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1 7 FONDERIA 7.2 Fusione in terra (annotazioni) 7.2.1 Caratteristiche del modello Colorazione e scritte Il modello di legno deve essere colorato, con vernici adatte, per indicare il materiale da usare nel getto, per favorirne l’estrazione e per proteggerlo dagli agenti atmosferici. Questa fase non è necessaria per tutti i materiali. Devono essere presenti anche scritte e marcature (per indicare le varie parti ecc.), indicate dalle normative. 7.2.2 Sabbie e terre per fonderia I leganti a base di silicato di sodio, impiegati nel procedimento al CO 2 , si trovano in commercio sotto denominazioni varie, quali Carsil Foseco, Steinex, Gas-Col ecc.: si mescolano nella proporzione media del 3% con sabbia silicea selezionata, lavata ed essiccata, con aggiunta di additivi (nero minerale, farina di legno, peci e granulare ecc.) per migliorare la sgretolabilità dopo la colata. L’insufflazione di CO 2 può venire praticata con diversi sistemi come sonde, ventose o apparecchiature semiautomatiche. Analisi chimica Per poter determinare la composizione della terra si esegue l’analisi chimica, sia per quanto riguarda gli elementi essenziali, come silice e argilla, sia per le impurezze, tollerate entro certi limiti per non modificare le proprietà della terra stessa. Le impurezze possono essere: 1. il carbonato di calcio: per effetto del calore del getto il CaCO 3 si decompone in biossido di carbonio (CO 2 ) e ossido di calcio (CaO); il primo provoca soffiature mentre il secondo reagendo con la silice forma un silicato che fonde facilmente e incrosta i getti; 2. il carbonato di magnesio: produce gli stessi inconvenienti del carbonato di calcio: massimo tollerato 1%; 3. la mica: presenta gli stessi inconvenienti dell’ossido di calcio.

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7 FONDERIA

7.2 Fusione in terra (annotazioni)

7.2.1 Caratteristiche del modello

Colorazione e scritte

Il modello di legno deve essere colorato, con vernici adatte, per indicare il materiale da usare nel getto, per

favorirne l’estrazione e per proteggerlo dagli agenti atmosferici. Questa fase non è necessaria per tutti i

materiali. Devono essere presenti anche scritte e marcature (per indicare le varie parti ecc.), indicate dalle

normative.

7.2.2 Sabbie e terre per fonderia

I leganti a base di silicato di sodio, impiegati nel procedimento al CO2, si trovano in commercio sotto

denominazioni varie, quali Carsil Foseco, Steinex, Gas-Col ecc.: si mescolano nella proporzione media del 3%

con sabbia silicea selezionata, lavata ed essiccata, con aggiunta di additivi (nero minerale, farina di legno,

peci e granulare ecc.) per migliorare la sgretolabilità dopo la colata.

L’insufflazione di CO2 può venire praticata con diversi sistemi come sonde, ventose o apparecchiature

semiautomatiche.

Analisi chimica

Per poter determinare la composizione della terra si esegue l’analisi chimica, sia per quanto riguarda gli

elementi essenziali, come silice e argilla, sia per le impurezze, tollerate entro certi limiti per non modificare le

proprietà della terra stessa. Le impurezze possono essere:

1. il carbonato di calcio: per effetto del calore del getto il CaCO3 si decompone in biossido di carbonio (CO2) e

ossido di calcio (CaO); il primo provoca soffiature mentre il secondo reagendo con la silice forma un silicato

che fonde facilmente e incrosta i getti;

2. il carbonato di magnesio: produce gli stessi inconvenienti del carbonato di calcio: massimo tollerato 1%;

3. la mica: presenta gli stessi inconvenienti dell’ossido di calcio.

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4. l’ossido di ferro: diminuisce la refrattarietà ed è tollerato nella quantità massima del 3%;

5. l’ossido di alluminio: forma con la silice silicati fusibili diminuendo quindi la refrattarietà: massimo tollerato

2%;

6. i sali di potassio: diminuiscono la coesione a caldo e provocano il disfacimento della forma;

Metodi di prova delle terre e sabbie per fonderia

Consentono:

1. la determinazione della permeabilità;

2. la determinazione del tenore di argilloide;

3. la determinazione dell’umidità;

4. la determinazione della resistenza meccanica;

5. la determinazione della distribuzione granulometrica e il calcolo del valore medio della dimensione delle

particelle.

Determinazione del tenore di argilloide - La massa dell’argilloide si trova togliendo dalla massa del campione

di terra o miscela in esame (50 g), essiccata a 110 ± 5 °C, la massa della silice (che viene separata per

sedimentazioni successive fino a completa chiarificazione dell’acqua nella quale si sospende la terra o

miscela). Si effettua la separazione dell’acqua torbida contenente l’argilloide, dopo un riposo di 10 minuti. Per

togliere completamente l’argilloide, ci vogliono circa 10 lavaggi, mentre la silice residua viene essiccata a 110

± 5 °C e quindi pesata. Il tenore di argilloide è dato da 100 (m - m1)/m (espresso in percentuale) dove m è

la massa in grammi del campione usato e m1 è la massa in grammi del residuo sabbioso.

Determinazione dell’umidità - Si introducono 20 g di terra o

sabbia campione in una stufa riscaldata fra 110 ± 5 °C fino

a massa costante. Dopo essiccamento, si effettua la pesata

sul campione che è stato lasciato raffreddare

nell’essiccatore fino alla temperatura ambiente. Il contenuto

di umidità è dato dalla differenza delle due pesate prima e

dopo l’essiccazione, espresso in percentuale rispetto alla

massa del campione umido originario.

Schema funzionale e complesso reale dell’igrometro per la rapida de- terminazione dell’umidità delle terre, sabbie, bentoniti, nero minerale, carboni in genere, cementi ecc. (per rompere le fiale si scuote l’igrometro).

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Un metodo molto diffuso consiste nell’introdurre in una camera di reazione a chiusura ermetica una

determinata quantità di terra o di sabbia campione, assieme a una fiala contenente una dosata quantità di

carburo di calcio in polvere. L’acqua che costituisce l’umidità del campione reagendo con il carburo di calcio

forma acetilene, la cui pressione nella camera di reazione è proporzionale al tenore di umidità che viene letto

direttamente sul quadrante di un manometro. La percentuale di acqua di una terra per fonderia può essere

determinata con controllo automatico; l’aggiunta di un elaboratore elettronico, di un’elettrovalvola e di una

sonda termica consentono, oltre alla misurazione, anche la correzione della percentuale di acqua voluta.

Determinazione della distribuzione granulometrica e calcolo del valore medio della dimensione delle particelle

La distribuzione granulometrica di una terra o sabbia per fonderia esprime la

distribuzione in percentuale dei grani di differenti grandezze. La dimensione

media dei grani della sabbia analizzata (liberata dall’argilloide e da tutte le

particelle fini aventi diametro minore di 0,02 mm) viene convenzionalmente

indicata mediante un indice di finezza. Per la determinazione della

distribuzione granulometrica si impiega uno stacciatore automatico

(dispositivo che serve per separare i materiali a seconda delle dimensioni,

con una frequenza di 300 vibrazioni al minuto) costituito da una serie di

stacci unificati disposti in ordine progressivo di luce di maglie decrescenti

dall’alto in basso. Si posiziona un campione di 50 g sullo staccio superiore e si

fa funzionare lo stacciatore per 15 minuti, pesando successivamente (con

approssimazione di 0,1 g) la sabbia rimasta su ogni staccio, compresa quella

eventualmente depositata sull’ultimo staccio a fondo chiuso della pila nel

quale si raccolgono i grani con dimensioni minori di 50 µm.

Dalla formula seguente si ottiene l’ indice di finezza della sabbia:

nella quale i è l’indice di finezza; p sono le percentuali sul totale trattenute

dai singoli stacci; a sono i fattori stacci. La tabella che segue riporta la

classificazione degli stacci secondo la serie metrica UNI (luce netta per

maglia in micrometri e numero di maglie al centimetro quadrato) nonché i

fattori degli stacci.

...

...

321

332211

++++++=

ppp

apapapi

Stacciatore montato su basetta

elettrovibrante.

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Classificazione degli stacci secondo la serie metrica UNI

Luce netta per maglia (µm) Numero di maglie per cm2 Fattore staccio α 3350 4 3 1700 14 5 850 50 10 600 100 20 425 200 30 300 400 40 212 810 50 150 1600 70 106 2900 100 75 6400 140 60 15600 200

Fondo - 300

L’indice di finezza consente la classificazione delle sabbie come indicato nella tabella che segue.

Indice di finezza e classificazione delle sabbie

Denominazione Indice di finezza Dimensioni grani (mm) Sabbia molto grossa < 18 2-1 Sabbia grossa 8-35 1 - 0,5 Sabbia media 35 - 60 0,5 - 0,25 Sabbia fine 60 – 150 0,25 – 0,1 Sabbia finissima > 150 < 0,1

Determinazione della permeabilità - La permeabilità è una proprietà che consente alle terre e alle sabbie per

fonderia di lasciarsi attraversare dai gas che si liberano durante la colata, e che se non fossero fatti evacuare

potrebbero provocare gravi danni nel getto, come presenze di cavità all’interno del materiale (soffiature). Si

può assumere come misura della permeabilità la quantità di aria (1000 o 2000 cm3) che attraversa l’unità di

superficie di un campione di terra, di spessore unitario, sotto l’azione di un gradiente di pressione unitario.

Nel caso in esame la permeabilità è espressa dal volume in centimetri cubi di aria che passa in 1 min, sotto la

pressione di 1 cm H2O, attraverso una provetta della sezione trasversale di 1 cm2 e dello spessore di 1 cm.

La permeabilità P è espressa dalle seguenti formule:

ptptapt

hVP

255

625,19

51000 ≈×

×==

ptptapt

hVP

510

625,19

52000 ≈×

×==

5

Dove:

– V è il volume di aria (di solito 1000 oppure 2000 cm3);

– t è il tempo (in minuti) che occorre perché la quantità di aria V attraversi la provetta;

– p è la pressione dell’aria (in centimetri di colonna d’acqua);

– h è l’altezza della provetta (5 cm);

– a è la sezione trasversale della provetta (19,625 cm2).

La prova quindi consiste nel determinare il tempo t (in minuti) necessario per fare

defluire un volume di 1000 o di 2000 cm3 di aria attraverso la provetta, che ha

forma, dimensioni, tolleranze e preparazione uguali a quelle della provetta per la

prova di resistenza a compressione. L’apparecchio impiegato è il permeametro, di

cui un esemplare è illustrato a fianco.

Le fasi per l’esecuzione della prova sono le seguenti (si veda la figura seguente):

– si posiziona la valvola a tre vie in modo da collegare l’interno della campana

con l’esterno;

– si solleva la campana in modo da farle aspirare 2000 cm3 di aria;

– si chiude la valvola a tre vie;

– il contenitore nel quale è stata

confezionata la provetta viene inserito a

perfetta tenuta nel porta-contenitore;

– si posiziona la valvola a tre vie in modo

da collegare l’interno della campana con il

porta-contenitore;

– si fa defluire dalla campana il volume di

aria preventivato (1000 oppure 2000 cm3)

e con un cronometro si misura il tempo

impiegato dall’aria a passare attraverso la

provetta;

– si rileva la pressione in centimetri di

colonna di acqua (1 cm H2O = 98,0665 Pa)

misurata dal manometro, e quindi si calcola

la permeabilità con la formula

corrispondente al volume di aria impiegato.

Esemplare di permeametro.

Schema di un permeametro per la determinazione della permeabilità delle terre per fonderia.

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I permeametri più recenti consentono la lettura diretta della permeabilità impiegando un ugello tarato

costante del flusso di aria che attraversa la provetta, cosicché, avendo la provetta dimensioni costanti, la

permeabilità risulta inversamente proporzionale al valore della pressione dell’aria raggiunto durante la prova.

Ne consegue che la graduazione della scala del manometro può indicare direttamente il valore della

permeabilità invece della pressione.

Determinazione della resistenza meccanica di una terra o miscela - La resistenza

meccanica di una terra può essere individuata con prove di resistenza a

compressione a verde e a secco, a taglio a verde, a flessione, a trazione. La

prova fondamentale è quella della resistenza a compressione, ovvero della

tensione massima di compressione che la provetta in esame può sopportare

senza rompersi, al fine di potersi rendere conto della coesione (attitudine della

terra o miscela per fonderia di conservare la forma ricevuta per mezzo di

un’appropriata stivatura). La prova di compressione si esegue su provetta

cilindrica avente il diametro di 50 mm (la sezione corrispondente è di 19,625

cm2) e l’altezza di 50 ± 0,3 mm. La provetta è preparata comprimendo la terra

in un cilindro metallico aperto alle due estremità (diametro interno di 50 ± 0,07

mm e altezza di 140 mm) tramite tre colpi di un maglietto avente la massa

battente di 6,67 kg che cade dall’altezza di 50 mm.

Tolta la provetta dal contenitore, si comprime applicando un carico gradualmente

crescente, 345 ± 50 mN/(cm2 · s) per prova a verde e 1960 ± 195 mN/(cm2 · s)

per prova a secco, fino a ottenere la rottura della provetta stessa. La resistenza a

compressione è data dal rapporto fra il carico totale di rottura e l’area della

sezione trasversale della provetta.

Determinazione della durezza - La durezza è la resistenza opposta dalla forma

alla penetrazione di una sfera. Dipende da tutti i parametri della terra

(composizione, umidità, finezza) e dal grado di aggregazione. Il durometro

(immagine a lato) è costituito da un quadrante e da uno stelo alla cui estremità è

posizionato il penetratore, il quale viene leggermente premuto sulla superficie

della forma provocando la deformazione di una molla che muovendo un indice,

permette la visualizzazione del valore della resistenza alla penetrazione.

Sopra, maglietto per la confezione delle provette per le prove di permeabilità e pressione. Sotto, esemplare di durometro per terre per fonderia.

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Interpretazione delle prove - Le prove sulle terre per fonderia si effettuano:

1. per collaudare, cioè per verificare se la terra possiede le proprietà volute;

2. per correggere, cioè per regolare la percentuale dei costituenti (silice, agglomeranti, acqua ecc.);

3. per diagnosticare i difetti dei getti.

Le proprietà di una terra dipendono fondamentalmente dalle condizioni di utilizzo, ossia dal tipo di lega da

fondere, dalle dimensioni del getto, dal tipo di formatura e talvolta da vari fattori indicati dall’esperienza

(esempi: la plasticità e la coesione migliorano aumentando la percentuale di argilla, a scapito tuttavia della

permeabilità; la refrattarietà migliora con l’aggiunta del 3-5% di nero minerale; la permeabilità migliora con

l’aumentare della dimensione dei grani, cioè con la riduzione dell’indice di finezza, ma diminuiscono la

coesione e la plasticità ecc.).

Lo studio completo di una terra per fonderia è costituito da:

1. l’esame della terra nuova (permeabilità, resistenza a compressione, tenore di argilloide, umidità,

granulometria, punto di sinterizzazione);

2. l’esame della terra al termine della lavorazione (permeabilità, resistenza a compressione in funzione

dell’umidità, tenore di argilloide, granulometria);

3. l’esame della terra al termine dell’essiccazione.

L’esame granulometrico indica la distribuzione percentuale della sabbia in ogni staccio e il valore dell’indice di

finezza. La resistenza a compressione e la permeabilità debbono essere diagrammate in funzione della

percentuale di acqua. Il punto di sinterizzazione è la temperatura alla quale una terra o una sabbia per

fonderia mostra segni di fusioni incipienti e perciò permette di trovare la refrattarietà (modalità di esecuzione

della prova secondo le norme).

7.2.3 Formatura

Nella formatura in staffa, le staffe possono essere intere, scomponibili, semplici, sagomate e costruite in

diversi materiali, per esempio in profilati in acciaio EN 10025-S235 JR in getti di acciaio Fe G 450 UNI 3158

oppure di ghisa a grafite sferoidale per getti UNI EN 1563-2004.

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Formatura a mano

La formatura a mano viene realizzata con diversi strumenti: badile, staccio, pestello, modelli di colatoi e

montanti, spillo, tirante a occhiello, mazzuolo, vibratore, cazzuole, spatole, lisciatoi, cavasabbia, pennelli e

pennellesse, punte o chiodi, spazzole, soffietti, supporti per anime, sagome ecc.

7.3 Tecniche a forma permanente – note

7.3.1 Colata in conchiglia a gravità

Una conchiglia deve essere progettata in modo da soddisfare esigenze di qualità di prodotto e capacità

produttiva. Per ottenere la qualità del prodotto, il suo riempimento deve avvenire senza moti vorticosi del

metallo e l’aria fuoriuscire con facilità. Contemporaneamente è necessario garantire la rapida unione e

scomposizione delle parti della conchiglia e la facile sformatura del getto, con l’utilizzo di opportuni angoli di

spoglia delle pareti e dei fori dei getti ortogonali al piano di congiunzione delle conchiglie.

La conchiglia prima dell’uso deve essere preriscaldata alla temperatura di regime, mentre il suo equilibrio

termico dopo i primi getti dipende dalla massa, dalla conducibilità termica e dalla temperatura della lega e

della conchiglia. Se i suddetti parametri sono stati scelti in modo opportuno, la velocità di solidificazione della

lega è sufficientemente elevata per realizzare un getto con struttura a grano fine, ma non troppo rapida da

limitare una buona alimentazione.

7.3.2 Colata centrifuga in conchiglia

Questo metodo di colata ha consentito il raggiungimento di risultati favorevoli nella fusione centrifuga

bimetallica, cioè nella fusione centrifuga di due leghe diverse nella stessa forma (la temperatura di fusione

del materiale esterno deve essere inferiore a quella del materiale interno). Citiamo, a mò di esempio, le

camicie dei motori Diesel Ansaldo-Fiat, dove l’esterno è di ghisa sferoidale perlitica e l’interno è di ghisa al

cromo-fosforo o di ghisa al cromo-rame.

7.4.2 Microfusione o fusione a cera persa

Alcune tra le principali varianti al procedimento tradizionale sono:

1. metodo X - La cera non viene eliminata dalla forma mediante fusione, ma per reazione con una soluzione

a base di tricloroetilene; il recupero della cera si realizza per distillazione;

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2. metodo Glascast - Il normale materiale di formatura a base di silicato d’etile è sostituito con polvere di

vetro con particolari additivi al fine di ridurre il processo di cottura;

3. metodo Mercast - La cera del modello è sostituita con mercurio portato a ̶ 55 °C (temperatura di

solidificazione ̶ 38,87 °C). Le operazioni si succedono immutate a questa temperatura, fino alla fusione e

all’evacuazione del mercurio, che avviene a temperatura ambiente. Il metodo ha i suoi vantaggi (maggiore

massa dei getti ed eliminazione delle stufe) e svantaggi (attrezzature per il raffreddamento, tossicità del

mercurio).

7.5 Fusione

Forni a combustione - Forni a riverbero

Il contatto diretto del metallo con la fiamma è evitato dirigendo la fiamma stessa verso la volta, in modo che

il calore sia da questa riverberato sul metallo.

Le tipologie sono diverse in relazione all’uso (per il rame, l’acciaio, l’alluminio, la ghisa), al sistema di

riscaldamento (con nafta, con gas, con carbone polverizzato), al funzionamento (a carica fredda, in duplex

con il cubilotto ecc.). La carica è costituita da rottami, pani, fondente, aggiunte di scorificanti e di alliganti le

cui quantità e composizione permettono di ottenere un prodotto qualificato. Il calore generato dalla

combustione viene trasmesso per irradiazione alla carica senza il contatto con sostanze nocive.

Forni elettrici

Forni a resistenza

I forni fusori a resistenza possono essere:

1. a bacino: la carica metallica, contenuta nel bacino di refrattario,

viene riscaldata dalle resistenze sovrastanti percorse da corrente

elettrica; la figura a lato illustra lo schema di un forno oscillante, in

cui il supporto rotola su guide, affinché l’estremità del canale di

colata si sposti solo verticalmente.

Schema di forno a bacino oscillante con riscaldamento elettrico con resistenza metallica (la culla di supporto rotola su guide in modo che l’estremità del canale di colata si sposti solo in senso verticale).

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2. a crogiuolo: la carica metallica, contenuta nel crogiuolo, viene riscaldata

dalle resistenze posizionate esternamente, libere o alloggiate in apposite

cavità del refrattario, distribuite verticalmente o a spirale; a lato, un esempio

schematico della disposizione a spirale.

Forni ad arco

Il calore viene prodotto da una corrente elettrica che passa attraverso l’aria ionizzata compresa fra due (o

tre) elettrodi e la carica metallica. Infatti, se fra gli elettrodi di grafite (o di carbone amorfo) si stabilisce una

sufficiente differenza di potenziale e un’opportuna temperatura, l’aria fra essi compresa si ionizza generando

un arco voltaico costituito dalla doppia corrente di ioni dall’anodo (+) al catodo (-) e di elettroni in senso

contrario. La temperatura dell’arco è di circa 3500 °C sull’elettrodo positivo e 2700 °C sull’elettrodo negativo.

Questi forni presentano i vantaggi di una temperatura sufficientemente alta da fondere qualunque lega, del

riscaldamento rapido e dei bassi consumi di energia, ma sottopongono le pareti refrattarie ad alte

sollecitazioni termiche e richiedono dispositivi automatici in grado di mantenere costante la lunghezza

dell’arco man mano che gli elettrodi si consumano; si distinguono in forni ad arco indiretto e ad arco diretto.

Forni ad arco indiretto - L’arco scocca fra due o più elettrodi posizionati (orizzontali o inclinati verso il basso)

sopra il bagno metallico, per cui il riscaldamento avviene soprattutto per irraggiamento.

Tipico forno per l’affinazione dell’acciaio è quello Stassano (1904), schematicamente rappresentato a fianco.

Schema di forno a crogiuolo con riscaldamento elettrico con resistenze disposte a spirale.

Schema del forno Stassano ad arco indiretto.

Regolazione distanza elettrodi

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Il forno Rennerfield differisce dai precedenti perché presenta tre elettrodi: due

orizzontali allacciati alle due fasi del secondario di un trasformatore e uno

verticale collegato al punto neutro del secondario in modo da generare un

campo magnetico che devia l’arco verso il basso ottenendo una concentrazione

di calore. Lo schema è riportato a lato.

Forni ad arco diretto

In questo caso gli elettrodi sono posizionati verticalmente sulla volta del forno arrivando a pochi centimetri

dalla carica metallica. Si distinguono nei due tipi fondamentali:

1. forni a suola non conduttrice: gli archi elettrici scoccano fra l’elettrodo e il bagno in entrata e fra il bagno e

l’elettrodo in uscita; è tipico il forno monofase Héroult (1909) per la produzione di acciaio mediante utilizzo di

ghisa e rottame di ferro, nel quale il riscaldamento del bagno avviene principalmente attraverso il calore

d’irradiazione dell’arco e in parte per effetto Joule dovuto alla resistenza ohmica offerta dalla massa stessa

della carica. La volta è mobile e girevole per effettuare velocemente la carica di rottame, mentre dalla porta

vengono effettuate le aggiunte di correttivi e di ferroleghe;

Schema del forno Rennerfield ad arco indiretto.

Schema del forno Rennerfield ad arco indiretto.

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2. forni a suola conduttrice, quando scoccano gli archi fra gli elettrodi e il bagno in entrata. La corrente

percorre il bagno per chiudere il circuito sulla suola costituita da elettrodi metallici o da blocchi conduttori. È

tipico il forno Girod. La suola è collegata con la terra e con il centro della stella i cui capi vanno collegati ai

tre elettrodi di carbone.

Forni a induzione

Si basano sul principio dell’induzione elettromagnetica, sfruttando l’effetto Joule delle correnti indotte nella

carica metallica da fondere. La bobina induttrice può essere considerata come il primario di un trasformatore

e il materiale fuso, contenuto in un crogiuolo anulare refrattario, il secondario formato da un’unica spira

chiusa in corto circuito. La corrente indotta che circola nel materiale da fondere deve vincere la resistenza

elettrica del materiale stesso e l’energia assorbita da questa resistenza si trasforma in calore. Ne derivano i

vantaggi della rapidità di fusione, della uniformità di riscaldamento e della omogeneità del prodotto per

effetto dell’agitazione derivante dalle azioni elettrodinamiche delle correnti che circolano nel materiale fuso e

che provocano un’agitazione tanto più viva quanto più bassa è la frequenza. I forni a induzione sono i

migliori attualmente disponibili da un punto di vista tecnologico, anche perché permettono di realizzare

fusioni a livello industriale di metalli e leghe in vuoto spinto evitando assorbimenti di gas da parte del metallo

liquido. Si distinguono in forni a bassa frequenza con nucleo magnetico e a media e ad alta frequenza senza

nucleo magnetico.

Schema del forno ad arco con suola conduttrice tipo Girod.

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7.10 Pirometria in fonderia

Termometri a liquidi

Il funzionamento è basato sulla corrispondenza tra temperatura e volume di un liquido

termometrico (mercurio, alcol etilico, toluolo, pentano, creosoto). Le variazioni di temperatura

vengono misurate rilevando le variazioni che esse producono in un determinato volume di liquido.

In questi termometri si hanno tre elementi fondamentali:

a) il bulbo metallico contenente il liquido;

b) il capillare metallico che collega il bulbo (a contatto con l’ambiente di cui si vuole rilevare la

temperatura) con il dispositivo di misurazione (installato nel luogo dove avviene la misura della

temperatura);

c) il dispositivo elettrico di misurazione che rileva le variazioni di volume del liquido, le amplifica

tramite un dispositivo fornito di indice e le misura mediante un quadrante graduato direttamente in

gradi centigradi.

Con termometri a mercurio nel cui capillare è stato introdotto azoto secco a circa 1470 kPa per

impedire la vaporizzazione del liquido e di conseguenza elevarne il punto di ebollizione, si può

estendere il campo di misura da 40 °C a 600 °C.

Termometri bimetallici

Sono costituiti da due lamine metalliche flessibili, aventi diverso

coefficiente di dilatazione termica, unite tra loro in modo opportuno.

Per effetto delle variazioni di temperatura, a causa della differente

dilatazione, le due lamine si deformano. Amplificando la deformazione

per mezzo di leve è possibile la lettura della temperatura e/o il

comando di autoregolazione. Nel secondo caso l’apparecchio funge da

termostato, cioè da dispositivo regolatore che serve a mantenere la

temperatura a un valore stabilito, intervenendo automaticamente

comandando l’apertura o la chiusura del circuito elettrico dell’impianto

(ad esempio di riscaldamento o di refrigerazione). È proprio come

termostato che trova le sue maggiori applicazioni con un campo

limitato nell’intorno di 550 °C e una precisione che si aggira

mediamente sul 5% della temperatura rilevata.

Esemplare di pirometro.

Termometri bimetallici.

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Termometri a resistenza elettrica

Si basano sulla variazione della resistenza elettrica di un filo metallico al variare

della temperatura, che è esprimibile con la relazione:

dove R0 e R1 sono le resistenze ohmiche rispettivamente alle temperature t0 e t1 e

ρ è un coefficiente che, nelle leghe metalliche, varia anch’esso con la temperatura,

mentre nei metalli puri si mantiene costante entro limiti molto vasti. Perciò per i

termometri a resistenza elettrica s’impiegano metalli puri: si usa quasi esclusivamente il platino, raramente il

nichel, molto raramente il rame. L’elemento termometrico sensibile E è una spirale di filo o di nastro

metallico inserito in un ponte di Wheatstone, come indica la figura che segue. Il sistema di misurazione è

costituito dal galvanometro G a bobine incrociate; la bobina mobile, alimentata in corrente continua, è in

serie all’elemento termometrico E introdotto nell’ambiente da controllare. In tal modo l’intensità della

corrente che percorre la bobina mobile, dipende dal valore che la resistenza dell’elemento E assume in

funzione della temperatura. Quando la resistenza ohmica di E è a 0 °C i campi magnetici delle due bobine,

fissa e mobile, si annullano. Se viceversa E è a temperatura diversa da 0 °C, per la prevalenza di un campo

magnetico sull’altro si ha una rotazione della bobina mobile (e dell’indice a essa applicato) proporzionale alla

variazione di resistenza subita da E, e di conseguenza sul

quadrante graduato si rileva direttamente la temperatura in gradi

centigradi. Usando come elemento termometrico il platino si

possono misurare, con discreta approssimazione, temperature

comprese fra 259 °C e 630 °C fino a un massimo di 1100 °C

inserendo la spirale di platino in capsule normalmente di vetro

sotto vuoto. I termometri a resistenza elettrica possono essere

collegati con regolatori a programma, con apparecchi scriventi,

con regolatori ottici e acustici ecc.

( )[ ]0100 1 ttRR −+= ρ

Esemplare di termometro a resistenza elettrica.

Schema del termometro a resistenza elettrica con elemento sensibile E inserito in un circuito a ponte di Wheatstone: R1-R2-R3 = resistenze invariabili; G =

galvanometro con bobine incrociate.

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Termometri a termocoppia

Se si uniscono mediante saldatura le estremità di una coppia di fili metallici di

diversa natura, per esempio ferro-costantana (60% Cu, 40% Ni); nichel-nichel

cromo; chromel (90% Ni, 10% Cr)-alumel (94% Ni, 3% Mn, 2% Al, 1% Si);

platino-platino rodio, e se si mantengono le estremità saldate (dette giunto

caldo) a una temperatura Tc e le due estremità opposte non saldate e non a

contatto tra loro (dette giunto freddo) a una temperatura inferiore Tf, si instaura

fra queste ultime una forza elettromotrice (f.e.m.) E in funzione della differenza

di temperatura, cioè:

E = f (Tc - Tf)

Come strumento di misura della temperatura la termocoppia è basata sull’effetto termoelettrico esposto da

Seebeck: «la somma algebrica delle f.e.m. generate in un circuito composto da un numero qualsiasi di

materiali metallici è funzione solo della temperatura dei giunti». In altre parole la termocoppia è un

generatore di corrente continua in grado di trasformare una differenza di temperatura in una differenza di

potenziale.

Pertanto è possibile inserire nel circuito dei cavi di collegamento e/o uno strumento di misura della f.e.m.

senza produrre alterazioni; se ad esempio si inserisce nel circuito un millivoltmetro ad alta resistenza interna

e se i due giunti sono a temperature differenti, si genera in ciascuno di essi una f.e.m. funzione solo della

temperatura dei rispettivi giunti, e il millivoltmetro segnala una differenza di potenziale (d.d.p.) uguale alla

differenza tra le f.e.m. del giunto caldo e del giunto freddo; di conseguenza nel circuito passa una corrente

continua la cui intensità risulta:

I = f (Tc + Tf)

essendo Tc la temperatura del giunto a temperatura più elevata (giunto caldo) e Tf la temperatura del giunto

freddo. Se questo è conservato alla temperatura costante (ambiente), l’intensità della corrente è solamente

funzione della temperatura del giunto caldo:

I = f (Tc)

cioè della temperatura del forno avendo inserito il giunto caldo nella zona interessata.

Le principali caratteristiche di una coppia termoelettrica sono:

– il potere termoelettrico, rappresentato dal valore della f.e.m. che si genera nel circuito quando la differenza

di temperatura fra i giunti è di 1 °C e la temperatura del giunto freddo è di 0 °C;

– l’invariabilità delle proprietà elettriche nel tempo;

– la variazione lineare della f.e.m. in funzione della temperatura.

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La f.e.m. disponibile al giunto freddo può essere misurata con i due seguenti metodi.

Metodo galvanometrico - La f.e.m. della termocoppia viene utilizzata per alimentare un galvanometro la cui bobina e l’indice a essa collegato ruotano di un angolo proporzionale alla corrente erogata dalla termocoppia e quindi la scala del galvanometro può essere graduata direttamente in °C. L’apparecchiatura è costituita dalle seguenti parti: i due fili (a) (b) della coppia; i tubetti K di refrattario per l’isolamento dei fili della coppia; il tubo A di protezione; la flangia G di fissaggio; la testa di connessione B portante una morsettiera alla quale fanno capo gli estremi della coppia e il cavo compensato che collega la coppia allo strumento indicatore (il cavo compensato è costituito da metalli o leghe che, possedendo uguali caratteristiche termoelettriche nei punti di giunzione, originano f.e.m. praticamente uguali e di segno opposto a quello della coppia misuratrice annullando le cause di errori); l’eventuale prolungamento del giunto freddo mediante un cavo compensato C ha lo scopo di allontanare il giunto freddo dalle influenze termiche del forno; il manicotto di connessione D; la linea di collegamento E; lo strumento indicatore F.

Termocoppia: ab = fili della coppia;

K = tubetti di refrattario per l’isolamento elettrico;

A = tubo di protezione per pre- servare la termocoppia dalla corro-

sione e dalle sollecitazioni meccaniche; G = flangia; B = testa di connessione

da collegare al galvanometro tarato in °C.

Termocoppia con sistema galvanometrico.

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Il metodo galvanometrico porta a errori le cui cause sono:

a) variazione della resistenza elettrica del circuito per:

– la variazione della temperatura ambiente cui è soggetta la linea di collegamento,

– la variazione della lunghezza della coppia inserita nel forno,

– le alterazioni (dimensionali e strutturali) dei fili della coppia per la continua esposizione al calore,

– le alterazioni dei contatti;

b) variazioni che si manifestano con il tempo nel campo magnetico e nelle molle antagoniste dello strumento.

Metodo potenziometrico - Le cause di errore del precedente metodo

sono completamente eliminate nel metodo potenziometrico,

mediante il quale non si misura una intensità di corrente bensì una

f.e.m. rilevata quando nel circuito non circola corrente; ciò si ottiene

opponendo alla f.e.m. incognita, generata dalla termocoppia sotto

l’azione del calore, una f.e.m. nota variabile a volontà (campione). Lo

schema elettrico del circuito potenziometrico è rappresentato a lato.

Spostando il commutatore H a destra nella resistenza tarata CD

circola la corrente fornita dalla pila B; alla tensione fornita dalla pila B

si oppone la tensione della pila campione S. Si regola quindi la

posizione del cursore del reostato di regolazione della corrente

collegato in serie alla pila B fino a quando il galvanometro G segna

zero e pertanto, essendosi stabilite due tensioni uguali e contrarie,

non circolerà nessuna corrente (taratura del circuito). Si ricorda che

nel metodo galvanometrico il galvanometro ha la funzione di

misurare la f.e.m., mentre nel metodo potenziometrico ha solamente

la funzione di «avvertire» la presenza di corrente. Sostituito al

circuito della pila campione S il circuito della termocoppia M mediante lo spostamento a sinistra del

commutatore H, il circuito della termocoppia M risulta squilibrato rispetto al circuito tarato della pila B e

pertanto nella resistenza CD circola una corrente la cui intensità è indicata dal galvanometro G. Si manovra

quindi il cursore F fino a quando il galvanometro registra di nuovo zero e in questa posizione si esegue la

lettura diretta della temperatura sulla scala che è disposta attorno alla resistenza CD e il cui indice è il

cursore F. La taratura del circuito è compiuta automaticamente da opportuni dispositivi e inoltre può essere

applicato al circuito potenziometrico un apparato autoregolatore registratore della temperatura.

Misurazione della temperatura con circuito potenzio-

metrico.

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Pirometri ottici

Questi strumenti misurano le temperature tramite

captazione di energia raggiante emessa dai corpi

riscaldati. I pirometri ottici si dividono in due categorie:

1. quelli che misurano, sotto forma di energia termica, la

radiazione totale che cade sul corpo ricevente dello

strumento;

2. quelli basati sul fatto che l’intensità della luce del corpo

incandescente è proporzionale alla temperatura.

Lo schema di un pirometro del primo tipo è riportato qui

a fianco.

Le radiazioni che provengono da un corpo caldo sono

concentrate da una lente obiettivo Ob sulla foglia di

platino P annerita, sulla quale è saldata una sottile

termocoppia che riscaldandosi assume una temperatura

proporzionale alla quantità di energia ricevuta senza

rifletterne nemmeno una parte. La termocoppia è

collegata a un circuito galvanometrico o potenziometrico

che indica e registra la temperatura nel campo fra 1000 e

2500 °C, con possibilità di collegamento con apparecchi

di vari tipi per la regolazione automatica della

temperatura. Lo schema di un pirometro della seconda

categoria è riportato qui di seguito.

La misurazione della temperatura si effettua regolando la posizione del reostato R fino a che la corrente

continua circolante nel filamento incandescente ausiliario F è di intensità tale da portarlo alla stessa

luminosità del corpo in esame. Poiché l’occhio è in grado di giudicare l’uguaglianza delle due luminosità (e

quindi delle temperature) con un’incertezza dell’ordine di 1 °C a 1000 °C, si ritiene che tale uguaglianza sia

raggiunta quando osservando il corpo in esame nell’oculare Oc il filamento scompare (cioè non è più

distinguibile), e perciò lo strumento ha preso il nome di pirometro ottico a filo scomparente. La posizione del

cursore del reostato R indica la temperatura su un’apposita scala.

Con i pirometri ottici di questa categoria si possono misurare temperature normalmente superiori a 1000 °C

e, poiché non è necessario il contatto fisico, la misurazione si può eseguire anche con i corpi in movimento.

Ardometro o pirometro ottico a radiazione totale.

Pirometro ottico a filo scomparente.

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L’inconveniente grave di questo pirometro è quello di non poter essere collegato a dispositivi di regolazione

e/o di indicazione.

Esistono anche pirometri più perfezionati, quali quelli che impiegano sensori

termoelettrici (termopile) o fotoelettrici (fotomoltiplicatori, fotodiodi) in grado di

assicurare un’incertezza di 0,01 °C e di utilizzare il segnale elettrico di uscita

come segnale di comando per la regolazione automatica di processi produttivi.

Inoltre questi sensori elettrici consentono di sfruttare anche la radiazione

infrarossa ai fini della misura, radiazione invisibile all’occhio ma sempre presente

qualunque sia la temperatura del corpo emittente: questo fatto permette di

estendere il campo di misura dei pirometri a radiazione sotto i 500 °C. Il loro

impiego non richiede il contatto fisico con il corpo di cui si vuole misurare la

temperatura.

7.15 La misurazione del diametro di particelle

Numerose sono le tecnologie che utilizzano materiale particellare, processi di sinterizzazione, crescita

additiva, fusione... ma la determinazione delle dimensioni delle particelle, specie quando queste sono

irregolari, risulta spesso ambigua. Si sa per esempio che la dimensione, la forma e la distribuzione

granulometrica delle particelle risultano determinanti per l’evacuazione dei gas durante la colata, per la

capacità di contrastare le spinte metallostatiche e per la finitura superficiale.

Normalmente sono disponibili i dati relativi alla distribuzione granulometrica delle polveri utilizzate, ma questi

valori sono insufficienti a caratterizzare la geometria delle particelle e, come già anticipato, spesso risultano

ambigui in quanto non è evidente come viene misurata la dimensione della particella. L’uso di setacci non

risolve sicuramente queste ambiguità.

L’utilizzo del microscopio, data la sua precisione, può risultare determinante per l’analisi della dimensione di

particelle, anche se alcune delle tecniche utilizzate e previste dalla normativa si basano su valutazioni

soggettive. Tuttavia, se vengono seguiti i principi base di campionamento, preparazione e conteggio, si può

eseguire un calcolo preciso. La norma ASTM standard E 20 descrive minuziosamente l’utilizzo del microscopio

per il dimensionamento delle particelle. Vengono utilizzate diverse tecniche per misurare particelle con forma

irregolare, quando vengono osservate al microscopio: ciò ha portato ad avere modalità di misurazione che

classificano le particelle in termini di una equivalente particella sferica.

Sono di seguito indicate alcune tecniche di misurazione di particelle con forma irregolare.

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• Diametro di Feret (F): fornisce la massima lunghezza della

particella misurata in una dimensione fissata.

• Diametro di Martin (M) : esprime la lunghezza di una linea che

divide in due parti uguali l’area dell’immagine della particella.

Tutte le particelle vengono misurate nella stessa direzione (a

fianco, sopra).

• Diametro dell’area proiettata (da): misura il diametro di un

cerchio avente la stessa area dell’immagine bidimensionale della

particella (a fianco, sotto).

• Dimensione più lunga (Fmax): misura il massimo diametro di

Feret per ogni particella. Nessuna direzione fissata.

• Diametro del perimetro (dp): fornisce il valore del diametro di un

cerchio avente la circonferenza pari al perimetro della particella.

• Massimo segmento orizzontale (Imax): misura la lunghezza della

linea più lunga che può essere tracciata attraverso la particella in

una direzione fissata.

Per meglio evidenziare le problematiche connesse con la

misurazione del diametro delle particelle, si riportano nella tabella

seguente i diversi valori ottenuti nella misurazione di una sabbia

silicea e di una sabbia a base di zirconio prerivestite con resina

fenolica con le diverse tecniche di misurazione. Accanto al valore

numerico si deve necessariamente fornire anche la tecnica

utilizzata.

Valore dei diversi tipi di diametro ottenuti nella misurazione di una sabbia silicea e di una

sabbia a base di zirconio prerivestite con resina fenolica.

Denominazione Sabbia silicea (µm) Sabbia base zirconio (µm) Diametro di Feret (F) 143,0 148,3 Diametro di Martin (M) 134,4 140,3

Diametro dell’area proiettata (da) 147,3 133,8 Dimensione più lunga (Fmax) 175,3 170,9 Diametro del perimetro (dp) 155,9 161,3

Massimo segmento orizzontale (Imax) 159,1 132,2

Misura del diametro di particelle irregolari. Sopra, il diametro di Martin (M) esprime la lunghezza di una linea che divide in due parti uguali (biseca) l’area dell’immagine della particella. Tutte le particelle vengono misurate nella stessa direzione. Sotto, il diametro dell’area proiettata. In questo caso è misurato il diametro di un cerchio avente la stessa area dell’immagine bidimensionale della particella. Entrambe le immagini si riferiscono a una

sabbia silicea prerivestita con resina fenolica.

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La produzione di oggetti per cera persa nell’antichità

Il processo che oggi denominiamo di microfusione era noto già nell’antico Egitto, ma è in epoca classica e in

particolare con Roma che il processo assunse connotati industriali. Quando si cominciarono a produrre

oggetti metallici dalla struttura più complessa, come la grande statuaria, le tecniche si affinarono e si sono

evolute in due soluzioni diverse: il procedimento a cera persa diretto e quello indiretto.

Il procedimento a cera persa diretto comprendeva varie fasi: dapprima si modellava direttamente con la cera

l’oggetto che si voleva ottenere se era di piccole dimensioni, con i particolari e avendo cura di plasmare,

sempre in cera, anche i condotti per la fuoriuscita della cera stessa che successivamente serviva per

l’immissione del metallo fuso e la fuoriuscita di gas prodotti durante la fusione. Si poneva poi questo oggetto

in cera all’interno di un recipiente che, una volta colmato con del materiale refrattario quasi liquido (gesso,

sabbia mescolata ad acqua, terracotta frantumata), si faceva essiccare. Una volta seccato, il recipiente

veniva rovesciato e posto a contatto con una fonte di calore, che provocava lo scioglimento della cera e

quindi la sua fuoriuscita; si formava di conseguenza una cavità, corrispondente al negativo del manufatto da

ottenere. All’interno di tale cavità veniva colato il metallo fuso, che andava a occupare il posto tenuto prima

dall’oggetto in cera e ne riproduceva esattamente la forma.

Nel caso di statue di grandi dimensioni, che non potevano essere piene all’interno, il metodo era così

modificato: la parte interna dell’oggetto, in cui non doveva penetrare il bronzo, era realizzata con materiale

refrattario che riproduceva in maniera grossolana la forma dell’oggetto stesso. Questa parte interna veniva

ricoperta con uno strato di cera accuratamente lavorato, con uno spessore di pochi centimetri. Il metodo

procedeva poi come visto in precedenza. Le statue prodotte rimanevano così piene all’interno non di bronzo,

ma di quel materiale refrattario che aveva formato la parte interna e che poteva anche essere fatto uscire

attraverso dei fori.

Fusione a cera persa con metodo diretto.

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Il metodo sopra descritto era lungo e oneroso: non si prestava quindi per la produzione di statue che

dovevano essere replicate in un certo numero di copie. Per questo, fu sviluppato un processo a cera persa

detto indiretto: con questo procedimento si realizzava un modello di argilla in tutto uguale alla statua che si

voleva realizzare. Sulla statua di argilla venivano applicate delle lastre di argilla in modo da ottenere una

copia in negativo dell’oggetto da produrre, scomposto in tante parti. Su ciascuna di queste parti in negativo

era poi riportato uno strato di cera che replicava fedelmente la singola parte dell’oggetto da ottenere. Questo

consentiva di avere tante copie dello strato di cera, che nella fusione doveva essere occupato dal bronzo,

senza ricorrere a un artista, contrariamente a quanto accadeva nel procedimento a cera persa diretto. Le

singole lastre di cera erano poi unite tra loro per formare parti più complesse, ad esempio il busto, le gambe

e le braccia di una statua: si realizzavano di fatto quelli

che oggi sono individuati come macrocomponenti

intermedi. Questi macrocomponenti erano fusi

separatamente e in seguito uniti per saldatura: per questo

alle estremità da unire erano ricavate delle cavità (come

una merlatura di una torre) nelle quali veniva colato

bronzo fuso che realizzava appunto la saldatura (vedi a

fianco). Questa soluzione tecnologica spiega la grande

diffusione presso il mondo romano di copie di statue

greche altrimenti non producibili, a causa dei costi, in tale

quantità.

Unione mediante saldatura con colata di bronzo fuso dei singoli macrocomponenti della statua.