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RIVISTA DELLA BANCA REGIONALE EUROPEA GRUPPO UBI BANCA NUOVA SERIE INVERNO 2009-2010 SALVATORE ROSSI GIUSEPPE CULICCHIA CARLO PETRINI

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RASSEGNA – RIVISTA TRIMESTRALE DELLA BANCA REGIONALE EUROPEA – VIA ROMA, 13 – 12100 CUNEO (ITALIA) – DIRETTORE RESPONSABILE: CARLO BENIGNIAUTORIZZAZIONE DEL TRIBUNALE DI CUNEO N. 2/78 DEL 14-3-1978

SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE 70% FILIALE DI CUNEO, AUTORIZZAZIONE N. 757/DC/DCI/CN DEL 01/12/00

RIVISTA DELLA BANCA REGIONALE EUROPEAGRUPPO UBI BANCA

NUOVA SERIE INVERNO 2009-2010

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SALVATOREROSSI

GIUSEPPECULICCHIA

CARLO PETRINI

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GUARDAREOLTRE

LA CRISI

La crisi dell’economia reale ha investito l’Italia come tutti gli altri Paesi industrializzati. Secondo gli osservatori più ottimisti il peggio è passato; secondo altri deve ancora venire, soprattutto per quanto riguarda l’occupazione e le conseguenti, possibili tensioni sociali. Gli indicatori sono diversi e non danno risposte univoche; certo è che la ripresa prossima ventura, che molti collocano nell’orizzonte del 2011, non sarà la semplice chiusura di una parentesi, con il ritorno alle precedenti consuetudini. La nuova realtà imporrà una riflessione sul precedente modello di sviluppo, che presupponeva una crescita illimitata dei consumi, e dovrà rispettare regole da far valere sul piano internazionale, per evitare il ripetersi di altre crisi innescate dalla speculazione finanziaria.

Sono in corso cambiamenti di fondo negli equilibri mondiali, sul piano della politica e dell’economia, strettamente interconnesse; i problemi sono evidenti, le soluzioni molto meno. Quale sarà il ruolo del dollaro, nel medio-lungo periodo, a fronte della crescita del peso della Cina? Quale la “governance”di un sistema globalizzato e al tempo stesso multipolare? Vi sarà una risposta vera alle tematiche dell’ambiente? Gli interrogativi sono aperti; tra i più importanti è quello che riguarda la capacità dell’Unione Europea di essere qualcosa in più rispetto ad un insieme di tante singole politiche nazionali. Sarebbe auspicabile avere politiche e strategie di lungo termine, perseguire grandi progetti, muoversi su un orizzonte temporale proiettato ben oltre le immediate scadenze elettorali; l’alternativa è una sicura marginalizzazione dell’Europa, a fronte delle nuove aree emergenti. Potranno i problemi diventare opportunità? L’augurio, per l’anno che comincia, è che il “sistema Italia” sappia cogliere l’occasione della crisi per affrontare le arretratezze strutturali che ne hanno sinora limitato la competitività. Al riguardo, è illuminante l’analisi di Salvatore Rossi, Direttore centrale della Ricerca economica e le relazioni internazionali della Banca d’Italia, con la quale si apre questo numero di “Rassegna”.

Per uscire dalla crisi, le banche italiane, solide e legate all’economia reale, stanno facendo la loro parte. Sicuramente la stanno facendo la Banca Regionale Europea e le banche del Gruppo UBI Banca, come sempre vicine alle famiglie, alle imprese, al territorio. L’Italia dà il meglio di sé nelle emergenze; tutti insieme dobbiamo impegnarci in uno sforzo collettivo e ritrovare lo spirito che consentì la ricostruzione del Paese negli anni ’50. E’ difficile, ma possibile.

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“Nel concerto dei paesi avanzati l’Italia e la sua economia suonano in controtempo da molti anni” è la conclusione a cui è giunto Salvatore Rossi, direttore dell’area ricerca economica e relazioni internazionali della Banca d’Italia. Ai melomani viene in mente un contrasto ritmico, un artificio musicale da usare con parsimonia per ottenere un effetto particolare. L’Italia, invece, è in contro-tempo da un paio di decenni o forse più, incapace quindi di seguire il ritmo: “Almeno dai primi anni Novanta, forse addirittura dagli anni Settanta. In quegli anni più remoti, mentre le imprese degli altri s’ingrandiscono, le nostre iniziano a rimpicciolirsi, ponendosi in una condizione che si rivelerà svantaggiosa successivamente” si legge in “Controtempo”. “Vent’anni più tardi, all’avanzare della globalizzazione, noi restiamo attardati in una specializzazione settoriale da paese sottosviluppato; mentre gli altri sfruttano la rivoluzione tecnologica per diventare più produttivi e arricchirsi, noi stentiamo a mantenere l’efficienza e il tenore di vita medi, accrescendo solo le disuguaglianze sociali; di fronte al progredire nel mondo della liberalizzazione e della privatizzazione delle parti pubbliche dell’economia noi indugiamo neghittosi, per la ostinata resistenza di chi teme di perdere potere economico ed elettorale; dello sviluppo della finanza innovativa non cogliamo gli aspetti che più ci servirebbero a far evolvere l’assetto proprietario e dimensionale delle nostre imprese”.

I problemi italiani, infatti, sono strutturali: per anni le svalutazioni facili e gli aiuti statali hanno tenuto in piedi un settore produttivo non all’altezza della concorrenza internazionale. La globalizzazione, la rivoluzione tecnologica, l’Unione Europea hanno obbligato il nostro paese a far fronte ai problemi di fondo che per anni si era cercato di nascondere. Dagli anni Novanta, di fronte alle novità rivoluzionarie delle tecnologie digitali e della globalizzazione, l’Italia e la sua economia fanno fatica, incapaci di rimettersi al “tempo giusto” con gli altri paesi. Il marchio, la qualità del made in Italy non bastano più. Dai paesi emergenti, ormai, la competizione tocca anchele funzioni, i compiti e le abilità più avanzate. Le nostre imprese, però, non crescono, rimangono piccole, spesso a dimensione familiare: questo è

l’ostacolo più grande all’adozione di tecnologie avanzate sia nell’organizzazione d’impresa sia nel prodotto. Le cause sono fattori esterni, come la forza dei concorrenti, ma anche scelte precise per restare nascosti agli occhi dei sindacati o del fisco o, caso ancor più allarmante, per non mettere in pericolo il controllo familiare. I problemi economici italiani dipendono anche da una struttura finanziaria che pur in evoluzione da molti anni, stenta ad assumere il ruolo richiesto per aiutare il settore produttivo e accompagnarlo nella sua trasformazione. Rossi pensa in parti-colare al ruolo del private equity per le imprese, ma anche a una nuova cultura per le famiglie per farle diventare investitori un po’ più “evoluti” dei semplici “BOT people”.“Controtempo” evidenzia due passaggi obbligati per il nostro paese: da una parte il rinnovamento di una cultura e tradizione giuridica sorde alle ragioni del mercato e delle libertà economiche. Rossi compara con una breve storia di fantasia (ma non troppo) le procedure per creare una fondazione negli Stati Uniti e in Italia: in un giorno e una firma tutto si conclude a New York, mentre servono trafile interminabili presso notai e tribunali a Roma. E’ un dato di fatto di conoscenza comune che pesa enormemente sulle capacità imprenditoriali e di sviluppo del nostro paese.

L’ITALIA DI fROnTE ALLA CRISI GLObALEUn’analisi di salvatore rossi, direttore centrale dell’area ricerca economica e relazioni internazionali della Banca d’italia

di AndreA GArnero

Nel concerto dei paesi avanzati, l’Italia e la sua economia suonano in controtempo da molti anni. All’avanzare della globalizzazione siamo rimasti attardati in una specializzazione del lavoro obsoleta. Mentre gli altri sfruttavano la rivoluzione tecnologica, noi abbiamo stentato a mantenere l’efficienza e il tenore di vita medi. Quando nel mondo spirava il vento delle liberaliz-zazioni e delle privatizzazioni, noi abbiamo indugiato. E la crisi ha colpito l’Italia mentre si scorgevano i primi segnali di ristrutturazione del sistema produttivo. Ne potremo uscire? E a quali condizioni?Sono i temi trattati nel più recente libro di Salvatore Rossi, “Controtempo”. Pur scrivendo a titolo personale, l’autore dispone del punto di osservazione privilegiato della Banca d’Italia.Salvatore Rossi ha pubblicato studi sullaintegrazione dei mercati europei, sulla bilancia dei pagamenti e sulla politica economica italiana, sulla rivoluzione delle tecnologiedell’informazione, sulla crisi di crescita della nostra economia. Tra i libri più recenti, “La regina e il cavallo” nel 2006 e “La politica economica italiana 1968-2007”, entrambi editi da Laterza.

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Rossi cita spietato i danni che causa il nostro contorto sistema giuridico: esso determina comportamenti opportunistici perché invece di ripagare i debiti è più conveniente farsi chiamare in giudizio, tanto con i tempi lunghi della giustizia alla fine il creditore, stremato dall’attesa, accetterà un compromesso. Oppure gli “inquinamenti normativi” determinati da norme mal scritte e continuamente cambiate o le erratiche interpretazioni della giurisprudenza. Anni di riforme del codice di procedura civile e della pubblica amministrazione non hanno ancora portato i risultati sperati: il problema è culturale. Nel nostro sistema di diritto, infatti, la giurisdizione è prevalentemente a-economica. Non esiste quindi una valutazione di costi-benefici per la collettività.

L’altro passaggio obbligato è il ruolo del sindacato. Secondo Salvatore Rossi anziché concentrarsi sulla difesa dei lavoratori, esso ha assunto il ruolo di un partito politico. Prova ne sono gli scioperi generali e il ruolo della Triplice (CGIL, CISL e UIL) come vera e propria istituzione politica e non solo come associazione privata che difende interessi particolari e settoriali, ancorché vasti e diffusi. Si tratta di un giudizio severo che l’autore argomenta discutendo la rapida diffusione del precariato in Italia. Le forme contrattuali nuove che venivano introdotte e disciplinate dalla legge sono state interpretate come una facile scappatoia dalla persistente rigidità delle norme in materia di licenziamento, rigidità acuita dalla inefficienza dei tribunali del lavoro. Le cause sarebbero entrambi i malfunzionamenti fondamentali che Rossi sottolinea: il ruolo spesso anacronistico del sindacato e la distanza del diritto dai problemi prioritari della società, perversamente alleati. Da un lato i sindacati hanno girato il capo dall’altra parte occupati in faccende che sembravano ben più rilevanti dal punto di vista della visibilità politica. Dall’altro il legislatore, inoltre, ha compiuto l’errore tipico figlio della nostra cultura giuridica: ha scritto norme astratte, coerenti e severe sulla carta, senza preoccuparsi della loro applicabilità. Rossi cita le norme sui cosiddetti co.co.pro che pensate per accrescere le tutele, hanno in realtà reso possibile ai datori di lavoro assumere dei “neo-schiavi”, spacciandoli per liberi professionisti incaricati di realizzare un progetto, certi che mai nessun ispettore del lavoro o sindacalista sarebbe andato a controllare.

Mentre si stavano intravedendo i primi segnali di recupero a questi problemi strutturali è arrivata la crisi. Una crisi esterna, di cui il nostro paese non ha colpe. Rossi racconta che il libro nacque origina-riamente dalla volontà di documentare, alla stregua di alcune ricerche condotte in Banca d’Italia, il faticoso processo di ristrutturazione del sistema delle imprese per ridare, evidenze alla mano, un po’di

ottimismo. “La risacca coglie il nostro paese mentre faticosamente cercava di recuperare, insieme con i ritardi tecnologici, anche quelli di cultura del mercato e dell’efficienza. È l’ennesimo caso di “controtempo” ma stavolta dobbiamo servircene a nostro vantaggio”. Alcune caratteristiche del sistema italiano che sembravano antiquate come l’alto risparmio delle famiglie, banche saldamente basate sulla raccolta di questo risparmio, un assetto di regole e di prassi di supervisione sulla finanza capillari e attente erano invece, e restano, fattori di equilibrio secondo Rossi.

L’autore teme che il processo di recupero dei veri valori del liberalismo, che stava avvenendo nella sfera politica come in quella economica, venga messo in pericolo dalla tempesta provocata dalla crisi. Cita Luigi Einaudi, rendendo esplicito il filone culturale cui fa rifermento: “liberisti sarebbero coloro che inter-pretano il principio del laissez faire come un principio universale […] e la scienza economica non ha nulla a che fare con la concezione religiosa del liberismo”. Una distinzione spesso non chiara e che Rossi vuole recuperare: per uscire dal “controtempo” l’Italia ha bisogno di recuperare il valore del rispetto dei ruoli fra i soggetti della vita pubblica (partiti, sindacati, istituzioni), il valore di un interesse pubblico da misurare pragmaticamente e il valore della libera concorrenza, da tutelare con regole severe e meccanismi applicativi efficienti. Rossi non è pessimista: per immaginare il futuro del sistema produttivo italiano bisogna aspettare di capire cosa stia succedendo ai germogli di ristrutturazione durante la gelata provocata dalla crisi. L’Italia, spesso ha dimostrato di riuscire a cavarsela: l’autore cita la prima grande ondata di industrializzazione a cavallo fra il XIX e il XX secolo e il “miracolo economico” dei due decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale. In entrambi quegli episodi l’Italia seppe cogliere il segno dei tempi nuovi, nelle tecnologie dominanti come nell’apertura degli scambi internazionali, e vi reagì creativamente e costruttivamente. “Controtempo” è una lettura utile e preziosa per coloro che vogliono fare un passo indietro e analizzare la crisi attuale, con i suoi rischi e potenzialità, da una certa distanza: in una prosa piacevole e non ostica, il lettore troverà un’analisi attenta dei problemi di fondo del nostro Paese che se non risolti condannano l’Italia a rimanere in controtempo rispetto agli altri paesi avanzati favorendone il declino. Una guida importante per uscire dalla crisi avendone imparato la lezione di fondo.

“Controtempo”, di Salvatore Rossi, Laterza, 2009, pp. 187, 15 euro

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concorrenziale. È, però, difficile mantenerlo in funzione ed è necessario il lavoro continuo di autorità a ciò preposte. Servono molte regole. Non un numero infinito, naturalmente. La regolamentazione deve essere la minima indispensabile per rendere il mercato perfettamente funzionante, senza costi eccessivi. La crisi globale che ci ha colpiti è essenzialmente una crisi americana, esplosa in quell’economia e diffusa per contagio a tutto il mondo. Negli scorsi trent’anni negli Stati Uniti, per ragioni complesse, fra le quali ha avuto a mio avviso un peso forte l’ideologia politica, sono state smantellate le poche regole presenti. Questa crisi quindi è frutto di scelte politiche consapevoli, non del caso né solo degli appetiti avidi degli gnomi di Wall Street. È il frutto di scelte politiche che hanno inteso smantellare quel po’ di regole che c’erano e limitare l’operato dei supervisori.

Ma chi deve governare la finanza globale? Lo Stato ha confini definiti, spesso molto limitati, mentre la finanza è mondiale. Per fare un esempio recente, quello che succede a Dubai si ripercuote a New York e viceversa. Esistono alcuni organi a livello mondiale come il Fondo Monetario Internazionale e il G20, ma con pochi poteri. Secondo Lei, hanno fatto il massimo contro la crisi con i limitati strumenti a loro disposizione? Avranno più forza nel dopo crisi?Per quanto riguarda il passato penso che non sia stato fatto tutto quel che si doveva. È vero che la finanza è globalizzata ma è anche vero che il suo cuore risiede negli Stati Uniti. Se negli ultimi decenni non si fosse permesso, ad esempio, che le cinque grandi banche d’investimento americane fossero del tutto non regolate e non supervisionate, forse non ci troveremmo in questa situazione. Si sperava che si autoregolassero, ma questo è impossibile per la ragione spiegata prima. Si sono lasciati crescere i mercati over the counter3 senza controlli né regole. I nostri mercatini rionali di frutta e verdura sono sottoposti a regolazioni molto pesanti per l’igiene e l’occupazione di spazi pubblici, mentre il mercato mondiale dei CDS4 è cresciuto senza una regola e senza nessuno che controllasse la funzionalità e la correttezza di chi vi operava. Per quanto riguarda il futuro sono più ottimista: sono in atto sforzi intensi e diffusi per realizzare una ri-regolazione e fissare standard di controllo a livello internazionale, proprio perché si è capito che la finanza cross-border, quella che valica i confini dei paesi, è molto importante. Una regolazione solo nazionale, a macchia di leopardo, genera fenomeni di arbitraggio regolamentare. Da questo punto di vista ci sono delle ottime premesse. Il lavoro del Financial Stability Board5 trae efficacia dal fatto che esso è composto proprio da tutti i regolatori dei paesi avanzati del mondo, cioè da coloro che poi dovranno applicare le norme da essi stessi stabilite. Questo aspetto rende la discussione in seno al FSB particolarmente pragmatica e orientata al risultato da raggiungere, come per altro è stato riconosciuto anche dai G20 nelle ultime due riunioni. 3) I mercati over the counter, letteralmente oltre il banco, sono mercati la cui negoziazione si svolge al di fuori dei circuiti borsistici ufficiali. Vengono utilizzati per le transazioni all’ingrosso tra intermediari istituzionali (modalità prevalente per le euro-obbligazioni). Le contrattazioni avvengono in maniera informale, attraverso conversazioni bilaterali tra le parti (domanda e offerta), in maniera telefonica o telematica.4) Il credit default swap (CDS) è uno contratto swap (scambio) tipico del mercato over the counter che ha la funzione di trasferire il rischio connesso ai prodotti finanziari. È un “derivato” spesso utilizzato come una polizza assicurativa.

Lei sostiene che la crisi mondiale sia dovuta a una “mancanza dello Stato”, come per altro argomentato anche da Tommaso Padoa Schioppa1. Tuttavia, la finanza ha assunto dimensioni mondiali e non esistono istituzioni che riescano a regolamentarla. Alcuni suoi operatori, poi hanno tenuto comportamenti del tutto sregolati. Perfino il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, nel maggio 2007 si era spinto a dire: “Le istituzioni finanziarie e tra esse alcune delle maggiori banche internazionali hanno dato ulteriore impulso a questo processo, con la creazione di un sistema bancario ombra, composto di veicoli specia-lizzati nell’investimento e nella provvista di fondi sul mercato dei prodotti strutturali di credito2”. Si tratta di un’espressione forte sulla bocca del Governatore, no?Ha ragione a parlare di comportamenti sregolati: se non ci sono regole è perché nessuno le ha fissate e se anche ci sono regole ma non vengono fatte osservare è perché qualcuno non le fa osservare. Entrambe queste funzioni, fare le regole e farle rispettare, sono compiti dello Stato. In un passaggio del libro faccio riferimento alla dicotomia classica tra Stato e Mercato e cerco di andare oltre il velo delle apparenze, secondo cui tutto ciò che è successo sarebbe colpa dell’avidità, quindi di un difetto intrinseco del mercato. Tuttavia, il mercato, inteso come libera concorrenza, non è uno stato di natura: è una costruzione artificiale che l’umanità ha prodotto nell’ultimo battito di ciglia della sua storia, cioè nell’ultimo secolo e mezzo. È una costruzione che, se lasciata a se stessa, decade facilmente, perché la tendenza naturale degli agenti economici è verso il monopolio non verso il mercato, come già gli economisti classici del passato avevano sottolineato. Chi opera nel campo della produzione tende a diventare monopolista, è il suo “spirito animale” di imprenditore a sospingervelo. Tocca a una qualche funzione pubblica, emanazione dello Stato, porre dei limiti alle tendenze naturali nell’interesse collettivo. Questo è la grande scoperta dell’economia politica da Smith in avanti: è nell’interesse collettivo che il mercato funzioni in modo 1) Si veda precedente numero di Rassegna (n° 27 2009).2) Mario Draghi, Considerazioni finali, Assemblea ordinaria dei Partecipanti, Roma Banca d’Italia, 31 maggio 2008, p. 5. (corsivi nostri)

A qUALI COnDIzIOnI L’ITALIA POTRà USCIRE DALLA CRISI?intervista a salvatore rossiA curA di AndreA GArneroChe cosa sta succedendo ai germogli di ristrutturazione del nostro sistema produttivo sotto questa terribile grandinata? Alcune caratteristiche del sistema italiano -la cultura giuridica, il ruolo del sindacato - sono di freno.Il problema fondamentale sta nelle regole, nazionali ed internazionali, e nella loro efficace applicazione. Solo se proseguiremo nel recupero dei veri valori del liberalismo - nel senso einaudiano, non della religione dell’assoluto “laissez-faire” del mercato -, alla fine ritroveremo il tempo del progresso. Il nuovo libro “Controtempo” è l’occasione per un approfondimento sullo stato di salute dell’economia italiana e del suo tessuto finanziario e produttivo.

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L’Area ricerca economica e relazioni internazionali, diretta da Salvatore Rossi, è nata due anni fa. Essa ricompren-de le funzioni del vecchio Servizio Studi, a cui ha unito quelle di altre strutture della Banca che si occupavano di relazioni internazionali, di storia economica, di analisi economica del diritto, di statistica. Si tratta da sempre del pensatoio e della fucina della nostra banca centrale, da cui escono studi e linee guida non solo in campo mone-tario e finanziario ma anche, ad esempio, di economia e politica industriale, di mercato del lavoro, di analisi dei divari territoriali, di metodologia statistica ed econometri-ca. Vi lavorano circa 400 persone, di cui oltre cento fra economisti e statistici in possesso di un dottorato acquisito nelle migliori università del mondo. La selezione all’entrata è molto dura e lunga: é effettuata con le modalità di un concorso pubblico e prevede che ogni anno sia sollecitata una manifestazione d’interesse da parte di tutti coloro che stanno per conseguire un dottorato e che si presentano al cosiddetto job market mondiale degli economisti1. Dopo una prima scrematura dei curricula, la selezione prevede due passi: interviste in occasione del job market, seguite da seminari presso l’Area, in cui il candidato espone il suo lavoro di ricerca. Ai selezionati finali viene offerta una fellowship della durata di un anno, per condurre ulteriori ricerche presso l’Area, al termine della quale i candidati affrontano una ulteriore prova di selezione per ottenere un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Gli economisti e statistici dell’Area sono impegnati in lavori sia di ricerca pura sia di analisi dell’attualità con un orientamento di politica economica, finalizzata a fornire supporto tecnico al Governatore e ai dirigenti della Banca nelle decisioni connesse con le varie funzioni istituzionali, a iniziare dalla partecipazione ai lavori del Sistema europeo di banche centrali.L’Area comprende quattro Servizi (oltre a due unità di supporto amministrativo e informatico): il Servizio studi di congiuntura e politica monetaria fornisce il sostegno conoscitivo e tecnico per la definizione del contributo

della Banca d’Italia alla politica monetaria dell’Eurosistema. Esso svolge attività di ricerca e analisi sugli andamenti congiunturali nell’area dell’euro e in Italia, sugli scenari macroeconomici futuri, sugli andamenti della moneta, del credito e dei mercati finanziari. Effettua ricerche di teoria e metodologia econometrica e sviluppa e gestisce i relativi modelli. Il Servizio studi di struttura economica e finanziaria si occupa di ricerca e analisi sull’economia italiana, in particolare sulla sua struttura, reale e finanziaria, e artico-lazione territoriale, sulla finanza pubblica, sul mercato del lavoro, sulle politiche economiche, strutturali e di bilancio, sulle istituzioni giuridiche rilevanti per il funzionamento dell’economia, sulla storia economica del Paese. Il Servizio gestisce anche una delle più grandi biblioteche economiche d’Europa, con una collezione vasta e preziosa, vera e propria miniera per gli studiosi.Il Servizio studi e relazioni internazionali svolge ricerche e analisi sulla congiuntura, la struttura produttiva e finanziaria e le politiche economiche nei paesi avanzati esterni all’area dell’euro, nonché sul sistema monetario internazionale, i mercati finanziari, gli squilibri nei pagamenti, i rapporti di cambio e di competitività fra le principali aree mondiali. Un’attenzione particolare è prestata anche ai mercati emergenti e al commercio internazionale. Il Servizio statistiche economiche e finanziarie costruisce e diffonde le statistiche monetarie e finanziarie italiane, la bilancia dei pagamenti e la posizione sull’estero del Paese. Conduce varie indagini campionarie sui comporta-menti delle famiglie e delle imprese e ricerche e analisi sui metodi statistici e su vari aspetti dell’economia italiana.Sito web: http://www.bancaditalia.it/studiricerche

1) Ogni anno negli Stati Uniti, nella località in cui si svolge il meeting dell’American Economic Society, si tiene un “mercato” degli studenti delle migliori università, di ogni nazionalità. E’ il luogo in cui tutte le principali istituzioni pubbliche e private del mondo (centri accademici, banche centrali, organismi internazionali, ecc.) reclutano economisti al massimo della specializzazione, mediante interviste e seminari.

Le regole sono come la nottola di Minerva, si alzano a sera e arrivano dopo lo sviluppo di un fenomeno. Inoltre, è particolarmente difficile regolare quando va tutto bene. Ora forse si riuscirà a inquadrare gli strumenti che sono stati alla base della crisi, ma ne saranno di nuovo inventati altri nuovi, potenzialmente pericolosi. Siamo destinati a non imparare mai?Alla fine del secolo scorso si sviluppò una corsa tecnologica tra i produttori di cannoni e quelli di corazze per navi. Alternativamente gli uni o gli altri prevalevano: i produttori di cannoni trovavano sempre un cannone più potente per sfondare le corazzate, e i produttori di corazze riuscivano dopo un po’ a inventarne di più robuste. E’ un circolo senza fine.Il caso italiano offre un esempio interessante: per una volta abbiamo dato una lezione al mondo. Con delle regole ben disegnate e con delle autorità di controllo dotate dei necessari poteri il nostro sistema bancario è rimasto relativamente più al riparo, nell’infuriare della crisi, di quello di altri paesi. Lei citava prima il “sistema bancario ombra”: è una definizione nata in questi ultimi anni per designare i “veicoli speciali” (società controllate, con bilanci formalmente separati) che le grandi banche internazionali usavano sostan-zialmente per mettere la spazzatura sotto il tappeto, cioè per nascondere attività rischiose. L’illusione era che questi veicoli fossero realmente entità separate dal punto di vista giuridico e contabile. Poi alla

prova dei fatti si è capito che le case madri avevano mantenuto con essi legami stretti e sopportavano in ultima analisi il rischio. Questi veicoli speciali erano diventati talmente importanti da costituire un vero e proprio sistema bancario ombra. Ebbene la diffusione di questi strumenti in Italia non è stata consentita. Passiamo, dunque, all’Italia. Nel libro scrive che il nostro Paese ha bisogno di più finanza. È compatibile più finanza con più regolamentazione?Certamente sì. Quando dico che l’Italia ha bisogno di più finanza faccio riferimento a un problema specifico del nostro Paese: la difficoltà di molte imprese a crescere nella dimensione. Il problema non sta tanto nell’alto numero di piccole imprese, quasi quattro milioni, che può anzi essere considerato un indice di ricchezza di talenti imprenditoriali del nostro paese. Il problema è che quelle di loro che potrebbero non riescono a crescere, o non vogliono. In un sistema economico sano ogni anno dalla grande platea di piccole e piccolissime imprese se ne stacca un plotone che diventano medie e delle medie alcune diventano grandi. Questa dinamica in Italia funziona male. Nel libro scrivo che il film della struttura economica italiana è a fotogramma fisso. Le ragioni sono complesse, alcune perfino di tipo storico-antropologico, come il ruolo della famiglia nella società e negli assetti proprietari. Esiste però un tipo particolare di finanza specializzata nella crescita delle imprese: penso al

L’AREA “RICERCA ECOnOMICA E RELAzIOnI InTERnAzIOnALI” DELLA bAnCA D’ITALIA

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UnA MAnCAnzA DELLO STATOChi ha mancato in questa vicenda, lo Stato o il Mercato? Lo Stato, non c'è dubbio. In virtù di un paradosso.Un risultato secolare, solido e netto, del pensiero eco-nomico è che, il Mercato, o è «regolato» o non è. Se lo Stato pratica un laissez faire assoluto, il libero mercato concorrenziale non dura a lungo, finisce con l'essere sof-focato dalla naturale tendenza dei soggetti che vi operano ad attenuare la concorrenza o a collocarlo su traiettorie esplosive. È una legge di natura, una sorta di entropia. Il mercato concorrenziale è il regime ottimo dal punto di vista dei «compratori», cioè della collettività, perché mantiene i prezzi al livello più basso possibile; ma, per la stessa ragione, è quello pessimo dal punto di vista dei «venditori», che sono una minoranza nella società, ma agguerrita, e vi si oppongono in ogni modo. Esso è una condizione-limite, a cui si può tentare di avvicinarsi, per restarvi nei pressi, a prezzo di sforzi costanti e indefessi da parte di chi ha responsabilità pubbliche. Occorrono re-gole esaustive e precise, regolatori e supervisori occhiuti, attenti, non catturabili dagli interessi dei «venditori». Si può discutere di efficienza, si può pretendere che l'one-re inevitabilmente posto a carico delle imprese a causa dell'apparato di regole e controlli sia il più possibile non distorsivo, lieve e non burocratico, ma le cose stanno in quel modo.Questa è peraltro l'essenza di quella che io ritengo essere la parte più avanzata del pensiero liberale, che è sempre stata contraria a far discendere dai grandi principi di li-bertà una «religione liberistica» nelle cose economiche. Scriveva Einaudi quasi ottanta anni fa: “Dalla frequenza dei casi in cui gli economisti, per ragioni contingenti, in-clinano a raccomandare soluzioni liberistiche dei singoli problemi concreti, è sorto un terzo significato, che io direi religioso, della massima liberistica. Liberisti sarebbero in questa accezione coloro i quali accolgono la massima del lasciar fare e del lasciar passare quasi fosse un principio universale... Tutta la storia posteriore della dottrina sta a dimostrare che la scienza economica, come dianzi si chia-ri, non ha nulla a che fare con la concezione religiosa del liberismo”.Codesta concezione religiosa che Einaudi così severa-mente stigmatizzava è risorta nella seconda metà del No-vecento in conseguenza di un dibattito ampio e serrato sui fondamenti dell'economia pubblica.La teoria standard della regolazione come basilare in-teresse pubblico (un lascito degli economisti che hanno lavorato fra il 1930 e il 1960) era basata su due assun-zioni: che i mercati lasciati a se stessi spesso «falliscono», per problemi di monopolio o di esternalità; che i governi sono in generale animati da buone intenzioni e sono ca-paci di correggere i fallimenti del mercato attraverso la regolazione. A partire dagli anni Sessanta questi assunti hanno preso a essere criticati in misura ampia e crescen-te, e al loro posto sono stati sostenuti i seguenti tre: 1) i mercati stessi, o al più l'esercizio di potestà regolatorie da parte di privati a ciò incaricati dall'autorità pubblica,

private equity (letteralmente capitale privato) o al venture capital, meno diffusi da noi che negli altri paesi avanzati. In Italia un intermediario di private equity potrebbe aiutare molte aziende piccolo-medie che avrebbero concrete opportunità di crescita, per ragioni sia tecnologiche sia di mercato, a non rinunciarvi solo per il timore della famiglia proprietaria di perdere il controllo dell’impresa se si quotassero in borsa, o di non avere le competenze manageriali sufficienti.

Passando all’economia reale, lei scrive che il marchio e il made in Italy non sono più sufficienti per la nostra struttura produttiva. Siamo quindi destinati a un declino inesorabile?In un mio libro precedente [La regina e il cavallo, ndr] avanzavo un’opinione scettica su quelle aziende che si affidano esclusivamente alla forza di un marchio. Mi sembrava una strategia difensiva e quindi alla lunga perdente. In quest’ultimo libro ammetto come in svariati casi possa trattarsi di una buona cosa creare o potenziare un marchio, ma resto dell’idea che non possa essere l’unica direttrice strategica. Affidarsi solo alla potenza di un marchio trascurando la qualità e l’innovazione tecnologica è molto rischioso, perché il marchio dipende in ultima analisi dalla psicologia dei consumatori, che non si può ritenere immutabile senza continue sollecitazioni che attengano alla sostanza del prodotto, e non solo alla sua reputazione acquisita nel passato. Sulla questione generale delle sorti del sistema produttivo italiano, come Banca d’Italia abbiamo fatto due vaste indagini nel 2004-2005 e nel 2007-2008. I segnali macroeconomici erano preoccupanti e si parlava di declino del Paese: nel 2004-2005 scoprimmo un ritardo forte delle imprese ad adeguarsi alla globalizzazione e alla rivoluzione tecnologica. Scoprimmo anche alcuni casi positivi. Nel 2007-2008 trovammo segni ancora migliori: numerosi germogli di ristrutturazione, di ammodernamento degli impianti, di riorganizzazione, di internazionalizzazione, erano comparsi sui vecchi tronchi di molte imprese, soprat-tutto medie, appartenenti a ogni settore produttivo. Ed è allora che è arrivata la crisi mondiale, cogliendo il nostro sistema imprenditoriale in un momento di transizione delicato. Ora ci sono due scenari possibili: per usare ancora la metafora dei germogli, la gelata può bruciarli, con ciò facendo riapparire il rischio di declino sistemico, oppure rafforzarli, nel qual caso il rimescolamento di carte causato dalla crisi globale nella distribuzione planetaria dei vantaggi competitivi potrebbe offrire al nostro sistema opportunità insperate. È presto per dire quale dei due scenari prevarrà: in larga misura dipenderà dai comportamenti che sapranno tenere tutti i protagonisti di questa vicenda: le imprese stesse, le forze sociali, le banche e, soprattutto, i pubblici poteri responsabili delle politiche economiche.

ESTRATTI DA “COnTROTEMPO”

5) Il Financial Stability Board (FSB) é una istituzione tecnica che risponde al G20 (Gruppo dei 20 principali paesi del mondo) composto dalle autorità di regolazione finanziaria di tutto il mondo avanzato ed è presieduto da Mario Draghi.

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possono porre riparo a quasi tutti i fallimenti del merca-to, senza bisogno alcuno di intervento pubblico; 2) nei pochissimi casi in cui i mercati non funzionano corretta-mente, bastano i tribunali civili a risolvere le controversie che ne discendono; 3) se anche dovesse accadere che né mercati né tribunali civili riescono a risolvere il proble-ma, non ci riuscirà certamente l'autorità pubblica, che è di necessità incompetente, corrotta e «catturata» dagli interessi che dovrebbe dirimere, sicché essa può solo far peggio. Queste critiche vengono normalmente associate alla Scuola di Diritto ed Economia di Chicago e ai nomi di Coase, Stigler, Posner e altri.Questa posizione, se accettata nella sua interezza e por-tata alle estreme conseguenze, indurrebbe a bandire l'intervento regolatorio pubblico in ogni circostanza. Le correnti di pensiero che la sostengono sono indubbia-mente fra i punti più alti del pensiero economico del No-vecento. Ma negli ultimi venti anni, soprattutto nel mon-do anglosassone, si è costruita su quelle premesse una vera e propria religione, nel senso di Einaudi. Oggi sul banco degli imputati stanno alcune delle politiche nate da quella religione. In effetti, quell'impianto dottrinario aveva già iniziato a essere a sua volta criticato sia sotto il profilo teorico sia sotto quello empirico. Sul piano empi-rico, in particolare, si era notato il contrasto stridente fra i suoi precetti e la realtà di un mondo molto più ricco e al tempo stesso molto più regolato di cent'anni fa. La crisi finanziaria globale iniziata nel 2007 fa volgere l'evidenza empirica decisamente a suo sfavore.L'apparato di regolazione e supervisione dei mercati e degli intermediari finanziari negli Stati Uniti è stato reso debole e imbelle da scelte politiche precise e consape-voli, figlie degeneri della temperie intellettuale alimen-tata dalla Scuola di Chicago. Esso è frammentato in una molteplicità di enti (una sessantina, fra statali e federali), difficilmente coordinabili, ciascuno dei quali è posto in grado di vedere solo tasselli del puzzle, e a cui comunque sfugge la maggior parte del sistema finanziario, che vive-va (e in gran parte ancora vive) in condizioni di autore-golamentazione totale.II problema fondamentale dunque stava e sta nelle regole e nella loro efficace applicazione. Le polemiche odierne fra sostenitori e avversari del libero mercato e del libero scambio sono spesso prive di una vera materia del con-tendere, operano anzi un vero rovesciamento delle parti. La religione liberistica che vede, o finge di vedere, nell'in-tervento pubblico sempre e comunque una indebita com-pressione della libertà d'impresa si configura come una forma diabolica di statalismo: lo Stato, alleandosi con in-teressi privati, toglie al mercato concorrenziale l'aria per respirare (regole e controlli) per soffocano e promuovere il benessere di una casta di pochi privilegiati a detrimen-to di quello della collettività.La crisi globale di questi mesi è nata nel mondo finanzia-rio, politico, culturale americano, ed è figlia di una man-canza dello Stato: lo Stato ha mancato per inazione, non per eccesso di azione; per non aver voluto vedere e con-trastare una sequenza di evidenti fallimenti del Mercato.

GLOBALIZZAZIONE E CRISIQuante e quali colpe dobbiamo dare alla globalizzazione

nell'analizzare le cause profonde della crisi? La intercon-nessione su scala globale rivelata dalla crisi fra soggetti, intermediari, strumenti, regolatori e regole è enorme-mente complessa e intricata. Colpisce l'aspetto mondiale immediatamente assunto da una faccenda originariamen-te locale. L'esistenza di un mercato finanziario globale, unita alla fantasia degli ingegneri finanziari (uso la parola ingegneri non a caso, molti addetti alla finanza creativa lo sono, o matematici o fisici teorici), rende ormai quasi banale il vecchio detto paradossale secondo cui quando l'America prende il raffreddore, l'Europa starnutisce. Questa era una polmonite, però!Ora, di fronte a eventi di questo tipo - prima il prezzo della benzina raddoppia, poi mi ritrovo in portafoglio un titolo tossico senza saperlo, poi ancora la mia banca mi fa storie ad aumentarmi il credito perché a sua volta non riesce più ad approvvigionarsi di liquidità su un mercato globale paralizzato dalla sfiducia reciproca - come rea-gisce un cittadino americano, inglese, tedesco, italiano? Spesso, maledicendo la globalizzazione.Il problema è serio e concreto, ma il bersaglio è troppo generico per essere utile. Per orientarci meglio, dobbia-mo riandare a un concetto di fondo. La globalizzazione consiste in un complesso di fenomeni eterogenei, che coinvolgono l'economia «reale» (merci e servizi prodotti e scambiati), quella finanziaria, le persone fisiche, le loro idee e conoscenze, tutti accomunati da una caratteristica: l'accentuata mobilità, anche attraverso le frontiere, con-sentita dalla rivoluzione telematica e dalla scia di inno-vazioni tecnologiche che l'accompagna. È la tecnologia il primum movens, anche se le politiche di liberalizzazio-ne commerciale e finanziaria attuate in molti paesi negli anni Novanta hanno favorito il processo. Cercare di fer-mare o far tornare indietro l'innovazione tecnologica è vano e controproducente, come l'atteggiamento di quelle comunità passatiste americane che si rinchiudono in una valle isolata per vivere in un mondo di candele, cavalli e donne sottomesse.II problema fondamentale sta, lo abbiamo visto prima, nelle regole: nazionali e internazionali.Sul piano internazionale, l'assenza di un governo mondia-le dotato di poteri autoritativi fa sì che si debba procedere per consenso volontario di tutti i paesi coinvolti. Per gli scambi commerciali, dal dopoguerra a oggi le regole sono state quelle stabilite per via negoziale da tutti i paesi ade-renti alla Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Per la finanza, non c'era nulla che assomigliasse al Wto: c'erano una serie di sedi di cooperazione internazionale a vari livelli, fra cui spiccava, per il ruolo assegnatogli dalla comunità dei paesi avanzati allo scoppio della crisi, il Foro per la stabilità finanziaria, che riunisce i regolatori e supervisori di tutti i principali paesi attivi sul fronte finanziario, esteso nell'aprile del 2009 a 21 paesi (inclusi tutti i principali emergenti) e ribattezzato Consiglio per la stabilità finanziaria. Sia per il commercio sia per la finan-za internazionali il gioco cooperativo è però complesso e fragile, la tentazione di far prevalere interessi nazionali o corporativi di corto respiro è forte, estenuanti le media-zioni, a volte stenti o nulli i risultati. Questo è un proble-ma di ingegneria istituzionale su scala mondiale, alla cui soluzione sono ora volte molte intelligenze ed energie.

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Sfasciare tutto e rinchiudersi nei propri orticeffi fareb-be arretrare ognuno lungo la scala evolutiva dei sistemi economici. Questa crisi deve indurre a seri ripensamenti strategici sia i soggetti privati che operano sui mercati, sia gli enti pubblici di regolazione e supervisione, a livello nazionale e internazionale. Dalla crisi deve venir fuori un sistema globale in cui gli intermediari mettano in gioco più soldi propri (più capitale proprio) e prendano meno rischi, occupandosene comunque in presa diretta; che ubbidiscano a regole precise e incisive e siano, tutti, nes-suno escluso, sottoposti a una vigilanza organica, il più possibile coordinata a livello internazionale. Un sistema affrancato dalle «religioni liberistiche», ma che resti in-scritto nel mondo moderno, non precipitato indietro in tecnologie superate o imbrigliato permanentemente in anacronistiche guaine da socialismo reale. La finanza va posta al riparo da chi ne stravolge senso e missione, che sia per avidità, per insipienza, per spirito corporativo, per cecità ideologica.Quello che le vicende drammatiche della crisi ci inse-gnano è l'importanza di una buona analisi, di buone re-gole, della loro efficace applicazione, perché l'esercizio della libertà nell'agire economico, insostituibile motore di benessere, sia pieno e fruttuoso. In sintesi, l'importan-za dell'esercizio della ragione. Che diviene enormemente scomoda e impopolare quando soffiano venti di bufera e si cercano rifugi da abitare e colpevoli da additare.

RITROvARE IL TEMPO GIUSTONel concerto dei paesi avanzati l’Italia e la sua economia suonano in controtempo da molti anni. Almeno dai primi anni Novanta, forse addirittura dagli anni Settanta. In que-gli anni più remoti, mentre le imprese degli altri s’ingran-divano, le nostre iniziavano a rimpicciolirsi, ponendosi in una condizione che si rivelerà svantaggiosa successiva-mente. Vent’anni più tardi, all’avanzare della globalizza-zione, noi siamo rimasti attardati in una specializzazione settoriale obsoleta; mentre gli altri sfruttavano la rivolu-zione tecnologica per diventare più produttivi e arricchir-si, noi abbiamo stentato a mantenere l’efficienza e il tenore di vita medi, accrescendo solo le disuguaglianze sociali; di fronte al progredire nel mondo della liberalizzazione e della privatizzazione delle parti pubbliche dell’economia noi abbiamo indugiato neghittosi, per la ostinata resisten-za di chi temeva di perdere potere economico ed eletto-rale; dello sviluppo della finanza innovativa non abbiamo colto gli aspetti che più ci sarebbero serviti a far evolvere l’assetto proprietario e dimensionale delle nostre imprese. Ora ci piove addosso la crisi globale e ci coglie nuovamen-te in controtempo. Ma stavolta ai rischi si associano delle opportunità, come proverò a sostenere.La situazione si modifica così rapidamente che non so a che punto sarà giunta nel momento in cui questo scritto comparirà in libreria; di certo, in questa tarda primave-ra del 2009 essa ha raggiunto uno stadio allarmante. La crisi è globale in un duplice senso: non risparmia alcun aspetto della vita economica e sociale, dalla finanza più sofisticata alle code dei disoccupati davanti agli uffici di

collocamento; investe tutto il mondo, a cominciare dalla potenza militarmente ed economicamente egemone fino ai paesi più poveri e marginali.L’Italia è stata colpita da questa crisi, come tutti gli al-tri paesi, sulle prime quasi senza accorgersene, poi con progressivo sbigottimento. Si rincorrono, da noi come altrove, i paragoni storici con altre crisi recessive del pas-sato: i primi anni Novanta, la metà degli anni Settanta, il temibile ‘29. La caduta del Pil che si prefigura per il 2009 è ben più grave di quelle osservate negli anni peggiori delle prime due crisi citate; potrebbe essere dell’ordine di grandezza osservato al tempo della Grande Depressione. Ma dei semplici confronti statistici a distanza di decenni sono futili, ogni epoca ha sue peculiarità non riproduci-bili. La caratteristica dell’epoca presente, per l’Italia, è la debolezza strutturale del suo sistema produttivo, a cui si stava forse trovando un parziale rimedio quando la crisi è divampata. Questo libro nasceva originariamente pro-prio dalla volontà di documentare, sulla stregua di alcune ricerche condotte in Banca d’Italia, questo faticoso pro-cesso di ristrutturazione del sistema delle imprese. L’in-tenzione era di fare professione ragionata - evidenze alla mano - di ottimismo.Ma ora la questione diviene un’altra, già menzionata nel-la prefazione: cosa sta succedendo ai germogli di ristrut-turazione del sistema produttivo italiano sotto questa ter-ribile grandinata? Stanno gelando? Oppure resisteranno ed esploderanno in una grande primavera fiorita dopo che la grandinata sarà passata, magari ancora più robusti di quanto non s’annunciassero, perché fortificati dalle av-versità climatiche? Se prevarrà il primo caso, fare profes-sione di ottimismo diviene un compito davvero improbo, praticamente impossibile. La società italiana, è vero, ha mille risorse e intelligenze, tante volte esibite nel passa-to, capaci di farle fare dei balzi di progresso materiale e morale: è accaduto al tempo della prima grande ondata di industrializzazione a cavallo fra il XIX e il XX seco-lo, è successo ancora col «miracolo economico» dei due decenni successivi alla fine della seconda guerra mon-diale. In entrambi quegli episodi il Paese seppe coglie-re il segno dei tempi nuovi, nelle tecnologie dominanti come nell’apertura degli scambi internazionali, e vi reagì creativamente, costruttivamente. Stavolta, dagli anni No-vanta, di fronte alle novità rivoluzionarie delle tecnologie digitali e della globalizzazione, l’Italia e la sua economia fanno fatica.La società è avviata su un crinale demografico di invec-chiamento progressivo. L’invecchiamento è anche psico-logico. Vasti strati della società sembrano in preda a paure crescenti: paura del nuovo, del dinamico, dell’avventuro-so; sembrano piuttosto ansiosi di tutele, di assistenze, di protezioni; non osano, sonnecchiano tranquilli nell’agio di un benessere ritenuto acquisito per sempre.Non tutto il paese è così. Lo sanno bene i ricercatori del Censis, che pure avevano rappresentato un paio di anni fa la società italiana come una mucillagine priva di nessi in-terni, senza forza e senza futuro. Nel loro ultimo Rappor-to (2008) essi affacciano l’ipotesi, pur con mille cautele, che la grande paura indotta dalla crisi possa offuscare le tante piccole paure diffuse e innescare una metamorfosi salutare. Una metamorfosi abbisogna di agenti lievitanti:

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lo potrebbero essere quegli altri segmenti della società, della imprenditoria, delle generazioni giovani che si af-facciano ora sul mercato del lavoro, che restano attenti al nuovo, che sono disposti a correre rischi calcolati, a sperimentare, a rimettersi periodicamente in gioco.Come tutti i grandi cataclismi questa crisi può provocare distruzioni gravi, ma può anche creare occasioni di rige-nerazione. Di certo essa rimescolerà le carte nel mondo, scompaginerà assetti consolidati di vantaggio competiti-vo. Potrà avviare al declino alcune economie e proiettar-ne sul proscenio delle altre.La forza e il vantaggio competitivo di una economia stan-no nella capacità di aumentare nel tempo la ricchezza e il benessere dei suoi attori, generando ogni anno un flusso di reddito consistente e crescente. Il reddito prodotto è il valore che quella economia è capace di aggiungere alle materie prime di cui dispone o che si procura all’estero, facendone dei «beni» (materiali come un’automobile o immateriali come un concerto di violino) che siano de-siderati e venduti profittevolmente su un libero mercato, oppure somministrati dal governo ai suoi cittadini. Que-sto valore aggiunto lo creano le donne e gli uomini con il loro lavoro, i cui frutti vengono incorporati nel bene. Il processo di creazione del reddito e della ricchezza attra-verso il lavoro, in un regime di libertà economica e civile, deve potersi svolgere in un quadro di regole e istituzioni che ne riconoscano e accettino le peculiari modalità di funzionamento, in modo da renderlo fluido ed efficiente.Organizzazione del lavoro e assetto giuridico-istituziona-le sono i due campi in cui il nostro paese deve attuare le riforme più profonde. Tutto il resto segue da lì. Sono ri-forme, come ho cercato di chiarire nei capitoli preceden-ti, di ordine culturale prima ancora che normativo. Quei due campi appaiono distanti fra loro e in realtà lo sono, ciascuno ha avuto il suo sviluppo storico, ha i suoi prota-gonisti, i suoi luoghi topici. Ma a volte s’intersecano.C’è un tema di attualità in questo momento in Italia in cui i due malfunzionamenti fondamentali di cui parlo - il ruolo spesso anacronistico del sindacato e la distanza del diritto dai problemi prioritari della società - si sono mostrati in tutta la loro evidenza e si sono rinfocolati l’un l’altro: il lavoro precario. Come ho ricordato nel capitolo quinto, la rapida diffusione del precariato in Italia è dipe-sa dal fatto che molte aziende private e amministrazioni pubbliche hanno visto nelle forme contrattuali nuove che venivano introdotte e disciplinate dalla legge una facile scappatoia dalla persistente rigidità delle norme in mate-ria di licenziamento, rigidità acuita dalla inefficienza dei tribunali del lavoro. Percorrere quella scappatoia è stato possibile a causa di entrambi i due malfunzionamenti fondamentali che menzionavo prima, perversamente al-leati. Da un lato, i sindacati hanno girato il capo dall’altra parte, occupati in faccende che sembravano ben più rile-vanti dal punto di vista della visibilità politica. Dall’altro, il legislatore ha compiuto l’errore tipico figlio della nostra cultura giuridica: ha scritto norme astrattamente coerenti e severe ma se ne è infischiato totalmente della loro ap-plicabilità; le norme sui cosiddetti co.co.pro., pensate per accrescere le tutele nei confronti di questi, hanno in real-tà messo nelle mani dei datori di lavoro, soprattutto nella grigia galassia dei servizi (anche pubblici), una pistola

carica, consentendo loro di assumere dei neo-schiavi (un po’ come quelli dei primi tempi dell’industrializzazione) semplicemente spacciandoli per liberi professionisti in-caricati di realizzare un progetto, certi che mai nessun ispettore del lavoro o sindacalista sarebbe andato a con-trollare.È solo un esempio, ma istruttivo. Tornando a ragionare in generale, cambiare lo stato delle cose in questi due ambiti è davvero molto difficile, perché si tratta di devia-re percorsi secolari. Ma è una operazione che va iniziata indifferibilmente, soprattutto ora che è sopravvenuta una crisi destinata in qualche modo a cambiare il mondo e la posizione che il nostro paese vi occupa. Il cambiamen-to può solo venire dall’interno delle rispettive famiglie culturali - il sindacalismo, il diritto - e può solo essere promosso dalla parte più innovativa e lungimirante dei loro attori. Quelle due famiglie (preferisco chiamarle così, piuttosto che ricorrere a termini più caustici, come caste o corporazioni) dovrebbero generare nel loro seno dei movimenti di opinione, poco importa se inizialmente minoritari, che volgano con fermezza lo sguardo al futuro delle rispettive funzioni, per raccordarle alle tendenze e ai bisogni della società.La grande crisi mondiale di questo inizio di secolo fa ri-fluire ovunque la produzione e gli scambi, e fa rifluire con essi l’onda falsamente liberista che ha dominato il mondo nei passati tre decenni. E una risacca che risuc-chia all’indietro tutto ciò che quell’onda spingeva, senza troppo distinguere i valori veri dai valori fasulli: il libero mercato, il predominio del privato sul pubblico, il libero commercio internazionale, fra i primi; gli squilibri nei pagamenti fra paesi e aree, la finanza nelle sue declina-zioni avventuriste, la crescita economica fondata sul con-sumo a debito, fra i secondi.La risacca coglie il nostro paese mentre faticosamente cercava di recuperare, insieme con i ritardi tecnologici, anche quelli di cultura del mercato e dell’efficienza. E l’ennesimo caso di «controtempo» ma stavolta dobbia-mo servircene a nostro vantaggio. Alcune caratteristiche del sistema italiano che la voga precedente faceva sem-brare antiquate - l’alto risparmio delle famiglie, banche saldamente basate sulla raccolta di questo risparmio, un assetto di regole e di prassi di supervisione sulla finan-za capillari e attente - erano invece, e restano, fattori di equilibrio. Vanno rinsaldati e valorizzati.La tentazione a cui invece bisogna resistere è quella di at-tenuare o invertire il processo di recupero dei veri valori del liberalismo, nella sfera politica come in quella eco-nomica: il valore del rispetto dei ruoli fra i soggetti della vita pubblica (partiti, sindacati, istituzioni); il valore di un interesse pubblico da misurare pragmaticamente, non da situare nei cieli astratti dell’assoluto giuridico; il valore della libera concorrenza, da tutelare con regole severe e meccanismi applicativi efficienti.Nel mondo infuria una tempesta che minaccia anche quei valori, non solo i disvalori che vi avevano proliferato accanto. Se manteniamo il controtempo ancora per una battuta, alla fine ritroveremo il tempo giusto.

I TESTI TRATTI DA “CONTROTEMPO” SONO RIPRODOTTI CON LA CORTESE AUTORIZZAZIONE DELLA CASA EDITRICE LATERZA

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In occasione della Giornata Mondiale del Rispar-mio, da nove anni Acri, l’Associazione delle Cas-se di risparmio Spa e delle Fondazioni di origine bancaria, presenta un’indagine sugli italiani e il risparmio, realizzata in collaborazione con Ipsos. I principali risultati sono suddivisi in due ma-croaree: una prima, comune alle nove rilevazioni (2002-2003-2004-2005-2006-2007-2008-2009), che consente di delineare quali siano oggi l’atteg-giamento e la propensione degli italiani verso il risparmio, evidenziando i cambiamenti rispetto al passato; una seconda focalizzata sul tema specifico della Giornata, che è stata dedicata quest’anno a “Risparmio ed economia reale: la fiducia riparte dai territori”.Dall’indagine Acri - Ipsos emerge che il cittadino italiano dimostra una buona capacità di adatta-mento, riorganizza la propria vita in conseguenza della crisi, relativizza le proprie aspettative. Egli modifica e, ove necessario, ridimensiona i propri consumi, risparmia o tenta di farlo anche quan-do è in difficoltà, pensa che gli sforzi per uscire dalla crisi debbono essere fatti con coesione loca-le e buon coordinamento a livello internazionale, quindi incrementa la sua fiducia nell’Unione Euro-pea. Guarda al futuro con un ottimismo nuovo, che “non è euforico”. La preoccupazione per la gravità della crisi infatti è forte (il 78% degli italiani ritiene che sia grave) e per la sua durata (il 57% prevede che ci vorran-no più di 3 anni per uscirne del tutto). Quasi due terzi degli italiani (il 62% contro il 65% del 2008) nell’ultimo anno hanno inoltre continuato a speri-mentare dei disagi, ma più della metà della popo-lazione si dichiara soddisfatta della propria situa-zione economica (il 54% contro il 51% del 2008), il dato più alto dal 2002.Riguardo agli anni a venire gli italiani sono ottimi-sti: i fiduciosi passano dal 34% del 2008 al 55% del 2009. Questa ritrovata fiducia sembra legata alla percezione di un miglioramento dell’econo-mia mondiale (47% di ottimisti e 17% di pessi-misti, gli altri hanno una posizione neutrale) ed europea; mentre l’ottimismo si riduce spostando l’ottica sulla propria situazione personale (il 28% di ottimisti contro il 16% di pessimisti). Riguar-do alle attese sull’economia italiana, anche se tra ottimisti e pessimisti si registra un saldo positivo di soli 4 punti percentuali (37% contro 33%), la situazione è molto più positiva di quella del 2008,

GLI ITALIAnI E IL RISPARMIOi risUltati della ricerca ipsos 2009

Ogni anno, dal 2001, su incarico dell’ACRI, l’Ipsos svolge una ricerca sull’atteggiamento e la propensione degli italiani al risparmio. Dalla ricerca 2009 emerge che il cittadino italiano dimostra una buona capacità di adattamento, riorganizza la propria vita in conseguenza della crisi, relativizza le proprie aspettative. La preoccupazione per la crisi è forte (il 78% degli italiani ritiene che sia grave, il 57% prevede che ci vorranno tre anni per uscirne). Più di metà della popolazione si dichiara soddisfatta della propria situa-zione economica (il 54% contro il 51% del 2008), il dato più alto dal 2002. Riguardo agli anni a venire gli italiani sono ottimisti: i fiduciosi passano dal 34% del 2008 al 55% del 2009; l’ottimismo si riduce spostando l’ottica sulla propria situa-zione personale (il 28% di ottimisti contro il 16% di pessimisti). Aumenta il numero di coloro che riescono a risparmiare (37%, 3 punti percentuali in più rispetto al 2008).

quando i pessimisti prevalevano di ben 25 punti percentuali, e del 2007 quando il saldo negativo ammontava a 35 punti percentuali. Il “pessimismo statico” del 2008 e del 2007 sembra dunque scon-fitto. I segnali di ottimismo sembrano trarre energia an-che da una ritrovata capacità di risparmio. Aumen-ta il numero di coloro che riescono a risparmiare (37%, 3 punti percentuali in più rispetto al 2008) e il Nord Est si conferma l’area con la maggior concentrazione di famiglie in grado di accumulare risparmio; un incremento considerevole si registra nel Centro Italia, dove si passa dal 30% del 2008 al 39%. Rimane costante la percentuale di coloro che consumano tutto il reddito (38%). E cala, per la prima volta dal 2004, il numero di coloro che consumano più di quanto incassano (sono il 25%: una famiglia su quattro, contro il 27% del 2008); tra queste rimane costante il numero di coloro che ricorrono ai risparmi accumulati (18%) mentre di-minuisce quello di coloro che hanno dovuto ricor-rere a prestiti (sono il 7%, erano il 9%). Gli italiani mantengono una forte propensione al risparmio (l’87% vorrebbe risparmiare) e lo consi-derano saldamente ancorato al concetto di econo-mia reale (lo è per il 60% del campione); il 48% riconosce inoltre alle banche il ruolo di soggetto intermedio tra l’economia finanziaria e quella rea-le e l’88% ritiene fondamentale il loro radicamen-to sul territorio.Riguardo all’investimento del proprio risparmio, la preferenza per la liquidità rimane ancora il tratto che caratterizza gli italiani. Il 62% (era il 60% nel 2008) tiene o terrebbe i risparmi liquidi, mentre solo il 33% (era il 35%) li investe o li investirebbe: tra questi calano sensibilmente coloro che hanno la tendenza a investire buona parte dei loro rispar-mi (dal 12% del 2008 al 9%). Tra le possibili for-me di investimento, i più considerano ancora “il mattone” (54%) l’investimento ideale; aumentano i propensi all’investimento a rischio, che raddop-piano, passando dal 3% nel 2008 all’attuale 6%. In merito alla percezione delle regole e dei con-trolli per la tutela del risparmio, il numero dei fi-duciosi torna a contrarsi: nel 2008 il 44% riteneva regole e controlli efficaci, ora il dato è del 39%. Gli italiani sembrano sperare in una legislazione più severa, con l’idea che questa consentirebbe rendimenti più certi (39% sul totale, 48% sugli investitori).

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La crisi ha indotto molti italiani a ridefinire il li-vello e lo spettro dei propri consumi: coloro che hanno sperimentato difficoltà li hanno drastica-mente ridotti, ma anche coloro che non hanno vi-sto peggiorare il proprio tenore di vita dichiarano di aver calmierato i propri. La crisi sembra aver indotto ad investire di più sul futuro (55%) piutto-sto che concentrarsi sul “carpe diem” (40%).In merito al tema specifico di questa edizione del-la Giornata Mondiale del Risparmio, ovvero se la fiducia riparte dai territori, si può dare una rispo-sta sostanzialmente positiva. Gli italiani sono ge-neralmente soddisfatti (73%) circa la qualità della vita sul proprio territorio, però la realtà risulta ab-bastanza differenziata. Se nel Nord e nel Centro il numero di soddisfatti supera ampiamente l’80%, nel Sud arriva al 50%; inoltre la soddisfazione tende a decrescere con l’aumento delle dimen-sioni dei centri abitati. Gli aspetti economici non sembrano rappresentare al momento punti di for-za dei singoli territori e oltre un terzo degli italia-ni invoca un intervento diretto di Stato e Regioni tramite la spesa pubblica. L’aspettativa riguardo l’evoluzione economica fu-tura del proprio territorio è di una certa staticità: il 45% del campione ritiene che la situazione rimar-rà quella che è, il 28% si aspetta un miglioramento (in particolare nel Nord Ovest ove tale dato arriva al 37% e nel Nord Est dove arriva al 34%), mentre il 24% si attende un peggioramento (dato che ar-riva al 31% nel Sud e al 33% nei grandi centri con più di 250 mila abitanti).

LA RICERCA: METODOLOGIAL’indagine è stata realizzata, nella prima settimana di ottobre, tramite interviste telefoniche con tec-nologia Cati – Computer Aided Telephone Inter-views ed è stata arricchita di alcuni dei risultati delle indagini congiunturali prodotte dall’Isae e da altre indagini condotte da Ipsos nel 2009. Sono state svolte 1.000 interviste, presso un campione rappresentativo della popolazione italiana adulta, stratificato in base ai seguenti criteri: area geogra-fica e ampiezza del centro, sesso ed età.

Per niente soddisfatto Poco soddisfatto

Abbastanza soddisfattoMolto soddisfatto

LEI qUAnTO È SODDISfATTO DELLA SUA SITUAzIOnE ECOnOMICA?

SODDISFATTI (MOLTO+ABBASTANZA)‘02: 54% ‘03: 53% ‘04: 53% ‘05: 49% ‘06: 53% ‘07: 51% ‘08: 51% ‘09: 54%

2002 2003 2004 20054% 5% 5% 5%

50% 48% 48% 44%

33% 32% 32% 34%

12% 15% 15% 18%

20066%

47%

31%

16%

20076%

45%

31%

18%

50%

2008 20095% 4%

46% 50%

31% 30%

18% 16%

RIGUARDO AL TEnORE DI vITA DELLA SUA fAMIGLIA,nEGLI ULTIMI 2-3 AnnI LEI DIREbbE CHE...

MIGLIORATO RELATIVAMENTE FACILE MANTENERE IL TENORE DI VITA

PEGGIORATO RELATIVAMENTE DIFFICILE MANTENERE IL TENORE DI VITA

2006 2007 2008 2009

21%19%19% 19%

44%46%42% 43%

26%25%28% 30%

9%10%11% 8%

NAUFRAGATI40%

INSODDISFATTI6% APPAGATI

32%

SOPRAVVISSUTI22%

Sono insoddisfatti della situazione economica, ed hanno sperimentato serie difficoltà.· Più presenti al Sud e nelle Isole· Bassa scolarità· Operai e non occupati· Hanno un prestito personale· Lavori saltuari/occasionali· Risparmio negativo: decumulo o debiti· Risparmi liquidi· Pessimisti· Non europeisti· Soluzione della crisi: lontana

Sono soddisfatti della situazione economica, e non hanno avuto difficoltà nel mantenere il livello di reddito.· Più frequenti nel NO e nel Centro· Centri di media dimensione 30k>100k· Laureati· Lavoratori direttivi, impiegati, insegnanti· Hanno un mutuo· Riescono a risparmiare e reinvestono: attenzione agli strumenti finanziari· Ottimisti· Soluzione della crisi: prossima

Sono moderatamente soddisfatti della situazione economica, ma hanno fatto fatica ed il loro tenore di vita è peggiorato.· Centri di dimensione medio/grande 100k>250k· Pensionati, over 64 anni· Reinvestono il risparmio· né ottimisti, né pessimisti, con qualche preoccupazione· Soluzione della crisi: più lontana che prossima

Il loro tenore di vita è in miglioramento, ma rimangono fondamental-mente insoddisfatti della situazione.· Centri di grande dimensione >250k· Con meno di 44 anni· Studenti· Hanno un prestito personale· Delusi dall’Europa· Soluzione della crisi: lontana

RIGUARDO AL TEnORE DI vITA DELLA SUA fAMIGLIA, nEGLI ULTIMI 2-3 AnnI LEI DIREbbE CHE …LEI qUAnTO È SODDISfATTO DELLA SUA ATTUALE SITUAzIOnE ECOnOMICA?

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concentrano in misura significativa nel Nord Est. Rimangono numerosi cittadini che hanno subito in pieno questa crisi e che si confrontano con una situazione personale in peggioramento. Il conte-sto attuale sembra offrire loro poche vie d’uscita personali: sono in genere soggetti a bassa scolari-tà, molto presenti al Sud; sono operai, lavoratori

In corso di elaborazione i risultati sono stati pon-derati al fine di riprodurre esattamente l’universo di riferimento.

IL fUTURO DELL’ECOnOMIA, PERSOnALE E GLObALELa percezione della gravità della crisi è forte per il 78% del campione; inoltre il 57% si aspetta che se ne possa uscire non prima di 3 anni. Rispetto alla gravità della crisi nel Nord Est c’è ancor più preoccupazione che nel resto d’Italia.Gli italiani hanno trascorso un periodo lungo e difficile, ma diversi di loro sembrano vedere spi-ragli di luce e – per la prima volta da alcuni anni a questa parte – gli ottimisti sembrano prevalere sui pessimisti: è comunque un ottimismo “non euforico”. Questo ottimismo è generato spesso dalle risposte di persone che nella crisi sono passate indenni e che magari ne hanno approfittato per ridefinire le priorità e il proprio stile di vita: sono persone con un’istruzione elevata, un impiego fisso di livello medio o alto, spesso con un mutuo – ora più facile da sostenere - e che sentono vicina la fine della crisi stessa. Questo nuovo ottimismo è determinato anche da altri soggetti, i quali notano un’aria diver-sa, di ripartenza, specie dell’Europa e del mondo, ma che al contempo temono di essere esclusi da questa fase di miglioramento, la quale, ritengono, avrà comunque tempi lunghi: questi individui si

Rimarrà più o meno uguale Migliorerà Non lo so Peggiorerà

delta=migliorerà/peggiorerà‘07:+7% ‘08:+7% 2009:+12

delta=migliorerà/peggiorerà‘07:-35% ‘08:-25% 2009:+4

delta=migliorerà/peggiorerà‘07:+7% ‘08:-5% 2009:+29

delta=migliorerà/peggiorerà‘07:-5% ‘08:-10% 2009:+30

delta=migliorerà/peggiorerà‘07:+7% ‘08:+7% 2009:+4

SE PEnSA AI PROSSIMI 3 AnnI, LEI PEnSA CHE LA SUA SITUAzIOnE ECOnOMICA/LA SITUAzIOnE ECOnOMICA ITALIAnA/EUROPEA/MOnDIALE...

28% 53% 16% 3% 47% 26% 18% 9% 28% 45% 24% 3%37% 26% 33% 4% 47% 25% 17% 11%

PERSONALE EUROPEA LOCALEITALIANA MONDIALE

OTTIMISTIPESSIMISTI

55%

44%46% 46%

48%

29%

38%36%

34% 34%

InDICATORE COSTRUITO SULLA PREvISIOnE DI MIGLIORAMEnTO/PEGGIORAMEnTO DELL’ECOnOMIA fAMILIARE, nAzIOnALE, EUROPEA, InTERnAzIOnALE

2005 2006 2007 2008 2009

OTTIMISTIRADICALI30%

OTTIMISTIMODERATI25%

PESSIMISTIRADICALI10%

NEUTRI16%

PESSIMISTIMODERATI19%

ASPETTATIvE PER LA SITUAzIOnE DEI PROSSIMI TRE AnnI: TREnD

BASE: TOTALE INTERVISTATI (1000)

PREVALENZA OTTIMISTI

PREVALENZA PESSIMISTI

2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009

40%

30%

20%

10%

0%

-10%

-20%

-30%

-40%

-5%

-5%-10%

-13%

-23%-28%

-5%-2%-1%

1%

11%12%

20%

7%

-25%

-1%

-25%

-35%

29%30%

12%

4%

12%

1%

19%

11%7% 7%

PERSONALE ITALIANA EUROPEA MONDIALEDELTA= MIGLIORERÀ/PEGGIORERÀ

14%

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33%

37%

18%

7%

1%

40%

16%

6%

1%

37%

48%

13%

4%

1%

34%

43%

15%

3%

1%

38%

47%

11%

3%1%

38%

14% 18% 17%22% 25%

Si, sono riuscito a risparmiareNo, ho consumato tutto il redditoNo, ho dovuto ricorrere a risparmi accumulatiNo, ho dovuto ricorrere a prestitiNon indica

39%

20%

7%

1%

27% 27% 25%

1%

18%18%

7%

38%38%37%

9%

34%

FAMIGLIE IN SALDO NEGATIVO

nEGLI ULTIMI 12 MESI LEI/LA SUA fAMIGLIA È RIUSCITO/A A RISPARMIARE PARTE DEL REDDITO GUADAGnATO?

2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009

BASE: TOTALE INTERVISTATI (1000)

nEL CORSO DEI PROSSIMI 12 MESI LEI/LA SUA fAMIGLIA PEnSA DI RIUSCIRE A RISPARMIARE DI PIÙ O DI MEnO RISPETTO A qUEST’AnnO?

Di più Di meno Nella stessa misura

2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009

25% 23% 15% 17% 19% 15% 15% 19% 41% 51% 44% 45% 39% 42% 44% 38% 34% 26% 41% 38% 42% 43% 41% 43%

2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009

n IMMOBILIP HANNO RISPARMIATO: 2008=53% 2009=52%

n STRUMENTI FINANZIARI PIÙ SICURIHANNO RISPARMIATO: 2008=29% 2009=26%

n NESSUNO (SPENDERE/LIQUIDITÀ/NON SA)

HANNO RISPARMIATO: 2008=11% 2009=14%

n STRUMENTI FINANZIARI PIÙ A RISCHIOHANNO RISPARMIATO: 2008=7% 2009=8%

E OGGI, ALLA LUCE DELLA ATTUALE SITUAzIOnE ECOnOMICA, In qUALE DI qUESTI MODI È MEGLIO InvESTIRE I PROPRI RISPARMI? VALORI PERCENTUALI %

22

24

25

13

14

11

13

20

6

3

4

5

6

3

6

7

18

17

16

12

14

16

22

20

2009

2008

2007

2006

2005

2004

2003

2002

54

56

55

70

66

70

59

53

occasionali, spesso hanno un prestito personale o sono costretti a decumulare risparmio; sono pes-simisti sul futuro e delusi dall’Europa; vedono la soluzione della crisi assai lontana. Nel dettaglio, il 54% degli italiani si dichiara soddisfatto circa la propria situazione economica: un dato in aumento rispetto al 2008 (51%) e il più alto dal 2002. Nel Nord Est si registra, però, un peggioramento: sono infatti soddisfatti il 58% (contro il 63% del 2008, anno in cui c’era stato un miglioramento rispetto al precedente); i soddisfatti aumentano, invece, notevolmente al Centro (57%, contro il 50% del 2008); rimangono molto bassi al Sud (44%, il 41% nel 2008). Nell’ultimo anno hanno sperimentato difficoltà il 62% degli italiani (65% nel 2008). Si riduce sia la percentuale di coloro che hanno sperimentato lievi difficoltà (il 43% contro il 44% del 2008 e il 46% del 2007) sia quella di coloro che hanno spe-rimentato difficoltà gravi (sono il 19%, come nel 2007 e nel 2006, contro il 21% del 2008). In que-sto gruppo sono diminuiti i pensionati, che mo-strano un dato inferiore a quello medio nazionale: sono, infatti, il 17% quelli che hanno sperimentato difficoltà gravi (erano il 23% nel 2008). In sintesi: nell’ultimo anno sono poco meno di due terzi gli italiani che hanno sperimentato disa-gi o difficoltà, anche se più della metà si dichiara soddisfatta della propria situazione economica: la crisi da un lato sembra avere relativizzato le

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aspettative, dall’altro sembra avere modificato le abitudini di consumo e di risparmio. Gli italiani si potrebbero suddividere in quattro gruppi: gli “Ap-pagati” (32%), ossia coloro che sono soddisfatti e non sono stati toccati dalla crisi; i “Sopravvissuti” (22%), coloro che, pur avendo sperimentato diffi-coltà ed aver magari visto ridursi il proprio tenore di vita, sono ancora soddisfatti della propria situa-zione; gli “Insoddisfatti” (6%), sono coloro che, pur avendo sperimentato un miglioramento della situazione, non ritengono soddisfacente la propria situazione economica; i “Naufragati” (40%), ossia coloro che non sono soddisfatti della situazione economica e nella crisi hanno sperimentato serie difficoltà, vedendo una riduzione del proprio te-nore di vita.

Pensando al futuro dell’economia inizia ad evi-denziarsi un certo ottimismo: il numero dei fi-duciosi passa dal 34% del 2008 all’attuale 55%, al contempo si abbatte quello dei pessimisti che passa dal 48% dello scorso anno all’odierno 29%, ciò è legato soprattutto alle aspettative riguardo l’andamento economico europeo e internaziona-le. Un’inversione di tendenza si registra anche nell’indice di fiducia Isae, che passa in un anno da 103 a 113.

È da notare come in generale un numero eleva-to di pessimisti si concentri nel Nord Est, anche se qui, come vedremo, da un lato si evidenzia la maggior capacità di risparmio, dall’altro si regi-stra l’aspettativa di un’evoluzione positiva per lo sviluppo economico del proprio territorio. L’anno scorso quest’importante area produttiva della peni-sola era in linea, riguardo al numero di pessimisti, con il resto del Paese, oggi invece è la zona dove si concentrano maggiormente i pessimisti (34%, contro il 29% di pessimisti a livello nazionale e il 26% del Nord Ovest).Cresce significativamente l’ottimismo riguardo alla situazione economica internazionale (47% di ot-timisti e 17% di pessimisti: 30 punti percentuali di saldo positivo che allontana il pessimismo del 2008, quando si registrava un saldo negativo di 10 punti percentuali) e dell’Europa (47% di ottimisti e 18% di pessimisti: 29 punti percentuali di sal-do positivo contro i 5 punti di saldo negativo del 2008). Rispetto alla propria situazione personale, gli otti-misti prevalgono sui pessimisti (28% di ottimisti e 16% di pessimisti: saldo positivo di 12 punti per-centuali; il 56% pensa che non ci saranno varia-zioni o non sa).

I consumi delle famiglie cambiano nel tempo per diverse ragioni. Rispetto a 2, 3 anni fa, lei direbbe che la sua famiglia ha aumentato o diminuito il consumo di…?

CAMbIAMEnTO DEI COnSUMI RISPETTO A 2-3 AnnI fA - 2009

SALDO TRA INCREMENTO TOTALE IL TENORE DI VITA RELATIVAMENTE FACILE RELATIVAMENTE DIFFICILE IL TENORE DI VITARIDUZIONE 2009 È MIGLIORATO MANTENERE IL TENORE MANTENERE IL TENORE È PEGGIORATO DI VITA DI VITA

ristoranti, pizzerie e bar Molto diminuito Costante Molto diminuito Molto diminuito Molto diminuito

cinema, teatro, concerti Molto diminuito Costante Molto diminuito Molto diminuito Molto diminuito

viaggi e vacanze Molto diminuito Costante Molto diminuito Molto diminuito Molto diminuito

vestiario, abbigliamento e accessori Molto diminuito Molto aumentato Diminuito Molto diminuito Molto diminuito

cura della persona, capelli, bellezza Costante Molto aumentato Costante Molto diminuito Molto diminuito

libri, giornali, riviste Diminuito Molto aumentato Costante Molto diminuito Molto diminuito

spese auto/moto/ spostamenti Costante Molto aumentato Costante Diminuito Molto diminuito

elettronica e elettrodomestici Costante Molto aumentato Molto aumentato Diminuito Molto diminuito

telefono e telefonia Costante Molto aumentato Molto aumentato Costante Costante

prodotti alimentari e per la casa Costante Molto aumentato Costante Costante Molto diminuito

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SECOnDO LEI, LE REGOLE, LEGGI E COnTROLLI CHE TUTELAnO IL RISPARMIO In ITALIA qUAnTO SOnO EffICACI? Usi una scala da 1 a 10, dove 1 vuole dire per nulla efficaci e 10 del tutto efficaci.

voti 5-4

voti 3-1

voti 7-6

voti 8-10

30%

21%

40%

9% EFFICACI 39% 2009 44% 2008

NON EFFICACI 61% 2009 56% 2008

MEDIA 4.9 2009 5.1 2008

C/C ASSICUR.VITA/ LIBRETTO DI FONDI AZIONI BOT/CCT CERTIF. BANCARIO FONDO PENS. RISPARMIO COMUNI /BTP DEP./OBBLIG.

2009 Efficaci 39% 44% 43% 44% 41% 38% 44%

Non efficaci 61% 56% 57% 56% 59% 62% 56%

2008 Efficaci 42% 45% 45% 45% 48% 42% 51%

Non efficaci 58% 55% 55% 55% 52% 58% 49%

% senza i “non sa”

LEI RITIEnE SIA MEGLIO InvESTIRE PEnSAnDO AL fUTURO OPPURE RITIEnE SIA MEGLIO InvESTIRE SULLA qUALITà DELLA PROPRIA vITA ATTUALE?

Vita attuale 40%

Futuro 55%

Non sa/non risponde 3%

Non sa/non 5% risponde

Altrerisposte 2%

Altre1% risposte

Vita attuale 52%

Futuro 42%

DATI 2009 DATI 2003

TOTALE NORD OVEST NORD EST CENTRO SUD E ISOLE

2009 Vita attuale 40% 40% 44% 35% 41%

Futuro 55% 57% 47% 61% 56%

2003 Vita attuale 52% 53% 48% 50% 55%

Futuro 42% 40% 45% 45% 40%

AREA GEOGRAFICA

La situazione economica italiana invece divide il campione in tre parti uguali: prevale l’ottimismo nel 37% contro il 33% di pessimisti, il restante 30% ritiene che la situazione rimarrà più o meno invariata o non sa esprimersi al riguardo. Anche se la situazione è in bilico tra ottimisti e pessimisti, registrando un saldo positivo di soli 4 punti per-centuali, è comunque molto più positiva di quella del 2008, quando i pessimisti prevalevano di ben 25 punti percentuali, e del 2007 quando il saldo negativo ammontava a 35 punti percentuali. Il “pessimismo statico” del 2008 e del 2007 sembra dunque sconfitto, anche se la spinta sembra venire più dall’esterno che dall’Italia e dalle capacità del singolo. Il cittadino italiano è convinto che questa crisi dimostri che nel mondo d’oggi per affrontare problemi planetari è necessario un coordinamento internazionale (53%); solo una minoranza (37%) ritiene che questa crisi evidenzi piuttosto il con-trario, ossia i limiti della globalizzazione e quin-di richieda scelte localistiche (il 10% non prende posizione).

IL RISPARMIOI segnali di ottimismo sembrano trarre energia anche da una ritrovata capacità di risparmio. Au-menta infatti il numero di coloro che riescono a risparmiare (37%, 3 punti percentuali in più ri-spetto al 2008) e il Nord Est si conferma l’area con la maggior concentrazione di famiglie in grado di accumulare risparmio; un incremento considerevole si registra nel Centro Italia, dove si passa dal 30% del 2008 al 39%. Rimane costante la percentuale di coloro che consumano tutto il reddito (38%). Cala, per la prima volta dal 2004, il numero di coloro che consumano più di quanto incassano (sono il 25%: una famiglia su quattro, contro il 27% del 2008); tra questi rimane costan-te il numero di coloro che ricorrono ai risparmi accumulati (18%) mentre diminuisce quello di co-loro che hanno dovuto ricorrere a prestiti (sono il 7%, erano il 9%). Le famiglie che hanno migliorato il proprio tenore di vita manifestano maggiore attenzione al rispar-mio rispetto al passato (nel 2009 ha risparmiato il 73% contro il 58% del 2008). Anche presso le categorie più svantaggiate si trovano soggetti che sono riusciti a risparmiare (sono riuscite a rispar-miare il 29% delle famiglie che nel corso dell’an-no hanno fatto fatica e il 13 % di quelle che hanno visto peggiorare il proprio tenore di vita); in gene-rale, c’è stata una tendenza a ridurre il saldo passi-vo (famiglie che risparmiano meno famiglie che si indebitano o decumulano risparmi). Questa situa-zione conferma l’idea che il periodo di difficoltà abbia indotto a un diverso atteggiamento verso le spese, con una razionalizzazione che ha consenti-to ad alcuni di accumulare qualche risparmio.

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In questa situazione di miglioramento della capa-cità di risparmio e di maggiore fiducia verso il fu-turo, il numero di coloro che ritengono di riuscire a risparmiare di più in futuro (il 19% degli ita-liani) è in crescita di 4 punti percentuali, mentre diminuisce di 6 punti la percentuale di coloro che temono di non riuscire a risparmiare altrettanto nei prossimi dodici mesi (sono il 38% contro il 44% del 2008 e il 42% del 2007).

Quindi nel 2009 le famiglie italiane hanno ri-sparmiato di più e si attendono un miglioramen-to nel 2010, con rimarchevoli differenze rispetto al 2008. Combinando l’andamento del risparmio nell’ultimo anno e le previsioni per quello futuro, si delineano sei gruppi di tendenza rispetto al ri-sparmio:• Famiglie con trend di risparmio positivo - hanno risparmiato nell’ultimo anno e lo faranno di più o nella stessa misura anche nei prossimi dodici mesi: sono il 23% (4 punti percentuali in più ri-spetto al 2008, 5 rispetto al 2007).• Famiglie con risparmio in risalita - hanno speso tutto senza fare ricorso a risparmi/debiti, ma nei prossimi dodici mesi pensano di risparmiare di più: sono il 7% (3 punti percentuali in più rispetto al 2008, 2 in più rispetto al 2007; erano il 6% nel 2006).• Famiglie che galleggiano - hanno speso tutto senza fare ricorso a risparmi/debiti e pensano che lo stesso avverrà nel prossimo anno, oppure han-no fatto ricorso a risparmi/debiti ma pensano di risparmiare di più nei prossimi dodici mesi: sono il 20% (1 punto percentuale in meno rispetto al 2008 e al 2007).• Famiglie col risparmio in discesa - sono riuscite a risparmiare, ma risparmieranno meno nei pros-simi dodici mesi: sono l’11% (3 punti percentuali in meno rispetto al 2008, 2 rispetto al 2007).• Famiglie in crisi moderata di risparmio – hanno consumato tutto il reddito e nei prossimi dodici mesi pensano di risparmiare meno: sono il 14% (1 punto percentuale in meno rispetto al 2008 e al 2007).• Famiglie in crisi grave di risparmio - hanno fatto ricorso a risparmi accumulati e a debiti (famiglie in “saldo negativo”) e pensano che la situazione del prossimo anno sarà identica o si aggraverà: sono il 18% (4 punti percentuali in meno rispetto al 2008, 5 rispetto al 2007).

Gli italiani con crisi grave o moderata di risparmio si trovano maggiormente al Centro e al Sud del Paese; nei centri abitati di medio/grandi dimen-sioni; fra gli operai e i “non occupati”. Quelli con il risparmio in discesa si trovano maggiormente nel Nord Est; fra i giovani e fra i lavoratori di-pendenti, ma anche fra gli imprenditori e i liberi

Poca fiducia (voti 4-5)

Nessuna fiducia (voti 1-3)

Fiducia (voti 6-7)

Molta fiducia (voti 8-10)

In GEnERALE LEI HA fIDUCIA OPPURE nO nELL’UnIOnE EUROPEA?

2009 69%

2008 67%

2007 60%

2006 67%

2009 31%

2008 33%

2007 40%

2006 33%

FIDUCIA

SFIDUCIA

44%

12%

19%

25%

Aumentata 12%

nELL’ULTIMO AnnO LA SUA fIDUCIA nELL’UnIOnE EUROPEA È...?

Non è cambiata 67% Diminuita 21%

12%

11%

10%

10%

21%

29%

29%

23%

2009

2008

2007

2006

DIMINUITAAUMENTATA

Poco soddisfatto

Per niente soddisfatto

Abbastanza soddisfatto

Molto soddisfatto

35% SODDISFATTI 65% INSODDISFATTI

LEI qUAnTO SI RITIEnE SODDISfATTO SULL’InTRODUzIOnE DELL’EURO?

9% 26% 27% 38%

35%

31%

23%

27%

2009

2008

2007

2006

65%

69%

76%

72%

SODDISFATTI INSODDISFATTI

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professionisti, in una quota non trascurabile. Tra chi galleggia ci sono molti pensionati; quelli che segnalano un risparmio positivo o in risalita risie-dono sono più spesso nel Nord Ovest e hanno un lavoro “direttivo”. Gli italiani sono un popolo di risparmiatori, e in genere ne sono consapevoli (il 48% dei cittadini ritiene che in Italia si risparmi più che nel resto d’Europa, il 33% che si rispar-mi meno): inoltre è diffusa la sensazione che nella propria zona si risparmi più che nelle altre parti del Paese (il 55% contro il 23% che ritiene si ri-sparmi meno). Nonostante molti in questi ultimi dodici mesi non abbiano risparmiato e ritengano di non riuscire a farlo neanche nei prossimi, la propensione al risparmio rimane molto elevata. Le aspettative di un miglioramento generale della situazione sembrano peraltro limare il numero di coloro che vivono con ansia il fatto di avere ri-sparmi modesti: se l’87% degli italiani vorrebbe risparmiare, di questi il 40% non vive tranquillo senza risparmi (era il 42% nel 2008) e il 47% (era il 45% nel 2008) vorrebbe risparmiare ma sen-za eccessive rinunce. Solamente 1 italiano su 10 preferisce godersi la vita, piuttosto che mettere da parte risorse per il futuro. Questa propensione alta al risparmio sembra esse-re più orientata a una personale esigenza di tute-la, che all’idea di poter contribuire con il proprio risparmio al progresso dell’Italia: infatti quasi il 50% ritiene che il risparmio possa essere impor-tante per lo sviluppo del Paese, ma non fondamen-tale; solo il 29% lo reputa fondamentale; il restan-te 22% lo ritiene del tutto ininfluente, o non ha idea di che ruolo possa giocare. Pur tuttavia, per il 60% del campione la percezione del risparmio è saldamente ancorata all’idea di economia reale; lo associa all’economia finanziaria solamente il 29% degli italiani (40% presso i laureati). In questo contesto le banche hanno il ruolo di soggetto in-termedio tra l’economia finanziaria e quella reale per il 48% del campione; di attore dell’economia finanziaria per il 33% (40% nel Nord Est); di at-tore dell’economia reale per il 9%; il 10% degli italiani non si pronuncia.

L’InvESTIMEnTOSe da una parte si nota un miglioramento delle aspettative circa il futuro e una cresciuta capacità di risparmio degli italiani, questa situazione non sembra modificare la propensione all’investimen-to, che tende a rimanere sui modesti valori rilevati nel 2008 e nel 2007; al contempo si riaffaccia il pessimismo circa la bontà delle norme di tutela del risparmio attuali e future. La preferenza per la liquidità rimane ancora il tratto che caratterizza gli italiani. Il 62% (era il 60% nel 2008) tiene o terrebbe i risparmi liquidi, mentre solo il 33% (era il 35%) li investe o li in-

vestirebbe: tra questi calano sensibilmente coloro che hanno la tendenza a investire buona parte dei loro risparmi (dal 12% del 2008 al 9%). Il reinve-stimento dei risparmi sembra avere una seria bat-tuta d’arresto nel Nord Est, anche se in assoluto la preferenza per la liquidità è una caratteristica del Sud Italia.Nel 2009 le scelte degli italiani riguardo agli stru-menti finanziari non si discostano sensibilmente da quelle del 2008: si registra la riduzione del numero di coloro che investono in titoli di stato (-3 punti percentuali); la riduzione di soggetti che investono in fondi comuni (-2 punti); il lieve in-cremento degli investimenti in azioni (+1 punto) e in certificati di deposito (+2 punti). Quando ci si deve pronunciare sull’investimento “ideale”, domina ancora il mattone (il 56% degli italiani nel 2008, oggi il 54% sull’intero campio-ne e il 52% presso coloro che sono effettivamen-te riusciti a risparmiare nel 2009). Si rafforza il ristretto gruppo di propensi all’investimento a ri-schio, raddoppiando (dal 3% del 2008 all’attuale 6%, cifra che sale all’8% tra coloro che hanno ri-sparmiato), ma anche il numero di coloro che ri-fiutano l’idea stessa dell’investimento (il 18%, +1 punto percentuale rispetto al 2008). Gli strumenti finanziari considerati più sicuri sono preferiti da un ragguardevole 22% del campione, peraltro in regresso di 2 punti percentuali sul 2008, proba-bilmente a causa di tassi d’interesse estremamente bassi.L’anno scorso si registrava un miglioramento ri-guardo la percezione delle regole e dei controlli presenti in Italia in tema di tutela del risparmio: quest’anno invece il numero dei fiduciosi torna a contrarsi, come pure si contrae il numero di coloro che pensano che nei prossimi 5 anni le cose po-trebbero andare meglio. Nel 2008 il 44% riteneva regole e controlli efficaci, ora il dato è del 39%. L’attuale assetto di regole e controlli sembra quindi faticare a trovare consenso. Gli italiani sembrano sperare in una legislazione più severa: per il 39% questa farebbe sì che i rendimenti fossero più certi (erano il 31% nel 2002), per il 26% che fossero più consistenti, per il 29% non determinerebbe effetti benefici (erano il 30% nel 2002), mentre il 5% teme che norme più severe determinerebbe-ro una contrazione dei rendimenti. Sottolineiamo che il 48% di chi possiede effettivamente azioni, fondi, etc. ritiene che l’effetto di norme più se-vere incrementerebbe principalmente la certezza del rendimento. Inoltre, se da una parte per i due terzi degli italiani la legislazione più severa sem-brerebbe generare effetti positivi sui rendimenti, solo il 50% di loro ritiene che crescerebbe anche la sicurezza dei titoli, mentre il 38% pensa che ci sarebbero gli stessi rischi o che addirittura i titoli sarebbero meno sicuri.

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I COnSUMILa situazione di crisi, che per gli italiani dura or-mai da diversi anni, ha un forte effetto sulle abi-tudini di consumo. Pare essersi ormai completata la metamorfosi del consumatore, che ha abbando-nato vecchie consuetudini per cercare un nuovo equilibrio nel paniere: in nessuna categoria di pro-dotti si registra però un incremento significativo di consumo. Rimangono forti le riduzioni attuate da coloro che hanno visto peggiorare il proprio teno-re di vita, con una stabilità solo per il consumo di telefonia. Coloro che hanno sperimentato qualche difficoltà mantengono costante anche il consumo di prodotti alimentari e per la casa, mentre hanno ridotto (a differenza del 2008) sia il consumo di prodotti di elettronica sia le spese legate all’auto e agli spostamenti. Paiono avere calmierato i propri consumi anche coloro che non hanno subito serie conseguenze dalla crisi, specie sul fuori casa, su viaggi e vacanze, cura della persona, spese legate all’auto e agli spostamenti: costoro hanno al con-tempo molto aumentato le spese per l’elettronica e la telefonia.La crisi attuale sembra anche aver indotto una maggiore progettualità nella vita dei cittadini: se nel 2003 (dopo l’11 settembre ed Enron) il 52% degli italiani riteneva fosse meglio dedicarsi all’og-gi e solo il 42% al futuro, oggi le percentuali si sono più che rovesciate. Il 55% dei cittadini pensa di investire sul futuro, mentre solo il 40% ritiene sia più utile concentrarsi sul “carpe diem”.

L’EUROPEISMO E L’EUROLe aspettative circa l’economia europea sono estre-mamente più positive: questo sembra contribuire al rafforzamento del sentimento europeista degli italiani, già storicamente forte. Il 69% dei citta-

dini è fiducioso nell’Unione Europea: due punti percentuali in più rispetto al 2008 e nove rispet-to al 2007; coerentemente si riduce il numero di coloro che dichiarano una diminuzione di fiducia nell’Unione (dal 29% del 2008 al 21% del 2009). Ne beneficia anche l’Euro, che rimane tuttavia un elemento critico nella fiducia degli italiani verso l’Unione. Nel 2007 gli insoddisfatti erano il 76%, nel 2008 erano scesi al 69%, ora sono il 65% (tra i laureati e tra coloro che svolgono una professio-ne direttiva i soddisfatti, pari al 54%, superano gli insoddisfatti, che sono il 46%). Nonostante un am-pio numero di insoddisfatti, la maggioranza degli italiani (60%) ritiene che avere l’Euro fra 20 anni sarà un vantaggio: in particolare il dato è molto elevato tra coloro che svolgono una professione direttiva (83%), ossia imprenditori, manager, pro-fessionisti.

I TERRITORI E LA fIDUCIAGli italiani sono generalmente soddisfatti (73%) circa la qualità della vita sul proprio territorio, già nella rilevazione del 2008 era risultato evidente che essi ritengono la qualità della vita un elemen-to di forza nel confronto tra l’Italia e i principali Paesi europei. Il dato medio nasconde, però, una realtà abbastanza differenziata. Se nel Nord e nel Centro il numero di soddisfatti supera ampiamen-te l’80%, nel Sud arriva al 50%. La soddisfazione tende inoltre a decrescere con l’aumento delle di-mensioni dei centri abitati (il 76% di soddisfatti nei paesi e città inferiori a 30.000 abitanti, il 74% in quelli fra i 30 e i 100.000 abitanti, il 69% in quelli tra i 100 e i 250.000 abitanti, il 63% nei centri con più di 250.000 abitanti). Forte è anche la soddisfazione per la coesione sociale del territorio, con un giudizio omogenea-

RILAnCIO DEL PAESE E DEI TERRITORI: TRA ECOnOMIA REALE E SPESA PUbbLICA

Per rilanciare l’economia ed il benessere dell’Italia, nei prossimi 10 anni su cosa converrà agire?

L’economia reale

Sulla spesa pubblica e sull’intervento di Stato e Regioni

L’economiafinanziaria

Non sa/non risponde

Per rilanciare l’economia ed il benessere del territorio in cui vive, nei prossimi 10 anni su cosa converrà agire?

60%

36%

10%

5%

64%

33%

7%

4%

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mente elevato (70%). Soddisfacente (oltre il 60% di soddisfatti), anche se con un numero di critici abbastanza rilevante, è il giudizio circa l’offerta culturale, la qualità dell’ambiente e la qualità del-le infrastrutture del territorio. Le istituzioni pub-bliche sono giudicate soddisfacenti dal 54% dei cittadini. Valutazioni più problematiche si riscon-trano invece riguardo a: lo sviluppo economico (il 50% di soddisfatti), la situazione delle imprese del territorio (42%) e, soprattutto, la qualità e le pos-sibilità di lavoro (41%). Relativamente alle zone del Paese è certamente il Nord Est quella dove il maggior numero di cittadini si dichiara maggior-mente soddisfatto dei diversi aspetti del territorio, con una percentuale in genere prossima al 70% ri-guardo ogni aspetto considerato: in questa zona il grado più basso di soddisfazione si registra rispetto alla situazione delle imprese (il 59% di soddisfatti, comunque 17 punti percentuali in più rispetto alla media del Paese).Quindi a livello territoriale c’è una generale soddi-sfazione, legata soprattutto alla qualità della vita e al contesto sociale, gli aspetti economici non sem-brano, però, rappresentare al momento punti di forza dei singoli territori. In particolare l’aspetta-tiva riguardo all’evoluzione economica futura del proprio territorio è di una certa staticità: il 45% del campione ritiene che la situazione rimarrà quella che è, il 28% si aspetta un miglioramento (in particolare nel Nord Ovest ove tale dato arriva al 37% e nel Nord Est dove arriva al 34%), mentre il 24% si attende un peggioramento (dato che ar-riva al 31% nel Sud e al 33% nei grandi centri con più di 250 mila abitanti).Riguardo all’impiego del proprio risparmio il 31% dei cittadini lo vorrebbe sul territorio, e que-sto gruppo è particolarmente forte nel Sud, dove

raggiunge il 41%; il 28% lo vorrebbe destinato all’Italia, con una prevalenza per tale scelta nel Nord e nel Centro; il 23%, trasversalmente alle varie regioni, vorrebbe venisse indirizzato verso i Paesi più svantaggiati; il 7% all’Europa tutta; mentre l’11% non evidenzia preferenze.Gli italiani ritengono prioritario concentrare gli sforzi sull’economia reale per rilanciare sia l’eco-nomia nazionale (il 60%) sia l’economia del ter-ritorio (il 64%). E’ comunque da tenere presente che oltre un terzo invoca un intervento diretto di Stato e Regioni tramite la spesa pubblica. Un al-tro elemento rilevabile è la valutazione moderata-mente positiva sul livello di coesione tra le forze e le istituzioni del territorio, rispetto al quale risulta direttamente proporzionale l’ottimismo sulla ca-pacità delle imprese di fronteggiare la crisi. Il 49% degli italiani ritiene che la coesione sociale sui territori sia discreta; il 12% buona; il 34% scarsa, a causa della tendenza a far prevalere interessi di parte; il 5% non si pronuncia. Le banche possono giocare un ruolo importante nel rafforzare la centralità del territorio: come ab-biamo visto il 48% degli italiani riconosce loro la funzione di intermediazione tra risparmio e strut-tura produttiva e addirittura l’88% ritiene fonda-mentale il loro radicamento sul territorio, che ne consente una corretta valutazione delle opportu-nità e delle problematiche.

ELEMEnTI vALUTATI nELLA SCELTA DI UnA bAnCALe leggerò ora alcuni aspetti che possono essere utilizzati nella scelta di una banca. Mi dica quanto è importante ciascun aspetto su una scala da 1 a 10 dove 10 significa moltoimportante e 1 per niente importante?

sia ben radicata nella realtà localein cui lei vive

diffusa, presente su tutto il territorio nazionale

abbia un nome conosciuto,prestigioso

ci lavorino persone che conosce

64%

49%

48%

36%

1%

3%

2%

2%

24%

29%

25%

25%

9%

13%

16%

19%

2%

6%

9%

18%

n VOTI 8-10 n VOTI 7-6 n VOTI 5-4 n VOTI 3-1 NON SA

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RASSEGnA, TREnT’AnnI DELLA nOSTRA STORIA

La più recente iniziativa editoriale della Banca Regionale Europea è la pubblicazione del volume “Rassegna. I primi trent’anni. 1978-2008”, che raccoglie gli articoli più significativi pubblicati sulla rivista nel periodo considerato ed è testimo-nianza di trent’anni di storia di una banca e della sua comunità. Trent’anni sono un traguardo importante quanto raro, nell’editoria bancaria nazionale; Rassegna lo ha ormai raggiunto e superato. Dal 1978 ad oggi l’Italia e il mondo sono cambiati, la storia ha superato la fantasia. Chi avrebbe previsto, allora, il superamento del sistema politico della prima Repubblica, il crollo dell’Unione Sovietica, l’avvento di Internet, l’introduzione della moneta unica europea, la globalizzazione dell’economia, la crisi mondiale della finanza? Certamente nessuno avrebbe immaginato che, sotto la testata della rivista della Cassa di Risparmio di Cuneo, si sarebbe letto un giorno “rivista della Banca Regionale Europea, Gruppo UBI Banca”. Rassegna è stata sin dall’inizio la rivista di una banca consapevole che è meglio anticipare che subire il cambiamento, e ne ha accompagnato lo sviluppo, descrivendo i nuovi scenari, con la separazione delle banche dalle Fondazioni, i processi di concentrazione, la costituzione di grandi gruppi di dimensione nazionale.

La linea editoriale di Rassegna è da leggere nel senso dell’equilibrio tra le tematiche di carattere generale e quelle collegate al territorio. L’obiettivo costante è stato di pensare una rivista con una sua precisa identità, attenta alle trasformazioni in atto, in particolare nell’economia e nella finanza, con lo sguardo rivolto ad un orizzonte internazionale; una rivista ispirata ad un localismo aperto e dinamico, senza cadere nel provincialismo, in linea con la mission aziendale perfettamente espressa dal nome “Banca Regionale Europea”, adottato nel 1994 in seguito alla fusione tra la Cassa di Risparmio di Cuneo e la Banca del Monte di Lombardia. Molte firme autorevoli, italiane ed internazionali, vi si sono alternate nel campo dell’economia, della finanza, della cultura, della politica; le tematiche legate alla dimensione europea sono state costantemente in primo piano, con particolare attenzione alla vicina Francia.

di cArlo BeniGni

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LA STRUTTURA DELLA PUbbLICAzIOnENelle volume i testi sono raggruppati per aree tematiche: la banca, banca e finanza, gli scenari del futuro, personalità e istituzioni, banca e cultura, il territorio, la vicina Francia, la banca e lo sport, marketing strategico e comunicazione, trent’anni di comunicazione istituzionale e di prodotto. Nell’ambito di ogni area, sono ripresi i testi più significativi pubblicati nel corso degli anni. Ne emerge una visione completa della molteplicità degli approcci della banca rispetto al proprio contesto di riferimento. Di particolare interesse, per quanti desiderino ripercorrere lo straordinario sviluppo della banca nel periodo 1978-2008, è il capitolo iniziale, che riprende gli interventi più importanti dei Presidenti, nelle enunciazioni programmatiche e nella spiegazione delle scelte strategiche, dallo sviluppo territoriale della Cassa di Risparmio di Cuneo negli anni ’80 alla costituzione della Banca Regionale Europea, fino al suo ingresso in grandi gruppi nazionali, Banca Lombarda e Piemontese e poi UBI Banca. Una cultura aziendale non si improvvisa, e la nostra viene da lontano; alla sua base, la consapevolezza che la banca è un’impresa e che il suo asset principale sono i collaboratori e la sua capacità di rapporto con il territorio. Il terzo capitolo è forse quello che più di ogni altro fornisce la chiave di lettura dell’ispirazione di Rassegna e del suo posizionamento nel panorama dellaeditoria bancaria italiana: l’attenzione agli scenari del cambiamento, la presa diretta con personalità e “maîtres à penser” di autorevolezza internazionale e con un’accentuata attenzione per la Francia. Il filo conduttore della rivista è stato il desiderio di comprendere in anticipo i nuovi scenari, con riferimento ai grandi temi del nostro tempo.

TREnT’AnnI…Rassegna ha doppiato il capo dei trent’anni; dalla tiratura iniziale di 3.000 copie è passata a quella attuale, di 38.000. Oltre alla qualità delle collaborazioni, la rivista ha perseguito la qualità della veste editoriale; il progetto grafico, oggetto

di successivi restyling, è stato curato sin dall’inizio da Gianni Parlacino, ed i servizi fotografici da Bruno Garavoglia. Trent’anni sono pochi e sono tanti. Sono tanti, se misurati con i cambiamenti avvenuti; pochi, se considerati nella prospettiva di una grande azienda proiettata nel futuro, qual è la Banca Regionale Europea, con il valore aggiunto dell’appartenenza al Gruppo UBI Banca. L’ambizione di Rassegna è di continuare ad essere attivo testimone di una storia di successi.

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In Italia le province sono una realtà antica. Durano nel tempo perché hanno radici profonde. Come le Regiones, arrivano da lontano, dalla Roma di Augusto. Sono impastate di geografia, antropologia e storia profonda. Con varie denominazioni le province sono presenti in tutti gli Stati europei, che a loro volta sono circoscrizioni politico-amministrative sorte e vissute con varia fortuna nei millecinquecento anni dalla decomposizione dell’Impero romano all’avvento degli Stati nazionali all’odierna ricerca di unione europea “dall’Atlantico agli Urali”. Proprio quando la loro sorte in Italia sembrava segnata, l’11 settembre 2008, nel quadro di attuazione del federalismo fiscale, il governo si è impegnato a riconoscere alle province autonomia di entrate e di spesa con imposizione di tributi propri e partecipazione ai fondi perequativi. Sette grandi provinceverranno elevate ad “aree metropolitane”. Le regioni a statuto speciale hanno iniziato a istituire “province regionali” (con un aumento di oneri pubblici da molti considerato preoccupante). Le province odierne nacquero con la “legge Rattazzi” del 23 ottobre 1859 n.3702 . Il “Piemonte” non era più il solo regno di Sardegna ma nessuno immaginava che appena un anno dopo sarebbe divenuto “d’Italia”. Nell’aprile-luglio Vittorio Emanuele II di Savoia e Napoleone III, imperatore dei Francesi, avevano sconfitto Francesco Giuseppe d’Asburgo costringendolo all’armistizio di Villafranca. L’impero d’Austria avrebbe ceduto la Lombardia (meno il distretto di Mantova) a Napoleone III, che a sua volta l’avrebbe assegnata al re di Sardegna in cambio della Savoia, francofona, e della contea di Nizza, innegabilmente liguro-piemontese. Giuseppe Garibaldi protestò invano contro un patto che lo rendeva straniero all’Italia. Contrario all’armistizio ma fautore della sua sostanza, Cavour si dimise. Il re lo sostituì con il generale Alfonso La Marmora, affiancato da Urbano Rattazzi all’Interno. Il governo agì con pieni poteri perché durava lo stato di guerra, chiuso il 10 novembre con la pace di Zurigo. Libero dalle pastoie di estenuanti dibattiti parlamentari, l’esecutivo varò la riforma della scuola, che prese nome da Gabrio Casati, ministro dell’Istruzione, e, appunto, il riordino di comuni e province voluto dal ministro dell’Interno: Urbano Rattazzi, di Alessandria (*)

In Piemonte le province risalivano al 1561, quando Emanuele Filiberto di Savoia, vincitore sui Francesi a San Quintino (1557), riprese in mano il Ducato, trasferì la capitale da Chambéry a Torino e adottò l’italiano quale lingua ufficiale dello Stato. Le province ricalcavano antiche ripartizioni del territorio, rispondenti al passaggio dall’ordinamento romano a quello medievale. Marchesati e contee, piccole signorie e persino potentati di grandi comuni (Asti, Vercelli...) furono tappe di un lungo cammino storico. Anche gli altri Stati italiani preunitari, piccoli e grandi, avevano ripartizioni analoghe, con ordinamenti frutto della stratificazione determinata da processi dai ritmi discontinui e difformi. Il 1° maggio 1816 Ferdinando I delle Due Sicilie divise il regno in 16 province “al di qua del Faro” e un anno dopo ripartì le tre Grandi Valli di Mazara, Noto e Dèmone in sette Valli minori. Provvedimenti analoghi vennero introdotti in Lombardia dal 1815, nel Veneto, nei Ducati e nel Granducato di Toscana che ebbe sette prefetture e quattro sottoprefetture. Dopo il trauma della Repubblica romana del 1849, lo Stato pontificio venne riorganizzato in quattro legazioni comprendenti venti province o delegazioni, 45 distretti, 177 governi e1220 comuni. Il cammino più coerente e armonico delle province fu quello dello Stato sabaudo. Quando essovenne annesso alla repubblica francese (1798), la “terraferma” fu riorganizzata in dipartimenti, suddivisi in arrondissements (circondari) e comuni, rispettivamente governati da prefetti, sottoprefetti e maires (sindaci). Per accentuare la cesura i nuovi dominatori dettero ai dipartimenti nomi di fiumi o di eventi famosi. La provincia di Torino divenne Dipartimento dell’Erìdano, antico nome del Po; Vercelli prese nome dalla Sesia, Cuneo dallo Stura. Alessandria adottò quello del trionfo napoleonico sugli asburgici a Marengo (giugno 1800). La provincia di Savona venne detta Montenotte in ricordo della prima vittoria di Napoleone sull’armata sarda nel 1796. Anche i dipartimenti del Regno d’Italia (Lombardo-Veneto ed Emilia-Romagna e oltre) presero nomi dalla geografia. Milano divenne l’Olona. Dopo l’annessione all’Impero dei Francesi Roma degradò a dipartimento del Tevere, mentre Firenze fu dipartimento dell’Arno. Per imporsi, la “rivoluzione” cancellava

LE PROvInCE HAnnO 150 AnnIl’intreccio Fra stato e politici elettivi FU il vivaio della classe politica nella “nUova italia”

di Aldo A. MolA

Aldo A. Mola autore di Storia dell’Amministrazione provinciale di Cuneo dall’Unità al fascismo, 1859-1925, Torino, Aeda, 1971.

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la storia. Utilizzò la geografia per sradicare la memoria del passato. La datazione ebbe inizio dall’avvento della repubblica, poi dall’autoincoro-nazione di Napoleone. Illusioni di breve durata. Restaurato sul trono degli avi nel maggio 1814 Vittorio Emanuele I di Savoia spazzò via le denominazioni francesi e riorganizzò il regno in tre intendenze generali (Torino, Chambéry e Genova), varie intendenze e sottointendenze affidate a funzionari di nomina regia, come i sindaci a capo dei comuni, assistiti da consigli comunali ordinari e raddoppiati, in vigore dal 1775 e integrati da consigli aggiunti dai poteri più ampi rispetto a quelli ordinari: una babele di organi che accon-tentava e complicava. Nel 1842 re Carlo Alberto di Savoia riordinò l’amministrazione del regno. Nel 1847 le intendenze presero nome di divisioni, ripartite in province, corrispondenti agli antichi circondari napoleonici. Ciò che però più conta il re stabilì l’elettività dei consigli comunali, provinciali e divisionali e varò libertà di stampa. In un baleno nacquero decine di quotidiani e di riviste di varia periodicità. Pochi mesi dopo, il 4 marzo 1848, lo Statuto mutò la monarchia da assoluta in rappresentativa, con un Senato di nomina regia e vitalizio e una Camera eletta a suffragio ristretto. Il 23 marzo il regno di Sardegna scese in guerra contro l’impero d’Austria. L’8 maggio venne eletta la Camera e furono nominati una sessantina di senatori. Per via della guerra le elezioni dei consigli comunali, provinciali e divisionali furono rinviate a novembre. I primi, presieduti da sindaci di nomina regia e affiancati da vicesindaci nominati dall’intendente, operarono col concorso di assessori effettivi e supplenti. I consigli provinciali elessero i loro presidenti, ma il potere effettivo su delibere e amministrazione rimase nelle mani dei viceintendenti. Lo stesso avvenne nei consigli divisionali, che elessero i presidenti. La deputazione (oggi giunta) era elettiva ma controllata dagl’intendenti, che del resto erano persone di grande preparazione. In seno alle deputazione essi non avevano potere di voto, ma di veto. Impedivano che le ammini-strazioni si occupassero di politica. Tra sindaci e assessori comunali, consiglieri provinciali e divisionali, deputati provinciali e divisionali, deputati alla Camera e senatori del regno si formò un circolo virtuoso che vide un alto numero di notabili passare dall’una all’altra carica: tutte gratuite. A quel modo nacque un ceto politico-amministrativo di grande esperienza, favorito da eventi apparentemente contradditori.

La Camera subalpina, l’unica sopravvissuta al fallimento della prima guerra d’indipendenza (1848-49), venne sciolta e rieletta tre volte in cinque anni mentre si susseguirono otto diversi

governi in soli quattro anni (ministeri Balbo, Casati, Alfieri, Perrone, Gioberti, Chiodo, de Launay e Azeglio). In pochi mesi si susseguirono decine di ministri. Anziché incidere negativamente quel turbinio fece emergere valori veri, personalità di spicco come Camillo Cavour, Urbano Rattazzi, Alfonso La Marmora, Carlo Boncompagni, Giovanni Durando, Massimo d’Azeglio...Nel decennio seguente si moltiplicarono i progetti di riforma dei consigli comunali e provinciali. Tra i più interessanti vi fu quello di Gustavo Ponza di san Martino, ministro dell’Interno con Cavour, già intendente generale a Genova. Esso assegnava al governatore (ex intendente) il controllo della vita politica e della forza militare per assicurare l’ordine pubblico, sul modello dei prefetti francesi. Alla vigilia dell’unificazione nazionale il regno di Sardegna aveva di fronte due esempi: la Gran Bretagna, con ampie autonomie locali, e la Francia, che da Luigi XIV a Napoleone aveva utilizzato la macchina di intendenti e “prefetti di polizia” per imporre il potere centrale. Il regno di Sardegna imboccò una terza via, ispirata all’esperienza del regno dei Belgi: meno centralistica ma al tempo stesso guardinga nei confronti di camarille locali. Dopo un lungo braccio di ferro tra la coalizione liberaldemocratica (il centro-sinistra di Cavour e Rattazzi) e i conservatori e clericali (Clemente Solaro della Margarita, Ottavio Thaon di Revel, don Giacomo Margotti) il 23 ottobre 1859 la riforma Rattazzi voltò pagina. Con più di 30.000 abitanti elessero consigli di 30 membri, con durata quinquennale, che si radunavano ordinariamente due volte l’anno e votavano la giunta (6 assessori effettivi e due supplenti); il sindaco veniva nominato dal re per un triennio ed era confermabile se rieletto consigliere. Nelle Province (nuova denominazione delle Divisioni), ripartite in circondari (ex province), il potere esecutivo era rappresentato dal governatore (dal 1862 denominato prefetto),anziché dall’intendente. Le province con popolazione superiore ai 500.000 abitanti eleggevano un consiglio di 60 membri, che a sua volta votava il presidente e la deputazione, ancora presieduta dal governatore (o prefetto) che vi aveva potere di veto ma non di voto. La riforma giunse in buon punto: l’ordinamento Rattazzi venne infatti esteso alle terre via via annesse da Vittorio Emanuele II: Lombardia, Ducati padani, Legazioni pontificie, Granducato di Toscana e, dopo la debellatio del regno delle Due Sicilie e l’occupazione di Umbria e Marche, l’Italia centro-meridionale. In tal modo il re, il governo tramite il Ministro dell’Interno e la macchina dei governatori (prefetti) ebbe il controllo dei sindaci e delle deputazioni provinciali.

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nel 1888 il governo presieduto da Francesco Crispi, che tenne sempre per sé l’Interno come poi fece il suo antagonista Giovanni Giolitti, riformò gli enti locali. Rese elettivi i sindaci delle città con più di 10.0000 abitanti, mentre i consigli provinciali elessero il presidente della deputazione, liberata dal controllo diretto del prefetto, che però presiedette le neonate giunte provinciali amministrative, organi di controllo di legittimità delle delibere di province e comuni: un filtro importante per impedire spese senza copertura. Il governo si riservò la facoltà di sciogliere i consessi locali e di sostituire sindaci e presidenti con commissari regi e prefettizi.Nel 1915 venne varato il testo unico degli enti locali. Nel 1920 si svolsero elezioni che vararono con successo blocchi moderati per contenere l’avanzata di socialisti ed estremisti. Grazie al loro sistema di votazione (ogni consigliere era eletto in un mandamento: e questo favoriva alleanze di moderati), le province si rivelarono più refrattarie dei comuni al vento dei partiti di massa e del cambiamento impresso dal Partito nazionale fascista con l’avvento di Benito Mussolini alla presidenza del consiglio dei ministri. Dopo la schiacciante vittoria elettorale dell’aprile

1924, in cui il “listone” ministeriale ottenne circa il 66,6 % dei consensi e due terzi dei seggi, il governo centrale procedette per gradi. Con legge 4 febbraio 1926 n.237 i sindaci dei comuni inferiori ai 5.000 abitanti furono sostituiti da podestà di nomina prefettizia, eventualmente assistiti da una consulta. Con legge 3 settembre 1926 n.1910 l’ordinamento podestarile venne esteso a tutti i comuni del regno. Per razionalizzare l’amministrazione locale e ridurne il costo, il governo avviò l’accorpamento dei comuni minori e promosse circoscrizioni comunali di grande estensione. Nel 1927 i consigli provinciali non ancora commissariati furono sciolti e sostituiti da commissioni reali alla cui testa venne insediato un prèside assistito da commissari. In secondo tempo alle Commissioni reali subentrarono i Rettorati, con prèsidi, vicepresidi e rettori: notabili, alti ufficiali in congedo o magistrati a riposo, ex parlamentari, senatori, professionisti, notabili, che prestarono la loro opera senza remunerazione, per mero servizio verso la pubblica amministrazione. Però, mentre l’area dei comuni venne estesa, nacquero nuove province con riduzione dei confini di quelle esistenti. Alla caduta del fascismo, molti ritennero che le

Tre province con più di 3.000.000 di abitanti (Roma, Milano e Napoli) hanno consigli elettivi di 45 membri e 12 assessori; 20 contano fra 700.000 e 3.000.000 ed hanno consigli di 36 membri e 12 assessori; 49 province hanno fra 300 e 700.000 abitanti, consigli di 30 membri e giunte di 10 (alcune di esse, come Barletta - Andria - Trani e Forlì - Cesena sono di recente istituzione); infine 38 province con meno di 300.000 abitanti hanno 24 consiglieri (25 nelle province siciliane) e 8 assessori .Tra queste si contano le province di recente istituzione. Alla proclamazione del regno (17 marzo 1861) le province erano 59; salirono a 69 dopo l’annessione di Mantova, del Veneto (1866) e di Roma (1870). Crebbero a 76 con l’acquisizione del Trentino e della Venezia Giulia. Nel 1924 sorsero le province diFiume, Pola e Zara.Con r.d.l. 2 febbraio 1927 n.1 il governo Mussolini istituì 17 nuove province (Aosta, Vercelli, Varese, Savona, Bolzano, Gorizia, Pistoia, Pescara, Rieri, Terni, Viterbo, Frosinone, Brindisi, Matera, Ragusa, Castrogiovanni o Enna, e Nuoro) . Seguirono quelle di Littoria (1934), Asti (1935) e Lubiana (1941).Nel 1945 la Provincia di Aosta divenne regione; Littoria venne detta Latina; le province di Istria e Carnaro vennero annesse dalla Iugoslavia.Da 92 le province crebbero a 95 con l’istituzione delle consorelle di Pordenone, Isernia e Oristano, cui nel 1992 si aggiunsero Verbano - Cusio - Ossola,

Biella,Lecco,Lodi, Rimini, Prato, Crotone, Vibo Valentia. Nel 2001 in Sardegna sorsero le province regionali di Olbia,Tempio, Ogliastra, Medio Campidano e Carbonia-Iglesias. Con l’istituzione delle province di Monza e Brianza, Fermo e Barletta - Andria - Trani alla vigilia del 150° del Regno le province sono 110.

LE PROvInCE In CIfRE

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province e i prefetti fossero da cancellare. Se ne dichiarò convinto anche Luigi Einaudi, futuro presidente della Repubblica, ma i fatti non gli dettero ragione. Il 4 aprile 1944 il secondo governo Badoglio, che governava per decreti, varò il regio decreto legge che ripristinò il testo unico del 1915 cancellando in gran parte quello del 1934. Nel 1946 i consigli comunali furono eletti a suffragio universale maschile e femminile. Il 2-3 giugno venne eletta l’Assemblea chiamata a redigere la Costituzione della repubblica. I consigli provinciali rimasero nelle mani di commissari nominati dai comitati provinciali di liberazione nazionale in attesa che ne fosse chiarita la sorte. Nel 1951 la province riemersero con l’elezione di consigli che a loro volta sceglievano il presidente, a capo della giunta provinciale, elettiva. Rimasero in vita sia le giunte provinciali sia i poteri di scioglimento dei consigli locali. Tale ordinamento durò nei venti anni successivi al varo delle regioni a statuto ordinario (1970), nei cui consessi entrarono molti ex presidenti e assessori provinciali, forti di lunga esperienza di amministrazione locale. Con la legge 8 giugno 1990 n.1248 da enti autarchici territoriali, quali erano stati definiti

(Alessandria, 30 giugno 1808 - Frosinone, 5 giugno 1873) fu tra i massimi artefici della unificazione italiana. Refrattario alle ideologie, nel 1847 ospitò a Casale Monferrato il Congresso agrario che nei mesi seguenti dette impulso alle riforme di Carlo Alberto di Savoia. Deputato di Alessandria dall’aprile 1848, ministro di Grazia, Giustizia e Culto sino alla sconfitta di Novara (marzo 1849), presidente della Camera dopo il varo della maggioranza parlamentare di centro-sinistra con Cavour e nuovamente alla Giustizia dal 1853 al 1858, ministro dell’Interno con La Marmora dopo l’armistizio di Villafranca (luglio 1859), ancora presidente della Camera, da capo del governo nel 1862 legò il nome alla sanguinosa repressione della spedizione di Garibaldi dalla Sicilia (“Roma o morte”, agosto, spenta sull’Aspromonte). Nel 1867 varò il primo governo di centro-sinistra della Terza Italia ma fu travolto dalla sventurata spedizione di Garibaldi per la liberazione di Roma, schiacciata a Mentana dagli zuavi di Napoleone III accorsi a sostegno di Pio IX. Nel 1863 sposò la trentaduenne Maria Laetitia Bonaparte Wyse, vedova de Solms, animatrice di un vivace salotto politico-letterario-artistico

in età fascista, le province divennero “istituti di partecipazione”. La legge 23 marzo 1993 n. 81 introdusse l’elezione diretta del presidente della provincia, con potere di designazione della giunta, mentre il presidente del consiglio venne eletto dai consiglieri. Anziché estinguersi le province crebbero di numero, sovente con articolazioni territoriali sconcertanti. Ora sono 110, cioè quasi il doppio rispetto alla proclamazione del regno, quand’er-no 59; e nulla ne lascia presagire il tramonto. Se alcuni ne propongono lo scioglimento o la riorganizzazione funzionale, altri osservano che esse rispondono alla storia profonda del Paese e ne rispecchiano la complessità.Rimangono del tutto inesplorati gli anni tra il 1848 e il 1859, quando i consigli divisionali e provinciali del regno di Sardegna prepararono la riscossa, le vittorie del 1859, le annessioni del 1860, la spedizione dei Mille, la proclamazione del regno d’Italia: un processo rapido che risulta sorprendente e inesplicabile solo se se ne ignorano le radici profonde. Il lavorio dei consigli comunali e provinciali e del parlamento subalpino nel “decennio di preparazione” preparò il coronamento del Risorgimento.

nel solco della madre, celebre per le imprese culturali ed amatorie. Grata perché egli ne aveva generosamente difeso il buon nome persino in duello, la vedova (poi sposa dello spagnolo Rute) ne scrisse il miglior profilo tuttora disponibile: Rattazzi et son temps (1881).Come statista Rattazzi fu secondo solo a Cavour. Però manca tuttora di una biografia. Ne ha più d’una invece sua moglie. Rattazzi presiedette il Consiglio provinciale di Alessandria, come Quintino Sella fece a Novara, Paolo Boselli a Torino e Giovanni Giolitti a Cuneo, a conferma della centralità di quei consessi locali per la formazione della dirigenza politica. Tra il 1849 e il 1859 alla presidenza del Consiglio della Divisione di Cuneo si susseguirono statisti illustri quali il deputato Felice Gerbino, i senatori Giuseppe Siccardi, Ludovico Sauli d’Igliano e Diodato Pallieri, il deputato Giambattista Mi-chelini che poi, il 27 febbraio 1860, venne eletto presidente del Consiglio provinciale. La storia di quel decennio rimane però tutta da scrivere.

URbAnO RATTAzzI

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TERRA MADRE. COME nOn fARCI MAnGIARE DAL CIbO

Visioni, strategie e proposte per far fronte agli squilibri produttivi, ambientali e sociali in“Terra madreCome non farci mangiare dal cibo”, il nuovo libro di Carlo Petrini

È uscito in libreria, a marchio Giunti Slow Food, il nuovo libro di Carlo Petrini “Terra Madre. Come non farci mangiare dal cibo”. Nel libro - ideale seguito di “Buono, pulito e giusto”, pubblicato nel 2005 per Einaudi - Petrini aggiorna le sue teorie partendo dalla crisi mondiale e dal modello di pensiero e sviluppo che ne è la causa prima. Un modello che ha fallito e non sa trovare soluzioni innovative al di fuori del sistema globale che ha creato.Per il Presidente di Slow Food la risposta all’attuale crisi, che non solo è finanziaria ma di sistema, deve partire dall’alimentazione: il cibo è stato snaturato fino a diventare un mero prodotto di consumo, è stato privato dei suoi valori profondi, è divenuto una merce qualsiasi, altamente insostenibile in tutte le sue fasi, dalla coltivazione all’atto del mangiare.Il 23 ottobre 2008, aprendo a Torino la terza edizione di Terra Madre, Petrini diceva: “l’agricoltura non deve essere un mero comparto economico, paragonabile per esempio alla siderurgia, ma qualcosa di più complesso, figlio di una visione olistica, che comprende la sacralità del cibo, il rispetto per l’ambiente, la socialità, la convivialità, ogni manifestazione culturale».Punto di partenza delle riflessioni è proprio Terra Madre, la rete mondiale delle comunità del cibo fondata da Slow Food, composta da migliaia di pescatori, agricoltori, allevatori su piccola scala che convergono a Torino da 153 paesi del mondo ogni due anni, ma sono attivi nelle loro nazioni tutti i giorni, tanto da essere “un nuovo soggetto che si sta affacciando sul panorama mondiale e configurando come una delle più grandi reti al servizio del pianeta”. Le comunità del cibo possono giocare un ruolo centrale per creare un dialogo costrut-tivo tra chi produce e chi mangia e riequilibrare il rapporto tra l’uomo e la terra. Questo è fondamentale per dare il giusto valore al cibo. Da qui il sottotitolo del libro, che invita a non farsi mangiare dal cibo. In questo mondo di valori capovolti e di alimen-tazione globale, infatti, non siamo più noi che lo mangiamo, ma viceversa.

“Il cibo ci mangia perché mangia la Terra, le sue risorse, la sua possibilità di rinnovarsi. […] Il consumismo è un’ideologia che depreda le risorse, spreca e alla fine non soddisfa veramente i bisogni”, afferma Petrini. “Nel mondo del cibo industriale-globale quest’ideologia ha raggiunto il suo apice: siamo dei prodotti di consumo […] usati senza mai raggiungere un vero benessere. Il cibo ci mangia, diventiamo il complemento oggetto della frase, perdiamo ogni possibilità di essere attivi”.

L’invito di Carlo Petrini è di tornare a essere soggetti. Grazie alle comunità del cibo è possibile realizzare forme di economia locale; per ricon-quistare la sovranità alimentare si deve partire dall’alleanza tra i produttori, estranei al modello di pensiero imperante e capaci di lavorare in sintonia con la natura e i consumatori. A questi ultimi – e quindi a tutti noi – Petrini attribuisce un ruolo fondamentale, tanto da coniare il termine “co-produttori”: siamo infatti noi come consumatori consapevoli che, privilegiando i prodotti locali e sentendoci partecipi del processo che porta il cibo sulla tavola, possiamo garantire retribuzioni eque,

combattere lo spreco, innescare processi virtuosi dal punto di vista economico e sociale.Il cibo sarà la chiave per riprenderci le nostre vite.

Terra Madre. Come non farci mangiare dal cibodi Carlo PetriniAllegato dvd di “Terra Madre”, di Stefano Scarafia e Paolo CasalisEditore Giunti Slow FoodPrezzo 12,00 euro (libro + dvd)

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Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, fa parte della categoria degli “innovatori”. Nel corso di un’attività più che ventennale ha introdotto nuovi concetti di gastronomia e di qualità alimentare, e li ha tradotti in realtà internazionale, attraversol’associazionismo, l’attività editoriale, la creazione dell’Università del Gusto a Pollenzo. Nel gennaio 2008, il quotidiano inglese “The Guardian” lo ha citato, unico italiano, tra le “50 persone che potrebbero salvare il mondo”. La sua più recente iniziativa, avviata nel 2004, è la costituzione di “Terra Madre”, che comprende una rete di circa 1.600 comunità di produttori in 153 paesi del mondo. Il libro “Terra Madre” ne presenta la filosofia e gli obiettivi.Con riferimento al settore agro-alimentare, Carlo Petrini fornisce un contributo originale alla riflessione in corso sull’avvenire del pianeta da parte di politologi, sociologi, storici, analisti di diversa formazione. Vi è un filo conduttore che unisce diversi approcci al cambiamento epocale, e tutti hanno come comune denominatore la consapevolezza che abbiamo cominciato un cammino verso l’ignoto.

Jacques Attali, ad esempio, prefigura un avvenire nel quale le élites non avranno radici sul territorio, ma saranno “nomadi”, e governeranno un mondo multipolare scosso da tensioni sociali e da conflitti; Alain Minc immagina scenari di crisi tutt’altro che improbabili. Per restare in Italia e a firme ben note ai lettori di Rassegna, Walter G.Scott considera il rispetto e la conser-vazione dell’ambiente e la ricerca di un modello di sviluppo sostenibile non solo come costo e necessità, ma come straordinaria opportunità per il mondo delle imprese. E Giampaolo Fabris, introducendo il concetto di Societing come evoluzione del marketing, evidenzia la richiesta nuova di trasparenza e di eticità da parte del consumatore lungo tutta la filiera di ciò che acquista e spiega perché occorre portare l’enfasi dal mercato alla società. Carlo Petrini fornisce una preziosa tessera al mosaico di questa riflessione multidisciplinare e propone inedite chiavi di lettura sul ruolo che deve essere assegnato al cibo. “Nel sistema agro-alimentare industriale che domina il pianeta” - si legge in apertura di “Terra Madre”- il cibo

LE COMUnITà DEL CIbO, LUOGHI DEL nUOvO UMAnESIMO

di cArlo BeniGni

I vALORI E LA MISSIOnE DI TERRA MADRE “la nostra crisi ricorda qUella dell’impero romano”intervista con carlo petriniA curA di cArlo BeniGni

“Terra Madre” si propone come nuovo soggetto nel panorama politico ed economico globale; qual è la sua missione?“Terra Madre” nasce nel 2004 come un grande meeting di persone da ogni parte del mondo e si trasforma presto in insieme di reti in cui coloro che le compongono nei diversi territori lavorano giorno per giorno per un nuovo modello economico, agricolo, alimentare e culturale. È un modo molto concreto di mettere in pratica ciò che è stato definito “glocalismo”: un insieme di azioni su scala locale con l’obiettivo di avere importanti ripercussione a livello globale. È un soggetto che si evolve con il tempo, ha una sua politica, dei valori condivisi, degli obiettivi a lungo e medio termine.Come valuta gli scenari mondiali nei quali si inserisce l’azione di “Terra Madre”?

La attuale crisi e il momento storico che stiamo vivendo rendono evidente la necessità di trasfor-mazioni profonde. Siamo in un’era di passaggio e occorrono nuovi paradigmi. Vi è una crescente crisi di “governance” mondiale, la politica stenta a dare risposte, come si è visto dai risultati della conferenza di Copenhagen sull’ambiente. Rilevo un’analogia con l’epoca che ha visto la crisi dell’Impero romano. Un sistema che aveva dominato il bacino del Mediterraneo, gran parte dell’Europa e il Medio Oriente si trovò lentamente delegittimato. La caduta non fu improvvisa: durò tre secoli. In ogni angolo dell’Impero nacquero le Pievi, delle zone di autonomia locale, in cui si svilupparono in modo indipendente una nuova cultura, nuove regole, nuovi modi di intendere la civiltà. Attraverso le Pievi si espresse un bisogno di organizzazione nuova, che partiva dal basso; le comunità del cibo sono le Pievi del prossimo futuro.

segue a pag 28

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è diventato una merce come tutte le altre, il cui prezzo è stabilito da regole di mercato disumane, senza badare alla qualità e senza rispettare chi lo produce. In questo mondo di valori capovolti, è il cibo che ci mangia: un cibo omologato, seriale, globale e poco naturale che inquina la terra, dal campo al nostro stomaco, che causa gravissimi danni all’ambiente e alla natura, dalle campagne fino alle odierne megalopoli”. Per non essere più mangiati dal cibo, Petrini propone un’alleanza tra produttori e consumatori. “Terra Madre si batte per un rapporto vitale tra la terra e gli esseri che la abitano; è un nuovo soggetto politico, interconnesso a attivo ovunque, per contrastare lo strapotere dell’agrobusiness internazionale. Le comunità del cibo possono riequilibrare il rapporto tra l’uomo e la Terra, trasformare l’atto del consumo in una scelta innovatrice, grazie alla quale il consumatore, diventato co-produttore si prodiga per un sistema in cui ogni comunità locale ha diritto alla propria sovranità alimentare. Solo se sapremo riaffidare alle comunità del cibo il potere di scegliere cosa e come produrre, come distribuire e far co-produrre, potremo fermare la grande macchina che insieme alla Terra sta divorando anche noi”.Secondo Carlo Petrini, lo spopolamento della campagne e la proletarizzazione delle popolazioni agricole, in particolare nei Paesi in via di sviluppo, dove si registra un massiccio trasferimento nei mega centri urbani, trovano spiegazione nella

trasformazione del cibo in un bene di consumo tout court, spogliato di tutti i suoi valori materiali, culturali e spirituali; “il sistema che gli è stato costruito intorno, o in cui è stato inserito, ha sostituito il suo valore con il prezzo. Il denaro ha soppiantato nettamente altri valori per diventare l’ambito segreto della felicità”.

nel sistema globale del cibo agro-industriale gli alimenti sono diventati merci come tutte le altre, né più né meno come il petrolio, il legname o altre merci da scambiare, il cui prezzo è stabilito in tutto il mondo dalle borse internazionali. Grano, caffè, cacao sono tutte commodities come i metalli o l’energia, merci soggetti alle leggi della domanda e dell’offerta, distribuite sul mercato senza differenziazioni qualitative e senza che sia data alcuna importanza a chi le produce. “Sottoporre il cibo a queste leggi non crea soltanto un’omologazione dei prodotti che tende a ridurre la biodiversità e favorisce le monoculture dannose per l’ambiente, ma è anche causa di grandi iniquità” - scrive Petrini. “Interi Paesi, soprattutto nel sud del mondo, si sono specializzati- spesso per un retaggio colonialista o neo-colonialista- in determinate produzioni e subiscono puntualmente immani tracolli quando crolla il prezzo della derrata agricola che si coltiva in preponderanza sul loro territorio. Inoltre per le popolazioni stesse il fatto che il cibo diventi una cosa da acquistare e non

Quali sono le analogie delle Pievi con le comunità del cibo organizzate da “Terra Madre”?Le analogie non sono poche. L’umiltà, l’imme-diatezza, la concretezza delle comunità di Terra Madre sono una risposta ai segnali di decadimento che sta dando il grande impero globale dell’agri-business. Le comunità sono alternative sane al sistema delle multinazionali, ne ignorano i diktat; per tramandare i saperi antichi e produrre in maniera sostenibile, esse utilizzano tanto la memoria quanto le innovazioni (come Internet) che volgono al loro servizio senza snaturarsi; maneggiano la tecnologia ma non la subiscono, si servono delle cose buone della globalizzazione per farsi sentire; sono una rete che condivide dei valori. Le Pievi di questo millennio si fanno guidare dalla natura senza la pretesa di dominarla; con il semplice atto di produrre, trasformare e consumare il proprio cibo compiono in realtà un’operazione molto più profonda. Le comunità del cibo sono i luoghi di un nuovo umanesimo, dove etica ed estetica tornano a fondersi.A suo giudizio il futuro sarà nel segno della “Green economy”?Probabilmente sì, a condizione di averne una visione corretta. Sarebbe infatti sbagliato interpretare la “Green economy” come uno dei tanti settori di consumo, magari riservati a target di nicchia e ad alto reddito.Ritiene compatibili i valori e le esigenze delsociale e dell’economico?

La risposta più moderna e convincente a questa domanda è stata data Benedetto XVI°, che nella recente enciclica ha dimostrato come non vi sia antitesi tra il sociale e l’economico. Chi opera nel sociale incide sull’economia; l’attività nel sociale non può essere ricondotta alla categoria delle opere di misericordia, interagisce sul modello di sviluppo complessivo. La questione centrale, oggi, risiede nel saper governare il limite; non è immaginabile, infatti, una prospettiva di crescita infinita, in un contesto finalizzato al consumo inteso come valore. Le risorse disponibili non sono infinite, e occorre restituire centralità alla persona, come soggetto e non come consumatore passivo; occorre riscoprire la differenza tra prezzo e valore. Anche Keynes si poneva il problema di intervenire non solo sulla domanda, ma anche sull’offerta…Una valutazione dell’attuale contesto dell’agroalimentare italiano?Per la prima volta, quest’anno non c’è settore agricolo che non sia in sofferenza. Molti produttori non hanno avuto il senso del limite, ad esempio nel campo del vino, che ha registrato una caduta verticale dei prezzi, a causa della sopraproduzione. Ma il problema vero, a livello internazionale a anche italiano, è il potere della grande distribuzione, in grado di condizionare l’industria. La speranza di Terra Madre è che si vada a riscoprire i vantaggi dei mercati di prossimità e di forme alternative di distribuzione, dai “social farmers” ai consorzi di acquisto.

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da produrre, soprattutto in quei Paesi che si stanno velocemente urbanizzando, crea grande povertà e accresce fame e malnutrizione”. “Privato di valori culturali, sociali, ambientali, il cibo da oggetto di attenzione, di cura, di orgoglio - da vera risorsa - diventa un mostro che devasta le campagne dal punto di vista sociale ed ecologico, che crea iniquità ovunque. Lo si può sprecare con noncuranza e ci lascia infine soli nell’incertezza”. “Terra Madre” si basa su una premessa di valore: è attraverso le diversità che si costruisce l’identità, con lo scambio e il confronto tra modi diversi di esistere; questo vale anche per le lingue. “Stanno sparendo molte lingue ancestrali, ciascuna delle quali rappresenta un modo di vedere il mondo, per come lo descrive e lo interpreta, e al loro posto trionfa il globish, una versione molto impoverita dell’inglese. L’omologazione linguistica è uno dei tanti modi con cui vengono appiattite le diversità che sono invece il principale elemento creativo che l’umanità ha a disposizione”. A tale premessa fa seguito una precisa indicazione: il ritorno alla sovranità alimentare. “Tutti coloro che sono coinvolti primariamente nella creazione del cibo devono tornare ad essere “sovrani”; devono poter decidere cosa seminare nei campi, quali animali mettere nelle stalle e nei pascoli, quali varietà, razze e tecniche utilizzare. Devono poter vedere rispettate le loro tradizioni culturali e l’ambiente locale; la produzione deve essere al servizio di una gastronomia viva, che rispecchia le storie e le abitudini di un popolo. La terra, a sua volta, deve essere rispettata nei suoi cicli e nella sua ri-generabilità”. La proposta di Petrini è nel senso di ripartire dall’economia locale, “che può trasformare l’atto del consumo-impersonale, sprecone, mai realmente soddisfacente- in una scelta attiva, grazie alla quale il consumatore diventa co-produttore”. “Terra Madre” non è uno dei tanti manifesti politico-ideologici destinati a durare lo spazio di un mattino, e soprattutto non è riconducibile allo stereotipo del pensiero “no-global”. Realtà organizzata in piena espansione nei cinque continenti, è un ripensamento critico della cultura alimentare, in funzione dell’avvenire, e corrisponde, in campo finanziario, all’assoluta, evidente necessità di una riaffermazione della centralità dell’economia reale. “Terra Madre” - conclude Petrini - “sarà sempre più locale, e per questo sarà sempre più sostenibile,efficace e soprattutto - non è un paradosso - globale. Tutto ciò in barba a chi vuole che i fautori dell’economia locale vadano bollati come “no-global”. Noi di “Terra Madre” siamo più “global” di tutti, perché siamo consapevoli di essere parte viva, attiva, creativa di quel globo meraviglioso che è la nostra madre Terra”.

LA COMUnITà DEL CIbO La comunità del cibo si configura come soggetto centrale per una nuova politica globale del cibo. È dunque necessario spiegare come le comunità sono nate nell’alveo di Terra Madre e si siano non poco evolute nel loro concretizzarsi. Il termine “comunità del cibo” nasce a fine 2003 con l’esigenza di trovare un minimo comune denominatore che identificasse i soggetti da invitare alla prima edizione Terra Ma-dre. Una sorta di “unità” al cui interno si trattava di scegliere i rappresentanti che, per carisma o maggio-re facilità nel comunicare (conoscenza delle lingue per esempio), sarebbero dovuti convenire a Torino. Le segnalazioni che ci pervenivano o che avevamo a disposizione, infatti, indicavano gruppi sociali molto variegati: villaggi, etnie, associazioni di produttori su piccola scala, gruppi di famiglie, gruppi d’acquisto, interi sistemi di produzione locale, filiere complete strette attorno al concetto di cibo sostenibile, agricol-tura urbana, di prossimità o anche nazionale. La geografia poteva venirci in aiuto nel raggruppare queste persone, perché generalmente rispondevano a un’area ben determinata e ristretta; ma erano rappre-sentate anche aree geografiche più vaste e, addirittu-ra, il collegamento tra i vari soggetti di una comunità poteva anche essere soltanto virtuale e a distanza. Il termine però ci parve subito efficace, in quanto tali persone erano inserite in gruppi che, pur molto ete-rogenei, erano tutti caratterizzati dalla condivisione di alcuni valori e soprattutto dal fatto di mettere il cibo al centro delle proprie vite: un dato per nulla scontato, nel mondo d’oggi.Con il passare delle edizioni di Terra Madre e con il consolidarsi della sua rete permanente, il significato di comunità del cibo si è progressivamente arricchito e si è passati da una definizione più che altro stru-mentale a un vero e proprio elemento concettuale, il perno ideale e concreto sul quale la filosofia e le azioni di Terra Madre riescono a esprimere la loro pienezza e importanza. Forte di una concezione oli-stica e sistemica, Terra Madre ha sin dalla seconda edizione iniziato ad allargare il concetto di comuni-tà del cibo, inserendo cuochi, accademici, musicisti, produttori di fibre naturali. Dall’idea originaria in cui prevalevano le comunità composte da soli produttori, si è passati a un nuovo approccio che vede coinvolti anche i consumatori organizzati e alleati ai contadini. In questa prospettiva anche la parola stessa “consu-matori” è da considerarsi inadatta: quelli che man-giano il cibo delle comunità ci piace chiamarli piut-tosto “co-produttori”. Infatti il loro rifiuto di un’idea consumistica del sistema agro-alimentare globale, fa sì che non possano essere classificati come dei sem-plici “consumatori”. Sono soggetti consapevoli che «mangiare è un atto agricolo»1 e premiano chi coltiva con senso gastronomico2. Consci che le loro scelte alimentari hanno un im-patto sulla sostenibilità generale dei processi di pro-duzione, si rifiutano di essere soggetti passivi, che acquistano con sbadataggine - se non ignoranza - ciò

1) Wendell Berry, The Pleasures of Eating, in ID., What are People for?, North Point Press, San Francisco 1990.2) Carlo Petrini, Buono, Pulito e Giusto - PrincIpi di nuova gastronomia, Einaudi, Torino 2005.

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di cui nutrirsi. Sanno che ogni alimento è il risultato di una rete e che di quella rete possono fare parte attivamente, vedono l’atto finale, il mangiare, come l’approdo di un processo produttivo che è ciclico, perché inserito nei meccanismi di funzionamento di un sistema più grande, quello naturale. L’idea di consumo è invece riduttiva, implica un’azione che è contemporaneamente subita dal soggetto stesso, pas-siva nei confronti del sistema alimentare e nociva nei confronti del Pianeta perché di fatto lo “consuma”.Co-produrre, essere co-produttori, significa al contra-rio far parte della comunità del cibo, insieme a chi coltiva, alleva, trasforma e distribuisce; significa con-dividerne le azioni virtuose e le idee di rinascita per un sistema del cibo che, tornando a essere armonico ed equilibrato, permetta alla Terra di prosperare e ri-generarsi. Le comunità del cibo dunque sono un’enti-tà estremamente articolata, costituita da sotto-sistemi che, anche se ristretti, possono essere molto complessi. Sono fortemente radicate nel territorio su cui è distri-buita la loro popolazione e si prendono cura di quella porzione di mondo. Non ci sono limiti alle tipologie di persone che ne fanno parte, perché quelle persone, a vario titolo di rappresentanza, sono comunque colle-gate dall’idea di un cibo sostenibile, buono, che non perpetri iniquità; sono l’espressione di un’identità che ha memoria del passato e ha chiaro in mente ciò che vuole per il futuro. I tempi sono maturi per una as-sunzione di responsabilità comune, una condivisione di valori che ci faccia sentire tutti contadini. Sposando la causa di una produzione buona, sostenibile e giusta per i produttori, si modifica il ruolo del consumatore, viene meno la differenza tra chi abita in città e vive in campagna: tutti dobbiamo iniziare a sentirci un po’ contadini, anche se non lo siamo.

LE PIEvILe attuali crisi e il momento storico che stiamo vi-vendo rendono evidente la necessità di trasformazio-ni profonde. Siamo dentro un’era di passaggio, nella quale dovranno cambiare sistemi di gestione della politica, della cultura e dell’economia, in cui servo-no nuovi paradigmi. Un’analogia con l’epoca che ha visto la caduta dell’Impero romano non è peregrina. Un sistema che aveva dominato il bacino del Medi-terraneo, gran parte dell’Europa e del Medioriente si trovò lentamente delegittimato. La caduta non fu improvvisa: durò tre secoli. In ogni angolo dell’Impe-ro nacquero le pievi, delle zone di autonomia locale. Nelle pievi si sviluppavano in maniera indipenden-te una nuova cultura, nuove regole, nuovi modi di intendere la civiltà. Le pievi divennero progressiva-mente territori, anche di vaste dimensioni. Natural-mente ebbero il loro maggiore sviluppo dove l’auto-rità centrale era più debole, ed è curioso notare come il nome derivi dal latino plebs, plebe. Lo sviluppo di una vita comunitaria esprimeva un bisogno di orga-nizzazione nuova che partiva dal basso, dal popolo.

Di fatto, visto che facevano riferimento alla Chiesa, si può dire che fossero già in rete tra di loro.Le analogie con le comunità del cibo non sono po-che. La loro umiltà, immediatezza, concretezza, è una risposta ai segnali di decadimento che sta dando il grande impero globale dell’agri-business. Poche multinazionali - cinque, le principali - sono quasi ri-uscite a monopolizzare la proprietà dei semi, delle terre, degli allevamenti, della varietà (sempre meno!) da utilizzare nei campi e nelle stalle, fino a proporre gli OGM come “soluzione finale” al loro dominio. Ma dopo un secolo di espansione incontrastata, di in-gerenze nei territori e di danni alla biodiversità, alle culture locali e agli equilibri economici e ecologici del Pianeta, l’impero scricchiola: le crisi attuali sembra-no decretare una prima importante battuta d’arresto che mette fortemente in discussione il loro operato. Queste industrie globali, grazie alloro controllo sul cibo, restano tra i soggetti più potenti del mondo, ma le comunità di Terra Madre sono alternative sane al sistema delle multinazionali, sono fuori dai loro mer-cati, sono fuori dalla loro idea di economia, di cibo, di agricoltura. Mentre le multinazionali si affannano inutilmente a trovare nuovi prodotti che consentano loro di mantenere il dominio sui mercati globali, le comunità del cibo, come le pievi, ne ignorano i dik-tat, e proseguono per la loro strada, dal basso, con la plebe e grazie alla plebe, un termine che tra l’altro in questo modo torna ad avere un significato per nulla spregiativo. Per tramandare i saperi antichi e produrre in maniera sostenibile, esse utilizzano tanto la memoria quanto le innovazioni (come internet) che volgono al loro servizio senza snaturarsi: maneggiano la tecnologia ma non la subiscono, si servono delle cose buone della globalizzazione per farsi sentire e per farsi for-za, per rendersi conto che non sono le sole al mondo. Sono una rete che condivide dei valori. Le pievi di questo millennio si fanno guidare dalla natura senza la pretesa di dominarla; con il semplice atto di pro-durre, trasformare e mangiare il proprio cibo com-piono in realtà un’operazione molto più profonda, che restituisce significato all’esistenza dell’uomo in quanto parte della Terra Madre. Questa consapevo-lezza fa delle comunità del cibo i luoghi di un nuovo umanesimo, dove etica ed estetica tornano a fondersi e dove l’impegno reale e partecipativo dei singoli, in una dimensione collettiva, sa coniugarsi in senso lo-cale e globale allo stesso tempo.

I fOnDAMEnTI DI UnA nUOvA GASTROnOMIAII piacere in sé non è un comportamento deviante. Ciò che è deviante, piuttosto, ciò che è insostenibile perché genera comportamenti insostenibili, è l’inten-dere il piacere come una cosa che non si può slegare dall’eccesso, sia in positivo, sia in negativo: è dunque l’eccesso a essere insostenibile. Ciò che va rifiutato

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è l’eccesso, non il piacere in sé. L’eccesso rischia di confonderci sia rispetto ai nostri limiti (quando è l’eccesso dell’abbondanza pantagruelica) sia ri-spetto alle nostre potenzialità (se è l’eccesso della privazione). Il piacere in quanto tale è un elemento fisiologi-co che non si può negare e che, anzi, è costruttivo provare, riconoscere, ricercare. Ma è necessario la-vorare sui propri limiti e potenzialità e negare tutte le forme d’eccesso. Non è tanto questione di tro-vare il “giusto mezzo”, è questione di buon senso. E ciò che si può chiamare, per riprendere Barto-lomeo Sacchi,1 honesta voluptas, oppure, con una definizione più moderna, piacere sobrio. Parlare di sobrietà in tempi di crisi potrà sembrare facile, scontato, quanto meno intenderla come l’immedia-ta conseguenza dello stato economico e finanziario attuale. Ma il piacere sobrio non è rinuncia fine a se stessa, non è morigeratezza obbligata perché non si hanno le possibilità di ottenere qualcosa di più, non è il classico “tirare la cinghia”. Vogliamo evitare i toni mortificanti proprio perché sfociano facilmente nel punitivo. Rivendichiamo il diritto al piacere, con la stessa responsabilità che hanno le comunità del cibo, insieme alla comunità del cibo di cui facciamo parte. II piacere è un dono della natura; contrapporlo all’impegno e all’etica non aiuta a comprenderne la bellezza. Non aiuta a comprendere che proprio in quanto naturale, il piacere va armonizzato con la natura, perché chiunque possa averne diritto, nel presente e nel futuro. La sobrietà ci chiama a non sprecare, per esempio, a sfruttare energie rinnova-bili per quanto ci è possibile nei nostri territori, a far tesoro degli insegnamenti che tutte le generazioni precedenti, in ogni latitudine, ci hanno tramanda-to. Servono per poter far fronte a periodi difficili, trasformando la privazione per povertà in un ele-mento di convivialità, nella scusa per inventare una nuova gustosa ricetta, o celebrando l’abbondanza come un’occasione da condividere con gli altri. La sobrietà spesso coincide con la semplicità, che tanto è legata a quel buon senso più volte da noi chiamato in causa: è un modo per reagire nel proprio conte-sto, sfruttando lo sfruttabile senza comprometterlo. E ciò che le comunità del cibo rivendicano e rap-presenta una vita più piena, di cui si è padroni.Questa non vuole essere la proposta di un quadro idilliaco, un sogno bucolico e utopico. Consapevoli di rischiare un’altra critica, ci teniamo a chiarire che non vogliamo dimenticare o aggirare le obiet-tive difficoltà. Sappiamo tutti che le società conta-dine non si sono mai distinte come società in cui era facile vivere. La durezza di quella vita a volte era, ed è ancora in molte parti del mondo, terribile. Da quella cultura vogliamo riprendere gli elementi che possono ancora essere innovativi, positivi. Ele-menti così distanti dal nostro vissuto di homo con-sumens, ma che ci riconducono a comportamenti

da co-produttori, al rispetto per certi valori umani e per la Terra: la dimensione comunitaria, lo spirito di adattamento locale2, l’educazione ai ritmi delle stagioni e la conoscenza più profonda del cibo.Questo è il senso della nuova gastronomia che vo-gliamo proporre, un cambiamento radicale di ap-proccio culturale, economico e sociale al cibo. La nuova gastronomia è una scienza, ma anche un atteggiamento. Per spiegare con precisione che cosa intendiamo, prendiamo spunto dalla defini-zione di gastronomia che diede Jean-Anthelme Brillat-Savarin nella sua “Fisiologia del Gusto”: “La gastronomia è la conoscenza ragionata di tutto ciò che si riferisce all’uomo in quanto egli si nutre”. Secondo Brillat-Savarin nella complessa scienza gastronomica sono implicate molte discipline: sto-ria naturale, fisica, cucina, commercio, economia politica. Anche gli attori della scienza gastronomi-ca, sempre secondo Brillat-Savarin, non sarebbero soltanto gli “anfitrioni”, ma «i coltivatori, i vigna-ioli, i pescatori e la numerosa famiglia dei cuochi, quale che sia il titolo o la qualifica sotto cui essi mascherano il loro occuparsi della preparazione degli alimenti». Se accogliamo questa definizione, ne deriva che la gastronomia vada oggi ridefini-ta alla luce delle evidenti e veloci trasformazioni della società in un’epoca post-moderna, come una scienza complessa e interdisciplinare che studia il cibo e tutto quanto gli è inerente. Valgono ancora le materie indicate da Brillat-Savarin, ma si posso-no aggiungere la antropologia, la genetica, la zoo-tecnia, l’agronomia, la sociologia, la medicina, la storia e anche l’ecologia. Il cibo va studiato come elemento culturale, come materia prima e derrata da scambiare, come preparazione dell’artigianato, dell’industria e dei cuochi, o come atto stesso del mangiare. La gastronomia è dunque una scienza multidisciplinare che coinvolge e interseca tutte le conoscenze relative al cibo in quanto elemento materiale - dal momento in cui si coltiva o si alleva al momento in cui si consuma - e in quanto ele-mento culturale, trasformato secondo tradizione o no, scambiato in maniera equa oppure no, raccon-tato o analizzato in maniera più o meno scientifica, scelto.Un approccio che ovviamente tiene conto di tutti gli elementi che portano in dote le comunità del cibo: il loro savoir faire, i loro prodotti, le loro tra-dizioni, i riti legati al cibo, l’atteggiamento e perfi-no la forma mentis. La gastronomia rispetta tutto ciò seriamente senza considerarlo arretrato, non ha pregiudizi di sorta e ben si adatta al loro olismo, al modo di intendere la nutrizione e la vita che han-no tanto i produttori quanto gli auspicati co-pro-duttori. Una scienza che per definizione non mette steccati tra discipline, non rifiuta le connessioni “nascoste” anche se, per l’appunto, sono nascoste e molte volte imperscrutabili. La nuova gastrono-mia promuove a sua volta una nuova agricoltura,

1) Bartolomeo Sacchi, detto il Platina (Piadena 1421-Roma 1481). Umanista del XV secolo, è conosciuto soprattutto per un breve trattato di gastronomia, De honesta voluptate et valetudine. II Platina trascrive in latino tutte le ricette di Maestro Martino da Como, il più celebre cuoco dei tempi. Il Platina è il primo nella storia a compiere alcune analisi sulla gastronomia, la dieta, addirittura sul valore del cibo di territorio e persino sull’utilità di una regolare attività fisica, che si rivelano sorprendentemente attuali. Il trattato ispira soprattutto per l’idea di una onesta voluttà, di una condotta in cui il piacere non si nega, ma va praticato in modo sobrio e responsabile.

2) Wendell Berry, Nel nome della rosa, Slow Food Editore, Bra 2008.

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perché si rende conto che la sostenibilità è impre-scindibile. La nuova gastronomia realizza il piacere sobrio, persegue quella sobrietà che è dettata da una completa percezione della realtà attraverso i sensi ri-allenati, da una cultura del cibo profonda e infor-mata, che sa scegliere cosa è meglio per il singolo e per la comunità. Una sobrietà che si accompagna alla ricerca e alla rivendicazione del piacere, perché è un elemento fondante di una nuova sostenibilità, di un nuovo umanesimo. La nuova gastronomia riqualifica il verbo “mangiare” nella nostra analisi logica.

MAnGIARE bEnE nOn COSTA CAROMangiare bene non costa caro. Se l’unica alternativa in tempi di crisi è andare al fast food o comprare i prodotti di bassissima qualità nei discount, significa che forse abbiamo problemi più gravi e radicati del-la crisi stessa. Cercare di rimediare alle difficoltà di bilancio mettendo nel proprio piatto - e in quello dei propri familiari - dei cibi non buoni, che alla lunga non fanno bene, non è affatto la soluzione. Anche perché, a partire dal cibo quotidiano, esistono ben altri modi di comportarsi: pensiamo a una buona car-ne, a un buon pesce, a buone verdure. Il cibo di tutti i giorni, e pure il pasto occasionale fuori casa, può essere consumato a prezzi anche molto bassi senza rinunciare alla qualità e facendosi del bene, sia in termini di salute personale sia in termini di salute pubblica. Bisogna lasciarsi alle spalle il pregiudizio che il cibo buono sia una cosa elitaria e soprattut-to seguire due regole elementari: ricercare la qualità fuori dal sistema consumistico e riscoprire le buone pratiche domestiche e gastronomiche.Uscire dal sistema significa usare canali di distribu-zione alternativi. In ogni città ci sono mercati in cui si può comprare direttamente dai contadini a prezzi vantaggiosi, e con una qualità migliore. E poi fon-damentale rispettare la stagionalità dei prodotti. In stagione, frutta e verdura costano meno.Per frutta e verdura si può anche evitare la fatica di andare al mercato: ci sono i GAS, i Gruppi di acqui-sto solidale sempre più diffusi in tutta Italia, e delle cooperative di produttori che consegnano la merce direttamente a casa. La seconda regola per rispar-miare è quella di seguire buone pratiche domesti-che e gastronomiche. Ad esempio va recuperata una cultura dimenticata sui tagli animali. La perdita di artigianalità nella macellazione, ormai ridotta a una catena di smontaggio in grande scala a colpi di seghe e seghetti, fa sì che una consistente parte della carne consumabile vada perduta. 1 tagli meno nobili non sono più richiesti perché si è persa la capacità e la voglia di cucinarli: il consuma-tore è malato di filetto. La Granda, un’associazione cuneese che opera da anni nell’allevamento sosteni-bile di bovini di razza piemontese, ha per esempio deciso di vendere tutto, ma proprio tutto, dei suoi animali: e non soltanto per far sì che gli allevatori

possano guadagnare il massimo, ma anche perché tutto ciò si traduce in un risparmio per noi. Mi di-cono che buttano via soltanto le corna e gli zoccoli degli animali, che impiegano addirittura il quarto an-teriore (i muscoli del collo, della pancia, della spalla, dello sterno e il costato) e il cosiddetto “quinto quar-to”, ovvero testa, coda, organi interni addominali e toracici, sangue e zampe. Ne sono nati dei prodotti come gli hamburger (1,15 euro l’uno), la galantina, una “anti-came in scatola” (fatta con guancia, zampe, lingua e coda), le monoporzioni di brodo, i ragù e i paté. Un quinto dei loro prodotti sono piatti pronti, tutti senza conservanti e con una materia prima di qualità eccellente, molto gustosa e, secondo una tesi di laurea in medicina dell’Università di Torino, anche dai valori nutrizionali migliori di una normale carne di bovino.I tagli più pregiati della Granda, ad esempio quelli di bovino femmina, costano effettivamente - e giu-stamente per com’è allevata - più di 20 euro al chilo, sono cioè più cari della carne prodotta con metodi poco sostenibili. Ma un taglio di polpa di bovino maschio, comprato direttamente dagli allevatori, ma-cellato in modo che non si sprechi nulla, avendo un prodotto di qualità decisamente superiore e che si conserva più a lungo, può costare intorno ai 10 euro. Naturalmente è necessario saperlo cucinare, magari in umido o con una cottura lenta, per ovviare al fatto che la carne del maschio è meno tenera di quella della femmina.Ritroviamo la stessa mancanza di cultura gastrono-mica anche per il pesce; basti pensare a quelle specie che sono pescate e ributtate in mare perché non han-no mercato. Tutti vogliono l’orata e il branzino per-ché non hanno idea di come cucinare le altre specie, per esempio il pesce azzurro: buono, gustoso, saluta-re, ma leggermente più difficile da preparare. E il pesce azzurro costa veramente poco.Un’altra cosa di cui non siamo più esperti è la con-servazione dei cibi. Ricordo che in estate, dalle mie parti, nei cortili era tutto un ribollire di grandi pen-toloni, in cui si preparavano le conserve. I pomodori colti in stagione, al meglio della loro maturazione, sprigionavano profumi fantastici. Poi venivano chiusi nei barattoli per essere consumati d’inverno: erano strepitosi. Oggi d’inverno vogliamo i pomodorini che arrivano da chissà dove, sono cari e poveri di gu-sto. Costerà tanto di più un vasetto di passata fatto in casa? Tutte queste buone pratiche, queste accortezze e questo bagaglio di creatività popolare, sono state quasi abbandonate, mentre si potrebbero tradurre in risparmio, in soldi veri. Se però non siamo più di-sposti a cucinare, a cercare i prodotti buoni e vicini, coltivati appena fuori città e di stagione, che possono realmente costare meno, non possiamo poi lamentar-ci del fatto che il cibo è caro.

I TESTI TRATTI DA “TERRA MADRE” SONO RIPRODOTTI CON LA CORTESE AUTORIZZAZIONE DI GIUNTI EDITORE E SLOW FOOD EDITORE

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Il cambiamento climatico fa ormai parte della nostra realtà quotidiana, come viene testimoniato dal crescente spazio che la stampa e gli altri mezzi di comunicazione di massa dedicano ai molteplici e complessi aspetti della questione ambientale. Basti considerare l’attenzione sollevata nell’opinione pubblica dalla conferenza mondiale dell’ONU sul clima programmata dal 7 al 18 dicembre a Copenhagen. Nelle intenzioni dei promotori, lo scopo della conferenza avrebbe dovuto essere quello di sostituire il cosiddetto “protocollo di Kyoto” sottoscritto da 160 paesi nel 1997 (con l’eccezione di Stati Uniti, Cina ed India) al fine di ridurre progressivamente l’emissione dei gas serra fra il 2008 ed il 2012.Il nuovo protocollo avrebbe dovuto stabilire gli obiettivi di riduzione da conseguire successi-vamente alla scadenza del 2012. Ad esempio, il Presidente Barack Obama ha recentemente dichiarato che gli Stati Uniti - paese che guida la classifica mondiale degli inquinatori - si impegnano a ridurre drasticamente le proprie emissioni di gas nei prossimi decenni. Non mancano tuttavia gli osservatori che avanzano dubbi sulla reale possibilità di conseguire una significativa riduzione dei fenomeni che determi-nano il mutamento climatico. Gli osservatori in questione rilevano infatti che una parte consi-stente di tali fenomeni è determinata dal decollo economico di paesi come Brasile, Russia, India e Cina. Essi sostengono che allo stato attuale di sviluppo delle tecnologie attualmente disponibili per ridurre in modo significativo le emissioni, non è ipotizzabile una riduzione delle emissioni senza in qualche modo rallentare il processo di sviluppo dei paesi in questione.Non mancano tuttavia gli esperti e gli studiosi che sostengono che l’umanità è ancora in tempo per ristabilire l’equilibrio climatico ed ecologico fondamentale per la sopravvivenza della civiltà.In particolare, nel corso degli ultimi anni è andata emergendo negli ambienti economici ed imprenditoriali una crescente consapevolezza dello stretto rapporto esistente fra economia ed ambiente e della conseguente necessità di preservare la qualità e la consistenza del patri-monio naturale ed ambientale e di riformulare su nuove basi i modelli di sviluppo basati sull’uso di risorse ritenute erroneamente illimitate.

La questione centrale è infatti quella di stabilire se il rispetto e la conservazione dell’ambiente debbano tradursi nel rallentamento dello sviluppo economico e sociale, o piuttosto nella ricerca di nuovi e più avanzati modelli di sviluppo sostenibile. Secondo gli studiosi e gli esperti che in numero crescente stanno occupandosi di questo tema, la difesa dell’ambiente e del patrimonio naturale non costituisce solo una necessità e dunque un costo, ma anche e soprattutto una straordinaria opportunità per il sistema delle imprese1.

In altri termini, la questione ambientale non deve essere considerata esclusivamente come una fonte di minacce per il sistema produttivo, ma anche e soprattutto come una fonte di opportunità. In questa prospettiva, un’impresa può individuare nuove opportunità per modificare i processi produttivi al fine di renderli maggior-mente conformi alle nuove realtà ambientali, per innovare i prodotti esistenti o per crearne di nuovi, per introdurre nuovi sistemi di distribu-zione e di assistenza alla clientela, per procedere al recupero, al riuso ed al riciclo sia dei prodotti che degli imballaggi. Non mancano in proposito gli esempi di imprese che nel corso del tempo hanno realizzato con successo importanti innovazioni ispirate ad una visione di salvaguardia e di conservazione dell’ambiente.Un caso di rilievo a questo proposito è senza dubbio rappresentato dalla Xerox, impresa che ormai da decenni pratica la politica del ritiro delle attrezzature installate presso i clienti alla fine della loro vita utile. In tal modo, l’impresa in questione ha drasticamente ridotto il volume di risorse impiegate per produrre le nuove macchine e realizzato economie di costo dell’ordine di milioni di dollari che si sono tradotte nello sviluppo della proposta di valore offerta al mercato. Politiche analoghe sono state adottate da altri produttori di macchine ed attrezzature per ufficio quali IBM, Kodak, Hewlett-Packard, Canon e Agfa. Altri esempi da segnalare riguardano un settore industriale critico dal punto di vista del suo contributo al deterioramento ambientale quale quello petrolifero. A questo proposito riveste un grande interesse il caso della Petrobras, la multinazionale petrolifera avente il proprio headquarter a Rio de Janeiro.

LE GRAnDI OPPORTUnITà DELLA SfIDA AMbIEnTALE

di WAlter GiorGio Scott

Nel corso degli ultimi anni, negli ambienti economici ed imprenditoriali è emersa una crescente consapevolezza dello stretto rapporto tra economia ed ambiente e della conseguente necessità di riformulare su nuove basi i modelli di sviluppo basati sull’uso di risorse ritenute erroneamente illimitate. La questione centra-le è di stabilire se il rispetto e la conservazione dell’ambiente debbano tradursi in un rallentamento dello sviluppo economico e sociale, o piuttosto nella ricerca di nuovi e più avanzati modelli di sviluppo sostenibile. La difesa dell’ambiente e del patrimonio naturale non costituisce solo una necessità e quindi un costo, ma anche e soprattutto una straordinaria opportunità per il sistema delle imprese. Walter GiorgioScott descrive “case history” di imprese che hanno operato in questa direzione, e propone strategie e “best practices”.

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L’impresa in questione costituisce infatti un esempio di eccezionale interesse di turnaround realizzato secondo una visione di sviluppo sostenibile. Nel 2000 la società si trovava in pessime acque a causa di una serie di incidenti che avevano causato danni ambientali di notevole gravità, con conseguenze economiche assai pesanti per l’azienda ed un preoccupante deterioramento dell’immagine. Nel corso degli anni successivi, la compagnia ha varato un programma estremamente ambizioso volto a conseguire la leadership nel campo del rispetto e della conservazione dell’ambiente2. Un’altra compagnia petrolifera che sta dedicando un impegno crescente allo sviluppo delle tecno-logie atte a ridurre progressivamente le emissioni di CO2 è la Shell, la quale già da tempo ha avviato un programma di riduzione progressiva delle proprie emissioni di gas. Secondo i dati pubblicati dalla compagnia, alla fine del 2008 le emissioni provenienti dai propri impianti sono state ridotte del 30% rispetto al 1990. È interessante rilevare come oltre i due terzi di tale riduzione siano stati ottenuti mediante miglioramenti dei processi produttivi. In altri termini, la riduzione delle emissioni dannose non ha richiesto investimenti aggiuntivi, ma si è tradotta in un miglioramento della produttività.La Shell ha inoltre avviato una serie di progetti volti a sviluppare nuove tecnologie e nuovi prodotti in tutti i principali settori della propria attività, dai carburanti ai lubrificanti, ai rivestimenti stradali, ai prodotti chimici ed ai materiali plastici3.

Un altro esempio di innovazione volta a ridurre il volume delle emissioni dannose è quello offerto dalla Philips, impresa leader nel settore dell’illuminazione, la quale già da qualche anno punta allo sviluppo di tecnologie ed applicazioni innovative. È interessante rilevare come le soluzioni d’illuminazione già disponibili consen-tirebbero di risparmiare sino al 40% dell’energia attualmente impiegata, con la conseguente drastica riduzione dei costi e delle emissioni inquinanti. Si calcola infatti che più di un quarto del potenziale di riduzione è conseguibile ad un costo nullo, se non addirittura negativo, quindi con un risparmio netto4. Occorre infine citare un settore portante delle economie industrializzate contemporanee, quello dell’auto, nell’ambito del quale tutte le grandi case automobilistiche - Fiat, Nissan, Renault, Mitsubishi, ecc. - sono impegnate a sviluppare progetti di green cars, cioè di vetture di piccola dimensione alimentate in tutto o in parte da motori elettrici.L’interesse per le prospettive di sviluppo aperte all’attività delle imprese dal tema ambientale

non si limita peraltro alle imprese di grandi dimensioni operanti nei settori critici dell’energia, della chimica o dell’auto, ma sta rapidamente estendendosi a tutti i settori e a tutte le classi dimensionali d’impresa. Come viene rilevato in un servizio recentemente pubblicato su Il Sole 24 Ore, “la green economy modello italiano è un filo conduttore che lega tutto il made in Italy, attraversa i territori…tocca i settori di punta. È strettamente legata al concetto di qualità. Di alta qualità. Green economy, in sintesi, uguale a stile italiano. E con risultati importanti: produzione ed export di green economy hanno senz’altro retto meglio alla grande crisi, visto che generalmente i consumatori di queste nicchie di mercato hanno disponibilità economiche maggiori e una propensione alla spesa meno legata alla congiuntura.5”

fra le imprese italiane che in numero crescente si stanno inoltrando sulla via dello sviluppo sostenibile è possibile citare il Gruppo Saviola di Viadana (Mantova), operante nel settore del riciclo del legno6; la Fratelli Pettinaroli di San Maurizio d’Opaglio (Novara), produttrice di valvole e rubinetti per il riscaldamento domestico, alla quale sono andate le preferenze della California ambientalista che ha rinunciato alle forniture cinesi per sostituirle con i rubinetti italiani senza piombo7; il Gruppo Targetti Poulsen, impresa che opera nel settore dellailluminazione architettonica e che sta sviluppando le tecnologie per il risparmio energetico e per le fonti rinnovabili8; la Nuncas di Settimo Milanese, azienda specializzata nella realizzazione di saponi e detersivi per la casa e la persona da tempo impegnata nella realizzazione di prodotti e di processi di produzione ispirati ai principi della sostenibilità. Ad esempio, la sede ammi-nistrativa di Settimo Milanese è stata dotata di un sistema di pannelli fotovoltaici e di pompe di calore che consentono di ridurre in modo drastico le emissioni di CO2, nonché di produrre autonomamente l’energia consumata. Inoltre, sia i prodotti che i relativi imballaggi vengono realizzati in modo da utilizzare al massimo sostanze naturali e biodegradabili e da assicurare il recupero ed il riciclo dei contenitori e degli imballaggi.Oltre agli esempi in questione, molti altri potrebbero essere riportati a conferma di quello che sta manifestandosi come un orientamento di fondo di una parte consistente del sistema imprenditoriale italiano, impegnato al pari degli analoghi sistemi dei maggiori paesi industrializzati nel ricercare nuove prospettive e nuovi stimoli per lo sviluppo in uno scenario di economia sostenibile, vale a dire un’economia

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in grado di assicurare una risposta integrata sia alla conservazione dell’ambiente che allo sviluppo del benessere dell’umanità nel suo complesso.È importante rilevare che il numero crescente di imprese che iniziano ad operare secondo i principi della green economy trova una risposta positiva nella società ed in particolare fra i consumatori. Infatti, secondo una recente indagine condotta da Eurisko per Assocomunicazione ed UPA (Utenti Pubblicità Associati), gli italiani appaiono sempre più convinti della necessità di comportamenti e di atteggiamenti ispirati alla responsabilità ambientale. Il tema dell’ambiente preoccupa la popolazione italiana quasi quanto quello della crisi economica e della conseguente prospettiva di riduzione dei posti di lavoro.Continua infatti a crescere il numero delle persone che manifestano una preoccupazione crescente per l’impatto sulla propria vita quotidiana dei cambiamenti climatici, dell’inquinamento dell’aria, dell’acqua e della terra, della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti.

L’accresciuta sensibilità della popolazione italiana nei confronti del tema ambientale determina effetti concreti sui comportamenti quotidiani, dallo spegnere le luci quando non servono, al rispettare la raccolta differenziata dei rifiuti, al riuso ed al recupero di capi di abbigliamento, di mobili e di altri oggetti domestici9. In altri termini, si stanno configurando quelle dinamiche di mercato fondate sulla reciproca interazione fra i fattori di domanda ed i fattori di offerta in uno scenario generale di sviluppo sostenibile. Da questo graduale mutamento dello scenario deriva che le imprese dovranno ripensare le proprie strategie secondo principi

sempre più basati sul rispetto dell’ambiente e sulla conservazione delle sue risorse, da considerare come una condizione indispensabile per il benessere dell’umanità.In particolare, le strategie di base che le imprese dovranno via via sviluppare possono essere essenzialmente individuate nelle seguenti:• progettazione e sviluppo di prodotti e servizi ecosostenibili;• sviluppo di imballaggi in grado di essere riutilizzati o riclicati;• realizzazione di sistemi di green purchasing in grado di orientare le decisioni di acquisto dei fattori produttivi secondo logiche di sostenibilità;• realizzazione di sistemi di risparmio energetico;• realizzazione di sistemi di risparmio o di recupero delle risorse idriche;• realizzazione di facilities - edifici, impianti, sistemi logistici, ecc. - sempre più rispondenti ai principi della sostenibilità;• sviluppo di sistemi di comunicazione e di customer relationship orientati alla sostenibilità.La realizzazione convinta e diffusa delle strategie in questione potrebbe costituire, secondo un numero crescente di osservatori, la premessa dell’avvio di un nuovo ciclo di sviluppo della economia a partire dal 2010, capace di alimentarsi da sé negli anni successivi e dare quindi luogo a quello che potrebbe essere il ciclo dell’economia sostenibile, qualcosa di analogo ai Trenta Gloriosi, il termine impiegato nel 1979 dal grande economista francese Jean Fourastié per indicare il trentennio di sviluppo economico che si è manifestato nei paesi industrializzati dopo la conclusione della seconda guerra mondiale e nel corso del quale il livello di vita degli abitanti di tali paesi si è più che triplicato, dando così origine alla cosiddetta società dei consumi10. Non vi è dubbio che lo scenario contemporaneo sia caratterizzato da una situazione di complessità e di turbolenza nella quale non mancano le minacce ed i pericoli per il sistema delle imprese. Ma, come ci insegna la storia recente, sono proprio queste le condizioni che determinano lo sviluppo delle energie innovative e creatrici che costituiscono l’essenza dell’impresa moderna.È infatti nei periodi di turbolenza e di trasfor-mazione dei sistemi economici che nascono e si sviluppano le imprese innovatrici nel senso schumpeteriano del termine, cioè in grado di far passare un sistema di economia di mercato da una situazione recessiva o stazionaria ad una di sviluppo e di progresso. La proposta conclusiva è quella di assumere l’economia della sostenibilità come nuova prospettiva di sviluppo per i prossimi decenni.

1) Si vedano in proposito le seguenti recenti pubblicazioni: Terry L. Anderson e Donald R.Leal, L’ecologia di mercato – Una via liberale alla tutela dell’ambiente, Lindau, Torino 2007; Daniel C.Esty e Andrei S.Winston, Green to Gold, Wiley, Hoboken 2009; Stuart L.Hart, Capitalism at the Crossroads, Wharton School Publishing, Upper Saddle River 2005; 2) Per ulteriori elementi, si veda J.S.Gabrielli de Azevedo, “Come la Petrobras è diventata verde”, in Harvard Business Review, edizione italiana, maggio 2009, pp.38-43.3) Per un quadro completo della strategia ambientale della Shell, si veda il Sustainability Report 2008 della compagnia reperibile sul sito www.shell.com/realenergy..4) Enrico Villa, “Ridurre lo smog a basso costo”, in Il Sole 24 Ore - Rapporto Energia, 24 settembre 2009, p.8.5) Nino Ciravegna, “La via italiana alla green economy”, in Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2009, p.2.6) Marco Alfieri, “Com’è verde la valle del business legno sul Po”, in Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2009, pp.1/2.7) Nino Ciravegna, “Bentornata qualità e anche la Cina si arrende”, in Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2009, p.2.8) Silvia Nani,, “Innovazione verde. Le ‘parole’ della luce”, in Corriere della Sera, 14 ottobre 2009, p.19.9) GFK Eurisko, Social Trends – Il cambiamento socioculturale, dicembre 2009, n.108. Una conferma dei mutamenti in atto nei comportamenti di consumo della popolazione italiana ci viene offerta da due recenti pubblicazioni: Antonio Galdo, Non sprecare, Einaudi, Torino 2008, e Cristina Gabetti, Occhio allo spreco – Consumare meno e vivere meglio, Rizzoli, Milano 2009. Si tratta di due guide pratiche nelle quali gli Autori, due noti giornalisti, offrono una serie di indicazioni quanto mai utili per correggere i comportamenti di consumo ereditati dalla società dell’ “usa e getta” e sviluppare una consapevolezza diffusa dello stretto rapporto esistente fra i nostri microcomportamenti quotidiani e l’interesse generale della società e dell’ambiente.10) Jean Fourastié, Les trente glorieuses, ou la Révolution invisible de 1946 à 1975, Fayard, Parigi 1979.

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Un TEMA DI RILEvAnzA STRATEGICA PER IL MOnDO: DA KyOTO AL PACCHETTO 20-20-20L’attenzione dell’opinione pubblica per le Fonti di Energia Rinnovabile, è cresciuta nel nostro Paese negli ultimi due anni e il grande rilievo assunto dalla tematica sui media continua a farla apparire come particolarmente nuova. In realtà il fenomeno ha radici che risalgono alla fine degli anni novan-ta, per la precisione al 1997, quando fu definito il Protocollo di Kyoto, il principale strumento elaborato dalla comunità internazionale per com-battere i cambiamenti climatici e conciliare gli interessi dell’ambiente con quelli dell’economia. A riportare l’attenzione delle imprese e degli ope-ratori economici sul tema negli ultimi due anni, è stato però l’intervento, nel gennaio del 2008, della Commissione Europea, la quale con il cosiddetto pacchetto 20-20-20, ha approvato un insieme di proposte legislative per la lotta al cambiamento climatico, sulle quali era stata già trovata un’intesa nel marzo del 2007 nell’ambito del Consiglio UE. Le proposte del pacchetto prevedono, in partico-lare, il raggiungimento entro il 2020 di una ridu-zione del 20% delle emissioni di CO2, un miglio-ramento del 20% dell’efficienza energetica e un aumento del 20% della quota di energia prodotta dalle fonti rinnovabili. Con lo stesso provvedimen-to è stata definita, inoltre, la misura in cui ciascuno stato membro avrebbe dovuto contribuire al conse-guimento del risultato. Lo sforzo richiesto al nostro Paese prevede entro il 2020 la realizzazione di un taglio pari al 13% delle emissioni di anidride car-bonica nei settori non inclusi nel sistema di scam-bio delle emissioni e un obiettivo vincolante per le fonti rinnovabili pari al 17% dei consumi nazionali , contro il 5,2% registrato nel 2005. Obiettivi ambiziosi, che imposti agli stati membri li hanno condotti ad adottare piani nazionali per l’incentivazione dell’investimento in fonti di ener-gia rinnovabile, aprendo la strada alla nascita dei cosiddetti sistemi a “generazione diffusa”. Sistemi cioè in cui l’energia non viene più prodotta da uno o pochi operatori (per esempio Enel), ma da una pluralità di soggetti che anche grazie al sistema di incentivi trova interesse a farlo. Ed è proprio il robusto sistema di incentivazione, previsto anche in Italia, che continua a rendere estremamente in-teressante l’investimento nel settore da parte del mondo corporate e di conseguenza delle istituzioni finanziarie che lo sostengono.

Centrobanca, data la propria specializzazione nel Corporate e Investment Banking con particolare riguardo alle imprese di medie e piccole dimen-sioni, ha centrato una parte della propria atten-zione al settore delle FER, affrontando un tema di rilevanza strategica internazionale, con l’obiettivo di renderlo concretamente accessibile alla propria clientela. E lo ha fatto promuovendo un’approfon-dita ricerca che adottasse il punto di vista della convenienza per l’impresa, ma anche sviluppando una gamma di prodotti che integrasse l’offerta del Gruppo UBI Banca con particolare riferimento alle soluzioni per le imprese. Infatti a prescindere dal settore di appartenenza e indipendentemente dall’attività caratteristica di ciascuna azienda, il si-stema degli incentivi rende rilevante anche per il medio e piccolo imprenditore interrogarsi sull’op-portunità di realizzare impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili. Così come rende ri-levante la decisione sulla tecnologia da adottare (eolico, fotovoltaico, biomasse, ecc.) per produrre l’energia e la soluzione finanziaria più adeguata alla realizzazione del progetto. L’energia prodot-ta può essere infatti destinata al consumo della propria impresa e l’eventuale eccesso ceduto alla rete a un prezzo pre-definito. Ma è evidente che il costo di produzione della stessa, determinerà il rendimento dei progetti.

L’ITALIA E IL RUOLO DEL SISTEMA bAnCARIO A SOSTEGnO DELLE fERIl mercato dell’energia rinnovabile, è atteso in forte crescita, in particolare i comparti riferiti al solare, all’eolico e alle biomasse anche a causa del rilevante gap di capacità installata dell’Italia rispetto ad altri paesi europei. Nel nostro Paese sono infatti attesi tra 60 e 70 miliardi di euro di nuovi investimenti nel settore delle rinnovabili fino al 2020 ed è verosimile ritenere che una quo-ta rilevante di questi interventi sarà sostenuta dal sistema bancario anche perché in un contesto di diffusa difficoltà economica, le FER rappresentano una delle poche aree di investimento in grado di attrarre risorse e garantire ritorni relativamente sicuri agli investitori, sia imprenditoriali che isti-tuzionali. La propensione del sistema bancario a finanziare l’investimento in Fer è riconducibile a una serie di fattori:1. Un contesto regolatorio e di mercato favorevole. Fatto che si traduce innanzitutto in un robusto sistema di incentivi. In Italia questi sono dif-

InvESTIRE In EnERGIE RInnOvAbILI. LA COnvEnIEnzA fInAnzIARIA PER L’IMPRESA

unA ricercA centroBAncA-univerSità Bocconi

La sostenibilità ambientale dello sviluppo economico mondiale e la crescita dell’energia prodotta da fonti rinnovabili sono al centro dell’atten-zione dell’opinione pubblica e del mondo imprendito-riale italiano e internazionale. In un momento critico per la con-giuntura economica del nostro Paese, il settore delle energie rinnovabili continua a presentarsi come particolarmente promettente in quanto consente alle imprese, anche di piccole e medie dimensioni, di realizzare progetti di investimento che, grazie al sistema di incentivi pubblici, assicurano ritorni economici inte-ressanti e stabili. Centrobanca, la Corporate e Investment bank del Gruppo UBI Banca, ha attivato una collaborazione con l’Università Bocconi di Milano, per condurre un’analisi avente per oggetto gli economics dell’investimento nelle diverse fonti di energia rinnovabile. La ricerca è stata presentata a Cuneo, su iniziativa ella Banca Regionale Europea, presso la sede di Confin-dustria, lo scorso 19 novembre. Rassegna ne presenta la sintesi.

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ferenziati in funzione della taglia degli impianti e della tecnologia, ma hanno un’incidenza sulle fonti rinnovabili pari a circa euro 200mwh (calcolo ef-fettuato come media aritmetica degli incentivi sul-le varie tecnologie nell’anno 2007); in Inghilterra e Germania il valore è pari rispettivamente a euro 116 e euro97 mwh e in Spagna a circa euro 80mwh. Differenze che in parte possono essere ricondotte ai ritardi dell’Italia rispetto ad altri Paesi europei ed al rilevante gap di capacità installata. Il settore delle Fonti Rinnovabili è quindi regola-mentato, anticiclico, sostenuto da politiche di in-centivazione e/o contributi pubblici e presenta un ridotto rischio di mercato grazie anche all’intervento dello Stato. 2. Diversificazione degli impieghi: il secondo motivo di interesse per le Banche è legato alla possibilità di intervenire in un settore emergente con elevate capacità reddituali e potenzialmente in grado di mi-tigare l’effetto della discontinuità, che sta colpendo molti settori dell’economia reale. Canali di impiego diversi da quelli nel settore energetico sono attual-mente meno attrattivi per le evidenti ragioni di crisi dell’economia reale.3. Possibilità di utilizzare la tecnica del Project Fi-nance nel finanziamento di iniziative energetiche: il Project Finance, grazie alla sua forma tecnica “no recourse”, è uno strumento in grado di isolare il rischio dei progetti di investimento, da quello dei prenditori, ed è per queste ragioni particolarmente adeguato a questa fase congiunturale. Tutti i rischi di progetto sono esaminati e allocati sulle contro-parti in grado di sostenerli. Il project sembra quindi essere in prospettiva lo strumento catalizzatore di investimenti nel settore anche perché in grado di favorire processi decisionali su investimenti rapidi e consistenti nel settore dell’energia.4. Caratteristiche dei settori tecnologici e qualità dei flussi di cassa: il settore impiega tecnologie quasi sempre mature con efficienza già dimostrata nel me-dio lungo termine e possibilità di stimare la produ-cibilità e i costi gestionali con elevato grado di confi-denza. Questi aspetti, insieme al livello di incentivi, rendono i flussi di cassa di queste iniziative stabili e robusti, in grado cioè di supportare gli scenari di stress più comuni.

LA RICERCA CEnTRObAnCA-UnIvERSITà bOCCOnI: LE PREMESSE DELL’AnALISIIl settore delle energie rinnovabili rappresenta, an-che in funzione delle recenti dinamiche dei prodotti energetici, uno dei comparti caratterizzati dalle più interessanti prospettive di sviluppo, sia tecnologiche che di mercato. Alcuni degli elementi di rilevanza e complessità nel comparto delle energie rinnovabili sono rappresentati da: • l’esistenza di “alternative” tecnologiche caratteriz-zate da profonde diversità (idroelettrico, fotovoltai-co/solare termico, biomasse, eolico);

• la forte dipendenza da normative specifiche; Per chiarire il campo di studio è importante premet-tere che la ricerca è incentrata sull’analisi econo-mico-finanziaria delle energie rinnovabili cosiddette “pure” (e non a quelle cosiddette “assimilate”). Le tecnologie analizzate sono state le seguenti: • energia idroelettrica; • energia solare fotovoltaica; • energia derivante dallo sfruttamento di biomasse; • energia eolica. Le diverse alternative tecnologiche precedentemente richiamate sono state analizzate approfonditamente nelle loro implicazioni economico-aziendali (in ter-mini di costo e rendimento dell’investimento per le imprese), valutandone la convenienza sia all’interno di processi basati su filiere produttive proprietarie, sia in relazione a processi di diversificazione produt-tiva da parte di imprese, che implichino la cessione al mercato dell’energia prodotta.

IL COnTESTO EnERGETICO InTERnAzIOnALE E LA POSIzIOnE DELL’ITALIAA livello globale il primo elemento che ha progressi-vamente acceso l’interesse economico verso le ener-gie rinnovabili è evidentemente rappresentato dalla forte variabilità nelle quotazioni del prezzo petrolio greggio come anche del gas naturale. In un contesto di progressivo “shortage” dell’offerta e di accentuata variabilità nei prezzi, la posizione dell’Italia sembra accentuare ulteriormente il problema energetico. Gli elementi di intrinseca fragilità del sistema ener-getico italiano (e di conseguenza, del sistema delle imprese rispetto ai costi energetici e alla conseguen-te competitività) possono essere rappresentati in tre fattori principali: • la forte dipendenza energetica dell’Italia dall’este-ro, non solo in termini di petrolio, gas e derivati, ma anche di elettricità pura; • la ridotta possibilità da parte del sistema energetico italiano, allo stato attuale, di attivare fonti energeti-che alternative significative; • elevati livelli dei costi dell’energia elettrica dovuti sia alle necessità di importazione massiccia a prezzi relativamente sfavorevoli che a condizioni fiscali in-terne particolarmente onerose associati ad una forte reattività dei prezzi stessi rispetto alla dinamica di prezzo delle materie prime.

LA STRUTTURA DEL MODELLO UTILIzzATO E LE vARIAbILI RILEvAnTIPartendo da un’analisi della letteratura di riferimen-to si è proceduto con l’identificazione di un modello generale relativo alla struttura di costo e di rendi-mento dell’investimento, assumendo una serie di ipotesi “standard” che necessariamente possono ri-sultare, nelle diverse applicazioni reali, più o meno favorevoli. L’analisi è stata scissa in due parti:1. è stata identificata la “tipologia” di impianto a cui

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tipicamente si fa riferimento, in termini di capaci-tà installata, produzione e percentuale dell’energia prodotta direttamente utilizzata da parte del produt-tore (autoconsumo di energia); 2. si sono affiancate informazioni aggiuntive relati-ve, per esempio, alla vita utile di un impianto, alle condizioni tecniche di operatività e alle diverse con-dizioni economiche legate, anche, alla normativa di riferimento. In quest’ambito si è mirato a identifica-re le principali voci di costo che caratterizzano cia-scuna specifica tecnologia. La valutazione di convenienza dell’investimento è avvenuta in relazione calcolo di 4 misure stretta-mente interconnesse: • il tasso di rendimento interno TIR (o IRR - internal rate of return) • il valore attuale netto (VAN) dell’investimento nella ipotesi di un costo del capitale pari al 7,5% ovvero il valore dei flussi netti attualizzati al tempo 0 • il calcolo del periodo di pareggio (semplice ed at-tualizzato) e cioè il numero di anni nei quali i flussi positivi (nominali e attualizzati) eguagliano l’investi-mento iniziale • l’indice di profittabilità, ovvero il rapporto tra VAN e investimento iniziale I risultati complessivi dell’applicazione del modello alle diverse tecnologie sono sintetizzati nella tabella a piè di pagina.

L’IPOTESI DI PARzIALE fInAnzIAMEnTO DEL PROGETTO DA PARTE DI Un InTERMEDIARIO fInAnzIARIO: L’EffETTO DI LEvA fInAnzIARIA Accanto alla valutazione cosiddetta “asset side” (fino a qui richiamata) ovvero indipendente dalla struttura finanziaria del progetto, o in altre parole, in ipotesi di assenza di finanziatori a titolo di credito. Nella realtà operativa però, l’intervento di finanziatori a titolo di credito rappresenta un’importante risorsa e spesso imprescindibile per le imprese. Naturalmente, l’inter-vento di una componente creditizia di finanziamen-to modifica in modo la struttura dei flussi finanziari dell’operazione. Le differenze più evidenti sono: • un’uscita più ridotta nella prima fase temporale per gli azionisti in quanto una parte dell’investimento verrebbe finanziato; • una serie di flussi in uscita futuri legati all’ipotesi di rimborso della quota capitale del debito; • una correlata serie di flussi in uscita legata al paga-mento degli interessi sul debito stesso. Se questi sono gli elementi differenziali determinati dall’introduzione di una quota di finanziamento dell’investimento, modifiche anche più importanti si determinano sui rendimenti delle diverse componenti dell’operazione. L’introduzione di una componente di debito nel capitale di finanziamento dell’operazio-ne ha infatti importanti riflessi su: • la struttura dei flussi finanziari: in primo luogo i flussi destinati a remunerare gli investimenti da

parte degli azionisti non sono più rappresentati dai flussi finanziari complessivi generati dal progetto. A fronte di una riduzione dell’impegno di investimen-to da parte degli azionisti, infatti, una parte dei flussi finanziari generati viene rivolta al pagamento degli interessi e al servizio del rimborso del capitale; • il rendimento dell’operazione: il rendimento della operazione per gli azionisti, che in assenza di inde-bitamento dipende esclusivamente dal rendimento dell’operazione di investimento, viene invece a di-pendere dal rapporto tra il rendimento operativo dell’investimento e il costo del finanziamento. Que-sto meccanismo, conosciuto sotto il nome di funzio-namento della leva finanziaria, implica che il ren-dimento per gli azionisti cresca in funzione di due variabili: la differenza (se positiva) tra il rendimento operativo dell’investimento e il tasso di interesse praticato dal finanziatore e la misura in cui il ricorso al debito copre l’investimento iniziale (la leva finan-ziaria dell’operazione) • il rischio dei diversi flussi: a fronte di un rendi-mento per gli azionisti crescente (nell’ipotesi di un rendimento dell’investimento maggiore del tasso di interesse sul finanziamento e dunque di un fun-zionamento positivo della leva finanziaria) non va dimenticato che anche il rischio dei flussi a favo-re degli azionisti tende a crescere e, dunque, una parte dei maggiori flussi di rendimento ottenuti va necessariamente assunta come remunerazione per il maggior rischio. Sulla base di una versione modificata del modello precedente, che valuta i flussi di remunerazione agli azionisti (e non all’impresa) nell’ipotesi di in-debitamento, è stato determinato il tasso interno di rendimento delle diverse tecnologie per ipotesi di autoconsumo e di indebitamento differenziate, non per l’impresa ma per gli azionisti.

LA COnvEnIEnzA ECOnOMICO-fInAnzIARIA ALL’InvESTIMEnTO nELLE DIvERSE TECnOLOGIE: ALCUnE COnCLUSIOnI Come emerge dai risultati dei diversi modelli, l’at-tuale convenienza economica all’investimento in impianti ad energie rinnovabili si presenta in modo variegato ed articolato ma sembra, salvo casi rari una costante di queste iniziative. Nonostante le analisi qui condotte assumano necessariamente ipotesi standar-dizzate e scontino necessariamente eventi futuri ca-ratterizzati da un intrinseco contenuto di incertezza, i risultati ottenuti attraverso un rigoroso schema di analisi e le recenti dinamiche sui mercati energetici

IL TASSO InTERnO DI REnDIMEnTO DELLE DIvERSE TECnOLOGIE PER DIvERSE PERCEnTUALI DI EnERGIA AUTOPRODOTTA

IRR 100% 75% 50% 25% 0% Mini-Idroelettrico 18,3% 17,4% 16,1% 14,5% 12,7% Eolico 19,4% 18,1% 16,5% 14,9% 13,1% Fotovoltaico 8,8% 8,6% 8,3% 8,0% 7,5% Biomasse - Cippato 28,2% 25,1% 21,8% 18,3% 14,6% Biomasse - Oli vegetali 37,4% 29,4% 20,3% 7,9% No IRR Biomasse - Gas 26,8% 24,6% 22,2% 19,6% 17,0%

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IRR PER LE DIvERSE fOnTI DI EnERGIA PER IPOTESI DI EnERGIA AUTOCOnSUMATA E CEDUTA ALLA RETE (con Finanziamento al 75% dell’investimento iniziale e senza Finanziamento)

QUOTA DI IPOTESI DI MINI-IDRO EOLICO FOTOVOLTAICO BUOMASSE BIORNASSE BIOMASSE AUTOCONSUMO (1) INDEBITAMENTO (2 ) CIPPATO OLI VEGETALI GAS

100% Senza indebitamento 18,3% 19,4% 8,8% 28,2% 37,4% 26,8%

Con indebitamento 36,2% 40,5% 12,0% 73,3% 112,1% 67,3%

75% Senza indebitamento 17,4% 18,1% 8.6% 25,1% 29,4% 24.6%

Con indebitamento 33,7% 36,8% 11,5% 63,0% 85,6% 60,1%

50% Senza indebitamento 16.1% 16,5% 8,3% 21,8% 20,3% 22,2%

Con indebitamento 29,9% 32,0% 10.9% 52,3% 57,3% 52,1%

25% Senza indebitamento 14,5% 14,9% 8.0% 18,3% 7.9% 19,6%

Con indebitamento 25,3% 27,6% 10,2% 41,4% 19,6% 44,1%

0% Senza indebitamento 12.7% 13,1% 7,5% 14,6% No IRR 17,0%

Con indebitamento 20,8% 23.1% 9,3% 30,2% No IRR 36,2%(1) Energia autoconsumata/energia prodotta (2) Finanziamento del 75% del costo dell’impianto; tasso ipotizzato: 6,5%

IRR PER LE DIvERSE fOnTI DI EnERGIA COn qUOTA DI AUTOCOnSUMO PARI A zERO E PER DIvERSE IPOTESI DI fInAnzIAMEnTO DELL’InvESTIMEnTO InIzIALE

QUOTA FINANZIATA DELL’INVESTIMENTO INIZIALE 65% 70% 75% 80% 85% 90% FONTE .

Mim-Idro 18,4% 19,5% 20,8% 22,5% 24,9% 28,7%

Eolico 20,1% 21,4% 23,1% 25,3% 28,6% 33,8%

Fotovoltaico 8,9% 9,1% 9,3% 9.6% 9,9% 10,3%

Blomasse Cippato 25,0% 27,2% 30,2% 34,4% 41,0% 52,8%

Biomasse Oli vegetali No IRR No IRR No IRR No IRR No IRR No IRR

Biomasse Gas 29,7% 32.5% 36,2% 41,3% 49,4% 63,8%

sembrano rappresentare la migliore garanzia riguar-do agli investimenti in energie rinnovabili. • Primo: la convenienza da parte delle imprese è mag-giore nell’ipotesi di autoconsumo di energia elettrica (direttamente utilizzata nei processi produttivi) rispet-to a quella di semplice cessione alla rete e al mercato. E’ infatti evidente che, soprattutto con riferimento ad imprese energy intensive, gli attuali costi energetici del mercato italiano conducono agevolmente ad un vantaggio nell’ipotesi di autoproduzione, ma va sotto-lineato che i risultati delle simulazioni indicano una convenienza (forte, in alcuni casi) anche per un’atti-vità pura di produzione e reselling dell’energia (con l’unica eccezione degli impianti ad oli vegetali); • secondo: le diverse tecnologie mostrano differen-ze sostanziali sia nel livello di rendimento naturale degli investimenti che, soprattutto, nell’intensità con cui questi rendimenti cambiano con diverse ipotesi di autoconsumo e cessione di energia alla rete; • terzo: la struttura finanziaria dell’investimento, che tipicamente prevede il ruolo di un operatore banca-rio specializzato attraverso strumenti dedicati (quali il project finance) accresce il rendimento dell’inve-stimento. E’ pertanto necessario ricorrere a soluzioni ad hoc che usualmente prevedono la costituzione di società veicolo proprietarie degli impianti partecipate

dall’imprenditore che limita la propria esposizione al capitale conferito e finanziate per la quota restante dalla banca;• quarto: gli impianti a biomasse sono senz’altro quelli che, in ipotesi di autoconsumo totale, evidenziano le migliori performance, ma in alcuni casi (come quel-lo delle biomasse ad oli vegetali) mostrano anche i maggiori decrementi passando a quote di energia ce-duta più elevate. L’intervallo di rendimento di queste tecnologie è compreso tra il 29% e il 27%. In termini di valore attuale netto, con l’ipotesi di un costo del capitale intorno al 7,5%, questi impianti rappresen-tano senz’altro un forte elemento di generazione di valore economico. Per quanto riguarda le altre fonti di energia rinnovabile, sia il mini-idroelettrico che l’eolico mostrano ancora rendimenti estremamente interessanti e caratterizzati da una più forte stabili-tà rispetto alle percentuali di autoconsumo. Anche il VAN di questi investimenti è positivo e rappresenta dunque la condizione per una generazione di valore;• quinto: gli impianti fotovoltaici, in funzione dell’im-portanza del sistema di incentivazione detto “conto energia” mostrano livelli di rendimento ancora po-sitivi (ma più ridotti) caratterizzati però da una più forte stabilità in funzione delle caratteristiche già ri-chiamate in precedenza.

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1. PREMESSASi sa che a volte i giornalisti “titolano” in modo da attribuire all’articolo un significato diverso dalla realtà storica che poi, per dovere di cronaca, devo-no raccontare nel corpo del testo, così da scindere i contenuti e dividere i lettori in due fasce, coloro i quali sfogliano o “vedono” il giornale, e cioè si fermano al titolo, da chi invece legge interamente il testo e si può così render conto dell’opinione (del taglio) che il giornalista si è fatto della notizia.Immaginate allora se anche gli operatori del diritto si fossero limitati a leggere alcuni “titoli” comparsi sulla Gazzetta Ufficiale nell’ultimo periodo:“Disposizioni per la formazione del bilancio annua-le e pluriennale dello Stato”1;“...provvedimenti anticrisi, nonché proroga di ter-mini e della partecipazione italiana a missioni in-ternazionali”2;“Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizza-zione delle imprese, nonché in materia di energia” 3.Bene, per fortuna chi si occupa di diritto in Ita-lia ha ormai una certa dimestichezza con questo modo di scrivere del legislatore (e dei giornalisti!) e non si lascia trarre in inganno dai titoli ma cerca di approfondire l’esame del testo delle norme che ormai si susseguono con una rapidità disarmante. Cercheremo di far chiarezza, seguendo un ordine cronologico, sul contenuto delle norme sopra citate che, lo sveliamo subito, disciplinano in realtà (con altrettanti abrogazioni e rinvii), la nuova Azione di Classe (perchè non dirlo nel titolo?).

2. GEnESI DELL’AzIOnE DI CLASSE Da diverso tempo si parlava di introdurre anche4 nel nostro ordinamento la “Class Action”. Ciò per dare risposte all’esigenza avvertita da una certa ca-tegoria (o classe) di soggetti omogenei che si tro-vava a dover tutelare i propri interessi (o dell’in-tera classe) nei confronti, spesso, di grandi enti economici. Il problema è certamente noto e non vogliamo qui entrare nel dettaglio. Il punto è che, dopo diversi studi e proposte da parte di diversi organi anche parlamentari, nessuno si sarebbe mai immaginato che il Parlamento, prima dei festeggia-menti natalizi del 2007 e con un “coup de théâtre” (anzi, per un errore di votazione di un Senatore), introducesse quella che in allora era denominata “Azione Collettiva Risarcitoria”. La legge conteni-tore era, lo abbiamo accennato, la finanziaria del 2007 (l. 244/2007) che con l’art. 2, commi dal 445 al 449, ha introdotto un nuovo articolo, il 140 bis,

L’AzIOnE DI CLASSE ITALIAnA.EffETTI (E RIMEDI) nEL RAPPORTO TRA bAnCHE E CLIEnTI

di Aldo FriGnAni e PAolo virAno

al Codice del Consumo. La confusione è evidente: con una legge in materia di “formazione del bilan-cio annuale e pluriennale dello Stato” si istituiva una forma italiana di Class Action che però, invece di essere accorpata al codice di procedura civile, ove era giusto che trovasse casa, veniva “infilata” nel codice del consumo, creando una serie infinita di critiche (negative) sull’operato del legislatore. Quel “nuovo” istituto, per fortuna, non è mai en-trato in vigore perchè è stato oggetto di due pro-roghe che hanno consentito di far approvare una nuova (praticamente in tutto) versione dell’Azione di Classe. Infatti, con la legge Legge 3 agosto 2009, n. 102, “recante provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini e della partecipazione italiana a missioni internazionali” il legislatore all’art. 16, ha previsto che “All’articolo 2, comma 447, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, come da ultimo modificato dall’articolo 19, del decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 207, convertito, con modifica-zioni, dalla legge 27 febbraio 2009, n. 14, le pa-role: «decorsi diciotto mesi» sono sostituite dalle seguenti: «decorsi ventiquattro mesi».Sembra uno scioglilingua, invece quei ventiquattro mesi sono poi quelli che sanciranno l’entrata in vi-gore dell’Azione (nuovo testo) il 1 gennaio 2010.Facendo un passo indietro, torniamo al nove lu-glio 2009, data di approvazione da parte del Senato (senza apportare modifiche all’Atto della Camera n. 1441-TER-B, licenziato solo 8 giorni prima) della nuova formulazione dell’art. 140-bis del co-dice del consumo che introduce nel nostro ordina-mento l’“Azione di Classe”. La novella sostituisce in larga misura la precedente versione del citato articolo (Azione Collettiva Risarcitoria), anche se i cambiamenti possono essere considerati come una correzione dell’impianto di fondo della precedente versione. In ogni modo sarebbe fuori luogo un raf-fronto delle vecchie norme con le presenti, è per questo che, onde evitare confusioni in una materia già di per sé poco chiara, nella presente esposizio-ne non si faranno che alcuni cenni chiarificatori alla precedente normativa.Prima di inoltrarci nella disamina della nuova azione, sembra utile spendere poche parole sul modo con il quale la norma ha visto la luce. Se da un lato la precedente formulazione dell’art. 140 bis cod. consumo non sembrava ai più una norma che si potesse ben adattare al nostro ordinamento, tanto che il legislatore se ne era accorto rinviando-la, come detto, per due volte consecutive in attesa

Con il 1 gennaio 2010 entra in vigore nel nostro ordinamento giuridico la “class action”., per rispondere all’esigenza avvertita da categorie (o classi) di soggetti omogenei di tutelare gli interessi propri (o dell’intera classe) nei confonti di grandi enti economici. Quale la genesi dell’azione di classe? Quali la sua delimitazione temporale, gli ambiti di applicazione, le procedure? E come si configura l’azione nei confronti delle banche?Rassegna propone in esclusiva una trattazione specialistica dell’argomento.

Aldo Frignani è ordinario di diritto privato dell’Unione Europea all’Universita` di Torino.Paolo Virano è avvocato, Studio Legale Frignani e Associati.

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di un intervento più puntuale, crediamo che anche in questo caso una maggiore cautela avrebbe consi-gliato una analisi più approfondita di un istituto pro-cessuale per noi del tutto nuovo e così incisivo sulla tutela dei diritti dei consumatori (o anche di altri?). Come la prima formulazione venne approvata sotto lo “spettro” di un errore di votazione, pare che anche quest’ultimo intervento non abbia trovato un largo consenso nei nostri delegati al Parlamento. Sembra-va infatti che la strada da seguire per l’introduzione dell’azione di classe italiana fosse quella definitiva-mente tracciata con l’approvazione, avvenuta in data 28 gennaio 2009, di un testo unificato di alcune pro-poste di legge da parte della Commissione giustizia della Camera. Su questo lavoro si concentravano per-tanto le discussioni e gli approfondimenti dei cultori della materia e dei rappresentanti delle varie asso-ciazioni. In questo quadro si deve posizionare l’inter-vento del Governo che ha voluto inserire, a proroga dell’entrata in vigore dell’azione collettiva risarcito-ria già avvenuta (1 gennaio 2010), quindi in assenza di ragioni d’urgenza, un emendamento al progetto di legge sulle “Disposizioni per lo sviluppo e l’interna-zionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia” che, già a partire dal titolo della legge, mal si concilia con una riforma così importante delle nor-me di procedura civile del nostro ordinamento.

3. DELIMITAzIOnE TEMPORALEPer prima cosa occorre capire da quando si potrà uti-lizzare la nuova forma di tutela. Abbiamo già visto che l’entrata in vigore è stata prolungata sino al 1 gennaio 2010. Però, proprio per sedare un lungo di-battito che era nato in relazione alla precedente nor-ma sulla irretroattività o meno della norma, il legisla-tore, al comma 2 della legge n. 99/2009, ha stabilito che le disposizioni dell’art. 140 bis si applichino solo “agli illeciti compiuti successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge”, e cioè dal 15 agosto 2009. Viene pertanto sancita la irretroattività della norma, tenendo conto che il momento rilevante non sarà quello della manifestazione del danno pati-to dal consumatore, bensì il momento in cui l’impre-sa ha posto in essere la condotta lesiva. Pensiamo, ad esempio, ad un danno cagionato da un prodotto di-fettoso. Se il prodotto è stato venduto (l’art. 119 cod. consumo parla di “messa in circolazione”) prima del 15 agosto 2009 e il danno si manifesterà dopo questa data, i consumatori non potranno avvalersi di questa forma di tutela di classe.

4. AMbITO DI APPLICAzIOnEFatte alcune brevi premesse ora vediamo i contenuti dell’art. 140 bis cod. consumo partendo dall’ambito, soggettivo e oggettivo, di applicazione della nuova Azione.4.1. AMBITO SOGGETTIVO. I CONSUMATORI E GLI UTENTI.L’art. 140 bis, comma 1, del cod. consumo individua quali soggetti attivi, cioè coloro i quali possono eser-

citare l’Azione, i consumatori e gli utenti. Ricordiamo che la disciplina dell’Azione non può essere scollega-ta dal complesso generale delle norme contenute nel codice del consumo, ove volutamente o meno il legi-slatore l’ha collocata. Dobbiamo allora rapportare il contenuto dell’art. 140 bis primo comma con l’art. 3, lett. a) dello stesso codice, che definisce il consuma-tore come qualsiasi “persona fisica che agisce per sco-pi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”. Appare chiaro che non potranno pertanto esercitare l’Azione le società e i soggetti che, anche in forma in-dividuale, esercitino una attività d’impresa o profes-sionale5. Soggetti passivi invece potranno essere tutte le “imprese”, pertanto, come si immaginava anche per la precedente versione dell’istituto, rientrano tutti quei soggetti, in forma individuale o societaria, che il nostro ordinamento fa rientrare nella vasta categoria di impresa. Soggetti esclusi restano sicuramente gli enti pubblici (ai quali il Ministro Brunetta riserverà un trattamento a parte6), mentre vista la previsione di sospensione del procedimento nel caso di penden-za di un giudizio amministrativo (comma 6), si può legittimamente pensare che rientrino tra i soggetti passivi anche le imprese “pubbliche” e quelle che gestiscono servizi pubblici. Molto probabile che sia-no comprese le aziende municipalizzate e le aziende autonome create all’interno degli Enti per la fornitu-ra di beni e servizi. Qui la norma dovrà ovviamente essere coordinata con l’altrettanto nuova e sino ad ora incerta proposta di introduzione della Class Ac-tion contro la pubblica amministrazione. Rinviamo pertanto ogni ulteriore precisazione al momento in cui tale legge sarà in vigore dato che, questo è già chiaro oggi, il soggetto che non rientra nella Azione “privata” potrebbe rientrare, a contrario, in quella “pubblica” che pare non preveda rimedi risarcitori ma solo inibitori. Resta il nodo dei professionisti che, a nostro modo di vedere7 (e ci permettiamo di dire che non è una visione di parte) non rientrano tra i soggetti passivi. Crediamo infatti che il termine “im-presa” debba essere letto esclusivamente nel senso proprio che gli attribuisce il codice civile (art. 2082 c.c.). Il professionista non è un imprenditore.

4.2. LA LEGITTIMAzIOnELegittimato ad esperire l’azione è anche un singolo componente della classe il quale può (ma non deve: ... anche mediante associazioni) avvalersi di associa-zioni o comitati. Questa è certamente una novità ri-spetto alla precedente formulazione che pretendeva invece la necessità che ad avviare l’azione fosse una associazione (riconosciuta o meno) dei consumatori. L’ampia autonomia, rispetto alla precedente disposi-zione, allarga ovviamente il campo d’azione lasciando che ogni singolo consumatore, magari incoraggiato dal proprio legale di fiducia, si renda parte attiva per l’avvio dell’ Azione di Classe. Certo un ruolo impor-tante continueranno a rivestirlo le associazioni dei

1) Legge 24 dicembre 2007, n. 244, “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008)”, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 300 del 28 dicembre 2007 - Supplemento ordinario n. 285.2) Legge 3 agosto 2009, n. 102, “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 1º luglio 2009, n. 78, recante provvedimenti anticrisi, nonchè proroga di termini e della parte-cipazione italiana a missioni internazionali”, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 179 del 4 agosto 2009 - Supplemento ordinario n. 140.3) Legge 23 luglio 2009, n. 99, “Disposizioni per lo sviluppo e l’interna-zionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia”, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 176 del 31 luglio 2009 - Supplemento ordinario n. 136.4) Per approfondire la materia anche sul piano comparatistico rimandiamo, di questi stessi autori, a “Le Class Actions nel diritto statunitense: tentativi (non sempre riusciti) di trapianto in altri ordinamenti”, in Diritto ed Economia dell’Assicurazione, 2009, I, 5; TROCKER, Class actions negli USA - e in Europa?, in Contratto e Impresa/Europa, 2009, I, 178.5) Con ciò,chiaramente, non si vuole sostenere che un imprenditore non possa mai far valere l’Azione. Non lo potrà fare se quel prodotto acquistato è strumentale alla propria attività, non è così nella ipotesi riguardi invece un proprio consumo personale. Ad esempio, se un imprenditore acquista una giocattolo per il proprio figlio che si rivela pericoloso, potrà ovviamente prender parte o promuovere l’Azione.6) Il 15 ottobre 2009 il Governo ha approvato una bozza di decreto legislativo di attuazione della “Riforma Brunetta” in materia di ricorso per l’efficienza delle ammi-nistrazioni e dei concessionari diservizi pubblici che, al suo

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consumatori che però ora non sono più i soli soggetti titolari dell’azione. Se questo sia un bene o un male lo vedremo a partire dal 1 gennaio, sicuramente la norma così come è stata formulata supera i paven-tati contrasti con la nostra Carta fondamentale8, ma dall’altra parte il pensiero corre oltre oceano e vede anche da noi il rischio che ha indotto il legislato-re americano ad introdurre forme di restrizione alla Class Action9.4.3. AMBITO OGGETTIVOLa nuova Azione di Classe si avvicina di più alla Class Action anglosassone, pur discostandosene largamen-te quanto ai contenuti. La nostra Azione prevede, infatti, la possibilità di ottenere un risarcimento del danno, ed in ciò compie un grande passo in avanti rispetto alle azioni collettive “inibitorie” che anche le norme comunitarie ci imposero di applicare10. Ma l’ambito di applicazione dell’azione nostrana non ri-guarda tutte le tipologie di illecito (contrattuale ed extra contrattuale), ma solo un ristretto numero di casi delimitati dal comma 2 dell’art. 140 bis.Condizione essenziale per l’esercizio dell’azione è poi che vi sia la lesione di “diritti omogenei” e “iden-tici” di una pluralità di utenti e consumatori. Deve pertanto esserci, non solo una pluralità (due o più) di soggetti lesi, ma anche la presenza di un elemento comune che consenta di considerarli un’unica “clas-se”. Vale a dire che i consumatori o gli utenti devono essere accomunati:i) dal medesimo comportamento illecito tenuto dalla impresa,ii) dallo stesso diritto leso da quel comportamento,iii) dal medesimo danno (anche di ammontare diverso) che sia derivato da quella condotta.Vediamo ora i singoli casi in cui può essere esercitata l’Azione.4.3.1. I dIRITTI CONTRATTUALIL’aziona tutela innanzitutto “a) i diritti contrattuali di una pluralità di consuma-tori e utenti che versano nei confronti di una stessa impresa in situazione identica, inclusi i diritti relativi a contratti stipulati ai sensi degli articoli 1341 e 1342 del codice civile”.L’utilizzo dei termini “diritti contrattuali” esclude, come accennato, che si possa esercitare l’Azione per tutelare un illecito aquiliano (art. 2043 c.c.), ma esten-dendo il risarcimento di natura contrattuale anche ai “contratti conclusi mediante moduli o formulari” (art. 1342 c.c.) e a quelli che contengono “condizioni generali di contratto” (art. 1341 c.c.). Questa nuova formulazione, che comprende anche l’art. 1341 c.c., sembra pertanto inglobare tutta una serie di situazio-ni che invece, a detta di alcuni, non avrebbero trova-to spazio nella precedente. Ci riferiamo, ad esempio, a tutte quelle situazioni che pur ricadendo in con-tratti con “condizioni generali”, ove cioè non vi è una vera e propria negoziazione (il compratore decide se acquistare o meno, ma non le clausole del contratto)

come ad esempio accade nei locali commerciali o in caso di condizioni generali di contratto solo affisse e non fatte sottoscrivere agli utenti. Rientrano pertanto anche tutti i contratti di tal fatta che siano stipulati anche solo verbalmente o mediante l’acquisto on-line, cosa che prima era quanto mai discussa.4.3.2. LA RESpONSABILITà dEL pROdUTTORECon l’Azione di Classe si potranno far valere “b) i diritti identici spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto nei confronti del relativo pro-duttore, anche a prescindere da un diretto rapporto contrattuale”. Si tratta pertanto della “responsabilità per danno da prodotti difettosi” contenuta negli artt. da 114 a 127 del cod. consumo e cioè quelle situa-zioni nelle quali il prodotto difettoso abbia cagionato un danno sia alla persona che lo abbia utilizzato sia a cose anche diverse dal prodotto stesso. In queste ipotesi, lo si ricorda brevemente, il consumatore non ha l’obbligo di dimostrare la colpa del produttore ma semplicemente, secondo un criterio di responsabilità oggettiva, che il prodotto fosse difettoso, il danno ed il nesso causale tra il danno e il difetto (art. 120 cod. consumo). 4.3.3. pRATIChE COMMERCIALI SCORRETTEL’elencazione tassativa delle forme di danno tutelabili con l’Azione di Classe continua poi con“c) i diritti identici al ristoro del pregiudizio derivan-te agli stessi consumatori e utenti da pratiche com-merciali scorrette...”. La norma richiama direttamente quelle pratiche commerciali disciplinate dagli artt. 18 e seguenti del cod. consumo, e cioè quelle attività poste in essere dalle imprese per promuovere sotto forme diverse (in particolare nelle diverse tipologie di pubblicità) la vendita dei propri prodotti in modo “ingannevole”, così influenzando indebitamente la scelta da parte del consumatore. L’ambito di applica-zione, delineato dall’art. 18 del cod. consumo è molto ampio, dato che la norma si applica “ad ogni forma di comunicazione commerciale in qualsiasi modo ef-fettuata”. Ove l’impresa attui pertanto una forma di pubblicità dei propri prodotti idonea ad “ingannare” le aspettative del consumatore, sotto aspetti diver-si come il prezzo, le qualità del prodotto, la prove-nienza ecc., oppure nel caso di pubblicità di prodotti pericolosi per la salute o per i soggetti interessati (bambini), potrà entrare nel mirino della “classe” di quei soggetti che ritengano di aver subito un danno dal comportamento scorretto tenuto dall’impresa nel momento in cui quest’ultima pubblicizzava in modo “ingannevole” il proprio prodotto.4.3.4. COMpORTAMENTI ANTICONCORRENzIALICome ultima ipotesi si prevedono i danni derivanti “c) ... da comportamenti anticoncorrenziali”. Questa ultima categoria riguarda tutti i danni che siano ezio-logicamente collegati alla violazione della normativa antitrust, e cioè derivanti da tutti quei comportamen-ti che sono vietati dalla l. 10 ottobre 1990 n. 287 o da altra norma a tutela della concorrenza (ad es. il

interno, contiene anche una forma di “class action” nel settore pubblico che si prefigge l’obiettivo non di con-seguire un risarcimento del danno, ma di ottenere il “sollecito ripristino dell’effi-cienza del servizio”. Maggiori approfondi-menti su http://www.innovazione.gov.it/ministro/salastampa/notizie/6766.htm 7) Altri dicono il contrario: si veda ad esempio, su questa materia, la Circolare n. 19244 del 16 ottobre 2009 di Confindustria.8) Si è scritto su questo argomento per il fatto che alcune forme di azione di classe (quelle più vicine alla Class Action americana) avrebbero potuto essere in contrasto con la nostra Costituzione in quanto imponevano ai singoli soggetti la par-tecipazione all’azione senza ottenere il loro consenso (opt-out), oppure, obbligandoli ad aderire ad una associazione dei consumatori senza poter agire autonoma-mente. Su questi temi si veda P. Rescigno, Sulla compatibilità tra il modello processuale della “class action” ed i principi fondamen-tali dell’ordinamento giuridico italiano, in Giur. it., 2000, 2228; LENER, L’introduzione della class action nell’ordinamento italiano del mercato finanziario, in Giur. comm., 2005, I, 273.9) È noto che negli Stati Uniti a volte si “abusi” della Class Action trasformando l’azione in uno strumento di guadagno da parte di pochi a scapito dei numerosi membri della classe. Su questo tema rimandiamo a P.F.GIUGGIOLI, Class action e azione di gruppo, Cedam, Pado-va. 2006, pp. 65-67: “la vera funzione delle class actions è di far arricchire gli avvocati”. Preoccupazione che colpisce da tempo la dottrina americana: J.C.COFFEE, cit., 877; T. SMITH, Th. LANG, US Antitrust Class Actions: Lessons for Europe, relazione alla IBA Conference di Chi-cago settembre 2006, i quali parlano di over deterrence e del rischio per i convenuti di pagare fino a sei volte i danni.

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T.U. della Radiotelevisione, D. lgs. 177/05). Intese re-strittive della concorrenza e abusi di posizione domi-nante, prima o dopo l’accertamento per mano della-Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato11, potranno essere invocate da “classi di consumatori o utenti” che ritengano di essere stati lesi, seppur in via mediata, da tali comportamenti. Si pensi, ad esempio, alle intese tra aziende sulla formazione dei prezzi dei prodotti (cartello di prezzi) o posizioni do-minanti che abbiamo causato un innalzamento del prezzo dei prodotti venduti. In questi casi i consu-matori potranno avanzare azioni12 finalizzate alla re-stituzione (sotto la forma di risarcimento del danno) di quanto riescano a dimostrare di aver pagato in più rispetto a quello che sarebbe stato il prezzo formato in libera concorrenza. La memoria corre subito, ad esempio, al caso dello scambio di informazioni tra le compagnie di assicurazione sui premi di polizza RC Auto che l’AGCM ha sanzionato nell’anno 200013. Ancora oggi vi sono strascichi delle migliaia di cause avviate dagli assicurati che pretendevano il risarci-mento del danno per aver pagato un premio più ele-vato a causa dell’intesa. Premettiamo subito (stiamo tranquilli gli assicuratori!) che questo è un caso che oggi non potrebbe essere oggetto di una Azione di Classe, dato che i fatti “lesivi” risalgono al 1995 quin-di ben prima dello spartiacque del 15 agosto 2009. In futuro però questa tipologia di violazioni potrà go-dere di una forma di tutela che, oltre a garantire una decisione uguale per tutti i consumatori (in quelle cause si sono registrate decisioni di accoglimento e di rigetto molto diverse a seconda della sede giudi-ziaria adita), avrebbe permesso di non “intasare” gli uffici giudiziari italiani (ed anche la Suprema Corte di Cassazione alla quale approdarono ed approdano tutt’oggi centinaia di ricorsi) con un netto risparmio di tempo e di denaro.

5. STOP ALLA REITERAzIOnE DELLE AzIOnIUn importante chiarimento rispetto alla vecchia nor-ma giunge dal comma 14 che fa luce su un altro punto dibattuto da coloro che si misuravano sull’interpreta-zione del “vecchio” 140 bis. Ora si prevede espressa-mente che:i) “è fatta salva l’azione individuale dei soggetti che non aderiscono all’azione collettiva”,ii) “non sono proponibili ulteriori azioni di classe per i medesimi fatti e nei confronti della stessa impresa dopo la scadenza del termine per l’adesione ...”.Si conferma pertanto, in linea con quanto previsto al comma 3, il sistema dell’opt-in14, ma si chiarisce espressamente che non è possibile avanzare più Azioni di Classe contro la medesima impresa e che nel caso in cui ciò dovesse accadere, le azioni dovranno es-sere riunite. Il tutto facendo salva la possibilità che il singolo consumatore, che non aveva preso parte all’azione, possa sempre (nel rispetto delle norme sulla prescrizione) agire individualmente secondo gli ordinari meccanismi procedurali. Va da sé che

l’adesione all’Azione di Classe “comporta rinuncia a ogni azione restitutoria o risarcitoria individuale fon-data sul medesimo titolo” (comma 3), salvo quanto previsto dal comma 15 e cioè che “le rinunce e le transazioni intervenute tra le parti non pregiudicano i diritti degli aderenti che non vi hanno espressamente consentito”.

6. ULTERIORI CEnnI SULLA PROCEDURA. EffETTI DELLA SEnTEnzAIn questa sede non possiamo addentrarci sulla pro-cedura che viene delineata nei commi 4 e seguenti dell’art. 140 bis. Ci limitiamo ad illustrare qualche punto che riteniamo essere di particolare importanza rimandando alla lettura della norma per i dovuti ap-profondimenti. Intanto ci sembra il caso di osservare che il legislatore ha inteso (sulla scia di quanto ha già fatto con l’introduzione del “procedimento som-mario di cognizione”, art. 702 bis c.p.c.) lasciare una certa autonomia procedurale al giudice che si troverà a dover portare avanti una Azione di Classe15. Quale Giudice? Competente è il “tribunale ordinario avente sede nel capoluogo della regione in cui ha sede l’im-presa” (comma 4)16. La domanda si propone poi con citazione da notificare anche al Pubblico Ministero (“il quale può intervenire limitatamente al giudizio di ammissibilità”). Altro aspetto rilevante è che nellanuova azione è stato previsto un “filtro all’ingresso”17, cioè il giudice, all’esito della prima udienza, dovrà dichiarare l’ammissibilità o meno della domanda. Questa dovrà essere dichiarata inammissibile:i) “quando è manifestamente infondata”,ii) “ quando sussiste un conflitto di interessi”,iii) “quando il giudice non ravvisa l’identità dei diritti individuali tutelabili ai sensi del comma 2”,iv) “quando il proponente non appare in grado di cu-rare adeguatamente l’interesse della classe”. Se il giudice dichiara ammissibile la domanda pro-nuncia una ordinanza con la quale:i) “fissa termini e modalità della più opportuna pub-blicità”;ii) “definisce i caratteri dei diritti individuali ogget-to del giudizio, specificando i criteri in base ai quali i soggetti che chiedono di aderire sono inclusi nella classe o devono ritenersi esclusi dall’azione;iii) fissa un termine perentorio, non superiore a cento-venti giorni dalla scadenza di quello per l’esecuzione della pubblicità, entro il quale gli atti di adesione, anche a mezzo dell’attore, sono depositati in cancel-leria” (comma 9).La definizione della “classe”, quindi la specificazione di quali debbano essere gli elementi e i criteri da uti-lizzare per ammettere o meno i consumatori \ utenti alla partecipazione all’Azione18, è una delle attività più delicate che il legislatore ha riservato al giudi-ce, pur trattandosi di una Azione basata sull’opt-in19. Una corretta e chiara individuazione di questi crite-ri permetterà infatti al giudice di escludere in modo immediato tutte quelle domande che vengono avan-

10) Si veda la Direttiva 98/27/CE del Parla-mento europeo e del Consiglio del 19 maggio 1998 relativa a provvedimenti inibitori a tutela degli interessi dei consumatori, in http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUri-Serv.do?uri=CELEX:31998L0027:IT:HTML.Tale Direttiva è stata attuata dal nostro Paese con il D.lgs.224/2001 andando a modificare la legge 281/1998 sulla “disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti” che oggi trova spazio negli artt. 139 e ss. del Codice del Consumo.11) Il comma 6 del 140 bis prevede che il tribunale possa “sospendere il giudizio quando sui fatti rilevan-ti ai fini del decidere è in corso un’istruttoria davanti a un’autorità indipendente”. Questa sarà certamente l’ipotesi più probabile, cioè quella che la classe di consumatori attenda una decisione dell’autorità garante preposta che abbia accertato e sanzionato un illecito antitrust per poi agire e chiedere un risarcimento del danno.12) La legittimazione del “consumatore finale” ad esperire una azione di risarcimento del dan-no asseritamente patito a causa di illecito an-titrust è stata affermata dalle Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza 4 febbraio 2005, n. 2207, in Foro it., 2005, 1, 1014, con nota di Palmieri e Pardolesi. In quella decisione i giu-dici di piazza Cavour che hanno riconosciuto alle Corti d’appello la competenza funzionale ex art. 33, 2° comma, l. 287/90. Ci doman-diamo allora come si possa coordinare quella norma con quella dell’Azione di Classe che invece demanda la competenza ai Tribunali. Si potrebbe pertanto verificare una incongruenza ove l’azione ordinaria debba essere esercitata dinanzi alla Corte d’appello (che volutamente è giudice specializzato) mentre l’eventuale Azione di Classe dovrebbe essere esperita avanti al Tribunale.13) In Boll. n. 30 del 14 agosto 2000, pp. 5-73.

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zate da soggetti che non presentano “diritti indivi-duali omogenei”, mentre ove questi criteri lascino dei margini di discrezionalità si potranno poi avere degli effetti negativi sui tempi del processo dato che il giudice, di volta in volta, dovrà analizzare la spe-cifica domanda rallentando il processo. In seguito il giudice dovrà disporre, con una larga discrezionalità garantitagli dal legislatore, le modalità di prosecuzio-ne del giudizio al termine del quale il tribunale:i) “pronuncia sentenza di condanna con cui liquida, ai sensi dell’articolo 1226 del codice civile, le somme definitive dovute a coloro che hanno aderito all’azio-ne” o ii) “stabilisce il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione di dette somme”. iii) “In caso di accoglimento di un’azione di classe proposta nei confronti di gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità, il tribunale tiene conto di quanto riconosciuto in favore degli utenti e dei consumatori danneggiati nelle relative carte dei servizi eventual-mente emanate”.Si abbandona pertanto la vecchia impostazione che prevedeva una doppia fase di giudizio (prima l’accer-tamento del se e del come era dovuto il risarcimento per poi demandare ad un nuovo giudizio l’attribuzio-ne ai singoli dell’ammontare del danno da liquidare) per una più celere definizione delle vertenze con una sentenza che potrà essere di due tipi: 1) una sentenza di condanna al risarcimento del danno da quantificarsi da parte del giudice in via equitativa (art. 1226 c.c.), con l’effetto che si esclu-de la possibilità di entrambe le parti di far accertare (e quindi di aprire un contraddittorio sul) quantum debeatur. Questa imposizione di una decisione in “equità necessaria” potrebbe avere l’effetto di snel-lire la procedura, anche se è facile immaginare che possa comportare delle decisioni di condanna anche ove un danno non sia stata effettivamente patito (o sia stato patito in misura diversa) dal consumatore.2) Una sentenza che, pur sempre definibile di con-danna, fissi criteri automatici di calcolo per quanti-ficare il danno. Ipotizziamo si tratti di decisioni che stabiliscano un danno pari ad una data percentua-le del prezzo pagato (rimborso del 20% del prezzo) o in misura fissa per ogni singola prestazione resa dall’impresa soggetta alla procedura. Non siamo per-tanto di fronte a una mera decisione di accertamento visto che i criteri di calcolo sono prestabiliti e non modificabili e per questo non si dovrà ricorrere nuo-vamente al giudice per la loro determinazione. Tali calcoli matematici potranno infatti essere eseguiti dalla stessa impresa che, come vedremo, ha interesse a liquidare le somme entro 180 giorni dalla decisione o dallo stesso consumatore ove debba procedere con l’atto di precetto.3) Una terza strada è quella che si apre nel caso in cui l’Azione venga promossa nei confronti di gesto-ri di servizi pubblici o di pubblica utilità. In questo caso la decisione equitativa dovrà essere mediata e

coordinata con le disposizioni previste nelle “carte dei servizi” con le quali le aziende erogatrici devono stabilire degli standard di qualità del servizio pub-blico e le modalità di ristoro agli utenti nei casi in cui tali standard non vengano rispettati. La sentenza, che vincola tutti gli aderenti (e ovviamente l’impresa convenuta) qualsiasi sia l’esito della stessa, in dero-ga alle regole generali della procedura civile, non è immediatamente esecutiva, lo sarà solo trascorsi 180 giorni dalla decisione. Ciò permette di incentivare il pagamento da parte dell’impresa che, ove ottemperi spontaneamente entro questo termine, andrà esente dal pagamento di “ogni diritto e incremento, anche per gli accessori di legge maturati dopo la pubblica-zione della sentenza” (comma 12). Trascorsi inutil-mente i 180 giorni le parti potranno agire secondo gli ordinari criteri per porre in esecuzione la sentenza.Lasciamo al lettore l’iniziativa di approfondire gli ulteriori aspetti della procedura rimandandone la lettura alle ulteriori disposizioni contenute nell’art. 140 bis.

7. L’AzIOnE nEI COnfROnTI DELLE bAnCHELa nuova formulazione, prevedendo la non retroatti-vità della norma per gli illeciti compiuti prima del 15 agosto 2009, taglia fuori tutta quella parte di conten-zioso che riguardava il fenomeno dei bonds in default (Cirio, Parmalat, Argentina ecc.). Ma ci si domanda da più parti cosa possa accadere per il futuro. Credia-mo che il problema dell’applicabilità della Azione di Classe alle Banche possa essere scisso in tre parti.7.1. CON RIfERIMENTO AI SERVIzI dI NEGOzIAzIONE dI STRUMENTI fINANzIARIUn primo aspetto da considerare riguarda il caso di clienti retail in cui questi agiscano per chiedere un risarcimento del danno causato dal mancato rispet-to della normativa contenuta nel TUF. In particolare tutte quelle regole volte a imporre all’intermediario i doveri di diligenza, correttezza e trasparenza (art. 21 TUF) nell’esercizio della propria attività. Ora, non crediamo che, quand’anche si potesse ipotizzare una violazione degli obblighi di informativa comune ad un certo gruppo di clienti, questo sia sufficiente per superare il primo controllo di ammissibilità dell’azio-ne. Questo perchè la violazione dell’informativa, perchè possa comportare una responsabilità dell’in-termediario, deve sempre essere rapportata alla si-tuazione particolare nella quale si trova ogni singolo cliente, valutando la violazione con riferimento, ad esempio, al grado di esperienza in materia finanzia-ria, al portafoglio del cliente, alla propensione al ri-schio anche in rapporto alle precedenti esperienze di investimento. In altre parole, non si potrà mai avere una classe omogenea di diritti lesi perchè, anche a fronte di una violazione (comune) delle norme di in-formativa, occorrerà sempre verificare, caso per caso, se esista un nesso causale tra tale violazione e il dan-no per il quale il cliente pretende il risarcimento.

14) Opt-in e opt-out identificano le due diverse modalità per l’individuazione dei soggetti coinvolti nell’azione: nel primo caso (opt-in) gli effetti (positivi o negativi) dell’azione si estenderanno solo verso coloro che hanno espressamente deciso di aderire all’azione di classe, nel secondo caso (opt-out), tipico della Class Action americana, tutti coloro che fanno parte di una medesima classe (che dovrà pertanto essere ben delimitata dal giudice) subiranno o beneficeranno degli effetti dell’azione salvo che non abbiano espressamente e pre-ventivamente manifesta-to la volontà di “uscire” dalla procedura.15) In proposito si richiama il comma 11 dell’art. 140 bis ove il giudice, “con l’ordinanza con cui ammette l’azione il tribunale determina altresì il corso della procedura assicuran-do, nel rispetto del contraddittorio, l’equa, efficace e sollecita gestione del processo. Con la stessa o con successiva ordinanza, modificabile o revoca-bile in ogni tempo, il tribunale prescrive le misure atte a evitare indebite ripetizioni o complicazioni nella presentazione di prove o argomenti; onera le parti della pubblicità ritenuta necessaria a tutela degli aderenti; regola nel modo che ritiene più opportuno l’istruzione probatoria e disciplina ogni altra questione di rito, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio”.16) Si rimanda alle perplessità sopra esposte nella nota 15 nel caso si tratti di una Azione basata su un illecito antitrust. Rimarchiamo infatti un contrasto tra il citato comma 4 e l’art.33, 2° comma, l. 287/90.17) Un po’ come accade con la Certification order della Rule 23 statunitense.18) Che sarà parte im-portante del contenuto della pubblicità perchè il destinatario della stessa deve facilmente riconoscersi nella fatti-specie e capire subito se può far parte della classe o meno.

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Diverso potrebbe essere il caso della fattispecie pre-vista dall’art. 100 bis del TUF. Ove si dovessero ripre-sentare casi (come quelli citati sopra) ove vengano venduti prodotti finanziari oggetto di operazioni di collocamento riservate ad operatori “qualificati” (con tutte le specifiche che la norma prevede) a clienti che “qualificati” non sono, siccome qui non rileva la posizione “personale” del singolo cliente, ma solo la violazione di una norma che prevede il divieto di vendere questi prodotti, crediamo che si possa ragio-nevolmente ammettere una Azione di Classe. Si trat-terebbe infatti di un esercizio da parte di una classe di soggetti che chiede la restituzione del denaro in-vestito (male) sulla base della medesima violazione di legge (identico fatto costitutivo). Una ulteriore ipotesi potrebbe delinearsi nel caso in cui l’investi-tore lamenti un danno causato da un prospetto in-formativo incompleto o inveritiero. Il cliente sarebbe pertanto indotto in errore dalla falsità del prospetto informativo ed il danno deriverebbe dalla perdita di valore degli effetti che non avrebbe comperato ove avesse avuto un corretta prospettazione del rischio (negli Stati Uniti queste posizioni sono tutelate dalle Securities Class Actions20).Crediamo che in questo caso ben si possa sostenere che il comportamento dannoso dell’intermediario sia antecedente alla stipulazione del contratto di acquisto dei prodotti finanziari, quindi, volendo semplificare, si tratterebbe di una responsabilità extra contrattuale che non rientra pertanto nelle ipotesi tassative della nuova Azione di Classe. Resta pur sempre la possibi-lità che la falsità del prospetto informativo venga vi-sta come una “pratica commerciale scorretta”, quindi azionabile sotto questo diverso profilo.7.2. CON RIfERIMENTO AI CONTRATTI BANCARII contratti bancari, rientrando come tipologia tra quel-le previste dal comma 2, lett. a) dell’art. 140 bis, po-tranno dar luogo ad Azioni di Classe. Sempre volgen-do lo sguardo al passato (ante 15 agosto 2009, quindi non più tutelabile con questa forma di Azione) si può ad esempio ricordare come l’illegittimità della clau-sola di capitalizzazione trimestrale degli interessi, che diede avviso a diverse azioni contro le banche, oggi avrebbe potuto generare una Azione di Classe. E così per il futuro nel caso in cui il contratto “standard” preveda clausole poi rivelatesi illegittime (si pensi ad un contratto che preveda ancora la commissione di massimo scoperto), tutti i sottoscrittori potranno unir-si ed avanzare una Azione di Classe per ottenere il risarcimento di un danno che, come vedremo, potrà anche essere liquidato equitativamente, quindi anche in assenza di prova del quantum debeatur.7.3. BANChE, pRATIChE COMMERCIALI SCORRETTE E COMpORTAMENTI ANTICONCORRENzIALIIl campo di azione dei consumatori \ utenti delle ban-che può non trovare limiti nella casistica riguardante le pratiche commerciali scorrette. Ogni qual volta ci si trovi dinanzi a un messaggio pubblicitario che in-duca in modo ingannevole il cliente ad acquistare un

determinato prodotto (bancario) o, dopo l’acquisto, a non permettere l’esatto esercizio dei diritti nascenti dal contratto, si potrà attivare una Azione di Classe per la tutela dei diritti omogenei lesi. Lo stesso dica-si ove gli istituti bancari siano incappati in condotte lesive della libera concorrenza (cartelli sui prezzi, scambi di informazioni ecc.) che abbiano potuto cre-are un danno nei “contratti a valle” stipulati dagli utenti.

8. COnCLUSIOnIAbbiamo velocemente passato in rassegna la nuova Azione di Classe che meriterebbe di essere maggior-mente approfondita su diverse problematiche inter-pretative sulle quali si dovranno misurare i legali delle parti e i magistrati aditi. Dal primo di gennaio è facile immaginare che alcune associazioni dei consu-matori faranno a gara per accaparrarsi le prime Azio-ni21, pur nell’incertezza e con il pericolo di incorrere negli errori tipici delle novità legislative. Certo è che le imprese dovranno vigilare, sia al loro interno, sia cercando di creare sin da subito un pool di esperti anche esterni che possano, da una parte, essere in grado di dare risposte immediate nel caso in cui si dovessero trovare a dover resistere in una Azione di Classe, onde evitare che la “sorpresa” favorisca ancor di più la controparte che, di per sé, è avvantaggiata, lo abbiamo visto, da alcune facilitazioni tra le quali quella di maggior rilievo è il “giudizio equitativo”. Ma l’attività dovrà anche essere di tipo preventivo che tocca la “governance” ed i metodi di attuazione del D. lgs. n. 231 del 2001. Si impone certamente un controllo, ulteriore, di tutti i contratti che vengono sottoposti agli utenti, così come si renderà necessa-ria una maggior attenzione sulle problematiche le-gali che riguardano le materie della concorrenza e dei diritti dei consumatori in generale. Ricordiamo che l’Azione di Classe è una norma procedurale e non di diritto sostanziale; sarà su questi ultimi argo-menti, letti alla luce della nuova Azione che i legali interni delle imprese dovranno volgere lo sguardo per evitare di incappare in cause che, essendo ad-dirittura pubblicizzate per ordine di un giudice, po-tranno raccogliere molte più adesioni rispetto al pas-sato convincendo anche quei soggetti che altrimenti non si sarebbero mai spinti a “far causa”. Torniamo a dire: le norme in materia di pratiche commerciali scorrette, di concorrenza e di tutela dei consumatori andranno “rilette” con grande attenzione e non sem-plicemente “sfogliate”.

19) Ancor più gravoso sarebbe il compito con un sistema di opt-out, infatti in quel caso la delimitazione della classe ha effetti diretti su tutti i componenti della classe che non dichiarino espressa-mente di non aderire. 20) Si rimanda anche in questo caso a FRIGNANI, VIRANO, op. cit. 21) Su internet è facile trovare iniziative in questo senso, si veda ad es. http://www.class-action.it/ .

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Foto: Bruno GArAvoGliA

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TORInO COME Un SOGnOdi GiuSePPe culicchiA

Una città vitale, in cui succedono le cose. Il famoso grigiore torinese è come evaporato,ma era una leggenda metropolitana... Con le Olimpiadi, l’immagine è cambiata, il centrocittà è rinato. La Fiat ha fatto diventare italiana una delle principali case automobilistiche americane. Dopo l’epoca dei sogni, forse si è giunti alla fine di un ciclo.Ma Torino è una città che dà il meglio di sé proprio nei periodi di incertezza.Lo scrittore Giuseppe Culicchia racconta la sua Torino.

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Torino come un sogno. In molti l’abbiamo vissuta così, la nostra città, nel corso degli ultimi anni. Qualcuno l’ha sognata con il mare a Porta Nuova. Qualcun altro con i prati al posto dell’asfalto. Uno che conosco di persona, si è spinto fino a sognarla con le spiagge in riva a un Po tornato finalmente balneabile, come mostrano fotografie d’altri tempi, e gli ombrelloni tra il Valentino e la Gran Madre: se ci sono riusciti gli svizzeri a Zurigo con il Limmat, perché non dovremmo provarci anche noi? Altri invece l’hanno sognata con la biblioteca più bella d’Europa lì dove un tempo si riparavano i treni delle ex Ferrovie dello Stato. E poi ancora sogni: le antiche fabbriche trasformate in scuole, laboratori, musei, centri culturali e residenze per artisti ospiti chiamati da tutto il mondo a lavorare per tre o sei o dodici mesi in città. Un centro storico in larga parte pedonalizzato come accade in innumerevoli città al di là delle Alpi, in Francia come in Svizzera, in Austria e in Germania. E altre biblioteche ancora, naturalmente multimediali, nei quartieri dove la convivenza è obiettivamente difficile e servono luoghi d’incontro alternativi al modello del centro commerciale. E poi: svuotare dalle auto luoghi meravigliosi, come piazza San Carlo o piazza Vittorio. Restituire agli edifici storici le loro tinte originali, liberandoli dalla patina di smog accumulata nel corso dei decenni. Migliorare in modo radicale la mobilità sviluppando un nuovo sistema di trasporti urbani a cominciare da quell’eterna promessa che a Torino è stata la metropolitana. Soltanto sogni?Ma la vita è sogno, scriveva già quattro secoli fa Caldéron. Che senso ha una vita senza sogni? Ed è davvero viva una città, se non produce sogni?

A Torino questi processi onirici si sono messi in moto proprio quando la città pareva destinata inesorabilmente al declino. La Fiat, che a partire dagli anni Ottanta aveva progressivamente ridimensionato il suo ruolo nelle dinamiche economiche della città, sembrava dovesse finire in mani americane, cosa che preludeva con ogni probabilità alla chiusura definitiva di Mirafiori. E dato che per gran parte del Novecento Torino era stata identificata con l’industria dellaautomobile, da più parti si ipotizzavano scenari apocalittici. Da un milione di abitanti, Torino sarebbe presto scesa a 500.000. L’esodo dei residenti ne avrebbe certificato un ridimen-sionamento irreversibile. Della prima capitale dell’Italia unita, non sarebbe rimasto che il ricordo. Il famoso, autoctono grigiore, da tempo immemorabile associato al suo nome, l’avrebbe inghiottita per sempre.

Eppure. Eppure, a ben vedere, Torino era già riuscita in passato a lasciarsi alle spalle crisi davvero epocali. Su tutte, lo spostamento della capitale da parte dei Savoia, prima a Firenze e poi a Roma, che costò alla città anche dei morti in piazza, in occasione delle manifestazioni che si tennero per protestare contro l’improvviso “trasloco”. Ma in quell’occasione, per dire,

Pagina precedente: Torino, dal Monte dei Cappuccini;

l’Arco Olimpico, al Lingotto;

lo storico caffè Mulassano

Sopra: Torino, piazzale del Lingotto;

A destra, dall’alto:Torino dal Monte dei Cappuccini;

il Lingotto;

i nuovi insediamentidi Spina 3

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a Torino nacque la moda italiana: con le sartine di corte che all’eclissarsi della medesima si erano come usa dire oggi “reinventate”, creando i primi atélier e di tanto in tanto recandosi a Parigi in cerca di idee e modelli, quando Milano era ben lungi dall’organizzare le odierne settimane del prêt-à-porter. E poi, tra le altre cose, nella Torino che intanto si apprestava a diventare capitale dell’industria, nacquero l’azienda dei telefoni, e la radio, e la televisione. Per tacere del cinema con il suo primo colossal, Cabiria.Così, sarà stata una questione di geni ereditari, proprio nel momento di maggior pessimismo sulle sorti della città Torino ha saputo usare l’occasione delle Olimpiadi invernali del 2006 per rilanciare la sua immagine, in Italia e fuori. Imprevedibilmente, poi, la Fiat è riuscita non solo a superare il momento più buio della sua storia ma addirittura a ribaltare i termini della questione: doveva diventare americana, e invece ha fatto diventare italiana una delle principali aziende d’oltreoceano. E il famoso grigiore torinese? A un tratto, è come evaporato. Tanto che oggi nell’immaginario giovanile nazionale Torino ha preso il posto occupato fino all’altro ieri da Bologna: improvvisamente, è diventata la città vitale in cui succedono le cose, e in cui sognare di andare a vivere, proprio come dalle parti di piazza Maggiore agli albori del Dams.

Dall’alto:Torino, l’ex villaggio Olimpico;

la targa dedicata aFederico Nietzscheprospicente piazzaCarlo Alberto;

a destra: la Galleria Subalpina

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Il fatto è però che Torino grigia non lo è mai stata, anche se noi per primi ci siamo convinti che lo fosse. Il grigiore di Torino, di cui per primo parlò su “Casabella” negli anni Trenta del secolo scorso Filippo Burzio, riferendosi all’astrattezza e alla razionalità del capoluogo subalpino, è a ben vedere più che altro una leggenda metropolitana che si è diffusa nel dopoguerra soprattutto grazie alle immagini in bianco e nero della televisione. Fu in quel periodo che gli italiani impararono che Torino era una città industriale, grazie alle immagini degli operai che in pieno Boom varcavano i cancelli delle fabbriche dopo essere giunti in città dalle campagne del Meridione. Ma contrariamente a quanto quelle inquadrature insegnarono a pensare all’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, Torino non era solo la

fabbrica o i quartieri dormitorio sorti in gran fretta ai margini della città per ospitare i nuovi residenti, e privi di servizi. Così, la Fiat ha senza dubbio lasciato un segno indelebile all’interno del paesaggio cittadino. Basti pensare all’enorme complesso del riciclato Lingotto, e a quello tuttora in parte funzionante di Mirafiori, oltre alle mille “boite” o fabbrichette dell’“indotto”, o ancora a quartieri periferici come quello delle Vallette. Eppure, chi oggi viene a Torino per la prima volta aspettandosi di trovare una distesa monotona di capannoni e alveari dormitorio, è costretto a ricredersi. Dagli ampi corsi alberati che tagliano rettilinei la città, voluti dai Savoia sul modello dei boulevard parigini, si ammirano le sfumature della collina e le cime innevate delle Alpi.

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nelle piazze e nelle vie del centro, invece, trionfano Barocco, Liberty e Neoclassico. Straordinarie le invenzioni dell’Antonelli. E poi squarci di architettura del Ventennio, tra cui naturalmente l’asse centrale di Via Roma e il “grattacielo” di Piazza Castello. E dopo gli interventi di restauro che hanno restituito al centro storico i suoi colori originari, Torino ha in gran parte recuperato le tinte solari amate da Nietzsche, e da questi decantate nelle lettere all’amico Peter Gast. Senza contare che a Torino i viali della città ospitano 65.000 alberi. E i parchi altri 100.000. Mentre i percorsi pedonali nel verde toccano i 50 chilometri, e le aree gioco sono 227. L’area verde fluviale è di 4 milioni di metri quadri, e si progetta di ampliarla fino a raggiungere i 12 milioni. Insomma: la Torino grigia non è scomparsa per miracolo dopo le Olimpiadi. Non è mai esistita, anche se ci avevano convinti del contrario. È mai stata grigia Porta Palazzo, il cuore pulsante della città? Sono grigi forse gioielli architettonici come la Galleria Subalpina o i tanti caffè storici? È grigia l’apoteosi di barocco e di liberty che accoglie chi si avventuri per le vie e le piazze del centro? Bene ha fatto l’architetto Benedetto Camerana a colorare di rosso il suo nuovo arco alle spalle del Lingotto, mentre il team europeo di architetti da lui coordinati progettavano e realizzavano il coloratissimo villaggio olimpico lì dove sorgevano i mercati generali.

Dall’alto:piazza Vittorio Veneto,vista dalla basilica Gran Madre di Dio;

vedute del mercato di Piazza della Repubblica;

a sinistra: l’ex villaggio Olimpico

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In realtà, da un punto di vista architettonico e urbanistico i guasti peggiori si sono prodotti a Torino nel secondo dopoguerra, a causa della fretta cui si accennava prima. E proprio per questo i Giochi Invernali e l’interramento della ferrovia, eventi unici nella storia di una città, hanno fatto nascere i sogni cui si accennava sopra. A un tratto, Torino è stata invasa dai cantieri. E i cantieri sono stati senz’altro in quel momento la rappresentazione più efficace di un luogo in divenire, dove alle rovine si alternavano nuove fondamenta, e accanto ai mozziconi di vecchie strutture in via di demolizione se ne intravedevano altri, quelli degli edifici in via di costruzione. “Il fascino dei cantieri”, scrive Marc Augé nel suo Rovine e macerie (Bollati Boringhieri), “dei terreni incolti in attesa ha sedotto cineasti, romanzieri, poeti. Oggi quel fascino dipende, mi sembra, dal suo anacronismo. Contro l’evidenza, esso mette in scena l’incertezza. Contro il presente, sottolinea la presenza ancora palpabile di un passato perduto e al tempo stesso l’imminenza incerta di quanto può accadere: la possibilità di un istante raro, fragile, effimero, che si sottrae all’arroganza del presente e alla evidenza del‘già qui’”. E ancora: “I cantieri, eventualmente a costo di un’illusione, sono spazi poetici nel senso etimologico della parola: vi si può fare qualcosa; la loro incompiutezza contiene una promessa”.

E la Torino diventata improvvisamente una città-cantiere, nel corso di questi ultimi anni è davvero stata soprattutto una promessa, o volendo una scommessa. Oggi che le Olimpiadi sono un ricordo, e che la maggior parte dei cantieri ha chiuso i battenti, i sogni hanno in larga parte fatto posto alla realtà. A Porta Nuova, al posto del mare, è sorto alla pari di ciò che è successo in altre grandi stazioni non solo italiane un centro commerciale. In riva al Po di spiagge non c’è traccia, anche perché il fiume è tutto fuorché balneabile. Della biblioteca più bella d’Europa resta il progetto dell’architetto Bellini, costato circa 16 milioni di Euro. Molte antiche fabbriche, tra cui quel capolavoro di architettura industriale che era la Michelin, sono state abbattute per far posto a schiere di condomini che a molti ricordano fin troppo quelli sorti nei decenni passati, e che non hanno entusiasmato gli architetti convenuti di recente sotto la Mole per il congresso mondiale della categoria. La pedonalizzazione del centro invece ha fatto passi avanti: dopo piazza San Carlo e piazza Vittorio, è toccato a via Lagrange, che non a caso pare rinata:

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Dall’alto:interno del caffè Mulassano;

il cantiere di Stazione Dorain corso Principe Oddone

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peccato che i commercianti di via Carlo Alberto abbiano espresso parere contrario in un’apposita consultazione. La viabilità è in parte migliorata grazie al completamento del primo tratto della prima linea della metropolitana, anche se gran parte della città è esclusa dal percorso e al momento nessuno può dire quando le linee diventeranno due o magari tre. Quanto all’idea di fondare nuove biblioteche multimediali a cominciare proprio dai quartieri cosiddetti “degradati”, quella aperta a Mirafiori nei pressi della già famigerata via Artom resta a oggi un luminoso esempio positivo: ma per l’area di Barriera di Milano si pensa piuttosto all’apertura di nuovi spazi commerciali, mentre le biblioteche già esistenti dovranno ridurre gli orari di apertura al pubblico a causa della mancanza di fondi.

All’indomani delle Olimpiadi, infatti, Torino si è scoperta tra le città più indebitate d’Italia, per un equivalente di circa seimila euro per ogni cittadino. Certo oggi la sua immagine è cambiata, e non a caso ha visto crescere il numero di turisti che scelgono di visitarla, non solo nei mesi estivi, con lunghe code di fronte al Museo Egizio e a quello del Cinema. Ciò nonostante, i grandi alberghi parlano di crisi del settore, e se fino a ieri si diceva che Torino per darsi una nuova identità doveva “puntare sulla cultura”, i recenti tagli operati nel settore paiono andare in tutt’altra direzione. Non solo a Torino, d’altronde, spesso la cultura coincide ormai con l’intrattenimento, che poi è la cifra di questa nostra epoca cosiddetta “dell’effimero”. A Torino sono cambiati i ritmi di vita e anche gli stili, e in questo senso la città già famosa per certe sue “stravaganze” molto torinesi e poco italiane è diventata un po’ più simile a tante altre. Dopo l’epoca dei sogni, l’impressione è che si sia giunti alla fine di un ciclo, e che come già in passato il futuro torni a essere un punto interrogativo. Storicamente, tuttavia, Torino è una città che da sempre proprio nei periodi d’incertezza si è dimostrata capace di dare il meglio di sé.

Sotto:vedute dei nuovi palazzi di Spina 3;

a destra, dall’alto:piazza Vittorio Veneto, in primo piano il ponteVittorio Emanuele I;

la stazione di Porta Nuovavista da Piazza Carlo Felice

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La sorprendente vicenda legata alla produzione dei tessuti auro serici in Lombardia e la rarità e bellezza dei manufatti prodotti a Milano tra il 1460 e il 1535 sono l’oggetto della mostra presentata al Museo Poldi Pezzoli fino al 21 febbraio 2010. “Seta Oro Cremisi. Segreti e tecnologia alla corte dei Visconti e degli Sforza” curata da Chiara Buss, direttrice del Dipartimento di Arti Applicate dell’Istituto per la Storia dell’Arte Lombarda, e da Annalisa Zanni, direttore del Museo, illustra i risultati di una approfondita ricerca ideata e coordinata da Chiara Buss. Grazie alla lettura dei risultati incrociati delle ricerche d’archivio e delle analisi tecniche e scientifiche condotte in collaborazione con nove istituti europei, sono stati individuati manufatti milanesi mai scoperti prima, testimonianze tangibili della eccellenza delle tecniche della lavorazione della seta a Milano. Tutto ha inizio nel 1442 quando due setaioli provenienti da Firenze e Genova, chiamati da Filippo Maria Visconti, portano a Milano le loro macchine e le loro conoscenze nella lavorazione della seta, che raggiunge i vertici della qualità in meno di un quarantennio. Milano, ieri come oggi, dimostra la sua capacità imprenditoriale attirando competenze specifiche e offrendo un valore aggiunto: la possibilità e tutti i mezzi per sviluppare innovazione tecnologica.

SETA ORO CREMISI. L’ECCELLEnzA DI MILAnO AI TEMPI DEI vISCOnTI E DEGLI SfORzA

I tessuti più suntuosi prodotti a Milano sono ancor oggi riconoscibili per alcune caratteristiche: la presenza di motti e imprese presenti all’interno delle raffinate decorazioni e disegni prodotti per una ricchissima corte, l’impiego di filati e soprattutto di tinture preziose e rare, anch’esso volto a rendere unico il manufatto realizzato. Va ricordato infatti che in quel periodo il tessuto raggiunge l’apice della propria fortuna anche come strumento di comunicazione politica e casa Sforza si mostrò particolarmente attenta all’uso di motti, imprese, divise a conferma del proprio potere e soprattutto della legittimità e continuità della discendenza tra Visconti e Sforza.

Una cinquantina di opere esposte, preziosi velluti, broccati in oro e argento, eleganti damaschi e lampassi accanto a oreficerie, raffinati ricami in oro e perle, dipinti, carte da gioco (9) e codici miniati (12) accompagnano alla scoperta della produzione tessile che, intrecciandosi a quella suntuaria, riveste un ruolo fondamentale alla corte dei Visconti e degli Sforza.Nella prima sezione, dedicata all’araldica, motti e imprese (4-5-6) sono insistentemente presenti non solo nei tessuti ma anche nelle miniature, nelle carte da gioco, nei sigilli. Scolpite, dipinte, ricamate o tessute, le imprese compaiono sulle pergamene, sui codici, sulle vesti dei duchi

e della corte aiutando in molti casi ad attribuire e datare gli oggetti. Nei tessuti esposti sono state individuate imprese, sinora non identificate, come quella della mela cotogna nel Paliotto d’altare di Busto Arsizio (11) del 1450-1461 che Francesco Sforza usava in memoria del titolo di Conte di Cotignola, ereditato dal padre. E ancora, l’impresa della sempreviva, (6) - pianta che cresce in zone aride - compare nella consueta rappre-sentazione che mostra solo l’infiorescenza centrale ripetuta tre volte su speroni di roccia (come nell’iniziale miniata del Codicetto di Lodi dell’Archivio di Stato di Milano, donato da Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti inginocchiati ai piedi di San Gerolamo) e nella evoluzione più naturalistica, completa di stelo, foglie e fiori in boccio (nel suntuoso, ricchissimo Baldacchino di Lodi).

di AnnAliSA ZAnni

È in corso a Milano, presso il Museo Poldi Pezzoli, sino al prossimo 21 febbraio, la mostra “Seta Oro Cremisi. Segreti e tecnolo-gia alla corte dei Visconti e degli Sforza”. Vi sono esposte una cinquantina di opere: preziosi velluti, broccati in oro e argento, eleganti damaschi e lampassi, accanto ad oreficerie, ricami in oro e perle, dipinti. L’eccellenza di Milano nel campo della creatività, della moda e della tecnologia ha radici antiche.La mostra è organizzata con il sostegno della Banca Regionale Europea.

FOTO: MUSEO POLDI PEZZOLI

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Sopra: (1) Frammento, Velluto di seta operato, con disegno per trame in oro filato, Milano, 1445 - 1460

a sinistra: (2)Maestro lombardo, Ritratto di Francesco Sforza,1460-1470

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Intrigante è il gioco di rimandi simbolici suggerito da due piccole ghiande che compaiono alla base della grande pigna nel frammento del Museo Storico di Berna (1), parte del bottino di guerra razziato dalle truppe elvetiche a Carlo il Temerario nel 1477. Le ghiande non hanno alcun peso nell’economia del disegno e potrebbero pertanto essere un richiamo araldico all’albero della quercia. Della Rovere o Sforza? Forse un riferimento all’albero contro il quale il padre di Francesco Sforza gettò la zappa per lasciar decidere alla sorte se intraprendere la vita militare? Questa e tante altre storie ci vengono svelate dagli oggetti esposti nella mostra, dei quali si possono apprezzarequalità, spessore, caratteristiche dei filati… grazie a una luce radente che ne esalta la tridimensio-nalità, il loro essere anche oreficerie, sculture, bassorilievi e non solo tessuti a due dimensioni: una luce fredda che non interferisce sulla conservazione dei tessuti ma li esalta, creata dallo studio Ferrara-Palladino, insieme a un allestimento volto ad esaltare le caratteristiche materiche degli oggetti e la straordinaria abilità degli artisti che li hanno realizzati, progettato da Luca Rolla.

I motivi delle imprese che si ritrovano nella maggior parte dei cinquanta oggetti sono ovunque: basta spostare lo sguardo per ritrovare gli stessi motivi negli abiti dei signori, come nella manica della veste che Francesco Sforza indossa nel ritratto in prestito dalla

Pinacoteca di Brera (2) esposto accanto a quello della moglie Bianca Maria Visconti.Tra le imprese più note, quella della colombina con il motto “a bon droit” (7) nel paliotto del Poldi Pezzoli (8) e quella della scopetta, ben visibile nel paliotto del Museo Baroffio di Varese, realizzato nel 1494, anno in cui Ludovico fu nominato duca dall’imperatore Massimiliano I.Fu Ludovico il Moro a fare l’uso più ampio delle imprese, sfruttando i diversi livelli simbolici del tessuto, dal disegno al colore, piegandoli tutti al servizio della sua immagine, in maniera esplicita oppure ricorrendo a giochi di parole e allusioni per costruirsi una forte identità personale, ben distinta da quella familiare. Il suo ritratto con la sopraveste in broccato d’oro (preziosa tavola che non viene esposta dal 1939) (3) è un trionfo di imprese araldiche tessute a comporre un monito per i sudditi e al contempo esaltare la produzione serica, fonte del benessere dello Stato.

A sinistra:imprese dei Visconti e degli Sforza: (4) della mela cotogna,(5) della scopetta, (6) dei semprevivi

in basso: (3)Ambito di Bernardino de’ Conti,Ritratto di Ludovico il Moro,1491-1494

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Dall’alto: (8)Paliotto d’altare detto “delle colombine”,Velluto di seta operato, con disegno per trame in oro e argento filati,1450-1461

(7) impresa della colombina

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La seconda sezione della mostra rivela le nuove scoperte sulle tinture e sui decori. Nel XV secolo le colorazioni rosse di origine animale erano di gran lunga le più costose e rappresentavano la componente di maggior pregio di un tessuto auro-serico. Ottenute dalla lavorazione di cocciniglie essiccate, venivano distinte in due gruppi, indicati con i termini cremisi e grana, ai quali sino a oggi non si era riusciti a far corrispondere le diverse specie di cocciniglia conosciute. Si sapeva dai documenti che il cremisi era molto più pregiato della grana e che la differenza non risiedeva nella tonalità di colore - che dipendeva dalle tecniche di tintura e dalla qualità dei fissanti - ma nella sua inalterabilità alla luce e durata nel tempo. Si sapeva - a riprova della grande differenza di qualità - che ai tintori era proibito mescolare le due sostanze e che i tessitori avevano l’obbligo di impiegare in ogni pezza fili tinti con la stessa sostanza. Solo recentemente si è riusciti a identificare l’origine geografica delle diverse cocciniglie e, soprattutto, a far coincidere ogni specie con uno dei due misteriosi termini. Per la prima volta nella storia degli studi tessili, si riesce a indicare se il tessuto è stato tinto con cremisi (ottenuto dalla cocciniglia polacca che vive sulle radici degli alberi) o grana. È in questa sezione che si può ammirare il Caftano in velluto broccato in oro del Museo Nazionale d’Arte della Romania di Bucarest (13), la tipica veste usata dai principi della Valachia tra XV e XVI secolo. Come un manufatto lombardo possa essere stato ritrovato in Romania lo spiegano i traffici commerciali che tra XV e XVI secolo conducevano le navi genovesi lungo il Danubio. Il disegno, organizzato in rosette concentriche a forma di nastri a nuvola, è una versione semplificata del disegno a nodi “infiniti” che compare nel frammento di velluto delle Civiche Raccolte d’Arte del Castello Sforzesco (10). Il motivo rievoca i decori dei manoscritti irlandesi del VII secolo e gli arabeschi ispano-moreschi che saranno ripresi da Bramante e Leonardo, diventando una costante nei tessuti e nei ricami milanesi di fine Quattrocento.

In alto: (9) Bonifacio Bembo, Fante di Denari, Tarocchi Colleoni – Baglioni,1445-1450

sopra: (10) Frammento,Velluto di seta operato, con disegno per trame in oro filato e bouclé,1485-1500

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Proprio ai ricami milanesi è dedicata l’ultima sezione della mostra, che esalta un’arte praticata con altissima maestria proprio in Lombardia già alla fine del Quattrocento. Esemplare dimostra-zione del raffinato gusto decorativo, della grande attenzione per i dettagli e della costante ricerca di preziosità che si manifesta anche nell’uso di pietre dure, smalti e perle, è lo stupefacente baldacchino del vescovo Pallavicino di Lodi del 1495 circa, ottimo esito della collaborazione tra ricamatori e orafi (16-17). Il rapporto tra ricamo e pittura è molto stretto: a volte i pittori forniscono cartoni con i disegni preparatori ai ricamatori; altre volte letecniche della pittura e del ricamo coesistono, come nella straor-dinaria Madonna con Bambino di Giovanni Antonio Bevilacqua della Pinacoteca del Castello Sforzesco (14). Le figure di santi inserite in nicchie, ricamate e applicate su piviali e pianete, come si vede nello stolone del Piviale di San Vincenzo del Museo Bernareggi di Bergamo del 1500-1510 (15), sono simili a quelle che compaiono nei polittici intagliati e dipinti dello stesso periodo. Peculiarità lombarda nel ricamo è l’applicazione di magete, termine che indicava l’anellino

metallico che proteggeva l’asola attraverso cui passavano le stringhe delle allacciature delle vesti. Prodotte a partire dagli anni Quaranta da artigiani specializzati, le magete vengono realizzate in fogge diverse e destinate alla decorazione dei ricami, come nelle rocce alla base del sepolcro del Christus patiens, paliotto sforzesco ora al Museo Poldi Pezzoli, forse

proveniente dalla Chiesa di Santa Maria delle Grazie, il cui ricamo fu realizzato in occasione della morte di Beatrice d’Este nel 1497. La qualità e le peculiarità del ricamo milanese permettono inoltre l’oppor-tunità di approfondire il tema delle maestranze specializzate, scoprendo il ruolo fondamentale rivestito dalla manodopera femminile nel campo della filatura della seta e dell’oro.

La mostra offre la rara opportunità di ammirare oggetti straordinari ma fragili e delicati - e per questo esposti a rotazione nei musei - e di poterne cogliere la preziosità quasi “palpabile”. Uno degli scopi della mostra è anche quello di far comprendere l’importanza e il valore di queste straordinarie opere d’arte, che hanno richiesto creatività, altissima specializzazione e capacità imprendi-toriale e di far maturare lo stimolo al loro studio e alla loro conservazione per evitare l’irrimediabile perdita di questo patrimonio.

(11) Paliotto, Velluto di seta operato, con disegno per trame in oro filato, 1450-1461

(12) Giovanni Battista Lorenzi,Libro di scuola di Massimiliano Sforza, 1493-1499

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Per tutti coloro che intendono approfondire gli argomenti della mostra sono a disposizione un volume con schede delle opere esposte e saggi di approfondimento in italiano e inglese, curato da Chiara Buss ed edito da Silvana Editoriale, e un Catalogo Multimediale (www.setainlombardia.org), curato dall’Istituto per la Storia dell’Arte Lombarda, che costituisce uno strumento in progress, dedicato a studiosi, designers tessili, tecnici della tintura e della tessitura ma anche a semplici curiosi. La laboriosa organizzazione della mostra ha coinvolto generosi prestatori italiani e internazionali e preziosi compagni di viaggio: Vitale Barberis Canonico, prestigiosa industria laniera, che ha sostenuto anche il restauro del paliotto del Christus patiens; Fondazione Cariplo, istituzione fondamentale per la valorizzazione della storia del nostro patrimonio artistico, e Ubi-Banca Regionale Europea che dal 2000 sostiene con continuità le attività espositive del Museo, cui si sono affiancate tutte le istituzioni pubbliche (in particolare Regione Lombardia e Camera di Commercio, Artigianato, Industria e Agricoltura di Milano).

In alto: (13) Caftano,Velluto di seta operato, con disegno per trame in oro filato,1485-1500

Sopra: (15) Piviale ricamato, particolare dello stolone, Lampasso di seta e oro filato, ricamo in sete policrome, oro e argento filati, magete,1500-1510

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Dall’alto: (16) Baldacchino processionale del Vescovo Pallavicino, e particolare (17),Lampasso di seta e oro filato,ricamo in sete policrome, oro e argento filato, perle,1493-1495

A sinistra: (14) Giovanni Ambrogio Bevilacqua,Madonna con il Bambino,Tela, tempera, oro e argento filati, seta, magete, 1500-1510

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AnDREA POzzO, IL TRIOnfO DEL bAROCCOdi Fabrizio Gardinali

FOTO: MAURIZIO ROATTA

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La Chiesa della Missione, o per la precisione di San Francesco Saverio, di Mondovì è uno dei capolavori barocchi che impreziosiscono il centro storico dell’antica città della “Granda” ed è un edificio di assoluto interesse, che va ben al di là della dimensione locale, specie per i suoi importanti apparati decorativi interni, per la qualità che li contraddistingue, ai quali lavorò un artista considerato, ormai, dagli studiosi,in particolare da padre Heinrich Pfeiffer, docente alla Università Gregoriana in Roma, la più grande personalità del Barocco, dopo Rubens e Bernini: cioè Andrea Pozzo.La chiesa dell’Ordine dei Gesuiti venne iniziata il 14 maggio 1665, su progetto dell’architetto fossanese Giovenale Boetto (1604 – 1678). Questi si era formato nell’ambito del tardo manierismo alla scuola del Vittozzi, per approdare, in seguito, ad una impostazione estetica molto misurata e poco incline a seguire il gusto del fantastico erudito e della scenografia tipico del suo periodo storico. Lavorò anche per edifici religiosi a Fossano, sua città natale, e fu autore del progetto, datato ancora 1655, per il convento dei Cappuccini di Chiusa Pesio. Fu anche incisore e topografo: nel Palazzo Reale di Torino si conservano i suoi “Piani” per gli assedi di Torino (1640) e d’Ivrea (1641).

il cantiere evento presso la cHiesa della missione di mondovì

Sopra: Mondovì, piazza Maggiore, Chiesa della Missione;

a sinistra: la volta di Andrea Pozzo, con un particolare, “Europa”

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Il Boetto è autore della parte inferiore in pietra arenaria della facciata della “Missione”, per la costruzione della quale vennero abbattute le case del lato meridionale di piazza Maggiore, mentre la parte superiore è di mani per ora ignote, anche se si è fatta l’ipotesi di un intervento del Gallo. Il Pozzo partecipa alla realizzazione dell’esterno con la balconata per superare il dislivello con il sagrato della piazza stessa. Ma è specialmente all’interno, formato da un’unica navata, che la chiesa riserva le sue cose migliori. Intanto vi è l’unica “macchina d’altare” sopravvissuta in Europa. Una struttura interamente in legno e tela grezza dipinti, tranne la statua del santo, in lamiera, al centro, riproposizione dell’altare del Longhena nella Chiesa dei SS. Giovanni e Paolo a Venezia. Probabilmente una struttura in origine provvisoria poi mai sostituita, verosimilmente per mancanza di fondi.È però la straordinaria composizione decorativa a stupire. In essa è adunato l’intero immaginario barocco. Finte prospettive, inganni ottici, commistione di stili, tecniche, illusioni di materiali, quali finte dorature, finti marmi, finto bronzo, e una ridondanza di elementi che realizza il “fantastico” e il “meraviglioso”: gli oggetti della ricerca culturale del XVII secolo, in aperto contrasto con la razionalità logica e l’equilibrio pacato dell’Umanesimo.

E ciò è in gran parte opera di Andrea Pozzo, confratello laico dei Gesuiti. Autore dell’altare destro dedicato alla Vergine Addolorata, ma in particolare della spettacolare finta cupola. Il soffitto è, in realtà, una volta molto bassa, poco arcuata, però a chi entra pare sul serio che si innalzino verso l’alto le volte di una cupola che si apre al cielo. Su questa area l’artista trentino ha raffigurato, fra il 1676 e il 1678, in sedici mesi, la “Gloria di San Francesco Saverio”, contornata nei pennacchi dei quattro angoli da allegoriche figure femminili che rappresentano le quattro parti del mondo dove i Gesuiti svolgevano la loro opera di evangelizzazione. A detta degli storici dell’arte si tratta del primo ciclo monumentale del Pozzo. Fra il 2004 e il 2005 si è aperto il cantiere per il recupero completo della chiesa di San Francesco Saverio, di concerto con la Soprintendenza per il Patrimonio Artistico del Piemonte e quella per i Beni Architettonici per le province di Torino, Cuneo, Asti, Biella, Vercelli, grazie al cospicuo finanziamento, di circa tre milioni di euro, da parte della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo.

Dal 2007 hanno preso il via i restauri dedicati ai dipinti e agli apparati decorativi, primi interventi sulle volte del presbiterio, da parte della società Rava, che dovrebbero essere completati entro la primavera del 2010.Attualmente alla “Missione” operano tre équipe di restauratori coordinate dall’architetto Pierpaolo Falcone: la società Cristellotti e Maffeis, per i lavori inerenti la volta dell’aula e le pareti, Cesare Pagliero, per la macchina d’altare, e Mario Costamagna, per le parti lignee. Si sono adottate tecniche molto evolute, contando soprattutto sulla collaborazione del Getty Institute di Los Angeles, che ha operato un accurato studio analizzando i pigmenti colorati utilizzati dal Pozzo per la realizzazione delle opere, e sulle ricerche sugli intonaci svolte dalla prof. sa Lucia Tognolo del Dipartimento di Chimica del Politecnico di Milano.

Sopra: Andrea Pozzo, autoritratto;

a destra: particolare della volta raffigurante l’ascesa di San FrancescoSaverio

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Inoltre, a partire dal 19 dicembre 2009 e fino al 30 aprile 2010 (dal martedì al giovedì h. 14-19; il venerdì h. 14-23; sabato, domenica e festivi h. 10-19,30) nella medesima chiesa di Mondovì è ospitata la mostra “Il trionfo dell’illusione. Andrea Pozzo pittore, architetto, scenografo. Chiesa di San Francesco Saverio, 1676 - 1678”, con allestimenti multimediali dedicati alla figura dell’artista e visite guidate che permettono, grazie ai cinque piani di ponteggio, di vedere da vicino gli affreschi e apprezzarne la grandiosità e la complessità compositiva. L’iniziativa, pensata per il trecentesimo anniversario della morte del multiforme artista trentino, si svolge in contemporanea ad altri due eventi. A Trento il Museo Diocesano Tridentino ha allestito l’esposizione “Andrea Pozzo (1642 - 1709) pittore e prospettico dell’Italia settentrionale”, che si è inaugurata il 18 dicembre e sarà aperta fino al 5 aprile 2010; a Roma, a cura della Pontificia Università Gregoriana, dal 5 marzo al 13 maggio 2010 è in programma “Mirabili disinganni. Andrea Pozzo (Trento 1642 - Vienna 1709) pittore e architetto gesuita”.

Andrea Pozzo nasce a Trento nel 1642, dove riceve la prima educazione. Si formerà, poi, nella pittura a Venezia dove, pur non frequentando la scuola di maestri di notevole fama, ha l’occasione di recepire la migliore sensibilità artistica dell’epoca, che saprà poi reinterpretare con originalità e sapienza tecnica, diventando uno degli artisti, architetti e tecnici della prospettiva più noti in Italia e in Europa. Viaggiò moltissimo. Prima in Lombardia, a Milano, dove nel 1665 entrò nella Compagnia di Gesù dove però rimase solo coadiutore, mai padre. Comunque le vicende dell’Ordine religioso fondato da Sant’Ignazio di Loyola saranno il principale soggetto della sua produzione artistica. Si sposterà poi in Liguria e, nel 1675, a Torino e, in seguito, come visto, a Mondovì. Nel 1681 è chiamato a Roma dal Generale della Congregazione Gian Paolo Oliva su suggerimento del pittore Carlo Maratta, con l’incarico di terminare gli affreschi, lasciati incompiuti dal Borgognone, del corridoio della Casa Professa.

Vi resterà vent’anni, fino al 1702, dove affinerà la sua tecnica, gli studi sulla prospettiva e diventando uno dei migliori e più considerati architetti del tempo Studi culminati negli affreschi del soffitto della navata della chiesa di Sant’Ignazio, caratterizzati da una serie di architetture illusorie che dilatano artificialmente la prospettiva e lo consacrano come uno dei protagonisti assoluti del Barocco romano.Negli anni fra il 1693 e il 1698 scriverà la “Perspectiva pictorum et architectorum”, trattato nel quale presenta tecniche per dipingere prospettive architettoniche e un complesso di regole per metterle in pratica. Tradotto fino al 1800 in diverse lingue, è uno dei primi manuali del genere. Nel 1702, su invito dell’imperatore Leopoldo I, si recò a Vienna dove risiedette fino alla morte, avvenuta nel 1709. Nella capitale asburgica il suo lavoro più significativo è un “Trionfo di Ercole”, affresco che decorava il soffitto del palazzo del principe Johann Adam von Lichtenstein. Restano inoltre la falsa cupola e i dipinti d’altare della Chiesa dei Gesuiti.

Sopra: Mondovì, Chiesa di San Francesco Saverio, le impalcature del restauro;

a destra: autoritratto di Andrea Pozzo, particolare tratto dalla volta della Chiesa

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In occasione del bicentenario del passaggio di Pio VII in città, si sono svolti (ed in parte sono ancora in corso di svolgimento) alcuni eventi commemorativi organizzati dall’ ufficio per i Beni Culturali Ecclesiastici della Diocesi di Cuneo, in collaborazione con la Sacrestia papale della Città del Vaticano, la Pontificia commissione per i beni culturali, il Comune di Cuneo, le Diocesi di Alba. Fossano, Mondovì, Nizza e Savona ed altre diverse associazioni culturali locali.E’ stata finora una vera e propria scoperta di opere ed itinerari legati alla Cuneo di duecento anni or sono: dal suo impianto urbanistico ai suoi personaggi di spicco (clero, nobiltà, istituzioni…) dal vivere della “gente comune” fino alle profonde rapidissime trasformazioni culturali e sociali cui fu sottoposto quel secolo. Se la Rivoluzione Francese segna l’inizio dell’età moderna, con le sue luci e le sue ombre, ai suoi profondi mutamenti, anche sul nostro territorio, dovettero uniformarsi e riequilibrarsi in pochissimi decenni tutti i rapporti del vivere quotidiano: la religione, la politica, la lingua, il costume e la stessa concezione della vita. Immediatamente poi l’ascesa dell’astro napoleonico, la sua genialità ed il suo grande carisma catalizzarono milioni di persone, travolsero l’intera Europa e si infransero di fronte all’imporsi tirannico dell’Impero e più ancora di fronte al sacrificio di migliaia di vite in occasione del suo espandersi. Anche il rapporto con la Chiesa ebbe un’evoluzione molto travagliata: il rifiuto iconoclasta della prima ora (con la dispersione dei religiosi e la confisca di beni), una lunga mediazione per portare alla ratifica dell’incoronazione di Napoleone da parte del Papa e poi la repentina inversione di marcia con il suo arresto e la lunga prigionia. La Storia (quella con l’iniziale maiuscola) si trova scritta abbondantemente anche dalle nostre parti, nei documenti, negli oggetti e nei monumenti che sono giunti fino a noi. Oltre allo studio ed al restauro di molti di essi si sono ospitate nella mostra storica tenutasi presso la chiesa dei Santi Giacomo e Sebastiano dal 29 settembre all’8 dicembre 2009 altre opere prestigiose e normalmente di difficile accesso per il grande pubblico, tra cui due preziose tiare legate alla incoronazione di Napoleone Bonaparte e l’anello che Pio VI lasciò al successore e che appunto lo stesso Pio VII indossò nel suo lungo viaggio verso la prigionia.

La mostra (che ha ospitato oltre settemila visitatori tra cui circa cinquecento alunni delle scuole di vario grado) una serie di appuntamenti serali svoltisi ogni venerdì di ottobre e novembre, in cui vari studiosi hanno approfondito diverse tematiche inerenti al periodo storico, la visita nei sabati di ottobre, alla “Cuneo ottocentesca”: e la proficua giornata di studi (in collaborazione con la Biblioteca diocesana) hanno permesso di sviluppare le ultime tappe del viaggio del papa nell’ agosto del 1809, iniziato con l’arresto presso il palazzo del Quirinale a Roma e conclusosi con la prigionia di Savona. Tale periodo è poi confluito successivamente con la nascita della Diocesi di Cuneo (1817), altro evento strettamente legato ancora a Napoleone, che volle la città a capo del Dipartimento della Stura e quindi sede vescovile ed amministrativa, ed a Pio VII, favorevolmente colpito proprio dall’ospitalità ricevuta.

IL PAPA E L’IMPERATORE. MAnIfESTAzIOnI DEL bICEnTEnARIO DEL PASSAGGIO DI PIO vII

di don lucA FAvretto DIRETTORE UFFICIO BENI CULTURALI DIOCESI DI CUNEO E FOSSANO

Nel 1809 Napoleone Bonaparte decise l’arresto del Papa Pio VII e la sua detenzione nella fortezza di Savona. Nel lungo viaggio verso la prigione, Pio VII fece sosta a Cuneo. Nel bicentenario, la Diocesi ha organizzato, presso la Chiesa di San Sebastiano, la mostra “Il Papa e l’Imperatore”, nella quale sono stati esposti documenti ed oggetti d’arte restaurati, riferitiall’evento e in generale alla Cuneo del primo Ottocento.

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FOTO: UFFICIO BENI CULTURALIDIOCESI DI CUNEO E FOSSANO

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Ma l’incontro con quell’epoca lo si è vissuto a trecentosessanta gradi, attraverso l’esecuzione di diversi momenti musicali a tema (in collabo-razione con l’Istituto Superiore di Studi Musicali, con il Liceo Artistico “Ego Bianchi” e con la Fondazione San Michele) le rievocazioni storiche, la proposta da parte degli albergatori del menu offerto al pontefice nel soggiorno cittadino e (grazie alla confraternita di San Giacomo) il pellegrinaggio commemorativo a piedi, in sei tappe dal tra il Colle di Tenda a Savona attraverso Limone Piemonte, Cuneo, Mondovì, Priero e Altare. Ad esso si aggiungeranno nella primavera del 2010 i viaggi a tema in pullman e con visite guidate, aventi come meta le tappe del papa prigioniero, attraverso visite ai borghi più significativi e ai Santuari che hanno dato accoglienza al pontefice.Insieme con la mostra si sono inaugurate le due prime sale del museo diocesano, in San Sebastiano (Contrada Mondovì a Cuneo) che segnano l’inizio di un lungo lavoro tuttora in corso di valorizzazione di un’altra parte del patrimonio dei beni artistici locali.

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Cuneo, la Chiesa di San Sebastiano, sede della mostra, in una litografia di Enrica Zelioli Mola, facente parte della serie dedicata ai luoghi del passaggio di Pio VII

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LE TERRE DELLE CASCInEA MILAnO E In LOMbARDIAOgni anno l’editore Partipilo dedica un volume a Milano e alla Lombardia, nella prestigiosa collana curata da Roberta Cordani. Questo nuovo volume propone la riscoperta del mondo straordinario delle cascine della regione più industrializzata d’Italia, in una sorprendente avventura di valori e di bellezza. La terra lombarda, ricca, fertile, coltivata da sempre, conosce una seconda giovinezza; Milano è il secondo comune agricolo d’Italia per numero di imprese e circa un decimo della sua superficie è coltivata.Rassegna riprende dal volume gli interventi di Ferruccio de Bortoli e di Roberta Cordani.

Dall’alto: Pavia, Cascina La Comuna a Castellaro de’ Giorgi;

Massimo d’Azeglio, La Villa Manzoni a Brusuglio, 1832;

a sinistra: cascina in Brianza

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in viaGGio nelle campaGne Un MOnDO STRAORDInARIO DA SCOPRIREdi Ferruccio de Bortoli DIRETTORE DEL “CORRIERE DELLA SERA”

Ciò che ci sta vicino, troppo vicino, è spesso sconosciuto. Le bellezze più rare sono quelle che sfuggono allo sguardo fisso della vita quotidiana. I Milanesi hanno molte qualità, ma un raro difetto: conoscono poco i tesori delle loro terre e stentano a diventarne testimoni. I tesori sono molte volte racchiusi nell’orizzonte di una pianura, nello scorcio di una risaia, nella vista di una cascina appartata. Molti possono immaginare che la Lombardia sia la regione agricola più importante d’Europa, pochi sanno che Milano è il secondo comune agricolo d’Italia per numero di imprese e che circa un decimo della sua superficie è coltivata. Del tutto sorprendente è poi l’elenco delle cascine che la provincia di Milano si ripropone di salvare dal degrado e rilanciare sia come centri produttivi sia come luoghi simbolo della civiltà contadina. Sono circa mille. Solo nella provincia di Milano, ridotta peraltro dalla secessione di Monza e Brianza.La terra lombarda, così discreta, nascosta e timida, sembrerebbe schiacciata e sfregiata dall’avanzare disordinato di quella “città infinita” che ormai va da Torino a Venezia. Invece vive e, in certi casi, conosce una sorta di nuova giovinezza. Basta percorrere da Milano, dalla Darsena, la ciclabile del Naviglio Grande che poi va su fino al Ticino e a Sesto Calende. Si può non incontrare nemmeno un’auto. Oppure da Abbiategrasso scendere verso Bereguardo e magari puntare su Morimondo. La sensazione è quella di un tuffo in una Lombardia antica che alterna marcite e risaie, che allinea pioppi e gelsi e dischiude al visitatore non distratto dall’asfalto e dalla segnaletica borghi medievali, conventi, monasteri, castelli e cascine storiche.

Una incisione di Agostino Zaliani

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questo libro è come un viaggio in bicicletta nelle strade di campagna della Lombardia. Ci illustra la ricchezza e la varietà delle produ-zioni, dal foraggio al riso già rinomato ai tempi degli Sforza; la bellezza dei paesaggi che cambiano all’improvviso scenario, fra boschi e colture; il reticolo di un’architettura agricola che nel corso dei secoli ha plasmato il territorio disegnandolo con canali e rogge. Ci racconta la storia di una straordinaria civiltà contadina. La lungimiranza produttiva dei Lombardi è testi-moniata dalle grandi opere, come i navigli, che hanno incanalato l’acqua dai fiumi, dalle risorgive e dai fontanili, rendendola disponibile per tutti gli usi. La loro passione per la terra è visibile nell’infinita varietà dei prodotti dell’agricoltura e della zootecnia, che la fa sembrare ancora più grande e diversa. Come se fra Mantova e Pavia la distanza geografica fosse moltiplicata dal cambio delle misure, dall’alternarsi dei dialetti, dal succedersi delle regole fondiarie e dalle consuetudini commerciali.Un grande mondo sconosciuto è racchiuso tra le infrastrutture di cui le città, l’industria e i servizi hanno bisogno. E non necessariamente le ragioni dello sviluppo sono destinate a essere in conflitto con quelle della tutela ambientale e del rispetto della natura. Un migliore equilibrio è possibile. Soprattutto se impareremo a guardare alla Lombardia da un diverso punto di vista, quello della sua terra verde e delle sue colture. Il punto di vista migliore per conoscerci meglio, lungo il filo invisibile del progredire nei secoli della nostra civiltà.Il modo migliore per evitare di perdere la nostra identità distruggendo senza costruire.

Dall’alto: Pavia, la Cassinetta dei Gallarati Scotti a Cozzo;Cascina Bosco Basso di Breme in Lomellina;

sopra: Lecco, cascina sul Lambroa Costa Masnaga

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nELLE TERRE DELLE CASCInEdi roBertA cordAni CURATRICE DEL VOLUME

Chi sfoglierà le prime pagine di questo libro troverà da subito illustrati soggetti molto diversi tra loro. Un campo di papaveri che si affaccia su un canale, un laghetto con vapori e polle d’acqua, foto d’epoca che ci rimandano a memorie di racconti familiari o a una cineteca di “classici”, edifici monumentali che sembrano quasi ville o castelli, cascinali agricoli. È solo una piccola sintesi dello scenario sorprendente che si rivela approfondendo la storia delle cascine lombarde.La nostra regione è conosciuta come la culla del lavoro industriale, ma da cittadini spesso dimentichiamo che queste laboriose origini e virtù derivano anche dalle nostre radici contadine, vivissime e profondamente intessute con la città.È una storia antica e capillare, quella della campagna e delle cascine lombarde, e si sposa con il paesaggio che ancora ci avvolge. Il ritorno alla terra, come bene universale da salvaguardare, ma anche come principio della nostra alimentazione, è al centro del dibattito mondiale. E la terra lombarda, ricca, fertile, coltivata da sempre, progettata - nella bassa pianura ricca di acque risorgive - da uomini come Leonardo, capita e celebrata da grandi

pensatori politici, come Cattaneo e Jacini, ha un passato e un presente d’eccellenza.In questo libro abbiamo voluto illustrare alcune tematiche di una storia vasta, che va dall’agronomia, all’architettura, alla sociologia, all’agricoltura fino al paesaggio e al folclore. Sono tante le voci che ne compongono il racconto e numerose le immagini che lo accompagnano. Gli studiosi che hanno collaborato con le loro ricerche e chi nelle cascine e nei campi vive e lavora ci hanno dato la possibilità di illustrare un viaggio speciale tra campagne coltivate e architetture rurali. Con l’idea di mostrare, in una sintesi chiara ed efficace, un grande quadro d’insieme.

Pagina a sinistra,dall’alto: tramonto nei pressi della Riserva Sorgenti della Muzzetta;

Cremona, il cinquecentescotorrione Vimercati a Torlino Vimercati;

antica azienda agricola della Sforzesca, nei pressi di Vigevano;

sopra: Milano, veduta della Riserva Sorgenti della Muzzetta;

a destra:Milano, il Fontanile Lungo presso Cascina Diana a Corbetta

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Il panorama diversificato che questa ricerca ha incontrato è così vasto che il solo tracciarne le linee principali, far risaltare le caratteristiche comuni o le differenze salienti, le tipicità tradizionali e le novità dell’oggi ha portato a pubblicare molto, ma non certo a fare un censimento di edifici rurali. Abbiamo cercato invece di dare spunti di riflessione per ogni specifico territorio della regione, mettendo in evidenza le caratteristiche che fanno della Lombardia una terra di cascine. Scorrono così in questo volume le più diverse immagini. D’epoca, scelte dopo accurate ricerche negli archivi, e d’attualità: fotografie riprese in luoghi meno conosciuti e da prospettive aeree inedite, che permettono di ricostruire importanti vedute d’insieme. Un itinerario nel bello, come consuetudine di questa collana.Il fascino e la forza delle immagini, la ricchezza del discorso storico evidenziano per tutto il libro la sapiente vitalità del lavoro dell’uomo nelle sue campagne. Sono campagne vicine, teatri di evoluzioni secolari e recenti, da non dimenticare e da riconoscere. È il mondo delle cascine: una speciale, sorprendente avventura di valori e di bellezza, in una terra non solo di città come la Lombardia.

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Dall’alto, a sinistra: Milano, Cascina Cagnola a Ozzero;

Pavia, campi a Voghera;

sopra: campi in Lomellina;

a destra: Milano, Mappa della pieve di Rosate, 1573

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8 4 • R A S S E G N A N . 2 8 • I N V E R N O 2 0 0 9 - 2 0 1 0Foto riServA BiAncA liMone PieMonte

FOTO: RISERVA BIANCA DI LIMONE PIEMONTE

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LIMOnE PIEMOnTE, PARADISO DELLO SCIdi FABio BerGiA

Il comprensorio sciistico è in pieno rilancio.Importanti investimenti finanziari, tecnologie di avanguardia, 15 impianti, 40 piste. E altri progetti per il futuro.

Foto riServA BiAncA liMone PieMonte

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Sciare sulle nevi di Limone Piemonte è da sempre un ‘esperienza indimenticabile! I tre ampi valloni sulle cui pendici col tempo sono venute moltiplicandosi le piste, e con loro le opportunità di discese in libertà, consentono infatti agli sciatori e agli snowboarder che frequentano questo comprensorio di poter contare su una location da sogno. Ed è proprio questa magica cornice a garantire da sempre, a chi decide di vivere una giornata lungo queste dorsali, una possibilità unica: quella di concedersi una full immersion in un universo nel quale la protagonista assoluta è una neve polverosa oltre la quale ci si sente “accarezzati”, nelle belle giornate, verso nord dalla splendida corona di montagne che vede imporsi in lontananza i grandi massicci delle Alpi Occidentali e verso sud dai riflessi del mare che in una distanza impalpabile e spesso avvolta dalla bruma lambisce le più famose spiagge della Costa Azzurra.Questo patrimonio di natura e paesaggio sarebbe però rimasto un’esperienza assolutamente elitaria e incapace di assumere una dimensione autenticamente collettiva se la lungimiranza dei limonesi e l’entusiasmo di chi queste montagne le frequentava da turista, talora convergendo e talaltra entrando in competizione, non avessero trasformato questo affascinante spicchio di montagna in una stazione sciistica nella quale lo sviluppo tecnologico è riuscito a coniugarsi brillantemente con l’ambiente naturale circostante, senza mai prevalere su di esso. Forse proprio questo è il segreto vero del fascino del compren-sorio limonese: essere una stazione sciistica non cresciuta artificialmente o con una finalità esclusivamente turistica, ma sviluppatasi invece in costante interazione sia con il contesto ambientale nel quale essa ha preso forma, sia con un paese alpino per il quale il rapporto con la montagna rappresenta di fatto un’eredità secolare.

Lo sviluppo tecnologico finalizzato alla fruizione della montagna per il turismo della neve, dopo una prima fase in cui ha saputo mostrarsi all’avanguardia, ha poi conosciuto un periodo decisamente meno brillante, nel quale il com-prensorio limonese è sembrato segnare il passo, vedendo impallidire quella competitività che aveva saputo farne in passato una stazione di punta della pratica dello sci sulle Alpi. Per un verso l’idea che per essere vincenti fosse sufficiente il prestigio pregresso e per l’altro la difficoltà a tenere piede all’accelerazione tecnologica ed infrastrutturale, a causa degli ingenti e spesso proibitivi investimenti, avevano ridotto Limone Piemonte ad una staticità che ben presto avrebbe potuto vedere il suo appeal diminuire significativamente sugli appassionati della neve.

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Il futuro di Limone non sarebbe stato però una lenta decadenza, ma al contrario un improvviso quanto inaspettato rilancio, ancora una volta portato avanti all’insegna della sinergia tra attenzione all’ambiente e innovazione tecnologica. Tutti gli impianti ormai superati e obsoleti sarebbero stati rapidamente sostituiti con seggiovie di ultima generazione e con una telecabina che, collegando il centro del paese con l’area sciistica del Sole, avrebbe avuto un significativo effetto rivitalizzatore su quel mai dissolto legame tra Limone Piemonte e il suo comprensorio sciistico, restituendo così al paese quel tratto autentica-mente “alpino” che in origine aveva rappresentato l’anima profonda di quella vocazione turistica legata al mondo della neve che Limone stesso aveva naturalmente intuito come la carta da giocare per darsi un futuro vincente.Il restyling messo in atto negli anni scorsi ha completamente cambiato la fisionomia del comprensorio sciistico di Limone Piemonte. I risultati sono davanti agli occhi di tutti: da un lato infatti il domaine skiable dell’alta Val Vermenagna sta riscuotendo grandi consensi da parte degli appassionati di sci e snowboard, che ne apprezzano il nuovo taglio più attento alle moderne esigenze del mercato, dall’altro per Limone Piemonte si è aperto, sul piano dell’agonismo, un nuovo capitolo che ha saputo riproiettarla nel “giro” delle grandi stazioni in cui si disputano le gare della World Cup. Certo questo reslyling, per larga parte attuato, non è

ancora completo: in previsione nell’immediato ci sono sia la sostituzione della sciovia “Plan del Sole” con una moderna seggiovia, sia l’ampliamento ed il potenziamento dell’impianto per la neve programmata; e ancora tanti altri “sogni” e progetti fervono per un entusiasmante futuro! Futuro che non farà che confermare un presente in cui chi decide di venire a sciare a Limone Piemonte sa già di poter contare su un comprensorio ormai capace di competere senza timore con le “grandi”dell’arco alpino.

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I CAMPIOnI DELLA bRE bAnCA LAnnUTTI nEL CALEnDARIO UffICIALE 2010

Tredici foto inedite che valorizzano gli atleti della Bre Banca Lannutti in un contesto diverso da quello a cui siamo abituati, cioè un incontro di volley. Questo è il concetto sviluppato per la seconda edizione del calendario della squadra del Presidente Valter Lannutti, che mostra il meglio di ciascun giocatore. I ritratti sono opera di Gian Cerato, fotografo ufficiale di Piemonte Volley, che anche quest’anno ha optato per la versione bianco e nero che mette in risalto le singole espressività. “La novità di quest’anno è aver lasciato ampia scelta a ciascun giocatore, elaborando insieme la soluzione che meglio li rappresenta” spiega Cerato. Il 2010 si apre con il sorriso e lo sguardo intenso di Capitan Wijsmans, capace di rendere più piacevole l’inizio di un nuovo anno, Grbic si è fatto ritrarre negli spogliatoi in una fase di preparazione, c’è poi chi, come Mastrangelo, mette in mostra la prestanza fisica, Fortunato invece ha preferito finire sotto la doccia, e Parodi, in posa nei corridoi del Palazzetto, ricorda a tutti che non è più un ragazzino… Questo è solo un anticipo delle tredici foto da sfogliare e da ammirare a cui si aggiungono quelle dei due allenatori, professionali e intenti nei loro compiti. Belli anche i retroscena che dimostrano come il volley sia rimasto uno sport pulito, fatto di ragazzi che non si sono montati la testa, da raccontare quello in cui il cuneese doc Ariaudo e Peda hanno messo i loro muscoli a disposizione del fotografo, seguendolo per il Palazzetto con luci e attrezzi del mestiere quasi fossero i suoi assistenti!Per sapere dove trovare il calendario della Bre Banca Lannutti è sufficiente consultare il sito del club dove sono elencati i rivenditori: www.piemontevolley.it

Con la conclusione del 2009 è tempo di bilanci, positivi in casa Bre Banca Lannutti.Si può affermare che la squadra del Presidente Valter Lannutti nella prima fase della stagione abbia primeggiato, mostrando il suo volto reale raccogliendo successi sia in Campionato che in Coppa Cev. Ripercorrendo le tappe va ricordato che il team è arrivato all’esordio del 65º Campionato Italiano di Serie A1 avendo avuto pochissimo tempo a disposizione per lavorare insieme, infatti atleti con ruoli determinanti

come Grbic, Nikolov, Parodi, Fortunato, Henno erano appena rientrati dall’impegno con le rispettive nazionali per gli Europei, dovendo ancora rifiatare e trovare la sintonia con il resto del gruppo. Negli anni si è avuto modo di constatare come il club cuneese abbia saputo costruire uno staff di fisioterapisti e un prepara-tore atletico professionali e molto efficienti che anche in questo caso hanno saputo lavorare bene consentendo al gruppo di raggiungere la forma migliore in breve tempo. Così il tecnico Alberto Giuliani, nuovo arrivo sulla panchina piemontese, ha potuto concentrarsi su tecnica, strategia e allenamenti lanciando la squadra che è arrivata alla conclusione del girone di andata piazzandosi al secondo posto in classifica, con all’attivo undici vittorie su quattordici incontri disputati. Questa posizione ha consentito alla Bre Banca Lannutti di entrare nelle prime otto formazioni che di diritto partecipano alla Coppa Italia e di potersi giocare la gara dei quarti di finale davanti al pubblico di casa. Ma c’è di più, i successi sono arrivati anche in Europa, dove la Bre Banca Lannutti per il secondo anno consecutivo disputa la Coppa Cev. I piemontesi hanno superato brillantemente il primo turno dei 16i di finale imponendosi in entrambe le gare di andata e ritorno con la formazione svizzera dell’Amriswil e all’inizio del 2010 si contenderanno con il Tallinn la fase degli 8i. Tifosi, appassionati ma anche esperti del settore vedono nella Bre Banca Lannutti una squadra tra le più forti, determinata e con tutte le carte in regola per ambire a traguardi importanti. Non rimane che seguire il suo cammino gara dopo gara, divertendosi sugli spalti del palasport di Cuneo e augurando a questo fantastico gruppo un meritatissimo “in bocca al lupo”.

di dAnielA GroPPi

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I CAMPIOnI DELLA bRE bAnCA LAnnUTTI nEL CALEnDARIO UffICIALE 2010

Wout WiJSMAnS

MArco nuti

niKolA GrBic

AndreA AriAudo

huBert henno

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JAniS PedA

SiMone PArodi

GiuSePPe PAtriArcA

vlAdiMir niKolov

luiGi MAStrAnGelo

Hanno collaborato alla realizzazione del calendario: Fotografia: Gian CeratoUfficio stampa Piemonte Volley: Daniela GroppiPubblicità: Fabrizio ZucchiPiemonte Volley Srl - www.piemontevolley.itAssociazione Sportiva Dilettantistica Cuneo Volleyball Club

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FrAnceSco Pieri

GreGor Jeroncic

FrAnceSco FortunAto

AlBerto GiuliAniAllenAtore

FrAnceSco cAdedduvice AllenAtore

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nOTIzIE DALLA bAnCA REGIOnALE EUROPEA

PLAy UbI, LA nUOvA CARTA PREPAGATA PER I GIOvAnI TRA I 14 E I 29 AnnIIn occasione delle festività, e sino all’8 gennaio 2010, la Banca Regionale Europea ha proposto ai giovani tra i 14 e i 29 anni “Play Ubi”, carta prepagata gratuita, con l’omaggio di un buono da 50 euro valido presso i punti vendita Media World o Saturn. La carta del Gruppo UBI Banca ha durata di 3 anni e non prevede spese sulla ricarica. Non richiede l’apertura di un conto corrente e può essere usata per pagare nei negozi, per gli acquisti on line e per prelevare al Bancomat. Ricaricarla è facile, basta andare in filiale; chi è titolare di conto corrente può usare anche gli sportelli Bancomat e il servizio internet banking Qui UBI.

Dal mese di gennaio Roberto Tonizzo ha assunto la responsabilità di Direttore Generale della Banca Regionale Europea. Nato a Carlino (UD) nel 1954. Inizia al Credito Italiano nel 1975, nel 1990 è condirettore di sede a La Spezia. Nel novembre 1990 passa al Credito Agrario Bresciano e nel 1994 ne assume la Direzione Crediti Ordinari. Dal 1999, in seguito alla fusione con la Banca San Paolo di Brescia ed alla costituzione del Gruppo Banca Lombarda, è in Holding in qualità di Responsabile Area Crediti e Risk Management, nonché dell’Area Pianificazione e Controllo di Gestione. È nominato Vice Direttore Centrale. Dal gennaio 2001 in Banca Regionale Europea, dove viene nominato Vice Direttore Generale, carica ricoperta

RObERTO TOnIzzODIRETTORE GEnERALE DELLA bAnCA REGIOnALE EUROPEA

dal 2005 presso il Banco di Brescia. Dal 2007 ad agosto 2009 Direttore Generale del Banco di San Giorgio.

SCUDO SPECIALE, PER fAR CRESCERE L’IMPRESA In TOTALE SICUREzzA

Scudo Speciale è la nuova linea di prodotti del Gruppo UBI Banca che garantisce protezione globale alle imprese e agli imprenditori. Ad essi sono posti a disposizione gli esperti di UBI Assicurazioni e di Centrobanca, che forniscono gratuitamente consulenza specialistica finalizzata a valutare ogni tipo di rischio aziendale e ad individuare le coperture assicurative e finanziarie più idonee.Attraverso Scudo Speciale l’impresa può costruire uno scudo di protezione sulla base delle proprie esigenze e della propria attività produttiva, commerciale o professionale. Scegliere la sicurezza di Scudo Speciale significa anche poter dedicare maggiori risorse agli investimenti, all’innovazione e allo sviluppo dell’impresa. Inoltre il Gruppo UBI Banca propone Scudo Speciale Finanziamento, la nuova polizza che offre a imprenditori e professionisti importanti garanzie circa il rimborso di finanziamenti aziendali ipotecari o chirografari.

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•TORINO 16*

•NIZZA

PROVENCE ALPES CÔTE D’AZUR

RHÔNE-ALPES

•PAGNO

•MENTONE

NOVARA• 4 SPORTELLI

•ASTI 2* •ALESSANDRIA 2*

SALE•

*numero di sportelli presenti

STA PER DIvEnTARE OPERATIvA LA nUOvA COMPETEnzA TERRITORIALE DELLA bAnCA REGIOnALE EUROPEACome è noto, il Piano di Ottimizzazione Territoriale deliberato dal Gruppo UBI Banca, sulla base del principio “Una banca, un territorio”, prevede che la Banca Regionale Europea svolga il ruolo di banca di riferimento in Piemonte, Valle d’Aosta e in Francia, acquisendo le filiali del Gruppo presenti in tali aree, e cedendo

ad altre banche del Gruppo le filiali della Lombardia, tranne una a Milano, e dell’Emilia. È pevisto che il Piano sia operativo entro la fine del gennaio 2010. La Banca Regionale Europea acquisirà quaranta filiali in Piemonte e disporrà di una rete di 224 filiali.

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È stato recentemente pubblicato un nuovo volume, dedicato all’India, nell’ambito della collana “L’impresa verso i mercati internazionali”, edita da Interprofessional-network e dal Gruppo 24 Ore, con la sponsorizzazione del Gruppo UBI Banca. Il volume fa seguito a quelli già usciti sulla Cina e sulla Russia, e fornisce informazioni dettagliate: sistema politico, struttura amministrativa, caratteristiche del mercato. Inoltre, secondo una formula molto apprezzata dagli operatori, presenta numerosi “case history” relativi ad aziende italiane che vi operano con successo.Rassegna riprende da “yoUBI”, rivista del Gruppo UBI Banca, una scheda di sintesi del mercato indiano.

“Tutto ciò che si dice sull’India è vero, ma è vero anche il contrario”. In questa citazione di Indira Gandhi (ex Primo Ministro), si può riassumere la complessa identità di un Pae-se dalle mille facce come l’India.La cosa che colpisce quando si arriva in In-dia per la prima volta è senz’altro l’insieme di contraddizioni che si trova in ogni ango-lo. Realtà totalmente diverse riescono a con-vivere in un equilibrio quasi sconcertante, a volte incredibile, tanto da rendere impensa-bile questo Paese come futura potenza eco-nomica mondiale. Non è raro, infatti, uscire da un negozio di Hi-Fi di ultima tecnologia e trovarsi su una strada completamente dissestata, con il marciapiede che crolla, oppure scorgere una baraccopoli proprio accanto ad un moderno centro commercia-le. Come le immagini quotidiane appaiono spesso contrastanti, così anche l’economia

TESI DI LAUREA La dottoressa Anna Giordano, di Cuneo, ha conseguito la laurea bi-nazionale italo-francese (corso di laurea in economia e gestione delle imprese) presso l’Università degli Studi di Torino, facoltà di Economia, e l’Université de Nice-Sophia Antipolis, Faculté de Droit, des Sciences Politiques, Economiques et de Gestion. Argomento della tesi, in francese: “Il ruolo del Relationship Manager: il caso Bre Banca”. A giudi-zio della dottoressa Giordano, si può dire che “la Banca Regionale Europea ha sempre posto l’accento sui clienti, cercando di soddisfare le loro esigenze; inoltre, ha mantenuto un forte legame con il territorio di riferimento, apportan-do le necessarie innovazioni allo scopo di fare dell’agenzia una “banca di pre-stigio”. E’ il motivo per cui ha impostato la propria organizzazione sulla base di una formula multi divisionale”.

di questo Paese provoca reazioni con-traddittorie: da un Iato, mare di povertà, dall’altro, polo di sviluppo di grandi centri del terziario a vocazione mondiale. Non si può dimenticare infatti che l’India è uno dei Paesi con la più alta concentrazione di poveri al mondo: si stima che circa 400 milioni di indiani vivano ancora oggi al di sotto della soglia di povertà.Qualcosa però in questo Paese sta cam-biando. Con un tasso di crescita del PIL di oltre il 9% nel 2006 - 2007 e di circa il 6% nel 2009, nonostante l’impatto della crisi, l’economia indiana si conferma come una delle economie emergenti più promettenti.Le riforme economiche di liberalizzazione hanno trasformato l’India nella seconda economia mondiale a più rapida crescita, calamitando l’attenzione di industrie prove-nienti da ogni parte del mondo, che hanno iniziato ad investire nel Paese, soprattutto per sfruttare l’abbondante manodopera a basso costo.

Tuttavia, non si può pensare all’India solo come grande fabbrica di prestazioni lavo-rative a prezzi competitivi. Le opportunità offerte da questo Paese sono anche altre: la nascita di una nuova classe media bor- ghese, che si affaccia agli usi ed ai tipi di consumo occidentale, con acquisti indiriz-zati verso beni di qualità sempre maggiore, apre le porte ad opportunità di mercato in-teressanti per le aziende italiane e per i pro-dotti del “made in Italy”, che fanno dell’alta qualità il loro cavallo di battaglia.Nonostante i principali partner commerciali dell’India rimangano Stati Uniti, Cina ed Emirati Arabi Uniti, l’interscambio commer-ciale con il nostro Paese ha registrato negli ultimi anni un forte aumento: tra il 2008 e il 2009 le esportazioni italiane verso l’India sono aumentate del 24,5%. I prodotti italia-ni più richiesti sono quelli della meccanica strumentale, della metallurgia e dell’elettro-nica ed elettrotecnica.A fine 2008 le aziende italiane presenti in India erano circa 400, la maggioran-za delle quali appartenenti al settore tes-sile e dell’abbigliamento, dell’automotive, dell’elettronica, della logistica e dei servizi alle imprese. Più della metà di esse si con-centra nel Sud-Ovest del Paese, negli Stati del Gujarat e del Maharashtra (lo Stato di Mumbai), del Tamil Nadu e del Karnataka. È interessante notare come quasi il 40% delle attività italiane in India si traduca nel-la costituzione di Joint-Venture. Fra quelle più rappresentative si ricordano: quella tra Fiat e Tata, la Perfetti Van Melle, la Piaggio Vehicles, il Gruppo Luxottica, la Pirelli, la Ferrero, e più recentemente Benetton, Arma-ni e Lavazza.Il Paese, quindi, si è già rive!ato e continua a rivelarsi un ottimo partner commerciale per l’Italia. La distanza geografica e cultu-rale che ci divide dall’India, tuttavia, deve portare le aziende italiane verso la consa-pevolezza della necessità di un approccio razionale verso il Paese per evitare di farsi trovare impreparate e non riuscire a coglie-re a pieno le opportunità presenti.

L’IMPRESA vERSO I MERCATI InTERnAzIOnALI: fOCUS InDIA

ALbERTO TOMbA A LIMOnE PIEMOnTE

Il grande campione di sci è stato ospite d’onore in due giornate di sport, organizzate a Limone Piemonte il 7 e l’8 dicembre dalla “Riserva Bianca” con la collaborazione della Banca Regionale Europea.