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zio 73 Un libro, la Bibbia, è la matrice dell’intero Occidente, è, addirittura, l’Occiden- te stesso. È tale anzitutto nel senso che la mancata conoscenza della Bibbia impe- disce l’accesso al nostro comune patrimonio culturale, lo rende incomprensibile. Non c’è infatti, si può dire, opera letteraria, artistica, musicale, filosofica, giuridica, politica che non sia in rapporto con il Libro per antonomasia. La Bibbia è il serba- toio archetipico dal quale la nostra cultura ha tratto gran parte dei suoi modelli e delle sue immagini, dei suoi miti, delle sue metafore, e dei suoi linguaggi. La Bib- bia è, secondo l’espressione di William Blake, che ha dato poi il titolo alla celebre opera di Northrop Frye, il “Grande Codice”. Ma, soprattutto, è stata la rivelazio- ne biblica – e a dirlo sono molti, Weber, Gogarten, Löwith, Puech, Scholem, Neher… – a capovolgere quello che era lo statico, eterno mondo cosmico delle an- tiche religioni nel dinamico mondo storico, il mondo degli eventi che accadono nel tempo: dalla creazione alla rivelazione, alla redenzione. La vera cesura fra antico e moderno si colloca qui, in questo libro unico e sacro, e finché apparterremo alla cultura dell’Occidente moderno (né c’è dato di vedere oltre!) il nostro mondo sto- rico sarà ancora, nel suo carattere essenziale, riconducibile a quello della Bibbia. Altri libri hanno esercitato potenti influssi su altre culture, ma l’ambito bimille- nario dell’Occidente rappresenta un’esperienza ampia quanto basta per offrircisi come orizzonte di comprensione del libro e della sua storia generale. Forse non si dovrebbe dire che la Bibbia è un libro: è piuttosto un insieme di libri, come ap- punto indica il plurale greco del titolo: “ta biblia”, “i libri”. Forse si dovrebbe di- re che è piuttosto una biblioteca, per raccogliere la quale sono occorsi all’incirca mille anni. Ma nella sua formulazione più radicale, quella dell’ortodossia prote- stante, la Bibbia è un unico libro in quanto è opera di un unico e immutabile au- tore, Dio stesso: “Scriptura sacra est verbum Dei”. Gli uomini che l’hanno mate- rialmente scritta con le loro mani avrebbero scritto sotto una dettatura che comprendeva persino i minimi segni grafici. La polemica teologica sulla questione dei limiti dell’ispirazione divina è stata aspra per secoli, ma tutti hanno inteso sal- vaguardare la fondamentale unità della Sacra Scrittura. Può essere curioso considerare che già all’interno stesso del grande Libro sono con- tenuti altri libri, come il libro in cui sono segnati i destinati alla vita eterna (Daniele, 12,2), o il piccolo libro profetico inghiottito, che è dolce nella bocca ma amaro nel ventre, di cui ci parlano sia il profeta Ezechiele (3, 3) che l’Apocalisse (10, 10-11). All’origine il libro è sacro, è il libro scritto da Dio, nell’ebraico che è considera- to dagli ebrei la lingua sacra, secondo alcuni addirittura intraducibile. Tutti gli al- tri libri discendono da quello e conservano un po’ di quella lontana sacralità. Da questo deriva il rispetto con il quale l’oggetto-libro è circondato, che si esprime nell’eleganza dei caratteri, nel materiale spesso lussuoso della rilegatura destinata ANNUARIO DAVAR 4.2007-08 La disperazione della scrittura* Sergio Quinzio 8_davar_Quinzio72_77:davar/Quinzio 4-11-2008 17:12 Pagina 73

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Page 1: 8 davar Quinzio72 77:davar/Quinzio · Title: 8_davar_Quinzio72_77:davar/Quinzio Author: lorenzochiuchiu Created Date: 3/27/2011 7:22:36 PM

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73Un libro, la Bibbia, è la matrice dell’intero Occidente, è, addirittura, l’Occiden-te stesso. È tale anzitutto nel senso che la mancata conoscenza della Bibbia impe-disce l’accesso al nostro comune patrimonio culturale, lo rende incomprensibile.Non c’è infatti, si può dire, opera letteraria, artistica, musicale, filosofica, giuridica,politica che non sia in rapporto con il Libro per antonomasia. La Bibbia è il serba-toio archetipico dal quale la nostra cultura ha tratto gran parte dei suoi modelli edelle sue immagini, dei suoi miti, delle sue metafore, e dei suoi linguaggi. La Bib-bia è, secondo l’espressione di William Blake, che ha dato poi il titolo alla celebreopera di Northrop Frye, il “Grande Codice”. Ma, soprattutto, è stata la rivelazio-ne biblica – e a dirlo sono molti, Weber, Gogarten, Löwith, Puech, Scholem,Neher… – a capovolgere quello che era lo statico, eterno mondo cosmico delle an-tiche religioni nel dinamico mondo storico, il mondo degli eventi che accadono neltempo: dalla creazione alla rivelazione, alla redenzione. La vera cesura fra antico emoderno si colloca qui, in questo libro unico e sacro, e finché apparterremo allacultura dell’Occidente moderno (né c’è dato di vedere oltre!) il nostro mondo sto-rico sarà ancora, nel suo carattere essenziale, riconducibile a quello della Bibbia.

Altri libri hanno esercitato potenti influssi su altre culture, ma l’ambito bimille-nario dell’Occidente rappresenta un’esperienza ampia quanto basta per offrircisicome orizzonte di comprensione del libro e della sua storia generale. Forse non sidovrebbe dire che la Bibbia è un libro: è piuttosto un insieme di libri, come ap-punto indica il plurale greco del titolo: “ta biblia”, “i libri”. Forse si dovrebbe di-re che è piuttosto una biblioteca, per raccogliere la quale sono occorsi all’incircamille anni. Ma nella sua formulazione più radicale, quella dell’ortodossia prote-stante, la Bibbia è un unico libro in quanto è opera di un unico e immutabile au-tore, Dio stesso: “Scriptura sacra est verbum Dei”. Gli uomini che l’hanno mate-rialmente scritta con le loro mani avrebbero scritto sotto una dettatura checomprendeva persino i minimi segni grafici. La polemica teologica sulla questionedei limiti dell’ispirazione divina è stata aspra per secoli, ma tutti hanno inteso sal-vaguardare la fondamentale unità della Sacra Scrittura.

Può essere curioso considerare che già all’interno stesso del grande Libro sono con-tenuti altri libri, come il libro in cui sono segnati i destinati alla vita eterna (Daniele,12,2), o il piccolo libro profetico inghiottito, che è dolce nella bocca ma amaro nelventre, di cui ci parlano sia il profeta Ezechiele (3, 3) che l’Apocalisse (10, 10-11).

All’origine il libro è sacro, è il libro scritto da Dio, nell’ebraico che è considera-to dagli ebrei la lingua sacra, secondo alcuni addirittura intraducibile. Tutti gli al-tri libri discendono da quello e conservano un po’ di quella lontana sacralità. Daquesto deriva il rispetto con il quale l’oggetto-libro è circondato, che si esprimenell’eleganza dei caratteri, nel materiale spesso lussuoso della rilegatura destinata

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Page 2: 8 davar Quinzio72 77:davar/Quinzio · Title: 8_davar_Quinzio72_77:davar/Quinzio Author: lorenzochiuchiu Created Date: 3/27/2011 7:22:36 PM

74 a conservarlo nel tempo, a far sopravvivere nel libro il passato serbandone memo-ria e aprendolo al futuro con i suoi nuovi lettori. Di qui la bibliomania dei colle-zionisti di edizioni pregiate. Ma di qui anche, in contrapposto, i roghi dei libri, cheogni epoca, compresa la nostra, ha conosciuto, come tentativo di cancellare conessi il passato, di sopprimerlo, di fare come se non ci fosse mai stato. Ancora og-gi, come testimonia fra gli altri Elie Wiesel, ci sono gruppi di ebrei chassidici che,in certe occasioni, danzano fino allo stordimento stringendo fra le braccia un “se-fer”, un riccamente vestito e ornato rotolo del Libro, della “Torah”, della Legge oinsegnamento dato da Dio al suo popolo. I pii ebrei custodiscono versetti dellaScrittura in piccoli astucci – “tefillim” o “filatteri” – legati con lacci al braccio si-nistro e alla fronte, o fissati allo stipite della porta, la “mezuzah”.

I maestri della tradizione mistica ebraica per eccellenza, la Qabbala, da secoli re-moti meditano interminabilmente sulle sacre lettere dell’alfabeto ebraico conside-rando non solo il loro suono e il loro valore numerico ma anche la loro forma, sic-ché parola e immagine rivelano qui la loro comune radice. L’inizio di questespeculazioni si trova già nel Sefer Yetzira – Libro della creazione – che è datato frail II e il III secolo. Dio crea per mezzo delle lettere, associandole diversamente fraloro. Gershom Scholem, il più insigne studioso contemporaneo dell’ebraismo, scri-ve che secondo Avraham Abulafia, il cabalista spagnolo che scrisse sul finire delXIII secolo, “la creazione, la rivelazione, e la profezia sono fenomeni che si verifi-cano nell’universo del linguaggio; egli concepisce la creazione come un atto di scri-vere divino in cui la scrittura forma la materia della creazione” (Der Name Gottesund die Sprachtheorie der Kabbala).

Tuttavia la tradizione ebraica, nella sua più volte millenaria venerazione per la Sa-cra Scrittura, ne ha sempre percepito anche il limite nei confronti del linguaggioparlato anziché scritto. Per l’ebreo contemporaneo Edmond Jabès, «la differenza trala parola e la scrittura è la colpa, (…) l’immediatezza perduta» (Il libro delle Inter-rogazioni). Secondo tutta la tradizione del giudaismo non si dà “Torah scritta” (laquale, comunque, veniva letta sempre ad alta voce, perché il mondo antico non co-nobbe, sembra fino a Sant’Agostino, la “lettura mentale”) senza che si dia contem-poraneamente la “Torah orale”: tutte le possibili interpretazioni del testo sacro sa-rebbero già state rivelate a Mosè sul Sinai, nel momento stesso in cui ricevette daDio il decalogo, e la storia non è che il loro dispiegamento. Noi potremmo dire chenon si dà scrittura senza lettura, senza interpretazione. Forse per questo immaginodi non essere il solo a provare un vero disagio, qualche volta addirittura un’ango-scia, quando entro in una biblioteca, o anche semplicemente in una libreria. Tuttiquei libri non letti, e che comunque non potrei mai leggere, mi danno un senso divuoto, quasi di paura. Tutti quei libri sono, in qualche modo, generati dall’origina-

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Page 3: 8 davar Quinzio72 77:davar/Quinzio · Title: 8_davar_Quinzio72_77:davar/Quinzio Author: lorenzochiuchiu Created Date: 3/27/2011 7:22:36 PM

75rio Libro sacro, ne sono persino, in qualche modo, dei doppioni; ma donde derivaallora la necessità, la fatalità del loro continuo moltiplicarsi? A che cosa tende que-sto immane processo di proliferazione? Possiamo saltare i secoli e collegare, mette-re per così dire in corto circuito, il Libro con la moltitudine sterminata e l’inces-sante crescita dei libri che oggi vengono pubblicati.

Certamente non è casuale che la riflessione sulla scrittura sia stata in gran partesviluppata, ai nostri giorni, da autori ebrei. Se Jaspers aveva parlato del mondo co-me del «manoscritto di un altro mondo, mai del tutto leggibile», affermando chesolo perché il testo originario è andato perduto vi sono più libri (si confronti J.Derrida, La scrittura e la differenza), e se anche Habermas ha parlato «di una scrit-tura non più sacra, di una scrittura esiliata, errante, estraniata al suo proprio sen-so, attestante testamentariamente l’assenza del sacro» (Il discorso filosofico della di-versità), l’ebreo Derrida, nelle sue complesse elaborazioni, vede la tragedianell’«assenza del Libro», non più realmente vissuto come sacro; e prima di luiKafka sentiva il messaggio dell’imperatore morente come il libro perduto, che nongiunge mai a chi sta «alla finestra e ne sogni, quando giunge la sera» (Il messaggiodell’imperatore). Marguerite Yourcenar dirà che, «più tardi, ci si accorse che i li-bri divagano e mentono come gli esseri umani» (L’Oeuvre au Noir).

Per Derrida, «è l’assenza del Libro che noi lamentiamo», è l’assenza di qualco-sa di perduto che ci turba, ci tormenta, ci interpella e ci provoca all’interrogazio-ne. Ed è nel dramma di questa assenza che per Derrida affonda le sue radici nonsolo la modernità, ma tutta la nostra storia. È la «disperazione della scrittura», edè una disperazione totale poiché, come dice Jabès, «il libro non è nel mondo, ben-sì il mondo nel libro». La poesia, in Dante e ancora nei grandi mistici cristiani co-me San Juan de la Cruz, «presuppone pur sempre l’esistenza di una teologia posi-tiva e di una Sacra Scrittura da cui essa trae la sua legittimità e le sue garanzie. Lapoesia moderna non riconosce invece altra scrittura sacra che se stessa», ed è per-ciò costretta ad assumere «l’impossibile compito» di farsi sacra, di garantire se stes-sa, avvolgendosi così, infine, in una disperata elusione (G. Agamben, introduzio-ne alle Poesie di Juan de la Cruz).

«La storia della verità – dice ancora Derrida –, della verità della verità, è sem-pre stata… l’abbassamento della scrittura e la sua rimozione al di fuori della pa-rola “piena”» (Della grammatologia). Il destino del libro è dunque un deserto tra-gico, e proprio per questo è un grande destino, che ci rispecchia. In Kafka, l’ebreoche apre le porte alle lacerazioni della letteratura contemporanea, si leggono espres-sioni contraddittorie sul significato e sul valore dei libri e dello scrivere. Dice allamadre: «Lascia i miei libri! Sai che non possiedo altro» (Diari, 1914). «Certi librifanno l’effetto della chiave di sale sconosciute nel proprio castello» (lettera a O.

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Page 4: 8 davar Quinzio72 77:davar/Quinzio · Title: 8_davar_Quinzio72_77:davar/Quinzio Author: lorenzochiuchiu Created Date: 3/27/2011 7:22:36 PM

76 Pollak del 9 novembre 1903), e lo scrivere è una «forma di preghiera» (Frammen-ti). Ma quali libri devono essere scritti e letti? «Bisognerebbe leggere, credo, sol-tanto i libri che mordono e pungono. Se il libro che leggiamo non ci sveglia conun pugno sul cranio, a che cosa serve leggerlo?... Noi abbiamo bisogno di libri cheagiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di unoche ci era più caro di noi stessi, come se fossimo respinti nei boschi, via da tuttigli uomini, come un suicidio, un libro deve essere la scure per il mare gelato den-tro di noi. Questo credo» (lettera a O. Pollak del 27 gennaio 1904). Eppure, a te-stimonianza della ricchissima ambiguità del libro, Kafka dirà anche che «dalla vi-ta si possono estrarre molti libri con relativa facilità, ma dai libri ben poca,pochissima vita… I libri sono un narcotico» (dai Colloqui con Kafka di G. Janou-ch). Ma infine anche, nella lettera a Felice del 31 dicembre 1916, «come ci sem-breranno belli nell’aldilà – i libri che leggiamo ora!».

Un altro autore ebreo, Elias Canetti, in Auto da fé narra la vicenda del sinologoKien, che vive circondato di libri e ama soltanto loro, ritenendo superflui e sgra-devoli i contatti con il mondo: vicenda che culmina con il riso di Kien mentre vie-ne avvolto dalle fiamme nel rogo della sua biblioteca.

Jorge Luis Borges è forse l’autore che ha sentito ed espresso con più intensità,e con più fascino, l’ambiguità del libro. Nella sua “biblioteca di Babele” l’univer-so è un’infinita biblioteca, un infinito universo di libri e di parole, un gioco illu-sorio di specchi e di apparenze; la letteratura è il luogo delle inesauribili, possibi-li scritture, letture e interpretazioni, è un viaggiare e un perdersi nel labirinto delleparole. Borges racconta che il cinese Ts’ui Pên qualche vota diceva «“mi ritiro ascrivere un libro”. E qualche altra: “Mi ritiro a costruire un labirinto”. Tutti pen-sarono a due opere; nessuno pensò che libro e labirinto facessero una cosa sola».Il libro di Ts’ui Pên è un romanzo, e il romanzo, la forma narrativa per eccellenzamoderna, possiamo intenderlo forse come l’ultima, e forse agonizzante, forma discrittura, abissalmente lontana ormai dai libri in cui erano scritti miti e leggendesacre, raccontate le vicende epiche, fissati gli insegnamenti ritenuti certi e immu-tabili, raccolti gli annunci dei profeti, formulate le teorie scientifiche. Il libro diTs’ui Pên è il “romanzo caotico”, il libro inconcludente, con interminabili varian-ti contraddittorie, indefinite biforcazioni, diversi futuri. Vi si scelgono simultanea-mente tutte le possibili scelte, creando diversi tempi che a loro volta proliferano esi biforcano (Il giardino dei sentieri che si biforcano, in Finzioni). E dunque, nel la-birinto del tempo è in definitiva insignificante tutto quello che succede. Non è pos-sibile nessuna collocazione, nessuna certezza, nessuna identità.

È forse questo, nella sua degenerata, cancerosa proliferazione, il destino del li-bro, la sua dissipazione e dissoluzione finale? Si conclude davvero così la lunga

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77storia del libro e del suo significato? Le parole scritte saranno sostituite dalle im-magini, o meglio da altre immagini che non rappresentano più il suono delle di-verse lettere? O tutto sarà registrato e microfilmato, nell’astrattezza di un’infor-mazione che non avrà più alcun rapporto con l’esperienza umana, tante e tantevolte millenaria, di una superficie bianca sulla quale tracciare dei segni grafici, diun rotolo scritto da srotolare, di una pagina da voltare? Oppure gli esiti espressida Borges, ma non soltanto da lui, e che certamente ci minacciano, sono a loro vol-ta soltanto qualcosa da raccontare, una fuga estetica nel vano tentativo di ricopri-re la morte con la bellezza? Se fosse così, allora proprio questo ci rinvierebbe perl’ultima volta al bisogno dell’antico Libro autentico e perduto, unico e sacro, chenon registrerà il nostro passato per immobilizzarlo, ma per additare nel futuro ilsuo riscatto, il luogo delle sue promesse.

*da Storia dell’editoria d’Europa, a cura di A. Mainardi, Vol. I, Shakespeare & Company, Firenze 1994, conil titolo Il libro dei libri, pp. 255-263.

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