmente in alto che sfio-ravano Dio.

“Ha già chiesto di te, due volte!”“Dov’è?”“E’ là fuori, ma è venuto con la moglie” “Con la moglie?…E che cosa vuole?” “Dice che vuole sapere se suo figlio èzoppo come te” “Ah, per questo… Dì a Jacinto di nonpreoccuparsi, che il figlio è mio e sol-tanto mio” “Lei insiste, vuole sapere se avrai maibisogno” “Che non si preoccupi, ho detto” “Lui dice che torna” “E perché mai” “Tornerà” “Se torna tu gli dirai che me ne sonoandata. Se torna, dì que me he ido”

…Y si llama él no le digas que estoy dileque,Alfonsina no vuelveY si llama èl no le digas nunca que estoy,Dì que me he ido.

Era ormai buio. Constelaciòn stette adascoltare la vecchia canzone, come sefosse stata nuova, fino a che un doloreacuto non le attraversò l’anca. Le mone-te le tintinnarono nella mano, prima cheil feltro attutisse il loro bronzo. Con unsegno della testa l’indio ringraziò.Facendo attenzione a non scivolare,arrivò a prendere il tram. Seduta sullegno della vettura tolse col dorso dellamanica la polvere bagnata che era sulvetro. Ora poteva fissare il cielo e lamadre santa e d’oro lassù, luminosa trale facciate. Sarò zoppa ma mio figlioavrà un destino diverso, pensò in italia-no, sorridendo. Il cielo ora era cobaltoe traboccante di stelle. Così dolci e belleche, nervose, le dita si levarono al cielosforbiciando.

Alfonsina y El MarSusanna Wong - Autrice Subway 2002

Questo racconto è ispirato alla canzone sudame-ricana “Alfonsina y El Mar” scritta da F. Luna emusicata da A. Ramirez. Il testo dedicato adAlfonsina Storni (Svizzera 1892 - Buenos Aires1938), fu realizzato dopo l’insensata morte dellapoetessa argentina che, afflitta da depressione emalata di cancro, decise il suicidio buttandosi dauna scogliera. Il mio testo è un intreccio tra lacanzone, la sua opera, la sua vita e la vita deisudamericani che vivono in Europa.

Susanna Wong

A mia madre

Museo di Storia Naturale Edoardo F. Tavola

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.14 Un Racconto inedito

I lupidi Raul MontanariSEGUE DALLA PRIMA

Ma la maschera resisteva. Francescotirò più forte, stringendo fra le dita lepieghe molli della pelle coperta di pelilunghi e neri, e alla fine capì che non erauna maschera ma il vero volto di suopadre. Tolse le mani come se si fosse scottato efece qualche passo indietro, urtandouna sedia. Suo padre si alzò e venneverso di lui, mentre tutti intorno scuote-vano le teste deformi e alzavano i coltel-li, muovendoli e facendoli luccicare nel-l’aria scura. Francesco si portò le mani alla facciaper non vedere il grande uomo lupo cheveniva a prenderlo, e sentì sotto le dita ei palmi la stessa pelle villosa, le stessezanne, il naso lungo e appuntito. Aprì la bocca per gridare, e si svegliò.

“La polizia è saltata fuori come se fossesempre stata sotto il palco, ad aspettare dientrare in scena. Francesco era scivolatoa terra, ai piedi di Marina, e lei ha alza-to la pistola nell’aria come per sparare alsoffitto. Uno degli agenti ha gridato qual-cosa, mentre tutti urlavano, adesso, escappavano inciampando e cadendo frale poltroncine in platea. Poi Marina halasciato cadere la pistola e ha abbraccia-to il primo dei poliziotti, ha cercato didargli un bacio. L’hanno portata via dalpalco in trionfo, lacrimante, sconvolta,bellissima, con la sua cascata di capellirossi tutta scompigliata e la camicettastrappata sul davanti: uno spettacolo!”

“Immagino. E tu in prima fila.”“Non esattamente. A proposito di file,

però, sarebbe stato meglio essere in secon-da, perché ho visto Isadora Santapacevoltarsi e vomitare addosso a Maffi, rovi-nandogli una cravatta che doveva esser-gli costata due occhi della testa.Comunque, quello che Marina aveva dadire, al mondo in generale, era già pron-to da un pezzo.”

“I suoi libri?”“Ma no, quella è solo merda secca!

Parlo di quello che ha detto prima di spa-rare, e soprattutto della lettera aperta aigiornali.”

“Posso venire con te, stasera?”Francesco sorrise e finì di spalmare lamarmellata sul mezzo panino imburra-to. Il sole di settembre picchiava duro,fuori dalla finestra. Allungò la tartina asua figlia.“Allora, posso? Mi porti?”“Sarò molto preso, sai? Non potròdirti nemmeno una parola. Neancheguardarti.”“Fa niente!” disse Arianna, cacciando-si in bocca metà del panino. Le guan-cette rosa si gonfiarono, e Francescosi sentì morire dalla voglia di pizzicar-le e morderle.“Piano, ehi! Bevici sopra un po’ di caffe-latte, adesso... guarda che ti strozzi!”“Mmh-mh!” scosse la testa la bambina. La babysitter fece per intervenire, malui la fermò con un gesto.“Mi porti, Francesco?” riuscì a dire anco-ra Arianna, masticando energicamente.“Non ho tempo. Stasera no, mi spiace.”“Se tu hai tanto da fare, posso venirecon la zia magari.”“No, piccola, dai.”“Ti prego! Francesco!”Non ricordava bene quando aveva deci-so che gli piaceva, che sua figlia lo chia-masse per nome invece che con quegliappellativi imbecilli: papà, babbo, papi.Quelle parole stavano bene in bocca aun neonato, ma quando Arianna fossecresciuta lui l’avrebbe voluta comeamica, e un amico non può chiamartipapi. A lei il nome Francesco andava agenio, e aveva sempre usato quello.

“Kèko” a pochi mesi, poi “Pakèko” ealtre approssimazioni, fino al nomevero. Sua moglie non era d’accordo, malui lo considerava un investimento per ilfuturo. Un futuro vicino: adesso Ariannaaveva otto anni, e il nome Francesco eragià una piccola musica gioiosa, alle orec-chie del padre. La madre non aveva più niente da obiet-tare. Da tempo.

“C’era anche la figlia di Alinei? Mipare di averlo letto da qualche parte.”

“Sì, Ariannina. Per lei mi è spiaciutotanto. Che canaglietta! Gliela vedevamosempre ronzare intorno, viziatissima,perché Francesco era vedovo, sai questecose... Ma vederlo morire dev’essere statotremendo. Si è ritrovata orfana a ottoanni, e in quel modo, poi. La madre sel’era portata via una malattia rarissima,quando lei era ancora molto piccola. Sì,per lei mi è dispiaciuto, forse più che perlui, alla fine. Non avrebbe dovuto portar-sela dietro.”

“Già.”“Sai che ti dico? Se un giorno avrò un

figlio, mi piacerebbe che fosse comeArianna.”

“Un figlio, tu?”“Così potrei pastrugnarmelo e viziar-

melo per bene. Se non li vizi, i figli, chegusto c’è a farli?”

“Tu, un figlio?”“Ho capito, ho capito.”

Alle dieci Francesco salì sulla Volvo eaccese il cellulare. “Grazia? Sto arrivando.”“Buongiorno, meno male.”“Casino? Telefonate?”“Hanno cominciato alle otto!”“E tu che ci facevi lì alle otto?”“Lavoravo per lei.”Francesco ridacchiò, incolonnandosinel traffico milanese di mezza mattina,che è meno fitto ma più nervoso eimprevedibile di quello dell’ora di punta.Più pericoloso. Faceva davvero caldo.“Qualcuno rompe i coglioni più deglialtri?”“Quelli di RAI2.”“TV?”“Radio. Dicono che gli va bene ancheun’intervista registrata.”“Facciamola adesso, allora. Fammi chia-mare. Tanto, qui ne avrò per mezz’ora.Salutami tanto i lavoratori del braccio edella mente, lì in ufficio. Digli cheNapoleone sta arrivando.”La segretaria rise. “Che tristezza che iluoghi comuni siano sempre veri!”,pensò Francesco: a dispetto del suonome, Grazia era brutta come il pecca-to; e, inutile dirlo, efficiente e impecca-bile come un tecnico di Cape Canaveral. “Agli ordini” rispose, e chiuse lacomunicazione.Faccio in tempo a telefonare a lei? No.Meglio aspettare. Tanto, oggi è il gran-de giorno, anche per lei. Pensò alladonna e sorrise. Poi aggrottò le soprac-ciglia, perché dietro la vetrina di unnegozio gli era sembrato di vedere unlupo, ritto sulle zampe posteriori.Guardò meglio e vide che era una ragaz-za impellicciata, forse l’indossatrice diuno show room, che era uscita unmomento per fare qualcosa.Un brivido gli si ramificò lungo la schie-na, saldando le reni al collo; il sogno tornòtutto intero, con il suo orrore insensato,innominato, e quel sapore di cosa verache l’aveva spaventato più di tutto.

“Dicevi della lettera ai giornali.”“Sì, un capolavoro. Avesse scritto così

anche quelle ciofeche di libri, Marina,sarebbe stata il genio narrativo del nuovomillennio! Aspetta, devo averla ancoraqui da qualche parte...”

“Ma no, dai. Dimmi il succo, se ti va.”“Il succo, che aveva in parte anticipato

prima di sparare, è che lei è un’artista eche il suo gesto è una protesta estremacontro l’imbarbarimento dell’arte, e delmondo in generale. Più in dettaglio: que-sto premio le faceva schifo, aveva parteci-pato sperando di vincere e di poter farequello che poi ha fatto. Una specie di cri-tica da dentro, insomma. Mi tuffo nellamerda per dire che puzza proprio.”

“Abbiamo al telefono Francesco Alinei,il direttore di “NobooksNoparty”, che è

insieme una casa editrice, un portaleweb frequentatissimo, e la più impor-tante rivista letteraria d’Italia e probabil-mente d’Europa” annunciò, mettendociun buon carico di esagerazione, la voceallegra del conduttore di un programmaradiofonico molto seguito.“Buongiorno, Francesco!”

“Buongiorno, buongiorno.”“Facciamo un esperimento, Francesco.Poniamo che ci sia uno fra i nostri ascol-tatori che non sa niente del PremioVerità. Dico uno, perché la vostra inizia-tiva ha avuto una tale pubblicità, chesecondo me ne parlano anche alla boc-ciofila Lorenteggio.”“Speriamo che ne parlino anche loro”rispose lui, con quel timbro di vocecaldo, appena un po’ rauco, che gliveniva quando voleva essere gentile,disponibile, fascinoso. “Un saluto allabocciofila!”“Allora, Francesco.” Poche cose glidavano fastidio quanto sentire ripetere ilsuo nome da uno che non aveva maivisto in faccia. Il contrario del dolce jin-gle che intonava sua figlia. Ho davverodelle manie, sul mio nome, pensò.“Cos’è, in due parole, il Premio Verità?”“E’ un concorso di bellezza riservatoagli scrittori” rispose lui, schivando unciclista suicida che era sbucato di colpoda una viuzza laterale. “Vaffanculo,stronzo!” gridò chiudendo il vivavoce.“Fatti mettere sotto da un altro,coglione!”“E com’è strutturato questo concorso,Francesco?”“Semplice. La giuria tecnica, presiedu-ta da me e composta da trenta giornali-sti, provenienti non solo da riviste let-terarie, ma soprattutto da quotidiani emagazine...”“D’altronde le riviste letterarie sono cosìpoche, ah ah!”“Infatti...”“Per mettere insieme trenta giuratipescando solo fra le riviste letterarie,avreste dovuto reclutare non solo iredattori, ma pure le donne delle puli-zie, ah ah ah! Vero, Francesco? Oh ohoh!”“Già.” L’altro cellulare fremette. Una chiamatain arrivo. “Diceva, Francesco? Questa giuria...?”“La giuria ha selezionato una cinquinadi autori. I lettori li hanno votati pertutto questo mese sul sito di“NobooksNoparty”, e questa sera cisarà la festa con la proclamazione dellaclassifica finale. Che naturalmenteconosco solo io, insieme ai miei stretticollaboratori.”Vide chi lo chiamava e sporse le labbra,sfiorandosi i denti con la lingua. Questaera la magia di quel nome, da un mesein qua. Premette la combinazione ditasti che inoltrava l’sms: Ti chiamodopo. Un bacio. Fra.“Abbiamo capito bene? I cinque autoriche avete messo insieme non sono,diciamo, i più bravi scrittori italiani, ma ipiù belli?”“Per la giuria, sì.”“Vogliamo ripetere i loro nomi,Francesco, anche se ormai li conosconotutti?”“Abbiamo tre signore, IsadoraSantapace, Marina Emme e SamanthaWaggler, che è inglese di nascita mascrive in italiano. Due maschi, TizianoMaffi e Angelo Crestovasci.”“Nomi famosi e meno famosi, direi,Francesco. Anche quell’unico, sciagura-to ascoltatore che non sapeva niente delpremio avrà sicuramente letto qualcunodei magistrali rosa noir di MarinaEmme, o i romanzi psicologici diIsadora Santapace e Tiziano Maffi, chehanno scalato più volte le classifiche divendita.”“Sì, ma credo che anche la Waggler eCrestovasci siano conosciuti, perchéfanno molti passaggi televisivi. Sonorichiestissimi, tutti e due. Molto giovani,molto affascinanti.”“Come è nata l’idea un po’ folle di questopremio di bellezza? Lo scrittore creabellezza scrivendo, la mette nella pagi-na; che bisogno c’è di premiare la suaavvenenza fisica? Non si rischia di intro-durre un elemento extrartistico nellavalutazione di un autore?”“Ma questo elemento c’è già!” sillabò

Francesco, inchiodando a due centime-tri dal paraurti posteriore di un fuori-strada. “Il senso del premio e del suonome è questo: diciamoci la Verità!Quando un esordiente presenta il suoscartafaccio a un editore, l’editore loguarda bene da capo a piedi, lo ascolta,calcola già su quanto appeal personalel’autore potrà contare, nei suoi rapporticon i media. Ci sono casi patetici, inItalia e fuori, di scrittori che devono laloro fama unicamente a una bella facciae a un po’ di disinvoltura in televisione.”“Lei quindi, Francesco, è d’accordoche...”“Io non sono d’accordo su niente. Io perfortuna non sono uno scrittore di fiction,sono un giornalista. Mi limito a registra-re la realtà. Abbiamo scrittori meravi-gliosi che vendono mille copie, e autoriche non valgono niente, ma a forza dipartecipare a telequiz e cretinate simili,o di sposare galline scelte del pollaiovip, hanno raggiunto una notorietà chepoi diventa, in pratica, copie vendute,premi vinti, influenza, potere, succes-so!” Quando parli così ti domandi per-ché cazzo hai inventato questo premio,e più in generale cosa cazzo ci stai a farein mezzo a questa gente, veroFrancesco? La strada che ti ha portatoqui ti si aggroviglia nella memoria, iconti non tornano. Ti domandi se noneri più felice da ragazzo, quando pensa-vi solo a pescare le trote, in Garfagnana.Non è vero? Cos’hai davvero avuto, incambio? Cosa ti rispondi, quando ti faiqueste domande? Improvvisamente ilmondo diventa un gorgo di acqua spor-ca, e tu giri, giri mentre i compleanni sisgranano uno dopo l’altro e il buco delloscarico si avvicina. “E allora diciamolo!Il Premio Verità è una grande provoca-zione dadaista, un happening dell’imbe-cillità dichiarata, affermata, consapevo-le. Siamo dei pagliacci, e basta.Diciamolo.”“Be, Francesco...” L’intervistatore è indifficoltà. Si aspettava un’intervista piùfrivola, l’idiota. “Io credo però che esi-stano ancora altri valori. Credo che laletteratura sia migliore di come lei ladescrive, francamente.”“Certo che lo è. E il Premio Veritàserve anche a dire questo. Lo diceattraverso un paradosso; la letteraturaha sempre usato il paradosso. Maporca la miseria!”“Quanta passione, Francesco” sientusiasmò l’intervistatore, ripren-dendo quota. “Io apprezzo molto lasua energia!”“Guardi che dicevo a uno stronzo diautobus che per poco non mi fa finirenel fosso. Città del cazzo!”

“Ma Emme è il cognome vero?”“Ma no, solo l’iniziale. E’ diventata

famosa così: Marina Emme. Insomma,lei aveva già preparato la lettera, perchéFrancesco le aveva detto che avevavinto.”

“L’avrà fatta vincere lui.”“Non credo. C’era una votazione rego-

lare, controllata. Guarda che Marinanon aveva bisogno di aiuti per vincere:era una strafiga siderale, ed era fissa intv un giorno sì e l’altro pure. Aveva die-cimila rubriche sui giornali, di quelledove la foto è grande il doppio dello spa-zio riservato alle risposte ai lettori. Bellada crepare, onestamente; in più, sveglia efurba. Uno schiacciasassi. Tranne per ilsolito, patetico dettaglio.”

“Cioè?”“Due dettagli, diciamo. Uno è quello

ufficiale, dichiarato nella lettera: l’ambi-zione artistica. Quella voglia disperata disentirsi dire sei un poeta, sei un artista,sei un creatore. Eppure non c’è scrittoreche non darebbe via l’anima per il suc-cesso, quello che si conta con i numeri.Non uno, credimi.”

“Se lo dici tu...”“Te lo spiego io il meccanismo. Non c’è

un solo scrittore, nemmeno fra i puri, fraquelli che dicono che loro vogliono vende-re poco ed essere apprezzati dagli happyfew, che loro vogliono portare avanti que-sto benedetto discorso artistico, che se nefregano del pubblico anzi gli fa pure unpo’ schifo; non ce n’è uno solo, ti dico, chenon vorrebbe vendere cinque miliardi dicopie. Non milioni: miliardi.”

“E allora? Tutti uguali?”

“No. Sai qual è la differenza fra lo scrit-tore onesto e lo scrittore puttana?”

“Che quello onesto lo dice, che vuolevendere tanto?”

“Non solo lo dice, ma non cambia di unmillimetro la sua vocazione per andareincontro al pubblico. Vuole vendere, ripe-to; non sarebbe uno scrittore, se non fossecosì. Credi a me: dipendesse da lui, neidocumentari sull’Africa si vedrebbe ilbambino denutrito, quello col pancione ele braccine magre magre, rifiutare la sco-della di riso del missionario e dire: No,non voglio mangiare, voglio leggere l’ulti-mo capolavoro di Nonsochì! Questo vor-rebbe il nostro Nonsochì. Ma se Nonsochìè un artista, non farà niente se non scri-vere libri seguendo la vocazione di ciò cheè stato chiamato a dire, senza fare la put-tana per inseguire i gusti veri o presuntidel pubblico. Nonsochì è uno scrittore del-l’infelicità, poniamo? Be’, peccato: l’infe-licità vende poco! Peccato, peccato che latua vocazione non sia fare ridere la gente,o fare libri erotici, o semplicemente le soli-te, sane, infallibili storie di amore contra-stato che però finisce bene! Ma se è unoscrittore onesto, se quando immaginauna situazione o un personaggio vedesubito il nero che c’è dentro, vede lamorte, la sconfitta, lo scacco, se di fronteal male della vita gli si incendia la fan-tasia e gli fremono le mani, come fremo-no a un maniaco sessuale davanti a unabella ragazza o a un mangione davanti aun salame stagionato, se insomma la suaverità e la sua missione è raccontare l’in-felicità, lui la racconterà. E dopo averlofatto si limiterà a sperare che tutto ilmondo venga da lui, a farsi dire dai suoilibri che cos’è questa infelicità che ciaffligge tutti. Non scribacchierà storielleconsolanti, lui, per vendere qualchemigliaio di copie in più. E’ solo un esem-pio, questo.”

“Non ci avevo mai pensato.”“Eppure è così.”“E l’altro dettaglio? L’altra debolezza

della schiacciasassi?”“Più banale. L’amore.”

Il regista dello show era sovrappeso dialmeno quindici chili; alto, un bell’uo-mo, con gli occhi azzurri e i capelli briz-zolati raccolti in quella che sembrava lacoda di un castoro. Era a suo agio nel teatro, tanto quantoFrancesco invece si sentiva a disagio:tutto troppo grande, soffitto altissimo.In un teatro, d’altronde!... I soffitti alti glidavano una specie di vertigine a rove-scio, guardava su e si sentiva svenire.Un vecchio problema mai risolto. E poianche alle ferite ci si affeziona, e luiaveva una piccola collezione di cicatrici,che meritavano ogni giorno una carez-za, un minuto di pura memoria e tene-rezza. Di puro dolore, a volte.“Lei comincia a chiamare il quinto clas-sificato, via con la musica!, lo scrittore sialza...”“Che musica?”“Adesso gliela facciamo sentire. Pierre!”Un tecnico smanettò dietro un mixerenorme e partì un brano techno terri-ficante.“Abbassi” disse Francesco, con ungesto. “Come?”“Abbassi un momento, non si riesce aparlare!”La musica venne portata a un livelloquasi ragionevole.“Non si potrebbe mettere qualcosa didiverso? E’ pur sempre un premio perscrittori, questo... Non so, Haendel?”Il regista lo guardò costernato.Francesco si accorse solo ora che il cel-lulare gli stava fremendo nella tasca; labotta di suono che lo aveva investitoprima era stata così forte, che avevafatto vibrare il palco peggio di un terre-moto. Guardò sul display e lesse dinuovo quel nome.“Scusi un attimo” disse. Si voltò, apren-do la comunicazione, e si infrattò dietro

***I cinque autori che avetemesso insieme non sono

i più bravi scrittori italiani,ma i più belli

******Il Premio Verità è unagrande provocazione

dadaista, un happeningdell’imbecillità dichiarata

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un tendone rosso che aveva odore dipolvere. “Perché mi chiami?”“Sei nel teatro?”“Sì.”“Ti amo.”“Non dire cazzate.”La voce al telefono rimase in silenzio perun momento. “Ho voglia di fare l’amorecon te.”“Così va meglio.”“Ieri è stato bellissimo. E stanotte ti hosognato.”“Sempre meglio.” “Io no”, pensò Francesco, “io non hosognato te.” Si girò lentamente verso un angolo buio,dietro le quinte. No, non si era sbaglia-to. Vide di nuovo la sagoma del lupo,un’ombra nera che lo fissava, immobile. Gli bastò un secondo per trasformarla inquello che era veramente, un manichinoda palcoscenico con una strana parruc-ca da selvaggio; ma il brivido era partitougualmente, e si intrecciò a quello chegli dava la voce calda e umida nel cellu-lare. I due brividi furono così profondiche sentì i capezzoli indurirsi e premerecontro la camicia.“Stasera? Dopo la festa?...”“Non so” rispose. “Non credo. Lei nonmi mollerà un secondo. E ho anchel’impressione che abbia indovinatoqualcosa.”“Possibile?”“Lo sai che hanno le antenne, quellecome lei.”La voce al telefono rise, piano. “Non lebasta vincere il suo cazzo di premio? Hauna fame da lupi, quella donna.”Francesco si accigliò, sentendo la voceusare quella parola. “Vuole propriotutto.”“La situazione la conosci.”“Sì, ma io mi faccio delle illusioni.Posso farmi delle illusioni? Mi dai ilpermesso?”“Le illusioni sono un lusso.”“Hai ragione.”La comunicazione fu interrotta.Francesco guardò l’angolo buio. Lasagoma del lupo non c’era più.

“Ma Marina Emme era proprio inna-morata, di Alinei? Da come l’haidescritta...”

“Vuoi che facciamo un dibattito su cos’èl’amore?”

“Preferisco farlo. L’amore.”“Secondo me sì, era innamorata di lui.

Nel suo modo divorante, si capisce. Se l’a-more è un sentimento generoso, alloradobbiamo dire che alcuni hanno la voca-zione di amare, altri no; ma io non credoche l’amore sia generoso. Credo che siaun istinto egoista, feroce e violento.”

“E ingiusto.”“Sì, ingiusto. Non c’è merito, in amore.

Se amassimo solo quelli che lo meritano,forse tutto andrebbe meglio. Ma a quelliche lo meritano diamo l’amicizia: siamomolto selettivi, con gli amici, molto schiz-zinosi. L’amore lo buttiamo via, invece.Ci attacchiamo a una persona, preten-diamo tutto e le perdoniamo tutto.Almeno finché dura.”

“Sono abbastanza d’accordo.”“Grazie! Se è così, se l’amore è questo,

allora bisogna dire che tutti noi proviamoamore. Anche Marina Emme, poverastella. Perché no?”

La platea era strapiena, e Francescodoveva ammettere che, scelte musicali aparte, il regista sapeva il fatto suo. Belleluci, bella installazione, bello tutto.Molto milanese, ovviamente.Stesso complimento per il repartostampa e pubbliche relazioni di“NobooksNoparty”, che aveva distri-buito strategicamente i posti in primafila, alternando: i cinque scrittori finali-sti; un po’ di giornalisti del genere gos-sip da giungla metropolitana, con labava alla bocca, pronti a picchiare sottola cintura; un tot di scrittori che si sareb-bero tagliati un braccio pur di arrivarein finale, e quindi guardavano i prescelticon gran sorrisi sulla bocca e i coltellinegli occhi; qualche vip presenzialista diprofessione (calciatori, un paio di politi-ci, la famosa attrice venuta da New Yorkche ormai la tenevano in piedi con lestampelle, ma aveva ancora la sua dadire); figame assortito. La diretta erastata venduta a Mediaset, i cameraman

erano appostati dappertutto come killer.La security: solito plotone di palestratitutti vestiti Emporio Armani, a parte unpaio di eccentrici che sfoggiavano abitida gran sera, le maniche gonfie di bici-piti e tricipiti. “Che successo!” Si voltò e sorrise a Chicca Gagliardo di“Glamour”. La più intelligente, la piùcara. “Se il successo si misura dal casino...”Chicca rise e ammiccò. “Ti ho mai detto che ho un debole perAngelo Crestovasci? Guardalo lì,Angelino... con quegli occhioniperforanti.”“E io che ero convinto che avessi undebole per me!”“Mi accontenterei di Crestovasci, se glipiacessero le donne. Tu sei troppo occu-pato a essere perfetto.”Detta da un’altra persona, gli sarebbesembrata un’accusa o un’offesa. Davantiallo sguardo tranquillo di Chicca,Francesco poté solo stringere le labbrae scuotere la testa.“Non sono mai stato perfetto, nemmenoalla lontana. E neanche felice” disse,prima di essere investito e trascinato viada una squadra di sequestratori vocian-ti, che lo reclamavano per presentargliuno dei politici. Chicca rispose qualco-sa, ma lui non sentì.“Stasera ti faccio una sorpresa”mormorò Marina, improvvisamentevicinissima.L’aveva già salutata prima, in mezzo allasua corte: l’ufficio eventi dellaMondadori al completo, una pattuglia diPR anelanti, la segretaria, un’amicaimportante (la moglie dell’uomo piùpotente d’Italia), un’amica sfigata (quel-la era il tocco di classe!), servitù varia. Siguardarono negli occhi. Marina era così bella che non avevabisogno di ostentare sex appeal. Si vesti-va come molte modelle di vent’anni,

quando le vedi in giro per Milano con ilbook sottobraccio: in modo sobrio,quasi mascherato, che ti faceva pensarea quanto potesse essere incredibilmen-te sexy, se solo si fosse scoperta un po’di più. Si vestiva come se dovesse rispar-miare sulle proprie attrattive, distribuir-le con parsimonia, e Francesco sapevache questo -come il suo desiderio diessere chiamato per nome da Arianna-era un buon investimento per il futuro:la bellezza poteva invecchiare, sottoquei vestiti eleganti e castigati, ma gliuomini avrebbero continuato a immagi-narla sempre identica. Quel momentoera ancora lontano, però. Nessuno losapeva meglio di lui.“Secondo me è ora” disse il regista,prendendolo per un braccio.“Va bene.”Salì sul palco. L’applauso che lo accolsenon era né tutto caloroso né tutto per-plesso. Lo si poteva definire una compo-sizione a chiazze: assenso, entusiasmo,eccitazione, misti a zone circoscritte dinoia e sarcasmo. Prese il microfono, fece schioccare le

labbra e disse: “Grazie di essere qui.Grazie a ognuno di voi, nessuno esclu-so, perché stasera celebriamo tutti insie-me un piccolo mistero che amiamo”.Il secondo applauso partì con un coloretutto diverso: più convinto, ma mescola-to alla curiosità e ai commenti per lastrana frase che aveva aggiunto. Tutto aposto. Era l’effetto che voleva. GuardòMarina, e gli sembrò che lei annuisse.Batteva le mani silenziosamente, acco-stando i palmi senza farli toccare.

“E qual era questo mistero a cui allude-va Alinei?”

“Che ne so io? La bellezza e l’arte che siincontrano, qualcosa del genere. Luiaveva di queste uscite, ogni tanto. Non hafatto nessun discorso, tanto non ce n’erabisogno. Ha tirato fuori dalla tasca dellagiacca un foglio e ha cominciato a legge-re i voti, partendo dall’ultimo classificato.A proposito, l’aria condizionata era apalla e faceva perfino freddo, dentro quelteatro.”

“Come era andata la votazione?”“Ultimo Tiziano Maffi. Un bel tipo,

devo dire... l’hai presente?”“No.”“Un bel quarantenne, tipo intrigante.

Forse però non avrebbe dovuto scrivereun romanzo su uno scrittore che si scopale sue lettrici. Basta Philip Roth, per quelgenere di roba. Quarta classificata l’iste-rica; pardon, Isadora Santapace. Lei,oltre a tutte le cazzate che ha scritto, si

era anche fatta fotografare nuda da unpaio di riviste... ti è capitato di vederla?”

“No.”“Non ne sai un accidente, di scrittori

glamourosi.”“Pare di no.”“Be’, la Santapace è salita sul palco con

un vestito di cellophane. Ha fatto i suoinumeri, che al solito sono consistiti neldimenare il culo, spiccicare esattamentedue parole e riuscire a infilarci tre erroridi grammatica. Una vera bandiera dellademocrazia nell’arte: provateci, fatecome me, potete riuscirci tutti! Si è presaun po’ di fischi da teatro di strip-tease eha tolto il disturbo. Terza la Waggler, chesecondo me è davvero bella e scrive dav-vero bene. Avesse vinto, nessuno avrebbeavuto niente da ridire. Poi Francesco hafatto una cosa che distruggeva voluta-mente, quasi per disprezzo, le convenzio-ni di questo tipo di premiazione: ha chia-mato insieme i primi due, senza separaregli applausi all’uno e all’altra.”

“Al secondo posto, Angelo Crestovasci.E al primo...”

Francesco rivolse il microfono al pubbli-co, come una rockstar. Ma non c’eranessuna melodia a guidare le voci, e ilnome di Marina Emme arrivò fratto,spezzato, scomposto come un viso in unquadro cubista.Marina Emme e Crestovasci salironoinsieme, tenendosi per mano, i tre gra-dini che davano accesso al palco, fraapplausi e fischi. Quando li ebbe davanti Francescoabbassò il braccio che reggeva il microfo-no, come se gli pesasse, e li guardò.Marina sfrontata, superba, quasi torva:un fumetto, un sogno hollywoodianonerovestito, con una borsetta di pelle inmano. Angelo così giovane, alto, le lab-bra gonfie sotto gli zigomi slavi, gli occhigià segnati. Da una parte più di dieciromanzi giallorosa, best seller a partiredal terzo (ma anche la riedizione inpaperback dei primi due, fatta di recente,aveva scalato le classifiche), scritti secon-do le regole, con tutti i trucchi, gli artifizidi un mestiere che aveva soppiantato iltalento fin da subito, lo aveva soffocatocome un parassita. Dall’altra due soliromanzi, che messi insieme avevano ven-duto forse diecimila copie; e non perchéil talento sovrastava il mestiere, non permancanza di astuzia narrativa: semplice-mente, perché Crestovasci aveva ilfuoco, ma il talento no. Non lo avrebbeavuto mai. Questo pensava Francesco, enon solo lui. Continuavano a tenersi permano, e Marina si girò verso Crestovascie lo baciò su una guancia, suscitandoun’ovazione. “La gente si diverte”, pensòFrancesco, in mezzo a tutto quello che glipassava per la testa: “Non me ne frega uncazzo, ma alla gente questa cosa piace. E’andato tutto bene. Sentili, il casino chefanno! E’ andato tutto bene”.“Non sono bellissimi?” mormorò almicrofono. Un vero presentatore l’a-vrebbe fatta squillare come una tromba,quella frase.

La folla rise e applaudì, molti fischiaro-no. Marina Emme porse la guancia aCrestovasci, che non capì: invece dibaciarla, appoggiò la tempia contro lasua, piegando le ginocchia per esserealla sua altezza. Marina tolse la mano da quella delsecondo classificato e fece due passiavanti. Francesco allungò il microfono,senza passarglielo.“Grazie a tutti voi!” disse lei, con un sor-riso da candidata alla Casa Bianca. Ilvolume sonoro della sala tornò a impen-narsi. “Ho una cosa importante da dire.Sarò molto breve.”“Ma no, Marina, falla lunga!” gridòqualcuno.“Sei l’unica!”“Questo premio e tutta la storia del sexappeal degli scrittori” riprese la donna“a me fa venire il vomito.” Fece una pausa, perché il pubblicopotesse assaporare la parola. Francescostrinse le palpebre e sorrise. “Era que-sta, la sorpresa?”, pensò. “Va bene, per-ché no? Sentiamo come vai avanti”. “Sono stanca di sentir dire che vendo i

miei libri perché piaccio agli uomini,che fra parentesi sono forse il venti percento dei miei lettori. Delle mie lettrici.”Qualche spettatrice applaudì, ma eratroppo evidente che stava succedendoqualcosa di strano. Gli altri rimasero insilenzio. “Ho promesso di essere conci-sa, e lo sono. Il resto lo leggerete doma-ni, sui giornali.”Marina si voltò verso Francesco, chevide gli occhi del lupo: gialli, con lapupilla a punta. Gli sembrò di averlo saputo da subito,da quando lei gli aveva detto quellafrase, che Marina lo avrebbe ucciso. Oforse anche da prima, perché questasarebbe stata l’unica conclusione possi-bile per tutto l’odio che le leggeva negliocchi chiusi, nei denti che si mordevanole labbra, quando facevano l’amore; l’o-dio senza senso e senza rimedio che leisi portava dentro da sempre, forse. Aprìla bocca ed ebbe il tempo di pensare adArianna. Solo a lei, non a sua moglie, asuo padre, e nemmeno all’amore di queigiorni. Questo fu l’ultimo regalo che ilmondo gli fece, mentre lei tirava fuoridalla borsetta la rivoltella nera in tinta. Marina sparò un colpo solo, eFrancesco cadde in ginocchio davanti alei, come in preghiera, come se volessechiederle qualcosa di prezioso.Nessuno capiva cosa stava succedendo;nessuno pensò alla verità, all’inizio: piut-tosto a una trovata, una gag. Lui si piegòlentamente in avanti, e anche lei lo fece,mentre Angelo, accanto a loro, guarda-va la scena, immobile. Marina Emme sichinò e strinse fra le mani le tempie del-l’uomo che aveva ucciso, appoggiandola fronte alla sua come una madre. Erapiù giovane di lui, ma il gesto che fece fuproprio quello di una madre. Quelli intorno a loro non lo capirono.Tranne uno.

“Perché non hai fatto niente?”“Perché non c’era niente da fare. Il

male ha una sua logica, sai? A volteuomini di buone intenzioni si mettono inmezzo, fra il male e le sue vittime, e sba-gliano. Da questi tentativi di fermare ilmale, nascono solo mali maggiori.”

“Non è vero.”“Sei troppo giovane per giudicare.”“Anche tu sei giovane.”“Non più” dice Angelo, guardando il

ragazzo nudo sul letto, nella camera inpenombra. “Non più abbastanza per nonsapere queste cose.”Il suo compagno di questo pomeriggiodomenicale si accende una sigaretta.Gliela porge, ma lui fa segno di no.

“E nessuno ha mai saputo di te eFrancesco?”

“No” scuote la testa Angelo. “Eravamo intre a saperlo, nessun altro sospettava nien-te perché eravamo stati prudenti, e perchélui... be’, non sembrava il tipo che si pren-de una cotta per un uomo. Non lo era, ineffetti. Non so nemmeno io com’è successo.Comunque Francesco è morto. MarinaEmme aveva capito tutto, come lui teme-va. Ma Marina aveva un’altra storia daraccontare al mondo e ci teneva a non farecome nei suoi romanzi. Non aveva vogliadi prendersi la parte di quella che uccideper amore, gelosia... che banalità! Invece,andare in prigione in nome dell’arte le hadato tutt’altro gusto. Sta pure scrivendo ilsuo prossimo libro, che venderà l’impossi-bile. Lo capisci, questo?”

“Sì.” Il ragazzo gli tocca una spalla, malui si scosta un poco. “E tu? L’hai raccon-tato solo a me?”

“Sì, per ora.”“E cosa farai del vostro segreto?”

Angelo gira gli occhi verso la scrivania,di lato al letto, e anche il ragazzo si voltaa guardarla. Il computer è ancora acceso. Il salva-schermo è una bocca che parla, muta, lelabbra rosse su sfondo nero, ripetendoparole che nessuno sente.

“Cosa vuoi che faccia? Proverò a scrive-re un libro.”

Raul Montanari ha pubblicato otto romanzi, due libri di racconti e uno di poesie. Insegna scrittura creativa a Milano. A maggio uscirà il noir “L’esistenza di dio”(Baldini Castoldi Dalai).Il racconto “I lupi” è stato pubblicato in tedesconella prestigiosa antologia “Europa mordet”(Ullstein 2005) ed era finora inedito in Italia.

***Lo scrittore crea bellezza

scrivendo; che bisogno c’è di

premiare la sua avvenenza fisica?

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I wanna be a fashion photographer Alessandro Belgiojoso

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