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de Il Sole 24 ORE Sanità Marco Filippini - Manuela Maria Campanelli Cronaca di una legge che ci difende dal dolore La Legge 38/10, la più evoluta d’Europa Cronaca di una legge che ci difende dal dolore

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de Il Sole 24 ORE Sanità

Marco Filippini - Manuela Maria Campanelli

Cronaca di una leggeche ci difende dal doloreLa Legge 38/10, la più evoluta d’Europa

La data del 15 marzo 2010 rimarrà nella memoria di tutti coloro - politici e clinici - che si sono impegnati affinché il dolore cronico fosse classificato e trattato come una vera malattia, nonché di tutti i pazienti che hanno visto tutelato il loro diritto ad essere curati per una patologia che, oltre al fisico, infierisce sull’anima di chi ne è affetto.La Legge 38 rappresenta un passo fondamentale in ambito sanitario: ri-conosce al dolore cronico la dignità di malattia, separa nettamente le cure palliative dalla terapia del dolore, obbliga i clinici alla cura del dolore ma anche a un suo attento monitoraggio, inserendo il dolore tra i cinque para-metri vitali da valutare quotidianamente. è il raggiungimento di un impor-tante traguardo e, al tempo stesso, il punto di partenza verso un approccio al dolore cronico del tutto differente. Un grande risultato che va ricono-sciuto non solo a chi vi ha lavorato in anni recenti, ma anche a tutti gli ope-ratori che, nell’ultimo decennio, hanno gettato le basi di quel cambiamento culturale senza il quale tutto ciò non si sarebbe potuto ottenere. Questo volume ripercorre le tappe fondamentali di un lungo cammino, approfondendo alcune tematiche, ad esempio il pensiero della Chiesa in materia, affrontando temi delicati come la gestione del dolore in ambito pediatrico e, infine, chiarendo l’importanza di un trattamento terapeutico adeguato, sfatando alcuni luoghi comuni come quelli inerenti l’impiego dei farmaci oppioidi.Un libro dedicato a tutti i malati di dolore cronico, che possono trovare in queste pagine una risposta a molte loro domande, ma anche ai politici, per mettere in luce come il lavorare per un fine comune – il bene del paziente –porti a riconoscere il valore di quanto costruito da altri, anche se apparte-nenti a diverse correnti di pensiero.Un’opera dedicata inoltre a tutti gli operatori del settore, affinché applichi-no quanto la Legge ha stabilito e continuino questo percorso di cambia-mento culturale, e a quanti dedicano la loro vita alla cura degli altri, perché non si lascino scoraggiare dai momenti cupi, ma trovino sempre la forza di andare avanti.

Marco Filippini, Farmacista, Manager in ambito farmaceutico.Manuela Maria Campanelli, Giornalista.

8039/01

n 29,00

ISBN 978-88-324-8039-9

Cronaca di una legge che ci difende dal doloreM. FilippiniM.M. Campanelli

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CRONACA DI UNA LEGGE CHE CI DIFENDE DAL DOLORE

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Marco Filippini - Manuela Maria Campanelli

Cronaca di una leggeche ci difende dal doloreLa Legge 38/10, la più evoluta d’Europa

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ISBN 978-88-324-8039-9

© 2011 Il Sole 24 ORE S.p.A.

Sede legale e amministrazione: via Monte Rosa, 91 - 20149 MilanoRedazione: via C. Pisacane, 1 - 20016 Pero (Milano)Per informazioni: Servizio Clienti Tel. 02.3022.5680, 06.3022.5680Fax 02.3022.5400 oppure 06.3022.5400e-mail [email protected]

Fotocomposizione: Jo type di Nisticò Francesco & C. snc, via Figino, 1/A - 20016 Pero (Milano)Stampa: Grafica Veneta S.p.a., via Malcanton, 2 - 35010 Trebaseleghe (Padova)

Prima edizione: ottobre 2011

Tutti i diritti sono riservati.Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15 per cento di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633.Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di speci-fica autorizzazione rilasciata da AIDRO, corso di Porta Romana, 108 - 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org

Da un’idea di

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Sommario

Prefazione .................................................................................. pag. XIdi Umberto Veronesi

IntroduzioneChe cosa è il dolore? Per molto tempo è stato un inevitabile sintomo di molte patologie ..................................... » 1Il dolore cronico ............................................................................ » 2Il dolore da cancro ........................................................................ » 3

Parte Prima - PRIMA DELLA LEGGE,UNA SITUAZIONE DI OGGETTIVO

ARRETRAMENTO

Capitolo 1 – L’inizio della battaglia di “pensiero” ................. » 7 1.1 Quando la terapia del dolore si sovrapponeva alle cure palliative ............................................................ » 7 1.2 I pregiudizi più tenaci da sfatare ................................... » 8 1.3 Gli oppiacei e la loro accettazione da parte dei clinici » 9 1.3.1 A livello mondiale ..................................................... » 9 1.3.2 …e in Italia............................................................... » 10

Capitolo 2 – Il 2001: l’anno delle prime svolte culturali ........ » 11 2.1 Le principali tappe normative su ricette e oppiacei ... » 11 2.2 L’indagine multicentrica su 4.000 ricoverati: dati allarmanti .................................................................. » 12 2.3 Il progetto “Ospedale senza Dolore” ............................ » 13 2.4. Nel 2003 si fa un triste punto della situazione ............ » 15

Capitolo 3 – L’indagine Pain in Europe .................................... » 17 3.1 L’Italia e il dolore: una situazione anomala rispetto all’Europa .......................................................................... » 17

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VI Sommario

3.2 La ristretta rosa degli analgesici usati nel nostro Paese .................................................................................. pag. 18 3.3 Il Decreto del Ministro della Salute del 4 aprile 2003 .. » 19

Capitolo 4 – La gratuità dei farmaci anti-dolore ..................... » 21 4.1 I nuovi scenari e i fondamenti del Servizio Sanitario Nazionale .......................................................................... » 21 4.2 Il Piano Sanitario Nazionale 2003-2005 ........................ » 22 4.3 La terapia del dolore era ancora a carico delle cure palliative ............................................................................ » 23 4.4 L’acquisto degli oppiacei viene facilitato ..................... » 25 4.5 L’abbaglio dell’avere le carte in regola ......................... » 25 4.6 Il paradosso di un mercato insensibile alla sofferenza ................................................................... » 26

Capitolo 5 – Il White Paper ........................................................ » 27 5.1 L’unione fa la forza: l’importante ruolo di Associazioni, Organizzazioni e Società Scientifiche europee e internazionali nella lotta al dolore .............. » 27 5.2 I messaggi del White Paper ............................................ » 28 5.2.1 Il freno legislativo era dettato dall’inutilità di molte norme esistenti ........................................... » 28 5.2.2 L’ostacolo culturale era reiterato da vecchi pregiudizi ................................................................. » 31 5.2.3 L’antieconomicità del dolore non curato .................. » 31 5.3 L’invito all’azione di Open Minds ................................. » 32

Capitolo 6 – Il “Mercato” del dolore in Italia .......................... » 35

Capitolo 7 – Il dolore oncologico: lo studio EPIC ................... » 39 7.1 Ma quanto era trascurato il dolore oncologico? .......... » 39 7.2 La frequenza e la durata del dolore oncologico .......... » 40 7.3 Il trattamento del dolore oncologico ............................. » 40 7.4 Il dialogo mancante ......................................................... » 41

Parte seconda - LA LEGGE 38/10, LA PIÙ EVOLUTA IN EUROPA PER LA CURA DEL DOLORE

Capitolo 1 – Il contributo di sette ministeri ............................. » 45

Capitolo 2 – Il trasferimento di alcuni farmaci oppiacei dalla sezione “A” alla sezione “D” della Tabella II » 51

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Sommario VII

2.1 Le polemiche dei media .................................................. pag. 52 2.2 Il consumo degli oppiacei: primi segnali di crescita ... » 54 2.3 Il ricorso ai FANS era ancora troppo elevato ............... » 55 2.3.1 I risultati dello studio FATA .................................... » 56

Capitolo 3 – Il contributo della Chiesa Cattolica .................... » 59 3.1 Il messaggio di Papa Giovanni Paolo II sul dolore ..... » 60 3.2 Le parole di Papa Benedetto XVI ................................... » 63

Capitolo 4 – Il diritto per ogni cittadino di accedere alla curepalliative e alle terapie antalgiche e il dovere etico di offrirle ........................................................ » 65

4.1 Nascita ed evoluzione della legge sul dolore .............. » 65 4.2 Il gruppo di lavoro e il ruolo centrale del ministro Ferruccio Fazio ................................................................. » 66 4.3 I progetti da cui l’iniziativa ha tratto linfa vitale ........ » 68 4.4 I momenti critici vissuti nel percorso dell’approva- zione ................................................................................... » 68

Capitolo 5 – L’unicità della legge .............................................. » 71 5.1 Il dolore cronico deve essere trattato ............................ » 72 5.1.1 Una fotografia della sofferenza femminile ................ » 74 5.1.2 Le malattie reumatiche: un terzo dei pazienti ha dolore continuo .................................................... » 76 5.1.3 L’antieconomicità della sofferenza non curata ......... » 79 5.2 Chi è il fruitore delle cure analgesiche.......................... » 80 5.3 Il nuovo modello organizzativo per la gestione del dolore .......................................................................... » 81 5.3.1 Il superamento delle passate esperienze ................... » 82 5.3.2 Le definizioni che circoscrivono il progetto .............. » 84 5.3.3 Il ruolo del medico di Medicina Generale ................. » 86 5.4 La formazione condivisa ................................................ » 87

Capitolo 6 – Una rivoluzione copernicana a livello pediatrico » 89 6.1 La tutela del mondo bambino ........................................ » 89 6.1.1 La prima presa di coscienza istituzionale del dolore in pediatria ............................................... » 90 6.1.2 La necessità di voltare pagina................................... » 91 6.1.3 L’educazione al dolore prima di tutto: l’obiettivo di formazione del gruppo di lavoro in pediatria ............................................................... » 92 6.2 Cura del dolore e minori: perché questo binomio ...... » 94

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6.2.1 Le dimensioni del problema ...................................... pag. 95 6.2.2 Il ricorso improprio all’ospedale ............................... » 96 6.3 L’esperienza dell’hospice pediatrico di Padova .......... » 97 6.3.1 Le peculiarità dell’essere bambino ............................ » 98 6.3.2 I bisogni complessi richiedono risposte multispecialistiche .................................................... » 99 6.4 Un’unica Rete di assistenza in pediatria ...................... » 101

Capitolo 7 – I risvolti della legge ............................................... » 103 7.1 La prescrizione degli oppiacei ....................................... » 103 7.1.1 La dispensazione degli oppiacei: il ruolo del farmacista ........................................................... » 104 7.2 La misura del dolore ....................................................... » 106 7.2.1 Le scale di valutazione .............................................. » 108 7.3 L’approccio terapeutico di tipo sequenziale nell’anziano ...................................................................... » 109 7.3.1 Gli oppiacei nell’anziano .......................................... » 111

Parte terza - DOPO LA LEGGE

Capitolo 1 – La portata innovativa della legge ....................... » 115 1.1 Il rapporto annuale della Camera dei Deputati .......... » 116 1.2 Un’Italia a due velocità: la regionalizzazione della sua applicazione ..................................................... » 116 1.2.1 Lo stato di attuazione della Rete di cure palliative e della Rete di terapia del dolore ............... » 117 1.2.1.1 La Rete delle cure palliative ......................... » 117 1.2.1.2 La Rete della terapia del dolore .................... » 120 1.3 Un nuovo fermento in pediatria .................................... » 121 1.3.1 La necessità di promuovere più cultura sui bambini e sul dolore ............................................ » 122 1.3.2 I finanziamenti per la pediatria ................................ » 123 1.4 Il monitoraggio ministeriale ........................................... » 124 1.4.1 I DRG specifici per la terapia del dolore ................... » 125

Capitolo 2 – I cambiamenti nella pratica clinica:i primi risultati ........................................................ » 127

2.1 Gli oppiacei forti e il loro impiego ................................ » 127 2.2 Gli oppiacei deboli: il loro uso è in aumento per il dolore cronico ......................................................... » 128

VIII Sommario

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Capitolo 3 – Il mercato degli analgesici oppioidinel post-legge ......................................................... pag. 131

3.1 La fotografia dei consumi degli oppiacei forti in Italia e in Europa: il dato a sei mesi dalla legge ...... » 131 3.2 L’impatto della legge sulle prescrizioni e sulle vendite degli antidolorifici ........................................................... » 132 3.3 Gli oppioidi in Italia: la loro diffusione è a macchia di leopardo ........................................................................ » 134 3.3.1 Il consumo di oppioidi in Italia a un anno dall’approvazione della legge 38 ............................... » 135

Capitolo 4 – Le nuove esigenze dei farmacisti ........................ » 141

Capitolo 5 – Le risposte dell’industria ...................................... » 143 5.1 L’incongruità tra l’obbligo di cura del dolore e la pesante burocrazia del mercato italiano ................... » 143 5.2 Le molecole antidolore .................................................... » 143 5.2.1 Una nuova formulazione contro il breakthrough cancer pain .......................................................................... » 143 5.2.2 Un’innovativa associazione per controllare congiuntamente il dolore e la costipazione da oppiacei ................................................................ » 144

Capitolo 6 – La comunicazione della legge ............................. » 147 6.1 La Giornata Nazionale del Sollievo .............................. » 148 6.2 Una nuova alleanza ......................................................... » 149 6.3 Un nuovo sito web dedicato al dolore .......................... » 150 6.4 Il progetto Change Pain .................................................. » 151

Sommario IX

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Prefazionedi Umberto Veronesi1

Un tempo il diritto a non soffrire non era contemplato negli ospedali e, ancora pochi anni fa, una inchiesta dimostrò che soltanto nel venti per cento degli ospedali italiani si sapeva trattare il dolore in modo effica-ce. Personalmente, invece, ho sempre ritenuto che occorresse difendere il malato dalla sofferenza inutile poiché essa tradirebbe, in una fase delicata della vita, l’integrità intellettuale e morale dell’uomo. Non vi è infatti confine allo sforzo di limitare il dolore, alla necessità di privare i volti dei malati dai segni non solo fisici ma soprattutto psicologici e spirituali che la malattia può lasciare. Così come non vi è confine che debba frenare la scienza nell’obiettivo di spostare il fuoco dal “curare” il dolore a “prendersene cura”, perché seppure esso faccia parte del naturale ciclo vitale, non deve diventare esperienza mortificante e av-vilente per la dignità di ogni creatura umana.

Invece, oggi, la cultura della morte non esiste più, non si compren-de o non si vuole comprendere che essa è una scadenza biologica e rientra nel grande processo della vita al quale tutti apparteniamo. Oggi il malato, specie se terminale e necessita di cure palliative, è con-siderato un peso, una presenza scomoda e inutile, neppure buona per l’epidemiologia e gli ospedali che, per non perdere punti nelle gra-duatorie d’eccellenza sanitaria, vogliono mantenere basse le cifre della mortalità. Una concezione che non ho mai approvato, tanto da volere percorrere in prima persona la strada tribolata delle cure palliative, tra la disattenzione della società, lo scetticismo di molti medici, e l’arcaica visione cattolica della sofferenza, con il preciso intento di voler dichia-rare guerra al dolore. I primi passi furono ardui e annosi, ma la de-terminazione di alcune figure dall’alto profilo intellettuale ed umano, Mario Pirani, un giornalista, e Vittorio Ventafridda, un grande medico, consentirono di istituire all’interno dell’Istituto Nazionale dei Tumori

1 Ministro della Salute da aprile 2000 a giugno 2001 e attualmente Direttore Scien-tifico dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano, da lui fondato.

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XII Prefazione

di Milano uno fra i primissimi dipartimenti dedicati a combattere il dolore e incentivarono l’impegno nel promuovere iniziative legislative a favore dei malati terminali. Vittorio portò dagli Stati Uniti l’esperien-za di una scuola già consolidata con entusiasmo fece nascere quasi dal nulla la Società Italiana di Cure Palliative, trovando al suo fianco due preziosi alleati, l’Ingegner Virgilio Floriani e sua moglie che, con la loro Fondazione, si dedicarono all’assistenza delle persone in fine vita.

Ispirandosi al modello britannico, le cure palliative sono riuscite ad adattarsi alle diversità culturali e sociali del nostro Paese, crescendo sul piano della scienza e nelle capacità organizzative. Si è fatta ricerca; si sono create scuole di formazione; si è testimoniato un nuovo modo di fare medicina che oggi è entrato nelle università e nei collegi infer-mieristici; è stata modificata la legislazione sugli oppioidi, consenten-done una più facile prescrizione; sono stati stanziati finanziamenti per creare hospice in ogni Regione, è stato varato il progetto “Ospedale senza Dolore“ per ridurre la presenza della sofferenza soprattutto nei malati cornici e sono stati attivati programmi universitari di formazio-ne per medici specializzati in cure palliative.

Un cambiamento culturale resosi necessario e sollecitato anche dal-le cifre della sofferenza. Basti pensare che ogni anno in Italia muoiono di cancro duecentomila malati, ma se si conta anche chi sta loro accan-to – familiari, parenti, amici – le persone coinvolte in questo passaggio estremo sono più di mezzo milione, un esercito di afflitti bisognosi di aiuto.

Proprio in relazione a questo drammatico e doloroso panorama, si è ricominciato a parlare della morte, che ha perso la sua aurea di tabù indicibile, ma ancora oggi si trascura un aspetto fondamentale: assicu-rare al malato una morte in buone condizioni, sia che essa avvenga a casa o in ospedale, affinché anche in quest’ultimo passaggio non si per-da di vista la persona. Infatti, le cure di fine vita, tra le quali può e deve rientrare in certi casi anche l’eutanasia, devono essere non solo clini-camente appropriate, ma rispettose del diritto di morire con dignità.

Il senso di queste mie parole è pienamente descritto da Dino Buz-zati nel racconto I sette piani, nel quale attraverso la rappresentazione di alcune stanze definisce in maniera pregnante la condizione umana e del malato. Quando si è in buona salute, egli scrive, si abita a casa pro-pria e non si avverte il proprio corpo. La prima stanza estranea che un malato va ad abitare è una camera di passaggio, quella dove si viene ricoverati per essere operati, oppure sottoposti a cure per una malattia, una infezione. Questa stanza, dove il malato guarirà, è separata dalla vita che fuori scorre con quotidiana monotonia da una finestra da cui egli può vedere il colore del cielo, il sole, le nuvole, una rondine. I me-

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Prefazione XIII

dici e gli infermieri che lo curano sono valorizzati intellettualmente e moralmente: grazie a ciò che hanno appreso con lo studio sono in grado di guarire il malato. Poi c’è una seconda stanza, quella della ma-lattia cronica, dalla quale non si guarirà. Anche questa stanza possiede una finestra che si affaccia sulla vita, ma l’orizzonte si è ravvicinato, ha perso profondità. In questa stanza il paziente sarà medicato, potrà di quando in quando lasciarla, ma poi dovrà tornarvi e farvi dei soggior-ni più o meno frequenti; diventerà un pò la sua seconda casa. Infine il malato può occupare una terza stanza, all’interno della quale la malat-tia ha vinto. Tutto ciò che si può fare per lui, tutti gli anni che i medici hanno passato nelle università e tutti gli anni che gli infermieri hanno trascorso al capezzale dei pazienti non servono più a nulla. Clinica-mente, la malattia ha vinto. È in questo momento che la perdita di spe-ranza e la tentazione dell’abbandono, nomi nobili della viltà, possono impadronirsi del medico. Il malato vive in una stanza in cui c’è ancora una finestra, da cui può intravedere la vita, ma questa finestra non si aprirà più. Tuttavia, proprio in questa stanza in cui la malattia ha vin-to, il medico e l’infermiere devono riscoprire il loro ruolo millenario, che è quello di dare sollievo, di consolare, pensando che, se la guerra contro la malattia è perduta, può essere ancora vinta la battaglia per la salvaguardia della serenità del malato e della sua dignità.

In questa battaglia contro la malattia, dunque, la lotta al dolore as-sume una priorità, ma diventa un imperativo etico abbandonare trat-tamenti ormai inutili. È un fraintendimento pensare che l’abbandono delle cure mediche a favore delle cure di sollievo o palliative configuri la cosiddetta “eutanasia passiva”. In realtà si tratta di una restituzione del malato al naturale processo del morire. Un processo eticamente doveroso privare il malato di tutte le possibili sofferenze, anche se i mezzi usati dovessero avvicinare il momento della morte, se questa è la volontà del paziente. Nel rispetto al diritto di libertà, autodetermi-nazione e personalità che la malattia ed il dolore non devono alienare.

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IntroduzIone

Che Cosa è Il dolore? Per molto temPo è stato un InevItabIle sIntomo dI molte PatologIe

Il concetto di dolore si è evoluto negli anni: da realtà riservata soprat-tutto ai malati terminali, è oggi considerato una “malattia nella ma-lattia”. Da sconosciuto, di cui tutti parlavano senza fare nulla o molto poco, è diventato un fenomeno che si può controllare e di cui prendersi cura. Questa esperienza comune tra le persone malate ha caratteristi-che altamente personali e individuali. Soprattutto il dolore cronico, che colpisce il fisico ma anche l’“anima”, spesso difficile da identificare, nonché persistente nel tempo, generato da più cause e con un forte impatto a livello psicologico.

Se ci viene chiesto di dare una definizione di dolore, spesso si risponde spontaneamente che è un campanello d’allarme che mette in guardia il corpo sulla presenza di stimoli pericolosi, o potenzialmente tali, pre-senti nell’ambiente o nell’organismo stesso. È infatti vero che di fronte a un insulto o a un danno a carico di un tessuto, appositi recettori (no-cicettori) dedicati a rilevarlo e posti alla periferia, si attivano e trasmet-tono l’impulso al nostro sistema nervoso centrale: dall’integrazione di questi vari passaggi scaturisce la sensazione dolorosa percepita dal paziente. A definire pertanto il dolore come un segnale che fa scattare un sistema di protezione non si commette un errore, ma si coglie solo un aspetto di questo sintomo, quello più utile, lo stesso che fa ritrarre la mano dal fuoco o lanciare un urlo quando ci si taglia. Senza volerlo, ci si è riferiti al dolore acuto, che ha la funzione di avvisarci quando sopraggiunge un trauma o una lesione al corpo, che è di solito ben localizzato e dura alcuni giorni diminuendo via via con la guarigione: curarlo non è un problema perché le opzioni terapeutiche sono tante ed efficaci. Ma il dolore non è solo questo. Una definizione più com-pleta l’ha data per la prima volta l’International Association for the Study of Pain (IASP) nel 1986. Eccola: “un’esperienza sensoriale ed emotivamen-

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2 IntroduzIone

te spiacevole associata a un effettivo o potenziale danno tissutale, o descritta come tale”. In altre parole, è una risposta individuale e soggettiva, nella quale si integrano fattori fisici, psichici, culturali, ambientali, affettivi e religiosi, che ne modulano l’entità e le caratteristiche: di fronte allo stesso stimolo pericoloso per la nostra integrità psico-fisica non rispon-diamo, dunque, allo stesso modo.

Il dolore CronICo

Accade spesso che il dolore sia duraturo perché lo stimolo dannoso persiste o perché subentrano fenomeni di automantenimento che lo fanno percepire nonostante la causa scatenante sia tenuta sotto con-trollo. È il dolore cronico, definito tale nelle sofferenze che durano più del previsto e sono correlate a patologie progressive non neoplastiche: esso si accompagna, infatti, soprattutto a malattie con un andamento cronico, come per esempio quelle reumatiche, ossee o metaboliche. La sua durata è imprevedibile e in alcuni casi può estendersi all’intera vita del paziente. La sua intensità è variabile, anche se solitamente tende ad aumentare con il passare del tempo. Stabilirne con precisione la causa scatenante è spesso particolarmente difficile, poiché la sua insorgen-za deriva di solito da una concomitanza di fattori. Il dolore cronico può avere inizio da una malattia o da un trauma, persistere per via dello stress, di problemi emotivi o cure sbagliate, oppure non essere riconducibile a nessuna causa nota. Di certo la sua presenza continua impregna l’esistenza di una persona perché innesca un circolo vizioso: colpisce infatti il fisico ma anche la psiche promuovendo stati d’animo negativi, ansia e frustrazione, da cui spesso si originano depressione, fatica, disturbi del sonno e una riduzione delle facoltà intellettive. Da sintomo, si trasforma in una vera e propria malattia capace d’influen-zare notevolmente la sfera psicologica e sociale, provocando un impat-to importante sulla qualità della vita. Il dolore cronico è dunque dolore fisico ma anche dolore dell’anima. Una persona con un disturbo cura-bile ma inguaribile è come se fosse due volte malata: deve far fronte alla sua malattia ma anche a quella nuova fragilità psicologica portata dal pensiero di non potersi più liberare dalla fonte della propria sof-ferenza. Ha quindi sia una malattia intrinseca, cioè quella che ogget-tivamente ha colpito uno dei suoi organi o apparati, sia una malattia estrinseca, sopraggiunta con la consapevolezza di non poter arrivare a una definitiva guarigione, che gli dà angoscia, frustrazione e un senso più precario della vita. Nel momento in cui ha incontrato il “male” fisi-co ha iniziato a essere anche un paziente cronico e a vivere un doppio

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IntroduzIone 3

stress: quello dettato dalla scoperta di avere un disturbo che necessita di cure continue e di controlli puntuali, e quello dovuto alla sofferen-za derivata dalla consapevolezza dell’inesorabile perdita della propria salute. È tuttavia un errore pensare che se la malattia che causa il do-lore non si può curare, non può esserlo neppure il dolore. Così come il trattamento della patologia originaria richiede l’intervento dello spe-cialista, anche quello del dolore necessita dell’intervento dello specia-lista in terapia del dolore che sappia somministrare farmaci analgesici appropriati, compresi gli oppiacei, ma anche gestirlo sotto il profilo psicologico favorendo l’integrazione sociale e, soprattutto, curarlo.

Il dolore da CanCro

Esiste inoltre un tipo di dolore che può unire sia quello acuto sia quello cronico: è il dolore da cancro definito “inutile” perché è fine a se stesso. Non ha infatti quella valenza di segnale che spinge a promuovere com-portamenti diversi per salvarsi da una sofferenza ancora più forte: fa solo chiudere in se stesso chi lo subisce e allontanare chi lo osserva, raf-forzando il cerchio della solitudine. Per questo motivo non deve essere accettato ma contrastato con qualsiasi mezzo e al più presto: secondo una regola biologica, infatti, la sofferenza incide un solco nel nostro cervello e tutte le volte che si ripresenta viene vissuta dalla persona malata come un drammatico ricordo.

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Parte Prima

PRIMA DELLA LEGGE, UNA SITUAZIONE DI OGGETTIVO ARRETRAMENTO

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L’inizio deLLa battagLia di “pensiero” 7

CaPitolo 1

l’inizio della battaglia di “Pensiero”

La presa di coscienza del dolore passa attraverso le cure palliative indiriz-zate ai malati terminali, volte a garantire una dignità di fine vita. Avviata a Milano agli inizi degli anni ’70 per iniziativa di pochi, ha avuto tra i suoi primi alleati la Fondazione Floriani, la Società Italiana di Cure Palliative, la European Association for Palliative Care (EAPC), la Federazione Italiana Cure Palliative e il volontariato: il supporto legislativo e i finanziamenti per rendere operative le cure palliative e promuoverne la diffusione sono stati più lenti ad arrivare. La loro storia, complessa e fatta di piccoli progressi stemperati negli anni, s’intreccia con quella della cura del dolore destinata a diventare nel tempo una sfida italiana ed europea.

1.1 Quando la teraPia del dolore si sovraPPoneva alle Cure Palliative

L’attenzione al dolore ha cominciato a svilupparsi grazie a un ristret-to nucleo di medici, infermieri e operatori sanitari provenienti dall’I-stituto Nazionale dei Tumori (INT) di Milano, che ha gettato le basi di un’innovativa medicina capace di trattare le sofferenze fisiche e psicologiche dei malati di cancro. È da questo privilegiato punto di osservazione che le cure palliative hanno preso avvio in mezzo a non poche resistenze politiche e culturali. L’aggettivo “palliativo” con cui venivano indicate si rifaceva al termine latino pallium, che significa mantello, per sottolineare l’avvolgente presa in carico, proprio come un mantello, del dolore del malato con terapie mediche e psicologi-che. L’inutilità del dolore da cancro, considerato una sofferenza fine a se stessa perché priva del ruolo di campanello d’allarme, e la sua insopportabilità, unite all’elevata incidenza e mortalità della malattia neoplastica in quegli anni, hanno spinto l’oncologo Umberto Verone-si, a quel tempo direttore generale dell’INT dal 1975, e l’anestesiologo professor Vittorio Ventafridda, responsabile del Servizio di Terapia del Dolore e di Cure Palliative e direttore scientifico della Fondazio-

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ne Floriani, a intraprendere una personale battaglia contro il dolore neoplastico. Il professor Ventafridda, portando dagli Stati Uniti l’e-sperienza di una scuola già consolidata sul dolore, fondò nel 1986 la Società Italiana di Cure Palliative. Dall’impegno di questi due clinici e con l’aiuto di altri colleghi, venne istituita anche la European Asso-ciation for Palliative Care volta a diffondere le cure palliative in Euro-pa. Le cure palliative, che racchiudevano in sé il concetto di terapia del dolore, hanno cominciato a organizzarsi negli anni ’80 con l’aiuto anche della Fondazione Floriani, nata nel 1977 con il preciso scopo di diffonderle e applicarle ai pazienti in fase terminale. Sono state tuttavia recepite dal Governo e prese in considerazione dalle isti-tuzioni solo negli anni ’90, grazie alla spinta delle organizzazioni non profit e degli stimoli provenienti dalle realtà internazionali più all’avanguardia della nostra in materia di assistenza. Da allora, l’o-pinione pubblica ha cominciato a far entrare nel proprio vocabolario le parole “cure palliative” e a familiarizzare anche con la cura della sofferenza.

1.2 i Pregiudizi Più tenaCi da sfatare

L’idea di indire una vera e propria lotta al dolore è nata, dunque, circa 50 anni fa dalla consapevolezza di alcuni medici illuminati di trovarsi di fronte a una duplice realtà: essi constatavano da un lato una glo-bale arretratezza di pensiero nel considerare il dolore e dall’altro una mancata occasione di poterlo alleviare con farmaci oppiacei idonei a combatterlo. La maggior parte dei malati e dei loro familiari aveva infatti un atteggiamento di passiva accettazione della sofferenza, in-terpretata il più delle volte come una punizione o un fenomeno ine-luttabile contro cui non bisognava ribellarsi, mentre i medici vivevano la sua insorgenza come una sconfitta professionale oltre che umana. Sugli oppiacei gravavano inoltre una serie di pregiudizi, primo tra tutti quello secondo il quale questi farmaci davano tolleranza, deter-minavano cioè una sorta di assuefazione dell’organismo al farmaco e la necessità di aumentare la dose per avere gli stessi benefici, nonché quello di sviluppare dipendenza, cioè il bisogno di un uso continuo per evitare crisi d’astinenza da brusca sospensione del farmaco e il de-siderio fortissimo di assumerli per ottenere effetti psicotropi. Sebbene la tolleranza non si sviluppi in modo rapido e si verifichi solo dopo una somministrazione prolungata nel tempo e la dipendenza sia un fenomeno raro, questi farmaci rimanevano nell’immaginario colletti-vo sostanze associate alla criminalità e all’abuso: una reputazione che

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L’inizio deLLa battagLia di “pensiero” 9

non giovava certo a dar loro un ruolo terapeutico. In più, la maggior parte dei pazienti e dei medici temeva i suoi effetti collaterali, qua-li per esempio sonnolenza, stato confusionale e stitichezza. Forte era pertanto la tendenza a privilegiare i farmaci antinfiammatori non ste-roidei (FANS), come per esempio l’acido acetilsalicilico, che agiscono a livello periferico dove si origina di solito lo stimolo doloroso: dotati di attività antinfiammatoria, antipiretica e analgesica erano considera-ti la terapia di prima scelta per controllare il dolore di intensità lieve-moderata.

1.3 gli oPPiaCei e la loro aCCettazione da Parte dei CliniCi

1.3.1 A livello mondiAle…

Il primo riconoscimento dell’utilità degli oppiacei nel combattere la sofferenza è arrivato nel 1961, quando i trattati internazionali sul controllo dei narcotici hanno sottolineato che le politiche nazionali dovevano riconoscere che gli analgesici oppiacei erano necessari per contrastare il dolore: un appello che rimase per lo più inascoltato, dato che molte leggi nazionali ne impedivano ancora l’utilizzazione pratica. Un ulteriore passo avanti è stato tuttavia compiuto nel 1969, quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha modificato ufficialmente la sua posizione sull’uso in clinica della morfina, scagio-nandola dall’accusa di dare tolleranza e dipendenza fisica. Le porte erano pertanto aperte per un’altra svolta, avvenuta nel 1986 sempre a opera dell’OMS, che proponeva per alleviare il dolore da cancro l’impiego della cosiddetta Scala Analgesica a tre gradini che preve-deva l’uso di tre categorie di farmaci: non oppioidi, oppioidi deboli per il dolore moderato e oppioidi forti per il dolore moderato-severo. Questi farmaci venivano usati seguendo un approccio progressivo e sequenziale: il primo gradino era rappresentato dai farmaci non op-pioidi, il cui prototipo erano l’aspirina e il paracetamolo, i quali, se insufficienti, venivano sostituiti da un oppioide debole per dolori di media entità come la codeina e il tramadolo. Se anche quest’ultimo trattamento risultava inefficace, l’oppioide debole veniva sostituito con un oppioide forte. Essi potevano essere integrati o meno da far-maci adiuvanti in ciascuno dei tre gradini e da terapie non farma-cologiche ma fisioterapiche, psicologiche e antalgiche invasive come infiltrazioni e neuromodulazioni. L’uso di questa strategia terapeuti-ca aveva dato tuttavia i suoi frutti. Come risulta dai dati della lette-ratura, un controllo soddisfacente del dolore si era ottenuto a livello

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10 prima deLLa Legge, una situazione di oggettivo arretramento

mondiale su oltre il 70% dei casi riportati nelle vecchie casistiche e su circa il 95% in quelle più recenti (tratto dall’opuscolo “Approccio globale al dolore cronico”).

1.3.2 …. e in itAliA

Fino al 2001 gli oppiacei usati nella terapia del dolore ricadevano nel-la stessa disciplina degli altri farmaci stupefacenti. Erano pertanto di-spensabili utilizzando una speciale ricetta ministeriale, valida per 10 giorni e distribuita dagli Ordini Provinciali dei Medici e Veterinari, che dava la possibilità di prescrivere una sola preparazione o un dosag-gio per la cura di durata non superiore agli 8 giorni. In caso di errori erano inoltre previste sanzioni penali. Per colpa di questo ricettario complicatissimo e per l’eccessiva rigidità delle disposizioni normative, i medici prescrivevano con difficoltà gli oppiacei e con troppa facilità gli altri farmaci analgesici.

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Capitolo 2

il 2001: l’anno delle prime svolte Culturali

Il 2001 è stato l’anno in cui in Italia si è iniziato a prendere coscienza della sofferenza dei malati e a ricercare una soluzione che potesse dare loro dignità. La legislazione sugli oppiacei è stata modificata all’insegna di una più faci-le prescrizione. Sono stati stanziati finanziamenti per creare hospice in ogni regione. È stato varato il progetto “Ospedale senza Dolore” per ridurre la sofferenza soprattutto dei malati di cancro ospedalizzati. Nonostante queste innovazioni, la prescrizione di farmaci oppiacei nel nostro Paese continuava a incontrare resistenze da parte dei medici.

2.1 le prinCipali tappe normative su riCette e oppiaCei

Nel periodo in cui è stato Ministro della Salute il professor Umberto Veronesi (aprile 2000-giugno 2001) sono stati approvati diversi prov-vedimenti. Tra questi la legge n. 12 dell’8 febbraio 2001, contraddi-stinta da un titolo pieno di speranza: “Norme per agevolare l’impiego dei farmaci analgesici oppiacei nella terapia del dolore”. Messa a punto da un gruppo ministeriale interno alla Commissione Unica del Farmaco (CUF) quando erano Ministri della Sanità Rosy Bindi e poi Umberto Veronesi, e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 41 del 19 febbraio 2001, ha di fatto introdotto sostanziali modifiche al D.P.R. n. 309/90 che disciplinava i farmaci stupefacenti. Individuava i farmaci per la terapia del dolore e li elencava in uno specifico allegato (Allegato III-bis): essi erano buprenorfina, codeina, diidrocodeina, fentanil, idro-codone, idromorfone, metadone, morfina, ossicodone, ossimorfone. Successivi decreti e circolari hanno arricchito il testo originario del-la normativa. Uno di questi, il Decreto del Ministero della Sanità del 24 maggio 2001, ha introdotto nuove regole per la prescrizione dei farmaci oppiacei indicati e dettato regole per il loro approvvigiona-mento da parte dei medici. Un’ulteriore agevolazione per i pazienti è arrivata con la legge n. 405 del 16 novembre 2001, che ha concesso i farmaci antidolore nell’ambito dell’assistenza domiciliare integrata.

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12 Prima della legge, una situazione di oggettivo arretramento

Queste disposizioni normative nel loro complesso portavano alle se-guenti innovazioni:

– i farmaci oppiacei, elencati nell’Allegato III-bis, potevano essere consegnati anche dagli operatori sanitari al domicilio del paziente dietro dichiarazione sottoscritta del medico di Medicina Generale, di continuità assistenziale od ospedaliera che ne specificava la po-sologia e l’uso nell’assistenza domiciliare;

– le ricette, sebbene fossero sempre a ricalco, da compilare in duplice copia per i farmaci non forniti dal SSN e in triplice copia per quelli forniti dal SSN, permettevano di prescrivere più oppiacei (due pre-parazioni o dosi invece di una) e di allungare la durata della terapia da 8 a 30 giorni;

– i medici dovevano tenere un registro delle prestazioni effettuate con tali farmaci di cui si potevano approvvigionare mediante au-toricettazione per uso professionale urgente, una copia della quale doveva tuttavia essere conservata per due anni;

– i pazienti in dimissione dal ricovero ospedaliero potevano ricevere direttamente dalla struttura sanitaria i farmaci necessari per il pri-mo ciclo di terapia di 30 giorni in regime di fornitura a carico del SSN.

2.2 l’indagine multiCentriCa su 4.000 riCoverati: dati allarmanti

Oltre a rendere più accessibili i farmaci oppiacei, vi era la necessità di abbassare le barriere ideologiche a essi contrarie e di superare il rifiuto per principio. In altre parole, c’era bisogno di aumentare la sen-sibilità verso il dolore sia tra gli operatori sanitari che ancora troppo spesso lo sottovalutavano, sia tra i cittadini fruitori dei servizi sanitari del Paese che lo consideravano un evento ineluttabile. Negli ospedali la sua prevalenza (presenza del dolore in un determinato periodo di valutazione) restava elevata e superava in alcuni casi addirittura il 90% dei ricoverati: il suo controllo non costituiva una priorità ed era ritenuto secondario rispetto alla malattia primaria da cui era afflitto il paziente. A sottolineare il bisogno di una maggiore attenzione verso il dolore nelle corsie, è stato uno studio eseguito in Liguria su oltre 4.000 ricoverati. I risultati, resi noti all’incontro “Forum one dolore” tenuto-si a Cernobbio, hanno messo in evidenza come il 50% dei partecipan-ti alla ricerca avesse sofferto nelle ultime 24 ore di ricovero e il 15% avesse dichiarato che il proprio dolore non era stato trattato sufficien-temente. A questo studio si è aggiunta poco dopo la prima indagine

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il 2001: l’anno delle Prime svolte culturali 13

multicentrica italiana sul problema dolore realizzata da un gruppo di 20 ospedali che, aderendo alla campagna internazionale “Verso l’O-spedale senza dolore” indetta dall’Organizzazione Mondiale della Sa-nità (OMS), si proponeva di conoscere quanti malati avessero la per-cezione del dolore e quanto gli operatori sanitari sapessero trattarlo. Con tale scopo era stato fatto compilare un questionario a circa 4.000 pazienti ricoverati di età superiore a 6 anni. I risultati ottenuti erano stati alquanto preoccupanti: 9 ricoverati su 10 accusavano una qual-che forma di dolore e quasi la metà lo avvertiva al limite della propria sopportabilità. Dolore che arrivava a livelli elevati sia nei reparti me-dici sia in quelli chirurgici, era sopportato meglio dalle donne rispetto agli uomini, raggiungeva la sua massima intensità prima dei 14 anni e dopo i 75 anni e nel 15% dei ricoverati persisteva per più di 3 mesi. Il dolore percepito dai pazienti non era tuttavia riconosciuto corretta-mente dalla maggior parte degli operatori sanitari. Meno di un terzo dei ricoverati riceveva infatti una cura contro il dolore. Nonostante il 90% dei malati soffrisse di un dolore risolvibile, solo il 28% dei casi era trattato con oppiacei, in particolare con la morfina. Solamente nel 6,2% dei partecipanti all’indagine il dolore era controllato con analge-sici somministrati a orario fisso, oltre che su richiesta del malato, vale a dire con modalità semplice e meglio rispondente alle esigenze del singolo paziente.

2.3 il progetto “ospedale senza dolore”

È da questa realtà che il Ministero della Salute ha preso spunto per isti-tuire, con il decreto del 20 settembre 2000, una Commissione di Studio per elaborare le Linee Guida inerenti al progetto “Ospedale senza Do-lore”, che si proponeva di promuovere un cambiamento di mentalità. Varato il 24 maggio 2001 con un accordo sancito tra il Ministero della Sanità, le Regioni e le province autonome, tale progetto aveva lo scopo di prendersi cura del dolore e della sofferenza modificando attitudini e comportamenti. Le Linee Guida, ispirate ad analoghi progetti inter-nazionali e istituzionalizzati di altri Paesi europei, erano state appro-vate dalla Conferenza Stato-Regioni il 29 giugno 2001 e affidate alle Regioni affinché fossero applicate. Esse dovevano consentire la realiz-zazione a livello regionale di progetti indirizzati al miglioramento del processo assistenziale rivolto al dolore, percorrendo le seguenti fina-lità: coinvolgere il personale predisposto all’assistenza nelle strutture sanitarie italiane affinché mettesse in atto tutte le misure possibili per contrastare il dolore di qualsiasi tipo, indipendentemente dalle cause

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14 Prima della legge, una situazione di oggettivo arretramento

che lo determinavano e dal contesto di cura; fare in modo che il dolo-re fosse costantemente misurato alla pari degli altri parametri vitali, quali frequenza cardiaca, pressione arteriosa e temperatura corporea; provvedere all’educazione e alla formazione continua del personale di cura operante nelle strutture sanitarie nonché all’informazione e sen-sibilizzazione della popolazione. Le Linee Guida avrebbero dovuto dare indicazioni ai responsabili legali di ciascuna Struttura Sanitaria di ricovero e cura (Aziende Ospedaliere, IRCCS, Strutture accredita-te, Policlinici universitari etc.) per l’istituzione al loro interno di un Comitato per l’Ospedale Senza Dolore (COSD), formato da referenti della direzione aziendale, personale curante dell’ospedale tra cui gli infermieri (almeno un terzo dei membri), operatori delle Strutture di Terapia del Dolore e/o Cure Palliative nonché di Anestesia e Riani-mazione e da un referente del Servizio Farmaceutico. Erano previsti anche rappresentanti delle Organizzazioni non profit in particolare del volontariato. Sulla base di linee comuni stabilite a livello nazionale e regionale, ciascun COSD avrebbe dovuto sviluppare azioni finalizzate alla diminuzione del dolore dei pazienti ricoverati secondo i seguenti criteri:

– promuovere un’educazione continua del personale sui principi di trattamento, sull’uso dei farmaci e sulle modalità di valutazione del dolore: lo stato delle conoscenze sul dolore del personale curante andava infatti esaminato, i principali bisogni di formazione indivi-duati e le attività formative programmate;

– creare un osservatorio specifico del dolore nella struttura sanitaria;– monitorare i livelli di applicazione delle Linee Guida e la valuta-

zione di efficacia: il dolore doveva essere misurato all’inizio del ri-covero (misura di base) e durante la degenza ospedaliera mediante strumenti di facile somministrazione e validati in lingua italiana, quali righelli, scale analogiche, verbali, a colori; ogni ospedale po-teva scegliere quelli ritenuti più adatti. La rilevazione del dolore doveva essere inserita tra le competenze dell’infermiere, e le sue caratteristiche e l’evoluzione durante il ricovero riportate nella car-tella clinica;

– promuovere l’elaborazione e la distribuzione ai cittadini di mate-riale informativo relativo alla cura del dolore: materiale illustrativo doveva essere consegnato al paziente al suo ingresso in reparto e distribuito nella struttura sanitaria. Cartelloni che riportavano, tra l’altro, la scala dell’OMS di somministrazione dei farmaci analgesici dovevano essere per esempio appesi nei punti di passaggio del per-sonale curante come i reparti e gli ambulatori.

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il 2001: l’anno delle Prime svolte culturali 15

2.4 nel 2003 si fa un triste punto della situazione

A due anni dall’approvazione della legge n. 12, pochi traguardi era-no stati tuttavia raggiunti. La prescrizione degli oppiacei era rimasta pressoché invariata: le confezioni erano passate da 2.850.000 nel 2001 a 3 milioni nel 2002 (da Corriere della Sera). Questi farmaci ricoprivano una quota di mercato assai modesta, complessivamente inferiore allo 0,3%, e di questa percentuale appena lo 0,06% era riferito alla vendi-ta di oppiacei forti consentiti dalla legge e rimborsati quali morfina, buprenorfina orale e fentanil TTS. La percentuale rimanente, pari allo 0,24% circa, apparteneva agli oppiacei deboli. Diversi oppiacei erano ancora in attesa di essere immessi sul mercato italiano. Le aziende far-maceutiche multinazionali erano infatti poco sensibili a commercializ-zare in Italia, dato lo scarso giro d’affari che muovevano. La situazione rimaneva ancora a livelli molto arretrati rispetto alla realtà internazio-nale e le ragioni erano diverse. I ricettari semplificati per la prescrizio-ne degli oppiacei erano arrivati in ritardo alle ASL e la loro distribuzio-ne aveva impiegato un anno per essere completata. La responsabilità principale era stata della Zecca di Stato, impegnata nella stampa della moneta europea. Si era dovuto pertanto aspettare marzo 2002 perché il Poligrafico dello Stato provvedesse a inviare alle Regioni i 200 mila ri-cettari previsti, integrati con altri 50 mila nei mesi successivi, sufficienti per i 300 mila medici italiani. Una volta disponibili, pochi medici erano tuttavia andati a ritirarli, in media il 30%, con oscillazioni che andava-no dal 5 al 50% a seconda delle Regioni. Il progetto “Ospedale senza Dolore” aveva avuto anch’esso uno scarso successo. Nessuna Regione aveva di fatto emesso delle normative per concretizzarlo e per attuare le sue Linee Guida. Gli Ospedali senza Dolore istituiti erano il frutto dell’impegno di pochi medici ospedalieri che avevano convinto le am-ministrazioni delle proprie strutture a rendere operativa l’iniziativa. Di fatto, in Italia si contavano pochi Ospedali senza Dolore: c’era dunque un solco profondo tra i dettami delle leggi e la realtà.

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Capitolo 3

l’indagine Pain in EuroPE

La più vasta ricerca sul dolore cronico mai realizzata in Europa metteva il dito nella piaga: nel nostro Paese, la sofferenza cronica teneva in ostaggio il 26% della popolazione e la terapia del dolore era inadeguata in oltre la metà dei casi. L’indagine evidenziava inoltre un bassissimo consumo pro-capite di oppiacei maggiori e un minor numero di farmaci disponibili sul mercato rispetto all’Europa.

3.1 l’italia e il dolore: una situazione anomala rispetto all’europa

Il dolore era ancora un rilevante problema di salute pubblica in Italia. In particolare il dolore cronico affliggeva 15 milioni di nostri connazio-nali. A rivelarlo era stata l’indagine Pain in Europe, condotta dal 2002 al 2003 da NFO WorldGroup e sponsorizzata da Mundipharma Inter-national Limited, che aveva dato per la prima volta una dimensione alla prevalenza della sofferenza cronica in Europa, definito il suo re-ale impatto sulla vita di tutti i giorni, sull’economia e sulla società, e indagato sul trattamento a essa riservato. I suoi contenuti erano stati pubblicati da H Breivik, B Collett, V Ventafridda, R Cohen, D Gallacher sullo European Journal of Pain (2006, pagg. 287-333). L’indagine aveva coinvolto 46 mila malati, appartenenti a 15 nazioni europee più Isra-ele, che avevano risposto a un’intervista telefonica computerizzata di screening: il dolore di origine non oncologica doveva avere una durata di oltre 6 mesi e un’intensità pari a 5 o più secondo una scala numerica che andava da zero (corrispondente a nessun dolore) a dieci (corrispon-dente al massimo dolore). I risultati ottenuti avevano dimostrato come il nostro Paese non reggesse il confronto con gli altri Paesi europei in materia di sofferenza. Sebbene il dolore cronico fosse diffuso in tutta Europa con una prevalenza media del 19%, in Italia colpiva il 26% della popolazione. Da noi la situazione era particolarmente allarmante: se in Europa 1 paziente su 5 soffriva di dolore cronico, nel nostro Paese

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18 Prima della legge, una situazione di oggettivo arretramento

questa proporzione era di 1 a 4. In altre parole, la metà delle nostre fa-miglie aveva almeno un componente affetto da dolore cronico. Ma chi erano questi malati? Nel 56% dei casi erano donne di cui il 62% di età pari o inferiore a 50 anni. A scatenare la sofferenza era l’artrosi/artrite nel 45% dei casi, seguita dall’ernia del disco (12%), dalle lesioni trau-matiche (10%) e dall’artrite reumatoide (8%). Il dolore veniva descritto come costante nel 32% dei pazienti e più della metà ne soffriva quoti-dianamente (59%). Anche la sua durata era più lunga: da noi i pazienti soffrivano di dolore in media 7,7 anni contro una media europea di 7 anni e ben il 46% lo sopportava da più di 10 anni. La sua intensità era inoltre più elevata: il 43% dei nostri pazienti dichiarava di provare un dolore intenso contro una media europea del 34%. Per non parlare poi dell’impatto registrato sulla qualità della vita e delle difficoltà econo-miche che comportava: il 22% dei nostri “malati di dolore” andava in-contro a una forma di depressione e ogni anno ciascuno di loro perdeva 15 giorni di lavoro.

3.2 la ristretta rosa degli analgesiCi usati nel nostro paese

Il dolore cronico era anche sotto trattato: oltre la metà dei pazienti italiani non praticava alcuna terapia contro il dolore rispetto al 31% di quelli europei, mentre il 55% dei nostri connazionali aveva iniziato e poi interrotto i farmaci prescritti per il dolore rispetto alla media europea del 26%. In conclusione, in Italia solo il 22% dei malati as-sumeva regolarmente farmaci prescritti, cioè la metà rispetto al resto d’Europa che si assestava sul 52%. Ma quali principi attivi veniva-no loro somministrati? Soprattutto gli antinfiammatori non steroidei (FANS), prescritti dai nostri medici nel 68% dei casi, rispetto al 44% dei loro colleghi europei: tra questi il paracetamolo era utilizzato solo nella proporzione di un terzo (6%) rispetto al consumo medio euro-peo (18%), mentre gli inibitori della Cox-2 erano prescritti in quantità leggermente maggiore (7%) rispetto al resto d’Europa (6%). Gli op-piacei deboli erano invece molto meno usati: appena il 9% dei nostri pazienti li assumeva contro il 18% di quelli europei. In Italia nessuno riceveva gli oppiacei forti per controllare il dolore cronico, mentre in Europa venivano usati in media nel 5% dei casi, con realtà che raggiungevano anche il 10% in Danimarca, Regno Unito e Irlanda. L’indagine Pain in Europe aveva dunque portato alla luce una situa-zione alquanto critica: nel nostro Paese i FANS erano sovrautilizzati e la morfina e i suoi derivati non venivano mai usati per il trattamen-to del dolore cronico non neoplastico. C’era dunque un larghissimo

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l’indagine Pain in EuroPE 19

margine da colmare, in cui metodi, trattamenti e modelli efficaci già esistenti potevano trovare posto per migliorare la vita di un’enorme quantità di persone.

3.3 il deCreto del ministro della salute del 4 aprile 2003

L’Italia si poneva in coda agli altri Paesi europei per il più basso tasso di prescrizione degli oppiacei registrato: a seguire vi erano solo la Po-lonia e la Norvegia rispettivamente con il 27% e il 30%. La terapia del dolore rientrava ancora nelle aree terapeutiche definite “orfane”. Un ulteriore passo avanti era stato tuttavia fatto con il Decreto del Mini-stro della Salute del 4 aprile 2003 che aveva facilitato ulteriormente la loro prescrizione: oltre a introdurre la possibilità di inserire il dosaggio del medicinale, la posologia e il numero di confezioni utilizzando i caratteri numerici e le normali abbreviazioni, eliminava l’obbligo di in-dicare l’indirizzo di residenza del paziente e, per il prescrittore, di con-servare per sei mesi la copia della ricetta a sé destinata. Per informare gli operatori sulle novità introdotte da tale DM, erano state inviate let-tere ai medici e la circolare esplicativa “I farmaci analgesici oppiacei nella terapia del dolore” alle Regioni, alle Federazioni degli Ordini dei Medici, Veterinari e Farmacisti. Grazie anche a questa iniziativa la terapia del dolore aveva avuto un incremento del 219,2%: nel 2001 era assicurata solo in 2 centri su 10, mentre nel 2003 ben 7 strutture su 10 erano dotate di un servizio dedicato alla terapia del dolore da cancro. Le quantità prescritte di analgesici oppiacei erano aumentate di +33,2% nel 2003 ri-spetto al 2002: un incremento attribuito per la maggior parte al fentanil transdermico (+50,3%) e in maniera più limitata alla morfina (+11,1%). In una comunicazione della redazione del sito ministerosalute.it del 27 maggio del 2004 si leggeva che “….l’aumentata prescrizione di morfina era da considerarsi confortante, poiché il suo consumo pro-capite è considerato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità un indicatore primario della qua-lità della terapia del dolore”.

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Capitolo 4

la gratuità dei farmaCi anti-dolore

4.1 i nuovi sCenari e i fondamenti del servizio sanitario nazionale

Il quadro politico e istituzionale stava cambiando. Le modifiche legi-slative al titolo V della parte seconda della Costituzione intervenute nel 2001 e l’approvazione del Disegno di Legge sulla devoluzione con i conseguenti nuovi poteri attribuiti alle Regioni avevano determina-to importanti trasformazioni nella sanità italiana. La missione del Mi-nistero della Salute si era pertanto modificata in modo significativo, passando da “pianificazione e governo della sanità” a “garanzia della salute”.

L’accordo Stato-Regioni dell’8 agosto 2001 aveva disegnato un buon modello di collaborazione tra lo Stato e le Regioni che andava a costituire un prototipo di ogni futura iniziativa in sanità, in grado di prevenire i conflitti istituzionali e di garantire ai cittadini una sinergia tra le istituzioni, preziosa per mettere in pratica il principio di sussidia-rietà che si avvale della partecipazione di diversi soggetti alla gestione dei servizi, ritenuto il fondamento su cui basare le attività d’interesse pubblico.

La legge costituzionale dedicata alle “Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione”, varata dal Parlamento l’8 marzo 2001 e ap-provata con referendum confermativo il 7 ottobre 2001, stabiliva i prin-cipi che regolavano le nuove competenze dello Stato e delle Regioni in materia di sanità. Allo Stato spettava in modo esclusivo la determina-zione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, fer-ma restando la tutela della salute che la Repubblica garantisce ai sensi dell’articolo 32 della Costituzione. In altre parole, lo Stato formulava i principi fondamentali ma non interveniva su come tali principi e obiet-tivi sarebbero stati attuati, perché ciò diventava competenza esclusiva delle Regioni.

Poiché la funzione dello Stato in materia di sanità si era trasformata passando da quella di organizzatore e gestore dei servizi a quella di ga-

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22 Prima della legge, una situazione di oggettivo arretramento

rante dell’equità sul territorio nazionale, anche i compiti del Ministero della Salute erano stati rivisitati e ricondotti a:

– garantire a tutti l’equità del sistema, la qualità, l’efficienza e la tra-sparenza anche con una comunicazione corretta e adeguata;

– evidenziare le diseguaglianze e le iniquità, e promuovere le azioni correttive e migliorative;

– collaborare con le Regioni a valutare e migliorare le realtà sanitarie;– tracciare le Linee Guida dell’innovazione e del cambiamento, e

fronteggiare i grandi pericoli che minacciano la salute pubblica.

In questa transizione dalla “sanità” alla “salute”, anche i principi es-senziali su cui si fonda il Servizio Sanitario Nazionale erano andati incontro a un nuovo dettaglio comprendente:

– il diritto alla salute, che nella nuova visione costituiva un obiettivo prioritario;

– l’equità all’interno del sistema, che coinvolgeva l’accesso ai servizi, l’appropriatezza e la qualità delle cure;

– la responsabilizzazione dei soggetti coinvolti, fondamentale per promuovere concreti percorsi di salvaguardia delle garanzie;

– la dignità e il coinvolgimento di tutti i cittadini, un principio impre-scindibile che comprendeva anche la considerazione e l’attenzione per la sofferenza;

– la qualità delle prestazioni, necessaria per raggiungere elevati li-velli di efficacia ed efficienza dell’erogazione dell’assistenza e della promozione alla salute;

– l’integrazione socio-sanitaria;– lo sviluppo della conoscenza e della ricerca per vincere le sfide de-

rivanti da malattie attualmente non guaribili;– la sicurezza sanitaria dei cittadini.

Il raggiungimento di tutti questi obiettivi, poiché necessitava della mi-surazione e della valutazione comparativa dei risultati ottenuti, non poteva prescindere dalla disponibilità di strumenti di verifica del lavo-ro svolto e della qualità raggiunta nelle varie realtà.

4.2. il piano sanitario nazionale 2003-2005

Il mandato del ministro Girolamo Sirchia si inquadra pertanto in un periodo storico caratterizzato da un’ottica del tutto nuova e il Piano

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la gratuità dei farmaci anti-dolore 23

Sanitario da lui firmato, il primo a essere varato in uno scenario socia-le e politico radicalmente cambiato, ne era la conferma. La sua impo-stazione si era infatti trasformata, rispetto ai Piani precedenti, da atto programmatico per le Regioni in progetto di salute condiviso e attuato con le Regioni in modo sinergico e interattivo.

Esso si configurava come un documento di indirizzo e di linea cul-turale più che come un progetto che stabiliva tempi e metodi per il conseguimento degli obiettivi, in quanto questi aspetti operativi rien-travano nei poteri specifici delle Regioni cui il Piano era diretto e con le quali era stato costruito.

Nello specifico, il Piano Sanitario 2003-2005 si proponeva di per-seguire una migliore qualità dell’assistenza, un più razionale ed equo utilizzo delle risorse, un’omogeneità dei livelli di prestazione e d’inter-pretazione dei bisogni sanitari. Esso delineava pertanto gli obiettivi da raggiungere nel rispetto dell’accordo dell’8 agosto 2001 e in coerenza non solo con i Livelli Essenziali di Assistenza programmati, ma anche con gli obiettivi di salute dell’Unione Europea e delle altre organiz-zazioni internazionali quali l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e il Consiglio d’Europa: la competenza dell’Unione Europea in materia di sanità si era rafforzata con il Trattato di Amsterdam entrato in vigore nel 1999, secondo il quale il Consiglio dell’Unione Europea poteva adottare provvedimenti per fissare i livelli di qualità e sicurez-za per organi e sostanze di origine umana, sangue ed emoderivati, e misure atte a proteggere la sanità pubblica nei settori veterinario e fito-sanitario. I commi secondo e quarto dell’articolo 117 del titolo V della Costituzione affidavano, tra l’altro, nuove competenze alle Regioni in materia comunitaria sia nel momento di formazione degli atti norma-tivi comunitari, sia nell’attuazione ed esecuzione degli accordi interna-zionali e degli atti dell’Unione Europea.

L’efficacia del Piano Sanitario dipendeva, pertanto, da una produt-tiva cooperazione tra i diversi livelli di responsabilità volti a trasforma-re gli obiettivi in progetti e ad attuarli, a investire nella qualificazione delle risorse umane, ad adottare soluzioni organizzative e gestionali innovative ed efficaci, ad adeguare gli standard quantitativi e qualita-tivi e a garantire i Livelli Essenziali di Assistenza su tutto il territorio nazionale.

4.3 la terapia del dolore era anCora a CariCo delle Cure palliative

Nel Piano Sanitario 2003-2005 si parlava di formulare e di offrire un piano personalizzato di cura e assistenza al paziente terminale in

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24 Prima della legge, una situazione di oggettivo arretramento

modo da garantire la migliore qualità alla sua vita residua. Si era inol-tre consapevoli che la fase terminale provocava una sofferenza globale che andava ben oltre il dolore fisico e psichico avvertito dal paziente, in quanto coinvolgeva anche il nucleo familiare e quello amicale, e met-teva in crisi la rete delle relazioni sociali ed economiche del malato e dei suoi cari. Si era altresì consci che non era una caratteristica esclu-siva dei malati di cancro, ma rappresentava una costante anche tra i pazienti con malattie respiratorie, cardiocircolatorie, neurologiche e infettive.

Fino a che punto erano attuate le cure palliative nel nostro Paese? La maggior parte delle Regioni aveva provveduto a definire la pro-grammazione della rete degli interventi di cure palliative sebbene con modalità differenti. Molte avevano, per esempio, elaborato programmi regionali specifici, mentre altre avevano inserito lo sviluppo delle cure palliative all’interno di un più vasto programma di riorganizzazione della rete degli interventi domiciliari sanitari, socio-sanitari ed essen-ziali.

A quell’epoca mancava un modello di intervento di cure palliati-ve flessibile e articolabile in base alle scelte regionali, che garantisse a tutto il Paese una risposta ottimale ai bisogni della popolazione. Già si era tuttavia capito che il sistema a rete era il prototipo di assistenza che dava maggiori possibilità di integrazione tra i differenti modelli e livelli d’intervento, e tra i diversi e numerosi soggetti professionali coinvolti.

Al fine di promuovere la diffusione delle cure palliative, era per-tanto necessario non solo implementare la rete assistenziale e promuo-vere l’integrazione nella rete di cure palliative delle Organizzazioni non profit operanti nel settore attraverso la valorizzazione delle As-sociazioni di Volontariato, ma anche individuare precise Linee Guida in materia di terapia antalgica per prevenire gli abusi, orientare il me-dico nella prescrizione, attivare un sistema di valutazione, realizzare programmi di comunicazione e sensibilizzazione della popolazione e sostenere specifici programmi di ricerca.

Prioritaria era tuttavia la revisione di alcuni aspetti normativi ri-guardanti l’uso di farmaci antidolorifici, migliorando la disponibilità degli oppiacei, semplificando la prescrizione medica, prolungando il ciclo di terapia e rendendone possibile l’uso anche a domicilio. Il con-sumo degli oppiacei in Italia era, infatti, ancora inferiore agli standard europei per le difficoltà normative del nostro Paese, prive di una netta distinzione tra uso illecito e uso terapeutico delle droghe.

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la gratuità dei farmaci anti-dolore 25

4.4 l’aCquisto degli oppiaCei viene faCilitato

Proprio sulla burocrazia allora vigente per l’acquisto degli oppiacei ha lavorato il ministro Girolamo Sirchia, firmando un provvedimento che rendeva totalmente rimborsabili i composti e le associazioni di com-posti contro il dolore spostandoli dalla fascia C, totalmente a carico dei cittadini, alla fascia A. L’annuncio di questa modifica è stato dato dallo stesso Ministro durante un incontro organizzato a Milano dal-la Fondazione Floriani per la “Quinta Giornata Nazionale contro la sofferenza inutile della persona inguaribile – Estate di San Martino”. Nell’occasione di questa ricorrenza sono state consegnate al ministro Sirchia anche 80 mila firme di cittadini che chiedevano il suo impegno al progetto “Ospedale senza Dolore” per migliorare le cure domiciliari ai malati terminali.

Era l’11 novembre 2004 e la gratuità degli analgesici oppiacei sareb-be iniziata a partire dal 2005. I beneficiari dell’iniziativa non sarebbero stati solo i malati terminali, ma chiunque avesse una malattia che com-portasse dolore.

Sebbene il provvedimento allineasse l’Italia agli standard europei, molte lacune restavano irrisolte, come la scarsa formazione del per-sonale medico sulla terapia del dolore, la creazione di hospice ancora fermi a 80, la mancanza di un tariffario nazionale per le prestazioni domiciliari o in hospice.

Per risolvere alcuni di questi aspetti critici, il ministro Sirchia istituì la prima cattedra di Cure palliative presso la facoltà di Medicina e Chi-rurgia di Milano, prevedendo anche una formazione medica a distanza via internet per i medici di Medicina Generale.

4.5 l’abbaglio dell’avere le Carte in regola

Già alla fine del 2004 vi erano pertanto tutti gli strumenti legali, finan-ziari e burocratici per facilitare la reale applicazione della terapia del dolore. Lo stesso ministro Girolamo Sirchia, in una sua lettera riporta-ta sul portale del Ministero della Salute, riteneva che esistessero già le condizioni procedurali, d’informazione e di rimborso per consentire al medico di effettuare una cura del dolore acuto e cronico basandosi sulle conoscenze disponibili e sulle Linee Guida riconosciute a livello interna-zionale. Le sue considerazioni non erano infondate e l’Ims Mat di luglio 2005, che aveva confrontato l’andamento del mercato nazionale degli analgesici oppiacei con lo stesso mese dell’anno precedente, sembrava dargli ragione: le vendite facevano registrare un tasso di crescita del

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26 Prima della legge, una situazione di oggettivo arretramento

18%. Era questo un reale segno ottimistico che doveva far ben sperare in una maggiore diffusione del consumo di questi farmaci e in un’intensifi-cazione della loro richiesta? A una prima lettura la risposta sarebbe stata affermativa. Se tuttavia si analizzavano i dati in dettaglio, ci si accorgeva che la realtà non era così rosea come pareva di primo acchito.

4.6 il paradosso di un merCato insensibile alla sofferenza

È vero. C’era stato un boom di farmaci analgesici ma bisognava saper leggere i dati…In un mercato farmaceutico nazionale che registrava una spesa annua di oltre 14 miliardi e mezzo di euro (da Ims Mat luglio 2005), la spesa attribuita agli analgesici oppiacei risultava relegata allo 0,21%, pari a 30,419 milioni di euro. Per di più, in questa percentuale erano comprese anche le vendite di metadone, prevalentemente uti-lizzato per la disintossicazione dei tossicodipendenti. La ripartizione del mercato non deponeva a favore di un incremento degli oppiacei: dall’analisi quantitativa risultava per esempio che il fentanil TTS rap-presentava il 79,8% del mercato totale, la morfina il 12,8%, la bupre-norfina il 3,5%, il metadone il 2,3%, l’ossicodone l’1,2% e gli altri lo 0,4% (da Ims Mat luglio 2005). A dimostrazione del fatto che i numeri sono utili concettualizzazioni che spesso tuttavia non aiutano a com-prendere a fondo la realtà, c’erano anche i dati riguardanti la terapia del dolore emersi dal rapporto Audit civico 2004 curato da Cittadinan-zattiva: apprezzando che l’84,2% delle strutture sanitarie dichiarava di disporre di uno o più servizi di cure palliative o di terapia del dolore, si perdeva di vista il fatto che solo il 6,2% delle aziende ospedaliere era in grado di garantire cure palliative per tutti i livelli assistenziali. Allo stesso modo, considerando quel 37% di ospedali che aveva elaborato Linee Guida per fornire informazioni sul trattamento del dolore ai pa-zienti, non si metteva in luce che ben il 31,5% degli ospedali non uti-lizzava nessun protocollo in materia. Passando poi a soppesare i vari approcci impiegati per attuare la terapia del dolore, si comprendeva quanta strada ci fosse ancora da percorrere per gestirla al meglio: il 55% degli italiani la riteneva inadeguata e non assumeva o interrompe-va l’uso dei farmaci analgesici prescritti, rispetto a una media europea del 26%. Solo il 22% dei nostri connazionali assumeva regolarmente farmaci antidolorifici rispetto a una media europea del 52%, e di questi il 68% prendeva i FANS contro il 44% del resto degli Europei. In altre parole, nel nostro Paese si faceva ancora un uso eccessivo di FANS e un uso limitato di oppiacei che posizionava l’Italia all’ultimo posto per consumo in Europa.

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Capitolo 5

il white paper

Questo documento, firmato a livello europeo da François Grosset e introdotto in Italia dalla senatrice Manuela Baio e dal deputato Alberto Arrighi, ha sotto-lineato che il diverso accesso agli oppiacei dipendeva dal Paese in cui si viveva. La causa di questa disomogeneità d’uso risiedeva dunque nelle politiche dei governi delle singole nazioni.

5.1 l’unione fa la forza: l’importante ruolo di assoCiazioni, organizzazioni e soCietà sCientifiChe europee e internazionali nella lotta al dolore

A cominciare a ridurre quell’attitudine negativa nei riguardi degli op-piacei avevano contribuito non poco importanti organismi internazio-nali nel settore sanitario. L’International Association for the Study of Pain (IASP) aveva, per esempio, già riaffermato l’uso appropriato di que-sti farmaci, mentre la British Pain Society e l’Amsterdam Group avevano sviluppato direttive sul loro uso ottimale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), la European League Against Rheumatism (EULAR), la European Society for Medical Oncology (ESMO) e la European Asso-ciation for Palliative Care (EAPC) avevano redatto Linee Guida volte a dare un’indicazione pratica all’impiego di questa classe farmacologica, che nel nostro Paese sono rimaste per lungo tempo solo un riferimento teorico.

Nell’ottobre 2004 era stato inoltre creato lo European Pain Network, un gruppo di organizzazioni di pazienti di tutta Europa nato con il preciso scopo di rimuovere o ridurre quelle forze esterne, identifi-cabili in stigma culturali, inadeguati trattamenti e ignoranza della maggior parte dei medici e politici, che esacerbavano la sofferenza di quanti soffrivano di dolore cronico. Come si legge nella Dichiarazio-ne di Missione, il suo obiettivo era quello di “rappresentare e sostenere attivamente le persone colpite da dolore, rilevare le loro necessità e battersi

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28 Prima della legge, una situazione di oggettivo arretramento

per migliorare la loro qualità di vita”. Questo Network aveva tratto la motivazione a costituirsi dai preoccupanti risultati emersi dall’inda-gine Pain in Europe che sottolineavano come più di 75 milioni di Eu-ropei fossero afflitti da dolore cronico, la metà dei quali da 20 anni o più: dolore che aveva fatto perdere ogni anno circa 500 giornate di lavoro costate 34 miliardi di euro. Le similitudini, piuttosto che le di-versità tra i vari Paesi in materia di gestione del dolore, e il fatto che dovunque si abitasse in Europa ci si trovava di fronte all’accettazione della sofferenza per via dei numerosi ostacoli che si frapponevano all’accesso alle cure, avevano stimolato la creazione di questo Grup-po. All’identificazione dei problemi esso contrapponeva soluzioni: le iniziative concrete che avevano dimostrato di funzionare in un Paese dovevano continuare a funzionare anche negli altri grazie all’unione delle esperienze maturate nelle singole associazioni nazionali impe-gnate nella lotta al dolore.

Nello stesso anno, e precisamente l’11 ottobre 2004, l’OMS sostene-va che “il trattamento volto ad alleviare il dolore cronico è un diritto umano”.

5.2 i messaggi del White paper

5.2.1 il freno legislativo era dettato dall’inutilità di molte norme esistenti

In questo scenario in movimento, in cui la parola d’ordine era “cambia-re” per lasciarsi alle spalle un retaggio culturale retrogrado e per ten-dere sempre più verso una fattiva presa di coscienza della sofferenza e delle sue possibili soluzioni, si era costituito anche Open Minds (Opioids and Pain European Network of Minds), un gruppo di esperti nella ricerca e nella clinica del dolore persistente che si proponeva di aiutare tutti coloro che dovevano affrontare ogni giorno il problema dolore miglio-rando la conoscenza in materia e cercando di innalzarne gli standard della gestione in tutta Europa.

Il momento di mettere alla prova la concretezza d’intenti e la capa-cità d’azione di questa e delle altre organizzazioni era arrivato quando l’International Narcotics Control Board (INCB), l’unica organizzazione incaricata di limitare l’abuso globale dei farmaci stupefacenti, aveva reso noto la sua relazione annuale del 2004 in cui affermava che l’uso dei narcotici per la cura del dolore era inadeguato. Da tempo l’INCB cercava di supportare la disponibilità degli oppiacei per uso medico, compresa la terapia del dolore, prevenendo tuttavia una loro deviazio-ne verso l’uso illecito. Da poco aveva portato il problema del difficile accesso a questi farmaci all’attenzione della comunità internazionale e

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il white paper 29

precisamente alla World Health Assembly e all’Executive Board dell’OMA nel 2004. Per questo intento cooperava con l’OMS, che stava prepa-rando una strategia globale contro il dolore volta a dare assistenza ai vari Paesi in termini di strumenti e informazione sull’impiego clinico degli oppiacei, e spronava la comunità internazionale ad appoggiare gli sforzi dell’OMS per assicurare un adeguato trattamento del dolore a livello mondiale.

A quell’epoca la Francia poteva essere portata ad esempio: nell’arco di 10 anni aveva raddoppiato la disponibilità degli oppiacei per uso clinico, grazie all’introduzione di nuovi principi attivi, alla semplifi-cazione del sistema regolatorio e all’adozione di due piani d’azione programmati per istruire gli operatori sanitari e il pubblico. In Africa lodevoli progressi erano stati fatti in Uganda: qui le cure palliative era-no state riconosciute come un servizio clinico essenziale, la terapia del dolore era integrata agli altri servizi di salute e la morfina era rimbor-sata ai pazienti con HIV/AIDS o con tumore; il Governo ugandese ave-va decisamente cambiato la sua legislazione sugli oppiacei analgesici e con appositi corsi aveva formato gli operatori sanitari alla loro gestio-ne. Non era però la norma. La maggior parte dei Paesi aveva una realtà molto diversa che non permetteva di usufruire pienamente dei vantag-gi forniti dagli oppiacei per la cura del dolore. Colpa delle norme e dei regolamenti inutilmente restrittivi, che sbarravano l’accesso ai principi attivi adeguati al controllo del dolore e ne perpetuavano una perce-zione negativa condivisa da medici e da pazienti, e di una mancanza di opportuni mezzi economici e risorse sufficienti a promuovere una nuova cultura del dolore. Parole pesanti perché cariche di significato se si considera che erano state pronunciate dall’INCB, cioè dall’organo indipendente di monitoraggio dell’implementazione delle convenzio-ni sul controllo delle droghe emanate dalle Nazioni Unite (definizione tratta dal sito www.incb.org). Proprio dal dialogo sostenuto permanen-temente con i Governi per assisterli nell’espletamento dei loro obblighi sul controllo delle droghe, l’INCB era giunto alla conclusione che vi era una congiuntura sbagliata: nel tentativo di limitare il consumo illecito di oppiacei, i Governi avevano provocato anche un impedimento al loro uso corretto in particolare nella cura del dolore.

Allo scopo di motivare questa incomprensione esistente tra l’im-patto della sofferenza cronica e il ruolo che gli oppiacei forti potevano svolgere nel suo trattamento e per la necessità di comunicare l’impor-tanza di questi farmaci, Open Minds condusse nel 2004 un’indagine sulle diverse politiche europee che influivano sull’accesso agli oppia-cei forti per curare il dolore cronico. I risultati ottenuti, riportati nel White Paper - un documento pubblicato con l’aiuto di Mundipharma

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30 Prima della legge, una situazione di oggettivo arretramento

International Limited - sottolineavano come esistessero delle disegua-glianze tra i Governi delle varie nazioni che in materia di oppiacei di-versificavano le concrete possibilità dei cittadini di gestire al meglio il proprio dolore. A rendere più tortuoso il percorso di questi farmaci fino al paziente, concorrevano fattori legislativi, culturali ed economici che alimentavano quell’incongruenza esistente tra il devastante impat-to che la sofferenza causa nella vita di una persona e la disponibilità di cure per alleviarlo.

Una prima ragione di questo inadeguato approccio era stata identi-ficata nell’eccessiva severità di alcune norme che regolamentavano la prescrizione dei farmaci oppiacei: in tutti i Paesi europei questi prin-cipi attivi dovevano essere infatti prescritti in modo diverso dagli altri farmaci. Troppo complessa era la ricetta stessa e troppo rigide erano le sue modalità di compilazione e di inoltro: il dosaggio consentito era molto limitato e la sua validità temporale, vale a dire il tempo che il paziente ha a disposizione per ottenere il trattamento dopo la sua prescrizione, variava molto da nazione a nazione andando da nessun limite, come in Belgio e nei Paesi Bassi, ai sette giorni previsti in Ger-mania. Restrittive erano anche le norme che dettavano le regole per la conservazione, la registrazione e il monitoraggio dei farmaci oppiacei: in tutte le nazioni europee i documenti relativi alle prescrizioni dove-vano essere conservati per un lungo periodo di tempo - in Finlandia e in Svizzera addirittura per dieci anni - e solo nel Regno Unito e in Danimarca non vigeva questo obbligo perché le ricette venivano regi-strate immediatamente dalle autorità.

I medici che dovevano prescrivere si trovavano pertanto a confron-tarsi con una pesante burocrazia che allungava in maniera esagerata il tempo da dedicare a un paziente con dolore cronico. Essi, oltre all’im-pegno necessario per compilare e registrare le prescrizioni, dovevano infatti fissare successivi appuntamenti per rinnovare i dosaggi: era na-turale che prevalesse l’istinto di indirizzarsi verso farmaci meno effica-ci degli oppiacei forti ma senz’altro più facili da prescrivere.

La possibilità di guidare la propria auto non era poi riconosciuta a tutti i pazienti in terapia costante con oppiacei forti: nei Paesi Bassi e in Belgio per esempio non era consentita la guida, in Austria, Germania, Finlandia, Danimarca, Norvegia, Spagna e Svezia era altamente limi-tata, mentre in Francia, Israele, Regno Unito, Portogallo e Svizzera era legale. In Italia il quadro normativo in materia è ancora dibattuto e ci si augura che, a breve, possa essere fatta chiarezza in merito.

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il white paper 31

5.2.2 l’ostacolo culturale era reiterato da vecchi pregiudizi

Il White Paper rivelò anche come le normative esistenti in molti Paesi europei alimentassero ancora una percezione negativa degli oppiacei forti, considerati droghe che causavano dipendenza, abuso e morte. In Austria venivano chiamati suchtmittel che significa letteralmente “il mezzo per rendervi dipendenti”, mentre in Germania erano indicati con il termine betaubungsmittel che vuol dire “il mezzo per mettervi a terra”. A poco era valso l’unanime riconoscimento del mondo medico nei riguardi della loro efficacia. Nell’immaginario comune questi far-maci rimanevano associati al concetto di criminalità. In tutta Europa aleggiava pertanto un sentimento a essi contrario che continuava a ri-tenerli principi attivi di cui diffidare e nello stesso tempo da temere. La paura dei loro effetti collaterali induceva i medici ad avere un com-portamento cauto nei loro confronti, e i dubbi e le perplessità suscitati innescavano nei familiari dei malati una mancanza di fiducia nelle loro reali potenzialità terapeutiche. I vecchi pregiudizi erano duri da scal-zare e continuavano a favorire un clima di incertezza che non giovava alla loro affermazione.

5.2.3 l’antieconomicità del dolore non curato

Il White Paper sottolineò inoltre come curare il dolore cronico fos-se meno costoso che non trattarlo. Chi soffre di dolore cronico infatti molto spesso compromette la propria carriera, perde il posto di lavoro, ha bisogno di un sostegno, si rivolge spesso al medico; in altre parole, è di solito una persona che necessita di assistenza, che subisce l’impat-to psicologico scatenato dalla propria sofferenza e che si trova nella condizione di dover spendere del denaro per alleviare il proprio dolore.

In molte nazioni europee gli oppiacei erano a carico del paziente con dolore cronico: in Polonia, per esempio, veniva rimborsato un solo oppiaceo forte e per di più solo al 50%, in Norvegia nessun oppiaceo per il trattamento del dolore veniva rimborsato e in Portogallo gli op-piacei forti per lenire il dolore sia cronico sia da cancro erano rimborsa-ti al 40%. Se il vero costo del dolore cronico era pressoché impossibile da calcolare, più facile era evidenziare il collage di oneri sociali da esso provocati. Secondo l’indagine eseguita da Open Minds, le persone af-fette da dolore cronico:

– si assentavano in media più di 15 giorni di lavoro: l’assenteismo dal proprio impiego dovuto alla sofferenza costava all’economia euro-pea circa 34 miliardi di euro all’anno;

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– perdevano spesso il lavoro: un lavoratore su 5 non portava più a casa uno stipendio;

– si sottoponevano a frequenti visite mediche: più della metà dei ma-lati di dolore era stato dal medico tre volte nei precedenti 6 mesi;

– necessitavano di assistenza: il 20% di essi non ce la faceva più a condurre una vita normale con le proprie forze;

– avevano disturbi dell’umore: al 20% di essi era stata formulata una diagnosi di depressione dovuta al dolore.

Questi costi sociali erano ancora più significativi se si considerava che avrebbero potuto non esistere se gli stessi soggetti fossero stati adegua-tamente curati dal dolore. Controllando la propria sofferenza, avrebbe-ro potuto infatti tornare a lavorare e contribuire allo sviluppo economi-co della propria nazione.

5.3 l’invito all’azione di open minds

Nonostante le leggi più antiquate fossero state superate e nuove norme varate per cercare di seguire gli ultimi risultati della medicina in ma-teria di oppioidi, rimaneva tuttavia ancora molto da fare. In risposta alla generale disattenzione che i Governi europei avevano dimostrato di avere verso l’impatto del dolore cronico, i costi a carico del Servizio Sanitario Nazionale correlati alla sofferenza sotto trattata, gli ostacoli legislativi e le false convinzioni ancora esistenti, Open Minds aveva ste-so un documento che li invitava a:

– rivedere le proprie politiche sull’accesso agli oppiacei forti per la cura del dolore;

– stabilire come prioritaria l’offerta di un adeguato trattamento del dolore cronico a tutti i cittadini;

– usare la checklist di autovalutazione, messa a punto dall’Organiz-zazione Mondiale della Sanità, per soppesare il proprio operato sul controllo dei farmaci ponendosi le seguenti domande:

1. Esisteva nelle politiche nazionali una disposizione sul controllo dei farmaci che:

• riconoscesse chegli oppiacei erano assolutamentenecessariper alleviare il dolore e la sofferenza?

• stabilisse che era obbligodelGovernogarantire ladisponi-bilità agli oppiacei per scopo medico e scientifico, incluso il sollievo dal dolore e dalla sofferenza?

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il white paper 33

• limitasseilquantitativodifarmacoprescrittoovveroladuratadel trattamento?

2. Esisteva, inoltre, nella politica nazionale una terminologia sul con-trollo dei farmaci che potesse indurre a confondere l’uso medico degli oppiacei a scopo antalgico con la dipendenza dal farmaco?

Oltre a riflettere su questi aspetti generali, il Gruppo invitava i Governi a rivalutare i propri regolamenti che non avrebbero dovuto causare paure infondate, costi e disagi ai pazienti, ma se mai agevolare l’acces-so alla prescrizione dei farmaci oppiacei, fare in modo che la durata della prescrizione fosse personalizzata sulle esigenze del singolo, ri-conoscere il diritto delle persone con dolore cronico ad accedere alla gamma completa di trattamenti disponibili e far sì che il rimborso per il trattamento del dolore cronico non fosse diverso da quello per il do-lore da cancro.

Un altro importante compito dei Governi era quello di combattere la disinformazione, che ancora circondava gli oppiacei forti, con un’a-deguata informazione rivolta ai cittadini, ai malati e alla comunità me-dica e con una formazione universitaria del personale medico e infer-mieristico. L’uso degli oppiacei forti non avrebbe dovuto infine essere una controindicazione alla guida dei veicoli: la decisione di guidare o meno sotto trattamento spettava al paziente dopo un consulto medico.

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Capitolo 6

il “merCato” del dolore in italia

Negli ultimi anni si stava facendo sempre più strada una crescente sensibilità per la problematica del dolore, che rappresentava un grave carico di soffe-renza parzialmente evitabile e un rilevante peso economico per il Servizio Sanitario Nazionale e per la società. Considerata la diffusione della sofferenza e il pesante impatto sulla qualità della vita e sull’aggravio economico a cari-co del servizio sanitario, ben si comprende la necessità di un’attenta analisi del mercato italiano del dolore che consenta di individuare i percorsi di cura più seguiti al fine di valutarne l’efficacia e la sostenibilità in termini economici.

Purtroppo, rispetto agli anni precedenti, il mercato del dolore in Italia non aveva subito sensibili cambiamenti. Nel nostro Paese la sofferen-za continuava a essere combattuta principalmente mediante gli antin-fiammatori non steroidei (FANS) e gli inibitori della ciclo-ossigenasi (Coxib) che rimanevano i farmaci maggiormente prescritti: nel 2006, infatti, la spesa lorda per l’acquisto di queste due classi di antinfiam-matori era stata rispettivamente di 198 e 93 milioni di euro, contro sol-tanto i 61 milioni di euro spesi per gli oppiacei (senza distinzione tra deboli e forti).

In Italia si tendeva a sottostimare i possibili rischi legati ai FANS e ai Coxib, farmaci dagli effetti collaterali anche importanti. Una ri-cerca condotta tramite intervista telefonica a 1.438 medici di Medicina Generale e a 5.803 pazienti con dolore cronico in Francia, Germania, Gran Bretagna, Irlanda, Italia, Spagna, Svezia, Svizzera aveva messo in evidenza come, per esempio, in tutti i Paesi coinvolti dalla ricerca una percentuale di medici compresa tra il 67 e il 94% avesse espresso preoccupazione sui rischi connessi al trattamento con FANS tranne che in Italia, dove i medici “preoccupati” risultavano appena il 28%.

Anche le note dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) diramate dal Ministero della Salute evidenziavano come utilizzando i FANS non selettivi e i Coxib il rischio di ospedalizzazione per una complicanza grave e potenzialmente fatale fosse stimato tra l’1 e il 2% per anno,

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incidenza che aumentava nei soggetti a rischio. L’AIFA aveva inoltre lanciato un nuovo warning relativo ai prodotti medicinali a base di ni-mesulide, che avrebbe dato seguito al processo di revisione iniziato dalla European Medicines Agency (EMA) nel maggio 2007 in seguito alla segnalazione di un certo numero di casi di epatotossicità grave. In par-ticolare, l’AIFA sottolineava nella nota la necessità d’introdurre delle limitazioni all’uso del farmaco e di informare medici e pazienti sul ri-schio di possibili eventi avversi a carico del fegato.

L’Italia rimaneva agli ultimi posti in Europa per il consumo di op-piacei forti, farmaci raccomandati da OMS ed EAPC (European Asso-ciation for Palliative Care) nel trattamento del dolore moderato-forte (dati Ims-Midas IQ 2007 Mat incrociati con gli abitanti dei vari Paesi europei censiti). Nel nostro Paese la spesa media annua pro-capite dei maggiori oppiacei forti utilizzati nella lotta alla sofferenza, quali mor-fina, ossicodone, fentanil, idromorfone e buprenorfina, risultava pari a 0,52 euro. Decisamente diversa era la situazione in Germania e in Danimarca, dove la spesa annua pro-capite per l’acquisto di oppia-cei forti era rispettivamente di 7,25 e di 7,14 euro; nel resto dei Paesi censiti la spesa media si aggirava intorno ai 3 euro e l’Italia risultava distaccata rispetto alle realtà europee immediatamente precedenti: in Olanda la spesa media era di 2,47 euro, in Belgio di 2,38 euro e in Francia di 2,36 euro.

Secondo dati raccolti e diramati dal Comitato Internazionale per il Controllo dei Narcotici, un organismo dell’ONU, sei tra i Paesi più ricchi - e precisamente Stati Uniti, Germania, Francia, Gran Bretagna, Canada e Austria - consumavano il 79% della morfina mondiale e l’Ita-lia non figurava tra i Paesi più avanzati nella lotta al dolore.

Analizzando il mercato italiano dei principali farmaci nel Mat lu-glio 2007, colpiva il divario esistente tra quelli più diffusi e il primo della classe degli oppiacei, riscontrato solo al 214° posto in ordine di spesa.

Nonostante il dolore cronico fosse molto diffuso nel nostro Paese, il mercato italiano degli oppiacei forti costituiva solo lo 0,23% della spesa farmaceutica totale a carico del Servizio Sanitario Nazionale (26,988 milioni di euro su 11.652,987 milioni di euro complessivi, dato a valori Ims Mat, luglio 2007).

Entrando più nel dettaglio e analizzando il consumo di oppiacei forti, particolarmente interessante risultava il confronto tra i principali oppiacei usati nei maggiori Paesi europei che si evinceva da una ricer-ca condotta dall’EAPC. Nel 2005 l’EAPC aveva infatti proposto alle Associazioni di cure palliative di 52 Paesi un dettagliato questionario di indagine che aveva prodotto una sorta di atlante europeo di cure

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il “mercato” del dolore in italia 37

palliative, l’Atlas of Palliative Care. In Italia l’oppiaceo più utilizzato ri-sultava il fentanil transdermico, seguito da morfina e metadone a sca-pito dei nuovi oppiacei disponibili sul mercato; nella maggior parte delle altre realtà europee era invece la morfina orale l’oppiaceo più prescritto nel rispetto delle Linee Guida. Un ruolo importante veniva riconosciuto anche all’ossicodone CR, farmaco considerato dall’EAPC una valida alternativa alla morfina orale.

Esaminando ancora il mercato dei principali oppiacei forti ossicodo-ne CR, morfina CR, ossicodone più paracetamolo, fentanil TTS, bupre-norfina transdermica, continuava a emergere il forte utilizzo in Italia di preparati transdermici a scapito delle formulazioni orali. Mediamente gli oppiacei orali costituivano solo il 21,86% degli oppiacei forti usati. La prevalenza di preparati transdermici continuava a disattendere le raccomandazioni ufficiali di OMS ed EAPC, che consideravano la via transdermica come un’alternativa qualora la morfina orale non fosse somministrabile e il dolore fosse stabilizzato, e raccomandavano l’uso di oppiacei orali definiti agevoli e sicuri.

Particolare rilevanza veniva riconosciuta dalle raccomandazioni ufficiali all’ossicodone CR, considerato dalle Linee Guida dell’ESMO 2007 come una valida alternativa alla morfina. Per quanto riguarda i preparati transdermici, le Linee Guida ne relegavano l’uso ai pazienti con dolore esclusivamente stabilizzato e quindi non in progressione di malattia, citando per altro solo il fentanil e non menzionando mai la buprenorfina transdermica. Tale farmaco veniva citato solamente nelle Linee Guida dell’ESMO 2005 che raccomandavano però di utilizzarlo con dosaggi iniziali ben al di sotto di quelli attualmente utilizzati.

Occorre osservare che rispetto alla registrazione relativa all’anno 2006 si rilevava un miglioramento nell’attitudine all’uso degli oppiacei orali, soprattutto nelle regioni che avevano adottato precise Linee Gui-da o avevano elaborato documenti ufficiali a sostegno di un’adeguata terapia del dolore. Il consumo medio degli oppiacei orali era cresciuto infatti, rispetto al 2006, di oltre 3 punti percentuali, con picchi di cresci-ta nelle aree più sensibilizzate.

La Sardegna aveva infatti scelto di dedicare spazio alla terapia del dolore nel proprio Piano regionale dei Servizi Sanitari e Toscana ed Emilia-Romagna avevano attivato diverse iniziative volte a migliorare la lotta al dolore. Tale rilievo risultava particolarmente interessante e dimostrava in maniera chiara come l’impegno istituzionale risultasse essenziale nella promozione di un’adeguata cura del dolore. La scelta di fare proprie le Linee Guida internazionali, razionalizzando l’uso de-gli oppiacei e riconoscendo la giusta efficacia delle formulazioni orali, farmaci mediamente meno costosi rispetto ai transdermici, avrebbe

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condotto inoltre a un’ottimizzazione della spesa e quindi a un rispar-mio per il Servizio Sanitario Nazionale. Soprattutto, avrebbe contribui-to a migliorare la vita dei pazienti con dolore dal momento che i dati di letteratura confermavano come l’uso corretto della scala di analgesia proposta dall’OMS, con l’utilizzo degli oppiacei nel dolore moderato-severo e la preferenza della somministrazione orale, garantisse un sod-disfacente controllo del dolore in una percentuale di casi decisamente elevata, addirittura oltre il 95% secondo i dati più recenti. A vantaggio dei pazienti e delle loro famiglie, che potevano veder finalmente rico-nosciuto il diritto a una vita senza dolore.

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Capitolo 7

il dolore onCologiCo: lo studio epiC

Mentre le terapie contro il cancro erano progredite velocemente negli ultimi anni, la gestione del dolore oncologico aveva ancora non pochi traguardi da raggiungere: non era compresa nei trattamenti che i pazienti ricevevano ed era lontana dall’essere considerata e supportata dalla comunità medica. La necessità del controllo del dolore era più che altro sentita nel campo delle cure palliative: la European Association for Palliative Care (EAPC), nata nel 1988, aveva infatti avuto successo nel promuoverla aumentandone la cono-scenza e favorendo la pianificazione di ulteriori ricerche in merito. Il dolore non godeva tuttavia della stessa considerazione nelle altre aree specialistiche, come per esempio in oncologia. Per un difetto dei pazienti o della classe me-dica? A oggi si può dire di entrambi. Molti malati pensavano che il dolore facesse parte dell’avere il cancro e che il medico curante dovesse concentrarsi sulla cura del tumore anziché su quella del dolore: spesso di quest’ultimo non volevano neppure discutere per timore degli effetti collaterali dei farma-ci analgesici. Nel contempo, molti medici non sapevano come controllarlo e non incoraggiavano i propri assistiti a comunicare la loro sofferenza. In altre parole, il dolore da cancro era poco riconosciuto e la sua gestione affatto inte-grata tra le cure oncologiche.

7.1 Ma quanto era trasCurato il dolore onCologiCo?

Proprio per avere informazioni precise riguardo all’intensità e alla fre-quenza del dolore nei pazienti oncologici e all’impatto che esercitava sulla qualità della vita, nonché riguardo ai trattamenti somministrati per attenuarlo e a ciò che rimaneva ancora da fare per migliorarne il controllo, è stata eseguita nel 2007 l’indagine EPIC (European Pain in Cancer), il più grande studio finora svolto sulla prevalenza, la terapia e l’impatto del dolore correlato al cancro. Ben 5.084 pazienti di età ugua-le o maggiore di 18 anni affetti da cancro solido o del midollo osseo in stadio precoce, localmente avanzato, avanzato o metastatico, pro-venienti da Israele e da 11 Paesi europei, sono stati contattati ai fini di

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un’intervista di screening sul proprio dolore oncologico. Di questi, il 56% dei soggetti (2.864) accusava un dolore d’intensità pari o superiore a 5 – su una scala da 0 a 10 in cui 0 significa completa assenza di dolore e 10 coincide con il peggior dolore possibile – che sopraggiungeva in modo ricorrente e con una frequenza di più volte al mese nell’ultimo mese. Dopo un’accurata selezione i pazienti arruolabili nello studio sono stati 2.400, di cui 573 scelti a caso per completare un questionario attitudinale volto a valutare da quanto tempo soffrissero di dolore do-vuto al cancro, quanto il dolore influenzasse la qualità di vita e in par-ticolare le attività quotidiane, quali diversi metodi di trattamento del dolore avessero ricevuto, se per alleviarlo usassero farmaci da banco o prescritti dal medico o rimedi provenienti dalla medicina alternativa. Fu inoltre chiesto loro a quale figura professionale attribuissero la re-sponsabilità della gestione del dolore e se fossero stati indirizzati a uno specialista nella cura del dolore.

7.2 la frequenza e la durata del dolore onCologiCo

I risultati dello studio EPIC hanno sottolineato che i pazienti oncologi-ci soffrivano di un dolore inutile e non trattato: il 94% di essi accusava un dolore moderato-severo, mentre il 4% lo considerava il peggior do-lore possibile. Il dolore attribuito al cancro era dunque più frequente di quanto si pensasse: un terzo ci conviveva da più di 12 mesi e circa la metà l’aveva sperimentato almeno una volta al giorno. Esso esercitava un forte carico emotivo sulla persona, che di fronte a una sofferenza così grande si sentiva impotente, priva d’aiuto e dipendente dagli altri. Ma non solo. Il dolore influenzava in modo significativo la qualità del-la vita: il 37% lo trovava intollerabile e il 33% lo riteneva così impossi-bile da desiderare di morire. La sua insorgenza impediva di svolgere le normali attività quotidiane al 69% dei pazienti intervistati, alterava le relazioni familiari nel 41% dei casi e aveva indotto il 13% dei pazienti a interrompere il lavoro perché impediva loro di pensare e di concen-trarsi.

7.3 il trattaMento del dolore onCologiCo

Il dolore da cancro era dunque spesso trattato in modo inadeguato, pur essendo disponibili farmaci capaci di controllarlo: gli oppiacei, infatti, anche se avevano dimostrato di essere efficaci e ben tollerati nel lungo periodo, erano altamente sotto utilizzati e debolmente sosti-

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il dolore oncologico: lo studio ePic 41

tuiti con altri analgesici. Una buona parte dei partecipanti all’indagine EPIC, pari al 23%, non riceveva infatti alcuna terapia per lenire il pro-prio dolore moderato-severo, mentre il 64% di chi assumeva analgesici prescritti dal medico sosteneva che non sempre la terapia riusciva a tenerlo sotto controllo. Più della metà degli intervistati avrebbe pagato qualsiasi cifra pur di avere una terapia contro il dolore che funzionas-se. Molti malati di cancro si preoccupavano per le complicanze dovute ai farmaci analgesici. In particolare temevano la stipsi, che colpiva il 31% di coloro che assumevano una terapia analgesica prescritta dal medico. Un effetto collaterale, questo, che non veniva gestito al meglio, dato che al 27% dei pazienti che lo accusavano non venivano prescritti lassativi. Forse proprio per aggirare questi inconvenienti, il 68% dei partecipanti allo studio EPIC aveva scelto metodi alternativi per lenire il proprio dolore: il 14% di essi aveva optato per i massaggi, il 12% per l’assunzione di vitamine, l’11% per l’agopuntura, ma non mancava neppure chi si era indirizzato alla fitoterapia, ai gruppi di auto-aiuto, alle terapie fisiche e alla meditazione.

7.4 il dialogo ManCante

Pochi tra i pazienti dello studio avevano tuttavia ricevuto un aiuto spe-cialistico per gestire la propria sofferenza: solo il 3% era stato supporta-to da uno specialista del dolore, mentre la maggior parte era stata pre-sa in carico dall’oncologo e seguita dal medico di Medicina Generale. L’anello mancante era spesso la comunicazione tra paziente e medico. Molti soggetti arruolati nello studio EPIC hanno riferito che il medico non aveva tempo per discutere del loro dolore; altri, e precisamente il 25%, hanno sottolineato come il medico curante non si fosse mai, o raramente, interessato al loro dolore e altri ancora hanno evidenziato che se il medico aveva domandato del dolore, non lo aveva considera-to come un fenomeno in evoluzione e da valutare regolarmente; solo al 15% dei pazienti era stata misurata l’intensità per mezzo di apposite scale. I malati di cancro si sentivano pertanto soli nella lotta al dolore: il 29% di essi sosteneva di non essere compreso dai propri familiari, il 66% riferiva che gli altri non capivano quanto dolore avvertissero e un altro 29% non voleva condividerlo con altre persone. I medici, dal canto loro, sembravano non comprendere che il dolore rappresentava un problema per i loro assistiti.

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Parte seconda

LA LEGGE 38/10, LA PIÙ EVOLUTA IN EUROPA PER LA CURA DEL DOLORE

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Il contrIbuto dI sette mInIsterI 45

caPitolo 1

il contributo di sette ministeri

Una legge non si fa dall’oggi al domani. Quella sulle cure palliative e la tera-pia del dolore non ha fatto eccezione. La sua realizzazione è infatti il frutto di semi gettati in passato e germogliati nel corso di sette Ministeri che si sono susseguiti dal 1996 a oggi: una revisione critica del loro operato mette in evidenza come tutti abbiano dato un contributo alla battaglia contro il dolo-re. Alcuni hanno messo a punto dei provvedimenti veri e propri, altri hanno avuto il merito di preparare un terreno fertile e altri ancora hanno lasciato delle lacune, colmate nelle legislazioni successive, che con il senno di poi si sono dimostrate anch’esse preziose per non commettere gli errori compiuti in precedenza. Nel complesso hanno innescato un effetto domino che alle soglie del 2009 ha messo su una riga tutti i ritardi e tutte le pecche della gestione del dolore fino ad allora accumulati, dalla disomogeneità dei servizi, allo scarso coordinamento ospedale-territorio, dalle carenze dell’iter formativo del me-dico alla resistenza all’uso dei farmaci oppiacei. Da questa globale presa di coscienza ha preso avvio la realizzazione della legge 38/10.

Era il 1999 quando l’allora ministro Rosy Bindi (giugno 1996-aprile 2000) firmò la prima legge, la 39/99, sulle cure palliative, che stanziava circa 200 milioni di euro per la realizzazione di 188 centri residenzia-li – hospice, con una dotazione di 2025 posti letto. Si trattava di una normativa e del suo decreto attuativo dedicati al mattone, cioè al finan-ziamento di strutture per l’assistenza palliativa e il supporto di malati terminali affetti soprattutto da tumore. Essa ha avuto il merito di dare una doverosa risposta alle problematiche legate alla fase terminale del-la vita, ma non aveva nessuna valenza nel campo del dolore. Non con-siderava infatti il dolore acuto, per esempio quello post-operatorio av-vertito dall’80% delle persone che subiscono un intervento, e neppure il dolore cronico che oggi sappiamo colpire ben 15 milioni di italiani af-fetti, per esempio, da artrite reumatoide, spondilite anchilosante, artro-patia psoriasica, connettiviti, artrosi, sindrome fibromialgica, nonché cefalee, ulcere diabetiche e malattie autoimmuni. Aveva demandato

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alle Regioni l’organizzazione degli hospice in una rete assistenziale e le attività da svolgere al loro interno, affrontato poco la formazione degli operatori sanitari e per nulla approfondito la comunicazione all’opi-nione pubblica dell’esistenza, delle finalità e delle modalità d’accesso alla rete stessa. All’epoca, la gente veniva a sapere delle cure palliative solo se aveva un parente malato di cancro.

Al termine del Ministero Bindi la strada per dare al nostro Paese una buona assistenza al dolore era ancora lunga e in salita, ma era cominciata e aveva dato l’aggancio al Ministero di Umberto Veronesi (2000-2001) per proporre un altro strumento di lotta al dolore, origi-nale e innovativo: il progetto nazionale “Ospedale senza Dolore”, che aveva la specificità italiana di prevedere la creazione di un comita-to per l’Ospedale senza Dolore in ogni struttura ospedaliera. La sua stessa nascita aveva segnato una svolta epocale: finalmente era stata gettata la pietra miliare su cui cominciare a discutere di dolore. Era il primo atto formale che evidenziava un percorso assistenziale sulla sofferenza e le normative attuate negli anni successivi non hanno po-tuto prescindere dalla sua esistenza: la stessa legge 38/10 ha dovuto tenerne conto, non fosse altro come precedente da cui partire. L’ini-ziativa ha avuto inoltre il merito di aver portato la cultura della soffe-renza anche nel non profit. L’allora Comitato Gigi Ghirotti, diventato in seguito Fondazione nazionale Gigi Ghirotti, si era impegnato a far emergere la problematica. Costituito nel 1975, aveva integrato la pre-venzione del dolore oncologico alla sua originaria missione volta a favorire il miglioramento delle professionalità e delle strutture onco-logiche per conseguire una sempre più efficace assistenza al malato. Le sue finalità si erano ampliate: oltre a promuovere una nuova co-scienza civile capace di affrontare la complessità delle esigenze dei malati di cancro, informava e sensibilizzava gli operatori sanitari e i cittadini sulla possibilità d’individuare e abbattere tutte le barriere che ostacolavano la cura del dolore. Già promotore di una medicina dal volto umano, si faceva ora portavoce di una nuova consapevo-lezza: alleviare la sofferenza non era solo desiderabile ma anche pos-sibile. Sua è stata l’iniziativa, patrocinata dal Ministero della Salute e dalle Regioni, di indire nel 2002 la prima Giornata nazionale del Sollievo, un appuntamento che ricorre tutt’oggi e che si ripropone di portare a tutte le persone che soffrono non solo terapie ma anche un aiuto psicologico. In questa occasione, tutte le associazioni non profit e le strutture ospedaliere impegnate a favore delle persone sofferenti sono invitate a dare il proprio contributo, in termini di azioni e servi-zi, a favore del sollievo e di una maggiore diffusione della terapia del dolore e delle cure palliative in Italia.

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Il contrIbuto dI sette mInIsterI 47

Il progetto Ospedale senza Dolore aveva tuttavia il suo rovescio della medaglia: purtroppo non prevedeva finanziamenti per sostenere la sua attuazione, non forniva i requisiti per creare di fatto i Comitati (dove dovevano essere ubicati all’interno dell’ospedale? Come dove-vano funzionare?) e demandava troppi dettagli alle Regioni che allora, prima della modificazione del capitolo V della Costituzione, avevano meno potere decisionale di oggi. Poche Regioni avevano pertanto re-cepito le Linee Guida per rendere concreto il Progetto: la possibilità di trattare adeguatamente il dolore e di registrarlo costantemente sulla cartella clinica rimaneva ancora un sogno nella maggior parte degli ospedali italiani.

L’iniziativa del professor Umberto Veronesi era stata tuttavia l’occa-sione per riparlare di sofferenza nel Ministero di Girolamo Sirchia (giu-gno 2001-aprile 2005) che, sebbene fosse incentrato sull’edilizia sanita-ria e si fosse prefisso il compito di attuare la legge 39 e di finanziare le Regioni per costruire gli hospice, aveva reso gratuiti i farmaci oppiacei indicati per la cura del dolore. Ma non solo. Aveva istituito anche una commissione ministeriale per le cure palliative di cui era presidente il professor Vittorio Ventafridda, commissione che aveva prodotto un documento, rivisto e approvato dall’Istituto Superiore di Sanità, che dava le indicazioni su come costruire la rete delle cure palliative. Il suo testo finale non era stato tuttavia approvato dalle Regioni. Il momento storico era infatti cambiato: il capitolo V della Costituzione era stato modificato e le Regioni cominciavano ad avere un ruolo decisionale importante. Il modello proposto non aveva incontrato il loro favore poiché individuava un prototipo di rete per le cure palliative che mal si adattava alle realtà delle singole Regioni, la maggior parte delle quali aveva già un proprio percorso assistenziale; il documento non ebbe pertanto un futuro.

Benché il ministro Sirchia abbia avuto il merito di continuare il di-scorso sulla terapia del dolore, non aveva preso in considerazione la sofferenza dei minori che fu appannaggio del Ministero di Francesco Storace (aprile 2005-marzo 2006). Si partiva dalla constatazione che seb-bene infanzia e sofferenza fossero un binomio molto duro da accettare ed emotivamente difficile da gestire, anche i neonati e i bambini mori-vano e che negli ultimi anni la letteratura scientifica si era arricchita di molti farmaci e protocolli di terapia antalgica in grado di controllare il dolore nei piccoli pazienti. Mancavano tuttavia la conoscenza dell’ar-gomento, la disponibilità di formulazioni farmaceutiche adeguate alle età più estreme, il ruolo etico e sociale del bambino nella gestione del-la sua malattia. All’epoca, solo una minima parte dei bambini pote-va usufruire di cure palliative: molti di essi erano costretti a passare

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lunghissimi periodi in ospedale e meno del 40% dei minori affetti da una malattia inguaribile moriva a casa. C’era dunque la necessità di far conoscere questa realtà sommersa e di rompere il silenzio che spesso circondava questo argomento al fine di offrire competenza e continu-ità assistenziale. È stato in questa occasione che Marco Spizzichino, allora responsabile del Settore Cure Palliative e Terapia del Dolore del Ministero della Salute, fu contattato da Silvia Lefebvre e Franca Beni-ni, pediatra e creatrice a Padova dell’unico hospice pediatrico italiano. Dall’incontro, favorito anche dall’allora dirigente della programma-zione sanitaria del Ministero della Salute Filippo Palumbo, nacque l’i-dea di realizzare un gruppo di lavoro al Ministero che produsse un do-cumento, approvato in Conferenza Stato-Regioni nel 2007 e dettagliato nel 2008, che sanciva la presa di coscienza delle cure palliative pedia-triche. Proprio nel febbraio 2006 la Fondazione Maruzza Lefebvre con il supporto del Ministero della Salute, delle Società scientifiche e di altre Fondazioni e Associazioni aveva dato vita al “Progetto Bambino: Progetto nazionale di cure palliative pediatriche”, volto a organizzare un sistema a rete per assicurare su tutto il territorio italiano cure pal-liative competenti e continuative. Cure, cioè, che non fornissero solo terapie mediche ma anche un supporto all’“altra sofferenza”, quella che si nutre della drammaticità dell’evento, dell’incertezza dell’esito dei trattamenti, delle frequenti ospedalizzazioni, della separazione dal contesto socio-familiare imposto dall’iter terapeutico, della frattura di un progetto di vita che richiede una riorganizzazione della vita fami-liare. Per quest’altro aspetto della sofferenza occorreva un ambiente confortevole dove effettuare le cure e mantenere le attività fondamen-tali svolte dal piccolo paziente, come il gioco, la scuola e l’incontro con gli amici, affinché il prolungarsi della malattia non rischiasse di inter-rompere il processo di crescita.

Il successivo Ministero di Livia Turco (maggio 2006-maggio 2008) ha proseguito questo cammino riguardante la sofferenza nei minori firmando un protocollo d’intesa con la Fondazione Lefebvre per espor-tare il Progetto Bambino e il suo modello assistenziale di cure palliative nelle Regioni.

Sebbene questo Ministero non abbia determinato nessun sostan-ziale cambiamento nella gestione del dolore negli adulti, ha innalzato senz’altro la sensibilità sulla sofferenza. Ha istituito infatti la “Com-missione sulla dignità di fine vita” che era tuttavia molto ambiziosa: al suo interno convergevano tematiche inerenti le cure palliative, la terapia del dolore, gli stati vegetativi, le terapie intensive e del fine vita in generale. Proprio sotto il mandato di Livia Turco si è cominciato a capire che la cronicità e la terminalità della vita, pur avendo come

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denominatore comune la sofferenza, erano due realtà che non si toc-cavano e che richiedevano offerte differenziate di assistenza e cura. In tale senso furono prodotti due documenti, uno sul dolore e uno sulle cure palliative, mai discussi con le Regioni, ma che di fatto ipotizzava-no due filoni di gestione che saranno ripresi e attuati successivamente dalla legge 38/10. Per poter proporre questa legge, tuttavia, bisognava dapprima disegnarla e prima ancora occorreva formare un gruppo di uomini accomunati dallo stesso obiettivo: vincere la battaglia sul do-lore.

Preziose intese sono state imbastite in questo senso sotto il Ministe-ro di Maurizio Sacconi (maggio 2008-dicembre 2009), accorpato all’e-poca a quello del “Lavoro, Salute e Politiche sociali”. Ferruccio Fazio, allora sottosegretario, incontrò Guido Fanelli, l’attuale presidente della Commissione ministeriale sulle cure palliative e terapia del dolore, che a sua volta cominciò a interloquire con Marco Spizzichino del Ministe-ro della Salute: il primo nocciolo duro del gruppo di lavoro deputato a stendere il disegno di legge si era formato. Prima di prendere carta e penna bisognava, però, provvedere a rendere più accessibili i farmaci oppiacei eliminando almeno il ricettario speciale: ci pensò lo stesso Fer-ruccio Fazio spostando gli oppiacei per la cura del dolore dalla sezione A alla sezione D della Tabella II.

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Capitolo 2

il trasferimento di alCuni farmaCi oppiaCei dalla sezione “a” alla sezione “d” della tabella ii

Il dolore cronico continuava a essere uno dei problemi meno misurati e af-frontati dalla medicina. La causa principale a cui si attribuiva il suo scarso trattamento era l’uso del ricettario speciale a ricalco, necessario per prescri-vere i medicinali oppiacei per la terapia del dolore contenuti nell’Allegato III-bis. Una semplificazione della loro prescrizione poteva essere la soluzione. Il vice ministro Fazio scelse questa strada per renderli più accessibili firmando la prima ordinanza che li spostava, sebbene per una durata temporanea di 12 mesi, dalla sezione A alla sezione D della stessa Tabella II, rendendoli dispen-sabili con una ricetta normale.

I farmaci oppiacei non erano ancora facilmente disponibili. Gli stupe-facenti per uso terapeutico erano infatti sistemati in due tabelle che, a seguito della legge 49 del 2006, avevano preso il posto delle vecchie Tabelle I, II, III, IV, V e VI. Se nella Tabella I erano state indicate le sostanze con forte potere tossicomanigeno e soggette ad abuso, nella Tabella II erano state raggruppate quelle con attività farmacologica e usate in terapia in quanto farmaci, distribuite nelle sezioni A, B, C, D ed E in relazione al decrescere del loro potenziale di abuso.

Esisteva poi l’Allegato III-bis in cui erano elencati dieci farmaci con forte attività analgesica (buprenorfina, codeina, diidrocodeina, fenta-nil, idrocodone, idromorfone, metadone, morfina, ossicodone, ossi-morfone) che godevano di particolari facilitazioni prescrittive: la legge n. 12 dell’8 febbraio 2001 prevedeva la loro prescrizione solo con ricette a ricalco, l’allargamento della dispensazione a due farmaci o a due dosi anziché una, l’allungamento della durata della ricetta da 8 a 30 giorni e la possibilità per i pazienti di riceverli direttamente dall’ospedale al momento della dimissione per iniziare il primo ciclo di terapia antalgi-ca; successivi decreti e leggi avevano permesso agli operatori sanitari di portarli a domicilio. I farmaci dell’Allegato III-bis erano comunque sistemati all’interno della sezione A della Tabella II e prescrivibili con ricetta a ricalco.

Al professor Ferruccio Fazio va il merito di aver alleggerito gli op-

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52 La Legge 38/10, La più evoLuta in europa per La cura deL doLore

piacei per la terapia del dolore dai vincoli che ne scoraggiavano la prescrizione, rendendoli più facilmente accessibili. Quando era ancora vice ministro, aveva infatti firmato una prima ordinanza del 16 giugno 2009 (entrata in vigore il 20 giugno 2009) che spostava gli oppiacei non iniettabili dell’Allegato III-bis, con esclusione dei composti a base di metadone e di buprenorfina per uso orale, contenuti nella Tabella II, dalla sezione A alla sezione D. La nuova collocazione cambiava le re-gole della prescrizione.

Grazie a questo provvedimento il ricettario a ricalco per le so-stanze deputate al trattamento del dolore “andava in pensione”: il medico poteva prescriverle usando una ricetta normale non ripeti-bile, cioè sia una ricetta bianca sia una ricetta del Servizio Sanita-rio Nazionale alla stregua di qualsiasi altro farmaco, e il farmacista era alleggerito dalle manovre di carico e scarico di queste sostanze. A dare l’annuncio della modifica è stato lo stesso vice ministro Fer-ruccio Fazio nel corso del convegno “Cura del dolore: un segno di civiltà” promosso a Roma da Il Sole 24 Ore Sanità presso la Camera dei Deputati. Una grande eco e molti commenti positivi hanno ac-compagnato questa innovazione. La lotta alla sofferenza aveva re-gistrato dei concreti segni di svolta: una riforma non onerosa, come la semplificazione della prescrizione degli oppiacei, era diventata una realtà e costituiva un risultato enorme. Il massimo fino ad allora raggiunto per la cura di 300 mila malati terminali e per i milioni di persone che combattevano da anni, ingiustamente, contro il dolore cronico quotidiano.

L’ordinanza, semplificando la dispensazione degli oppiacei desti-nati alla cura del dolore, aveva superato anche l’antica discriminazio-ne rispetto agli altri prodotti farmaceutici. Il provvedimento era sta-to dunque vissuto come il raggiungimento di un traguardo di civiltà dall’opinione pubblica e dalla maggior parte dei protagonisti della battaglia, dagli specialisti ai medici di Medicina Generale, dalle Asso-ciazioni al volontariato.

2.1 le polemiChe dei media

Si susseguono una seconda e una terza ordinanza ministeriale sugli oppiacei analgesici che puntualizzano alcuni elementi rispetto alla pri-ma. La seconda, quella del 2 luglio 2009, è dedicata alla tracciabilità delle ricette bianche: su di esse devono essere riportati gli estremi di un documento d’identità dell’acquirente. La terza, quella dell’8 ottobre 2009, specifica le composizioni di oppiacei contenute nella sezione D

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della Tabella II che devono essere assoggettate all’obbligo di monito-raggio d’identità dell’acquirente.

Il provvedimento presentava tuttavia un rovescio della medaglia: la possibilità di usare la normale ricetta del medico aboliva di fatto per i medicinali della terapia del dolore il ricettario speciale, quello a ricalco, ma non implicava l’obbligo di riportare sulla ricetta normale il nome e il cognome della persona a cui erano destinati gli oppiacei e quindi chiunque poteva presentarsi dal farmacista con la ricetta per comprar-li. Il problema della loro tracciabilità ricadeva sulle ricette bianche che il medico staccava dal proprio ricettario personale e scriveva di pro-prio pugno, quelle del Servizio Sanitario Nazionale seguivano già un percorso d’identificazione.

Il tema divenne ancora più scottante quando un giornalista dimo-strò che bastava falsificare la ricetta bianca, imitando la firma del me-dico, per comprare quante scatole di oppiacei si volesse: se la loro pre-scrizione era stata semplificata, anche il loro abuso era diventato più facile.

Per cautelarsi da questo inconveniente, il vice ministro Fazio ha firmato pertanto un’altra ordinanza, il 2 luglio 2009, che obbligava il farmacista a riportare sulla ricetta bianca il nome, il cognome e gli estremi di un documento di riconoscimento dell’acquirente, qualora fossero prescritti i farmaci contenuti nella sezione D della Tabella II. Il farmacista stesso doveva inoltre inviare alla ASL e all’Ordine dei Far-macisti, entro la fine di ogni mese, una dichiarazione riassuntiva del-le ricette spedite il mese precedente: la comunicazione doveva con-tenere anche la denominazione delle preparazioni e il numero delle confezioni dispensate, distinte per forma farmaceutica e dosaggio. In questo modo si potevano controllare gli illeciti dovuti a prescrizioni multiple.

Il provvedimento aveva però generato un percorso laborioso per la dispensazione di tutti i farmaci collocati nella sezione D della Tabella II, sia per quelli transitati dalla sezione A sia per quelli che vi si trova-vano già prima della prima ordinanza, alcuni dei quali erano di uso abbastanza frequente. Per snellire le procedure, l’8 ottobre 2009 il vice ministro Fazio ha firmato una terza ordinanza che riduceva il numero dei prodotti per la terapia del dolore che, prescritti su ricette bianche, fanno scattare per il farmacista l’obbligo di accertare l’identità dell’ac-quirente e di comunicare i dati delle ricette spedite.

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2.2 il Consumo degli oppiaCei: primi segnali di CresCita

A piccoli passi ci si avvia verso un approccio terapeutico più corretto della sofferenza. La semplificazione della prescrizione degli oppiacei doveva contribuire a diffondere la cultura della palliazione e della cura del dolore nel nostro Paese, dove il ricorso a questi farmaci era ancora molto scarso. La migliore conoscenza della malattia dolore, ol-tre al lavoro svolto in merito dal Ministero della Salute e dall’AIFA, aveva tuttavia già dato alcuni segnali positivi. I dati di mercato resi noti dal Centro Studi Mundipharma avevano messo in evidenza come l’Italia avesse registrato il maggior incremento di spesa e di consumi pro-capite di farmaci oppiacei dal 2007 al 2008: queste stime al rialzo facevano ben sperare per un futuro adeguamento dell’Italia agli stan-dard europei.

Il trasferimento di alcuni oppiacei dalla sezione “A” alla sezione “D” della Tabella II era stata considerata di buon auspicio dagli economisti: l’abolizione del ricettario speciale avrebbe dovuto far finalmente de-collare il mercato italiano degli oppiacei, che si posizionava ancora agli ultimi posti rispetto a quello mondiale ed europeo.

La spesa pro-capite di questi farmaci per la cura del dolore, rilevata nel 2008, toccava valori minimi nel nostro Paese: si assestava infatti a 0,74 euro contro una media europea di 3,92 euro e un massimo di 7,83 euro registrato in Germania. I consumi riferiti allo stesso anno ed espressi in mg pro-capite non erano da meno: se la media europea era di 204,58 mg, in Italia era pari a 69,12 mg, un dato molto distante da quello registrato in Germania che aveva il consumo di oppiacei più alto pari a 433,92 mg, seguita dalla Danimarca con 408,05 mg, dalla Spagna con 317,41 mg e dall’Inghilterra con 275,87 mg. 

La situazione, tuttavia, si ribaltava se si faceva un confronto tra il 2007 e il 2008. Secondo i dati provenienti da IMS Midas 2008 e rielabo-rati dal Centro Studi Mundipharma, l’Italia aveva registrato rispetto agli altri Paesi europei il maggior incremento in percentuale della spesa media a cittadino per l’utilizzo dei farmaci oppiacei osservata in questi due anni pari a +23,83%, e della crescita dei consumi pari a +15,31% rispetto allo stesso periodo di tempo. Se si considerava inoltre il quin-quennio 2004-2008, il nostro Paese balzava al primo posto per l’incre-mento in percentuale del consumo espresso in mg pro-capite: in questi anni la crescita registrata era pari a +151%. Sicuramente i valori di par-tenza erano molto bassi, ma un dato simile rappresentava comunque un segnale positivo riconducibile alle politiche di rimborso, sviluppo e investimento che Governo e Regioni avevano dedicato all’argomen-

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to. Gli ultimi trend di crescita erano inoltre incoraggianti anche per le formulazioni orali rispetto a quelle transdermiche (+255,7% contro +135,2%) e sottolineavano la tendenza ad aderire maggiormente alle Linee Guida internazionali OMS, ESMO ed EAPAC che indicavano nelle formulazioni orali la via di somministrazione di prima scelta. Gli oppiacei somministrabili attraverso l’applicazione di cerotti erano tut-tavia ancora preferiti nel nostro Paese, costituendo infatti circa l’80% dei consumi con un aggravio dei costi a carico del Servizio Sanitario Nazionale.

2.3 il riCorso ai fans era anCora troppo elevato

Nel nostro Paese si assisteva a un divario. Da un lato c’era il dolore cronico, sia oncologico sia di altra natura, che continuava a rappresen-tare uno scottante problema sanitario e sociale dato che un cittadino su 4 ne soffriva, dall’altro c’era il basso consumo di analgesici oppiacei registrato nelle nostre Regioni, nonostante fossero i farmaci più appro-priati per curare un dolore di origine non infiammatoria. Qual era il motivo di questa sbilanciata situazione? Alcuni sostenevano che fos-se innanzitutto da riferire alla differente educazione dei nostri addetti alla sanità rispetto a quelli che operavano a livello europeo, sebbene l’Italia fosse stata tra le prime nazioni a prendere in considerazione la necessità di istruire gli studenti alla medicina del dolore. Altri l’attribu-ivano invece ai troppi anni di oscurantismo sugli oppiacei che aveva-no provocato un vero e proprio abuso di farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS).

Se il nostro Paese era ancora un fanalino di coda nel consumo degli oppiacei per la terapia del dolore, era capofila nel consumo di FANS. Il dolore cronico era infatti ancora largamente controllato da questi ulti-mi che rappresentavano circa il 68% delle prescrizioni. L’appropriatez-za terapeutica veniva così messa in pericolo.

I FANS sono infatti indicati in presenza di un processo infiammato-rio in quanto agiscono sui mediatori dell’infiammazione che sono alla base del dolore, ma vanno impiegati per un breve periodo di tempo. Quando il dolore è cronico d’intensità moderata-severa, gli oppioidi sono i farmaci di prima scelta, associati o meno ad adiuvanti.

Per arginare l’inadeguato uso di FANS non si era mai fatto molto. Il bando di nimesulide dal mercato spagnolo e finlandese, avvenuto nel 2002 per sospetta tossicità epatica, era stata l’occasione per appro-fondire il consumo e le complicanze di questa classe farmacologica.

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Da allora infatti, questo FANS, con un profilo di rischio gastrico molto basso e commercializzato in ben 50 Paesi, ha subito diverse vicissitu-dini. Prosciolto nel 2003 dall’European Medicines Agency (EMA) per il mancato nesso causale con gli eventi di sospetta tossicità, nimesulide è stato riaccusato nel 2007 dall’Agenzia del Farmaco irlandese che ne ha sospeso la vendita per la segnalazione di 6 casi di insufficienza epatica grave di cui sembrava responsabile. Una nuova revisione, riaperta dal Comitato per i Prodotti Medicinali per Uso Umano (CHMP) al fine di valutare i possibili effetti di questa molecola sull’apparato gastrointe-stinale ed epatico, lo aveva ancora una volta scagionato: l’EMA ave-va pertanto confermato nuovamente il suo rapporto rischio/beneficio come favorevole e promosso la sua commercializzazione in tutti i Paesi europei, accompagnandola tuttavia da provvedimenti volti a limitarne l’abuso e a incentivarne una corretta prescrizione.

A causa di questo tortuoso percorso prescrittivo, il farmaco aveva perso in otto anni il 75% del mercato a livello mondiale. Ci si aspettava che questi dati influenzassero il mercato dei FANS nel nostro Paese e invece una sorpresa era dietro l’angolo...

Uno studio denominato FATA (Fans Analysis Therapeutical Audit), che ha coinvolto la Federazione Italiana Medici di Medicina Generale (FIMMG), la Società Italiana di Medicina Generale (SIMG) e l’Univer-sità di Parma, ha infatti sottolineato come negli anni 2004-2009 il mer-cato nostrano di FANS non fosse affatto diminuito, ma anzi aumentato. A seguito degli eventi che avevano coinvolto nimesulide era avvenuto un vero e proprio scambio: al posto di nimesulide erano stati semplice-mente prescritti altri FANS anziché farmaci più appropriati modulati secondo le esigenze della persona, come per esempio gli oppiacei in-dicati per il dolore cronico moderato-grave. Il risultato di questa sosti-tuzione era stato un aumento dei disturbi gastrointestinali e un incre-mento delle prescrizioni di farmaci antiulcera.

2.3.1 I rIsultatI dello studIo Fata

Su un milione e mezzo di assistiti riconducibili a 650 medici di Medici-na Generale, recuperati dal database della Società Italiana di Medicina Generale e riferiti a un periodo compreso tra il 2004 e il 2009, è stata eseguita un’analisi retrospettiva del profilo prescrittivo di nimesulide effettuato nella popolazione italiana afferente agli ambulatori di Me-dicina Generale. Si sono pertanto valutati i cambiamenti avvenuti in termini di consumo, indicazioni e incidenza di sanguinamento gastri-co in chi assumeva nimesulide e altri FANS, prima e dopo le restrizioni introdotte.

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I risultati ottenuti hanno sottolineato che i consumi di nimesulide si erano ridotti in modo significativo soprattutto nel periodo che com-prendeva il ritiro del farmaco in Irlanda avvenuto a maggio 2007: tra gennaio 2007 e giugno 2007, il numero delle dosi consumate giornal-mente da 1000 soggetti (DDD/1000 abitanti die) erano infatti passate da 8,15 a 4,77. A calare maggiormente era stato il consumo negli ultra 65enni e soprattutto per le indicazioni relative all’artrosi. Il trend era rimasto costante nella fascia d’età più giovane, sotto i 45 anni, e mo-strava una lieve contrazione nella fascia d’età media tra i 45 e i 65 anni.

Nei cinque anni 2004-2009 il mercato dei FANS era rimasto stabile e aveva evidenziato un passaggio dei consumi da nimesulide ad altri FANS soggetti a prescrizione medica. Se nel 2004 i consumi erano com-posti per il 55% da nimesulide e per il 45% da altri FANS, nel 2009 la situazione si era ribaltata: nimesulide era sceso al 32% e gli altri FANS erano saliti al 68%.

La riduzione dell’impiego di nimesulide, che presentava un più basso rischio di sanguinamento rispetto agli altri FANS ed era asso-ciato a un inferiore utilizzo concomitante di farmaci gastroprotettori, si accompagnava a un aumento delle complicanze gastrointestinali: l’impiego più massiccio di altri FANS si presumeva fosse la causa della comorbilità da reflusso gastroesofageo, pari al 33%, e dell’aumento dei farmaci antiulcera, pari al 36%. La sostituzione di nimesulide con altri FANS non aveva prodotto invece un innalzamento dei danni epatici in quanto l’incidenza delle epatopatie restava molto bassa, pari al 5%.

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Capitolo 3

il Contributo della Chiesa CattoliCa

Qualcosa stava dunque cambiando. Il convegno “Cura del dolore: un segno di civiltà”, tenutosi a Roma alla Camera dei Deputati nel giugno 2009, era stato un’occasione per analizzare anche lo scenario della terapia del dolore in Italia. All’evento erano presenti tutti i protagonisti che da tempo portava-no avanti la battaglia contro la sofferenza. C’erano le Istituzioni, le Società scientifiche e le Associazioni di volontariato: insieme hanno riflettuto sulle carenze attuali e sulle prospettive future. Gli argomenti delle loro discus-sioni avevano già preso una piega più concreta. Si parlava di formazione dei medici, di un accesso più uniforme alle cure, della creazione di una rete assistenziale sul territorio. Le vedute cominciavano a convergere su inter-venti ritenuti inderogabili che avrebbero trovato posto un anno dopo nella legge 38/10. Nello stesso tempo la terapia del dolore si era ritagliata già un ruolo di primo piano e risultava tra gli obiettivi prioritari del Piano Sani-tario Nazionale per il 2009. In piena intesa con questi obiettivi si schierava anche la Chiesa Cattolica, che si trovava a dover sfatare numerosi pregiudizi, primo tra tutti quello che secondo la Dottrina Cattolica alla sofferenza ci si debba rassegnare, anziché combatterla. Questa convinzione sfocia spesso nel pensiero che la religione vieti il trattamento del dolore con la morfina o più in generale con gli oppiacei. In realtà si tratta di luoghi comuni che si alimentano con una mancata conoscenza e un’interpretazione distorta della Dottrina della Chiesa, che più volte ha definito come fondamentale la prassi caritatevole dell’assistenza non solo spirituale ma anche clinica nei riguardi del dolore, nel rispetto della dignità della vita. Numerosi episodi e documenti testimoniano un percorso articolato che la Chiesa ha fatto sulla concezione del dolore e sulla sua cura, parallelamente al progresso fatto dalla scienza e dalle tecnologie contro il dolore. Dagli anni ’50 a oggi il Vaticano ha infatti ribadito che le pratiche antidolorifiche, oltre a essere eticamente legittime, sono un dovere per gli operatori sanitari.

A dare una posizione ufficiale al dolore e al suo superamento è stato Papa Pio XII, che durante un’assemblea internazionale di medici e chirurghi,

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tenutasi il 24 febbraio 1957, disse: «La sopportazione cristianamente motivata e corroborante del dolore non induce a ritenere che ogni sof-ferenza e ogni dolore vadano sopportati comunque e che non si debba intervenire per lenirli. A lungo andare il dolore impedisce il raggiungi-mento di beni e interessi superiori. La stessa carità cristiana esige dagli operatori sanitari l’alleviamento della sofferenza fisica. Per cui è legitti-mo, e oltre certe soglie di sopportabilità è anche doveroso, per l’opera-tore sanitario, prevenire, lenire ed eliminare il dolore». La sofferenza va dunque contrastata, altrimenti aggrava lo stato di debolezza e di esau-rimento fisico, ostacola lo slancio dell’anima e logora le forze morali. A indicare l’atteggiamento pratico da adottare nei confronti del dolore è stato tuttavia Papa Giovanni Paolo II. Egli ha sottolineato, sia nel 1984 durante il congresso dell’Associazione Italiana di Anestesiologia sia nel 1985 in occasione dei lavori promossi dalla pontificia Accade-mia delle Scienze, che tra le cure da somministrare al malato terminale vanno annoverate anche quelle analgesiche. Negli stessi frangenti ha messo inoltre in evidenza che l’anestesia come l’analgesia, agendo su ciò che il dolore ha di più aggressivo e sconvolgente, rende più umana l’esperienza della sofferenza.

3.1 il messaggio di papa giovanni paolo ii sul dolore

Un discorso ancora più completo sull’uso degli analgesici e sulla loro somministrazione proporzionata all’intensità del dolore è stato tenu-to da Papa Giovanni Paolo II il 12 novembre 2004, in occasione della XIX Conferenza internazionale del Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute. Si riporta qui di seguito il testo che per molti aspetti è pro-fetico: nelle sue righe si legge la richiesta di intervento di una squadra di specialisti competenti e affiatati tra loro, l’incoraggiamento alla loro formazione e la necessità del sollievo proveniente dagli analgesici.

L’“appassionante missione” contro la sofferenza, come la definisce il Papa stesso, si profila dunque come una difesa della vita che passa an-che attraverso un’adeguata terapia del dolore la quale rappresenta un insostituibile strumento per restituire dignità alla persona sofferente.

2. La medicina si pone sempre al servizio della vita. Anche quando sa di non poter debellare una grave patologia, dedica le proprie capacità a lenirne le sofferenze. Lavorare con passione per aiutare il paziente in ogni situazione significa aver coscienza dell’inalienabile dignità di ogni essere umano, anche nelle estreme condizioni dello stato terminale. In questa dedizione al servizio di chi soffre, il cristiano riconosce una dimensione fondamentale della sua vo-

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cazione: nell’adempimento di tale compito, infatti, egli sa di prendersi cura di Cristo stesso (cfr Mt 25, 35-40).

“Per Cristo e in Cristo riceve luce quell’enigma del dolore e della morte, che al di fuori del Vangelo ci opprime”, ricorda il Concilio (Gaudium et spes, 22). Chi nella fede si apre a questa luce, trova conforto nella propria sofferenza e acquista la capacità di lenire la sofferenza altrui. Di fatto esiste una relazione direttamente proporzionale tra la capacità di soffrire e la capacità di aiutare chi soffre. L’esperienza quotidiana insegna che le persone più sensibili al do-lore altrui e più dedite a lenire i dolori degli altri sono anche più disposte ad accettare, con l’aiuto di Dio, le proprie sofferenze.

3. L’amore verso il prossimo, che Gesù ha tratteggiato con efficacia nella parabola del buon samaritano (cfr Lc 10, 29ss), rende capaci di riconoscere la dignità di ogni persona, anche quando la malattia è venuta a gravare sulla sua esistenza. La sofferenza, l’anzianità, lo stato di incoscienza, l’imminenza della morte non diminuiscono l’intrinseca dignità della persona, creata a immagine di Dio.

Tra i drammi causati da un’etica che pretende di stabilire chi può vivere e chi deve morire vi è quello dell’eutanasia. Anche se motivata da sentimenti di una mal intesa compassione o di una mal compresa dignità da preservare, l’eutana-sia invece di riscattare la persona dalla sofferenza ne realizza la soppressione.

La compassione, quando è priva della volontà di affrontare la sofferenza e di accompagnare chi soffre, porta alla cancellazione della vita per annientare il dolore, stravolgendo così lo statuto etico della scienza medica.

4. La vera compassione, al contrario, promuove ogni ragionevole sforzo per favorire la guarigione del paziente. Al tempo stesso essa aiuta a fermarsi quando nessuna azione risulta ormai utile a tale fine.

Il rifiuto dell’accanimento terapeutico non è un rifiuto del paziente e del-la sua vita. Infatti l’oggetto della deliberazione sull’opportunità di iniziare o continuare una pratica terapeutica non è il valore della vita del paziente, ma il valore dell’intervento medico sul paziente.

L’eventuale decisione di non intraprendere o di interrompere una terapia sarà ritenuta eticamente corretta quando questa risulti inefficace o chiaramen-te sproporzionata ai fini del sostegno della vita o del recupero della salute. Il rifiuto dell’accanimento terapeutico, pertanto, è espressione del rispetto che in ogni istante si deve al paziente.

Sarà proprio questo senso di amorevole rispetto che aiuterà ad accompa-gnare il paziente fino alla fine, ponendo in atto tutte le azioni e le attenzioni possibili per diminuirne le sofferenze e favorirne nell’ultima parte dell’esisten-za terrena un vissuto per quanto possibile sereno, che ne disponga l’animo all’incontro con il Padre celeste.

5. Soprattutto nella fase della malattia, in cui non è più possibile praticare terapie proporzionate ed efficaci, mentre si impone l’obbligo di evitare ogni for-

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ma di ostinazione o accanimento terapeutico, si colloca la necessità delle “cure palliative” che, come afferma l’Enciclica Evangelium vitae, sono “destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia e ad assi-curare al tempo stesso al paziente un adeguato accompagnamento”.

Le cure palliative, infatti, mirano a lenire, specialmente nel paziente ter-minale, una vasta gamma di sintomi di sofferenza di ordine fisico, psichico e mentale, e richiedono perciò l’intervento di un’équipe di specialisti con compe-tenza medica, psicologica e religiosa, tra loro affiatati per sostenere il paziente nella fase critica.

In particolare, nell’Enciclica Evangelium vitae è stata sintetizzata la dot-trina tradizionale dell’uso lecito e talora doveroso degli analgesici nel rispetto della libertà dei pazienti, i quali devono essere posti in grado, nella misura del possibile, “di soddisfare ai loro obblighi morali e familiari e soprattutto devono potersi preparare con piena coscienza all’incontro definitivo con Dio” (n. 65).

D’altra parte, mentre non si deve far mancare ai pazienti che ne hanno la necessità il sollievo proveniente dagli analgesici, la loro somministrazione dovrà essere effettivamente proporzionata all’intensità e alla cura del dolore, evitando ogni forma di eutanasia quale si avrebbe somministrando ingenti dosi di analgesici proprio con lo scopo di provocare la morte.

Ai fini di realizzare questo particolare aiuto occorre incoraggiare la forma-zione di specialisti delle cure palliative, in particolare strutture didattiche alle quali possono essere interessati psicologi e operatori della pastorale.

6. La scienza e la tecnica, tuttavia, non potranno mai dare risposta sod-disfacente agli interrogativi essenziali del cuore umano. A queste domande può rispondere solo la fede. La Chiesa intende continuare a offrire il proprio contributo specifico attraverso l’accompagnamento umano e spirituale degli infermi, che desiderino aprirsi al messaggio dell’amore di Dio, sempre attento alle lacrime di chi si rivolge a lui (cfr Sal 39, 13). Si evidenzia qui l’importanza della pastorale sanitaria, nella quale ricoprono un ruolo di speciale rilievo le cappellanie ospedaliere, che tanto contribuiscono al bene spirituale di quanti soggiornano nelle strutture sanitarie.

Come dimenticare poi il contributo prezioso dei volontari che con il loro servizio danno vita a quella fantasia della carità che infonde speranza an-che all’amara esperienza della sofferenza? È anche per loro mezzo che Gesù può continuare oggi a passare tra gli uomini, per beneficarli e sanarli (cfr At 10, 38).

7. La Chiesa offre così il proprio contributo in questa appassionante mis-sione a favore delle persone che soffrono. Voglia il Signore illuminare quanti sono vicini ai malati, incoraggiandoli a perseverare nei distinti ruoli e nelle diverse responsabilità.

Tutti accompagni Maria, Madre di Cristo, nei momenti difficili del dolore

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iL contributo deLLa chiesa cattoLica 63

e della malattia, affinché la sofferenza umana possa essere assunta nel mistero salvifico della Croce di Cristo.

Accompagno tali auspici con la mia Benedizione.

3.2 le parole di papa benedetto Xvi

Il Papa attuale, sostenendo la necessità di attivare politiche che consen-tano agli esseri umani di sopportare le malattie incurabili e di morire in maniera degna, si è fatto portavoce di un concetto importante, quello secondo cui la lotta al dolore è una battaglia di civiltà che una società civile deve impegnarsi a portare avanti per garantire la difesa dei suoi valori fondanti. Grazie anche alle sue parole si è fatto sempre più largo il concetto secondo cui curare adeguatamente una persona malata di dolore cronico significa tutelarne il suo intrinseco e inalienabile diritto alla dignità. Qui di seguito si riportano alcune frasi del discorso tenuto da Papa Benedetto XVI alla XXII Conferenza internazionale del Ponti-ficio Consiglio per gli Operatori Sanitari il 17 novembre 2007.

«…La Chiesa desidera sostenere i malati incurabili e quelli in fase termi-nale esortando a politiche sociali eque che possano contribuire a eliminare le cause di molte malattie e chiedendo con urgenza migliore assistenza per quan-ti stanno morendo e per quanti non possono contare su alcuna cura medica. È necessario promuovere politiche in grado di creare condizioni in cui gli esseri umani possano sopportare anche malattie incurabili e affrontare la morte in una maniera degna. A questo proposito, è necessario sottolineare ancora una volta la necessità di più centri per le cure palliative che offrano un’assistenza integrale, fornendo ai malati l’aiuto umano e l’accompagnamento spirituale di cui hanno bisogno. Questo è un diritto che appartiene a ogni essere umano e che tutti dobbiamo impegnarci a difendere».

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Capitolo 4

il diritto per ogni Cittadino di aCCedere alle Cure palliative e alle terapie antalgiChe e il dovere etiCo di offrirle

I tempi erano maturi per pensare a una legge che potesse contenere i concetti sulla gestione e sulla cura del dolore dibattuti, approfonditi e vagliati in più occasioni. La burocrazia che pesava sugli oppiacei si era alleggerita dopo le ordinanze firmate dal sottosegretario Ferruccio Fazio e la sofferenza comin-ciava a essere considerata una malattia e non più un sintomo. Finalmente il dolore era diventato oggetto di discussione nelle sfere ministeriali e se ne parlava ormai anche in termini legislativi.

4.1 nasCita ed evoluzione della legge sul dolore

L’idea di mettere a punto una legge sul dolore è nata a luglio del 2008; prima c’era una situazione di tabula rasa. Di fatto si era creato un vuoto assistenziale sulle tematiche riguardanti il dolore, sia nelle forme cro-niche sia in quelle relative al fine vita, con una particolare evidenza in ambito pediatrico. Le reti strutturate di terapia del dolore mancavano. I centri e gli ambulatori che si occupavano dell’analgesia presentavano caratteristiche diverse e una disomogenea distribuzione sul territorio. Percorsi strutturati e condivisi con i medici di Medicina Generale e i pediatri dovevano ancora essere messi a punto. L’equità di accesso alla terapia del dolore non era inoltre garantita per carenza di coordina-mento tra ospedale e territorio. D’altronde, la formazione pre e post-laurea del medico era carente in materia: la terapia del dolore e le cure palliative non erano tra gli insegnamenti “obbligatori” del corso di lau-rea in Medicina e Chirurgia. La mancanza di formazione sulla gestione della sofferenza era un po’ come “il cane che si morde la coda”: ostaco-lava ulteriormente la definizione e l’attuazione di percorsi assistenziali per le principali malattie algiche. Prendendo coscienza di tutte queste lacune, si decise di istituire all’interno della Commissione ministeriale “Programmazione” un gruppo di lavoro dedicato all’elaborazione di un modello assistenziale che potesse fornire risposte certe ai bisogni primari della popolazione.

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L’iniziativa è partita dall’allora deputato Giuseppe Palumbo, presiden-te della XII Commissione Affari Sociali, e da Antonio Tomassini, presi-dente della 12° Commissione Igiene e Sanità del Senato, che all’epoca ebbero un’illuminazione: perché non spaccare in due quel disegno di legge sulle cure palliative e testamento biologico e di fine vita che gia-ceva da tempo alla Commissione Affari Sociali e trasformarlo in un progetto per le cure palliative e in uno per il testamento biologico e di fine vita? La proposta piacque un po’ a tutti. Fu accettata dalle orga-nizzazioni di Cure Palliative che speravano in una legge per sdoganare una disciplina che non aveva corsi universitari né nell’ambito della facoltà di Medicina né in quello delle specializzazioni. E fu appoggiata da chi voleva mettere in evidenza il dolore e il suo trattamento: en-trambi potevano essere aggiunti alla parte della legge riguardante le cure palliative riformulandone la dicitura in “cure palliative e terapia del dolore”. Il filo conduttore di questa scelta era l’evidenza che ben il 96% dei malati in palliazione provava dolore e la sua cura meritava attenzione. Dopo non poche discussioni si decise di prevedere anche due reti, una per le cure palliative e una per la terapia del dolore, volte ad assistere il malato con continuità dall’ospedale fino al proprio do-micilio usufruendo di tutte le strutture sanitarie disponibili e di tutte le figure professionali necessarie. Due profili distinti cominciavano a de-linearsi pur rimanendo nella stessa cornice, quella di prendersi carico della persona sofferente a 360 gradi.

4.2 il gruppo di lavoro e il ruolo Centrale del ministro ferruCCio fazio

In otto mesi si è organizzato un gruppo di lavoro e si è stesa la prima bozza di legge da presentare alla Commissione Affari Sociali del Par-lamento. La veloce tempistica della sua approvazione in legge si deve a una felice alchimia di tempi storici e di personalità. Fondamentale è stata anche l’azione del Ministro della Salute Ferruccio Fazio: suo il “la” per iniziare a considerare l’argomento dolore e suo l’indirizzo a spostare la cura e l’assistenza della sofferenza dall’ospedale al territo-rio. Il momento storico ha giocato senz’altro a favore di una presa di coscienza concreta sulla tematica dolore. In altre parole, i tempi erano maturi per occuparsene seriamente e ottenere dei risultati. Si arrivava da un Ministero, quello presieduto dall’on. Livia Turco, che aveva in-nalzato la sensibilità sulla sofferenza con molti momenti di discussione e di scambi d’idee, pur non arrivando di fatto a produrre nessun prov-vedimento attuativo. O meglio, aveva realizzato due documenti − uno sul dolore e uno sulle cure palliative − in cui si sottolineavano i molte-

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plici nodi da sciogliere, documenti che non erano tuttavia mai diventa-ti oggetto di confronto con le Regioni e tanto meno erano entrati in un momento istituzionale con queste ultime. Ciononostante erano serviti a gettare le basi di un ragionamento nuovo, che prendeva spunto dal fatto che il dolore apparteneva a due mondi tra loro parzialmente in-tersecanti, quello della terminalità della vita e quello del dolore acuto e cronico, avvertiti rispettivamente da chi aveva per esempio una sof-ferenza post-operatoria o un’ernia discale e da chi aveva un disturbo curabile ma non guaribile. Ognuno di essi pretendeva professionisti diversi e un sistema di assistenza specifico.

L’input a lavorare sulla tematica “dolore” l’aveva dato l’on. Ferruccio Fazio, allora sottosegretario del ministro Maurizio Sacconi, che aveva ripreso in mano ciò che allora esisteva, vale a dire la vecchia delibera dell’“Ospedale senza Dolore” voluta da Umberto Veronesi, dandosi l’obiettivo di riprogrammarla.

L’idea dell’on. Ferruccio Fazio era di spostare sul territorio la fun-zione di cura del dolore incentrata ancora nell’ospedale, per renderla più capillare e quindi più efficace. La parola d’ordine era diventata “territorializzare” e ad essa tutti hanno risposto.

Nacque, così, un gruppo di lavoro, composto da specialisti, tecnici e amministrativi, di piccole dimensioni ed estremamente efficiente. Esso era costituito dal presidente della Società Italiana di Cure Pal-liative Giovanni Zaninetta, dal responsabile dell’Area Dolore SIMG Pierangelo Lora Aprile, dal medico palliativista Lorenzo Scaccaba-rozzi, da Rita Melotti dell’Agenzia Regionale Sanitaria e Sociale della Regione Emilia-Romagna, dal terapista del dolore della Fondazio-ne Salvatore Maugeri di Pavia Cesare Bonezzi, dal direttore dell’U-nità Operativa di Cure palliative e Terapia del Dolore dell’Azienda USL di Rimini William Raffaeli e dal dirigente tecnico del Ministero Giovanna Romeo che traduceva in “linguaggio legale” i concetti che dovevano trasmettere alla Commissione Affari Sociali del Parlamento la posizione del Ministero sulle cure palliative e sulla terapia del do-lore.

A metterli e tenerli insieme è stato Guido Fanelli, attuale presidente della Commissione Ministeriale sul Dolore nonché professore ordina-rio all’Università di Parma e direttore della struttura complessa II Ane-stesia, Rianimazione e Terapia antalgica dell’Azienda Ospedaliera–Universitaria di Parma, che grazie al suo spiccato pragmatismo unito a una buona dose di determinazione è riuscito a ottenere un primo risultato: quello di poter disporre nell’arco di pochi mesi di un nuovo disegno di legge, frutto di una quasi interminabile serie di sedute e di

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ore trascorse a discutere su come imbastire un canovaccio comune e su quali concetti farvi rientrare.

Se ora ci si chiede come sia stato possibile responsabilizzare tutti i componenti del gruppo su un’unica tematica, quella delle cure pal-liative e della terapia del dolore, e far nascere tra loro una così spicca-ta fiducia reciproca, ebbene, il merito non va solo al momento storico giusto: alla buona realizzazione del progetto molto ha concorso una fortunata congiuntura di persone che con il loro temperamento e la loro preparazione si sono completate, arricchite e modulate.

4.3 i progetti da Cui l’iniziativa ha tratto linfa vitale

Nello stesso tempo in cui stava scrivendo la bozza di legge, il grup-po di lavoro seguiva un Progetto formativo sperimentale volto a “for-mare” alcuni medici di Medicina Generale sulle cure palliative e sulla terapia del dolore per farli diventare, a loro volta, formatori di altri colleghi sulla stessa tematica. Questi corsi pilota, che prevedevano la partecipazione di 40 trainers, erano stati avviati in quattro Regioni che per omogeneità di popolazione erano Emilia-Romagna, Veneto, Lazio e Sicilia. Il loro svolgimento era un buon esercizio per capire le neces-sità da soddisfare e i bisogni richiesti da malati e figure professionali. Parallelamente, i componenti della squadra di lavoro si erano messi a scrivere due libri, uno che trattava “Il dolore cronico in Medicina Ge-nerale” e l’altro “Il dolore nel bambino. Strumenti pratici di valutazione e terapia”, che tiravano le fila di concetti importanti. Anche questa ini-ziativa è servita ad approfondire spunti, sondare conoscenze e mettere insieme strategie d’azione che sono poi confluite nella legge sulle cure palliative e terapia del dolore.

4.4. i momenti CritiCi vissuti nel perCorso dell’approvazione

I tentennamenti sono stati sostanzialmente due. Il primo si è avuto sul numero di reti di assistenza da prevedere. Molti ne preferivano una sola: i palliativisti volevano incamerarsi la terapia del dolore e i terapi-sti del dolore le cure palliative.

Alla fine è prevalso il buon senso, cioè la decisione di istituirne due, perché si è capito che gli ambiti d’azione erano diversi come pure le figure professionali che se ne dovevano occupare e le strutture sani-tarie che si dovevano far carico dei differenti tipi di malati. Il secon-do inghippo che merita di essere ricordato è stato quando il disegno

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di legge, dopo essere stato approvato in modo unanime e bipartisan dalla Commissione Affari Sociali, aver ricevuto il benestare finale del ministro Ferruccio Fazio ed essere passato alla Camera dei Deputati, è arrivato alla Commissione Sanità del Senato non esattamente come doveva essere, vale a dire con qualche rimaneggiamento che faceva perdere il significato ad alcuni passaggi.

È stato quello il momento più critico dell’intero iter legislativo. Gui-do Fanelli si era consultato con l’on. Antonio Tomassini, presidente della Commissione Sanità del Senato: non c’erano “ma” che tenesse-ro, bisognava rivedere l’intera bozza. È stato allora che tutti i senatori hanno lavorato come tecnici per rimettere a punto il testo in una seduta durata ore e ore. Con qualche modifica e aggiustamento, ma integro nella sua sostanza, il disegno di legge è tornato alla Commissione Af-fari Sociali del Parlamento per ricominciare di nuovo il suo percorso. Il risultato? Il 15 marzo 2010 la legge è stata approvata in via definitiva, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 19 marzo 2010 ed entrata in vigore il 3 aprile 2010.

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Capitolo 5

l’uniCità della legge

Il nuovo provvedimento legislativo rappresenta una punta di eccellenza del nostro Paese per ben quattro motivi. È il primo esempio a livello europeo di normativa “quadro” che obbliga a occuparsi del dolore provato da ogni cittadino, neonato e bambino compresi, qualunque ne sia la causa e senza alcuna discriminazione di sorta. È un documento che ha avuto il consenso congiunto del mondo scientifico, delle organizzazioni non profit e del volon-tariato. È un testo che propone numerose innovazioni, dalla ridefinizione del modello assistenziale in materia di dolore alla creazione di due reti d’as-sistenza, una per le cure palliative e una per la terapia del dolore, alla par-ticolare attenzione posta ai pazienti in età pediatrica. Ed è una legge che si è subito resa attuativa: a soli due mesi dalla sua approvazione è stata creata una Commissione nazionale che ha prodotto alcuni degli atti richiesti dalla legge.

La legge 38/10 sulle cure palliative e la terapia del dolore rappresenta un progresso fondamentale per la tutela della salute in Italia, in quanto sancisce il dovere etico di offrire al cittadino il diritto a essere curato e alleviato dal dolore, indipendentemente dall’età, dal tipo di malattia, dal luogo di vita, dalla famiglia di appartenenza e dalla condizione economica.

Essa rappresenta un grande risultato per il Servizio Sanitario Nazio-nale e posiziona il nostro Paese tra quelli più avanzati in questo ambito assistenziale. Condivisa da tutte le parti politiche, è stata fortemente voluta dal Ministero della Salute, che ha avuto un ruolo di primaria importanza in tutto il percorso istituzionale, dallo spunto iniziale alla sua approvazione.

A ragione è stata definita rivoluzionaria. Un aggettivo che si merita a pieno titolo, perché è l’unica normativa esistente nel mondo occiden-tale che si occupa anche del dolore dei neonati e dei bambini e della sua cura. In altre parole fa diventare il bambino sofferente una persona di cui prendersi cura e riconosce al dolore la dignità di “malattia nella malattia”: la sofferenza non è più un pegno da pagare e neppure un

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sintomo, ma una vera e propria patologia meritevole dello stesso livel-lo di assistenza delle altre patologie.

Prima dell’avvento di questa legge, i medici di Medicina Generale come anche gli specialisti avevano la possibilità o meno di occuparsi del dolore. In genere erano sensibili alla sofferenza dei propri assistiti, ma pochissimi mettevano in campo strumenti seri per misurarla e con-trollarla, come per esempio i farmaci oppiacei. Il trattamento del dolo-re era considerato un po’ come la “ciliegina sulla torta” della terapia, un di più che poteva essere dato o non dato, una scelta che dipendeva dalla cultura e dalla preparazione del medico stesso.

La nuova disposizione legislativa ha ribaltato le regole del gioco e ha fatto diventare obbligatori il trattamento del dolore e il suo monito-raggio: le strutture sanitarie come anche i singoli operatori sanitari che non la osservano sono perseguibili e il cittadino può sporgere denuncia.

5.1 il dolore CroniCo deve essere trattato

In un certo senso la legge 38/10 precorre i tempi: i concetti e i risvolti che propone sono infatti più avanzati rispetto alla situazione attuale. Di solito le leggi si fanno per aggiungere caselle a un mosaico già im-postato o per tappare buchi evidenti; in questo caso essa propone un progetto a tutto tondo contro il dolore, studiato per affrontare qualsiasi tipo di sofferenza – di cui soffre un terzo della popolazione – da quella acuta a quella cronica non necessariamente dovuta al cancro ma pro-vocata anche da malattie degenerative, come per esempio le patologie reumatiche e osteoarticolari.

Prima dell’arrivo di questa normativa, il dolore cronico non era consi-derato in tutti gli ambiti in cui si può presentare. La legge 39 del 1999 si era occupata sostanzialmente della persona in fin di vita e aveva cercato di dare una risposta assistenziale a questa situazione: lo Stato, stanziando circa 200 milioni di euro per la costruzione degli hospice, aveva definito e creato le cure palliative che erano tuttavia rivolte a pazienti terminali, affetti da malattie progressive e in fase avanzata, a rapida evoluzione e a prognosi infausta, per i quali ogni terapia fi-nalizzata alla guarigione o alla stabilizzazione della patologia non era possibile né appropriata.

Il progetto “Ospedale senza Dolore”, voluto dal ministro Umberto Veronesi nel 2001, era soprattutto indirizzato ai ricoverati in ospedale per cancro a cui si riconosceva per la prima volta la dignità della loro sofferenza.

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Entrambe le iniziative di fatto lasciavano scoperta una serie di si-tuazioni e di malattie non terminali che davano comunque sofferenza, come per esempio i disturbi osteoarticolari, le cefalee o le malattie au-toimmuni.

La nuova normativa invece si faceva carico, per la prima volta, an-che del dolore cronico, di quella sofferenza che persiste per un periodo maggiore di tre mesi, cioè più a lungo del corso naturale della guari-gione e che si associa a un particolare danno o malattia: è la sofferenza che può essere avvertita dentro o fuori da un ospedale, a seguito di un intervento o di una patologia non necessariamente oncologica e da qualunque persona, dai neonati ai bambini, agli adulti e agli anziani. È questa la forma di dolore più invalidante, che colpisce il 25-30% del-la popolazione e soprattutto la componente femminile con il 56% dei casi: le più recenti ricerche sostengono che un nostro connazionale su quattro ne soffre con una durata media di sette anni.

Un’indagine eseguita in un Centro di Terapia del Dolore lombardo su 234 soggetti di età media di 62 anni, giunti per una prima visita di propria iniziativa o inviati dal medico di famiglia o dallo specialista, è scesa nei particolari: il dolore di questi pazienti durava in media già da 56 mesi e il valore dichiarato della sua intensità era pari a 8 con valori compresi tra 5 e 10.

Un altro studio, questa volta compiuto in Europa comprendente an-che l’Italia, ha messo in evidenza la capacità del dolore di limitare in modo significativo le attività quotidiane. Ben il 32% della popolazione intervistata lamentava infatti un dolore muscolo-scheletrico, localizza-to frequentemente nel tratto lombare della colonna: l’11% dei parteci-panti alla ricerca aveva avuto un episodio di dolore nell’ultima setti-mana, mentre il 9% riferiva un dolore cronico in regione lombare. Le donne lo presentavano assai più spesso degli uomini: una percentuale del 28% contro il 22%.

Il dolore cronico merita dunque di essere considerato e trattato per-ché è una vera e propria malattia, causata da un’alterazione dello stes-so sistema deputato alla rilevazione e decodificazione delle sensazioni dolorose. È dunque il sistema nocicettivo che si ammala, per esempio dopo un ictus o per una mielopatia, una vasculopatia diabetica o una malattia muscolo-scheletrica.

Milioni e milioni di persone ne sono colpite. In geriatria affligge il 74,4% degli ultrasessantacinquenni: in un campione di anziani istituzio-nalizzati, si è rilevato che il 24% avvertiva dolore costante e solo il 29% non riferiva alcuna sofferenza. Tra i portatori dell’infezione da HIV, il dolore è presente nel 23% degli asintomatici e nell’80% di chi ha l’AIDS conclamato. I suoi numeri nelle corsie degli ospedali sono ancora molto

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elevati. Il dolore è avvertito come moderato dal 38% dei ricoverati nei reparti di oncologia e come severo dal 19%; sono necessarie cure pallia-tive nel 50% dei casi; è il sintomo primario nel 30% delle situazioni ed è la spia di neuropatie sensoriali periferiche nel 30% delle volte.

Sul territorio la situazione non è meno drammatica. Secondo una ricerca osservazionale eseguita nell’ambito della Me-

dicina Generale italiana e presentata al Congresso nazionale SIMG nel 2006, l’8-10% della popolazione in carico ha dolore, che è di tipo cro-nico nel 52,8% dei casi. Stando ai risultati ottenuti da un’altra ricerca finalizzata del Ministero della Salute ed eseguita da Raffaeli e Bonezzi nel 2008, l’intensità del dolore riferita dagli Italiani che si rivolgono ai centri specialistici è molto elevata mentre l’offerta di cura è molto bas-sa. Questo squilibrio genera nei cittadini un disorientamento, che por-ta il 21% delle persone sofferenti a non sapere dove andare per trattare il proprio dolore e il 33% a consultare dai tre ai sette medici prima di trovare un interlocutore, con un notevole esborso di denaro e perdita di tempo: l’attesa media prima di rivolgersi a un centro appropriato è di settimane nel 39,2% dei casi, di mesi nel 36,6% delle situazioni e di anni nel 24,5% delle volte.

Il dolore cronico non è dunque invalidante solo nelle persone affet-te da cancro, sebbene sia presente nella fase iniziale della malattia nel 30% dei casi e in fase avanzata in oltre il 70%. Distinguerlo dal dolore oncologico può sembrare di primo acchito artificioso perché i mecca-nismi fisiopatologici che sottendono la sofferenza non sono poi così di-versi l’uno dall’altro. Quello che cambia sono gli obiettivi e l’approccio terapeutico: differenziarli è pertanto quanto mai utile per ottenerne il controllo ottimale.

La persona con dolore cronico non dovuto a cancro deve, infatti, essere trattata per ridurre la disabilità: il suo dolore deve essere curato per evitare che possa perdere l’autosufficienza e la capacità di svolgere attività quotidiane e di avere relazioni sociali. La persona con dolore oncologico può perseguire questo stesso obiettivo nelle fasi iniziali del-la malattia, ma quando la malattia progredisce il dolore diventa “tota-le”, conferendo fragilità psicologica e coinvolgendo tutte le dimensioni umane, ed è impensabile che possa essere controllato solo dalla terapia farmacologica: occorre un approccio multidisciplinare che tenga conto anche dei bisogni psicologici, spirituali e sociali dell’individuo.

5.1.1 Una fotografia della sofferenza femminile

Un’alta percentuale di donne subisce ancora un disagio costante nella quotidianità della vita a causa del dolore cronico. È quanto emerge

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da una recente ricerca promossa da DonnEuropee Federcasalinghe, la principale associazione che rappresenta in Italia chi svolge il lavoro fa-miliare a tempo pieno o part-time in collaborazione con il Centro Studi Mundipharma da tempo impegnato a divulgare una corretta cultura contro la “malattia dolore”, ed eseguita su 684 casalinghe di 12 regioni italiane.

I risultati ottenuti hanno messo in evidenza come più della metà delle intervistate, e precisamente il 65%, soffra di dolore cronico: nel 74% dei casi di origine non neoplastica e attribuibile per il 61% ad ar-trosi, osteoporosi e artrite reumatoide.

L’intensità della sofferenza provata non è inoltre da sottovalutare. Su una scala numerica da 0 a 10, essa ha una media pari a 5,6 e si pre-senta in modo costante: nel 65% dei casi si protrae infatti per più di un anno. La sua presenza grava in modo significativo sulla qualità del-la vita delle casalinghe, limitando le attività giornaliere nel 63,3% dei casi, il riposo notturno nel 43% delle volte, le faccende domestiche nel 33% delle situazioni e le relazioni familiari nel 23% dei contesti.

Le terapie antalgiche assunte sono spesso inadeguate: la metà delle donne intervistate giudica le cure somministrate poco o per nulla effi-caci. Troppo spesso si ricorre infatti agli antinfiammatori non steroidei (FANS), prescritti ancora nell’88% dei casi. A limitare una corretta pre-sa in carico della sofferenza femminile è anche la mancanza di specia-listi del dolore: nel 54% dei casi i trattamenti antalgici sono sommini-strati da medici esperti nella malattia primaria ma poco informati sulla cura del dolore, mentre gli specialisti vengono consultati solo nel 17% dei casi.

Andando a sondare la realtà della sofferenza nelle singole regio-ni, l’indagine ha evidenziato come il dolore cronico sia più frequente in Lazio, Campania e Lombardia: qui si registrano rispettivamente il 74,8%, il 74,5% e il 72% di donne sofferenti. Se il Friuli Venezia Giulia si propone come la regione più virtuosa in materia di dolore essendo riscontrato in meno del 32% dei casi, la Campania è quella dove l’in-tensità della sofferenza raggiunge i livelli più elevati: secondo la scala numerica che va da 0 a 10 esso è pari a 7.

Questi dati sono confermati pure dall’Associazione Internaziona-le per lo Studio del Dolore (IASP), che ha sottolineato come il dolore cronico colpisca il 40% della popolazione femminile contro il 31% di quella maschile. Il perché di questa differenza va senz’altro ricercato nelle diversità anatomiche, ormonali e fisiologiche che caratterizzano i due sessi. Basti pensare al dolore associato per esempio a gravidanza e ciclo mestruale o alle emicranie quotidiane per comprendere anche solo intuitivamente lo sbilanciamento della sofferenza verso l’universo

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femminile. La maggiore longevità delle donne fa poi la sua parte in quanto le espone più a lungo a un numero maggiore di disturbi dege-nerativi e di malattie croniche.

La differente percezione della sofferenza tra uomini e donne è stata tuttavia approfondita da un’indagine, eseguita da O.N.Da e da Obser-va su 514 donne con un’età compresa tra 30 e 75 anni. I risultati ot-tenuti hanno indicato come il dolore cronico sia scomponibile in una dimensione sensitiva, in una emotiva e in una sociale, ognuna delle quali è percorsa in modo significativo dal gentil sesso.

Il primo aspetto, quello sensitivo, è giustificato dal fatto che la don-na è altamente ricettiva al dolore, che pare essere una costante della sua vita in molti casi: lo ha lamentato il 57% delle intervistate che lo ha riferito come sporadico nel 38% dei casi e assiduo nel 20% delle situa-zioni, correlato a cancro (9,4%), dolori mestruali (8,3%), mal di denti (7,8%), dolori alla schiena (6,7%), emicranie e cefalee (6,6%) e ad artriti, osteoporosi e artrosi (6,7%), e avvertito con un’intensità media dal 28% del campione.

Il secondo aspetto, quello emotivo, è riconducibile alla maggiore intensità con cui la donna vive la sofferenza rispetto all’uomo. È infatti lei che spesso è chiamata a occuparsi del dolore degli altri e ad accetta-re situazioni precostituite che l’hanno portata ad affrontare e a volte a subire il dolore, e a riconoscerlo.

Il terzo aspetto, quello sociale, si declina nella minore disponibilità di trattamenti antalgici adeguati alle proprie caratteristiche di genere e nel riconoscere come la sofferenza nelle donne porti maggiormente con sé depressione e distacco dalla vita quotidiana, con forti implica-zioni umane ed economiche. Un dolore persistente, sebbene moderato, altera l’umore delle persone nel 70% dei casi, le attività domestiche e lavorative nel 36% dei casi, la qualità del sonno nel 47% e l’appetito nel 21%, causando un calo nel rendimento di qualsiasi prestazione.

A fronte di una discreta disponibilità a curare il proprio dolore, la maggior parte delle donne, e precisamente il 61,3%, ricorre ancora a farmaci tradizionali e il 23,7% alla fisioterapia; poche sono coloro che optano per l’omeopatia o altre medicine alternative.

5.1.2 le malattie reUmatiche: Un terzo dei pazienti ha dolore continUo

Le malattie reumatiche sono la causa più frequente di dolore croni-co. Secondo una recente indagine condotta in 15 Paesi europei, il 19% degli adulti soffre di dolore cronico di intensità moderata-grave: l’o-steoartrosi e l’artrite reumatoide sono le cause più comuni di dolore reumatico, avvertito nel 35-48% dei casi.

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Nella realtà italiana questo gruppo eterogeneo di patologie, che conta oltre 100 disturbi soprattutto a carico dell’apparato locomotore, colpisce il 10% della nostra popolazione: la più diffusa di tutte è l’artro-si che affligge oltre 4 milioni di italiani.

Il dolore associato alle forme reumatiche cambia in rapporto alla na-tura della malattia e ai meccanismi patologici coinvolti. Quello di tipo infiammatorio, tipico dell’artrite reumatoide, è particolarmente intenso al mattino nel momento del risveglio, si accompagna alla caratteristica e persistente rigidità articolare mattutina e tende a ridursi nel pomerig-gio seguendo un ritmo circadiano. Il dolore meccanico, tipico dell’ar-trosi, è invece assente a riposo, è accentuato dal carico articolare e si ac-compagna a rigidità articolare generalmente di breve durata. Il dolore da compressione nervosa, secondario alla sofferenza di radici nervose o nervi periferici, è d’intensità variabile, si associa in alcuni casi a deficit motorio e frequentemente a parestesie soprattutto nelle neuropatie da intrappolamento quali la comune sindrome del tunnel carpale.

La maggior parte delle persone affette da una qualunque forma reumatica va incontro a una sofferenza intensa e persistente, che rende difficile la maggior parte delle attività quotidiane.

Nonostante i continui progressi nella comprensione della patoge-nesi delle malattie reumatiche e nello sviluppo di alcuni farmaci (basti ricordare i farmaci “biologici” usati per le malattie reumatiche infiam-matorie croniche quali l’artrite reumatoide, la spondilite anchilosante e l’artrite psoriasica, e l’impiego sempre più precoce di farmaci tra-dizionali come i disease-modifyng antirheumatic drugs), il controllo del dolore cronico muscolo-scheletrico resta tuttora un problema rilevante per molte persone.

Problema che dovrebbe essere affrontato con una strategia terapeu-tica il più possibile personalizzata sul profilo clinico del paziente in termini di sicurezza, efficacia, rapidità d’azione e persistenza dell’ef-fetto, e che viene invece risolto il più delle volte in modo inappropriato ricorrendo a FANS e Cox-2 inibitori, considerati ancora i farmaci di prima scelta per il dolore reumatico, che comportano non pochi effet-ti collaterali tra cui tossicità gastrointestinale e renale e un aumento del rischio cardiovascolare. A oggi, solo il 2% dei pazienti con malattie reumatiche viene trattato con gli analgesici oppiacei sebbene per tali malati la necessità primaria sia quella di poter controllare al meglio il dolore. Ne consegue che la maggior parte dei pazienti si definisce insoddisfatta delle terapie che gli vengono somministrate e chiede al proprio medico trattamenti più efficaci.

A poco sono servite le Linee Guida, messe a punto già da qualche anno, che raccomandano ai clinici di utilizzare i FANS e i Cox-2 inibito-

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ri solo in limitate circostanze e per il minor tempo possibile, portando l’attenzione sull’impiego di paracetamolo e oppiacei, la cui efficacia nel dolore cronico muscolo-scheletrico è stata confermata più volte dalla letteratura scientifica. Uno studio controllato, a lungo termine, della durata di 3 anni sull’utilizzo degli oppiacei in pazienti non on-cologici, pubblicato nel 2007 su Clinical Journal of Pain, ha per esem-pio dimostrato l’efficacia e la sicurezza di questo tipo di trattamento. I suoi risultati sono stati avallati anche da uno studio retrospettivo che ha valutato l’impiego degli oppiacei in pazienti non oncologici per 5 anni. L’impatto del trattamento antidolorifico sulla qualità della vita e sulla funzionalità è stato esaminato da uno studio pubblicato nel 1996 sulla rivista dell’American Society for Clinical Pharmacology and Thera-peutics ed eseguito su 107 soggetti con artrite reumatoide, affetti da dolore moderato-severo e non responsivi ai trattamenti convenzionali a base di FANS e paracetamolo, che hanno assunto ossicodone a rila-scio controllato per 90 giorni. La terapia proposta ha determinato una significativa riduzione dell’intensità della sofferenza, una limitazione dell’interferenza del dolore con le attività quotidiane e con la capacità di camminare e lavorare, e un’influenza positiva sul tono dell’umore, sul sonno, sulle relazioni sociali, nonché un miglioramento dei para-metri di funzionalità.

L’utilizzo degli oppiacei in ambito reumatologico è stato inoltre sottolineato nelle raccomandazioni EULAR (European League Against Rheumatism) per il trattamento dell’osteoporosi di anca e ginocchio e condiviso da una successiva Consensus italiana nella quale si sono con-frontati diversi specialisti tra cui reumatologi, fisiatri, ortopedici, far-macologi e medici di Medicina Generale: il loro orientamento è stato quello di somministrare gli analgesici oppiacei ai soggetti non respon-sivi a paracetamolo o a quelli in cui i FANS e i Cox-2 inibitori sono controindicati, inefficaci e/o scarsamente tollerati.

Le Linee Guida elaborate consigliavano inoltre l’ossicodone a rila-scio controllato per l’osteoartrosi associata a dolore moderato-severo.

Anche per la lombalgia vi sono evidenze di efficacia sull’uso degli oppiacei nel dolore severo: una revisione, pubblicata nel 2007 sugli An-nals of Internal Medicine ed eseguita dall’American Pain Society e dall’A-merican College of Physicians, ha ulteriormente confermato l’utilità di questa classe di farmaci nella cura della lombalgia cronica.

Uno studio in doppio cieco, pubblicato nel 2007 sull’American Journal of Medicine ed eseguito in soggetti con fibromialgia, una sin-drome caratterizzata da dolore muscolo-scheletrico diffuso e cronico, ha infine messo in evidenza che il tramadolo associato al paracetamolo induce un efficace controllo del dolore.

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5.1.3 l’antieconomicità della sofferenza non cUrata

Il dolore cronico, aumentando con l’età, andrà incontro a un prevedibi-le aumento a livello mondiale e quindi anche nel nostro Paese, a causa del progressivo invecchiamento della popolazione. Secondo le proie-zioni epidemiologiche dell’ONU, nel 2050 gli ultrasessantacinquenni sono destinati a raddoppiare: tra circa quarant’anni passeranno dagli attuali 245 milioni a 406 milioni, a fronte di una diminuzione degli individui con meno di 60 anni che caleranno dagli odierni 971 a 839 milioni. In Italia la quota di ultrasessantenni sarà di circa 2/3 della popolazione generale.

La correlazione tra anzianità e maggiore probabilità di sviluppare ma-lattie che comportino una sofferenza quotidiana ha indotto a una ri-flessione. Il fatto stesso che il dolore sia avvertito da una quantità di persone pari a 15 milioni di italiani ha favorito la messa a punto della legge per una sua gestione più consapevole.

Il dolore cronico comporta infatti una “malignità” sociale che coin-volge in una spirale negativa dapprima l’individuo, poi la sua fami-glia, quindi la società e infine la nazione.

Di questa concatenata successione di eventi ci si era già accorti nel 2001, quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aveva pubblicato l’annuale World Health Report che classificava le malattie non solo in base alla loro mortalità ma anche in base alla disabilità che comportavano. Ebbene, questo nuovo modo di inquadramento ha sottolineato come l’aspetto del dolore cronico derivante da patologie “non mortali”, quali per esempio cefalee, lombalgie o artrosi, richie-desse un costo molto elevato e non solo sanitario. Basta pensare alla ridotta efficienza lavorativa e alla progressiva diminuzione delle attivi-tà quotidiane dovute al dolore per comprendere l’alto prezzo causato dalla sua sottovalutazione e dal mancato trattamento. A conti fatti, la “malattia dolore” causa all’economia nazionale una perdita di oltre 3 milioni di ore lavorative e una spesa di 2.000 milioni di euro in presta-zioni e farmaci. Stime che, se quantificate in anni vissuti con disabilità, possono essere comprese tra il 2% e il 5% degli anni totali di vita.

Il dolore cronico esula pertanto dall’ambito personale per estender-si alla società e a tutto il Paese. Altre nazioni hanno da tempo valutato i costi dovuti alla disabilità correlata a dolore e si sono accorte che sono elevatissimi: negli Stati Uniti ammontavano già nel 1991 a 50-100 mi-liardi di dollari all’anno (Frymore. Orthop Clin N Am 1991; 22:263-71) e nel Regno Unito a 680 milioni di sterline e a 52 milioni di sterline per giornate di lavoro perse. Nei Paesi Bassi sono stati individuati già dal

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1993 ben 10 mila nuovi casi/anno di disabilità per dolore (Anderson. Clin J Pain 1993; 9:174-182). Costi esorbitanti, dovuti anche al fatto che il dolore cronico può scaturire da molteplici quadri clinici che nel loro insieme fanno lievitare la dimensione del problema e le difficoltà di ri-solverlo. Consideriamo per esempio il dolore lombare: ebbene, le com-binazioni delle possibili cause che lo determinano possono ammontare a ben 841 se si riducono a cinque le strutture che possono essere sede di processi algogeni – e precisamente a osso e periostio, capsula sinoviale, legamenti, muscoli e fasce, borse – e se si limitano a cinque i processi patologici considerati – traumi, infiammazioni, tumori, malattie dege-nerative, anomalie congenite.

Il dolore cronico colpisce l’individuo nella sua totalità: ne modifi-ca il profilo del comportamento (la sofferenza è spesso associata alla depressione e al cambiamento d’umore), influenza negativamente i rapporti familiari e getta un’ombra sulle relazioni sociali e lavorative. Molto spesso chi è affetto da dolore cronico muta il suo status sociale in quanto il 14,17% perde il lavoro, il 20% cambia lavoro, il 22% è de-presso e il 50% prova un senso di sfiducia e malessere.

Il dolore non trattato incide tra l’altro negativamente anche sul-la malattia di base. Secondo uno studio eseguito da Yaeger MP et al. su 27 pazienti e pubblicato su Anesthesiology nel 1997, esso causa in-sufficienza cardiovascolare nel 52% dei casi, insufficienza respiratoria nel 32%, infezioni maggiori nel 40%, ricovero in terapia intensiva per 5,7 giorni, intubazione per 81,8 ore e può portare a morte il 16% dei malati.

5.2 Chi è il fruitore delle Cure analgesiChe

La nuova legge imposta una mission ben definita: non lascia infatti nul-la al caso o all’immaginazione dei singoli attuatori. Oltre a tutelare la dignità del sofferente, definisce gli interventi che propone (che cosa sono le cure palliative e la terapia del dolore) e chi è il destinatario che le riceverà. Solo stabilendo in dettaglio i mezzi per ottenere un buon controllo del dolore e i fruitori che se ne serviranno, il trattamento somministrato potrà essere appropriato e dare risultati tangibili.

La legge 38/10 si propone pertanto come il manifesto del diritto, sia del cittadino terminale sia di quello con dolore cronico, ad ave-re assistenza in strutture appropriate a sostenere la sua sofferenza, farmaci appropriati per curarla, figure professionali appropriate a somministrargliele: in altre parole tutti gli articoli e i commi di cui è

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L’unicità deLLa Legge 81

composta la legge tendono a definire l’appropriatezza della sua presa in carico.

Essa ribadisce che cosa sono le cure palliative e definisce per la pri-ma volta la terapia del dolore, che è l’insieme degli interventi diagno-stici e terapeutici volti a individuare e ad applicare alle forme morbo-se croniche idonee e appropriate terapie farmacologiche, chirurgiche, strumentali, psicologiche e riabilitative tra loro variamente integrate, allo scopo di rielaborare percorsi diagnostico-terapeutici per la sop-pressione e il controllo del dolore. Le cure palliative e la terapia del dolore assurgono così a vere e proprie discipline.

La legge circoscrive anche il malato idoneo a ricevere i trattamenti analgesici.

A chi devono essere indirizzati questi trattamenti? Alla persona af-fetta da una patologia ad andamento cronico ed evolutivo, per la quale non esistono terapie o, se esistono, sono inadeguate o sono risultate inefficaci per stabilizzare la malattia o prolungare significativamente la vita, nonché a chi è affetto da una patologia dolorosa cronica da moderata a severa.

5.3 il nuovo modello organizzativo per la gestione del dolore

Si apre una nuova frontiera della Sanità italiana. Con la costituzione di tre Reti nazionali assistenziali, due per la sofferenza dell’adulto e una per quella dei neonati e dei bambini, che promettono una grande accessibilità e un’appropriata organizzazione di offerte, si volta pagi-na. Il loro buon funzionamento passa infatti attraverso un’emancipa-zione del concetto stesso di assistenza non più basato esclusivamente sull’“Ospedale senza Dolore” ma sull’Ospedale-territorio senza dolo-re. La loro forza parte dunque dal basso, da tutti gli operatori sanitari del territorio, medici di Medicina Generale e pediatri di base in primis, che adeguatamente formati devono dare una prima risposta alle richie-ste dei cittadini, deviandole dal Pronto Soccorso verso i Centri (Hub e Spoke) o gli ambulatori di terapia del dolore, a seconda della gravità del caso.

La nuova legge prevede la costituzione di due Reti nazionali, una per le cure palliative e l’altra per la terapia del dolore, e di una sola Rete nazionale per l’età pediatrica sia per le cure palliative sia per la te-rapia del dolore, radicate sul territorio e dunque decentrate rispetto all’ospedale, che hanno i loro punti di forza su centri di riferimento regionali e sull’assistenza domiciliare: esse devono garantire una con-

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tinuità dell’assistenza alla persona sofferente dal ricovero al domicilio in maniera omogenea e in tutte le fasi della sua malattia.

Le Reti proposte coinvolgono ciò che c’è già.Le strutture sanitarie, ospedaliere, territoriali e assistenziali, nonché

tutte le figure professionali e gli interventi diagnostici e terapeutici esi-stenti devono arricchirsi di un nuovo ruolo, quello di saper riconosce-re, trattare e gestire la sofferenza.

5.3.1. il sUperamento delle passate esperienze

Mettere a punto un modello di gestione del dolore che funzionasse non è stato facile. La sua impostazione è il frutto di un lungo percorso di analisi delle precedenti normative che, sebbene abbiano avuto il merito di far partire il discorso della sofferenza, presentavano le debolezze della “prima volta”. La legge 39/99 aveva realizzato gli hospice ma non li aveva legati tra loro da una rete assistenziale ben definita. Il progetto “Ospedale senza Dolore” è stato il primo atto legislativo sulle temati-che del dolore ma aveva non pochi lati oscuri, primo tra tutti quello di proporre un modello unico, l’Ospedale senza Dolore appunto, poco adattabile alle esigenze delle singole Regioni e dei cittadini. La nuova legge ha colmato le loro lacune con un sistema assistenziale alternativo, dando le linee di principio per costruirlo ma lasciando alle singole Re-gioni la possibilità di declinarle a seconda delle proprie esigenze. Esso riprende gli elementi validi del passato (hospice, ospedale, cultura del dolore), frammentati e dispersi tra più servizi e operatori, e li ricompo-ne in un modello organico portatore di numerose innovazioni.

Per mettere a punto le due Reti assistenziali integrate in modo capil-lare con il territorio e previste dalla legge 38/10, i passi fatti sono stati tanti. Si è dovuto innanzitutto rivoluzionare letteralmente la gestio-ne del dolore nel nostro Paese e riorganizzarla secondo il bisogno dei cittadini sofferenti, ovvero quello di essere raggiunti da un’assistenza tempestiva ed efficace in ogni dove e di poter accedere con facilità alle cure antalgiche.

Si partiva infatti da un profondo disagio. Secondo un’indagine fi-nalizzata dal Ministero della Salute ed eseguita da Bonezzi e Raffaeli nel 2008, nel nostro Paese esistevano fino a due anni prima 190 reparti, servizi e ambulatori di terapia del dolore non modificati da almeno dieci anni. Frequentati per il 60% da donne e per il 42% da persone in età lavorativa, avevano un’utenza costituita per il 57% da pazienti con dolore cronico che venivano presi in carico per tempi molto lunghi: il 35,5% per più di un anno e il 13,1% per tre anni. Questi centri, pur

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essendo in contatto tra loro, facevano parte di una Rete incompleta che non aveva una modalità di funzionamento programmata. La fotogra-fia d’insieme era quella di un “vuoto” troppo grande che si frapponeva tra ciò che c’era e ciò che ci sarebbe dovuto essere.

Il primo passo da compiere è stato quello di non commettere gli errori passati.

La legge 39/99 aveva finanziato la realizzazione degli hospice senza tuttavia creare una Rete assistenziale. Non rendendo obbligatoria l’at-tivazione dell’assistenza domiciliare di cure palliative, aveva di fatto prodotto delle “cattedrali” nel deserto. I risultati non potevano che es-sere deludenti. A oltre 10 anni di distanza dall’approvazione della nor-mativa, solo 117 hospice erano stati attivati con i fondi statali e 46 con quelli provenienti da altre fonti di finanziamento (regionale, privato o altro), di cui la maggior parte localizzati al nord: il finanziamento uti-lizzato ammonta a tutt’oggi all’82,49% dello stanziamento originario.

La scarsa capacità delle Reti di cure palliative di intercettare i reali bisogni della popolazione era messa in evidenza dalle schede di dimis-sione ospedaliera, raccolte e analizzate tra il 2004 e il 2008: il numero di malati con tumore che morivano nei reparti ospedalieri per acuti era in quegli anni in continuo aumento e si assestava su 55.934 casi. È stato necessario aspettare fino al 2008 per osservare un’inversione di ten-denza e una lieve diminuzione pari a 55.198 casi: segno che gli hospice cominciavano da quel momento a funzionare. Ciononostante un terzo dei malati oncologici muore ancora nei reparti ospedalieri per acuti con un tempo medio di permanenza per il ricovero pari a 12 giorni. La valorizzazione economica di questi ricoveri molto spesso impropri è, secondo le tariffe nazionali delle prestazioni ospedaliere, di 223 milioni di euro circa, che potrebbero essere reinvestiti nelle cure palliative pro-muovendo un elevato risparmio e un’assistenza e gestione dei malati terminali più specifica e appropriata.

I limiti della legge 39/99 hanno comunque fornito due insegna-menti, e precisamente: che sdoganare dei finanziamenti non significa ottenere automaticamente un prodotto e che creare delle strutture resi-denziali non assicura la reale attivazione di una Rete di assistenza. In senso più generale, non basta una legge per mettere in pratica i princi-pi ispiratori, occorre una forte volontà di tutti gli operatori.

Il primo tentativo di assicurare le cure antalgiche alla popolazio-ne proveniva dall’accordo effettuato nel 2001 nella Conferenza Stato-Regioni e denominato “Ospedale senza Dolore” che aveva accentrato tutto nell’ospedale. Grazie alla costituzione dei Comitati “Ospedale senza Dolore”, realizzati secondo le linee guida dell’accordo, i cittadini potevano trovare qui assistenza alla loro sofferenza e personale coor-

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dinato e istruito al trattamento del dolore e all’uso dei farmaci, analge-sici oppioidi compresi, secondo specifici protocolli. Pur essendo stato il primo atto legislativo volto a evidenziare un percorso di assistenza sul dolore, aveva delle mancanze: era tarato soprattutto sull’obiettivo di dare una risposta antalgica ai pazienti ricoverati in ospedale, faceva transitare dal Pronto Soccorso l’accesso alle prestazioni, non specifica-va i requisiti minimi per rendere operativo il progetto ed era assente la quantificazione dei bisogni dei cittadini in materia di cure palliative e terapia del dolore.

5.3.2 le definizioni che circoscrivono il progetto

La necessità di mettere nel testo della legge dei punti fermi, dei “pa-letti”, era molto sentita. Permetteva di tracciare una linea di principio comune sui mezzi, sull’assistenza e sulla formazione da proporre alle Regioni: su questo impianto dai contorni netti sarebbe stato per loro più facile costruire un sistema di offerta di cure contro il dolore per i propri assistiti.

Proprio per rendere ben definita la struttura delle Reti assistenziali e non cadere nel pressapochismo, la nuova legge inizia già dall’articolo 2 a dare le coordinate di che cos’è una Rete nazionale per le cure pallia-tive e una Rete nazionale per la terapia del dolore, e spiega:

– qual è il loro compito – “garantire una continuità d’assistenza del ma-lato dalla struttura ospedaliera al suo domicilio”;

– da cosa sono costituite – “dall’insieme delle strutture sanitarie, ospe-daliere, territoriali e assistenziali, delle figure professionali e degli interventi diagnostici e terapeutici disponibili nelle regioni e nelle province autonome”;

– cosa devono erogare – “le cure palliative e il controllo del dolore in tutte le fasi della malattia.....il supporto dei malati e delle loro famiglie”.

A questo dettaglio ne seguono altri altrettanto importanti. Nel testo del-la legge vengono per esempio menzionate le figure professionali chia-mate a svolgere i compiti di cura e assistenza. Nell’elenco sono citati i medici di Medicina Generale, i medici specialisti in anestesia e rianima-zione, geriatria, neurologia, oncologia, radioterapia, pediatria, nonché i medici con un’esperienza almeno triennale nelle cure palliative e nella terapia del dolore, gli infermieri, gli psicologi e gli assistenti sociali. Alle Regioni vengono dati gli strumenti affinché individuino le tipologie di

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strutture che si devono articolare nella Rete e i requisiti minimi e le mo-dalità organizzative per il loro accreditamento, e si prevedano delle ta-riffe di riferimento per rendere omogenea l’erogazione dell’assistenza: l’accordo sulle linee guida per la promozione, lo sviluppo e il coordina-mento degli interventi regionali, nell’ambito della Rete di cure palliative e della Rete di terapia del dolore, è stato approvato nella Conferenza Stato-Regioni il 16 dicembre 2010. In altre parole la nuova normativa ha gettato basi concrete per costruire realmente le Reti di assistenza.

Affinché tutti questi tasselli trovino posto in un efficiente mosaico, si è pensato di sperimentare un sistema organizzativo che scompones-se l’assistenza in tre livelli tra loro complementari. E precisamente nei centri di riferimento di terapia del dolore (Hub), negli ambulatori di terapia antalgica (Spoke) e nelle Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT) della Medicina Generale.

I centri Hub sono strutture di III livello, cioè di alta specializzazione: vi lavora un’équipe multidisciplinare che fa capo a un direttore specia-lista nel settore della terapia del dolore e vi afferiscono i casi più diffi-cili, quelli che non hanno trovato una soluzione negli step precedenti. Di solito si tratta di malati caratterizzati da dolore cronico o acuto as-sociato a una patologia complessa, da un complicato inquadramento della tipologia della sofferenza o che necessitano di una rivalutazione del dolore stesso o della malattia sottostante o di procedure speciali-stiche per tenerlo sotto controllo. Qui possono essere sottoposti anche a indagini specialistiche per studiare le vie di trasmissione dell’impul-so doloroso, a test specifici invasivi, a esami di laboratorio per risalire per esempio alle cause di una mancata risposta agli oppiacei, e alla valutazione del profilo psicologico. In altre parole, a questi Centri ven-gono inviati soggetti con problematiche antalgiche complesse, come i pazienti con un peggioramento della propria sofferenza nonostante il trattamento antalgico appropriato, che necessitano di terapie invasive o strumentali o di oppiacei forti per un lungo periodo di tempo, che hanno effetti collaterali importanti o una risposta inadeguata alle cure.

Gli ambulatori di terapia antalgica Spoke sono strutture di II livello, indicati per casi di media gravità: qui si tengono visite specialistiche e si pianificano le terapie antalgiche.

Nelle Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT) operano medici di Medicina Generale e due esperti del dolore che rispondono alle prime necessità di diagnosi del dolore e di impostazione tempestiva di una cura, ed eseguono il monitoraggio dei risultati nel tempo. Se, tuttavia, la risposta al trattamento è inadeguata o ci sono già dei segnali che in-dicano la presenza di quadri clinici complessi, i malati sono inviati agli altri due livelli di assistenza, Spoke e Hub.

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Per rispondere alle particolari esigenze dei minori sofferenti, si è prevista un’ulteriore declinazione del modello basata sull’organizza-zione dei Centri di riferimento di terapia del dolore pediatrici (Hub) per problemi specialistici di macroaree, e sull’abilitazione di pediatri ospedalieri e di libera scelta (in rete con il Centro di riferimento) alla gestione della gran parte delle situazioni dolorose di più facile tratta-mento (vedi anche il capitolo “Una rivoluzione copernicana a livello pediatrico”).

Per monitorare e valutare l’efficacia e l’efficienza delle Reti, la legge istituisce anche un Osservatorio sulle cure palliative e sulla terapia del dolore per raccogliere e analizzare specifiche informazioni sulle strut-ture già esistenti, sulla loro organizzazione, sulle prestazioni erogate e sulla loro qualità.

5.3.3 il rUolo del medico di medicina generale

Una delle figure centrali del percorso assistenziale per gli adulti è il medico di Medicina Generale che, prestando la prima risposta alle esi-genze antalgiche degli assistiti, può assolvere alla gestione della mag-gior parte dei casi rilevati sul territorio. Egli stesso può decidere il da farsi, come prescrivere direttamente una terapia antalgica e valutare la risposta al trattamento; di fronte a un risultato insoddisfacente o a se-gnali che indicano la presenza di quadri clinici complessi, può indiriz-zare il paziente all’ambulatorio Spoke se lamenta un dolore di media gravità o al centro Hub se la sofferenza si manifesta in un quadro più complesso sia per intensità sia per frequenza.

I medici di Medicina Generale, oltre a essere in stretto contatto tra loro attraverso le AFT gestite da un team di colleghi, comunicano anche con i centri Hub e gli ambulatori Spoke per mezzo di protocolli di diagnosi e terapia condivisi, per identificare il paziente con dolore cronico da invia-re a uno dei tre livelli di assistenza, e di monitoraggio degli esiti ottenuti.

Questo modello assistenziale soddisfa anche le esigenze di aggior-namento della Medicina Generale, poiché consente di superare quelle criticità che si rifanno all’impostazione settoriale dell’attuale sistema as-sistenziale. A tutt’oggi, quando una persona accusa un disturbo si rivol-ge di propria iniziativa al medico di famiglia o al Pronto Soccorso e se è un minore viene portato dal pediatra di base. Queste figure di I livello decidono in via del tutto autonoma e indipendente da protocolli diagno-stico-terapeutici o da linee guida condivise il suo invio allo specialista o in ospedale, nel caso abbia bisogno di cure particolari di II livello.

I soggetti che lamentano dolore cronico seguono lo stesso iter

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con alcune difficoltà in più: spesso, infatti, non è chiaro a quale spe-cialista debbano rivolgersi o a quale centro bussare, e si trovano a dover effettuare delle vere e proprie peregrinazioni in strutture non appropriate alla loro condizione clinica. L’innovativo approccio as-sistenziale, basato sul concetto di Rete, consente invece di prendere in carico queste persone sofferenti nel loro complesso, avviandole in un percorso che supera la logica dell’assistenza a prestazione e che garantisce una continuità della loro gestione tra i protagonisti delle cure primarie e quelli delle cure specialistiche: una persona con dolo-re cronico può essere così visitata sempre dagli stessi medici, guidata lungo percorsi specialistici e diagnostici, e contare su un’assistenza domiciliare se necessario.

La gestione integrata, prevista dalla legge 38/10, permette ai singoli medici di Medicina Generale di superare anche l’isolamento in cui spes-so si trovano e di aprirsi a una nuova realtà, che li porta a colloquiare con altri colleghi di Medicina Generale operanti sullo stesso territorio e a imbastire rapporti con i servizi del territorio e i centri ospedalieri.

5.4 la formazione Condivisa

La legge 38/10 non trascura neppure la formazione di tutti i protago-nisti delle cure palliative e della terapia del dolore: solo dando loro la possibilità di familiarizzare con i trattamenti antalgici e con gli stru-menti di misurazione del dolore, i vari operatori sanitari coinvolti pos-sono portare la gestione della sofferenza nella propria pratica clinica, essere all’altezza di affrontare i singoli casi che si presentano e far fun-zionare realmente le Reti di assistenza.

Il team di esperti che ha messo a punto il testo della legge, oltre a sta-bilire in dettaglio la gestione complessiva del dolore in ogni cittadino, si è sensibilizzato anche alla promozione della conoscenza del dolore e della sua cura. Molto spesso, quando si parla di cambiamento di scena-ri si danno quasi per scontato i cambiamenti dei singoli professionisti coinvolti, dimenticando le naturali resistenze ad attuarli. Poiché non si voleva che questo accadesse, si è costruito un progetto formativo volto a dare strumenti utili per colmare le criticità riscontrate nella pratica clinica quotidiana.

Tale progetto si proponeva di creare un sistema organico di approc-cio, valutazione e gestione della sofferenza raggiungibile, da un lato, facendo acquisire a tutti gli operatori sanitari del territorio le conoscen-ze e competenze per essere all’altezza di trattare il dolore e, dall’altro,

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promuovendo uno sviluppo professionale continuo. In altre parole, si è pensato già dall’inizio di realizzare un modello operativo integrato che si basasse su una formazione comune.

Il modello didattico che meglio aderisce a questi obiettivi è quello di tipo progressivo: esso si prefigge di creare un gruppo di “formatori” che, a loro volta, formano altri colleghi nelle proprie sedi periferiche di lavoro. Questo schema di azione consente di diffondere in modo capillare e rapido un approccio operativo al dolore acuto e cronico, di aggiornare le conoscenze e di permettere il superamento di dubbi, incertezze e difficoltà sorti nella pratica di routine.

L’efficacia della formazione a cascata doveva tuttavia essere speri-mentata. A tale scopo sono partiti dei corsi pilota per i medici di Me-dicina Generale in quattro Regioni omogenee dal punto di vista della popolazione, e precisamente in Veneto, Emilia-Romagna, Lazio e Sici-lia, con il coordinamento della regione Emilia-Romagna. Nel Veneto inoltre, è stata avviata anche la formazione dei pediatri. La formazione dei “formatori” avrebbe assicurato un’adeguata assistenza a oltre 4 mi-lioni di cittadini nelle Regioni coinvolte dall’iniziativa.

Un gruppo di esperti in terapia del dolore, cure palliative e formazio-ne è stato pertanto istituito ad hoc per preparare i pacchetti formativi, ga-rantire i corsi di formazione e scrivere il libro “Il dolore cronico in Medicina Generale”, che vuole essere un prototipo di guida a rapida consultazione, aggiornabile, basato su schede diagnostico-terapeutiche e comprenden-te algoritmi e flow-chart per supportare la pratica clinica sul dolore.

L’acculturamento dei professionisti che partecipano alla costituzio-ne della Rete nazionale della terapia del dolore non si esaurisce tuttavia con l’istruzione dei medici di Medicina Generale e dei pediatri. Esso deve poter partire da molto più lontano, e precisamente dagli Atenei, e colmare i vuoti della formazione accademica attuale. A tutt’oggi in-fatti, la terapia del dolore non è tra gli insegnamenti dei corsi di laurea delle Facoltà di Medicina e Chirurgia e nel percorso post-laurea è pre-vista solo nella Scuola di Specializzazione in Anestesia, Rianimazione e Terapia intensiva.

La legge 38/10 propone pertanto l’organizzazione di specifici corsi formativi e l’istituzione di master sia in cure palliative sia nella terapia del dolore, nonché la pianificazione di programmi obbligatori nell’am-bito della Formazione Continua in Medicina, utili per l’aggiornamento periodico dei medici ospedalieri e del territorio, del personale sanita-rio e degli operatori socio-sanitari. Lo stile concreto di questa normati-va traspare anche in materia d’istruzione: essa individua i contenuti da proporre nella formazione obbligatoria e definisce i percorsi formativi per i volontari che operano nelle due Reti assistenziali.

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Capitolo 6

Una rivolUzione CoperniCana a livello pedriatriCo

Dagli anni ’70 al 2004 nessuno si è interessato del dolore e della terminalità in ambito pediatrico. Nessun accenno era stato fatto nella legge 39/99 dedi-cata alle cure palliative negli adulti e neppure nella delibera “Ospedale sen-za Dolore” del 2001. Il motivo? Si pensava che il neonato e il bambino non provassero dolore con la stessa intensità dell’adulto. È stato con il ministro Francesco Storace (aprile 2005-marzo 2006) che si è iniziato ad affrontare la sofferenza nei piccoli pazienti. Durante il suo mandato è stata istituita la Commissione sulle cure palliative pediatriche per il neonato, il bambino e l’adolescente, e sancito un documento in merito: un sunto di quest’ultimo è stato approvato nella Conferenza Stato-Regioni nel 2007 e un documento a esso allegato nel 2008. Un protocollo d’intesa, messo a punto con la Fon-dazione Lefebvre e firmato dal ministro Livia Turco nel 2008 verso la fine del suo mandato, ha dato il via al “Progetto Bambino” volto a formare un network per le cure palliative e la terapia del dolore e ha proposto un primo modello assistenziale da esportare a livello regionale inserito in seguito nella legge 38/10: un’unica Rete specialistica dedicata, pensata sia per le cure palliative sia per la terapia del dolore, coordinata da un Centro di riferimen-to regionale e supportata da tutte le figure professionali del territorio. Per realizzarla occorre formare i pediatri di base e ospedalieri come gli operatori sanitari alla gestione della sofferenza.

6.1 la tUtela del mondo bambino

Le dinamiche che hanno alimentato una cultura della sofferenza in età pediatrica partono da lontano, da quando Franca Benini, responsabi-le del Centro Regionale Veneto di Terapia Antalgica e Cure Palliative Pediatriche del Dipartimento di Pediatria dell’Università degli Studi di Padova, e la Fondazione Maruzza Lefebvre D’Ovidio Onlus si sono alleate per mettere a punto un network nazionale sulle cure palliative al fine di promuovere una concreta presa di coscienza della sofferenza in pediatria, gettando le basi del “Progetto Bambino”. Era il 2001 e il

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dolore nei bambini iniziava a rientrare anche negli intenti delle Società Scientifiche: di cure palliative in pediatria non se ne parlava neppure. Un paio d’anni prima l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aveva definito queste ultime come l’attiva presa in carico globale del corpo, della mente e dello spirito del bambino comprendente anche il supporto attivo alla famiglia: erano rimaste solo delle parole scritte. Per smuovere le coscienze, si è organizzata nel 2002 a Trento la prima tavola rotonda europea insieme alla Fondazione Maruzza Levebvre e all’associazione onlus No Pain for Children per il trattamento del do-lore nei bambini: all’epoca avevano partecipato 12 Paesi europei più il Canada e gli Stati Uniti. Dopo tre giorni di intenso lavoro era stato redatto un documento che tracciava il profilo di ciò che come mini-mo doveva essere dato a un bambino inguaribile. Questi livelli minimi di assistenza sono stati portati all’attenzione dei vari Ministeri della Salute europei: quello italiano ha risposto in maniera particolarmente convinta a questa proposta, grazie anche all’intermediazione di Marco Spizzichino, responsabile della Sezione di cure palliative e terapia del dolore del Ministero della Salute che con la sua spiccata sensibilità ha compreso l’importanza dell’argomento. Le porte del Ministero si erano dunque aperte.

6.1.1 La prima presa di coscienza istituzionaLe deL doLore in pediatria

Mettendo un po’ d’ordine nella legislatura, si evince che l’argomento della sofferenza nei neonati e nei bambini inizia a essere considerato dal Ministero della Salute nel 2005. Prima si parlava della terapia del dolore in pediatria ma non con un approccio sistematico sostenuto da un documento che definisse quanto meno gli intenti di come procede-re. Sebbene si riconoscesse già dagli anni ’90 la necessità di formare i pediatri e i medici in generale sull’approccio e la gestione dei mino-ri con dolore, non si era raggiunto un quid di conoscenze sufficienti a poter rendere gli operatori sanitari capaci di affrontare anche i casi più specifici. Con l’avvento della legge 39 del 1999 che disciplinava le cure palliative, gli stessi professionisti che si erano avvicinati alla cura del dolore avevano iniziato a occuparsi, grazie a un movimento più filosofico che a una presa di coscienza medica, alla cura del bambino inguaribile e terminale.

Il discorso sul dolore nei minori comincia a essere intrapreso 6 anni fa con il ministro Francesco Storace e s’inquadra nell’ambito del soste-gno alla terminalità della vita dei piccoli pazienti. Sotto il suo mandato si è istituita la prima Commissione per le cure palliative pediatriche,

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composta da Franca Benini, Furio Zucco, Marco Spizzichino e Paola Facchin, che ha prodotto un primo documento intitolato “Cure pallia-tive rivolte al neonato, bambino e adolescente”. Il suo scopo era quello di iniziare ad attivare l’interesse sull’inguaribilità pediatrica e sui suoi sintomi di accompagnamento, e di portare all’attenzione degli opera-tori sanitari un modello di assistenza spendibile nella pratica clinica di tutti i giorni.

Si cominciava così a soppesare i bisogni del bambino in fin di vita e quelli della sua famiglia, a valutare le peculiarità di un piccolo pa-ziente che non può guarire, a considerare la sua idoneità a ricevere un trattamento cioè a riflettere sui criteri di eleggibilità alle cure palliative e a ponderare quali strumenti mettere in campo. Da questo documen-to ne è nato un altro che portava la postilla di crearne un altro ancora per ampliare il raggio d’interesse alla creazione di una Rete assisten-ziale: il volano delle cure palliative in pediatria era dunque partito. È stato tuttavia nel 2007, durante il Ministero di Livia Turco, che è sta-to approvato nella Conferenza Stato-Regioni un documento sulle cure palliative pediatriche per il neonato, il bambino e l’adolescente e firma-to un protocollo d’intesa con la Fondazione Lefebvre che ha generato il “Progetto Bambino” volto a offrire elementi utili alle Regioni, quali il supporto formativo, le modalità di fund raising e la ricerca, per realizza-re una Rete nazionale di cure palliative pediatriche. In questo modo la Fondazione Maruzza Lefebvre diventava la mano del Ministero della Salute per attuare un modello assistenziale esportabile a livello regio-nale. Il “Progetto Bambino” sarà in seguito firmato nuovamente dal ministro Ferruccio Fazio.

6.1.2 La necessità di voLtare pagina

L’input che ha portato a riprendere in mano l’argomento dolore nel bambino in occasione della realizzazione della legge 38/10 è stata la presa di coscienza che senza un cambiamento istituzionale non si sa-rebbe arrivati a nulla: purtroppo ci si era accorti che lasciare agli ope-ratori sanitari la libertà di occuparsi della sofferenza nei minori non faceva decollare una cultura in merito. Non rimaneva altra strada che imporla.

Le persone che hanno portato avanti la causa della sofferenza in età pediatrica si sono rese conto che occorreva una legislazione per dare una reale considerazione al dolore nei minori. Lasciare alla libera scelta dei singoli la sua cura non avrebbe portato a nulla di concreto, per-ché era troppo difficile inculcare questo concetto nella loro mente. Un

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esempio? Se i genitori e gli operatori sanitari di fronte alla febbre del bambino non ci pensano due volte a misurargli la temperatura, la stes-sa dinamicità non era sperabile per la sofferenza: se il piccolo aveva dolore non era infatti automatico che si misurasse la sua intensità e tanto meno che si pensasse a come alleviarlo al meglio.

Una maggiore sensibilizzazione dei singoli protagonisti sull’in-guaribilità del bambino, sulla sua sofferenza e sui sintomi a essa cor-relati sarebbe stata sufficiente a cominciare una presa di coscienza, ma non a continuarla nel tempo. Per innescarla una volta per tutte e per renderla duratura c’era bisogno di un mutamento radicale di mentalità, perseguibile solo con un cambiamento istituzionale ini-ziato da un movimento importante. La legge 38/10 si è dimostrata un’opportunità, un treno da prendere al volo e da non lasciarsi sfug-gire.

6.1.3 L’educazione aL doLore prima di tutto: L’obiettivo di formazione

deL gruppo di Lavoro in pediatria

A fianco del gruppo di lavoro che ha iniziato a imbastire il disegno di legge sulle cure palliative e la terapia del dolore negli adulti, si è così formata una piccola task-force di pediatri, che in qualità di tecnici si occupava di redigere i passaggi relativi alla sofferenza in età pe-diatrica. Uno dei suoi obiettivi principali era quello di occuparsi del-la formazione di chi poi, sul campo, avrebbe dovuto gestire fattiva- mente la battaglia contro il dolore nei neonati e nei bambini. Ecco come è stato affrontato il tema dell’educazione dei singoli operatori sanitari.

Per favorire l’apprendimento del giusto modo con cui rapportarsi con i piccoli sofferenti, il team di pediatri ha scritto il manuale inti-tolato “Il dolore nel bambino. Strumenti pratici di valutazione e terapia” da distribuire a 8 mila pediatri italiani. I suoi autori (Franca Benini, Egidio Barbi, Michele Gangemi, Luca Manfredini, Andrea Messeri, Patrizia Papacci) si sono proposti di approfondire la conoscenza del tema dolore e nello stesso tempo di fornire una guida pratica al suo trattamento: ogni capitolo è infatti corredato da flow-chart di facile impiego, che ne indirizza la gestione sia in ambito territoriale che ospedaliero.

Di rapida consultazione, aggiornabile e basato su schede operative diagnostico-terapeutiche, tocca tutti i punti della gestione del dolore sul campo relativa al neonato e al bambino: affronta la valutazione e la misurazione del dolore in età pediatrica, la sua valenza diagnostica nei

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disturbi addominali, toracici e osteoarticolari nonché le cefalee, il trat-tamento non farmacologico e quello farmacologico con una particolare puntualizzazione di indicazioni, dosi e limiti d’uso per gli analgesici, oppiacei compresi.

Oltre alla sedo-analgesia in corso di procedure invasive, specifica quando un bambino deve essere indirizzato a uno specialista in anal-gesia, richiama la normativa nell’ambito della terapia del dolore in pe-diatria e si sofferma sul ruolo delle Organizzazioni non profit nella gestione della sofferenza nei minori.

In altre parole, vuole colmare quel vuoto d’informazione lasciato dalla mancanza di corsi universitari pre-laurea e specialistici sulla ge-stione della sofferenza in pediatria, annullare quel gap esistente tra gli avanzamenti scientifici in materia di dolore e il comportamento osser-vato tra i pediatri, ridimensionare il retaggio culturale che considera la sofferenza uno strumento educativo e allentare il timore sull’uso dei farmaci oppiacei.

Un libro poteva cominciare a spostare l’argomento dolore da uno spazio marginale in cui era da tempo relegato a una posizione di pri-mo piano. Per preparare in modo capillare i singoli professionisti al trattamento del dolore ci voleva tuttavia qualcosa di più. Si è deciso pertanto di seguire lo stesso iter educativo a cascata (alcuni formatori educano altri formatori sul territorio che, a loro volta, insegnano ad al-tri colleghi un approccio pratico al dolore) scelto per l’istruzione degli operatori sanitari coinvolti nelle due Reti nazionali di assistenza agli adulti bisognosi di cure palliative e di terapia del dolore.

Il miglior modello didattico per raggiungere questo obiettivo era quello di tipo progressivo, che si prefiggeva di creare un gruppo di formatori che a loro volta avrebbero formato altri colleghi nelle loro sedi periferiche di lavoro. La task-force di pediatri diventava così il braccio lungo del Ministero della Salute e di Guido Fanelli, l’attuale presidente della Commissione Ministeriale sul dolore, che avevano de-ciso di perseguire questa diffusione progressiva della nuova cultura della sofferenza sul territorio lavorando alla messa a punto di un for-mat educativo per le cure palliative e di uno per la terapia del dolore nei piccoli pazienti.

Agli stessi autori del libro sarebbe spettato il compito virtuoso di iniziare a istruire: essi sarebbero diventati il team centrale di docenti impegnati a eseguire la “formazione dei formatori” che, attentamente supervisionati, avrebbero attuato gli interventi educativi per i loro col-leghi secondo i format realizzati dalla task-force.

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6.2 CUra del dolore e minori: perChé qUesto binomio

Non esistono limiti d’età alla percezione del dolore. Già nel grembo materno, a partire dal secondo trimestre di gestazione, il feto possiede un sistema formato per percepire il dolore e sin dall’età neonatale è in grado di avere “memoria” della sofferenza provata.

La valutazione, la cura e la gestione del dolore in età pediatrica sono state giustamente previste dalla nuova legge anche in virtù dei pro-gressi scientifici in materia e delle sempre maggiori evidenze a soste-gno del fatto che anche il neonato e il bambino possono soffrire.

Già dalla 23a settimana di gestazione, cioè circa alla fine del secondo trimestre di gravidanza, il sistema nervoso centrale è competente per percepire la sensazione dolorosa. I suoi nocicettori sono in grado di recepire un segnale chimico, proveniente dal danneggiamento di un tessuto periferico, e di convertirlo in impulso nervoso di natura elettro-chimica da inviare alle strutture centrali. Ma non solo.

A parità di stimolo, tanto più giovane è il paziente tanto più avverte un dolore intenso, perché fino a circa 18 mesi di età il suo sistema di nocicezione può contare su una minore inibizione: è pertanto meno controllabile e maggiormente eccitabile. Il neonato, come il bambino nato pre-termine, produce inoltre una precoce e abbondante quantità di neurotrasmettitori in risposta a uno stimolo doloroso che può di-ventare così persistente nel tempo da scatenare reazioni simili a quelle prodotte dallo stress nell’adulto, come per esempio modificazioni or-monali e metaboliche, di frequenza cardiaca, pressione arteriosa e pH nonché comportamentali.

Ne consegue che in età pediatrica il dolore non trattato può compor-tare prognosi peggiori, complicanze e addirittura aumentare il rischio di mortalità. La ripetizione delle stimolazioni dolorose, inoltre, può essere a lungo andare particolarmente dannosa, perché promuove la proliferazione delle terminazioni periferiche, incrementa l’eccitabilità a riposo e mette a repentaglio la sopravvivenza dei neuroni stessi. Nel complesso, un’esperienza dolorosa vissuta in tenera età può compro-mettere lo sviluppo del sistema antalgico e alterare la soglia del dolore aumentando la vulnerabilità per ansia e stress nell’età adulta. Anche i neonati possono ricordare il dolore: la sua memoria può influenzarne la vita e determinare alterazioni comportamentali e cognitive nonché problemi psicologici. Da tutte queste considerazioni si evince che il dolore esiste a tutte le età, che anche nei neonati e nei bambini può cro-nicizzarsi e che deve essere valutato e trattato adeguatamente, se non si vuole che lasci un segno indelebile nella loro esistenza.

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6.2.1 Le dimensioni deL probLema

Il dolore è parte integrante del bambino inguaribile, con malattie reu-matiche od oncologiche, sottoposto a interventi chirurgici o a terapia intensiva o neonatale. I “suoi numeri” devono far riflettere.

Nel momento in cui si è presa coscienza che l’essere un bambino non esonera dalla sofferenza, si è cominciato a “contare” i minori che la sperimentano e si è scoperto che sono molti. L’80% dei piccoli pazienti ricoverati ha una patologia che dà dolore e coloro che presentano una malattia reumatologica od oncologica, che hanno subito un intervento chirurgico o che assumono una terapia intensiva, lo provano quotidia-namente.

Non solo in ospedale ma anche tra le quattro mura di un ambula-torio i bambini possono sperimentarlo: un’infezione o un trauma può scatenarlo nel 94% dei casi, mentre la cefalea o le coliche addominali possono determinarlo nel 15-20% dei piccoli in età scolare.

Il progresso in campo medico e tecnologico ha portato inoltre a un allungamento della sopravvivenza nella malattia; ne è conseguito un incremento del numero di nuovi bambini malati, bisognosi di cure pal-liative anche per un periodo di tempo molto lungo e in varie fasi della vita. A fornire un’aggiornata dimensione del problema dolore nei mi-nori è stata l’esperienza veneta, capofila nella gestione della sofferenza pediatrica, che già nel quinquennio 2000-2004 aveva svolto un’analisi retrospettiva sulle schede di dimissione ospedaliera e sui dati di mor-talità nei pazienti pediatrici: i risultati ottenuti avevano messo in evi-denza come 10 minori su 10 mila avessero bisogno di cure palliative specialistiche.

Tradotto in cifre, significava che 650 minori soffrivano ogni anno di una malattia cronica inguaribile e richiedevano cure palliative pe-diatriche. Di essi, 65-70 bambini, pari a uno su 10 mila, morivano ogni anno per malattie eleggibili a cure palliative. Questi dati sono stati con-fermati da uno studio eseguito dal Ministero della Salute insieme all’I-STAT, che ha evidenziato come nel nostro Paese muoiano ogni anno 1.100-1.200 bambini tra 0 e 17 anni per una malattia inguaribile/termi-nale, in pratica 1 su 10 mila. Di questi, il 40% decede a casa soprattutto se ha un tumore (41%) e se risiede nel Mezzogiorno: la morte a domici-lio avviene infatti nel 60-70% dei casi nelle regioni del Sud e nel 10-15% in quelle del Nord. Eseguendo un’analisi delle schede di dimissione ospedaliera eseguita nell’arco di tre anni (2002-2004), si è calcolato che nel nostro Paese circa 11 mila minori, pari a 10 piccoli pazienti su 10 mila, hanno bisogno di cure palliative pediatriche, perché affetti da un

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cancro nel 30% dei casi o da malattie metaboliche, neurodegenerative e genetiche nei rimanenti casi.

6.2.2 iL ricorso improprio aLL’ospedaLe

Il dolore nel neonato e nel bambino è spesso affrontato in modo ina-deguato. Gli effetti scatenati dalla scarsa attenzione nei suoi confronti sono devastanti: oltre a compromettere la prognosi attuale e futura del piccolo paziente, a peggiorare la sua qualità di vita e quella della fami-glia e a inficiare il rapporto di fiducia tra l’utenza e l’istituzione sanita-ria, comporta un enorme esborso di denaro dalle casse dello Stato, che potrebbe essere risparmiato e reinvestito al meglio nell’ambito delle cure palliative e della terapia del dolore.

La necessità di istituire una Rete assistenziale che regolamentasse l’of-ferta delle cure palliative e della terapia del dolore era scaturita anche dall’evidenza che il 60% dei minori affetti da malattia inguaribile mori-va nei reparti ospedalieri per acuti, e di questi il 25% in Terapia Intensi-va, dove non si fa né palliazione né si somministra la terapia del dolore.

Un’analisi eseguita in Veneto e riferita ai ricoveri relativi a un grup-po di malattie presentabili da minori potenziali utenti di cure palliati-ve, aveva sottolineato come questi ricoveri impropri conducessero a un alto numero di giornate di degenza ospedaliera: un minore inguari-bile effettuava circa 10 ricoveri all’anno con una media di 150 giorni di degenza ospedaliera all’anno.

Proiettando queste stime a livello nazionale, i giorni di ricovero uti-lizzati dai pazienti in un anno arrivavano a ben 1.600.000: una cifra esorbitante, a cui andava sommata la prolungata occupazione dei letti in Terapia Intensiva generale, specialistica e semi-specialistica. Nel Ve-neto, il 50% dei bambini bisognosi di cure palliative veniva ricoverato in questi reparti almeno una volta all’anno e vi trascorreva una media di 100 giorni che, trasposti all’intera nostra nazione, lievitavano a ben 580 mila giorni di degenza.

La permanenza in questi reparti ad alta tecnologia, unita alla ripeti-zione di interventi e di complesse indagini strumentali eseguite anche nelle ultime fasi della vita, faceva innalzare notevolmente i costi so-stenuti annualmente dalla rete ospedaliera che, in base alle tariffe dei DRG, ammontavano in Italia a circa 80 milioni di euro per i ricoveri or-dinari e a 580 milioni di euro all’anno per le degenze in Terapia Inten-siva. Il prezzo pagato inoltre dalle famiglie, in termini umani, sociali ed economici, era estremamente gravoso: l’esperienza di dover gestire un minore inguaribile sconvolgeva i progetti per il futuro della metà

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delle famiglie e portava alla rottura di un terzo di esse dopo la morte del minore.

6.3 l’esperienza dell’hospiCe pediatriCo di padova

Un esempio di assistenza che funziona è il Centro di riferimento ve-neto situato nell’Azienda Ospedaliera di Padova, declinato ad hoc per far fronte alla sofferenza dei minori. Dalla sua lunga attività si è preso spunto per proporre un modello di strutture sanitarie capaci di gestire neonati e bambini inguaribili, e per definire le strategie operative che possano metterle in collegamento con il territorio.

L’organizzazione di una Rete assistenziale in età pediatrica era quanto mai utile per venire incontro a due necessità: la prima, quella del mi-nore che non riceveva le cure di cui aveva bisogno e della sua famiglia che doveva farsi carico a 360 gradi degli oneri assistenziali, economici e gestionali della malattia inguaribile per il proprio figlio; e la seconda, quella dello stesso Servizio Sanitario Regionale che si trovava a soste-nere costi rilevanti senza fornire un’adeguata assistenza ai piccoli pa-zienti.

Da quali presupposti partire per progettare un network di condivi-sione di competenze, che potesse dare una maggiore offerta di salute e ricollocare le risorse economiche derivanti dal risparmio sui costi im-propri di assistenza, ridimensionando soprattutto il ricorso all’ospeda-le, molto accentuato quando il paziente è un minore? L’unico esempio italiano di erogazione di cure palliative e di terapia del dolore a cui rifarsi era il Centro di riferimento veneto.

Pensato dal 1989, tre anni fa è stato realizzato un hospice al suo interno, costituito da piccoli monolocali dove la famiglia del bambino inguaribile si trasferisce per imparare a vivere con questo figlio spe-ciale. Esso viene attivato al bisogno da tutte le forze sanitarie operanti sul territorio, per esempio i pediatri ospedalieri e di base, i medici di Medicina Generale, i responsabili dei distretti. Il suo modello funzio-na perché è stato sviluppato con un sistema di assistenza domiciliare: nell’hospice il piccolo paziente viene ricoverato per un periodo molto breve, necessario a ricevere un intervento specialistico di cure palliati-ve e terapia del dolore.

In questa sede infatti, per lenire il dolore può essere intrapreso un trattamento non farmacologico che si avvale di tecniche cognitivo-comportamentali, di distrazione, respirazione, rilassamento, visualiz-zazione (viaggio mentale nel luogo preferito), ipnosi e desensibilizza-

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zione, volte ad abbassare la sensibilità allo stimolo doloroso e a ridurre l’ansia e la paura da esso derivanti.

Il paziente può beneficiare anche di metodi fisici capaci di ridurre l’intensità del dolore avvertito, come il tocco, le carezze o il massaggio, la fisioterapia, l’agopuntura o l’elettroneurostimolazione transcutanea la quale, rilasciando stimoli elettrici attraverso elettrodi posti sulla pel-le, interferisce con il sistema nocicettivo modulando la trasmissione del dolore. Oppure può essere sottoposto a una terapia del dolore per-sonalizzata sulle sue esigenze che prevede l’uso di FANS, oppiacei de-boli o forti a seconda dell’intensità della sofferenza provata.

Il modello di assistenza proposto era da tenere senz’altro in con-siderazione per ideare un nuovo sistema organizzativo integrato nel territorio e pensato per l’età pediatrica.

6.3.1 Le pecuLiarità deLL’essere bambino

I piccoli pazienti terminali o con dolore acuto o cronico hanno caratte-ristiche che li diversificano dagli adulti sofferenti. La loro particolarità guida i criteri di eleggibilità alle cure palliative o alla terapia del dolore in età pediatrica e va tenuta in considerazione per promuovere inter-venti di assistenza mirati.

Il Centro di riferimento veneto con l’hospice di Padova è stato anche una buona palestra per far confrontare gli operatori sanitari con le peculiarità del piccolo inguaribile. Un bambino è infatti una persona particolare e complessa, e lo è ancora di più quando diventa un “pa-ziente”.

Questa sua tipicità non deve essere tuttavia vissuta come un limite, ma come una sfida volta a promuovere un intervento estremamente personalizzato anche nella cura del dolore. Per esempio non è semplice capire quando un bambino soffre: la sua emotività ne modula la ma-nifestazione. L’età è una variabile importante perché produce indivi-dui molto diversi tra loro per sviluppo fisico e psichico, maturità degli organi e apparati, metabolismo e potenzialità di crescita: un neonato è assai diverso da un adolescente e un lattante da un bambino in età scolare.

Moltissime sono inoltre le malattie che in età pediatrica possono richiedere le cure palliative o la terapia del dolore: un quarto di esse origina da sequele di patologie neonatali e un altro quarto da malfor-mazioni congenite, malattie cromosomiche o genetiche; tumori, distur-bi neurologici, patologie metaboliche e un’ampia miscellanea di altre

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condizioni sono appannaggio dei casi rimanenti. Tutte danno un’altis-sima variabilità di quadri clinici: alcuni di essi possono richiedere un supporto palliativo o analgesico circoscritto ai primi anni di vita, altri per un breve periodo o per periodi intermittenti, altri ancora per tempi decisamente maggiori come per esempio nel caso di fibrosi cistica, car-diopatie o malattie autoimmuni.

Bisogna poi tenere conto del fatto che un bambino inguaribile è pur sempre un bambino che deve crescere nel fisico e maturare nella per-sonalità, e a cui occorre dare anche istruzione, svago e affetto. Le sue necessità non vanno disgiunte da quelle della sua famiglia, che deve essere informata, addestrata a somministrare le cure, ascoltata e aiuta-ta. Ma non solo. A rendere ancora più variegata la situazione è la diver-sa efficacia dei farmaci analgesici a seconda dell’età e della condizione di salute.

Molte molecole terapeutiche si distribuiscono nell’organismo e agi-scono in modo diverso da bambino a bambino. La stessa dose non è valida in senso assoluto come nell’adulto, ma va stabilita di volta in volta in base agli anni del piccolo paziente, al peso e alla superficie cor-porea. La modalità di risposta può tra l’altro cambiare per immaturità degli organi, per una diversa concentrazione di proteine e di acqua, per un numero variabile di recettori capaci di legare i farmaci sommi-nistrati e per i limitati meccanismi di compenso in caso di intossicazio-ne ed effetti collaterali.

6.3.2 i bisogni compLessi richiedono risposte muLtispeciaListiche

Il numero di minori che richiedono cure palliative e terapie del do-lore specifiche è inferiore a quello degli adulti. Questo aspetto, unito all’irrisoria esperienza maturata nella loro presa in carico, costituisce a suo modo un limite al decollo di una gestione generale e individua-le dei bambini sofferenti. In Italia alcune realtà assistono i bambini negli stessi hospice creati per gli adulti, altre invece li seguono sulla base di collaborazioni attivate tra medici e la Rete di cure palliative per gli adulti, poche altre mediante programmi di assistenza domi-ciliare stabiliti per una precisa tipologia di malato, per esempio per i piccoli pazienti con insufficienza respiratoria o con una patologia emato-oncologica. Da un lato il loro fiorire ha contribuito a non la-sciar cadere l’attenzione sul problema dolore nei minori, dall’altro sono tentativi che meritano di essere organizzati in un assetto assi-stenziale più organico.

I bambini che richiedono interventi specifici di cure palliative e di te-

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rapia del dolore sono pochi: il loro numero è nettamente inferiore a quello degli adulti e degli anziani. A questa particolarità si deve ag-giungere la distribuzione dei limitati casi in ampie zone, l’eterogeneità delle situazioni e i bisogni complessi dei piccoli pazienti e della loro famiglia: la maggior parte dei genitori vuole infatti che il proprio figlio sia curato a domicilio e il bambino stesso vuole rimanere a casa.

Ci si trova pertanto di fronte a piccoli pazienti ad altissima difficoltà di gestione, distribuiti in aree assai vaste secondo un rapporto di 1 su 300-400 casi: ogni caso diventa pertanto un episodio a sé stante, che merita una gestione alquanto personalizzata.

D’altro canto le esperienze pilota di Reti assistenziali pediatriche internazionali e nazionali da cui prendere spunto sono state finora po-chissime e tarate sulle cure palliative. Si può citare, per esempio, l’ar-ticolata Rete di hospice fiorita in Inghilterra: il fatto che sia supportata da organizzazioni private la rende tuttavia molto dissimile dalla con-dizione che si è venuta a creare in Italia per l’adulto, in cui la Rete delle cure palliative è sostanzialmente pubblica e il privato, pur svolgendo un’importante azione di supporto, non si sostituisce mai a essa. Oppu-re si può ricordare la Rete di hospice integrati alle assistenze domicilia-ri satelliti nata negli Stati Uniti: per la grande estensione del bacino che copre e per le elevate risorse disponibili anch’essa difficilmente può essere adeguata alla situazione italiana.

Nel nostro Paese dal 2005 ci sono stati dei tentativi di organizzare una Rete di servizi in pediatria. In Lombardia, per esempio, l’Ospedale dei Bambini Buzzi di Milano ha istituito una collaborazione tra i me-dici della Terapia Intensiva pediatrica e la Rete di cure palliative degli adulti, programmato le dimissioni “protette” per i piccoli inguaribili e promosso una continuità assistenziale attraverso brevi ricoveri, ambu-latori dedicati e assistenza domiciliare, mettendo in campo un approc-cio multidisciplinare specialistico; gli Ospedali Riuniti di Bergamo ha iniziato un’attività sia di lavoro sia di formazione per sostenere l’assi-stenza domiciliare e, dove ci sia bisogno, l’accoglienza presso l’hospice degli adulti; l’Istituto dei Tumori di Milano ha preso in carico nel 2006 ventinove su 47 bambini e adolescenti in fase terminale con un’équipe multidisciplinare formata da pediatri, oncologi, chirurghi, psicologi, infermieri e radioterapisti: 12 piccoli pazienti sono stati curati al pro-prio domicilio con la collaborazione dei servizi del territorio e 4 affidati all’hospice dell’adulto.

In Campania è attiva da molti anni l’assistenza domiciliare dei bam-bini con insufficienza respiratoria presso la Rianimazione dell’Azienda Ospedaliera di Rilievo Nazionale Santobono Pausilipon di Napoli: qui vengono seguiti a domicilio in regime di assistenza domiciliare inte-

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grata secondo una convenzione stipulata con le strutture territoriali. In Emilia-Romagna il bambino inguaribile viene gestito da una squa-dra multidisciplinare che si avvale dei servizi territoriali e ospedalieri. Nel Lazio sono state fatte due esperienze di Home in Hospital presso l’Ospedale Grassi di Ostia e l’Ospedale di Fondi; in Liguria un’équipe specialistica dell’Istituto Gaslini di Genova ha valutato l’ospedalizza-zione domiciliare per bambini emato-oncologici; in Piemonte si è con-dotta l’esperienza di una Rete per l’assistenza domiciliare che si vuole estendere a tutta la Regione coinvolgendo Centri di riferimento regio-nali, Ospedali provinciali e periferici, il 118 e la Medicina del territorio; in Toscana si è fatto finora riferimento alla Rete di cure palliative dell’a-dulto che di volta in volta integra i centri pediatrici con la mediazione dell’Ospedale Meyer.

In Veneto, già nel 2003 era stata deliberata dalla Regione una Rete di cure palliative pediatriche, facente capo a un Centro di riferimento con un hospice pediatrico al suo interno, che per mezzo di un’équipe multiprofessionale pianificava l’integrazione con i servizi territoriali e ospedalieri per i minori con o senza malattia oncologica: un modello che negli anni successivi si è concretizzato tanto che attualmente la regione Veneto è l’unica ad avere una rete assistenziale. Come si nota le esperienze sono variegate e si avvalgono di strutture e figure profes-sionali già esistenti.

6.4 Un’UniCa rete di assistenza in pediatria

Sfruttare ciò che c’è già e renderlo idoneo a prendersi carico delle ar-ticolate necessità dei minori con dolore: è questo il principio ispira-tore che ha individuato nella Rete assistenziale specifica, decentrata sul territorio e gestita da personale dedicato, il miglior modello per risparmiare risorse e professionalità e per garantire una continuità di cura e di assistenza.

L’obiettivo della legge 38/10 era quello di dare una risposta specifica ai bambini che per la loro sofferenza, malattia, età e condizione richie-devano un’attenzione particolare. Quale modello di quelli già tentati in embrione nel nostro Paese, attuati all’estero o riportati in letteratura poteva fare al caso italiano? Quale poteva risultare il migliore per rag-giungere ogni bambino con dolore nel luogo dove si trova, fornirgli assistenza competente e prospettargli un’alternanza di opzioni diver-se, ripartite tra la permanenza a casa e il soggiorno in una struttura sia che necessiti di cure palliative sia che abbia bisogno di una terapia del

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dolore momentanea o continuativa? Di certo una struttura di assisten-za a Rete che porti l’équipe pediatrica al domicilio del piccolo paziente poteva ben soddisfare queste esigenze.

Secondo questo indirizzo, la legge 38/10 ha proposto un’unica Rete specialistica dedicata con riferimento ad ampi bacini d’utenza, coordinata da un Centro di riferimento regionale, che possa risponde-re ai bisogni di salute dei minori e delle loro famiglie e permettere la valorizzazione delle risorse esistenti. Solo un sistema organizzativo e assistenziale studiato ad hoc per il paziente pediatrico e che accomuni le richieste di cure palliative e di terapia del dolore può, infatti, otti-mizzare l’utilizzo di competenze, strutture, strumenti e tempo, nonché migliorare e rendere contemporaneamente omogenea la risposta assi-stenziale per questi piccoli pazienti: bastava quindi formare in modo adeguato i pediatri di base e ospedalieri e le figure professionali del territorio per far fronte alla cura e all’assistenza dei bambini con dolore o bisognosi di cure palliative.

La nuova legge ha pertanto proposto un modello generale di Rete pediatrica, che sarà poi declinata dalle singole Regioni a seconda delle proprie esigenze e che, anziché prevedere tre diversi livelli di assi-stenza come quella riferita agli adulti (Hub specialistico per i casi di dolore grave, Spoke ambulatoriale per i casi di dolore moderato e Rete dei medici di Medicina Generale), ne preveda solo due. E precisamen-te un livello specialistico che faccia capo a un Centro di riferimento regionale o per ogni tre milioni di abitanti, e un livello generale che si avvalga del personale sanitario già presente sul territorio (perso-nale medico e infermieristico dei reparti di pediatria od ospedalieri e pediatri di base). Al primo vengono indirizzati i casi complessi di dolore pediatrico (20-30%), per esempio casi di dolore terminale, di dolore acuto o cronico scarsamente rispondenti alla terapia di base o poco supportati dalla famiglia per quanto riguarda la terapia antal-gica, nonché casi che necessitano di programmi terapeutici articolati gestiti da un’équipe dedicata con competenze specifiche; al secondo vengono invece demandate le situazioni dolorose più comuni. I due livelli di assistenza devono collaborare strettamente tra loro e condi-videre obiettivi e metodi.

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Capitolo 7

i risvolti della legge

I 12 articoli e i 38 commi che compongono il testo della nuova normativa portano altre rilevanti innovazioni: dalla semplificazione della prescrizione degli oppiacei, possibile oggi con una ricetta normale, alla misurazione e regi-strazione del dolore nella cartella clinica come uno dei cinque parametri vitali, all’obbligo di cura del dolore anche negli anziani. Il controllo della sofferenza nella terza età è infatti quanto mai importante perché innesca quella spirale virtuosa che allontana dalla fragilità emotiva, alimentare, cognitiva, funzio-nale e sociale.

7.1 la presCrizione degli oppiaCei

L’articolo 10 della legge 38 sancisce lo spostamento degli oppiacei non iniettabili utilizzati nella terapia del dolore contenuti nella Tabella II dalla sezione A alla sezione D. In questo modo il medico può usare lo stesso iter prescrittivo impiegato per un qualsiasi altro farmaco, come per esempio un antibiotico somministrabile per bocca: è sufficiente che compili la ricetta rossa del Servizio Sanitario Nazionale o la ricetta bianca del ricettario personale perché il proprio assistito possa acqui-starli. Le ordinanze ministeriali hanno di solito un carattere d’urgenza e vengono emanate velocemente per porre rimedio a questo o a quel problema imminente, ma hanno una durata limitata di 12 mesi. Quelle firmate dal vice ministro Fazio sullo spostamento degli oppiacei dalla sezione A alla sezione D della Tabella II non facevano eccezione: ave-vano apportato un grande cambiamento alla prescrizione dei farma-ci stupefacenti per la terapia del dolore semplificandola molto, ma i provvedimenti che sancivano restavano pur sempre in vigore solo un anno: per non far decadere gli importanti progressi raggiunti occorre-va inserirli in una forma legislativa permanente.

La legge 38/10 è stata l’occasione che si aspettava. Nell’articolo 10 è

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stata inserita la semplificazione delle procedure d’accesso ai medici-nali impiegati nella terapia del dolore: esso sancisce che gli oppiacei non iniettabili indicati per la terapia del dolore, contenuti nella se-zione D della Tabella II, possono essere prescritti con una normale ricetta medica, non ripetibile e rinnovabile volta per volta; per gli altri farmaci stupefacenti deputati alla cura del dolore che restano nella se-zione A della Tabella II, cioè il metadone, la buprenorfina non per via transdermica e le sostanze iniettabili, vale ancora il ricettario speciale a ricalco.

Le ricette rosse del Servizio Sanitario Nazionale devono essere com-pilate nel dettaglio: devono contenere il codice TDL (terapia del dolo-re) per l’esenzione alla partecipazione della spesa, la prescrizione dei medicinali per la terapia deve coprire un arco di tempo non superiore a 30 giorni e deve essere indicata la posologia.

Le ricette bianche devono riportare l’indicazione “terapia del dolo-re” per distinguerle dalle ricette relative alle prescrizioni per la disas-suefazione e la posologia affinché sia rispettato il limite di 30 giorni di trattamento. In entrambe le ricette, il farmacista annota il nome, il cognome e gli estremi di un documento di riconoscimento dell’acqui-rente.

7.1.1 La dispensazione degLi oppiacei: iL ruoLo deL farmacista

La legge 38/10 ha regolamentato anche l’approvvigionamento degli oppiacei non iniettabili, cioè somministrabili per via transdermica, orale e rettale, contenuti nella Tabella II sezioni D ed E, al fine di snel-lirne le procedure d’acquisto. In tutti i passaggi di questo percorso di semplificazione il farmacista è stato coinvolto e ha rafforzato la sua alleanza con il cittadino. Non deve più compilare il bollettario “buoni acquisto” e neppure il registro delle confezioni in entrata e in uscita, e può interpretare la ricetta del medico in modo da garantire un’imme-diata copertura antidolorifica per 30 giorni. Grazie a queste modifiche, il cittadino può avere subito il farmaco oppiaceo richiesto o al massimo nell’arco di un giorno se, al momento della richiesta, la farmacia ne è carente.

La Federazione degli Ordini dei Farmacisti Italiani (FOFI) ha dato un suo importante contributo per agevolare sul piano pratico il ricorso agli oppiacei e smantellare i pregiudizi nei loro confronti, ancora trop-po diffusi in Italia. Nella fase di elaborazione della legge ha sottolinea-to la necessità di rendere più agile la dispensazione di queste sostanze anche interpretando la prescrizione che l’assistito porta in farmacia,

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così da evitargli il ritorno dal medico in caso di incongruenze formali. Si è pertanto battuta per ridimensionare la burocrazia e rendere attua-bile un appropriato approvvigionamento degli oppiacei.

La legge 38 ha apportato dei cambiamenti positivi per l’approvvi-gionamento degli oppiacei non iniettabili. Prima della sua approvazio-ne, per ordinare un oppiaceo dal grossista il farmacista doveva compi-lare a mano una richiesta da staccare dall’apposito bollettario “buoni acquisto”, consegnarla a mano al fattorino (e non inviarla via fax al for-nitore) il quale doveva darla al responsabile del magazzino che, dopo averla riportata sul registro, passava ad allestire l’ordine che ripassava dal fattorino per arrivare al farmacista: una procedura macchinosa che ora non è più necessaria.

Il bollettario “buoni acquisto” non deve più essere utilizzato per la vendita o la cessione delle composizioni contenute nelle sezioni D ed E della Tabella II degli stupefacenti. Per questa categoria di farmaci non è, inoltre, più previsto il registro di carico e scarico su cui segnarne le quantità e le dosi in entrata e in uscita. Oggi il farmacista si approv-vigiona degli oppiacei per via informatica, come per gli altri farmaci: usa un modulo elettronico che può contenere più di un medicinale che arriva pertanto al distributore con una nota unica contenente il fabbisogno della farmacia. È un sistema che porta la dispensazione degli oppiacei allo stesso grado di efficienza e rapidità degli altri far-maci.

Grazie alla nuova legge, il farmacista può consegnare al cittadino un numero di confezioni necessario per coprire i 30 giorni di terapia consentiti dalla normativa (limite massimo) anche se le unità posolo-giche contenute nelle confezioni in commercio dovessero eccedere i 30 giorni. Se, per esempio, un medico prescrive una compressa al giorno per un mese e la confezione in commercio ne contiene 28, oggi il far-macista può vendere due scatole, dandone comunicazione al medico prescrittore. Fino a un anno fa doveva invece rimandare l’assistito dal proprio medico di famiglia con la richiesta di una nuova ricetta in cui fossero prescritte due compresse al giorno, in modo da avere un pre-supposto scritto per dispensare due confezioni.

Il farmacista può attualmente anche frazionare il numero di con-fezioni di oppiacei da consegnare al cittadino. Se, per esempio, riceve una ricetta di prescrizione di oppiacei di durata superiore a 30 giorni, può consegnare soltanto il numero di confezioni sufficienti a coprire i 30 giorni di terapia in relazione alla posologia indicata dal medico, dandone immediata comunicazione al medico. Prima della legge era costretto invece a far tornare l’assistito dal proprio medico per ottenere una nuova prescrizione.

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Oltre alle ricette rosse del Servizio Sanitario Nazionale, per alcuni analgesici il farmacista può accettare anche le ricette bianche prove-nienti dal ricettario personale del medico; si tratta dei cosiddetti far-maci transitati. Per queste ricette “bianche” il farmacista deve annotare sulla prescrizione il nome, il cognome e gli estremi di un documento di riconoscimento dell’acquirente, conservarne una copia per due anni e inviare entro la fine di ciascun mese all’Ordine provinciale competente per territorio una comunicazione riassuntiva del numero di confezio-ni dispensate nel mese precedente, distinte per forma farmaceutica e dosaggio; la ricetta è inoltre da considerare non ripetibile e valida per 30 giorni.

Il farmacista è quindi entrato a pieno titolo nella battaglia culturale contro il dolore rivolta a tutti gli operatori del campo sanitario. Si può dire che oggi è anch’egli parte integrante di quella rete di alleanze che questa legge vuole rafforzare sul territorio. E lo sarà ancora di più in futuro. La legge n. 69 sull’attribuzione di nuovi servizi socio-sanitari alle farmacie prevede il coinvolgimento del farmacista nell’assistenza domiciliare integrata, in cui la palliazione e la terapia del dolore hanno un ruolo di primo piano. Anche senza considerare i pazienti terminali o con algie croniche, bisogna tener conto del vasto capitolo del tratta-mento del dolore post-operatorio, che in tempi di deospedalizzazione precoce viene a ricadere sul territorio.

Tra le innovazioni apportate, nei decreti attuativi, vi è anche la pos-sibilità di avvalersi di personale infermieristico, il quale potrà som-ministrare a un cittadino in terapia antalgica con oppiacei, la terapia contenuta in un elastomero secondo il dosaggio prescritto dal medico curante.

7.2 la misura del dolore

Il monitoraggio del dolore diventa un obbligo di legge, esattamente come il suo trattamento. Al medico e all’infermiere viene lasciata la scelta degli strumenti più adeguati per valutarlo e rilevarlo. La sua misura, oltre a essere una buona pratica clinica, è il segno incontrover-tibile di un cambio di cultura che conferisce al dolore acuto e cronico la dignità di patologia. Come per monitorare l’evoluzione del diabete si misura la glicemia, così per seguire nel tempo la “malattia dolore” deve essere rilevata l’intensità della sofferenza.

La registrazione del dolore è quanto mai importante per capire il suo sviluppo e l’efficacia del trattamento scelto per curarlo. L’articolo 7 del-

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la legge 38 stabilisce proprio questo concetto, facendo diventare un do-vere per medici e infermieri la misurazione del dolore, la registrazione sulla cartella clinica e il controllo nel tempo per verificare l’efficacia del trattamento attuato.

Tutte le strutture sanitarie devono assolvere a questi tre fondamen-tali passaggi. Devono infatti riportare all’interno della cartella clinica le caratteristiche del dolore, le terapie antalgiche e i farmaci usati con i relativi dosaggi e i risultati conseguiti, nonché la sua evoluzione du-rante il ricovero. In altre parole, il dolore deve essere considerato una vera e propria patologia e quindi valutato alla pari di qualsiasi altra malattia: come agli ipertesi si rileva la pressione arteriosa e ai diabe-tici la glicemia, così a chi soffre di dolore acuto o cronico deve essere valutata l’intensità del dolore attraverso una scala di valutazione nu-merica da 0 a 10, dove lo 0 indica nessun dolore e 10 il peggior dolore possibile.

La misura del dolore non è tuttavia una novità assoluta. L’Orga-nizzazione Mondiale della Sanità riconosceva già da anni l’importan-za di rilevare il dolore: essendo una sensazione soggettiva, solo chi l’avverte può indicarne l’intensità e la variazione rispetto a un valore iniziale. La valutazione del dolore e la sua registrazione in appositi spazi predisposti nella cartella clinica erano state previste anche dalle Linee Guida del progetto “Ospedale senza Dolore”, recepite nel 2001 con l’accordo tra il Ministero della Sanità, le Regioni e le province au-tonome di Trento e di Bolzano: doveva diventare una prassi costante del personale curante al pari del monitoraggio di altri parametri vitali quali la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca, la temperatura cor-porea e la frequenza respiratoria, fondamentali per la presa in carico della persona stessa.

Ai Comitati degli Ospedali senza Dolore spettava la scelta e la di-stribuzione agli operatori sanitari degli strumenti di valutazione del dolore tra quelli considerati più idonei alla propria utenza. Poiché il progetto “Ospedale senza Dolore” non aveva definito la struttura che doveva erogare la terapia del dolore, non è partito neppure il moni-toraggio dei Comitati e degli ospedali che avevano preso in carico la sofferenza dei propri ricoverati: non conoscendo a tutt’oggi il loro nu-mero, non è possibile risalire ai centri che hanno messo in pratica la rilevazione del dolore.

Dare un valore al dolore è un atto indispensabile, la cui importanza è nota da tempo: consente di mettere insieme una storia del dolore avvertito e di approfondire la storia stessa della salute di una persona. Porta a considerare le precedenti esperienze dolorose e i trattamenti messi in atto per lenirle, a descrivere il dolore attuale e a specificar-

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ne la sede, l’andamento, le esacerbazioni, la risposta ai farmaci non-ché le modificazioni del ritmo circadiano e della qualità della vita che ne conseguono, tutti elementi utili per iniziare a considerare la soffe-renza.

Più si documenta l’esperienza dolorosa vissuta, più si raccolgono informazioni in merito e più si formula una diagnosi corretta con mag-giori possibilità di efficacia del trattamento.

7.2.1 Le scaLe di vaLutazione

Il nuovo obbligo di legge ha indotto a tenere in maggiore considerazio-ne il concetto che “non si può trattare il dolore senza prima misurarlo” e a riesaminare in modo più organico i molteplici strumenti di rileva-zione a disposizione di medici e infermieri: essi vanno scelti e utilizzati sostanzialmente in base a età, condizione di salute e stato cognitivo della persona sofferente.

Negli adulti si utilizzano di solito due scale. La VAS - Visual Analo-gic Scale (Scala Visiva Analogica) è rappresentata da una retta di 10 cm con un’estremità che corrisponde a “0”, cioè a nessun dolore, e l’altra che corrisponde a “10” cioè al massimo dolore possibile; quantifica in mm ciò che la persona soggettivamente percepisce come dolore o come sollievo. L’altra scala è la scala numerica NRS - Numeric Rating Scale (Scala di valutazione numerica), che riporta su una retta di 10 cm tutti i numeri da 0 a 10 in cui “0” corrisponde ad assenza di dolore e “10” al massimo dolore.

Nei bambini sono state individuate tre scale che consentono di ri-levare il dolore in tutte le età pediatriche con una buona accuratezza e una facile esecuzione.

La scala FLACC - Face Legs Arms Cry Consolability (Faccia Gambe Braccia Pianto Consolabile), viene consigliata per i pazienti al di sotto dei 3 anni che non possono fornire una valutazione soggettiva del pro-prio dolore: si avvale di 5 categorie ognuna delle quali viene conteg-giata da 0 a 2 per un punteggio totale compreso tra 0 e 10.

La scala di Wong-Baker FACES - Pain Raiting Scale (valutazione del dolore con scala a faccine) viene usata nei bambini di almeno 4 anni ed è costituita da sei faccine, da quella sorridente a cui corrisponde “nessun male” a quella che piange e indica “il peggior male possibile”: a ogni faccina è associato un numero da “0” a “10”. È una scala di au-tovalutazione che si basa sulla descrizione che il piccolo riesce a dare del proprio dolore.

La Scala numerica, usata anche negli adulti, viene proposta ai bam-bini di età uguale o superiore a 8 anni che hanno già acquisito il con-

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cetto di proporzione: essa va da “0” (nessun dolore) a “10” (massimo dolore).

Negli anziani con problemi cognitivi si può impiegare la scala BO-DIES che valuta comportamento, frequenza, durata, intensità, effica-cia, inizio e termine del dolore.

7.3 l’approCCio terapeutiCo di tipo sequenziale nell’anziano

Per alcuni versi il controllo del dolore negli anziani può rappresentare una sfida a cui i medici e gli operatori sanitari non possono più sot-trarsi. Nella terza età è infatti difficile riconoscere la sofferenza che si manifesta spesso in modo indiretto, per esempio con episodi di ansia o irrequietezza, con disturbi del sonno o con posture particolari. In-dispensabile è la sua misurazione: la ripetuta valutazione a riposo o sotto carico è importante per capire quanto il dolore sia responsabile di problemi alla deambulazione. Il suo trattamento può avvalersi degli oppiacei, che nell’anziano hanno meno effetti collaterali dei FANS: la scelta del farmaco e il momento della somministrazione devono tutta-via essere attentamente personalizzati.

L’articolo 1 della legge 38/10, tutelando il diritto di ogni cittadino a ricevere la terapia del dolore, rende in modo implicito obbligatorio an-che il trattamento della sofferenza degli anziani: la condizione doloro-sa nell’età avanzata viene finalmente considerata.

Troppo spesso è stata infatti trascurata: nessuna indagine sistemati-ca sulla sua prevalenza è stata finora eseguita per il fatto che è spesso considerata una sorta di situazione fisiologica dovuta all’età e pertanto oggetto di scarsa attenzione da parte sia dei medici che degli infermie-ri. Eppure si tratta di una condizione ricorrente: sebbene la sua pre-senza vari con il trascorrere degli anni, le modalità di vita e il generale stato di salute, l’incidenza raddoppia negli individui con più di 60 anni e la frequenza aumenta ogni dieci anni.

È la regola in circa la metà degli anziani operati: il 25% di essi non riceve nessun tipo di analgesia per controllare il dolore e il 50-75% riceve una terapia non adeguata all’intensità. Diversi studi hanno rilevato che tra le persone che vivono in residenze sanitarie assistite, la percentuale di trattamento non adeguato del dolore varia tra il 45 e l’83%.

Negli anziani che si sono fratturati l’anca, il dolore viene avvertito ben oltre la degenza in ospedale prolungandosi per molto tempo dopo l’intervento chirurgico. In uno studio eseguito su 180 ultraottantenni

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con frattura del collo del femore si è protratto per circa 4 mesi dopo l’intervento: il dolore era moderato nel 42% dei casi e intenso nel 27%. In meno della metà dei casi erano stati tuttavia prescritti analgesici per lenirlo, mentre nel 22% dei soggetti non era stata intrapresa nessuna te-rapia del dolore. Ma non solo: le fratture vertebrali da osteoporosi e la poliartrosi sono condizioni sperimentate da numerosi anziani e causa di un’elevata sofferenza.

Un gruppo di otto geriatri si è chiesto quale fosse la prevalenza del dolore nei reparti di Geriatria italiani e come questo fosse tratta-to. Per rispondere a questi quesiti ha considerato una popolazione di 367 anziani di 78-81 anni e ha riscontrato che il dolore era riferito dal 67,3% di loro: di questi, ben il 58% aveva una sofferenza di intensità superiore a 7 misurato con la scala NRS, e il 40% circa lo aveva da oltre 6 mesi.

Indagando se fossero o no sottoposti a trattamenti specifici ed even-tualmente quale tipo di approccio fosse stato utilizzato, si è riscontrato che il 70% dei pazienti con dolore moderato (NRS = 5) e severo (NRS > 7) non veniva addirittura trattato.

Esaminando la tipologia di farmaci prescritti in relazione all’inten-sità della sofferenza, sono emerse numerose incongruità. L’impiego di FANS risultava predominante anche per dolori molto forti, nonostante siano ben noti gli effetti collaterali che questi rimedi causano. Gli op-piacei forti, indicati come farmaci di elezione per il trattamento del dolore moderato-severo da tutte le Linee Guida internazionali (scala 4-10), erano impiegati solo per livelli di dolore pari a NRS = 9 (4,4% dei farmaci impiegati) e NRS = 10 (36,4% dei farmaci impiegati). Nel 27,2% dei soggetti con dolore NRS = 10 si continuavano a utilizzare FANS, mentre gli oppiacei deboli erano prescritti a partire da un dolore d’in-tensità NRS = 7 in media nel 28,75% dei casi.

Di fronte a un dolore sotto valutato e poco o mal trattato, anche la qualità della vita dei partecipanti all’indagine era scadente, con parti-colare riferimento a sonno, umore e attività quotidiane.

In tutti i casi menzionati il dolore correlava con la disabilità e la perdita di autonomia: impediva lo svolgimento delle normali attività quotidiane, minava alla base la sfera emotiva e poteva anche indurre una compromissione delle vie nervose deputate alla conduzione degli stimoli dolorosi. Controllare la sofferenza significa pertanto disinne-scare la spirale negativa che alimenta la fragilità tipica dell’anziano che a sua volta può evolvere velocemente verso una persistente vulnera-bilità: lo squilibrio che comporta all’organismo è infatti un fattore che predispone alla totale dipendenza dagli altri.

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7.3.1 gLi oppiacei neLL’anziano

L’obbligo di dover trattare il dolore anche negli anziani ha portato con sé la necessità di acculturarsi in merito, lasciando alle spalle gli antichi pregiudizi sugli oppiacei. I farmaci oppiacei sono infatti più indicati, ri-spetto ai FANS, nell’anziano con dolore cronico in quanto più tollerati a livello di stomaco, intestino, cuore, rene e fegato. In altre parole danno meno effetti collaterali: la loro scelta deve tuttavia essere ponderata sullo stato di salute dell’anziano e sulla presenza di eventuali altre malattie.

A tale scopo il libro “Il dolore cronico in Medicina Generale”, scritto dal gruppo di lavoro che ha messo a punto la legge 38/10 e che è in corso di distribuzione ai medici di Medicina Generale, fornisce delle racco-mandazioni sull’uso degli analgesici nella terza età, oppiacei compresi. I farmaci devono essere somministrati attraverso la via meno invasiva, in formulazioni preferibilmente a rilascio prolungato, introdotti uno alla volta partendo da bassi dosaggi: si deve infatti valutare l’efficacia e la tollerabilità dei principi attivi già prescritti, prima di aggiungerne altri. La terapia va inoltre monitorata costantemente poiché può essere necessario cambiare un oppiaceo con un altro.

Il libro propone un approccio sequenziale alla cura del dolore. Per un dolore lieve viene consigliato il paracetamolo soprattutto per controlla-re la sofferenza di origine muscolo-scheletrica. Se da un lato può essere somministrato per un lungo periodo di tempo, dall’altro è fortemente controindicato per coloro che presentano una grave insufficienza epatica.

La seconda scelta cade sui FANS e sui Cox-2 inibitori, da utilizzare di rado e per brevi periodi nell’anziano che, altrimenti, può andare in-contro a disturbi a carico dell’apparato cardiovascolare, renale, epatico e gastrointestinale: la raccomandazione è di assumerne non più di uno per tenere sotto controllo il dolore e di monitorarne l’efficacia.

Il terzo passaggio è prescrivere gli oppiacei, indicati per combattere il dolore moderato-severo che compromette la qualità della vita, limi-ta le funzioni dell’organismo e influenza negativamente le relazioni sociali. Come per gli altri principi attivi, anch’essi devono essere som-ministrati con cura valutando quali vantaggi ed eventi avversi com-portano al paziente.

Una volta individuato il farmaco oppiaceo idoneo, si può optare per una combinazione con paracetamolo e/o FANS: in questo caso è bene diminuire la dose di questi ultimi. Le preparazioni a lento rilascio sono le più indicate per trattare il dolore cronico, mentre vanno tenuti presenti gli oppiacei ad azione rapida per controllare episodi di dolore acuto. In tutti i casi la terapia con oppiacei va verificata nel tempo per soppesarne i risultati e le eventuali complicanze.

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Parte terza

DOPO LA LEGGE

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La portata innovativa deLLa Legge 115

CaPitolo 1

la Portata innovativa della legge

Basta una legge per promuovere una svolta culturale? Una normativa ha questo potere solo se è accompagnata da una volontà forte da parte dei suoi promotori di attuare i principi che sancisce. E la legge sulle cure palliati-ve e la terapia del dolore è supportata da questa spinta motivata che a un anno dalla sua approvazione ha permesso di raccogliere già i primi risultati. Il suo testo, ben fatto e dettagliato, ha consentito un rapido avvio della nor-mativa. Passare dalla teoria alla pratica quotidiana richiederà tuttavia tem-po e un grande lavoro corale perché molti sono gli ostacoli da superare ed estremamente all’avanguardia sono gli obiettivi in essa contenuti. Oltre a sancire il “diritto a non soffrire” di ogni cittadino e a riconoscere che il dolore può costituire una malattia, la legge 38/10 ha infatti disciplinato anche l’esercizio di tale diritto attraverso importanti novità assistenziali. Programmi di cura individualizzati, risposte ad hoc per i minori inguaribili e con dolore, prescrizione dei farmaci oppiacei con il ricettario normale, mi-surazione del dolore e registrazione sulla cartella clinica, nonché formazione del personale sanitario e obbligo delle Regioni di fornire standard omogenei in tutto il Paese pena la perdita dei fondi stanziati, sono le principali inno-vazioni che stanno diventando realtà. La sua entrata in vigore sta pertanto facendo cambiare prospettiva di pensiero e di azione al personale sanitario e con il tempo muterà anche il comportamento degli utenti, delle persone sofferenti e delle loro famiglie. Ma non solo. Ha anche stimolato un largo consenso da parte della popolazione. Iniziative e campagne di sensibilizza-zione sulla cura del dolore continuano a essere proposte e non c’è conferenza o congresso in cui non si faccia accenno ai suoi contenuti. L’approccio inno-vativo verso la sofferenza deve essere tuttavia ancora comunicato in modo capillare ai cittadini, ma ci si è già mossi in merito: un logo, un poster, uno spot e uno slogan pubblicitario, messi già a punto da giovani con meno di 30 anni, avranno il compito di far familiarizzare gli Italiani con la “malattia dolore”.

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116 dopo La Legge

1.1 il raPPorto annuale della Camera dei dePutati

La legge 38/10 è arrivata in punta di piedi, in sordina, cogliendo un po’ di sorpresa anche le Regioni che avevano il compito di applicarla. La sua penetrazione nei vari ambiti designati, da quelli assistenziali e formativi a quelli ospedalieri e territoriali, è stata dunque discreta e silenziosa, ma non per questo meno importante. Senza quasi accorger-sene, sia il pubblico sia gli operatori sanitari si sono dovuti giocoforza confrontare con una normativa altamente innovativa che conteneva tutto quello che si poteva desiderare da una legge e che, volendo pro-prio fare un appunto, è così rivoluzionaria da trovare un territorio an-cora poco preparato e ricettivo ai suoi regolamenti. Ci si trova pertanto di fronte a una sorta di paradosso: è il territorio a rincorrere la legge e non viceversa. Per velocizzare anche il cammino inverso e per accor-ciare la distanza tra i concetti sanciti e la realtà, le competenze ci sono, ma bisogna rafforzare la parte organizzativa e gestionale.

Molti e importanti passi sono stati tuttavia già effettuati per ren-dere concreto il diritto di ogni cittadino a non soffrire. La relazione sull’attuazione delle disposizioni per garantire l’accesso alle cure pal-liative e alla terapia del dolore, previsto dall’articolo 11 della legge e predisposto dalla Direzione Generale della Programmazione Sanitaria, e sull’attuazione dei livelli di assistenza e dei principi etici di sistema del Ministero della Salute, elenca tutti gli interventi effettuati nell’arco del 2010.

Il documento evidenzia anche gli aspetti migliorabili della legge nell’ottica di una più appropriata applicazione. Propone approfondi-menti, strategie e dettagli che possono incrementare l’efficacia dell’as-sistenza alle persone inguaribili o con dolore cronico e che possono colmare quella disparità di offerta, ancora presente sul territorio, che limita un’adeguata risposta ai bisogni dei cittadini.

1.2 un’italia a due veloCità: la regionalizzazione della sua aPPliCazione

La nuova sfida è passare da una legge innovativa a una legge del tut-to operativa sul territorio. Il primo anniversario della normativa sulle cure palliative e terapia del dolore ha tuttavia dato i primi risultati anche in questo senso: gli strumenti necessari ad applicarla sono stati già completati al 75-80%.

A soli due mesi dalla sua nomina, la Commissione ministeriale sul-le cure palliative e la terapia del dolore ha già prodotto importanti do-cumenti di indirizzo. In particolare, si è occupata della ripartizione dei

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fondi economici per la formazione del medico e della costituzione di un tavolo tecnico con tutte le Fondazioni che operano nel mondo del-la sofferenza, soprattutto a livello pediatrico, per individuare il core-curriculum dei non sanitari operanti nelle cure palliative e del dolore. La Conferenza Stato-Regioni nel dicembre scorso ha inoltre approvato le linee guida per la promozione, lo sviluppo e il coordinamento degli interventi regionali: si tratta ora di metterle in pratica.

Una condizione essenziale per poter pervenire a questo obiettivo è la formazione di chi opera sul territorio e la presa di coscienza che la legge 38/10 ha innescato un duplice effetto: sul piano culturale ren-dendo necessario un approccio del tutto nuovo alla gestione del dolore e sul piano organizzativo istituendo due Reti distinte per le cure pallia-tive e la terapia del dolore. La prima esiste già da tempo, grazie anche al fondamentale contributo del volontariato e del non profit, mentre la seconda deve essere creata. Come documenta il rapporto annuale redatto dalla Camera dei Deputati, la loro disomogenea realizzazione comporta a tutt’oggi un divario assistenziale tra Nord e Centro-Sud, che si spera possa essere colmato dall’attuazione della legge 38/10 nei prossimi due o tre anni.

1.2.1 Lo stato di attuazione deLLa Rete di cuRe paLLiative e deLLa Rete di teRapia deL doLoRe

Una fotografia dell’attuale stato dell’arte delle Reti assistenziali, previ-ste dalla legge 38/10, è stata elaborata con i dati provenienti da un que-stionario distribuito a tutte le Regioni e che si articola in due sezioni: la prima è dedicata all’assistenza palliativa e la seconda a quella antalgi-ca. Al questionario hanno tuttavia risposto 16 Regioni su 19 (mancano Marche, Molise e Sardegna) e due Province autonome.

1.2.1.1 La Rete delle cure palliative

La sua attuazione, iniziata anni addietro rispetto all’entrata in vigo-re della legge 38/10, deve essere ancora portata a termine. I ritardi accumulati sono soprattutto attribuibili al mancato utilizzo da parte di alcune Regioni dei finanziamenti erogati per la costruzione degli hospice. Le cure palliative domiciliari, sebbene non siano ancora in grado di rispondere adeguatamente ai bisogni dei cittadini, possono tuttavia contare su Centri con équipe dedicate che erogano prestazioni di buona qualità. Ciononostante, la disomogeneità dell’offerta divide a tutt’oggi in due il nostro Paese: un’Italia all’avanguardia, tenden-zialmente quella del Nord, in cui il malato incurabile può attendersi

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un’assistenza tecnicamente progredita, e un’Italia meno avanzata che fa fatica a mettersi al passo con i nuovi dettami della legge 38/10 e che si basa ancora su un’assistenza a domicilio e attuata dalla famiglia.

L’indagine svolta a livello regionale ha messo in evidenza come l’assi-stenza palliativa sia ancora fornita soprattutto a casa della persona bi-sognosa e non nelle strutture residenziali. La sua durata media è infatti di quasi 32 giorni negli hospice e di 52 giorni al domicilio del paziente. Il primo dato risulta tuttavia viziato dall’elevato valore dell’assistenza residenziale riportato dalla regione Campania: in sua assenza si giun-ge a un dato di 19,2 giorni (mediana pari a 18) che è in linea con i dati presenti in letteratura che si assestano su 20-21 giorni. L’assistenza do-miciliare si mantiene invece abbastanza omogenea su tutto il territorio nazionale, con la sola eccezione della regione Emilia-Romagna in cui si dimostra particolarmente elevata.

Le persone prese in carico dalla Rete di cure palliative decedono in prevalenza a casa propria: in Sicilia addirittura il 90% dei malati ter-minali muore a domicilio. Ciò avverrebbe anche perché alcune regioni, quali Valle D’Aosta, Campania e Abruzzo, hanno accumulato un ritar-do nell’utilizzo dei fondi messi a disposizione dalla legge 39/99 per la costruzione degli hospice.

L’utilizzo dei posti letto degli hospice è molto elevato e raggiunge una media nazionale dell’86%. Se da un lato questo risultato sottolinea una positiva risposta alla richiesta assistenziale dei cittadini, dall’altro mette in evidenza un’incapacità della Rete assistenziale di soddisfare interamente il fabbisogno.

Assai poco diffuso risulta inoltre il sistema informativo regionale dedicato al monitoraggio della Rete di cure palliative, come del resto l’impiego sistematico di questionari di soddisfazione volti a misura-re la qualità delle prestazioni. Per contro, la comunicazione dell’assi-stenza palliativa ai cittadini e agli operatori sanitari, comprendente le informazioni sull’istituzione della Rete stessa, sulla localizzazione dei servizi e delle strutture che vi fanno capo e sulle modalità d’accesso, è abbastanza presente nel Paese.

Questi risultati confermano nel complesso quelli ottenuti dall’in-dagine conoscitiva nazionale, eseguita dall’Agenzia dei Servizi Sani-tari Nazionali e dal Ministero della Salute insieme alla Società Italiana di Medicina Generale e dalla Società Italiana di Cure Palliative, che ha documentato come lo sviluppo dei servizi di cure palliative domicilia-ri, e tanto più il loro monitoraggio, non rappresenti una priorità per le 155 ASL che hanno partecipato all’iniziativa.

Diverse ASL sostengono di avere una Rete di cure palliative attri-

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buendo tuttavia al termine “rete” un significato diverso da quello cita-to nella legge: il controllo della loro gestione è poco applicato e, in ogni caso, eterogeneo.

Sebbene ci si trovi di fronte a un’insufficiente offerta di servizi, nu-merosi sono i Centri con équipe dedicate – circa il 54% del campione analizzato – che hanno un buon livello qualitativo: essi si basano su un approccio multidisciplinare che garantisce nel 53% dei casi un’assi-stenza sia medica sia infermieristica continuativa nelle 24 ore.

Il loro operato soddisfa pertanto i criteri della buona pratica in cure palliative domiciliari: la presa in carico del paziente avviene infatti nell’arco di 72 ore nel 90% dei casi, è quasi sempre preceduta da un colloquio strutturato con i familiari e i farmaci, i presidi e gli ausili sono forniti nel 60% dei casi.

Grazie al supporto delle Organizzazioni non profit e a un’assistenza erogata 7 giorni su 7 dalle ore 8:00 alle 20:00, questi Centri con équipe dedicate garantiscono un’adeguata intensità assistenziale, caratteriz-zata da un Coefficiente di Intensità Assistenziale medio pari a 0,6 e da un numero medio di Giornate Effettive di Assistenza di 4,2, un suppor-to formativo ECM nell’80% dei casi, un percorso formativo nel 90% dei casi e una frequenza almeno settimanale di riunioni multidisciplinari nel 65% dei casi.

Dall’analisi dei comportamenti dei principali professionisti, si evin-ce il riconoscimento dell’importanza delle cure palliative da parte dei medici di Medicina Generale e la loro buona disponibilità a esserne coinvolti e a rafforzare la propria conoscenza sugli oppioidi.

Due indagini, eseguite dalla Fondazione Maruzza Lefebvre D’Ovi-dio Onlus in collaborazione con l’Istituto di ricerca GPF su 1.897 adulti di 18-74 anni, interrogati con una serie di domande sui bisogni di as-sistenza dei malati inguaribili, hanno fatto toccare con mano la scarsa conoscenza degli Italiani sulle cure palliative: il 41%, pari a 4 adulti su 10 non ne ha mai sentito parlare, mentre il 7% sostiene di averne un’idea molto precisa, il 16% abbastanza precisa e il 23% una buona conoscenza. A essere più eruditi in materia sono le persone più istruite, economicamente benestanti e abitanti nelle regioni del Centro-Nord.

Ancora oggi la maggioranza degli Italiani fa fatica a trovare le pa-role per definire le cure palliative e spesso le confonde con la terapia del dolore, con trattamenti che migliorano in genere la qualità della vita dei malati, con cure che trattano solo i sintomi della malattia o che hanno una funzione psicologica.

Se i nostri concittadini hanno nozioni vaghe su cosa siano le cure palliative, hanno tuttavia dimostrato di essere più precisi nel definire i bisogni di un malato inguaribile, individuando come prioritaria la

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riduzione della sofferenza fisica, vale a dire del dolore e dei disturbi associati alla patologia di base e, a seguire, una buona assistenza sani-taria, la disponibilità di medici e infermieri 24 ore su 24 e il sostegno psicologico.

Tra i luoghi ideali di cura, la propria casa è la preferita: la maggior parte degli intervistati vorrebbe essere accudito soprattutto dai propri familiari e meno dal personale esterno. Una minoranza, sebbene sem-pre più consistente e riconducibile a persone benestanti e residenti nel Nord-Ovest, è tuttavia in controtendenza e sceglie di essere assistita presso una struttura sanitaria, un hospice o un ospedale.

1.2.1.2 La Rete della terapia del dolore

Prima dell’approvazione della legge 38/10 era normale che chi accu-sasse dolore, per esempio un forte mal di schiena, si rivolgesse all’ospe-dale più vicino a casa, al Pronto Soccorso o al farmacista. Non esisteva neppure il concetto di Rete per la terapia del dolore. Sebbene ancora oggi si percorrano questi tradizionali canali di assistenza, la rete an-talgica è in via di realizzazione. A poco più di un anno di distanza dal varo della nuova normativa, sono state già gettate le sue fondamenta: un numero sempre crescente di Regioni sta mettendo in pratica le linee guida per la sua costruzione, tanto che ciò che è stato messo a punto fino a oggi è sufficiente a supportare il 50% della popolazione italiana. Ma non solo. Un’indagine eseguita dalla Associazione vivere senza do-lore ha sottolineato come la reperibilità di un centro antalgico sia facile e come l’acquisto dei farmaci oppiacei sia diventato semplice.

La Rete assistenziale di terapia del dolore si sta formando. La Lombar-dia, il Piemonte, la Sicilia, il Veneto e l’Emilia-Romagna hanno deli-berato le loro Reti: ciò significa che è già stato individuato il nome e il cognome del loro responsabile e della squadra che lo affiancherà.

Va inoltre precisato che dieci Regioni assicurano un valore intorno all’80% di ASL con almeno un ambulatorio di terapia antalgica che, sebbene spesso non sia totalmente dedicato a tale attività, garantisce tuttavia la presenza di un medico anestesista rianimatore.

La registrazione dell’intensità del dolore nella cartella clinica è ese-guita ancora da pochi ospedali al Centro-Sud e soprattutto da unità operative chirurgiche al Nord.

Rare sono infine le Regioni che impiegano in modo sistematico nei presidi ospedalieri delle proprie ASL i questionari di soddisfazione sulla gestione del dolore.

Un’indagine eseguita nel 2010 dall’Associazione vivere senza dolore

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su 1.617 pazienti intervistati e presentata a Milano nell’ambito del con-vegno “La giornata senza dolore” ha dimostrato come l’accessibilità ai servizi di terapia del dolore sia soddisfacente.

L’83% degli intervistati ha sostenuto di non aver avuto difficoltà nel trovare un centro a cui rivolgersi, il 38% ha identificato nel proprio medico di Medicina Generale e il 24% nei propri familiari gli interlo-cutori che hanno consigliato loro di rivolgersi a un centro specialistico. L’impiego dei farmaci oppiacei è risultato confinato al 58% dei pazienti con dolore cronico.

1.3 un nuovo fermento in Pediatria

La legge 38/10 ha modificato in modo drastico l’approccio al bambino malato, riconoscendogli a pieno titolo il diritto di essere curato per la sua sofferenza. Di lui le Regioni cominciano a parlare e a interessarsi deliberando, anche se ancora un po’ a macchia di leopardo, i Centri di riferimento per le cure palliative e la terapia del dolore in pediatria. L’esempio del Veneto, veterano nella presa in carico dei piccoli pazienti inguaribili, ha fatto da volano per impostare e veicolare la formazione dei formatori, vale a dire dei pediatri e degli operatori sanitari che do-vranno educare altri colleghi sulle strategie d’approccio e di cura della sofferenza. Il MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) sta lavorando per costruire un master in cure palliative e tera-pia del dolore. Molto resta tuttavia da fare: il dolore nei nostri bambini è ancora sotto trattato. Ciononostante si è innescato un fermento cul-turale che, sebbene debba essere ancora stimolato e indirizzato a dare risultati concreti, è partito e può essere definito come ineguagliabile rispetto al resto d’Europa.

Alcune Regioni si stanno impegnando a pianificare strutture specia-listiche capaci di rispondere alle peculiarità dei bisogni clinici, sociali e assistenziali dell’età pediatrica. La Basilicata sta organizzando una Rete assistenziale che promette di funzionare bene, Piemonte, Liguria e Lazio l’hanno già deliberata e Friuli Venezia Giulia e Alto Adige, Tren-to e Bolzano e altre regioni sono sul nastro di partenza. Le Regioni sono impegnate in questo momento a scegliere quali delle proprie strutture sanitarie far diventare Centri di riferimento in pediatria: una volta in-dividuate si potrà organizzare un’équipe specialistica nella cura dei bambini sofferenti e imbastire una Rete di assistenza territoriale.

Parallelamente, si sta cercando una strategia condivisa di formazio-ne di base in cure palliative e terapia del dolore in pediatria, da desti-

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nare ai pediatri di base e ospedalieri e a tutti gli operatori sanitari del territorio. Una formazione specifica sui vari casi che si presentano può essere invece impostata nel momento in cui la Regione abbia scelto il Centro di riferimento da attivare.

A tale scopo, il libro “Il dolore nel bambino. Strumenti pratici di va-lutazione e terapia”, che si propone come un’agile guida nella pratica quotidiana di gestione della sofferenza, può essere un utile compendio anche alla formazione. Numerose copie sono già state distribuite ai pediatri di base e ospedalieri, e le sue pagine si possono inoltre scari-care dal sito del Ministero della Salute (www.ministerosalute.gov) e da quello dell’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari regionali (AgeNaS, www.agenas.it). È già stato inoltre deliberato di trasformare il testo del libro in un formato pocket, in modo da agevolare la consultazione immediata di fronte a un caso reale.

La Regione Veneto, l’unica che dal 2003 ha istituito una Rete di assi-stenza specifica per le cure palliative e la terapia del dolore in pediatria facente capo all’ospedale di Padova, è già partita con questa formazio-ne ramificata mettendo a punto un corso educativo sul dolore mentre è in fieri quello sulle cure palliative: 40 formatori sono pronti e piccole équipe composte da 2 o 3 di loro sono già in grado di preparare ognuna 20 colleghi.

Il percorso abilitativo per gli educatori, la scelta della metodologia didattica e i contenuti da proporre sono stati stabiliti. Resta da rilevare l’impatto formativo di questa strategia educativa e verificare la sua ef-ficacia mediante alcuni parametri per altro già definiti. A tutt’oggi non esiste tuttavia in nessuna Regione un osservatorio dedicato a valuta-re non solo la formazione, ma anche l’appropriatezza dell’erogazione delle cure secondo i criteri stabiliti dalla legge; solo in Veneto è presen-te una stazione di monitoraggio volta a rilevare ciò che si fa nel Centro di riferimento di Padova.

1.3.1 La necessità di pRomuoveRe più cuLtuRa sui bambini e suL doLoRe

Sebbene sia stato riconosciuto che il dolore è frequente in età pediatrica e accompagna in modo trasversale moltissime malattie, non si dispone a tutt’oggi di stime dettagliate su quanti bambini e neonati lo accusino e in quante strutture venga trattato. Grazie alla letteratura scientifica si sa che il problema dolore è ampio: è sperimentato dal 60% dei pic-coli che afferiscono al Pronto Soccorso pediatrico, avvertito dal 100% dei bambini e neonati sottoposti a interventi diagnostici o terapeutici invasivi e dall’80% dei post-operati, è presente nel 60% dei malati on-cologici, nel 20% dei soggetti in forma di dolore cronico scatenato per

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esempio da cefalee o coliche addominali ricorrenti e nell’80% dei pa-zienti inguaribili e/o terminali.

Nel nostro Paese vi è ancora una situazione di deficit assistenziale nei riguardi dei bambini sofferenti. La valutazione del dolore è prevista nel 40% delle strutture pediatriche ed effettuata realmente in meno del 20% dei casi, il dolore post-operatorio viene monitorato con appositi proto-colli solo nel 20% dei Centri di Chirurgia pediatrica italiani, la sofferenza dei piccoli pazienti viene considerata nel 15-20% dei Pronto Soccorso, il dolore associato alle malattie infettive intercorrenti viene gestito nel 15% dei casi e quello che accompagna le procedure invasive dolorose in una percentuale che varia da 0 al 40% a seconda del centro e, infine, il con-trollo del dolore nella terminalità pediatrica è effettuato nel 20% dei casi.

La gestione del dolore nei neonati e nei bambini non ha riferimenti culturali, professionali, organizzativi e risorse specifiche. Ciò fa sì che in Italia il dolore in età pediatrica sia globalmente sotto trattato e abbia una ricaduta negativa sul vissuto della malattia e sulla qualità di vita del bambino e della sua famiglia: attualmente, solo in quattro ospedali pediatrici italiani è previsto un ambulatorio di terapia antalgica rivolto in modo specifico ai bambini ed esclusivamente in Veneto vi è una Rete di assistenza specialistica dedicata, coordinata da un Centro di riferi-mento regionale con sede a Padova.

Al momento, si stanno inoltre eseguendo diversi studi volti a quan-tificare i costi diretti e sociali della Rete assistenziale pediatrica previ-sta dalla legge 38/10. I dati preliminari consentono di sostenere che vi sono tutti i presupposti affinché essa sia di qualità e non costi più di quanto si spende per quello che c’è ora, e forse anche meno. Ad oggi, infatti, la maggior parte dei bambini e dei neonati sofferenti si rivolge al Pronto Soccorso o viene ricoverato nei reparti ospedalieri per acuti, il cui costo giornaliero si aggira sui 1.500 euro. Con la concreta istitu-zione di Centri di riferimento regionali coadiuvati da tutte le risorse presenti sul territorio, si recupererebbero molte figure professionali e si alleggerirebbe la famiglia dalla presa in carico di un figlio bisognoso di cure palliative o di terapia del dolore, che nella stragrande mag-gioranza dei casi è ancora interamente sulle sue spalle. Questa nuova impostazione della gestione della sofferenza dei minori aumenterebbe forse, anche se in modo contenuto, i costi del Servizio Sanitario Nazio-nale che attualmente sono pressoché pari a zero.

1.3.2 i finanziamenti peR La pediatRia

L’attenzione verso i bambini sofferenti è ancora attenuata rispetto a quella riservata agli adulti nelle medesime condizioni, soprattutto per-

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ché sono numericamente meno rappresentati. Accade così che i minori con dolore restano un fanalino di coda, un appendice al grande proble-ma della sofferenza.

Questo limite, che ha le sue radici in una scarsa e poco salda cultura del bambino sofferente, ha reso meno brillante la partenza della Rete assistenziale in pediatria. I fondi per il suo avvio, per la creazione dei centri di riferimento in cure palliative e terapia del dolore e per la for-mazione delle figure professionali scarseggiano. Poterli svincolare non sarebbe difficile se si seguissero due strategie.

La prima potrebbe essere quella di pianificare una nuova riparti-zione delle spese sostenute attualmente: molti sono ancora oggi i rico-veri impropri, i passaggi al Pronto Soccorso, i decessi nei reparti ospe-dalieri per acuti. L’attivazione della Rete, promuovendo l’assistenza domiciliare dei piccoli pazienti, permetterebbe di ricollocare le risorse umane e di riqualificare le strutture sanitarie già esistenti: il denaro ri-sparmiato potrebbe essere indirizzato verso le nuove esigenze di edu-cazione, programmazione di centri regionali e avviamento della Rete pediatrica.

L’altra iniziativa, che potrebbe essere adottata per limitare uno spre-co di risorse, è la presa in carico dell’aspetto sociale della sofferenza: la legge 38/10 non accenna a questa dimensione. Dietro a un bambino incurabile c’è infatti sempre una famiglia che soffre: spesso i genitori si dividono, uno dei due perde il lavoro, i fratellini hanno problemi scolastici, altre persone devono essere gioco forza coinvolte per dare un aiuto con un inevitabile esborso di denaro. Il nucleo familiare s’im-poverisce, ma anche la società va incontro a spese. Se si provvedesse invece a dare a queste famiglie un supporto sociale adeguato e orga-nizzato che vada di pari passo con la gestione dei problemi clinici, ci sarebbero senz’altro meno costi a cui far fronte.

1.4 il monitoraggio ministeriale

Per verificare lo stato di attuazione della legge è stato creato un punto di riferimento apposito, l’Ufficio XI presso il Ministero della Salute. Non a caso è stato inserito all’interno della Direzione generale della Programmazione Sanitaria, che è ritenuta il cuore pulsante del Mini-stero, nel quale trovano posto i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), la ripartizione dei fondi, i piani di rientro, la qualità, le tariffe e ora anche le cure palliative e la terapia del dolore.

Il fatto che in futuro questa stessa Direzione si occuperà anche di stati vegetativi, dà la dimensione di voler continuare a seguire nel tem-

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po la fragilità e il dolore. Attraverso questo Ufficio, che rappresenta il Ministero e che collabora con l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sani-tari regionali, la Commissione regionale per la formazione continua, l’Agenzia Italiana del Farmaco e l’Istituto Superiore di Sanità, avviene il monitoraggio previsto dalla legge per le cure palliative e la terapia del dolore connesso alle malattie neoplastiche e a patologie croniche e degenerative.

La sua attività è incentrata su uno scambio attivo di informazioni tra il Ministero, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano. Se il primo dà gli strumenti per valutare l’andamento delle prescrizioni degli oppiacei utilizzati nella terapia del dolore, lo stato di realizza-zione e sviluppo delle Reti assistenziali, le disomogeneità territoriali e l’erogazione delle cure palliative in età neonatale, pediatrica e adole-scenziale, le seconde, cioè le Regioni e Province autonome, forniscono i dati provenienti dal territorio riguardanti il consumo degli oppiacei (dati che vengono confrontati con la farmacovigilanza), le prestazioni erogate e i loro esiti (anche attraverso l’analisi qualitativa e quantitati-va dell’attività delle strutture delle due Reti), le campagne d’informa-zione messe a punto a livello regionale e nazionale, e le informazione di tipo economico su realizzazione e sviluppo delle reti.

Una funzione di osservatorio e di monitoraggio è stata data anche alla Commissione Ministeriale delle cure palliative e terapia del do-lore: a essa giungono i dati riguardanti lo sviluppo e l’avanzamento delle Reti che devono soddisfare i criteri sanciti dalla legge, le attività di formazione promosse a livello regionale e nazionale, e le attività di ricerca.

1.4.1 i dRG specifici peR La teRapia deL doLoRe

L’Ufficio XI del Ministero della Salute ha inoltre istituito un Tavolo tec-nico con le Regioni per definire le modalità di rimborso delle prestazio-ni relative alle cure palliative e alla terapia del dolore.

Questo Tavolo è già attivo e ha eseguito una ricognizione delle pre-stazioni relative alle cure palliative e alla terapia del dolore sommini-strate all’adulto: soppesando la valenza epidemiologica della sofferen-za da un punto di vista sociale ed economico ha stimato insieme alle Regioni le dimensioni del rimborso e definito i DRG.

Il prossimo passo da compiere sarà quello di confrontare il peso sociale ed economico delle prestazioni erogate ai minori sofferenti.

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Capitolo 2

i Cambiamenti nella pratiCa CliniCa: i primi risultati

Un sondaggio eseguito da Doloredoc.it, il portale di riferimento per la terapia del dolore che ha al suo attivo 15 mila utenti, ha approfondito la reazione dei medici italiani riguardo ai cambiamenti legislativi introdotti nell’ultimo anno sul trattamento del dolore.

I risultati ottenuti evidenziano una repentina presa di coscienza del mon-do medico. Il 67,4% ritiene infatti che la semplificazione prescrittiva sancita dalla legge 38/10 consentirà di ridurre l’oppiofobia, cioè i timori legati alla somministrazione dei farmaci oppioidi ritenuti ancora spesso dei veri e propri stupefacenti.

Il 65,9% degli intervistati punta inoltre il dito sulla persistenza di nu-merosi ostacoli alla loro prescrizione, riconducibili a una cultura obsoleta ma anche a una scarsa formazione sulle reali possibilità terapeutiche degli anal-gesici oppiacei.

Un forte bisogno di acculturamento sull’utilizzo soprattutto degli oppiacei forti è sentito dalla maggior parte dei medici: il 66,3% reputa di dover aggior-nare le proprie conoscenze in materia, il 18,3% ne ha una forte necessità e solo il 15,5% ritiene di saperne a sufficienza.

2.1 Gli oppiaCei forti e il loro impieGo

Sei mesi dopo l’entrata in vigore della legge, l’opinione pubblica si è interrogata su come le nuove disposizioni siano state recepite. La ri-sposta l’ha data un’indagine che ha sottolineato come la sofferenza dei malati italiani sia più trattata rispetto a prima che la normativa sul-le cure palliative e sulla terapia del dolore fosse promulgata, ma non adeguatamente: soprattutto gli oppiacei forti sono ancora insufficienti e somministrati in formulazioni non idonee. Il dolore è pertanto mag-giormente considerato dai medici, sebbene gli strumenti per control-larlo, vale a dire dosaggio e scelta degli analgesici appropriati, debba-no essere ancora affinati.

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Una recente indagine, promossa dall’Osservatorio Sul Dolore ed ese-guita in collaborazione con Wolters Kluwer su 1.616 soggetti prevalen-temente affetti da cancro, ha messo in evidenza come diversi aspetti del problema “dolore” siano ancora da migliorare.

I risultati ottenuti hanno infatti dimostrato che il 99% dei pazienti ha dolore cronico e che solo il 12,5% assume una terapia in grado di controllarlo: nel rimanente, l’11,5% non assume alcuna terapia antalgi-ca e nel restante 88,5% il trattamento è inadeguato. Segno che ancora troppi malati soffrono inutilmente.

Ciononostante l’uso degli oppioidi forti è aumentato. In confronto a molti altri sondaggi precedenti, che hanno messo in luce il loro man-cato impiego nei soggetti con dolore cronico, questa indagine dimostra che tali farmaci sono utilizzati nel 75% dei casi e di questi l’80,7% è rappresentato da formulazioni orali. Quindi, se negli ultimi tempi si è potuta registrare una maggior aderenza alle Linee Guida internaziona-li, il passo oggi da compiere è quello di un corretto monitoraggio della terapia al fine di garantire quella adeguatezza terapeutica sancita dalla legge 38.

Il controllo del dolore si può migliorare impostando una terapia a un dosaggio adeguato alle esigenze antalgiche del paziente: un ade-guamento terapeutico, che ha previsto una modificazione della via di somministrazione da transdermica a orale per 90 pazienti e un incre-mento del 5,6% in equivalenti di morfina, ha permesso di ridurre l’in-tensità del dolore, misurata con la scala NRS, del 48,6% in una sola settimana.

I clinici hanno tuttavia ancora una sorta di resistenza nei confronti degli oppiacei e tendono a non andare oltre certi dosaggi. In presenza di dolore NRS 4, il 32,2% dei medici non ha infatti ritenuto necessario modificare ulteriormente la posologia. Un atteggiamento, questo, che è stato rilevato, seppure in percentuali inferiori, anche per dolori d’in-tensità severa.

La causa di questo comportamento può essere attribuita al timore di effetti collaterali, che tuttavia sono stati riscontrati in basse percentuali.

2.2 Gli oppiaCei deboli: il loro uso è in aumento per il dolore CroniCo

L’evoluzione culturale in materia di dolore continua il suo percorso e a un anno dall’approvazione della legge 38/10 fa guadagnare ulteriori traguardi. La cura del dolore cronico dovuto alle malattie reumatiche lo dimostra: a tutt’oggi essa passa soprattutto attraverso gli oppiacei deboli, quali per esempio il tramadolo associato a paracetamolo, e

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I cambIamentI nella pratIca clInIca: I prImI rIsultatI 129

ancora poco attraverso gli oppiacei forti. Questa priorità terapeutica sottolinea un differente atteggiamento prescrittivo nei confronti della sofferenza, senz’altro più appropriato rispetto a prima dell’entrata in vigore della legge 38/10 quando i farmaci antinfiammatori non ste-roidei (FANS) venivano somministrati al posto degli oppiacei deboli. La semplificazione della ricetta sta dunque cominciando a dare i suoi frutti. Un sondaggio e un’intervista eseguita al professor Giovanni Minisola, pubblicati su Mundipharma NEWS del primo trimestre di quest’anno, mettono in evidenza come sia cambiato l’approccio dei reumatologi al dolore cronico: esso è diventato più tempestivo e decli-nato sulle cause che lo determinano.

Nei pazienti affetti da malattie reumatiche, il dolore è considerato an-cora un sintomo o viene trattato e curato come una malattia a sé stante? È questa una delle domande poste a un campione di oltre 500 reumato-logi, che hanno partecipato a un sondaggio sul tema “Dolore in reuma-tologia”, promosso da Wolters Kluwer.

I dati emersi sottolineano che nel 65,2% dei pazienti il trattamento per il dolore inizia dalla presa in carico, nel 26% dei casi il clinico de-cide di trattare il dolore solo nel momento in cui la causa è stata chia-ramente individuata e nel restante 6,7% la scelta è correlata al pazien-te. Eppure, secondo quanto indicato dal 68% dei medici intervistati, il dolore si manifesta nei pazienti con patologie reumatiche nel 50% dei casi.

Questo dato trova la sua conferma in un recente studio, dove pato-logie degenerative della colonna o forme di osteoartrosi e osteoartrite interessavano rispettivamente il 64,7% e il 34,2% dei malati.

La cura del dolore viene intrapresa nel 25% dei casi ricorrendo ai FANS e nel 59,7% agli oppioidi deboli, in particolare al tramadolo as-sociato al paracetamolo, considerati i farmaci d’elezione dai clinici che limitano l’uso degli oppioidi forti solo al 15% delle loro scelte terapeu-tiche. Tra questi ultimi, la molecola più utilizzata è l’ossicodone, con il 63,3% delle preferenze, scelta dettata dalla maggiore tollerabilità ed efficacia del farmaco, unitamente a una maggiore conoscenza da parte dei clinici.

Ma questi dati rispecchiamo il reale approccio dei reumatologi al dolore? Lo si è chiesto a Giovanni Minisola, presidente della Società Italiana di Reumatologia e Direttore della Divisione di Reumatologia dell’Ospedale San Camillo di Roma, che sostiene che negli ultimi anni si sta assistendo a un radicale cambiamento dell’atteggiamento dei reumatologi verso il paziente con dolore cronico, cioè un dolore che dura da oltre tre mesi.

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130 Dopo la legge

In passato la sintomatologia dolorosa cronica veniva infatti tratta-ta essenzialmente con i FANS, il cui impiego è particolarmente indi-cato quando è presente una componente infiammatoria. Attualmen-te c’è invece un forte orientamento a favore degli oppioidi deboli per le condizioni dolorose croniche comprese quelle reumatiche. Il passo successivo deve prevedere una maggiore familiarità con gli oppioidi forti, considerati farmaci di riferimento per il trattamento del dolore moderato-severo non responsivo ad altri interventi farmacologici. I dati ottenuti riflettono tuttavia i comportamenti terapeutici dei centri reumatologici italiani più avanzati, dove le problematiche relative al dolore cronico sono oggetto di un’attenzione sempre maggiore.

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Capitolo 3

il merCato degli analgesiCi oppioidi nel post-legge

Un primo bilancio sulle vendite dei farmaci oppioidi dimostra che qualcosa è già cambiato. Secondo i dati dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), le uni-tà dispensate in regime di Servizio Sanitario Nazionale nel periodo gennaio-agosto 2010 registrano un aumento del 13,8% rispetto allo stesso periodo del 2009, passando da 6.700.000 a poco meno di 7.720.000. Da un consumo pro-capite di analgesici oppioidi pari a 0,67 euro registrato nel 2007, si è arrivati a 1,18 euro nel 2010.

3.1 la fotografia dei Consumi degli oppiaCei forti in italia

e in europa: il dato a sei mesi dalla legge

A sei mesi dall’approvazione della normativa sulle cure palliative e la terapia del dolore, gli oppiacei forti hanno fatto registrare un au-mento pro-capite nel nostro Paese che ci fa lentamente avvicinare alla media europea. Il primo bilancio del dopo-legge è dunque positivo e sottolinea una maggiore presa di coscienza dei clinici sul problema dolore. L’impressione è pertanto quella che le attività formative, messe in campo dalla Commissione sul dolore per preparare adeguatamente i medici, stiano iniziando a dare i suoi primi risultati.

Il Centro Studi Mundipharma ha confrontato l’andamento del mercato degli oppiacei forti nel nostro Paese con quello dei 5 stati europei più importanti nel trimestre precedente e in quello successivo alla promul-gazione della legge. I dati elaborati hanno messo in evidenza come il consumo pro-capite di questa classe di farmaci abbia avuto l’aumento più significativo in Italia, pari al 5,6%, contro il 3% osservato in Inghil-terra, l’1,1% in Francia, l’1% in Germania e solo lo 0,2% in Spagna.

Per quanto riguarda la spesa pro-capite, essa è risultata di 0,95 euro per l’Italia, di 9,05 euro per la Germania, di 4,23 euro per l’Inghilterra, di 2,89 euro per la Francia e di 2,95 euro per la Spagna (fonte: Centro Studi Mundipharma, su rielaborazione dati IMS MIDAS 2009-2010 e dati ISTAT).

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132 Dopo la legge

La legge ha suggellato l’approccio alla malattia dolore in corso già da diversi mesi in termini di prescrizioni più appropriate di farmaci, con la semplificazione del ricettario per alcuni prodotti a base di ossi-codone. Questo trend positivo è pertanto ancora più significativo se si confrontano i tre mesi di aprile, maggio, giugno 2010 con lo stesso periodo dell’anno precedente: la crescita registrata in Italia per il mer-cato degli oppiacei forti è stata pari al 19%, superando la Germania (+10,3%), l’Inghilterra (+7,9%) e la Francia (+4,7%). In controtendenza la Spagna che fa registrare un –4,5%.

Analizzando i dati relativi al nostro Paese sui farmaci oppiacei a ri-lascio controllato impiegati per il dolore cronico, si riscontra che men-tre il I trimestre del 2010 è cresciuto di un +18% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, il II trimestre è cresciuto di un +21%.

Confrontando, infine, i tre mesi prima della legge con i tre mesi se-guenti, si riscontra una crescita di +10% contro un +7% dello stesso periodo dell’anno precedente. Un aumento più consistente è stato tut-tavia registrato nel mese di luglio 2010, che segna un +24% di aumento del mercato rispetto a gennaio 2010.

3.2 l’impatto della legge sulle presCrizioni e sulle vendite

degli antidolorifiCi

L’entrata in vigore della legge 38/10 ha comportato un duplice feno-meno. Se da un lato ha assecondato la tendenza espansiva delle pre-scrizioni di antidolorifici da parte dei medici, dall’altro ha consentito alla domanda nazionale di analgesici oppiacei di iniziare il recupero rispetto ai livelli molto più elevati degli altri Paesi europei. In ogni modo, ha innescato una risposta immediata del mercato che a dieci mesi di distanza dalla sua approvazione ha fatto raddoppiare le vendi-te di questa classe di farmaci.

Le prescrizioni di analgesici narcotici e non narcotici hanno continuato a crescere di circa l’8%. Lo sostiene l’analisi delle prescrizioni di farmaci per il trattamento del dolore rilasciate dai medici italiani, eseguita da IMS Health Italia, che ha confrontato nel tempo le quantità di pezzi appar-tenenti alle classi terapeutiche M1A1 (FANS), M1A3 (COX2) e N2A/B (selezione di prodotti analgesici), prescritte tra un periodo precedente e successivo all’entrata in vigore della legge 38/10 e precisamente dal III trimestre 2009 al I trimestre 2010 e dal II al IV trimestre 2010.

Dopo la legge le vendite degli analgesici oppiacei sono cresciute più velocemente, con la sola eccezione del segmento “a lento rilascio” che

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Il mercato DeglI analgesIcI oppIoIDI nel post-legge 133

pur aumentando i volumi di vendita ben oltre la doppia cifra sembra aver rallentato rispetto al passato.

Lo dimostra l’analisi svolta da IMS Health Italia, che ha confrontato nel tempo i diversi tipi di oppioidi in termini di giorni di trattamen-to. Essa ha infatti valutato gli oppiacei a lento rilascio (Jurnista, MS Contin, Oxycontin), a lento rilascio transdermici (Durogesic, Matrifen, Quatrofen, Transtec), a rilascio immediato [Abstral, Actiq, Effentora, Oramorph, Tramadolo (os)] e le associazioni (Coefferalgan, Depalgos, Kolibri, Patrol, Tachidol, Codamol), in un periodo precedente e succes-sivo alla legge 38/10, e precisamente da maggio 2009 a febbraio 2010 e da marzo a dicembre 2010.

I risultati ottenuti hanno sottolineato come i giorni di trattamento con gli oppiacei siano passati da 64.220.447 a 71.738.984 dai tre trime-stri prima dell’entrata in vigore della legge ai tre trimestri dopo, con un incremento dell’11,7%.

L’approvazione della nuova normativa su cure palliative e terapia del dolore ha indubbiamente causato un movimento culturale che ha avuto ripercussioni anche sulla scelta dei farmaci. Grandi spostamenti di prescrizioni di oppiacei si sono per esempio osservati in brevissimo tempo per la cura del dolore oncologico. Una maggiore appropriatez-za prescrittiva relativa agli oppiacei si è inoltre notata tra i medici di Medicina Generale (MMG), segno che l’informazione sull’efficacia e sulla sicurezza di questi farmaci ha raggiunto anche loro. L’analisi del-la ripartizione delle prescrizioni per origine, effettuata in un gruppo di farmacie nel mese di dicembre 2010, ha infatti messo in evidenza come le prescrizioni di oppiacei per mano dei MMG siano aumentate del 55%, quelle eseguite da MMG e specialisti del 27% e quelle effettuate direttamente dagli specialisti del 15%.

L’impatto della legge su prescrizioni e vendite è stato pertanto im-mediato. Sebbene sia restato invariato il forte interesse dei medici per gli antidolorifici in generale, la domanda di oppiacei ha subito un’evi-dente accelerazione che ha portato le vendite a essi riferite a raddop-piare nell’arco di dieci mesi. Il consumo di FANS resta ancora deci-samente superiore rispetto agli altri Paesi europei: solo la Germania fa registrare un elevato ricorso ai FANS simile a quello osservato in Italia, che viene tuttavia implementato anche da un discreto impiego di oppiacei. Già il Mat 09/09, valutando il peso delle varie classi te-rapeutiche sul totale del mercato, aveva sottolineato come nel nostro Paese l’80% dei giorni di terapia fosse appannaggio dei FANS e il 7% dei Cox-2 inibitori a fronte di una penalizzazione dei farmaci oppiacei. Questa fotografia è valida tutt’oggi. Ciononostante si può sostenere che con l’avvento della legge sia iniziato quel recupero del nostro Pae-

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134 Dopo la legge

se, nei confronti degli oppiacei per la cura del dolore, che in un futuro non troppo lontano si spera possa fargli perdere finalmente la posi-zione di fanalino di coda per allinearlo ai comportamenti delle altre nazioni europee.

3.3 gli oppioidi in italia: la loro diffusione è a maCChia di leopardo

A tutt’oggi si può affermare che la promulgazione della legge 38/10 ha cambiato radicalmente l’approccio del clinico alla terapia del dolore. Se, da un lato, i medici che operano all’interno di strutture ospedaliere hanno delle regole ben precise da rispettare, quali per esempio la regi-strazione della misura del dolore nella cartella clinica e la valutazione della coerenza terapeutica in atto, dall’altro i clinici che operano sul territorio sono soggetti a controlli meno rigidi e, forse per questo mo-tivo, sono meno ligi nell’applicare quanto la legge raccomanda. Cio-nonostante, la valutazione del ricorso ai farmaci oppiacei consente di risalire al loro operato che porta con sé buone notizie. Un maggiore adeguamento alle Linee Guida internazionali, che sta facendo pren-dere le distanze dalle somministrazioni per via transdermica a favore delle formulazioni orali, e l’incremento degli oppiacei a rilascio con-trollato sono il segno inconfutabile di un cambiamento in atto.

Analizzando il consumo di farmaci oppiacei prescritti per il dolore cro-nico, si può notare come la percentuale di crescita, sia in valori sia in unità, faccia registrare un continuo, seppur contenuto incremento ri-spetto allo stesso periodo dell’anno precedente: il confronto tra i quat-tro trimestri, lo sottolinea.

Una nota positiva emerge tuttavia dall’analisi dei dati suddivisi per formulazioni orali e transdermiche, che hanno registrato un incremen-to in valori e in unità. Ciò conferma una maggiore attenzione dei nostri clinici alle indicazioni internazionali in tema di trattamento del dolore, che raccomandano le formulazioni orali come via di somministrazione di prima scelta.

Un altro risultato raggiunto riguarda l’aumento dei consumi pro-capite di oppiacei a rilascio controllato: si è passati dallo 0,50 euro del 2009 allo 0,59 euro del 2010, equivalente a un incremento del 18,1%. Un aumento che non ha tuttavia interessato in maniera omogenea tutte le Regioni: accanto a Piemonte e Lombardia, che continuano a crescere come e più del resto d’Italia benché il loro consumo pro-capite sia già superiore alla media nazionale e rispettivamente di 0,79 euro e di 0,66 euro, si trovano Liguria, Emilia-Romagna, Toscana e Umbria con un

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Il mercato DeglI analgesIcI oppIoIDI nel post-legge 135

avanzamento meno marcato. Una riflessione va fatta poi sul Triveneto che vive una condizione di stabilità da circa due anni e su regioni quali il Lazio e la Sicilia (entrambe con 0,44 euro), Campania e Basilicata (entrambe con 0,36 euro) e Calabria (0,35 euro), che sono ancora oggi molto al di sotto della media italiana (0,59 euro).

Questi dati riflettono l’approccio che i clinici hanno verso i pazienti affetti da dolore cronico e l’impiego sempre più corretto delle giuste terapie per curarlo. La consapevolezza che un migliore controllo della sofferenza è alla base di una qualità di vita più decorosa per i malati si sta finalmente facendo largo tra gli operatori sanitari.

3.3.1 Il consumo dI oppIoIdI In ItalIa a un anno dall’approvazIone

della legge 38

Le Linee Guida internazionali indicano gli oppioidi come i farmaci di riferimento per il trattamento del dolore cronico d’intensità modera-ta-severa, ma in Italia l’impiego di queste terapie è stato da sempre relegato principalmente a pazienti con dolore oncologico o in stadio terminale di malattia.

La legge 38 del 15 marzo 2010, mediante l’articolo 10, ha cercato di rimuovere le barriere burocratiche che rappresentavano un ulteriore ostacolo al corretto impiego di queste sostanze, uniformando così la prescrizione di terapie orali o transdermiche a base di oppioidi a quella di altri preparati farmacologici.

Ma cosa è realmente cambiato dall’entrata in vigore della legge ad oggi? Le terapie a base di oppioidi hanno concretamente avuto un maggior impiego per il trattamento del dolore cronico?

È possibile trovare alcune risposte a queste domande nell’analisi dei dati sul consumo di questi farmaci.

Il 2010 si era chiuso con una spesa media pro-capite di oppioidi forti − sia a rilascio immediato (IR) che controllato (CR) − pari a 1,03 euro, mentre la spesa relativa ai soli farmaci oppioidi CR (quelli, cioè, impiegati per il trattamento del dolore cronico di base) risultava pari a 0,59 euro pro-capite.

Al 30 marzo 2011, a un anno dall’attuazione della legge, questo va-lore di spesa si è assestato a 1,11 euro, con un incremento di +24,28% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Analizzando questo dato, suddiviso per consumo medio pro-capite per oppioidi forti CR rispetto agli oppioidi forti IR, si nota come le formulazioni CR siano cresciute di +14% toccando gli 0,74 euro pro-capite, mentre quelle IR abbiano fatto registrare un +71,1% raggiungendo un valore pari a 0,19 euro pro-capite (tabella 1).

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136 Dopo la legge

Tra le formulazioni a rilascio controllato, sono quelle transdermiche che fanno riscontrare i picchi più significativi (+97,65% a valori e +86,11% a unità per il nuovo cerotto a matrice a base di fentanil), nono-stante le indicazioni delle principali Linee Guida, oltre che della legge stessa, indichino le formulazioni orali come le terapie di prima scelta e consiglino i preparati transdermici solo in pazienti con dolore stabiliz-zato. Per quanto riguarda le formulazioni orali, i dati fanno registrare il massimo incremento, pari a +14,57% a valori e +15,89% a unità, per ossicodone CR, che rappresenta il farmaco orale più utilizzato per il trattamento del dolore cronico.

Un altro dato di particolare interesse riguarda l’incremento dell’im-piego delle formulazioni a rilascio immediato per il trattamento del dolore episodico intenso (DEI): in questo caso si registra un importante aumento a valori (+71,1%), mentre a unità la crescita rimane contenuta a un +6,9%.

Una riflessione a parte deve essere fatta sulla formulazione di ossi-codone IR che, per via della sua farmacocinetica, ha il suo principale impiego non nel trattamento del DEI quanto nel dolore cronico, prin-cipalmente in fase di titolazione. Per questa tipologia di farmaco, i dati di consumo fanno registrare a marzo del 2011, rispetto allo stesso pe-riodo del 2010, un incremento del 32,4% sia a valori sia a unità.

Un aspetto che risulta interessante analizzare riguarda come si è arrivati a ottenere questi valori.

Vale la pena sottolineare, infatti, che il trimestre immediatamente successivo alla promulgazione della legge 38 rappresenta il periodo con la maggior crescita percentuale di consumo di oppioidi forti sia a valori (+12,8%) che a unità (+8,2%); nei trimestri successivi, invece, la crescita (calcolata trimestre su trimestre) è stata contenuta e guidata soprattutto dalle formulazioni a rilascio immediato.

Il primo trimestre del 2011, infine, ha fatto registrare una situazione di stallo per quello che riguarda la crescita a valori (+0,7%) e addirittu-

Tabella 1

% incrementomarzo 2011 vs marzo 2010

% incrementomarzo 2011 vs marzo 2010

unità valori

TOTALE MERCATO 12,01 24,28

Oppioidi a rilascio controllato 15,4 14

Oppioidi a rilascio immediato 6,9 71,1

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Il mercato DeglI analgesIcI oppIoIDI nel post-legge 137

Tabella 2

II trim 2010 vsI trim 2010

III trim 2010 vs II trim 2010

IV trim 2010 vs

III trim 2010

I trim 2011 vs IV trim 2010

unità valori unità valori unità valori unità valori

TOTALEMERCATO

8,2 12,8 0,3 3,2 4,3 6 -1,1 0,7

Oppioidi a rilascio controllato

10,1 9,5 1,7 2 3 1,6 0 0,4

Oppioidi a rilascio immediato

0 27,2 -1,6 8,5 9,6 19,5 -0,9 3,8

Ossicodone IR 20 19,7 2,3 2,5 8,4 8,5 -0,5 -0,6

ra una perdita (-1,1%) se si considerano i dati a unità (tabella 2), rispet-to al trimestre precedente.

In relazione all’andamento dei consumi a valori dei farmaci oppioidi a rilascio controllato è interessante analizzare anche il comportamento delle diverse Regioni italiane. I primi tre mesi del 2011 vedono, rispet-to all’ultimo trimestre del 2010, un rallentamento della crescita media che riguarda, in particolare, alcune tra le Regioni più significative della nostra penisola: Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto fanno registra-re percentuali d’incremento non solo inferiori alla media italiana, ma addirittura una sorta di “involuzione” rispetto al trimestre precedente (tabella 3).

Analizzando i dati relativi all’incremento, sempre a valori, del I trime-stre 2011 rispetto al I trimestre 2010, prima quindi dell’attuazione della legge 38, si nota come 11 su 20 Regioni abbiano avuto una crescita supe-riore alla media Italia (tabella 4) e come, anche in questo caso, le aree che hanno fatto registrare gli incrementi maggiori siano principalmente rap-presentate dalle Regioni che partivano da dati di consumo molto bassi.

Fanno eccezione Regioni come Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Liguria e Sardegna che da sempre hanno dimostrato una particolare attenzione alla cura e al trattamento del dolore e che riescono anche a mettere in pratica le indicazioni di legge.

In conclusione, è possibile affermare che la crescita complessiva del consumo di oppioidi forti per il trattamento del dolore sembra essere maggiormente legata non tanto a un incremento delle formulazioni a rilascio controllato quanto a un aumento del consumo dei farmaci a rilascio immediato, che dovrebbero essere utilizzati per la sola titola-zione (ossicodone IR) o per la gestione del DEI.

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138 Dopo la legge

Tabella 3

  I trim 2011 vs IV trim 2010

Valle d’Aosta 8,53

Basilicata 6,66

Friuli Venezia Giulia 4,15

Umbria 3,38

Marche 2,88

Calabria 2,49

Sardegna 1,79

Liguria 1,52

Sicilia 1,37

Campania 1,26

Trentino Alto Adige 1,13

Toscana 0,98

Piemonte 0,87

Lazio 0,46

Media Italia 0,40

Lombardia 0,07

Puglia -0,06

Emilia-Romagna -0,94

Veneto -1,32

Abruzzo -6,66

Molise -7,75

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Il mercato DeglI analgesIcI oppIoIDI nel post-legge 139

Tabella 4

Basilicata 33,16

Umbria 26,05

Piemonte 18,13

Calabria 17,76

Liguria 16,77

Valle D’Aosta 16,10

Veneto 15,89

Friuli V. G. 15,72

Lombardia 15,46

Sardegna 15,11

Lazio 14,83

Totale 14,58

Emilia-Romagna 14,24

Molise 13,36

Trentino A. A. 12,87

Sicilia 12,82

Puglia 11,92

Campania 11,45

Toscana 10,85

Marche 7,97

Abruzzo 7,91

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Capitolo 4

le nuove esigenze dei farmaCisti

Le semplificazioni nella prescrizione e nella dispensazione dei medi-cinali impiegati nella terapia del dolore, apportate dalla legge 38/10, hanno promosso un nuovo approccio culturale nei confronti della sofferenza e generato nuove richieste di informazione da parte dei farmacisti. Alla loro domanda di conoscenza, la Federazione Ordini Farmacisti Italiani (FOFI) ha risposto con corsi ECM volti a dare un aggiornamento sulla normativa dei farmaci stupefacenti, con ulteriori corsi professionali residenziali presso gli Ordini Provinciali, con la re-visione dei quiz previsti nella prova per i concorsi a sedi farmaceutiche e con “La guida pratica per il farmacista”, un manuale che affronta la re-golamentazione di tutti gli aspetti della pratica professionale compresa quella sugli oppiacei. La conoscenza è infatti uno degli anelli fonda-mentali per garantire qualità e sicurezza nell’assistenza farmaceutica.

I nuovi adempimenti amministrativi relativi agli oppiacei non iniet-tabili, le semplificazioni nella loro gestione e nella loro dispensazione (per esempio non più ricetta a ricalco in triplice copia, né bollettario buoni-acquisto e nemmeno obbligo di tenere un registro d’entrata e di uscita degli stupefacenti contenuti nella Tabella II sezione D ed E) e la possibilità del farmacista di adeguare la prescrizione nell’atto della dispensazione (il farmacista può consegnare una quantità inferiore di confezioni di oppiacei non iniettabili o consegnarle in modo frazionato rispetto alla quantità prescritta) hanno generato un nuovo complesso di norme di cui il farmacista deve tenere conto. Come sostiene Andrea Mandelli, presidente della FOFI, “Sarebbe però sbagliato considerare que-ste norme come un carico burocratico; mai come nel caso della legislazione sul farmaco la forma discende dalla sostanza, la norma, cioè, è espressione del progresso delle conoscenze scientifiche e del mutare della società stessa”.

I farmacisti hanno pertanto necessità di acquisire queste novità legisla-tive per rendere concrete le agevolazioni nell’accesso ai farmaci con-tro il dolore che la legge sancisce e per garantire qualità e sicurezza

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142 Dopo la legge

nell’assistenza farmaceutica anche su questo versante. Per aggiornarli in modo capillare sulle modifiche apportate dalla legge 38/10, la FOFI ha realizzato un corso nell’ambito del Programma ECM PharmaFad organizzato dalla Fondazione Cannavò, seguibile anche on line, sul-la normativa riguardante la prescrizione degli stupefacenti e il tratta-mento del dolore: nell’edizione 2010-2011 ben 3.724 farmacisti si sono iscritti in soli 27 giorni al modulo “Stupefacenti: aspetti legislativi” e 3.424 al modulo dedicato alla gestione del paziente con dolore osteoar-ticolare o da trauma. Nell’edizione precedente del 2009-2010, il corso tenuto su questa tematica era stato seguito e completato da tutti i 20 mila iscritti al programma.

Nel 2011 sono previsti ulteriori corsi di aggiornamento professiona-le residenziali presso i diversi Ordini provinciali.

La FOFI si è tra l’altro impegnata nella revisione dei quiz della pro-va per i concorsi a sedi farmaceutiche, tra i quali saranno inserite anche alcune domande sulla nuova legge al fine di promuoverne la cono-scenza.

È inoltre in corso di pubblicazione la “Guida pratica per il farmacista”, voluta dalla FOFI e curata dagli uffici federali, dedicata alla normativa sul farmaco, nella quale le innovazioni in materia di stupefacenti sono state trattate diffusamente e riassunte in forma di schemi e tabelle per una facile consultazione. Si tratta di un manuale che illustra le leg-gi tenendo conto dell’attività quotidiana del farmacista: il testo cerca infatti di rispondere ai quesiti maggiormente rivolti alla Federazione. Pubblicato anche sul sito www.fofi.it, può essere aggiornato in tempo reale quando se ne presenti la necessità e stampato nelle parti che in-teressano. Diviso per capitoli, si propone come uno strumento di facile consultazione, utile da tenere sotto mano.

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Capitolo 5

le risposte dell’industria

5.1 l’inCongruità tra l’obbligo di Cura del dolore e la pesante buroCrazia

del merCato italiano

La nuova normativa sul dolore non ha innescato un boom di nuovi farmaci; anche dal punto di vista delle forze messe in campo dalle aziende farmaceutiche, non ha favorito un incremento del numero di informatori e quindi di investimenti in termini di risorse umane. Ciò è avvenuto sostanzialmente per due motivi. Il primo è da attribuire al fatto che la legge 38/10 è una realtà esclusivamente italiana, mentre le multinazionali che a tutt’oggi finanziano la ricerca di nuovi farmaci hanno una visione globale: i loro interessi esulano pertanto dallo stret-to ambito di una nazione. Il secondo è da riferire alla complicata buro-crazia che grava sull’immissione di nuovi prodotti sul mercato italia-no: i lunghi tempi di approvazione richiesti dall’AIFA disincentivano la commercializzazione anche di composti già ampiamente diffusi in altri Paesi europei.

5.2 le moleCole antidolore

Il dolore è una malattia e, di conseguenza, anch’esso deve avere i suoi farmaci. È questo un concetto che si sta facendo sempre più spazio e che ha prodotto per il momento ancora poche, ma nuove, opzioni terapeutiche. Tra queste ultime vale la pena ricordare, per esempio, il primo spray nasale a base di fentanil per controllare il breakthrough cancer pain (BTcP), vale a dire il picco di dolore avvertito dai malati con dolore cronico oncologico, e l’associazione di ossicodone e naloxone per limitare la costipazione dovuta all’assunzione di oppiacei.

5.2.1 Una nUova formUlazione contro il breakthroUgh cancer pain

Le persone affette da cancro vanno spesso incontro nell’arco della loro malattia a un’esacerbazione del dolore cronico oncologico, nonostante

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144 Dopo la legge

esso sia ben controllato con l’assunzione di farmaci somministrati a orari fissi. Questo picco di dolore, che insorge rapidamente ed è carat-terizzato da intensità severa di breve durata e si ripresenta in media da 1 a 4 volte al giorno, viene chiamato breakthrough cancer pain (BTcP), o in italiano Dolore Episodico Intenso (DEI). Un’indagine eseguita da Doloredoc.it su 779 clinici, suddivisi tra 184 medici di Medicina Gene-rale e 523 specialisti del dolore, fornisce un quadro particolareggiato della presa di coscienza di questo particolare tipo di sofferenza. Oltre il 70% dei medici partecipanti all’iniziativa sostiene che l’attenzione al suo trattamento sia aumentata negli ultimi due anni e il motivo è che il BTcP è avvertito dal 50-70% dei malati oncologici.

Proprio per contrastare questo dolore che ha un importante impatto fisico e psicologico sul paziente e determina un significativo innalza-mento dei costi socio-sanitari, è stato messo a punto un farmaco con caratteristiche temporali simili a un episodio di BTcP e che ha, per-tanto, un’azione immediata e di breve durata, non superiore alle rea-li necessità. Si tratta del fentanil spray, il primo farmaco analgesico a somministrazione intranasale, indicato per gli adulti con BTcP che già assumono una terapia di mantenimento a base di oppioidi per il dolore cronico oncologico. La sua rapida efficacia antalgica, unita a una buona tollerabilità e a una semplice modalità di somministrazione, lo rendo-no un rimedio innovativo.

Questo nuovo prodotto va di fatto a colmare un vuoto, determinato dalla mancanza di protocolli riconosciuti e di farmaci ad hoc per il trat-tamento di questo tipo di dolore. Le strategie di gestione finora messe in atto prevedevano infatti l’uso di “farmaci di salvataggio” che nel-la pratica clinica sono di solito rappresentati da una dose addizionale dello stesso oppioide usato per gestire il dolore cronico di base.

5.2.2 Un’innovativa associazione per controllare congiUntamente

il dolore e la costipazione da oppiacei

Anche la prospettiva con cui mettere a punto i farmaci è cambiata negli ultimi anni. Se prima venivano realizzati solo con l’obiettivo di risol-vere il problema più manifesto, ora si cerca di formularli in modo che possano evitare, ridurre o risolvere anche tutte quelle complicanze cor-relate alle terapie. In altre parole, oggi si punta sempre di più a miglio-rare la qualità di vita di un ammalato: un farmaco deve pertanto non solo curare, ma anche garantire un mutamento positivo dell’esistenza del paziente e della sua famiglia. I nuovi analgesici non sfuggono a questa nascente filosofia. È stato infatti da poco messo in commercio un farmaco a base di ossicodone e naloxone, entrambi a rilascio pro-

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le risposte Dell’inDustria 145

lungato, che oltre ad alleviare il dolore cronico severo previene la co-stipazione che è l’effetto collaterale più frequente causato dall’assun-zione di oppiacei. La sua disponibilità sul mercato italiano rappresenta pertanto un fondamentale passo avanti per una più ampia accettazio-ne dei farmaci oppiacei per la cura del dolore.

Poter beneficiare dell’effetto antalgico degli oppiacei riducendo il più possibile gli effetti collaterali non è più un’impresa impossibile. Coloro che sono affetti da dolore cronico possono oggi contare su una nuova combinazione orale, a rilascio prolungato, che unisce i vantaggi tera-peutici di due noti principi attivi, l’ossicodone e il naloxone. Il primo è la molecola più usata nel mondo per controllare il dolore cronico, men-tre il secondo è un antagonista degli oppioidi che, bloccando i recettori degli oppioidi solo a livello intestinale, previene la costipazione.

L’assunzione dell’innovativa associazione consente di avere con-temporaneamente un buon controllo del dolore e contrastare l’insor-genza della stipsi indotta dagli oppioidi. Già in commercio in Germa-nia dove la sua efficacia è stata documentata in oltre 7.800 pazienti, nel Regno Unito, in Francia, Irlanda, Spagna e nei Paesi Scandinavi, l’as-sociazione ossicodone/naloxone PR è disponibile ora anche nel nostro Paese: essa rappresenta quella svolta terapeutica che i malati di dolore cronico severo stavano aspettando da tempo e risponde a un bisogno clinico finora irrisolto.

L’uso dei farmaci oppioidi è infatti associato a disfunzioni intesti-nali che inducono una serie di sintomi, il principale dei quali è la co-stipazione; questa rappresenta l’unico effetto collaterale che tende a perdurare nel tempo ed è individuata come uno dei principali motivi di non aderenza (sospensione o riduzione del numero di assunzioni del farmaco) alla terapia.

Uno studio italiano, eseguito da Rosti, Gatti, Costantini, Sabato e Zucco e pubblicato sulla European Review for Medical and Pharma-cological Sciences nel 2010, ha evidenziato come la prevalenza della costipazione raggiunga il 63,5% dei pazienti trattati con oppioidi e come l’uso dei lassativi sia poco risolutivo del problema: nello studio citato, l’89,5% di coloro che presentavano stipsi era in trattamento con lassativi.

Il mancato o non corretto trattamento della costipazione gene-ra inoltre costi sanitari elevati. Come dimostra una ricerca, svolta da Panchal, Muller-Schwefe e Wurzelmann e pubblicata sull’International Journal of Clinical Practice nel 2007, un paziente affetto da costipazione grava sul Servizio Sanitario Nazionale per ben 500 euro in più al mese tra costi diretti e indiretti, rispetto a un paziente non affetto.

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Che l’attenzione della comunità scientifica italiana sia sempre più rivolta a tutti gli aspetti clinici ed economici che ruotano intorno a un paziente affetto da dolore cronico è dimostrato dalla recente esperienza promossa da Federdolore, in collaborazione con Wolters Kluwer He-alth Italy Ltd – casa editrice internazionale leader nella comunicazio-ne medico-scientifica. Agli inizi del 2011, difatti, Federdolore ha pro-mosso una raccolta dati condotta presso i centri di terapia del dolore italiani, al fine di sondare quanto un approccio terapeutico che valuti il paziente nella sua complessità possa migliorare non solo il control-lo del dolore, ma anche gli effetti collaterali legati alla OBD (Opioid Bowel Dysfunction) e, di conseguenza, la qualità di vita di questi malati.

L’indagine ha portato all’analisi di dati relativi a oltre 2.900 pazien-ti con dolore non controllato, sia di natura oncologica che non onco-logica; i risultati ottenuti sono stati presentati, suddivisi per coorti di pazienti, in occasione dei principali congressi di terapia del dolore del nostro Paese.

I dati più significativi emersi mostrano come ancora oggi, nono-stante ci sia una Legge che tuteli il diritto alla cura del dolore, i pa-zienti soffrano a causa di terapie non sempre adeguate alla intensità algica provata e che la prevenzione e gestione degli effetti collaterali sia poco attuata. Tutto ciò con gravi ripercussioni sulla qualità di vita dei pazienti e, di conseguenza, dei loro familiari. Lo studio ha dimo-strato come l’impiego della nuova associazione ossicodone/naloxone PR abbia portato a un rapido controllo sia del dolore che degli effetti collaterali legati alla terapia con oppioidi e come questo abbia avuto ripercussioni generali positive sul paziente.

Un altro aspetto che la ricerca ha evidenziato è che non tutti i farma-ci si comportano allo stesso modo ed è quindi compito del clinico ef-fettuare quella scelta che possa garantire al paziente il miglior risultato globale possibile, nel rispetto delle linee guida internazionali.

Oggi l’unione d’intenti tra la ricerca clinica e le aziende farmaceu-tiche ha portato alla commercializzazione di farmaci che, tramite mec-canismi di rilascio innovativi e associazioni di diverse molecole, vanno incontro alla necessità di un mondo sempre più senza dolore inutile.

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Capitolo 6

la ComuniCazione della legge

L’articolo 4 della legge stabilisce che il Ministero della Salute, d’intesa con le Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, promuova nel triennio 2010-2012 campagne istituzionali di comunicazione volte a informare i cit-tadini su tutto ciò che concerne la nuova normativa sulle cure palliative e la terapia del dolore, dalle modalità di accesso alle prestazioni ai programmi di assistenza, dall’utilizzo dei farmaci per il controllo del dolore al coinvolgimen-to dei medici di Medicina Generale, dei pediatri e delle farmacie pubbliche e private. A tale scopo ha stanziato 50 mila euro per l’anno 2010 e 150 mila euro per ciascuno degli anni 2011 e 2012. La Direzione Generale della Comunica-zione e Relazioni Istituzionali del Ministero della Salute ha già messo in pra-tica il contenuto dell’articolo 4 prevedendo l’utilizzo di questo finanziamento relativo all’anno 2010 per la realizzazione di due eventi regionali di sensibiliz-zazione, informazione e formazione sulle cure palliative e la terapia del dolore rivolte al paziente pediatrico, precisamente nelle regioni Friuli Venezia Giulia e Basilicata. La stessa Direzione Generale ha inoltre previsto di avviare, in col-laborazione con le Organizzazioni non profit che si occupano di cure palliative e di terapia del dolore, una campagna nazionale di informazione sulla legge 38/10 diretta alla popolazione.

Il Ministero della Salute e l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (AgeNaS), con il supporto delle Regioni e delle provincie autonome di Trento e Bolzano, hanno dato avvio a una campagna in-formativa nazionale per sensibilizzare tutti gli Italiani sull’importanza della terapia del dolore al fine di promuovere una nuova cultura che si prefigga la lotta alla sofferenza.

Nell’ambito di questo programma che ha lo scopo di tutelare la qua-lità di vita dei malati adulti e pediatrici e dei loro familiari, AgeNaS ha indetto quattro concorsi d’idee, rispettivamente per la realizzazione di una sceneggiatura finalizzata alla messa a punto di un video/spot che veicoli un messaggio educativo veloce e diretto, di un logo, di uno slo-gan e di un poster, tutti relativi alla diffusione della terapia del dolore. Essi sono stati resi noti per mezzo di un bando pubblicato per estratto

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sulla Gazzetta Ufficiale e sul sito web di AgeNaS (www.agenas.it) e su due dei principali quotidiani a diffusione nazionale.

Il Concorso d’idee è stato riservato ai giovani che non hanno su-perato i 30 anni: i loro lavori sono stati giudicati da una Commissione nominata dal Direttore AgeNaS in base all’originalità dell’idea, all’im-patto visivo e all’immediatezza del messaggio.

Al vincitore di ognuno dei quattro concorsi è assegnato un premio di 10 mila euro. Per contro, il vincitore cede a titolo gratuito all’Age-NaS il diritto di utilizzare la propria opera che potrà essere diffusa via web, attraverso mezzi d’informazione audiovisivi o qualunque altro mezzo sia ritenuto opportuno da AgeNaS.

6.1 la giornata nazionale del Sollievo

L’approvazione della legge 38/10 ha stimolato un movimento di inte-resse sul dolore che è partito dal basso, cioè dai destinatari della nor-mativa stessa vale a dire i pazienti, i medici, le associazioni e le fonda-zioni che da tempo lottano contro la sofferenza inutile. Questo positivo rimbalzo ha stimolato un dialogo tra i principali interlocutori della sof-ferenza, istituzioni comprese, nonché una lettura critica dei contenuti della normativa e l’avvio di numerose iniziative. Diverse campagne di sensibilizzazione, nuovi siti internet e preziose alleanze sono stati rea-lizzati da un anno a questa parte. Nel loro insieme hanno rilanciato il problema dolore, filtrato da riflessioni e confronti sul tema che stanno trovando sempre più spazio nell’ambito di convegni, riunioni e incon-tri sia dedicati al mondo medico sia aperti al pubblico.

La Giornata Nazionale del Sollievo, giunta alla sua X edizione, è dedica-ta quest’anno in particolare al dolore cronico lamentato dal mondo fem-minile. Ben 62 ospedali italiani, premiati con un bollino rosa dall’Osser-vatorio Nazionale sulla salute della Donna (O.N.Da) perché ritenuti “a misura di donna”, hanno partecipato all’iniziativa di sensibilizzazione patrocinata dal Senato della Repubblica e dalla Camera dei Deputati.

In risposta a questo riconoscimento, queste strutture hanno aperto le proprie porte alla popolazione, organizzando convegni e incontri, offrendo consulti medici e visite specialistiche gratuite e dando infor-mazioni su possibili terapie, centri e figure di riferimento che si pren-dono cura del dolore a 360 gradi.

Con questa iniziativa si è portata l’attenzione sulla sofferenza cro-nica delle donne, molto diffusa nel nostro Paese. Un’indagine, eseguita da O.N.Da su 1.000 pazienti affette da osteoporosi, ha sottolineato che

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la comunicazione Della legge 149

sette donne su dieci la lamentano: circa la metà di esse, e precisamente il 48,9%, ha riferito una sofferenza di forte intensità e il 90% si è rite-nuta insoddisfatta dell’assistenza e delle terapie ricevute attribuite nel 59% dei casi a una mancata misurazione del dolore.

6.2 una nuova alleanza

La convinzione che il dolore non sia un prezzo da pagare sempre e co-munque alla malattia e che sia possibile curarlo assicurando ai pazienti una dignitosa qualità di vita, ha portato ad allacciare collaborazioni virtuose, come per esempio quella tra Mundipharma, azienda leader nella terapia del dolore, e vivere senza dolore, la prima associazione fon-data dai pazienti per i pazienti per dare voce agli oltre 15 milioni di Italiani che convivono ogni giorno con la sofferenza cronica.

Da questa intesa è nata l’iniziativa di supportare la campagna edu-cativa itinerante CU.P.I.DO., acronimo di “Cura Previeni il Dolore”, patrocinata dal Ministero della Salute, che ha avuto luogo nei mesi di aprile e maggio 2011 e che è partita da Viterbo per arrivare a Messina toccando 13 città italiane. Essa si è proposta come un viaggio tra le diverse Regioni per rispondere alle domande degli italiani sul corretto approccio alla diagnosi e al trattamento del dolore.

La campagna informativa CU.P.I.DO. prende spunto da un’indagi-ne, eseguita su oltre 1.600 pazienti di tutta Italia in collaborazione con la Commissione Ministeriale Cure Palliative e Terapia del Dolore, che ha messo in evidenza il divario esistente tra Nord, Centro, Sud e Isole sulla presenza di centri specialistici e sulla sensibilizzazione di clinici e malati. I risultati ottenuti hanno sottolineato come le persone sofferenti lascino passare molto tempo (il 26% dei pazienti attende circa 3 mesi prima di recarsi dal medico) prima di riferire il proprio dolore a figure competenti e come i pazienti soprattutto residenti al Sud e nelle Isole siano disorientati e non sappiano a quale struttura fare riferimento.

Da questi dati e dall’esigenza di comunicare direttamente agli Ita-liani che il dolore è una vera malattia e come tale si può curare, Mun-dipharma e vivere senza dolore hanno deciso di realizzare una campagna itinerante per informare e sensibilizzare la popolazione sulla sofferen-za inutile. Facendo incontrare i cittadini con i medici operanti sul terri-torio, si è promosso anche un dialogo favorito da momenti d’incontro e di dibattito tra istituzioni, comunità medica, media e associazioni di pazienti, che ha avviato un confronto sul tema della sofferenza cronica e sui punti di forza e di debolezza della sua gestione nelle diverse re-altà regionali.

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In ogni città toccata dal tour informativo è stato allestito un gazebo presidiato da medici specialisti che si sono resi disponibili per chiarire i dubbi esposti dai visitatori in materia di dolore e per indicare le strut-ture locali a cui rivolgersi per una corretta diagnosi e cura. Nell’oc-casione è stato anche distribuito materiale informativo insieme a un regolo per misurare ogni giorno l’intensità del dolore provato e a un diario per annotarne le caratteristiche in modo da ricordarle allo spe-cialista nel momento della visita.

6.3 un nuovo Sito web dediCato al dolore

Un nuovo sito internet www.liberatidaldolore.it è stato realizzato nell’ambito della campagna educazionale, avviata a novembre del 2010 e promossa dall’Associazione Nazionale Malattie Reumatiche (ANMAR) e dall’Associazione Nazionale delle Università della Terza Età (UniTre) con il contributo educazionale non condizionato di MSD, per informare ed educare sulla possibilità di riconoscere precocemente la sofferenza cronica, soprattutto di origine osteoarticolare, e di poterla trattare con farmaci adeguati.

Strutturato con un linguaggio semplice ma rigoroso sotto il profilo medico-scientifico, il sito si propone di far capire agli Italiani l’impor-tanza di un consulto precoce con il medico: non bisogna infatti perdere tempo prezioso se il dolore tende a mantenersi e a peggiorare. L’oste-oartrosi per esempio viene spesso sottovalutata nelle sue fasi iniziali dagli stessi pazienti, che si abituano a convivere per parecchi anni con il dolore fintanto che non diventa insopportabile e refrattario ai comu-ni rimedi.

I suoi contenuti vogliono inoltre portare l’attenzione sulla numero-sità delle malattie reumatiche osteoarticolari: se ne conoscono ben 150 tipi differenti e in termini di morbilità si collocano al secondo posto dopo le malattie cardiorespiratorie. Un medico di Medicina Generale riceve nel proprio ambulatorio almeno un paziente con dolori artico-lari o limitazioni funzionali del movimento. Disturbi che arrivano a colpire il 9-10% degli assistiti, per un totale di 150 individui se si con-sidera un medico massimalista. Le forme più frequenti sono l’artrosi e l’osteoporosi, senza dimenticare le artriti, tra cui l’artrite reumatoide, l’artrite psoriasica, le spondiloartriti e le connettiviti. Nel loro com-plesso colpiscono ben 5 milioni di nostri connazionali e oltre a provo-care danni articolari e a limitare in modo significativo l’autonomia e l’autosufficienza, fanno convivere la persona con il dolore e con le sue conseguenze, vale a dire con alterazioni dei rapporti familiari, spesso

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con la perdita del lavoro e in alcuni casi con l’impossibilità a svolgere determinate professioni, e con limitazioni della propria quotidianità.

Gli articoli che compongono il sito ribadiscono come lo specialista delle malattie reumatiche, il reumatologo, non venga spesso consultato e come ciò sia un vero peccato in quanto, per sua formazione, è meno incline alle risoluzioni di tipo chirurgico e più orientato alla gestione farmacologica del dolore e agli approcci riabilitativi. Purtroppo la scar-sa numerosità di questa figura sul territorio non ha giovato alla promo-zione di una cultura sul corretto approccio alle malattie articolari.

Nel loro insieme gli articoli vogliono stimolare una prescrizione ra-gionata dei farmaci antinfiammatori e l’educazione del paziente al loro corretto utilizzo, a comportamenti e a stili di vita idonei, nonché a una riduzione degli accessi impropri allo specialista, a una migliore conti-nuità nel tempo del rapporto tra medico e paziente e a una maggiore condivisione del percorso diagnostico-terapeutico tra reumatologo e medico di Medicina Generale.

6.4 il progetto Change pain

Un mese dopo l’approvazione della legge 38/10 è stato avviato “Chan-ge Pain”, un progetto informativo, formativo e di ricerca promosso a li-vello internazionale da EFIC, l’associazione scientifica europea contro il dolore, in partnership con la Società Italiana di Medicina Generale (SIMG), FederDolore e l’Associazione Italiana per lo Studio del Dolore (AISD). L’iniziativa si è proposta di modificare l’atteggiamento cultu-rale e assistenziale nelle nazioni, Italia compresa, in cui una nuova cul-tura di cura e prevenzione della sofferenza stenta a decollare: solo au-mentando la sensibilità e l’attenzione sul tema dolore si possono infatti comprendere appieno i bisogni dei cittadini e fornire delle soluzioni che possano supportare gli operatori sanitari impegnati a migliorarne la qualità della vita.

Il progetto Change Pain ha avuto il merito di essersi rivolto per la prima volta a tutti gli interlocutori che in qualche modo hanno a che fare con il problema dolore, facilitando il dialogo tra medici, pazienti e istituzioni sanitarie, la divulgazione di nuove conoscenze nel campo della terapia del dolore e la condivisione degli obiettivi di cura.

Dialogo che è stato favorito anche dalla realizzazione di specifici progetti ECM, dedicati agli specialisti e ai medici di Medicina Gene-rale e volti a rimuovere ostacoli e pregiudizi che possono intralciare l’applicazione della legge, a trasmettere contenuti utili per superare le difficoltà operative e a proporre un contesto formativo per acquisire

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modelli pratici per un adeguato problem solving quotidiano sui temi del dolore.

Un filo diretto tra medici e cittadini è stato mantenuto inoltre grazie al portale www.doloredoc.it, che dal 2003 a oggi ha messo in contatto chi si è impegnato a combattere il dolore con chi lo subisce. In prima posizione su Google per la terapia del dolore, il sito raggiunge oltre 15 mila utenti e si propone come riferimento per tutti i medici che si interessano di algologia e per tutti coloro che vogliono essere maggior-mente eruditi in questa tematica.

Notizie e informazioni, tratte dai più importanti siti specializzati di divulgazione medica e scientifica italiani e stranieri, sono consultabili facilmente e in modo rapido. Nell’area riservata ai medici è possibi-le accedere ad aggiornamenti realizzati ad hoc, a indagini periodiche contestualizzate al mondo del dolore, a report e al calendario dei prin-cipali congressi internazionali del settore, nonché a casi clinici, a per-corsi diagnostici interattivi, a video e altri servizi utili alla professione. Nell’area dedicata ai pazienti si può trovare una finestra di consulen-za con lo specialista, editoriali e commenti di esperti sulla sofferenza, come anche i riferimenti ai Centri specializzati in terapia del dolore.

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de Il Sole 24 ORE Sanità

Marco Filippini - Manuela Maria Campanelli

Cronaca di una leggeche ci difende dal doloreLa Legge 38/10, la più evoluta d’Europa

La data del 15 marzo 2010 rimarrà nella memoria di tutti coloro - politici e clinici - che si sono impegnati affinché il dolore cronico fosse classificato e trattato come una vera malattia, nonché di tutti i pazienti che hanno visto tutelato il loro diritto ad essere curati per una patologia che, oltre al fisico, infierisce sull’anima di chi ne è affetto.La Legge 38 rappresenta un passo fondamentale in ambito sanitario: ri-conosce al dolore cronico la dignità di malattia, separa nettamente le cure palliative dalla terapia del dolore, obbliga i clinici alla cura del dolore ma anche a un suo attento monitoraggio, inserendo il dolore tra i cinque para-metri vitali da valutare quotidianamente. è il raggiungimento di un impor-tante traguardo e, al tempo stesso, il punto di partenza verso un approccio al dolore cronico del tutto differente. Un grande risultato che va ricono-sciuto non solo a chi vi ha lavorato in anni recenti, ma anche a tutti gli ope-ratori che, nell’ultimo decennio, hanno gettato le basi di quel cambiamento culturale senza il quale tutto ciò non si sarebbe potuto ottenere. Questo volume ripercorre le tappe fondamentali di un lungo cammino, approfondendo alcune tematiche, ad esempio il pensiero della Chiesa in materia, affrontando temi delicati come la gestione del dolore in ambito pediatrico e, infine, chiarendo l’importanza di un trattamento terapeutico adeguato, sfatando alcuni luoghi comuni come quelli inerenti l’impiego dei farmaci oppioidi.Un libro dedicato a tutti i malati di dolore cronico, che possono trovare in queste pagine una risposta a molte loro domande, ma anche ai politici, per mettere in luce come il lavorare per un fine comune – il bene del paziente –porti a riconoscere il valore di quanto costruito da altri, anche se apparte-nenti a diverse correnti di pensiero.Un’opera dedicata inoltre a tutti gli operatori del settore, affinché applichi-no quanto la Legge ha stabilito e continuino questo percorso di cambia-mento culturale, e a quanti dedicano la loro vita alla cura degli altri, perché non si lascino scoraggiare dai momenti cupi, ma trovino sempre la forza di andare avanti.

Marco Filippini, Farmacista, Manager in ambito farmaceutico.Manuela Maria Campanelli, Giornalista.

8039/01

n 29,00

ISBN 978-88-324-8039-9

Cronaca di una legge che ci difende dal doloreM. FilippiniM.M. Campanelli

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