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La proprietà intellettuale degli articoli è delle fonti (quotidiani o altro) specificate all'inizio degli stessi; ogni riproduzione totale o parziale del loro contenuto per fini che esulano da un utilizzo di Rassegna Stampa è compiuta sotto la responsabilità di chi la esegue; MIMESI s.r.l. declina ogni responsabilità derivante da un uso improprio dello strumento o comunque non conforme a quanto specificato nei contratti di adesione al servizio. CONFIMI 18 dicembre 2017

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CONFIMI

18 dicembre 2017

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INDICE

SCENARIO ECONOMIA

18/12/2017 Corriere L'Economia

Produttività: l'Italia è caduta in trappola6

18/12/2017 Corriere L'Economia

L'inflazione è tornata (forse)7

18/12/2017 Corriere L'Economia

Anche le disuguaglianze frenano la crescita9

18/12/2017 Il Sole 24 Ore

Tre euro-sfide ad alto impatto per l'Italia10

18/12/2017 Il Sole 24 Ore

La sindrome bipolare13

18/12/2017 Il Sole 24 Ore

In arrivo il 26% sui dividendi «qualificati»14

18/12/2017 Il Sole 24 Ore

Nuove assunzioni, in 3mila Comuni turnover al 100%16

18/12/2017 Il Sole 24 Ore

La pensione uniforma l'età18

18/12/2017 La Repubblica - Nazionale

IL REALISMO CHE MANCA20

18/12/2017 La Repubblica - Affari Finanza

La crescita generale e la politica della Bce21

18/12/2017 La Repubblica - Affari Finanza

Stipendi, i regali dello Stato padrone23

18/12/2017 La Repubblica - Affari Finanza

"Il Jobs act va applicato a tutti basta con le eccezioni e i privilegi"26

18/12/2017 La Repubblica - Affari Finanza

Tasse sulle aziende la discesa è terminata ora tocca al lavoro28

18/12/2017 La Repubblica - Affari Finanza

"Imprese, ci vuole maggior coraggio sui nuovi manager"30

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18/12/2017 La Repubblica - Affari Finanza

"Correzioni possibili, va controllato sempre il Pil"32

18/12/2017 La Stampa - Nazionale

Salta la blindatura del cantiere Tap34

18/12/2017 La Stampa - Nazionale

LAVORARE DOPO LA PENSIONE35

18/12/2017 La Stampa - Nazionale

«Nell'energetico Roma batte Berlino»36

18/12/2017 La Stampa - Nazionale

"Ecco come noi tedeschi vendiamo la moda agli italiani"37

SCENARIO PMI

18/12/2017 Corriere L'Economia

Nelle tre italie40

18/12/2017 Corriere L'Economia

conad, passaggio a nord ovest42

18/12/2017 Corriere L'Economia

Aziende concentrate E anche più «verdi»44

18/12/2017 Il Sole 24 Ore

Start-up innovative, poker di aiuti46

18/12/2017 La Repubblica - Affari Finanza

Welfare aziendale anche nelle Pmi48

18/12/2017 La Repubblica - Affari Finanza

Conad, il fatturato cresce del 5% "Salto doppio rispetto al mercato"50

18/12/2017 La Repubblica - Affari Finanza

"Tagliare le spese ottimizzando gli impianti è la strada giusta"52

18/12/2017 ItaliaOggi Sette

Banche, in filiale resiste il modello tradizionale di sportello54

18/12/2017 ItaliaOggi Sette

UNA LOCOMOTIVA PER L'ITALIA55

18/12/2017 ItaliaOggi Sette

LA MECCANICA DELLA RIPRESA58

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18/12/2017 ItaliaOggi Sette

Le imprese ibride/ 162

18/12/2017 ItaliaOggi Sette

LE IMPRESE IBRIDE/ 271

18/12/2017 Corriere del Mezzogiorno Economia

Mai più zavorra di italia La ripresa (anche) nel 201877

18/12/2017 Corriere del Mezzogiorno Economia

Campania «locomotiva» del Meridione79

18/12/2017 Corriere del Mezzogiorno Economia

Mai più zavorra di italia La ripresa (anche) nel 201880

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SCENARIO ECONOMIA

19 articoli

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IL PUNTO Produttività: l'Italia è caduta in trappola Daniele Manca L' Italia ha un forte problema di produttività. Alcuni dati fotografano una situazione sconfortante, soprattutto

se paragonati con quelli di altri Paesi. Fatta 100 la produttività nel 2010, per tutto il 2016 e per i primi tre

trimestri del 2017 l'indice della produttività per persona (Eurostat) ci ha visti stazionare tra i 96 e i 99 punti e

mai oltre i 100. La Germania è stata sempre sopra i 100, con un picco di 106,3. La Francia, tranne un

trimestre, è stata sempre sopra, come Spagna e Gran Bretagna. E prima della crisi non è che andasse

meglio. Tra il 1995 e il 2015 abbiamo avuto incrementi medi annui, secondo l'Istat, dello 0,3% contro l'1,5%

tedesco e inglese, e l'1,6% francese. Colpa degli investimenti che ancora galleggiano sotto i livelli del 2007.

La domanda è: come si combinano questi dati con il fatto che il Paese stia crescendo? E soprattutto con

molte imprese competitive sia sul nostro mercato sia all'estero? Una spiegazione è sicuramente legata al

fatto che i miglioramenti delle aziende che hanno saputo ristrutturarsi nella crisi sono stati molto elevati. Di

sicuro il peso del settore pubblico a bassa produttività è ancora elevato. E in generale l'investimento sul

capitale umano resta molto basso. Per decenni si è oscillati tra false culture di destra che hanno visto il

lavoro come un costo da tagliare e culture di sinistra, altrettanto false, che hanno visto il lavoro da difendere

sempre e comunque. Ci si è orientati a proteggere i posti più che le persone, mentre si sarebbe dovuto

mirare a una formazione continua che fornisse strumenti per adattarsi alla mutazione senza fine del lavoro.

La quarta rivoluzione industriale, guidata dall'intelligenza artificiale e dai big data, si farà sentire fortemente.

Se non si rifletterà a fondo su come sviluppare quelle qualità, dal lavoro in team alla leadership alla

gestione di persone e crisi, quelle che vengono chiamate «tacite e non esplicite conoscenze» non copiabili

dai computer, il nostro Paese sarà destinato a non recuperare quella produttività di cui ha bisogno.

@daniele_manca

© RIPRODUZIONE RISERVATA

18/12/2017Pag. 6 N.49 - 18 dicembre 2017

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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 18/12/2017 - 18/12/2017 6

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Investimenti lo scenario L'inflazione è tornata (forse) La si vede più negli studi che nell'economia. Ma Deutsche Bank è preoccupata: è il maggior rischio del2018... Walter Riolfi L' evento più sorprendente delle ultime settimane è il ritorno dell'inflazione. A mitigare la portata della

notizia, va detto che il costo della vita ha fatto capolino più nelle analisi e nelle stime degli economisti che

nei fatti. Benché la tesi sia ora sostenuta da serissime società d'investimento, e sia da lunghi anni negli

auspici delle maggiori banche centrali, ha bisogno, per tradursi in realtà, di conferme che tardano a venire.

Il ritorno dell'inflazione sarebbe davvero il fattore più importante per l'economia, ma anche il più dirompente

per i mercati, al punto che Deutsche Bank lo pone in testa alla lista dei 30 maggiori rischi del prossimo

anno.

Le ragioni

I motivi sono evidenti: una maggiore inflazione farebbe accelerare il processo di normalizzazione monetaria

e salire i rendimenti obbligazionari, con il risultato di far esplodere la presunta bolla del settore e

appesantire anche gli esuberanti mercati azionari. Il ritorno dell'inflazione è visto nel forte aumento dei

prezzi al consumo in Gran Bretagna e parzialmente in Germania, nel rialzo dell'indice dei prezzi alla

produzione e al consumo negli Stati Uniti; lo si scorgerebbe nella (impercettibile) crescita dei salari

americani che «dovrà necessariamente materializzarsi a breve», secondo l'analisi di State Street: dove

l'avverbio tradisce un'ostinata fede nella curva di Philips, che in passato aveva mostrato una correlazione

tra calo della disoccupazione e aumento degli stipendi. Ma per Pictet i segnali di un lento recupero

dell'inflazione si scorgono da mesi, timidi in area euro e in Giappone (dove il governatore Kuroda ha

persino spinto i sindacati a chiedere aumenti salariali), e più evidenti negli Stati Uniti: cosicché l'inflazione

dovrebbe risalire a «livelli normali già nel 2018». Su questa linea si muovono anche gli economisti di

Goldman Sachs e JP Morgan (che prevedono 4 rialzi dei tassi Fed il prossimo anno), quelli di Neuberger

Berman e operatori italiani come Giuseppe Sersale di Anthilia. I numeri sui nuovi occupati negli Usa, 10

giorni fa, avevano in parte rassicurato costoro, se non fosse che le retribuzioni non davano ancora cenni di

recupero. I prezzi alla produzione, con un rialzo del 3,1%, il maggiore dal 2012, sono risultati assai

confortanti; come pure quelli al consumo (Cpi) cresciuti del 2,2 su base annua, se non fosse che la

componente core era addirittura calata (al 1,7%).

Alle previsioni degli analisti non fanno tuttavia riscontro le attese dei mercati, che per i prossimi 5 anni

stimano un'inflazione al 2% in America e attorno all'1,3% in Eurozona. La stessa Fed la vede all'1,9% nel

2018 e inchiodata al 2% negli anni successivi, nonostante una crescita economica più forte.

Miopia

L'esito del Fomc, mercoledì, pur dopo l'ennesimo (scontato) rialzo dei tassi d'interesse e la previsione di

altre tre strette monetarie il prossimo anno, ha addirittura reso euforici i mercati obbligazionari. Il

rendimento del Treasury decennale è sceso di 7 centesimi, inspiegabilmente dato il tono del comunicato,

ma comprensibilmente se si pensa che due membri della banca centrale (Evans e Kashkari) hanno votato

contro: perché non si devono alzare i tassi se l'inflazione resta sotto il 2%. E il prossimo anno, nella visione

pragmatica degli operatori, il board della Fed (con i nuovi innesti di Trump) sarà ancora più accomodante.

Si potrebbe obiettare che il Fed fund all'1,38% resta ben sotto l'attuale tasso d'inflazione prediletto dalla

Fed (1,9%) e che gran parte dei titoli di Stato hanno rendimenti reali negativi.

Forse ha ragione Claudio Borio (capo economista Bis) secondo il quale, di questi tempi, tenere l'occhio

puntato al 2% d'inflazione rischia di rendere miopi le banche centrali .

18/12/2017Pag. 37 N.49 - 18 dicembre 2017

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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 18/12/2017 - 18/12/2017 7

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Valore 14/12/17 Var.% da inizio anno Treasury Usa 10 anni Btp 10 anni Spread Btp-Bund Rendimento

%attuale 14/12/17 Var. da inizio anno in centesimi S&P 500 STOXX 600 FTSEMIB EURO/DOLLARO

PETROLIO (Brent) $ -4 -2 -14 18,5% 7,6% 15,4% 12,0% 8,4% 2,35 1,8 1,48 2.652 388,9 22.192 1,178

62,9 Il barometro I principali indicatori di mercato

Foto:

Come previsto, l'incontro di dicembre della Fed, ha portato i tassi d'interesse americani tra l'1,25% e

l'1,50%. La banca centrale guidata (fino a febbraio) da Janet Yellen ( nella foto ) prevede altri tre rialzi il

prossimo anno, cosicché il Fed fund dovrebbe salire al 2,12%, ossia 20 centesimi meno del rendimento

attuale del Treasury decennale

18/12/2017Pag. 37 N.49 - 18 dicembre 2017

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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 18/12/2017 - 18/12/2017 8

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L'analisi Anche le disuguaglianze frenano la crescita Francesco Daveri L' accelerazione della ripresa in Italia è diseguale tra settore pubblico e privato e tra aziende attive sul

mercato estero e su quello interno. In ogni caso la crescita beneficia del mutato contesto nell'economia

mondiale, più favorevole che in passato. Secondo il Fondo monetario internazionale sia il 2017 che il 2018

faranno registrare ritmi di crescita vicini al 3,7 per cento, circa mezzo punto percentuale in più rispetto al

2016. Il Pil della media dei paesi avanzati è previsto in crescita sopra al 2 per cento, mentre lo sviluppo nei

paesi emergenti tornerebbe vicino al 5 per cento. L'accelerazione della crescita è particolarmente

significativa considerati i focolai di instabilità politica con cui si era chiuso il 2016: la Brexit, l'avvento di un

presidente americano - come chiamarlo? - inusuale, l'attesa di appuntamenti elettorali complicati in Europa,

soprattutto in Francia e in Germania. Nel corso del 2017 molti dei timori politici si sono rivelati per ora

infondati. E il sollievo per i mancati pericoli ha contribuito a orientare non solo i flussi di commercio

internazionale, ma anche le decisioni di spesa delle famiglie e le scelte di produzione e investimento delle

imprese che soffrono i picchi di incertezza. C'è la sensazione che l'economia abbia acquisito una sua

stabilità, una certa capacità di fare surfing sulle onde della politica. Almeno fino a che le banche centrali

continueranno a ricoprire il ruolo di supplenza e garanzia di ultima istanza che hanno svolto dopo il

fallimento di Lehman Brothers nel 2008. Tutto a gonfie vele dunque? Non proprio. La crescita accelera ma

in Italia, Spagna, Francia e Belgio la disoccupazione nella regione più povera è tre volte più elevata che

nella regione più ricca. E con grandi disuguaglianze rimane il malcontento di chi non vede i risultati della

crescita e sale il populismo. Malgrado le cose ora vadano bene, meglio non sottovalutare i potenziali effetti

negativi dell'instabilità politica sul clima degli affari e sull'incentivo a investire. Specie in un paese che ha di

fronte elezioni dall'esito incerto.

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18/12/2017Pag. 5 N.49 - 18 dicembre 2017

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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 18/12/2017 - 18/12/2017 9

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AGENDA EUROPA Tre euro-sfide ad alto impatto per l'Italia Chiara Bussi La graduale riduzione del Quantitative easing, il «bazooka» della Bce che ha dato un impulso all'economia

reale. Il prossimo bilancio pluriennale della Ue a ventisette dopo la Brexit, con possibili ricadute sulla

politica di coesione. La gestione dei migranti con una maggiore condivisione delle responsabilità. Sono tre

le sfide europee ad alto impatto per l'Italia nel 2018 lungo l'asse FrancoforteBruxelles. pagina 15 La

riduzione della potenza di fuoco del «bazooka», il programma di acquisto di titoli da parte della Bce. Il

prossimo bilancio pluriennale della Ue a Ventisette dopo la Brexit, con le ricadute sulla politica di coesione.

Ma anche la gestione dei migranti alla ricerca di una maggiore condivisione delle responsabilità. Saranno

tre dossier decisivi per l'Italia nel 2018, nuove incognite all'orizzonte con un impatto politico ed economico

che si sommano a quelle sul fronte interno nell'anno del voto. «Il 2017 ­ spiega il direttore di Bem Research

Carlo Milani­è stato per l'Europa una sorta di stress test, tra le pratiche di divorzio da Londrae le scosse

elettorali, che ne ha dimostrato la capacità di tenuta di fronte agli shock, mentre il 2018 sarà un grande

cantiere per costruire nuove fondamenta con una nuova governancee potrebbe rappresentare anche

un'opportunità di svolta». Di certo, gli fa eco Benedicta Marzinotto, docente di politica economica

all'Università di Udine, «sarà un anno caratterizzato da un intenso lavoro istituzionale in attesa di capire la

direzione che la Ue intende imboccare». Da gennaio almeno fino a settembre la Bce ridurrà da 60a 30

miliardi gli acquisti di titoli in vista di una conclusione del programma in un futuro non ancora precisato, di

pari passo con la ripresa dell'Eurozona. «Il quantitative easing ­ sottolinea Milani ­ ha agito in particolare sui

Paesi più in difficoltà come l'Italia come una polizza di assicurazione sull'economia. Ora questa misura sta

per scadere e i governi dovranno gradualmente camminare da soli». A maggio la Commissione Ue scoprirà

invece le carte sul Quadro finanziario pluriennale, la grande cornice che racchiude gli impegni di spesa

dopo il 2020, quando il club europeo sarà ristretto a 27 Paesi, senza Londra. Un'uscita che significa circa

10 miliardi in meno di contributo netto al bilancio Ue con numerose opzioni sul tavolo, piùo meno dolorose

per le casse degli altri Paesi e con ricadute sulla dote dei fondi strutturali, linfa preziosa per le regioni

italiane. «Più che l'ammanco causato dalla Brexit ­ dice Marzinotto­ il rischio maggiore sarebbe una modifica

delle modalità di erogazione dei fondi su base com­ petitiva, come viene fatto oggi per i fondi alla ricerca. Il

modo migliore per prepararsi è rafforzare la capacità di gestione dei progetti da parte delle

amministrazionie rafforzarei legami virtuosi tra impresae ricerca nell'ambito di Industria 4.0». Gli occhi di

Roma saranno puntati anche sul tema dei migranti. La strada sarà in salita, come ha dimostrato il vertice

Ue della settimana scorsa facendo emergere profonde tensioni tra Est e Ovest. La riforma del regolamento

di Dublino proposta dalla Commissione Ue con l'assegnazione di quote obbligatorie per la ripartizione

dell'onere appare per il momento un percorsoa ostacoli. Italia, Franciae Germania puntanoa raggiungere un

consenso entro il 2018 e i leader ne riparleranno al vertice di marzo. Gli occhi dell'Italia saranno puntati

anche sul giudizio sulla manovra rinviato da novembre ad aprile per alcune perplessità legate al

contenimento del debito. Se la maggioranza di governo non sarà netta la Commissione Ue sarà più

clemente e sposterà il pressing sulla Legge di bilancio 2019? Gli interrogativi restano. Un dossier chiave su

cui l'Italia potrà far ascoltare la sua voce sarà il secondo atto del negoziato sulla Brexit, con le discussioni

sulla relazione futura dopo il divorzioe il periodo transitorio di almeno due anni che partiràa fine marzo

2019. Ma anche sulla governance di un'Unione ristrettaa 27 Paesi. I preparativi per l'uscita di Londra finora

hanno consentito un'accelerazione sulla cooperazionea 25 (tra cui l'Italia) sulla difesa comune, la

cosiddetta Pesco. Entro giugno dovrebbero essere approvate le regole del gioco e quest'anno verranno

avviatii 17 progetti lanciati al vertice della settimana scorsa. Più difficile sarà invece il tentativo di

completare l'Unione bancaria con l'ultimo tassello, la garanzia unica sui depositi, per tutelarei risparmiatori

18/12/2017Pag. 1

diffusione:97980tiratura:140038

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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 18/12/2017 - 18/12/2017 10

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in caso di crisi. A tenere banco sarà poi la riforma della governance della Zona euro con la proposta di

istituire un super­ministro delle Finanze e di trasformare il fondo salva­Stati in un Fondo monetario europeo.

Ci saranno lavori in corso su più fronti, insomma, con l'obiettivo di consegna prevista per l'inizio del 2019,

prima dell'addio di Londra e del rinnovo di due istituzioni chiave come la Commissione e il Parlamento

europeo.1 Qe ridotta. Da gennaio la Bce (nella foto Mario Draghi) ridurrà gli acquisti di titoli

QUANTITATIVE EASING «Bazooka» a raggio ridotto

Apartire da gennaio si ridurrà il ritmo del Quantitative easing, ovvero l'acquisto di titoli da parte della Banca

centrale europea. Non più 60 miliardi,ma 30 miliardi al mese. La misura, che è stata ribattezzata «bazooka»

, è stata introdotta nel marzo 2015 per dare impulso all'economia reale e sferrare l'attacco contro il rischio

di deflazione. La Bce acquista titoli e trasferisce il rischio sul proprio bilancio (e in parte anche su quello

delle Banche centrali nazionali). Inizialmente gli acquisti riguardavano titoli di Stato (per circa 45 miliardi al

mese) e per la parte restante titoli L'Italiaè stata uno dei maggiori beneficiari del Qe: finora, secondoi dati di

Francoforte, la Bce ha acquistato titoli per un totale di 319 miliardi. «Il dimezzamento­ spiega Benedicta

Marzinotto (Università di Udine)ha effetti sui tassi di interessea lungo termine. La conseguenzaè un

incremento dei costi di finanziamento del debito pubblico. Gli effetti potrebbero farsi sentire anche sulle

banche che detengono un'elevata quota di titoli di statoe che sarebbero cartolarizzati (Abs) o obbligazioni

bancarie garantite (covered bond). Dal settembre 2016 il Qe è stato esteso anche alle obbligazioni

societarie. Queste misure hanno consentito una maggiore liquidità per le banche e un alleggerimento degli

interessi sul debito pubblico nei Paesi più in affanno come l'Italia. Lo stimolo dovrebbe proseguire almeno

fino a settembre 2018 e porterà a 2.500 miliardi gli acquisti complessivi. La Bce finora non ha fornito

dettagli su come verrà concluso il Qe e si è detta pronta ad aumentarne durata e entità per garantire la

stabilità dei prezzi. L'IMPATTO PER L'ITALIA costrettea un ridimensionamento del loro bilancio con

possibile contrazione del credito. Tuttavia se la ripresa si consolida questi rischi potrebbero essere attutiti».

Secondo Carlo Milani (Bem Research), l'impattoè legatoa doppio filo anche all'esito elettorale: «Una

maggiore stabilità politica­ dice­ potrebbe rendere più appetibilii titoli di Stato italiani sul mercato. In caso

contrario le pressioni aumenterebbero». 2 BILANCIO UE L'IMPATTO PER L'ITALIA Pompei. Il restauro è

stato finanziato con i fondi Ue Chi paga l'uscita di Londra Amaggio la Commissione europea presenterà la

sua proposta per il Quadro Finanziario pluriennale per il periodo 2020­2027. Il documento ha un'importanza

strategica perché traduce le priorità politiche in cifre stabilendo i massimali di spesa per i vari capitoli di

intervento della Ue, inclusi i fondi strutturali. Il documento dovrà poi essere approvato da Europarlamento e

Consiglio. Questa volta la Brexit complica i giochi perché con l'uscita di Londra si produrrebbe un ammanco

di circa 10 miliardi. Sono quattro, come ricorda Benedicta Marzinotto Tutte le strade per ora sono aperte.

Una riforma delle risorse proprie consentirebbe di colmare l'ammanco senza penalizzare i contribuenti netti

come l'Italia che versano al bilancio Ue più di quanto ricevono. Nel caso di un aumento del contributo di

ogni Paese l'entità per l'Italia sarebbe modesta perché l'importo dell'ammanco sarebbe spalmato tra tutti i

Ventisette. La soluzione più penalizzante sarebbe l'erogazione di fondi su base competitiva. (Università di

Udine) le strade possibili per colmare il gap: imporre un maggiore contributo da parte di ogni Stato,

potenziare le "risorse proprie" (che includono i proventi derivanti dall'Iva o dalla tariffa doganale comune)

con l'introduzione di nuove imposte europee (come proposto dal gruppo di lavoro presieduto da Mario

Monti) o infine ridurre i fondi erogati ai contribuenti netti. «Il rischio maggiore ­ dice Marzinotto (Università di

Udine) ­ sarebbe però la modifica delle modalità di erogazione dei fondi su base competitiva come viene

fatto per i fondi alla ricerca». Per quanto riguarda la politica di coesione, che vale circa un terzo dell'intero

Quadro finanziario pluriennale, l'ultima ipotesi sarebbe di una riduzione per l'Italia di fondi strutturali paria

2,5 miliardi sui 42 complessivi (si veda Il Sole 24 Ore del 14 dicembre). Secondo il Governo le risorse per la

coesione non devono ridursie il Qfp deve prevedere ulteriori risorse per gestione dei flussi migratori, lotta al

cambiamento climatico, sicurezza e difesa comuni. Verso l'Italia Finora sono sbarcati circa 114 mila

18/12/2017Pag. 1

diffusione:97980tiratura:140038

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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 18/12/2017 - 18/12/2017 11

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migranti 3MIGRANTI Grandi divisioni sulla riforma Al vertice Ue di marzo tornerà sul tavolo dei leader la

proposta di riforma del regolamento di Dublino sul diritto di asilo in Europa. La novità principale secondo il

testo presentato dalla Commissione Ue nel maggio 2016 ­ è l'abolizione del principio del Paese di primo

ingresso. A differenza di quello che accade oggi, infatti, i richiedenti asilo verrebbero invece ripartiti tra tutti i

Paesi dell'Unione europea e sarebbero ricollocati in un altro Stato membro rapidamente e in maniera

automatica. Si allenterebbe così l'onere sui Paesi (come l'Italia) più L'IMPATTO PER L'ITALIA L'Italia è tra i

sostenitori della riforma del regolamento di Dublino. Una ricollocazione automatica ridurrebbe infatti l'onere

sul nostro Paese. In un position paper diffuso prima del vertice di giovedì scorso il Governo sostiene il

principio dell'equilibrio tra la solidarietà e la condivisione delle responsabilità e chiede un approccio comune

e un compromesso equo che tenga conto dell'impegno e esposti ai flussi. Il Parlamento europeo (che ha

già dato l'ok al mandato negoziale nella seduta della Commissione libertà civili a metà novembre)sostiene

la riforma e ha chiesto di ridurre l'accesso ai fondi Ue per i Paesi che non accolgono la propria quota di

richiedenti asilo. Più difficile sarà l'accordo al Consiglio e la questione, più che tecnica, è politica. Al vertice

della settimana scorsa è emersa chiaramente la spaccatura all'interno dei 28 con Polonia, Ungheria,

Repubblica Ceca e Slovacchia contrari alle quote obbligatorie. degli sforzi degli Stati che si trovano in prima

linea nel controllo delle frontiere esterne. Il nostro Paese, insieme a Francia e Germania, punta a

raggiungere un consenso tra i Ventotto entro il 2018. Nel settembre scorso la Corte Ue ha bocciato il

ricorso di Slovacchia e Ungheria dando ragione alla Commissione Ue (e all'Italia) sulla ricollocazione

decisa nel 2015.

Foto: Al vertice della settimana scorsaè stata lanciata la Pesco, la cooperazione rafforzata tra 25 Paesi

sulla difesa( nella foto un modello Eurofighter ). Nel 2018 verranno approvate le regole del gioco

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L'ANALISI La sindrome bipolare Alberto Orioli Il lavoro italiano è affetto da sindrome bipolare. E il bacino di oltre un milione di lavoratori che in tre mesi

dovrebbero entrare nel mercato è lì a confermarlo. La prima lettura doppia è che il lavoro manifatturiero si

riduce nel numero del poten­ ziale, ma aumenta nel valore qualitativo delle possibilità d'impiego e che

l'occupazione dei servizi cresce in quantità, ma propone un uso sempre più banalizzato del personale.

Continua pagina 3 Continua da pagina 1 Èla polarizzazione tra l'industria 4.0, disegnata dalle catene globali

del valore dove la produttività aumenta in modo esponenziale e dove le tecnologie sono usate al massimo

livello di complessità, e il mondo dei servizi derivato dalla logistica dell'e­commerce, dove convivono

algoritmi, persone, biciclette, ma anche siti di stoccaggio iper­automatizzati con lavoro umano e lavoro

robotizzato uniti da una inedita forma di simbiosi. L'impresa industriale cerca ingegneri, specialisti in fisica e

chimica, informatici nelle diverse sottospecializzazioni legati allo sviluppo dell'impresa sul web dal data

protection manager all'esperto di blockchain. Nel terziario servono addetti alle venite, chef e autisti. Il

bipolarismo scatta anche quando si scopre che almeno il 6% dell'occupazione totale (dati Ocse) è coperta

da chi non ha sufficiente formazione per svolgere le proprie mansioni e che il 18% degli occupati svolge

invece un lavoro molto al di sotto del proprio titolo di studio o della propria effettiva qualifica di riferimento.

Nel complesso in Italia il 35% delle persone svolge un lavoro che non ha nulla a che fare con il proprio

curriculum di studi. Questo strabismo strategico riguarda l'incomunicabilità antica tra percorsi della

formazione e sbocchi nel mercato del lavoro. Anche la fotografia dei sommersi e dei salvati ha la sua

chiave di lettura in una sorta di paradossale doppia verità: da un lato il personale non qualificato (il più

generico in assoluto) che dal 2011 al 2016 cresce dell'11,9%, dall'altro i dirigenti e gli imprenditori crollati

del 10,1% nello stesso periodo di riferimento. Al boom di assunzioni per vendita e servizi personali

(+10,2%) fa pendant il calo di operai qualificati e artigiani (­11%). Un Paese che scommette tutto sugli

operai generici non ha ancora completato il salto di qualità nelle tipologie di produzione e tra l'altro crea una

"gabbia" ­ come la chiama il Censis ­ in cui il lavoratore non può aumentare mai la caratura del proprio

percorso professionale. Che Paese è, se non bipolare, quello che "esporta" 5mila infermieri un po' in tutta

Europa e ne "importa" 3mila dagli stessi Paesi dell'Unione? Un altro dei paradossi del lavoro italiano,

soprattutto se si pensa che, nei soli prossimi tre mesi, il mercato chiederà almeno 20mila nuovi occupati

proprio in questo settore. L'Italia è bipolare anche quando non ha sufficienti laureati e i pochi che forma in

parte significativa li fa fuggire all'estero: siamo penultimi in Europa per scarsità di laureati (ultima è la

Romania), oggi un giovane su 5 finisce gli studi terziari, la media Ue è di uno su 2,5. Tra i giovani laureati

però resta una disoccupazione del 15,3%, capitale umano pregiato senza sbocchi concreti. E oltre 100mila

laureati in pochi anni hanno deciso di superare i confini. Tendenza in fase di fortissima accelerazione: nei

sondaggi il 50% dei giovani risponde che vorrebbe andare fuori dall'Italia. Ancora una volta questo

interroga chi deve gestire i programmi di formazione, l'assistenza nella ricerca di un impiego, il supporto

quando se ne deve cercare uno dopo essere diventati disoccupati. Ma ciò che più colpisce è il bipolarismo

(nel senso della sindrome) che separa il dibattito pubblico sui temi del lavoro e il quadro della realtà vissuta

da chi lo cerca e chi lo offre. Se la maggioranza esulta per un emendamento alla manovra che riduce da tre

a due anni la durata massima dei contratti a termine, significa guardare il dito e non la luna che indica. Un

parlar d'altro ad uso di qualche polemica da campagna elettorale di quart'ordine. Un po' come quando ci si

accanisce sul lavoro alla domenica.

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LEGGE DI BILANCIO / 1 In arrivo il 26% sui dividendi «qualificati» Gianfranco Ferranti La tassazione al 26% dei dividendi e delle plusvalenze da partecipazioni qualificate ­ prospettata dal Ddl di

Bilancio per il 2018 ora alla Camera impone di iniziare a valutare il timing ottimale per deliberare e

perfezionare le operazioni. Il nuovo regime dei capital gain, invece, non entrerà in vigore dal 2018 (come

quello degli utili), ma dal 2019 e lo stesso disegno di legge prevede la "proroga" della possibilità di

rideterminare il costo in via agevolata. pagina 29 Entro la fine dell'anno vanno effettuate le prime valutazioni

di convenienza conseguenti all'applicazione della imposizione sostitutiva del 26% ai dividendi e alle

plusvalenze relativi alle partecipazioni qualificate, prevista dalla manovra per il 2018, arrivata ora al rush

finale per l'approvazione. Infatti, il trattamento fiscale degli utili differisce a seconda sia del momento di

percezione sia di quello in cui è adottata la delibera di distribuzione. Va inoltre considerato che il nuovo

regime dei capital gain non entrerà in vigore dal 2018 (come quello degli utili) bensì dal 2019 e che lo

stesso Ddl di Bilancio prevede la "proroga" della possibilità di rideterminare il costo in via agevolata. La

equiparazione delle modalità di imposizione degli utili e delle plusvalenze derivanti dalle partecipazioni

qualificate a quelle già previste per le partecipazioni non qualificate costituisce una novità nell'ambito della

disciplina delle imposte sui redditi. Nella relazione illustrativa si ricorda che il livello di tassazione sostenuto

dal contribuente in relazione alle partecipazioni qualificate è sempre stato più elevato rispetto a quello

gravante sui medesimi redditi derivanti da partecipazioni non qualificate. In seguito al progressivo

innalzamento dell'imposizione sostitutiva su queste ultime si è, però, realizzato un sostanziale allineamento

del livello di tassazione dei redditi derivanti dalle due tipologie di partecipazioni: 26% per le non qualificate e

25% per le qualificate (in caso di aliquota margi­ nale Irpef massima). Sarebbe stato, tuttavia, preferibile

mantenere un regime di favore per i "piccoli investitori", consentendo loro anche di optare per la

imposizione progressiva. Per effetto della riforma viene meno l'obbligo di tenere distinte le

plus/minusvalenze derivanti da partecipazioni qualificate e non qualificate, che confluiscono in un'unica

"massa" e possono essere compensate tra di loro, anche qualora si applichino i regimi del risparmio

amministrato e gestito. Tale regola sembrerebbe applicabile anche per le minusvalenze pregresse riportate

in avanti, in assenza di una disciplina transitoria in merito. La nozione di partecipazione qualificata rileva

ancora ai fini: e degli obblighi di notai e intermediari che intervengono nelle operazioni; r della tassazione in

Italia degli investitori non residenti (articolo 23, comma 1, lettera f); t dell'imposizione dei redditi derivanti

dagli investimenti in Pir. La nuova disciplina non si applicherà: 1 a utili e plusvalenze relativi a

partecipazioni in società estere a regime fiscale privilegiato (integralmente imponibili, salvo interpello); 1

alle partecipazioni possedute dalle imprese soggette all'Irpef; 1 agli utili degli enti non com­ mercialie delle

società semplici. Le modifiche si applicano ai redditi di capitale percepiti a partire dal 2018e ai redditi diversi

realizzati dal 2019. La norma dispone che le distribuzioni di utili prodotti fino all'esercizio in corso al 31

dicembre 2017 «deliberate dal 1° gennaio 2018 al 31 dicembre 2022» conservano il precedente regime

impositivo e concorrono parzialmente alla formazione del reddito imponibile del contribuente, nella diversa

misura stabilita con riguardo al periodo in cui si sono prodotti. In base al tenore letterale della norma

sembrerebbe, quindi, che se la delibera è adottata entro il 31 dicembre 2017 e gli utili sono percepiti dopo

tale data si applichi il nuovo regime (di solito meno favorevole). Tale conclusione non risulta, però, né logica

nè sistematica e appare più ragionevole ritenere che anche in questo caso si debba applicare la disciplina

precedente. Risulta, invece, chiaro che, qualora avvengano successivamente al 2017 sia la delibera sia la

distribuzione degli utili, non si applicherà la ritenuta a titolo d'imposta del 26 per cento. Può risultare, in ogni

caso, conveniente distribuire nel periodo che va dal 2018 al 2022 le riserve di utili pregressi, soprattutto se

prodotti anteriormente al 2008 (al fine di fruire della tassazione soltanto del 40% degli stessi). Va, infine,

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tenuto conto della opportunità, prevista dalla stessa manovra, di rideterminare il costo delle partecipazioni

in società non quotate possedute al 1° gennaio 2018, versando l'imposta sostitutiva dell'8% sul nuovo

valore.

8% La sostitutiva nella manovra Per rideterminare il costo delle partecipazioni non quotateLe novità e il

regime transitorio Che cosa cambia nel trattamento dei dividendi e delle plusvalenze L'ENTRATA IN

VIGORE I DIVIDENDI PERCEPITI ENTRO IL 2017 I DIVIDENDI PERCEPITI DAL 2018 (UTILI FINO 2017)

PLUSVALENZE E MINUSVALENZE L'imposizione sostitutiva del 26% per le partecipazioni qualificate

possedute da persone fisiche al di fuori dell'attività d'impresa si applica: 8 agli utili percepiti a partire dal 1°

gennaio 2018; 8 alle plusvalenze e alle minusvalenze realizzate a

I dividendi percepiti entro il 2017 concorrono alla formazione del reddito nelle seguenti misure: 8 40% se

sono stati prodotti fino all'esercizio in corso al 31 dicembre 2007; 8 49,72% se sono stati prodotti

successivamentee fino all'esercizio in corso al 31 Se la delibera di distribuzione è adottata dal 1° gennaio

2018 al 31 dicembre 2022 l'utile concorre a formare il reddito nelle misure indicate nel riquadro precedente.

Se la delibera è adottata dopo il 31 dicembre 2022 si applica la ritenuta a titolo d'imposta del 26 per cento.

Le plusvalenze e le minusvalenze realizzate dal 1° gennaio al 31 dicembre 2018 concorrono alla

formazione del reddito imponibile per il 58,14% del loro ammontare. Resta ferma la misura del 49,72% per

le plus e minusvalenze derivanti da atti di decorrere dal 1° gennaio 2019, che possono essere compensate

anche con quelle derivanti da partecipazioni non qualificate. I regimi del risparmio amministrato e di quello

gestito si applicano anche in caso di detenzione di partecipazioni qualificate dicembre 2016; 8 58,14% se

sono stati prodotti nell'esercizio successivo (2017). A partire dalle delibere di distribuzione successivea

quella riguardante l'utile 2016i dividendi si considerano prioritariamente formati con gli utili prodotti fino al

2007e poi con quelli fino al 2016 Per le delibere adottate fino al 31 dicembre 2017 sembrerebbe, in base al

tenore letterale della norma, che si applichi la ritenuta del 26 per cento. L'interpretazione logicosistematica

induce, però, ad applicare la disciplina precedente realizzo posti in essere anteriormente al 1° gennaio

2018 ma i cui corrispettivi sono in tutto o in parte percepiti da tale data. È imponibile l'intero ammontare

delle plusvalenze realizzate su partecipazioni in società estere a regime privilegiato

Foto: 26%

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LEGGE DI BILANCIO / 2 Nuove assunzioni, in 3mila Comuni turnover al 100% Gianni Trovati Con l'ultima apertura arrivata alla Camera sul disegno di legge di Bilancio per il 2018, le assunzioni libere si

allargano a 3.146 Comuni fino a 5mila abitanti. La mossa arriva insieme allo sblocco delle assunzioni nelle

Province e nelle Città metropolitane. Le nuove regole, nel tentativo di conciliare l'esigenza di nuovi ingressi

con quella di equilibrio dei conti, si concentrano sulle amministrazioni locali in cui il peso degli stipendi

risulta più basso. pagina 42 Con l'ultima apertura arrivata alla Camera sulla manovra, il turnover pieno si

allarga a 3.146 Comuni fino a 5mila abitanti. In pratica, le assunzioni piene riguarderanno il 56,3% dei

Comuni fino a 5mila abitanti, scardinando i vincoli rigidi al turnover che sono ovviamente più difficili da

gestire quando le amministrazioni sono piccole,e gli organici ridotti non offrono uscite in grado di liberare

spazi per i nuovi ingressi. La mossa, insieme allo sblocco delle assunzioni negli enti di area vasta,

rappresenta l'ultimo colpo alla griglia che finora ha bloccato il rinnovo del personale. Le nuove regole, nel

tentativo di conciliare l'esigenza di nuovi ingressi con quella di equilibrio dei conti, si concentrano sulle

amministrazioni in cui il peso degli stipendi è più basso. Il correttivo, firmato da Mauro Guerra, Antonio

Misiani e Cinzia Maria Fontana (Pd), estende alla fascia compresa fra 3mila e 5mila abitanti (si tratta di

1.111 Comuni) il parametro già seguito dalla manovrina di primave­ ra per gli enti finoa 3mila abitanti, e

riserva la possibilità di turn over pieno agli enti in cui gli stipendi pesano fino al 24% sul totale delle uscite

correnti. L'indicatore è apparentemente molto stringente, ma i numeri, elaborati da Ifel (la Fondazione per la

finanza e l'economia locale dell'Anci) mostrano che la platea interessata è ampia. Complice proprio la

gelata delle assunzioni negli ultimi anni, infatti, soprattutto nei piccoli Comuni la spesa di personale si è

asciugata anche in rapporto alle dimensioni del bilancio, per cui un ente su tre si ferma sotto la soglia

fatidica del 24 per cento. Non solo: quando gli abitanti sono finoa mille, la possibilità di dedicare alle

assunzioni tutti i risparmi prodotti dai pensionamenti è ormai generalizzata. L'incrocio di queste regole porta

appunto a 3.146 il turn over al 100 per cento. Questa percentuale, è il caso di ricordare, si calcola sulle

spese e non sulle "teste": e siccome in genere il costo medio delle buste paga di chi va in pensione è alzato

da anzianità e progressioni, il numero di assunti può essere superiore a quello delle uscite. Questa

conseguenza si fa sentire maggiormente dove le dimensioni sono maggiori, e si fa quindi ancora più

interessante per Città metropolitane e Province. Un altro emendamento approvato a Montecitorio, e pre­

sentato a firma di Lorenzo Guerinie Daniela Gasparini (ancora del Pd) fa ripartire le assunzioni negli enti di

area vasta, che potranno mettere fine al congelamento avviato nel 2014 con la riforma Delrio (si veda

anche Il Sole 24 Ore di venerdì scorso) presentando un «piano di riassetto organizzativo». E anche questa

riapertura divide le amministrazioni in due gruppi sulla base del rapporto fra spesa di personale e uscite

correnti. In questo caso, il parametro che divide "virtuosi" e non è un po' più basso, al 20 per cento. Chi si

ferma sotto, dal prossimo anno potrà applicare il turn over pieno, mentre gli altri dovranno accontentarsi del

25 per cento. Province e Città, però, sono state alleggerite in questi anni di circa 20mila dipendenti, che si

sono trasferiti in altre amministrazioni (le Regioni in primis) insieme alle funzioni pre­riforma. Anche per loro,

insomma, la voce «stipendi» si è molto ridotta. Al calcolo si possono poi aggiungere i «resti assunzionali»,

cioè gli spazi di turnover non utilizzati (c'era il blocco delle assunzioni) aperti dalle uscite degli ultimi tre

anni, con l'eccezione di quelle relative alla mobilità. Rimane solo il limite generale fissato dalla riforma, che

rispetto alla situazione precedente ha tagliato del 50% la spesa di personale delle Province e del 30%

quella delle Città. [email protected]

Il quadroI piccoli Comuni con turnover al 100% perché registrano una spesa di personale inferiore al 24% delle

uscite correnti totali Comuni TOTALE Abitanti 3.001-5.000 1.001-3.000 0-1.000 5.584 1.111 2.513 1.960

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Popolazione totale 10 4,33 4,65 1,07

Fonte: Elaborazione del Sole 24 Ore su dati Anci-Ifel Enti con turnover al 100% 1.818 385 801 632 % sul

totale 32,6 34,7 31,9 32,2

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Le novità del 2018 PREVIDENZA L'effetto inflazione Dopo due anni di importi invariati gli assegniaumentano seppur di poco (+1,1%) La soglia per la vecchiaia Per accedere al trattamento maschi efemmine dovranno avere almeno 66 anni e 7 mesi di età La pensione uniforma l'età Requisiti uguali per uomini e donne - L'anno del cumulo per i professionisti LE CASSE Gli enti previdenzialisono in attesa del via libera dei ministeri e delle convenzioni Inps per poter erogare le pensioni in cumulo Matteo Prioschi L'innalzamento generalizzato di cinque mesi dei requisiti per andare in pensione che tanto ha fatto

discutere nelle ultime settimane scatterà nel 2019. Ciò non toglie, però, che da gennaio per andare in

pensione, in alcuni casi, si dovrà attendere qualche mese in più. Infatti l'anno prossimo verrà parificato il

requisito anagrafico per accedere al trattamento di vecchiaia: sia uomini che donne dovranno avere almeno

66 annie7 mesi di età. Di conseguenza la pensione si "allontanerà" per le lavoratrici autonome, alle quali

quest'anno sono richiesti 66 anni e 1 mese, e per le dipendenti del settore privato, a cui basta­ no 65 anni e

7 mesi. In questo modo si conclude il percorso avviato anni fa a seguito della sentenza della Corte di

giustizia Ue del 13 novembre 2008, con cui erano stati ritenuti illegittimi i requisiti differenziati tra donne e

uomini (60 e 65 anni) allora previsti per il pensionamento dei dipendenti pubblici, decisione da cui è poi

derivata la decisione del governo italiano di parificare i minimi richiesti ai due sessi. Per le dipendenti della

pubblica amministrazione la soglia dei 66 anni e 7 mesi è già stata raggiunta nel 2016 ed è attualmente in

vigore. Inoltre sarà necessario avere un anno in più di età per accedere all'assegno sociale, perché si

passerà dagli attuali 65 anni e 7 mesi a 66 anni e 7 mesi, come stabilito già nel 2011 dalla riforma

previdenziale Monti­Fornero. I requisiti per le altre tipologie di pensione, invece, non cambieranno. Il cumulo

dei professionisti Queste regole valgono per gli iscritti all'Inps, in quanto per i professionisti che versano i

contributi alle Casse di previdenza di settore possono essere previsti requisiti differenti. Per questi ultimi,

però, nel 2018 dovrebbe diventare concretamente operativo il cumulo dei contributi introdotto un anno fa

dalla legge di bilancio 2017. Il cumulo consente di sommare i contributi versati in gestioni differenti e così

raggiungere più facilmente i requisiti necessari per il pensionamento. L'attuazione della norma, tuttavia, si è

rivelata piuttosto complicata, soprattutto per la pensione di vecchiaia in quanto, sulla base dell'autonomia

loro conferita, le Casse nel corso del tempo hanno fissato requisiti e regole di pensionamento differenziate

tra le Casse stesse e nei confronti dell'Inps. Negli ultimi mesi di quest'anno diversi enti previdenziali hanno

comunque messo su nero le nuove regole e inviato le relative delibere ai ministeri vigilanti per ottenere

l'approvazione. Una volta sottoscritte le convenzioni con l'Inps, le pensioni in cumulo potranno essere

effettivamente erogate. I professionisti potenzialmente interessati a questa opzione sono oltre 400mila (si

veda il Sole 24 Ore del 30 ottobre). Assegni in aumento Il prossimo anno, inoltre, porta una buona notizia

per chi la pensione già la incassa. Infatti dopo due anni di importi invariati, nel 2018 gli assegni previdenziali

aumenteranno, seppur di poco. È l'effetto del ritorno dell'inflazione di riferimento, quella a cui sono

agganciate le prestazioni previdenziali e assistenziali. Nel 2015 e nel 2016 i prezzi sono rimasti congelati e

di conseguenza l'importo delle pensioni non è cambiato. Invece l'inflazione provvisoria del 2017 è +1,1%, e

quindi l'anno prossimo scatteranno dei piccoli aumenti. Il trattamento minimo, per esempio, passerà dagli

attuali 501,89 euro lordi mensili a 507,41 euro. Tuttavia, per effetto dell'attuale meccanismo di

perequazione, l'adeguamento pieno all'inflazione viene riconosciuto solo agli assegni di importo fino a3

volte il minimo. Oltre tale soglia l'aliquota scende progressivamente e quindi invece dell'1,1% il ritocco sarà

via via più basso fino allo 0,495% (il 45% dell'1,1%) di chi ha una trattamento oltre sei volte il minimo, cioè

3.011,34 euro. Dato che le pensioni sono pagate per tredici mensilità, nella maggior parte dei casi

l'aumento lordo oscillerà tra i 70 e i 270 euro in un anno. Tuttavia i pensionati, oltre che ricevere, dovranno

restituire una piccola parte di quanto incassato in più nel 2015. Infatti quell'anno è stato prima riconosciuto

un adeguamento all'inflazione provvisoria del 2014 pari a +0,3%; quella definitiva invece è stata dello 0,2

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per cento. Di conseguenza a inizio 2016 sarebbe dovuto scattare il conguaglio negativo. Però dato che

l'anno scorso non c'è stata rivalutazione e i pensionati nei fatti avrebbero subito una decurtazione, il

recuperoè stato rimandato al 2017e poi al 2018. Si tratta comunque di importi limitati, che probabilmente

verranno spalmati su più rate (come già era stato ipotizzato all'inizio del 2017 salvo poi rinviare

l'operazione).

Che cosa cambia dall'importo all'età

+1,1%0,1%66 anni e 7 mesi L'anno prossimo l'importo degli assegni aumenterà per effetto dell'inflazione di r ifer

imento provvisor ia relativa al 2017. Ma l'incremento pieno viene r iconosciuto alle pensioni di importo fino a

3 volte il minimo. Per i valori super iori l'aliquota di r ivalutazione si r iduce progressivamente Importi lordi

mensili in euro 2017 2018 2017 2018 2017 2018 2017 2018 2017 2018 2017 2018 2017 2018 2017 2018

2017 2018 2017 2018 0 500 1.000 1.500 2.000 2.500 3.000 3.500 501, 89 507, 41 1. 000, 00 1. 011, 00 1.

300, 00 1. 314, 30 L'età minima per accedere alla pensione di vecchiaia sarà uguale per tutti. Spar iscono

quindi le differenze ancora in vigore per le lavoratr ici del settore pr ivato a cui quest'anno sono sufficienti

65 anni e 7 mesi se dipendenti e 66 anni e 1 mese se autonome 1. 600, 00 1. 616, 72 1. 900, 00 1. 919, 86

2. 100, 00 2. 117, 33 2. 400, 00 2. 419, 80 2. 700, 00 2. 714, 85 3. 000, 00 3. 016, 50 3. 300,00 3. 316, 34

Occorre restituire lo 0,1% incassato in più nel 2015 per effetto della differenza tra l'inflazione prevista e

quella definitiva registrata nel 2014. Il conguaglio sarebbe dovuto scattare nel 2016, ma è stato r inviato al

2017 e poi al 2018

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L'Ue e la politica monetaria / COMMENTI IL REALISMO CHE MANCA Le proposte italiane per la riforma della zona euro assomigliano sempre più a lettere a Babbo Natale Ferdinando Giugliano Al termine del Consiglio europeo di venerdì scorso, Angela Merkel ed Emmanuel Macron si sono dati

tempo fino a marzo per concordare un piano di riforma della zona euro. È una buona notizia: la prosperità

dell'unione monetaria passa necessariamente per un rafforzamento delle sue istituzioni. L'Italia rischia però

di arrivare a questo appuntamento non solo senza un governo nel pieno dei suoi poteri, ma senza neppure

un'idea realistica di quali compromessi siamo disposti a fare. Le proposte italiane per la riforma della zona

euro assomigliano sempre più a delle lettere a Babbo Natale, scritte come se dall'altra parte non ci fossero

dei politici che devono rispondere ai loro elettorati, ma elfi pronti a incartare le riforme che più ci piacciono.

Un esempio di questo approccio utopico è il Position Paper sulla riforma dell'unione monetaria pubblicato

giovedì scorso dal ministero dell'Economia. Il documento include una serie di proposte piuttosto condivisibili

sul completamento dell'unione bancaria e sulla creazione di politiche di bilancio comuni. Mancano però le

concessioni che siamo disposti a fare ad altri Stati membri come la Germania, senza le quali è impossibile

pensare che anche solo una piccola parte di queste misure possa essere realizzata.

Il ministero dell'Economia vorrebbe che l'eurozona costituisse un fondo comune per aiutare quei Paesi in

cui la disoccupazione superasse un determinato livello.

Questi soldi andrebbero a finanziare politiche a sostegno del mercato del lavoro o, in subordine,

programmi di investimento. Non vi è dubbio che l'eurozona beneficerebbe di un meccanismo di questo tipo:

la scelta di delegare la politica monetaria alla Banca centrale europea ha privato gli Stati membri di

importanti margini di manovra in caso di shock economici. Un fondo di stabilizzazione aiuterebbe a

rimediare a questo problema, e darebbe ai cittadini del Paese in recessione un segno tangibile della

solidarietà europea.

Il problema è che misure di questo tipo sono viste con scetticismo dalla Germania, nel timore che esse

possano spingere gli altri Stati membri a essere meno prudenti nelle proprie politiche di bilancio. Il ministero

fa ben poco per attenuare queste paure: certo, i trasferimenti ricevuti dal fondo andrebbero ripagati nel

tempo. Ma il Mef propone contestualmente anche un attenuamento delle regole di bilancio, che renderebbe

più facile per gli Stati membri ottenere flessibilità sui conti pubblici. Un piano realistico dovrebbe prevedere

un rafforzamento del patto di stabilità, ma di questo non c'è traccia nel documento diffuso da Pier Carlo

Padoan.

Il Position Paper è pieno di altri " niet ": all'Italia non piacciono né meccanismi di ristrutturazione del debito

sovrano né misure che limitino la presenza di titoli di Stato nei bilanci bancari. Il ministero teme che

entrambi questi strumenti possano creare instabilità sui mercati. Tuttavia, è impossibile immaginare che la

Germania possa dirsi propensa a completare l'unione bancaria o a rafforzare il fondo salva-Stati

(Meccanismo europeo di stabilità), se l'Italia non è disposta ad accettare salvaguardie che limitino i rischi e i

costi di un eventuale salvataggio esterno.

Le idee di Padoan sull'Europa sono ovviamente molto più realistiche di quelle che ci accingiamo ad

ascoltare in campagna elettorale. La creazione di una moneta parallela, sognata da Silvio Berlusconi e dal

Movimento 5 Stelle, ci metterebbe immediatamente in una posizione che viola i trattati europei. Ma la

domanda che accomuna tutte queste proposte resta la stessa: quando ci siederemo al tavolo con Merkel e

Macron, su che cosa saremo disposti a cedere?

Foto: Ferdinando Giugliano è commentatore di Bloomberg View Tra il 2011 e il 2015 è stato giornalista ed

editorialista economico del Financial Times

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IL COMMENTO La crescita generale e la politica della Bce Marcello Esposito Dicembre è tradizionalmente il mese in cui gli economisti si esercitano nell'individuare i grandi temi che nel

bene e nel male influenzeranno l'andamento dei mercati finanziari nel corso dell'anno nuovo. In genere, la

tendenza è ad accentuare i rischi ma quest'anno la scienza triste appare un pò più allegra. Per la prima

volta dallo scoppio della grande crisi, il 2017 termina con una generalizzata revisione al rialzo delle stime di

crescita elaborate l'anno precedente. La Bce ad esempio ha pubblicato la scorsa settimana le nuove

previsioni del Pil dell'Eurozona per il 2017 e 2018, innalzandole di 0,2% e di 0,5% rispetto a quelle

pubblicate solo tre mesi fa. E revisioni analoghe hanno interessato un po' tutta l'economia mondiale. segue

a pagina 10 Il 2018 si distingue rispetto agli anni precedenti non solo per uno scenario di crescita

generalizzata e diffusa in tutti i settori dell'economia mondiale, ma anche per l'assenza di appuntamenti

politici di rilievo. Esiste un'incognita elezioni in Italia, tuttavia l'indifferenza dei mercati nei confronti della

situazione di stallo in Germania rende plausibile ritenere che l'assenza di una maggioranza parlamentare in

Italia non sarà fonte di particolari preoccupazioni. Esiste ovviamente sempre il rischio che possa generarsi

un evento catastrofico nelle aree di maggiore tensione geopolitica, ma la tenuta del prezzo del petrolio e la

ripresa economica dovrebbero più che compensare le superf icial i tà e l ' improvvisazione

dell'amministrazione Trump. Negli Stati Uniti, l'avvicendamento tra Janet Yellen e Jerome Powell alla guida

della Fed non sembra porterà ad un mutamento significativo nella conduzione della politica monetaria.

Quindi, il rialzo dei tassi d'interesse sarà graduale, ma ci sarà. Dal livello di 1,25% a cui lo ha portato la

Yellen, il tasso d'intervento principale sarà innalzato entro fine anno al 2% o più. D'altro canto, l'economia è

robusta, la politica fiscale è espansiva e l'inflazione inizia a reagire ad anni di liquidità abbondante. Meno

intelleggibile la politica che la Bce intende effettivamente perseguire. È poco credibile l'affermazione, nel

corso dell'ultima conferenza stampa di Mario Draghi, che sul quantitative easing la Bce non abbia discusso

o effettuato elaborazioni ulteriori rispetto a quanto annunciato alla fine dell'estate. Quale obiettivo si intende

perseguire andando avanti a comprare titoli obbligazionari per trenta miliardi al mese, una cifra di poco

inferiore ad un anno di deficit pubblico italiano, fino a settembre 2018? Che senso ha promettere di

mantenere i tassi negativi fino al 2019 e oltre? L'economia sta crescendo ad un ritmo superiore a quello

americano e l'inflazione è vicina al cosiddetto target del 2%. In queste condizioni, mantenere artificialmente

bassa tutta la curva dei rendimenti equivale ad aumentare più che proporzionalmente lo stimolo monetario,

non a stabilizzarlo. L'effetto sull'economia sarà quello di un'ulteriore spinta. Forse utile per accelerare

l'assorbimento dell'output gap e della disoccupazione, ma il rischio è di alimentare ancora di più la

dimensione della bolla speculativa presente sui mercati finanziari e per questa via compromettere il compito

primario della Bce, che è quello della stabilità finanziaria. Molti osservatori si preoccupano del fatto che una

mancata normalizzazione della politica monetaria in Europa possa trovare sguarnite le difese della Bce

nell'evenienza di una nuova recessione. Il ragionamento si basa sulla convinzione che convenga

approfittare della situazione favorevole per ricreare uno spazio di intervento per stimolare l'economia,

qualora un imprevisto lo rendesse necessario. In realtà, come lo stesso Mario Draghi ha sostenuto, si tratta

di un'evenienza che non ha molte probabilità di realizzarsi nel futuro prevedibile e comunque le munizioni a

disposizione della Bce non sono certo finite a causa del Qe o dei tassi negativi. Se c'è la volontà politica, la

storia comunitaria insegna che i Trattati europei consentono una interpretazione molto flessibile anche delle

norme apparentemente più vincolanti. In realtà, il rischio maggiore per la Bce è che le misure straordinarie

per ravvivare l'inflazione abbiano un successo proporzionale allo sforzo profuso. Panico e euforia sono

processi non-lineari. Per ora confinata all'interno del sistema finanziario, la liquidità ha iniziato a esondare

nel settore immobiliare delle nuove città-stato su cui è incardinata la rete della globalizzazione o nelle

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golene virtuali delle criptovalute. La natura forse non fa salti, ma l'economia sì. Se la velocità di circolazione

della moneta tornasse ai livellli pre-crisi, la Bce sarebbe in grado di ridurre rapidamente la dimensione del

proprio bilancio per controllare le dinamiche inflattive e/o speculative? Sappiamo che l'impatto sui grandi

debitori potrebbe essere devastante, soprattutto se il sistema bancario non fosse più in grado di assorbire

per ragioni regolamentari l'eccesso di offerta di titoli pubblici in asta. E quindi è una scelta o una necessità

la promessa di Mario Draghi di rinnovare i titoli acquistati con il Qe e che vengono a scadenza?

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Stipendi, i regali dello Stato padrone UNO STUDIO DEL NUOVO THINK-TANK DI COTTARELLI RIVELA CHE A FAVORE DEI DIPENDENTIDELLA P.A. C'È UN NETTO VANTAGGIO SUI PRIVATI E SENZA ALCUN MOTIVO: UN'INCOGNITA PERLE FINANZE PUBBLICHE MENTRE SI RIAPRE LA VERTENZA CONTRATTUALE Eugenio Occorsio Un'ennesima mina vagante grava sui conti pubblici: le trattative in corso per il rinnovo del contratto degli

statali rischiano di riaprire una voragine di spesa. Ma non c'è nessun motivo perché ciò avvenga, visto che

le retribuzioni dei dipendenti pubblici sono già solidamente più alte di quelle dei privati, almeno stando a

quanto si legge nel rapporto "La divergenza degli stipendi pubblici" realizzato dall'Osservatorio Cpi (Conti

pubblici italiani), voluto e coordinato da Carlo Cottarelli, già commissario alla spending review e fino al

mese scorso direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale a Washington. È il primo rapporto

sfornato dal neonato think-tank di Cottarelli, che è insediato presso la Cattolica di Milano e animato da un

giovane, competente e agguerrito gruppetto di ricercatori dell'Università stessa. segue a pagina 2 segue

dalla prima «In Italia le retribuzioni lorde pro capite sono state storicamente superiori rispetto a quelle del

settore privato», si legge nel rapporto, che sarà pubblicato a partire da stasera sul sito dell'Osservatorio e

che Affari & Finanza è in grado di anticipare. Cottarelli e i suoi collaboratori hanno analizzato analiticamente

i dati Istat degli ultimi 36 anni, ovvero dal 1980 a tutto il 2016. Lo scostamento è visibile (cfr. grafici in

pagina) ed è pari al 27,5% come media generale. Se i dipendenti privati, nel loro complesso, hanno

guadagnato 100, quelli pubblici hanno avuto un reddito di 127,5. E con questo viene sfatato un primo luogo

comune, e cioè che chi lavora per lo Stato guadagna meno di chi è impiegato in un'azienda privata. Almeno

secondo questo studio, è esattamente l'opposto. Bacino elettorale Ci sono però delle differenze notevoli

nell'analisi anno dopo anno, che coincidono realisticamente con i momenti di maggior "manica larga" da

parte del potere politico verso il settore pubblico, tradizionalmente un bacino elettorale di primaria rilevanza:

si pensi che i dipendenti del settore pubblico allargato (compresi cioè quelli delle società parastatali e degli

enti locali ma non comprendendo le partecipate) sfiorano oggi i tre milioni e mezzo, con una riduzione di

250mila unità negli ultimi otto anni per il blocco parziale del turnover. Nel 2013, epoca in cui Cottarelli era

commissario alla spending, secondo i dati della Ragioneria generale dello Stato erano per la precisione

3.232.495, cui si aggiungevano 79mila dipendenti a tempo determinato o con contratti di formazione, e

circa 20mila docenti universitari a contratto o ricercatori. Nel 2015, anno di riferimento per il rapporto

odierno, il numero era di pochissimo inferiore ai 3,4 milioni, quasi il 15 per cento del totale degli occupati,

costituito per un terzo da scuola e università. Il monte salari, e qui sta la preoccupazione di Cottarelli e il

pericolo dello scoppio della "bolla", era nel 2015 di quasi 160 miliardi, un quinto della spesa pubblica totale

al netto degli interessi, che era di 760 miliardi (gli interessi com'è noto sono molto ridotti in questi tempi di

quantitative easing ma sono sempre di 40-50 miliardi l'anno). Differenziale oscillante Vediamo allora le

differenze nei vari anni. Il massimo assoluto è stato raggiunto negli anni del pentapartito e del

consociativismo: si pensi che fra il 1989 e il 1990, ricorda il dossier di Cottarelli, il differenziale a favore dei

dipendenti pubblici salì dal 28,3 al 38,5%. «Significa che nel settore pubblico si guadagnava quasi il 40% in

più», puntualizza lo stesso Cottarelli. Ancora nel 1991 la differenza era del 37,5%. A quel punto il

disfacimento della prima repubblica e l'era dei primi governi tecnici (Amato e Ciampi dal '92 al '94 e poi Dini

dopo una breve prima parentesi berlusconiana fra il '95 e il '96) arrestò la deriva. Nel 1995 la differenza era

del 20,5%. Quindi, anche se l'anno dopo ebbe una breve impennata fino al 24,5%, la tendenza al

riequilibrio si consolidò ulteriormente con i governi di centrosinistra, Prodi e D'Alema («ma soprattutto

Padoa-Schioppa al Tesoro», precisa Cottarelli). Nel 1999, il minimo storico con il 19%. Poi è iniziata però di

nuovo la risalita, favorita realisticamente da un atteggiamento più benigno verso il settore pubblico dei

governi di centrodestra. Sta di fatto che fra il 2000 e il 2008 il divario è tornato al 33,8%. Poi con la

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moralizzazione del governo Monti, «e soprattuto con il blocco dei contratti pubblici», ricorda Cottarelli, una

nuova inversione di tendenza fino al livello del 18,2% di fine 2016. Il "wage premium" «Erano comunque

livelli immotivatamente alti, ora invece spiega Cottarelli - soprattutto perché lo stipendio pubblico incorpora

una parte che non riusciamo a spiegarci, e che non sembra dovuta a differenze nella "composizione", ad

esempio parametri competenza o di livello di preparazione. Insomma, anche se ci fossero, come non è

escluso, più laureati, magari più bravi, in possesso di competenze particolari, in buona parte quest'aumento

di stipendio non sembrerebbe avere giustificazioni, se non un "regalo" politico o un generico favoritismo di

qualsiasi natura. L'abbiamo cominciato a studiare dall'inizio degli anni 2000 ed è chiamato dagli esperti del

settore wage premium, "premio salariale"». Il problema di questo "premio" non è solo italiano ma di tutta

Europa, ricorda il rapporto che cita infatti uno studio della Bce che concludeva che nel periodo 2004-07 la

parte del differenziale pubblico-privato non spiegabile dalle differenze di composizione (età, istruzione,

sesso, ore di lavoro, settore lavorativo) era di circa 19 punti percentuali. «Visto che in quegli anni il

differenziale italiano era sul 33% - spiega Cottarelli significa che oltre la metà era composta da un "wage

premium", cioè da una componente retributiva che non trovava conforto nella realtà». In seguito è sceso il

differenziale ed è quindi sceso anche il "premio", fino a un livello attuale intorno ai 4 punti sempre a favore

del settore pubblico, che sarebbe peraltro in linea con quanto succede all'estero. Anche un recente studio

del Fmi stimava il premium in circa il 5% nella media dei Paesi Ocse. Una spiegazione possibile a questo

vantaggio apparentemente iniquo, scrive il rapporto, "sta nel maggior grado di sindacalizzazione dei

lavoratori pubblici oppure nella minore esposizione alla concorrenza delle aziende pubbliche, spesso mono

o oligopolistiche, rispetto a quelle private". I contratti Fattore decisivo nella normalizzazione della situazione

italiana, o almeno nel suo adeguamento agli standard europei, scrive il dossier, è stato sicuramente il

blocco dei contratti pubblici degli ultimi dieci anni. «Senonché - dice Cottarelli - ora la contrattazione è

ripresa, il governo ha messo a disposizione diversi miliardi e ci si aspetta che gli enti locali aggiungano

qualcosa, e c'è il rischio di invertire ancora una volta il senso di marcia riportando il premio dei salari

pubblici rispetto a quelli privati sui valori anomali registrati in passato, con pesanti conseguenze sulla

contabilità di Stato». È questo il punto politicamente più qualificante del rapporto: «Il blocco dei contratti ha

eliminato lo squilibrio fra retribuzioni pubbliche e private esistente storicamente nel nostro Paese. Di questo

- si legge nel rapporto - bisognerà tener conto nei prossimi rinnovi contrattuali adeguando gli aumenti

concessi a effettivi aumenti di produttività. "Vale la pena di sottolineare - scrive ancora il dossier - che

queste conclusioni valgono per la media delle pubbliche amministrazioni, non necessariamente per specifici

settori. All'interno della P.A. stessa esistono infatti discrepanze retribuite spesso non giustificate da

differenze nelle attività svolte". I dirigenti Dove non c'è bisogno di sofisticate elaborazioni per capire che

siamo di fronte a un'ingiustizia dannosissima per le finanze statali, è nel capitolo sulla dirigenza, che

secondo il rapporto Cottarelli è quello dove più si potrebbe recuperare economicità. Nel dossiere si mette a

confronto l'Italia con gli altri tre principali Paesi europei (Francia, Germania, Uk): per tutte le situazioni i

dirigenti pubblici italiani guadagnano più del loro equivalente estero, nel caso dei dirigenti apicali quasi il

doppio della media Ocse e in quello dei dirigenti di prima fascia due terzi in più. Insomma, come si legge

nel dossier, "gli stipendi dei dirigenti restano significativamente più elevati di quelli degli altri principali Paesi

europei".E questo nonostante il tetto dei 240mila euro introdotti nell'aprile 2014 («del quale anche io fui

vittima quand'ero commissario», sorride Cottarelli). L'eccesso di retribuzione dei dirigenti italiani rispetto ai

colleghi dei tre Paesi europei (vedere tabella) si attesta in media al 65% per gli apicali, al 96 per i dirigenti di

prima fascia, al 18 per uqelli di seconda con funzioni di coordinamento. Anche qui ci sarebbe tanto da

recuperare con sicuri benefici per la finanza pubblica. ELABORAZIONI OSSERVATORIO CPI SU DATI

ISTAT E FMI ELABORAZIONI OSSERVATORIO CPI SU DATI OCSE

18% IL DIFFERENZIALE La differenza, a favore del pubblico, nelle retribuzioni medie rispetto al settore

privato. Nel passato la differenza è arrivata a sfiorare il 40% e ancora nel 2010 era del 31%. Per i dirigenti

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la differenza è ancora maggiore IL PERSONAGGIO

Spending review, il commissario inascoltato che è durato una sola stagione Carlo Cottarelli, classe 1954 da

Cremona, laurea all'università di Siena con Marcello De Cecco relatore, master alla London School of

Economics, è stato un po' un simbolo dell'Italia che si redime sul fronte dei conti pubblici. Chiamato dal

governo Letta nel novembre 2013 quale commissario alla spending review, ha redatto centinaia di pagine di

consigli, indicazioni, suggerimenti sulle vie di riduzione della spesa pubblica. Di essi pochissimi - si ricorda

per esempio la riduzione dei centri di spesa pubblici con epicentro Consip sono stati seguiti, tutti gli altri

accantonati. Dopo un anno è tornato all'Fmi, dove lavorava dal 1988, quale direttore esecutivo per l'Italia.

Dal 1° novembre dirige l'Osservatorio sui Conti Pubblici dell'Università Cattolica.IL LIBRO Prossimo

obiettivo lotta senza quartiere all'evasione fiscale

Dopo "La lista della spesa" del 2015 e "Il macigno: perché il debito pubblico ci schiaccia e come si fa a

liberarsene" del 2016, uscirà il mese prossimo (tutti per Feltrinelli) il terzo libro in tre anni di Cottarelli.

Stavolta il titolo è "I sette peccati capitali dell'economia italiana". Il primo di questi peccati, col quale

Cottarelli si è scontrato bruscamente quand'era commissario, è la burocrazia, a suo dire molto più ostica

nei confronti della spending review della stessa politica. Gli altri: l'evasione fiscale, la corruzione,la lentezza

della giustizia, il crollo demografico, l'incapacità di stare nell'euro, il divario tra Nord e Sud. È soprattutto

sull'evasione che stavolta Cottarelli si sofferma. La lotta contro questa piaga troppo diffusa richiede una

riforma strutturale, perché il fenomeno è molto più esteso di quanto siamo abituati a pensare. Un

provvedimento capace veramente di invertire la rotta, cominciando a recuperare una cifra che si avvicina

ormai ai 150 miliardi, aiuterebbe il paese a uscire da questa stagione di incertezza.

Foto: Carlo Cottarelli , ex commissario alla spending review

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L'INTERVISTA/ANDREA ICHINO "Il Jobs act va applicato a tutti basta con le eccezioni e i privilegi" È STATO UN ERRORE, SOSTIENE IL DOCENTE DI ECONOMIA DELLE RISORSE UMANE,RIPRISTINARE L'ARTICOLO 18 SOLO PER IL COMPARTO STATALE. "C'È POI UN PROBLEMA DIFUNZIONALITÀ: I DIRIGENTI PERÒ PAGANO ANCHE PER COLPE NON LORO E DOVUTE INVECE AUN APPARATO LEGISLATIVO CONTORTO E SPESSO CONTROPRODUCENTE" (e.o.) «Il settore pubblico non è purtroppo soggetto alle stesse leggi di mercato che disciplinano il settore privato:

i dipendenti dello Stato, grazie ai sindacati, sono riusciti a migliorare la loro situazione sia in termini di

stipendio che in termini di sicurezza del posto di lavoro e perfino in termini di possibilità di lavorare con

minore impegno: per fortuna solo pochi ne approfittano». Andrea Ichino, classe 1959, master alla Bocconi e

PhD al Mit, docente di Economia delle Risorse umane all'Università di Bologna, legge con noi il rapporto

Cottarelli. E riflette: «È assurdo che recentemente sia stato reintrodotto l'articolo 18 per i soli dipendenti

pubblici, mentre originariamente il Jobs act era stato pensato per tutti, in continuità con il processo iniziato

dai governi precedenti per equiparare completamente i due rapporti di lavoro». Anche lei rileva discrepanze

di paga? « Il rapporto è un documento attendibile e informa il dibattito politico con analisi basate su dati e

strumenti della buona ricerca scientifica. La novità sta nel misurare una riduzione della discrepanza, che ci

riporta in linea con il contesto internazionale. Né si contraddice la percezione di guadagnare poco di molti

dipendenti pubblici. Per esempio, gli orari di lavoro sono generalmente inferiori nel pubblico ed è possibile

che il reddito annuo di un insegnante sia basso anche se la sua retribuzione oraria è più alta rispetto a

quella di un equivalente del privato». Perché si deve lavorare su dati aggregati e non comparare

direttamente due lavori tipo un infermiere in un ospedale pubblico in un ambiente difficile, sottostaffato, fra

urla e disagi, e un infermiere di una clinica privata asettica e silenziosa? «Se governo e Istat rendessero

disponibili dati paragonabili a quelli di altri Paesi (US, UK, Scandinavia) si potrebbe migliorare la qualità

della comparazione. Ma il messaggio rimarrebbe invariato. Ambienti di lavoro stressanti si trovano sia nel

privato che nel pubblico. Altrettanto necessaria sarebbe una comparazione della produttività del lavoro nei

due contesti, ma con buoni dati sarebbe possibile. La mia ipotesi è che la produttività nel pubblico sia

inferiore, fatto che renderebbe il problema evidenziato da Cottarelli ancora più grave. Due i motivi.

L'assenza di incentivi a considerare il consumatore come una priorità come accade nel privato (una prova è

il maggiore tasso di assenteismo dei dipendenti pubblici) e il comportamento della dirigenza che non

utilizza soluzioni organizzative (anche le più semplici) capaci di migliorare il servizio pubblico a parità di

costi e senza maggior impegno dei dipendenti. Me ne sono occupato direttamente nella giustizia e nella

scuola: malgrado la disponibilità di ottimi dipendenti e l'esistenza di buone pratiche che sarebbe ovvio

utilizzare, la dirigenza è tanto più sorda quanto più si sale nella gerarchia». Perché non si riesce a

intervenire sui dirigenti? «Le responsabilità dei dirigenti pubblici sono gravi. Ma non è sempre una colpa o

una carenza di capacità del dirigente, ma un effetto di norme che producono risultati controproducenti,

come quella (ora per fortuna rimossa) che rendeva i dirigenti pubblici responsabili con le loro risorse

personali, se il giudice ordinava il risarcimento di un dipendente licenziato illegittimamente. Data l'alea del

giudizio, era naturale che il dirigente evitasse di rimuovere il dipendente incapace o fannullone, preferendo

il patto perverso che induceva il quieto vivere di entrambi a spese dei consumatori. Gli stipendi elevati non

sono necessariamente un problema morale. Non vedo perché non dovremmo pagare bene (anche più del

tetto ora imposto) un bravo dirigente pubblico che, a fronte di una piena assunzione di responsabilità sui

risultati, abbia libertà di gestire i suoi sottoposti e di organizzare il servizio offerto». Qual è stato il ruolo del

sindacato? «Il sindacato ha fatto il suo mestiere: difendere gli interessi dei suoi iscritti, non quello dei

consumatori. Non illudiamoci che il sindacato operi nell'interesse della collettività. Il problema è che gli

utenti dei servizi pubblici non sono sufficientemente organizzati per difendere i loro diritti. Soprattutto non

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hanno alternative: se l'impiegato comunale mi maltratta non posso rivolgermi a un fornitore diverso. Di

questo il sindacato si approfitta». Quale parte politica è più sensibile? «Difficile dirlo: purtroppo sono tutte

ricattate da qualche lobby di lavoratori pubblici». FONTE BANCA D'ITALIA FINANZA PUBBLICA

FABBISOGNO E DEBITO 15 DICEMBRE 2017

Foto: L'economista Andrea Ichino , specialista nel debito pubblico; in alto il ministero dell'Economia

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Tasse sulle aziende la discesa è terminata ora tocca al lavoro Marco Panara Per quello che riguarda la tassazione dei profitti delle imprese la riforma fiscale di Trump non è né

rivoluzionaria né innovativa. Si limita infatti a seguire un trend che va avanti da quasi quarant'anni e a fare

quanto altri hanno già fatto. I punti più discutibili di quella riforma, i cui contorni saranno chiari quando la

Camera e il Senato di Washington concilieranno i testi diversi varati da ciascun ramo del Parlamento,

riguardano gli aspetti protezionistici (contro i quali i governi europei hanno già giustamente protestato) e la

regressività della nuova imposizione sulle persone fisiche, che continua a fare sconti sostanziosi ai più

ricchi e dare briciole ai più poveri, aumentando le disuguaglianze in una delle società già più diseguali del

mondo. Per i profitti delle imprese la situazione è diversa. Dal 1980 ad oggi la media a livello globale è

passata dal 38 al 22 per cento circa, e l'America in questo processo era rimasta indietro, tanto da essere il

quarto paese con il livello di imposizione più alto (dietro l'Unione degli Emirati Arabi, le Comore e Porto

Rico) con una aliquota federale marginale del 35 per cento più un altro 4 per cento circa di imposizione

media degli stati. L'Europa quella strada l'ha già percorsa con una tassazione media sui profitti delle

imprese di poco più del 18 per cento contro il 40 del 1980, e con 13 paesi tra i primi venti nella classifica di

quelli con la tassazione più bassa e solo due, Malta e Francia, che hanno aliquote fra 33 e 35 per cento, tra

i venti che ce l'hanno più alta (ma il programma di Macron prevede una riduzione al 25 per cento entro il

2022). Anche l'Italia ha fatto la sua parte negli ultimi anni riducendo la sua aliquota al 24 per cento. La

ragione per la quale la tassazione sui profitti delle imprese è crollata è che c'è una correlazione tra l'aliquota

e gli investimenti: più alta è la prima più bassi sono i secondi. Questo era vero anche prima, quando le

aliquote erano alte, ma allora non c'era la competizione tra i paesi per attrarre gli investimenti che è stata

scatenata dalla globalizzazione, e infatti non è un caso che il ciclo delle riduzioni abbia avuto il suo apice

nei primi anni duemila, nel pieno del boom delle delocalizzazioni. L'esperienza di questi anni è mista. C'è

per esempio il caso delle multinazionali americane, che grazie ad arbitraggi fiscali pagano sui loro profitti

tasse inferiori al 10 per cento (spesso molto inferiori) e invece di investire hanno accumulato liquidità nei

paradisi fiscali (oltre 2 mila 700 miliardi di dollari) oppure acquistato azioni proprie e distribuito dividendi

piuttosto che investire o aumentare i salari dei loro dipendenti. In Europa e in Italia invece la riduzione del

prelievo ha mostrato di avere i suoi effetti sugli investimenti e sulla crescita che hanno ripreso vigore.

Vedremo nei prossimi mesi e anni quale sarà l'effetto della riforma Trump sulle medie e piccole imprese

americane che pagano l'aliquota piena e non nuotano nei miliardi. Viene da chiedersi a questo punto se

con la riduzione americana dal 39 al 20 (o 22 per cento, lo sapremo quando sarà varato il testo definitivo) il

ciclo possa considerarsi sostanzialmente concluso, salvo aggiustamenti in paesi come la Francia, e se il

20-25 per cento possa essere considerato un livello di prelievo efficiente ai fini della propensione

all'investimento delle imprese e sostenibile dalle casse pubbliche. E se riusciremo ad evitare altre tornate di

competizione fiscale spregiudicata, come quella all'interno dell'Europa con all'avanguardia Irlanda e

Lussemburgo ma anche Regno Unito e Irlanda, e magari arrivare nella UE ad una armonizzazione delle

prelievo sulle imprese. Arrivati ad un equilibrio tra le principali aree economiche del pianeta, sarebbe una

buona cosa fermare questa corsa al ribasso, soprattutto per concentrare su altro le risorse sempre più

limitate. In Italia in particolare per favorire la crescita dimensionale delle imprese e ridurre la tassazione sul

lavoro, e nel mondo in generale su due fronti essenziali: il primo è la riduzione delle disuguaglianze che

minano non solo la coesione sociale e la stabilità politica ma anche la crescita, perché la concentrazione

della ricchezza penalizza i consumi e riduce la domanda; il secondo sono gli investimenti pubblici in

formazione, in infrastrutture (anche paesi ricchi come Germania e Stati Uniti ne hanno un gran bisogno) e

soprattutto in ricerca e innovazione. Perché è giusto creare condizioni favorevoli per gli investimenti privati,

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che sono il motore di una crescita sana e sostenibile, ma senza gli investimenti pubblici non si costruisce il

futuro.

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"Imprese, ci vuole maggior coraggio sui nuovi manager" MASSIMO MILLETTI, PRESIDENTE DEL "CACCIATORE DI TESTE" ERIC SALMON & PARTNERSITALIA: "LA"GUERRA DEI TALENTI" NON È SOLTANTO PORTAR VIA AGLI ALTRI I MIGLIORIEXECUTIVE BENSÌ VINCERE LA SFIDA DI FORMARSELI ALL'INTERNO" Adriano Bonafede Roma «Quel che notiamo è una mancanza di coraggio da parte delle imprese. Quando cercano dei

manager, ci chiedono di trovare persone che abbiano un consolidato track record . Persone, cioè, che

abbiano già raggiunto dei risultati nel settore». Massimo Milletti, presidente di Eric Salmon & Partners Italia,

avverte i capitani d'azienda: «Ci vuole più coraggio». Eric Salmon & Partners è una delle principali società

di head hunting del mondo: le sue sedi sono un po' ovunque, da Parigi a Singapore, da Ginevra a Londra e

ha due uffici anche in Italia, a Milano e a Roma. Di recente la società si è rafforzata: è entrato Umberto

Bussolati Dell'Orto quale senior partner che affianca Milletti nella guida; è arrivata inoltre Gabriella

Baldassarre, cui farà capo lo sviluppo dell'attività nel settore del Life Science e Healthcare. Perché le

imprese dovrebbero avere più coraggio? «Perché cercano quasi sempre manager del proprio comparto,

che abbiano già dimostrato di saperci fare. Questo non soltanto limita la ricerca dell'executive ma riduce

anche la possibilità di provare altri top manager che potrebbero avere una marcia in più. E poi ci sono

anche casi particolari». Quali? «Prendiamo ad esempio la digital transformation. Se ci chiedono manager

del comparto non è davvero facile trovarli. È un tema partito soltanto da poco tempo, dove li troviamo i

manager che abbiano già raggiunto dei risultati. Del resto, si confondono forse le capacità manageriali con

quelle tecniche: un manager mica deve essere per forza un ingegnere informatico». Che tipo di società si

mostra più conservativo? «Il mondo pubblico soprattutto ma anche quello dei fondi, che cercano sempre

persone collaudate. Ma la "guerra dei talenti" non è soltanto portar via agli altri i migliori manager bensì

vincere la sfida di formarseli all'interno». Immagino ci sia un ostracismo anche verso i giovani manager .

«Certo, questo atteggiamento conservatore è un problema per i giovani. Ma l'Italia è così: pensiamo che in

Austria hanno eletto un primo ministro di 31 anni e che in Francia il presidente è un uomo di 40 anni. Anche

in Italia ci sono delle eccezioni: ad esempio Andrea Guerra quando diventò ceo di Luxottica aveva 39 anni.

Oppure Marco Alverà, ceo di Snam a 41 anni» Questo conservatorismo non fa un po' parte dei tempi?

Sono stati anni duri e incerti, gli ultimi, e si capisce che gli imprenditori non vogliano rischiare. «Sì,

sicuramente è un atteggiamento comprensibile. Però occorre ricominciare a rischiare un po'». Rispetto a

qualche anno fa che tipo di skill sono richiesti per i manager che cercate? «Si cercano più di un tempo

manager che abbiano una forte sensibilità rispetto al ruolo sociale dell'imprese. L'impresa svolge un ruolo

molto importante nella società. Oggi le imprese stanno sviluppando sempre di più il welfare aziendale ma

bisognerebbe avere anche un welfare all'esterno». Welfare all'esterno? «Facciamo un esempio. Guardiamo

a quello che ha fatto l'ad Alverà alla Snam: ha avviato una fondazione che ha recentemente siglato un

protocollo di collaborazione con Confagricoltura per promuovere l'agricoltura sociale. Un altro esempio: la

Fondazione Isabella Seragnoli, da anni attiva nel settore dell'assistenza sanitaria. E così tanti altri. E c'è

anche un altro risvolto: immagino che nei prossimi anni sempre più azionisti, fondi pensione, istituzioni

finanziarie vorranno investire in imprese che svolgono un ruolo sociale. C'è grande spazio per questo tipo

d'interventi, dove c'è un "rendimento" per l'impresa diverso da quello tradizionale». Gli italiani invecchiano e

anche i manager. Che cosa occorrerebbe fare? «In Italia, più che altrove, la successione, più che come

un'opportunità, è vista che una minaccia. Ciò tende a creare dei "tappi" ai livelli apicali delle organizzazioni:

i manager preferiscono arroccarsi nelle loro posizioni piuttosto che agevolare il ricambio. E qui emerge

anche il tema delle difficoltà da parte delle imprese di predisporre dei veri pini di successione». Non è che

le imprese investono anche troppo poco? «Certamente. Il sistema produttivo italiano ha perso produttività in

questi anni perché le imprese non hanno effettuato investimenti. È dal '92 che le imprese sono ferme, e

18/12/2017Pag. 46 N.43 - 18 dicembre 2017

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inoltre assumono poco, ragionano in piccolo. Si è persa la capacità di ragionare in grande: c'è dunque la

tendenza a limitarsi a puntare "a far bene le cose" invece che a crescere». Ci sono settori produttivi che

puntano sulla crescita? «Sì, sono in genere quelli a forte esportazione, parlo di quel mondo di medie

imprese da mezzo miliardo di fatturato in su. Ma l'economia italiana non può basarsi soltanto su queste

imprese. Per questo bisogna darsi una mossa». FONTE ISTAT, 28 NOVEMBRE 2017 S DI MEO

Foto: Massimo Milletti , presidente Eric Salmon Italia

Foto: Umberto Bussolati Dell'Orto , senior partner

Foto: Marco Alverà (1), ad di Snam; Andrea Guerra (2), ad di Tima ed ex ad di Luxottica; Massimiliano

Giansanti (3), presidente Confagricoltura

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INTERVISTA "Correzioni possibili, va controllato sempre il Pil" UGO MONTRUCCHIO, GESTORE MULTI-ASSET DI SCHRODERS, METTE IN GUARDIA DALLEVALUTAZIONI ELEVATE SOPRATTUTTO NEL SETTORE DELL'EQUITY. ECCO PERCHÉ SERVE FAREUNA RIGOROSA ANALISI PRELIMINARE DEL PORTAFOGLIO (l.d.o.) Milano «In uno scenario caratterizzato da valutazioni elevate per le principali asset class, ogni errore

potrebbe costare caro. In questa fase più che mai diventa fondamentale una corretta asset allocation». È

l'analisi di Ugo Montrucchio, gestore multi-asset di Schroders, asset manager britannico con un patrimonio

gestito e amministrato di 430 miliardi di sterline alla fine del terzo trimestre. Iniziamo dal quadro macro: da

più parti si sottolinea che la crescita si va consolidando in tutte le aree del Pianeta, mentre le banche

centrali si muovono con prudenza (o non si muovono ancora) nel processo di normalizzazione dei tassi.

D'altra parte però le quotazioni sono elevate: non c'è il rischio di un entusiasmo eccessivo? «Sicuramente

le valutazioni delle principali asset class non sono a sconto rispetto alle medie storiche, ma dobbiamo

inserire le buone performance azionarie nel contesto di una ripresa economica che appare essere sincrona

per la prima volta dall'inizio della crisi finanziaria e da utili aziendali in continuo aumento. Rischi generali

sono molteplici e vanno dal lato politico a quello di esecuzione di politiche fiscali o monetarie. Stante la

generale assenza di valore - con le valutazioni oggettivamente care in molti segmenti di mercato - c'è

sicuramente spazio per correzioni. Detto questo, il contesto macroeconomico è fondamentale: se

l'economia continua ad accelerare, le prese di profitto non dovrebbero preoccupare più di tanto». Delineato

lo scenario di fondo, quali indicazioni si ricavano sul fronte degli investimenti? «A fronte di multipli elevati,

ogni errore di valutazione in fase di asset allocation può costare caro. D'altro canto, con gli utili che

continuano a crescere, enorme liquidità ancora in circolo sui mercati finanziari e ripresa economica in atto a

livello globale restare fermi potrebbe portare a perdere delle occasioni. Siamo in un contesto ideale per le

soluzioni multiasset, che possono spaziare anche su segmenti tradizionalmente meno presenti nei

portafogli dei risparmiatori come materie prime, hedge funds e prodotti alternativi». Queste soluzioni non

hanno benchmark, per cui il gestore ha assoluta libertà di movimento quanto ad asset class e aree

geografiche tra cui scegliere. Dovendo però indicare le sue preferenze al momento, in quali direzioni

vanno? «La classe di attivi più interessanti resta l'equity, con un'avvertenza: va monitorata l'evoluzione del

ciclo economico. Dunque, se la crescita del Pil continuerà, accompagnata dal progresso degli utili aziendali

su livelli importanti, ogni storno dei listini potrà essere un'opportunità per acquistare. Se invece dovesse

mutare il trend macro, occorrerà alleggerire le posizioni azionarie. A livello di macroaree, vedo meglio

l'Europa rispetto agli Stati Uniti sia perché nel Vecchio Continente il ciclo espansivo è iniziato più tardi, sia

perché lo stato patrimoniale delle aziende americane evidenzia una forte esposizione debitoria, che

potrebbe creare problemi in una fase di rialzo dei tassi come quella avviata dalla Fed». Ha citato la

possibilità di inserire nei fondi multiasset soluzioni d'investimento alternative per andare a cercare le

opportunità che di volta in volta si presentano sul mercato. Non c'è il rischio che, così facendo, si prendano

rischi eccessivi sul fronte liquidità? «A queste soluzioni dedichiamo una parte piccola del portafoglio: il 90%

degli asset che scegliamo è liquidabile in qualsiasi momento». Obligazionario, cosa preferite e cosa invece

evitate? «Premesso che su tutta l'asset class siamo sottopesati, di recente abbiamo ridotto l'esposizione

sulla parte investment grade (bond emessi da società ritenute affidabili dal mercato, ndr), rafforzando

leggermente il peso delle emissioni sovrane, che sembrano aver scontato la tendenza al rialzo dei tassi nel

corso del 2018; la nostra convinzione continua ad essere orientata a catturare il tema della reflazione

attraverso una parte di asset essenzialmente pro-ciclici (parliamo di investimenti azionari) e complementare

questa esposizione con un parte obbligazionaria difensiva, alleggerendo il portafoglio sulla parte di titoli di

credito che potrebbero essere impattati da un'inversione nel regime di crescita cui stiamo assistendo». Il

18/12/2017Pag. 63 N.43 - 18 dicembre 2017

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petrolio dall'autunno è rimbalzato rispetto ai minimi degli ultimi due anni e oggi viaggia nel range 55-60

dollari. Cosa attendersi dal prossimo anno? «Non credo si discosterà molto da questi valori».

Foto: Ugo Montrucchio (Schroders)

18/12/2017Pag. 63 N.43 - 18 dicembre 2017

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FATICANO I CORRETTIVI ALLA WEB TAX. IL GOVERNO RITIRA LA NORMA PER LA CESSIONE DEIBENI DEMANIALI DISMESSI A PAESI STRANIERI Salta la blindatura del cantiere Tap Respinto l'emendamento che prevedeva l'arresto per chi scavalca le barriere Il voto finale sulla manovrapotrebbe arrivare dopo Natale. Si va verso la fiducia ROBERTO GIOVANNINI ROMA È una vera e propria maratona, quella in corso alla Commissione Bilancio di Montecitorio sulla legge

di bilancio. Tantissimi emendamenti all'esame per questa che forse è una delle ultime occasioni della

legislatura per inserire misure grandi o piccole. Ma anche tensioni e problemi nella maggioranza, come

dimostrano la bocciatura dell'emendamento sulla Tap, e gli intoppi che stanno complicando l'elaborazione

della web tax e i ritocchi in tema di contratti a termine e indennità per i licenziamenti. Saltata la sessione

notturna, c'è il rischio che il testo di legge sbarchi in Aula in ritardo. E anche se il governo porrà la fiducia

sul testo del maxiemendamento finale, senza uno scatto il via libera finale del Senato potrebbe arrivare

dopo Natale. Il caso Tap Il governo ha dovuto subire la bocciatura dell'emendamento che puntava a punire

con pene fino all'arresto i contestatori che avessero scavalcato le reti o bloccato l'accesso al cantiere del

gasdotto Tap, definito come opera strategica. Una decisione sulla carta obbligata - l'emendamento era

chiaramente ordinamentale, e in più su materia estranea alla finanza pubblica che però è stata presa dal

presidente della Commissione Francesco Boccia (Pd) dopo un acceso scontro politico animato da M5S e

LiberieUguali, che avevano denunciato il «colpo di mano» del governo. Beni demaniali Saltato anche

l'emendamento che proponeva la cessione dei beni del Demanio a uno stato estero. La norma era riferita

alla vendita di Palazzo Caprera ma è stata ritirata perché di tipo puntuale e non universale, quindi

inammissibile. Nuovi emendamenti Il governo ha presentato altri emendamenti - per la proroga della Cigs a

favore dei lavoratori Ilva, per un nuovo finanziamento per la costruzione di scuole innovative - che però non

sono stati ancora votati. La web tax Più tempo del previsto sta richiedendo anche la definizione dei

correttivi alla web tax, attesi dal relatore. L'imposta esclude piccole imprese e agricoltori, ma dovrebbe

appunto essere estesa all'e-commerce, e semplificata negli adempimenti. Tuttavia il governo sembra poco

convinto, e per ora la questione resta aperta. Tutte le altre novità Tra le norme approvate spunta la

maggiore flessibilità di spesa concessa alle Regioni per l'assunzione di personale sanitario, oltre alla stretta

per il recupero dei crediti giudiziari. Nuovi stanziamenti arrivano per gli italiani nel mondo, non solo per la

diffusione della lingua e della cultura italiana, ma anche per la manutenzione del cimitero di Tripoli, la

stampa attiva all'estero e gli italiani residenti in Venezuela colpiti dal crack del Paese. I concessionari

autostradali saranno obbligati a sottoporre a gara il 60% dei lavori sulle tratte, mantenendo il 40% in house.

La modifica tocca la soglia dell'80% prevista invece dal Codice degli appalti, ed era stata fortemente

richiesta dai sindacati dei dipendenti autostradali. Secondo il Pd la norma permetterà di salvare il posto a

3.000 lavoratori. c

3.000posti di lavoro Salvati, secondo il Pd, dall'emendamento sulle autostrade

Foto: Il muro La recinzione antisfondamento elevata intorno alla zona rossa del cantiere Tap, in località San

Basilio, a San Foca di Melendugno (Lecce), con otto cancelli di chiusura di altrettanti varchi. La barriera, ha

deciso la prefettura, sarà smantellata

18/12/2017Pag. 18

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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 18/12/2017 - 18/12/2017 34

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LAVORARE DOPO LA PENSIONE WALTER PASSERINI Molti sognano di lasciare il lavoro e andare in pensione, ma molti scelgono di lavorare ancora dopo la

pensione. Un pensionato su sei lo fa già. Il fenomeno coinvolge il 14,1% dei pensionati italiani, in crescita

(+ 3,6%) rispetto al 2008 (10,5%). Secondo una ricerca (La responsabilità di diventare un anziano attivo,

realizzata da Ermeneia per l'Associazione 50&Più), condotta su un campione di 1.700 individui, uomini e

donne, dai 50 ai 70 anni e oltre, l'impegno lavorativo dei pensionati è destinato a salire. Cresce la

propensione al prolungamento della vita lavorativa dopo l'entrata in quiescenza: il 34,5% ritiene

"certamente e/o probabilmente utile e/o necessario" svolgere un'attività di lavoro dopo la pensione. E' così

per il 38,3% dei 50-59enni e per il 35,8% dei 60-69enni. Ma la percentuale si mantiene elevata anche per i

70enni e oltre (29,9%). I motivi che spingono a intraprendere un'attività lavorativa oltre i limiti anagrafici del

pensionamento sono i più vari. La motivazione maggioritaria è il piacere di continuare a essere attivi tramite

il lavoro, anche se sappiamo che le professioni non sono tutte uguali. Più della metà del campione la pensa

così (50,3%), più gli uomini (53,1%) delle donne (46,8%). Per molti, invece, c'è anche la necessità di poter

disporre di un reddito ulteriore per ritoccare il valore della pensione; lo sostiene quasi un intervistato su due

(45,9%), una percentuale che sale al 57,2% nella fascia di età 50-59 anni. c

18/12/2017Pag. 20TUTTO SOLDI

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mercati e gestori 5 domande a Andrew Birse AllianceBernstein «Nell'energetico Roma batte Berlino» Andrew Birse, gestore dello European Value Equities portfolio di AllianceBernstein qual è la vostra view sul

mercato azionario europeo? «Il 2017 è stato un anno molto positivo per gli azionari, e per le giuste ragioni.

Non crediamo, infatti che il merito di queste performance vada attribuito alle banche centrali, soprattutto

considerando la scelta di queste di procedere in un percorso di graduale stretta monetaria. Il vero elemento

trainante è stato il miglioramento dei fondamentali. Particolarmente interessante è il trend degli utili». Dove

vedete opportunità? «Quest'anno ha mostrato una tendenza collettiva a prestare troppa attenzione a fattori

esogeni e politici, dimenticando come, alla fine, ciò che su cui si investe è l'azienda e che il successo di

questa dipende dalla sua abilità di generare cassa. E' sulla giusta selezione, anche guardando a questo

aspetto, che orientiamo i nostri portafogli». Che posizione avete sull'Italia? «Scommettiamo sulle singole

realtà. In Italia ci sono molti top player, basti citare Recordati, il comparto del lusso o Ferrari. La nostra

strategia si basa sul cercare aziende sottovalutate e questo non è il caso dei "gioielli" italiani. Le società di

alta qualità made in Italy sono valutate correttamente e non vediamo fallimenti di mercato in quest'area.

Abbiamo in portafoglio posizioni sull'Italia che riflettono il nostro approccio e rispondono alle caratteristiche

che andiamo cercando». C'è qualche società o settore su cui puntate in Italia? «Il settore finanziario italiano

è a buon prezzo. Ma una larga fetta degli utili di queste realtà dipende da fattori macro come Npl e tassi di

interessi ed è quindi difficile per noi capire se le attuali valutazioni siano errate o se siano effettivo specchio

del valore delle società. Preferiamo scommettere su nomi che abbiano testato e consolidato la solidità dei

loro bilanci come Intesa Sanpaolo. La banca ha lavorato per migliorare i conti e presto raccoglierà i frutti

dell'acquisizione degli istituti regionali, cosa che ancora non si riflette sui valori di scambio». Una

scommessa contraria sull'Italia? «La nostra scommessa sta nelle ragioni della scelta. Parliamo di Enel,

titolo che scambia a valutazioni provocatorie legate prevalentemente al suo domicilio, quando è proprio

quest'ultimo ad essere un vantaggio. L'Italia offre un contesto regolatorio stabile e favorevole alle utilitiy

energetiche, più di Regno Unito e Germania. In questo senso Roma batte Berlino che continua a cambiare

le sue politiche in ambito energetico, creando incertezza». c BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

18/12/2017Pag. 21TUTTO SOLDI

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ZALANDO/ L'INTERVISTA "Ecco come noi tedeschi vendiamo la moda agli italiani" Il vicepresidente Jan Bartels: il segreto è capire le loro abitudini L'azienda aprirà un centro nel Veronesecon mille posti di lavoro FABIO DE PONTE TORINO «Come facciamo a vendere la moda agli italiani? Cerchiamo di capire le loro abitudini, la moda ha

molto a che fare con la necessità di capire i mercati locali». Jan Bartels è vicepresidente con deleghe alla

logistica di Zalando, gigante tedesco della vendita online di abbigliamento e scarpe. L'azienda, che

fatturerà quest'anno oltre quattro miliardi, sta aprendo una nuova struttura a Nogarole Rocca, nel veronese,

che si affiancherà a quella già presente a Stradella, in provincia di Pavia. Che «nel medio termine darà

lavoro a un migliaio di persone, forse anche qualcosa in più». Cosa vuol dire nel medio termine? «Vuol dire

dall'apertura della nuova struttura, prevista nel 2019, al 2021. A cui si aggiungeranno i posti di lavoro creati

indirettamente attraverso la costruzione». Quanto tempo servirà per arrivare all'apertura? «Due anni. E poi

per portarla a pieno ritmo ci vorranno altri due anni. Sarà un centro di distribuzione, una base logistica ma

anche centro che processa gli ordini». Come funziona la vostra attività? «Abbiamo una piattaforma di

vendita online, che si basa su due pilastri. Il primo è la vendita standard. Compriamo i prodotti dai fornitori -

sono circa duemila i marchi che distribuiamo - li teniamo nei nostri depositi e poi li vendiamo. L'altro pilastro

è la vendita diretta. L'utente acquista direttamente dal fornitore, che ha una sua pagina sul nostro sito. In

questo caso il fornitore spedisce direttamente il prodotto al cliente, a meno che non scelga di tenerlo nei

nostri depositi. In questo caso ci occupiamo noi della spedizione». Sembra un modello simile a quello di

Amazon. Non a caso avete stipulato anche accordi con Nike e Adidas di questo genere, per fare fronte alla

concorrenza del sito americano. «Non direi che siamo come Amazon noi perché siamo molto concentrati

sulla moda. È nel nostro dna. Anche Amazon ha questi due tipi di vendita ma giochiamo due partite

diverse, perché noi siamo molto specializzati». Quanti depositi avete in Europa? «Ne abbiamo otto. Quattro

in Germania, uno in Polonia, dove ne stiamo costruendo un secondo, uno in Svezia, uno in Francia e uno in

Italia, in provincia di Pavia». Quanto è grande quello italiano? «Ventimila metri quadri e ha 250 lavoratori».

Quanti dipendenti avete? «Abbiamo circa 14 mila lavoratori, 7.600 dei quali impiegati nella logistica. La

struttura di Stradella è gestita da Fiege Logistics, perciò i lavoratori di Stradella tra non rientrano nel

conteggio dei nostri». Lo stesso avverrà Nogarole Rocca? «Anche le operazioni all'interno della nuova

struttura saranno gestite da un partner esterno, la cui selezione avverrà attraverso gara d'appalto». Nel

terzo trimestre avete supera­ to il miliardo di fatturato. Cosa vi aspettate per la fine dell'anno? Come

chiuderete il 2017? «Stiamo crescendo ogni anno del 20-25%. Ci aspettiamo di restare in questa fascia

anche quest'anno. Nel 2016 abbiamo fatturato 3,6 miliardi di euro». L'azienda ha subito una crescita

impressionante in meno di dieci anni. Come avete iniziato? «Abbiamo iniziato alla fine del 2008, vendendo

scarpe in Germania. Ci siamo espansi prima a livello nazionale e poi in Europa. Siamo entrati in Italia nel

2009, è stato uno dei primi paesi ai quali ci siamo allargati. Abbiamo avuto molta crescita in Italia ma

vediamo che c'è ancora spazio per crescere, anche per questo stiamo realizzando una seconda struttura. Il

mercato italiano è ancora frammentato e abbiamo clienti che ancora non usano i mezzi di pagamento

online». Avete molti produttori italiani tra i vostri fornitori? «Sì, c'è un mercato dei marchi molto forte». Siete

venuti in Italia a vendere la moda agli italiani, un po' come vendere il ghiaccio agli eschimesi. Come ci siete

riusciti? «La nostra storia ha molto a che fare con la localizzazione. Bisogna capire ogni mercato. Abbiamo

più di 150 dipendenti italiani in Germania, per capire le abitudini dei consumatori italiani. Il loro ruolo è

rendere locale l'esperienza di Zalando in Italia. Abbiamo visto che il tipo di spedizione conta. Servono

depositi vicino ai clienti. La moda ha molto a che fare con la necessità di capire i mercati locali». Per

esempio? «In Italia è estremamente importante offrire la possibilità del pagamento in contanti alla

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consegna. In Germania non offriamo questa possibilità. In Germania si fanno molte consegne verso punti di

ritiro. In Italia è molto importante la consegna a casa. In Italia i clienti si aspettano di vedere corrieri locali.

Per esempio in Italia utilizziamo Sda e Ups, che hanno un buon posizionamento locale. Insomma

personalizziamo l'esperienza. c 9 anni È l'età della Zalando. L'azienda è nata alla fine del 2008 in Germania

14.000 lavoratori È il numero di dipendenti, la metà dei quali è impegnata nella logistica

L'azienda in cifre 130 mila mq la superficie del nuovo complesso in Italia 1.000 lavoratori saranno

impiegati nel veronese 3,6 miliardi il fatturato dell'azienda nel 2016 120 milioni l'utile netto nel 2016 1,07

miliardi il fatturato nel terzo trimestre 2017 +28,7% la crescita nel terzo rimestre 2017 8 il numero di centri

logistici in Europa 2008 l'anno in cui è nata l'azienda - LA STAMPA

150 italiani Sono i dipendenti in arrivo dal Belpaese nella sede centrale della Zalando in Germania

Foto: I magazzini

Foto: Zalando ha 8 otto centri logistici. È qui che i prodotti vengono immagazzinati ed è da qui che si

gestiscono gli ordini . Quattro si trovano in Germania, uno in Polonia, dove ne stanno costruendo un

secondo, uno in Svezia, uno in Francia e uno in Italia, in provincia di Pavia. Nel veronese ne sarà realizzato

un altro.

Foto: Prodotti Zalando è nato come un negozio online di scarpe nel 2008. Nel tempo la gamma dei prodotti

ha abbracciato tutto il vestiario

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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 18/12/2017 - 18/12/2017 38

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SCENARIO PMI

15 articoli

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Nelle tre italie famiglie e aziende: perché la politica conta meno Federico Fubini 4

S idi Group è una media azienda informatica milanese che pochi anni fa si è trovata a un bivio: andare

avanti sulla strada nella quale si trovava, oppure affacciarsi sul resto del mondo. La sua attività principale è

sempre stata la gestione di impianti elettronici di Sap, il grande gruppo tedesco che produce computer e

software per le imprese. Con 250 dipendenti sostenuti da un fatturato di circa 28 milioni l'anno, Sidi Group

da molti anni aiuta clienti come Enel, l'aeroporto Marconi di Bologna o la Riso Gallo a ottenere il meglio

dalle forniture tecnologiche della Sap o di altri gruppi come l'americana Cisco.

Prima di proiettarsi verso i Paesi in via di sviluppo dell'Africa, Sidi aveva lavorato quasi solo all'interno

dell'economia nazionale ed era entrata in competizione per contratti pubblici solo in Italia. È una di quelle

imprese che si muovono - come avrebbe detto Giulio Cesare - in un'economia nazionale «divisa in partes

tres». Scissa in tre segmenti diversi: una comunità di esportatori sempre più dinamica; una seconda

comunità, più vasta, di imprese che cercano di sopravvivere esclusivamente sul mercato domestico sono

meno produttive; e un settore pubblico il quale - con eccezioni virtuose - resta l'area meno dinamica e più

arretrata del Paese.

Il cambio

Fino all'anno scorso Sidi Group aveva sicuramente fatto parte della seconda categoria. In termini di

contabilità nazionale, aveva contribuito a aumentare il deficit o ridurre il surplus nei saldi degli scambi

dell'Italia con l'estero, perché aveva solo facilitato l'import di molti prodotti esteri. Di recente però

quest'impresa ha dovuto fare i conti con un dilemma delicato: la remunerazione offerta in Italia per una

giornata di lavoro di un proprio consulente - spesso, ingegneri costosi da formare e difficili da trovare sul

mercato - era la metà o meno di quella offerta anche in un Paese africano. In Italia i compensi sulle

consulenze informatiche sono influenzati dalle gare pubbliche, sempre impostate al massimo ribasso per

l'esigenza dello Stato di comprimere le spese per contenere il debito. Un ingegnere può dover lavorare a un

sistema informatico complesso per 150 euro al giorno. All'estero, inclusa la sponda opposta del

Mediterraneo, si arriva anche a 600 euro per lo stesso lavoro.

Restare relegate in Italia per imprese come Sidi equivale a mettersi su un sentiero che porta verso

l'illiquidità, il taglio degli investimenti, l'erosione della produttività e la decrescita.

Nasce da questa semplice aritmetica l'idea di Massimo Dal Checco, presidente di Sidi, di affacciarsi al

mercato estero. Un giorno nota che Senelec, la società di rete dell'elettricità del Senegal, offre un contratto

di consulenza da 10 milioni di dollari finanziato dalla Banca Mondiale. Poco dopo aver mandato la propria

candidatura, il incontra a una riunione di Assolombarda alcuni diplomatici del dipartimento

internazionalizzazione della Farnesina. Questi ascoltano, capiscono rapidamente e lo mettono subito in

contatto con l'ambasciata italiana a Dakar. L'ambasciatore a sua volta organizza in tempi utili un incontro di

Dal Checco con i vertici operativi di Senelec e alla fine Sidi, da Milano, riesce a vincere il contratto

prevalendo su concorrenti più grandi da Cina, Francia o Stati Uniti. Adesso ha la credibilità per cercare

nuovi contratti in Africa e far girare la liquidità in Italia. Da azienda che contribuisce all'import di prodotti

esteri in Italia, Sidi si è trasformata in esportatrice di servizi. Accresce e non erode l'avanzo dell'Italia nelle

ragioni di scambio con l'estero.

Nel sistema

Sidi non è un caso isolato, ovviamente. Una ricerca di Prometeia per il ministero degli Esteri mostra che le

imprese italiane negli ultimi tre anni hanno quasi raddoppiato il numero di contratti vinti all'estero (vedi il

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grafico). Grazie anche al sostegno della diplomazia economica della Farnesina, il valore di quei progetti è

salito da 23 a 39 miliardi dal 2014. Questa espansione è parte di un andamento incoraggiante del fatturato

di tutto il settore dell'export. Secondo Prometeia, dovrebbe crescere del 5,5% quest'anno (a 440 miliardi,

pari al 26% del reddito nazionale) dopo progressi anche più rapidi negli anno scorsi. Oggi esistono nel

Paese quasi duecentomila imprese esportatrici il cui reddito all'estero è esploso dai 356 miliardi di euro del

2011 ai 440 miliardi attesi quest'anno: una crescita più rapida di quella del commercio mondiale negli stessi

anni; essa valeva poco più di un quinto dell'economia nazionale prima della Grande recessione e ora vale

poco più di un quarto.

Accanto a questa Italia che cresce a ritmi da Paese emergente a vale un quarto dell'economia nazionale,

c'è poi l'Italia che ristagna. La media di una crescita all'1,5%, prevista per il 2017, è il risultato di questa

disomogeneità. La seconda Italia è fatta di circa tre milioni aziende com'era Sidi Group fino a due anni fa:

un Paese di imprese medie e spesso piccole, che non si affacciano sui mercati esteri ma dipendono da

quello domestico. Come mostra il grafico, questa seconda Italia è stagnante, ha visto il proprio fatturato

crollare negli ultimi anni e ancora non è tornata ai livelli di prima della crisi.

C'è poi una terza Italia, con la quale Sidi ha a che fare quando compete per i contratti pubblici: la pubblica

amministrazione e ciò che le ruota intorno. Questa terza Italia presenta isole di efficienza, come dimostrano

i risultati della diplomazia economica della Farnesina. Ma a giudicare dalle graduatorie sul Doing Business

della Banca Mondiale resta la parte meno dinamica: il Paese occupa la posizione 112 nel mondo per

qualità ed efficienza del sistema di tassazione; la posizione 108 per la capacità della giustizia civile di far

rispettare i contratti; la posizione 105 per la disponibilità di credito (il ruolo delle banche è legato alle

politiche pubbliche e all'efficienza stessa della giustizia civile); e la posizione 96 per la facilità di ottenere

permessi di costruzione.

La sintesi fra queste tre Italie è un tasso di disoccupazione medio del 9,5% negli ultimi decenni. Sarebbe

dunque logico cercare di spostare un numero maggiore di aziende verso i mercati globali, ma

paradossalmente ciò accade in misura insufficiente. Dal 2011 il fatturato dell'export è esploso eppure,

secondo Prometeia, il numero di imprese esportatrici con più di dieci addetti è persino calato un po'. Negli

ultimi anni è aumentato solo il numero di imprese esportatrici con 9 addetti al massimo, ma questa è anche

l'unica categoria produttiva il cui fatturato estero è sceso. Perché le dimensioni contano, eccome. Il 64%

delle vendite di made in Italy nel resto del mondo è concentrato in gruppi di più di centi dipendenti, mentre

la dimensione media d'impresa in Italia resta di 3,7. Dopo aver constatato che la Gallia era spezzata in tre,

Cesare cercò di unificarla. Oggi invece è l'Italia che deve ridurre le sue contraddizioni.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

L'analisi Fonte: Prometeia e Farnesina Contratti all'estero NUMERO PROGETTI VALORE PROGETTI

PER LE IMPRESE ITALIANE IN MILIARDI DI EURO 2014 2015 2016 39 29 23 S. A. 2014 2015 2016 319

437 599 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 120 110 100 90 80 70 L'andamento dell'export

2008 = 100 S. A. Fonte: Prometeia e Farnesina Italia Mondo S. A. Fonte: Prometeia e Farnesina Mercato

estero 130 120 110 100 90 80 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 Mercato interno Ricavi a

confronto Tra chi esporta e chi resta in Italia. 2010 = 100 +28,3 % -4,6 %

1,5% Crescita Pil nel 2018 Secondo l'Ocse queste sono le stime di aumento del Prodotto internolordo del nostro Paese7,3% la crescita dell'export nei primi 9 mesi del 2017 secondo le rilevazioni Istat. Più alta di Francia e

Germania

18/12/2017Pag. 1 N.49 - 18 dicembre 2017

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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 18/12/2017 - 18/12/2017 41

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Imprese Grande distribuzione conad, passaggio a nord ovest Ecommerce, nuovi soci e investimenti sulla rete, il ceo Pugliese spiega la strategia. E l'obiettivo di farsilargo in Lombardia e Piemonte Francesca Gambarini «Comprendere prima di vendere» è uno dei payoff delle passate campagne pubblicitarie di Conad che

Francesco Pugliese, amministratore delegato e direttore generale della seconda catena distributiva italiana

(con una quota di mercato del 12,1%, seconda dietro Coop, al 14%), tiene appeso nella sua luminosa

stanza al quarto piano del quartier generale di Bologna. E durante l'intervista è un ritornello che cita più

volte, a proposito di molte delle attività che il consorzio nato nel 1962 sta sviluppando.

Perché il manager è convinto, «per un gruppo che ha costruito la sua storia e i suoi successi sulla

prossimità, alle persone, al territorio, ai fornitori, è importante capire i bisogni e intercettarli per offrire i

servizi giusti, e al giusto prezzo». Che si tratti di spesa, scelta biologica, pubblicità, carburante. O delle

colonnine per la ricarica delle auto elettriche. A seguito dell'accordo firmato con Enel, ne verranno installate

250 entro il primo semestre 2018 nei parcheggi dei punti vendita Conad.

«Abbiamo cercato noi questa partnership - racconta il manager - e l'accordo è stato chiuso in tre settimane.

Da tempo siamo impegnati nella sostenibilità e questo è anche uno scambio virtuoso: per esempio ci

permette di essere presenti sulla loro app e di farci conoscere anche da chi non è cliente; in più chi usa

l'auto elettrica è un "target" evoluto e che ci interessa intercettare».

Pugliese, che ha presentato un bilancio 2017 con il fatturato in crescita del 5% (con la Gdo, secondo

Nielsen, ferma al +2,5%) a 13 miliardi di euro, sta lavorando (anche) per trasformare Conad in quella che

gli accade di chiamare una «media company», più che un colosso della distribuzione moderna organizzata,

che comunque ha già rafforzato la sua leadership nei supermercati, al 21% del mercato.

E allora si dilunga a parlare dell'importanza della comunicazione, che ha visto investimenti in crescita

costante da dieci anni (saranno 38 milioni nel 2018), e dello spot natalizio firmato da Pupi Avati, on air da

ieri, ma anche del nuovo ecommerce che arriverà nel 2018, che «completerà e migliorerà l'offerta dei punti

vendita, ma non li sostituirà - spiega il manager -, perché la sfida, soprattutto per chi come noi ha fatto dei

freschi e dei freschissimi o della proposta legata al territorio un marchio, è quella di saper adattare e variare

l'assortimento, perché le persone continuino a entrare nei negozi». Anche i Millennials? «Sono proprio loro

ad avere i gusti più difficili - spiega Pugliese -, soprattutto se parliamo di biologico e filiera corta, due

colonne dei nuovi consumi che la distribuzione, per esempio sostenendo piccole imprese del territorio che

poi sono entrati a far parte della marca commerciale, ha capito prima dell'industria alimentare».

Di certo l'ha capito Conad, che con la sua marca sostenibile Verso Natura, che comprende 680 prodotti,

dalle marmellate ai detersivi, nata alla fine del 2016, oggi fattura 150 milioni di euro (previsti 250 nel 2018):

«L'altro trend su cui la marca industriale ha perso una battaglia è la territorialità: noi con Sapori&Dintorni,

che abbiamo creato dieci anni fa, siamo ormai diventati un brand. Che fattura 350 milioni di euro e «ha

fidelizzato il cliente, permettendoci allo stesso tempo di sostenere le imprese del territorio. Anche con

contributi, perché quando scegliamo un partner vogliamo che lui per primo stia bene, per far stare bene

anche noi - dice Pugliese -. Siamo tremila imprenditori con una vocazione: operare in comunità rigorose e

prosperose. Il 95% della nostra ortofrutta è italiana e il 35% del fatturato delle nostre cooperative viene da

produttori locali».

E sul territorio si «reclutano» anche i nuovi soci. Come i supermercati leccesi Discoverde, che entreranno

nel 2018: « Chi viene con noi rinuncia a quell'individualismo tipico dell'Italia, è un dare e prendere virtuoso».

Intanto, l'espansione non si ferma. Nel 2018 saranno investiti 402 milioni su nuovi negozi (il 70%) e

ristrutturazioni (il 30%). In tutta Italia: «Perché oltre che al Centro e al Sud, dove siamo leader, vogliamo

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crescere anche nelle nostre aree di debolezza, come Piemonte e Lombardia». Obiettivo da spalmare di qui

al 2019, quando scadrà il piano triennale da un 1,1 milioni di euro, ritoccato l'anno scorso: «Non tante

aziende del Paese hanno queste cifre da investire - conclude Pugliese -. Perché lo facciamo noi? Perché

crediamo nell'Italia».

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Foto:

Francesco Pugliese, 58 anni, è amministratore delegato e direttore generale di Conad, organizzazione

cooperativa di imprenditori indipendenti del commercio al dettaglio. Vive a Parma, ha tre figli

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Osservatorio Logistica le dinamiche Aziende concentrate E anche più «verdi» Leader di mercato sempre più forti. Sale il fatturato in outsourcing Andrea Salvadori Dopo l'inversione di rotta del 2016, le aziende italiane della logistica hanno continuato a crescere anche nel

corso del 2017 ponendo le basi per la definitiva uscita dalla crisi che ha colpito il settore. Il comparto esce

profondamente trasformato dagli eventi dell'ultimo decennio, se si pensa che le sue società erano 114.000

nel 2009 e sono diventate 95.000 nel 2015, con un calo molto forte in particolare nel mondo dei

magazzinieri e dell'autotrasporto. «La crisi ha accelerato la concentrazione della logistica», conferma

Marco Melacini, responsabile scientifico dell'Osservatorio Contract Logistics. «Ad essere penalizzate sono

state soprattutto le piccole imprese, realtà con fatturati sotto i 5 milioni di euro che non hanno potuto

mettere in atto quelle economie di scala necessarie per affrontare la crisi». Diminuisce il numero di aziende

e aumenta la quota di fatturato delle prime società del settore, soprattutto di quelle in grado di gestire

l'intero processo logistico dei clienti: grandi player italiani come Italfrance, Number1, Fercam, Codognotto,

Cap Log, o multinazionali estero come Ceva Logistics, Dhl, Xpo Logistic, Stef e Geodis.

Lo studio

Secondo la ricerca dell'Osservatorio Contract Logistics della School of Management del Politecnico di

Milano, realizzata in collaborazione con Assologistica, il fatturato delle società della cosiddetta contract

logistics, termine con cui si indica nel settore l'outsourcing, dovrebbe chiudere l'anno a quota 80 miliardi di

euro, in aumento dell'1,8% rispetto al 2016. Cresce oltretutto la sua incidenza sul totale delle attività

logistiche, a scapito dunque degli investimenti in-house. «L'incremento dei volumi movimentati è legato a

diversi fattori: la ripresa economica in atto nel Paese, l'accelerazione dello sviluppo dell'ecommerce e il

continuo incremento delle vendite all'estero», aggiunge Melacini.

Dall'analisi dell'Osservatorio emerge poi come l'attenzione ai temi della sostenibilità ambientale sia sempre

più diffusa tra gli operatori. «Le nuove tecnologie verdi si vanno via via affermando. Penso ad esempio agli

autoarticolati con i nuovi motori Lng, Liquefied Natural Gas, in grado di ridurre rispetto ai diesel le emissioni

di particolato del 90%, l'emissione di ossidi di azoto del 35% e quella di anidride carbonica del 10-15%.

Sono già più di 200 i camion in circolazione sulle strade italiane che utilizzano questa tecnologia, potendo

contare su una rete di una ventina di stazioni di servizio. E penso anche ai carrelli con batterie agli ioni di

litio, che garantiscono benefici sia economici sia ambientali con una riduzione del 36% dei consumi di

energia», dice ancora.

Altro tema al centro dell' attenzione è la gestione dell'ultimo miglio, in linea con l'evoluzione delle esigenze

dei consumatori dettata dall'affermazione del commercio elettronico. Oggi la consegna a domicilio avviene

principalmente in orario lavorativo dal lunedì al venerdì. Solo il 21% delle società del settore la garantisce la

sera, percentuale che scende all'8% per la consegna domenicale. Il 43% del campione interpellato

dall'Osservatorio Contract Logistics è però consapevole che presto dovrà puntare su queste modalità

alternative. Il 41% ritiene inoltre necessario concentrarsi sulle consegne veloci in giornata, mentre il 27%

punta addirittura a farle nelle grandi città entro due ore. «La collaborazione tra gli attori dell'ecommerce e gli

operatori della logistica si sta sempre più rafforzando - conclude Melacini -. Le realtà del commercio

elettronico hanno infatti deciso di condividere le reti di magazzini per gestire in maniera più sostenibile le

consegne dell'ultimo miglio. Le società della logistica stanno invece ampliando la gamma di servizi offerti al

mercato, investendo ad esempio nella digitalizzazione e proponendosi come fornitori anche di attività

accessorie come ad esempio l'installazione».

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In crescita Il fatturato della logistica conto terzi. Dati in miliardi di euro 2009 71,2 2010 2011 2012 2013

2014 2015 2016 2017* 73,8 76,8 77,3 75,8 77,0 77,5 78,6 80,0 Fonte: Osservatori.net * Stima S.

18/12/2017Pag. 50 N.49 - 18 dicembre 2017

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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 18/12/2017 - 18/12/2017 45

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Agevolazioni. Il regime fiscale e societario di favore punta a sostenere l'aumento delle imprese introdottenel 2012, arrivate a 8.274 Start-up innovative, poker di aiuti Registrazione rapida della società, tutela per perdite, contratti flessibili e fondi agevolati Paola Bonsignore Pierpaolo Ceroli Costituzione semplificata, agevolazioni fiscali e più tempo per ricostituire il capitale in caso di perdite. Sono

alcuni degli incentivi previsti per le startup innovative, introdotte dal decreto "crescita 2.0" (Dl 179/2012),

che nel tempo hanno visto aumentare le normea proprio favore, con l'obiettivo di favorirne la nascita e lo

sviluppo. Le start­up innovative iscritte alla sezione speciale del Registro imprese sono oggi 8.274.

Costituzione semplificata L'articolo 4, comma 10­bis del Dl 3/2015 prevede la possibilità di optare per la

redazione dell'atto costitutivo senza l'intervento di intermediari, adottando un modello standard, in formato

Xml, reperibile e personalizzabile su una piattaforma dedicata del Registro imprese, usando la firma

digitale. Questa procedura consentirà l'immediata registrazione nella sezione speciale del Registro con un

azzeramento dei costi di procedura. Le sturt up innovative beneficeranno dell'esonero dal pagamento dei

diritti di segreteria, dell'imposta di bolloe dei diritti camerali. Niente penalità per le perdite Se le società

conseguono ricavi «non congrui» o hanno una perdita fiscale sistematica, non saranno soggette alle

penalizzazioni fiscali previste per le cosiddette società di comodo, ossia: 1 imputazione di un reddito

minimo e di una base imponibile minima ai fini Irap; 1 utilizzo limitato del credito Iva; 1 applicazione della

maggiorazione Ires del 10,5 per cento. Inoltre, nel caso dovesse essere scelta la forma di Srl, sarà possi­

bile creare categorie di quote dotate di particolari dirittio emettere strumenti finanziari partecipativi, e offrire

al pubblico quote di capitale. Nel caso di perdite che determinano la riduzione del capitale di oltre un terzo,

si potrà procedere alla loro riduzione entro il secondo esercizio successivo (invece del primo come previsto

per la generalità delle imprese). Se da questa riduzione dovesse determinarsi un capitale inferiore al

minimo legale, l'assemblea potrà deliberare il rinvio della decisione alla chiusura dell'esercizio successivo

anziché procedere direttamente all'incremento. Sempre in tema di perdite la legge di bilancio 2017 (legge

232/2016), ai commi 76­80, ha previsto la possibilità per le società neocostituite di cedere, dietro

remunerazione, le proprie perdite alle «società sponsor». Visto di conformità Il limite per la compensazione

del credito Iva senza il visto di conformitàè stato elevato da 15milaa 50mila euro (articolo 4, comma

11­novies del Dl 3/2015). Assunzioni e lavoro È prevista la possibilità di assumere personale con contratti a

tempo determinato della durata di 36 mesi ­ all'interno dei quali i contratti potranno essere anche di breve

durata e rinnovati più volte senza limiti temporali e di rinnovo ­ prorogabili, una sola volta, per un massimo di

altri 12 mesi, portando la durata complessiva del rapporto di lavoro a 48 mesi (il Dlgs 81/2015 , Codice dei

contratti di lavoro, ha ribadito una disciplina di favore che era già stata introdotta dal Dl 179/2012). Inoltre,

nel caso in cui il personale in forza sia superiore a cin­ que unità, non si terrà conto del rapporto tra il

numero dei contratti a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato. Pubblicità È possibile beneficiare,

oltre che della pubblicità ricavabile dall'iscrizione nella sezione speciale del Registro delle imprese, anche

dal #ItalyFrontiers ( http:// startup.registroimprese.it/isin/ home ): si tratta di una piattaforma online in cui le

startup innovative possono creare un profilo pubblico, personalizzabile e in doppia lingua, nel quale

evidenziare i punti di forza con la possibilità di attirare investitori italiani ed esteri alla ricerca di nuove

opportunità ad alto potenziale e imprese tradizionali interessate ad avviare collaborazioni sull'innovazione.

Internazionalizzazione Accesso ai servizi dell'Ice con uno sconto del 30% sui costi standard per avere

assistenza in materia normativa, societaria, fiscale, immobiliare, contrattualistica e creditizia e ospitalità

gratuita presso fiere e manifestazioni internazionali in tema di innovazione (articolo 14 del Dl 98/2011).

Accesso al credito I finanziamenti possono essere reperiti anche tramite: e campagne di equity

crowdfunding; r richieste a venture capitalist o business angel; t il Fondo di garanzia per le piccolee medie

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imprese che facilita l'accesso al credito con la concessione di garanzie sui prestiti bancari, coprendo fino

all'80% di quanto erogato entro un massimo di 2,5 milioni. u Smart&Start Italia, programma di

finanziamento agevolato introdotto dal Dm 24 settembre 2014 per le startup innovative localizzate su tutto il

territorio nazionale: si potrà accederea finanziamenti a favore di progetti che prevedono spese di importo

compreso tra 100 milae 1,5 milioni di euro per beni di investimento e/o per costi di gestione, coperti con

mutuoa tasso zero per il 70% dell'ammontare (elevabile all'80% nel caso di società composte in

maggioranza da donneo da under 35). Procedure concorsuali Le strt­up innovative non sono assoggettate

alla procedura fallimentare, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ma

esclusivamente alla procedura di composizione della crisi da sovra­indebitamento e di liquidazione del

patrimonio.

LA PAROLA CHIAVESocietà sponsor 7 È una società con esercizio sociale coincidente con quello della start­up innovativa in cui

ha una partecipazione almeno pari al 20% dei diritti di voto esercitabili nell'assemblea ordinaria e della

partecipazione agli utili, le cui azioni, o quelle della controllante, sono negoziate in un mercato

regolamentato, o in un sistema multilaterale di negoziazione, di uno Stato dell'Unione europea, o dello

Spazio economico europeo, con cui l'Italia ha siglato un accordo per lo scambio di informazioni. Le quattro

misure in campo 1. COSTITUZIONE SENZA INTERMEDIARI Niente diritti di segreteria e bollo Le start­up

innovative possono redigere l'atto costitutivo senza l'intervento di intermediari, con un modello standard, in

formato Xml, reperibile e personalizzabile su una piattaforma dedicata del Registro imprese, usando la

firma digitale, con immediata registrazione nella sezione speciale del Registro. L'impresa non è tenuta a

versare diritti di segreteria e imposta di bollo 2. STOP ALLE REGOLE PER LE SOCIETÀ DI COMODO

Nessuna maggiorazione Ires Le start­up innovative sono esonerate dalla disciplina delle società di comodo

quindi, in caso di ricavi non congrui,non hanno l'imputazione di un reddito minimo e base imponibile minima

ai fini Irap. Di conseguenza, non sarà applicata la maggiorazione Ires del 10,5% per cento. Per le Srl, sarà

possibile creare categorie di quote dotate di particolari diritti o emettere strumenti finanziari partecipativi e

offrire al pubblico quote di capitale. 3. CONTRATTI FLESSIBILI Rapportoa termine finoa 48 mesi Il

personale della start­up innovativa può essere assunto con contrattia tempo determinato della durata di 36

mesi, prorogabili, una sola volta, per un massimo di altri 12 mesi. Se il personale supera le5 unità, non si

terrà conto del rapporto tra il numero dei contrattia terminee quelli stabili. 4. INCENTIVI AGLI INVESTITORI

Sconti fiscali aumentati dal 2017 8 Dal 2013 al 2016 è prevista una detrazione Irpef del 19% della somma

investita in sturt up innovative (25% in caso di start­up a vocazione sociale o che sviluppano e

commercializzano prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico in ambito energetico), con

ammontare massimo detraibile di 500mila euro, mantenuto per 3 anni. La deduzione Ires è del 20% (27%

per start­up a vocazione sociale) con un massimo di 1.800.000, mantenuto per 3 anni 8 Dal 2017 la

percentuale di detrazione Irpef e deduzione Ires è unica, al 30%, e l'importo massimo detraibile dall'Irpef è

di un milione

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Welfare aziendale anche nelle Pmi FUNZIONA LA PIATTAFORMA MESSA A PUNTO DALLA CONFARTIGIANATO PER LE PICCOLE EPICCOLISSIME IMPRESE: IL SISTEMA COMINCIA A ESSERE USATO ANCHE IN SOCIETÀ CON SOLI10-15 DIPENDENTI Patrizia Capua Roma Il nuovo welfare conquista anche le piccole imprese. Non occorre essere Luxottica o grandi gruppi

con centinaia di dipendenti e accordi aziendali di secondo livello. La svolta ha origine dalle disposizioni del

governo nella finanziaria del 2016 in tema di welfare aziendale, con la detassazione degli incentivi alle

imprese che salgono dal 55 per cento al 90 per cento se erogati in veste di benefit per servizi, sicurezza,

cultura, sostegno alla famiglia, salute anche con assistenza domiciliare. La destinazione può essere

l'abbonamento ai mezzi di trasporto, alla palestra, il doposcuola dei figli, il costo di chi si prende cura degli

anziani, i buoni libri, fino alle visite specialistiche. Una nuova visione, concreta, con la contrattazione dei

voucher e forme diverse di contribuzione, si sta facendo strada anche tra le piccole e piccolissime aziende

con 10-15 dipendenti disseminate negli ottomila Comuni italiani. Realtà produttive che entrano nel circuito

del welfare grazie a un sistema on line chiamato 'Piattaforma a tre cuori', costruita dalla Confartigianato,

l'organizzazione che in Italia conta 550 mila iscritti. "Siamo la prima Confederazione - spiega Mario

Vadrucci, direttore generale dell'Istituto di assistenza e di patronato per l'artigianato e responsabile del

progetto sociale - a muoversi in un campo fino a oggi patrimonio solo della grande industria". Qualsiasi

impresa artigiana e commerciale può inserirsi nella piattaforma hardware e software e usufruire dei servizi.

Per aderire occorre presentare on line il piano welfare dell'azienda. Viene così attivata una sorta di cassa a

disposizione del dipendente il quale sceglie il servizio di cui vuole usufruire. Attraverso la piattaforma si

stipula il contratto, l'azienda si limita a versare i contributi. Il welfare visto come un'industria su cui investire,

che offre un ritorno economico in termini finanziari e di posti di lavoro, e non come un costo da ridurre. Ne è

la prova anche la fotografia scattata dalla ricerca su un campione di 2500 famiglie italiane realizzata da

Andrea Rapaccini, presidente Mbs Consulting. Il 50 per cento del paese è in difficoltà per affrontare le

spese di welfare che già vale il 5 per cento del pil. "Quello che abbiamo imparato dall'indagine - afferma

Rapaccini - è che bisogna ripensare un sistema di welfare che parta dai bisogni delle famiglie e capire su

quali prestazioni ci si debba concentrare. Ci sono comparti del welfare che creano occupazione stabile:

salute, istruzione e benessere. Bisogna trovare meccanismi alternativi tra Stato e mercato, tenendo sotto

controllo le logiche speculative". A guardare i numeri, Confartigianato sta incassando una prima ondata di

risposte positive dalle province. "Abbiamo indicatori dai quali si rileva che nelle piccole aziende il sistema

comincia a funzionare". Si sono già fatte avanti le associazioni di Bergamo, Siracusa, Cesena, Ravenna,

Lecco, Ancona. In lista poi ci sono Bari, Lecce, Foggia, Palermo, Agrigento, Cagliari. La confederazione

degli artigiani si sta autofinanziando e ricorre a partnership per portare avanti il suo programma. Il piano di

welfare è rivolto anche al territorio, "un prodotto unico nel suo genere - sottolinea Vadrucci - con cui è

possibile attivare la promozione di beni artistici o storici, finanziare una squadra di calcio dei bambini,

restaurare la chiesa del paese". Semplice quasi come un acquisto on line. "Il dipendente sa che può

spendere dove vuole e per quel che vuole", sintetizza Davide Riva, titolare dello Scatolificio Lariano di

Valmadrera, vicino Lecco, con 11 addetti e un fatturato di 2,5 milioni -. Si può spaziare dalla retta dell'asilo

al centro benessere: è un metodo molto versatile ed elastico. C'è un'applicazione che si attiva dallo

smartphone, una sorta di bancomat che tieni in tasca. I funzionari di Confartigianato spiegheranno i vari

passaggi. Finalmente riusciamo a dare quel che vogliamo. L'associazione ha lavorato bene e ci ha creduto

fin dall'inizio". Accordo in dirittura di arrivo alla Qcom spa, di Fabio Erri, impresa di Treviglio, in provincia di

Bergamo, che si occupa di servizi di comunicazione elettronica, tlc, mondo digitale e soluzioni hi thec con

70 dipendenti e un fatturato di 7,4 milioni di euro. Cinzia Dalla Torre, responsabile relazioni esterne, dice:

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"Già tutti i premi di risultato del 2017 potranno confluire nella piattaforma del welfare. I nostri dipendenti,

moltissime donne, sono stati piacevolmente sorpresi, hanno capito l'importanza e l'opportunità". FONTE

OSSERVATORIO MBS CONSULTING

667 MILIARDI DI EURO È la spesa complessiva per il welfare nel 2016. Le famiglie hanno speso 109

miliardi mentre lo stato ha stanziato 539 miliardi, pari a quasi l'81 per cento del totale

Foto: Mario Vadrucci (1), Confartigianato Imprese e Andrea Rapaccini (2), presidente Mbs Consulting

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L'AZIENDA Conad, il fatturato cresce del 5% "Salto doppio rispetto al mercato" "ANDIAMO MEGLIO DELL'ITALIA" HA DETTO L'AD FRANCESCO PUGLIESE PRESENTANDO I DATIDEL 2017. E ORA 1.101 MILIONI DI INVESTIMENTI NEI PROSSIMI TRE ANNI. "SPERIAMO CHE ILPROSSIMO GOVERNO AIUTI PMI E GIOVANI" Vito de Ceglia Milano Conad non si ferma. E chiude anche il 2017 con il segno più raggiungendo quota 13,2 miliardi di

euro di fatturato, in crescita del 5% rispetto ai 12 mesi precedenti. Un incremento che doppia quello del

mercato previsto a fine anno in aumento del 2,5% (fonte: Nielsen Trade-Mis - Stime Nielsen su dati AdEx).

A tirare le somme è l'ad Francesco Pugliese, giovedì scorso a Milano, in occasione del tradizionale incontro

pre natalizio in cui il gruppo presenta i risultati di preconsuntivo, le strategie per il 2018 e i dati relativi

all'andamento dei consumi nel 2017. «Andiamo meglio dell'Italia» esordisce l'ad di fronte ai numeri che

l'insegna può vantare: crescita del patrimonio netto, passato a 2,4 miliardi di euro, 180 milioni in più rispetto

al 2016. Aumento della quota di mercato salita al 12,1% (era il 9,5% nel 2006). E leadership rafforzata nel

segmento supermercati a quota al 21%, era il 12,7% nel 2006. (Fonte: Gnlc I° semestre 2017). I numeri di

Conad si inseriscono in un contesto economico in cui l'Italia «inizia a riagganciare la ripresa anche se non

per meriti dei consumi interni», puntualizza l'ad. Consumi che mostrano una crescita a macchia di leopardo,

ma più che altro per «effetto dell'export» con il Sud ancora in fase di stallo. «I consumi dipendono da due

fattori: i soldi e la fiducia che di riflesso sono legati ai temi dell'occupazione e delle aspettative di lavoro

degli italiani. Mi aspetto che il futuro governo, di qualsiasi colore esso sia, metta al centro della sua agenda

politica i giovani e gli investimenti sulle imprese». Nel frattempo, Conad fa la sa parte mettendo sul piatto

un piano strategico triennale (2017-2019) da 1.101 milioni di euro (413 al termine dell'anno in corso, 402

nel 2018 e 286 nel 2019). Si tratta di investimenti finalizzati a nuove aperture e ristrutturazioni di una parte

dei suoi punti vendita che sono in tutto 3.198: 26 Conad Ipermercato, 212 Conad Superstore, 1.095 Conad,

964 Conad City, 481 Margherita Conad, 19 Sapori&Dintorni, 228 discount a insegna Todise e 173 con altre

insegne e cash &carry. Punti di vendita con una produttività a mq che si attesta a 6.140 euro - superiore ai

5.490 della media di mercato - con una dimensione media di 638 mq (fonte: Gnlc I° semestre 2017).

Scendendo nel dettaglio dell'andamento di mercato, Pugliese fa poi notare come «le nicchie di ieri sono

diventate i pilastri di oggi». E il suo pensiero corre a tutto quel mondo che è legato all'area del benessere e

del free from. Anche se l'ad ci tiene subito a puntualizzare: «Ci sono alcuni settori, ad esempio quello senza

glutine, in cui registriamo una crescita dopata: la pasta senza glutine è indispensabile per chi è celiaco, per

tutti gli altri invece è solo una moda perché il gusto di quel tipo di prodotto è qualitativamente inferiore.

Quindi, prima o poi, chi la consuma la abbandonerà». I dati riportati da Conad restituiscono l'immagine di

un retailer importante del Paese: ogni settimana 8,5 milioni di acquirenti non occasionali - una famiglia su

tre - fanno una spesa nei suoi punti di vendita, tanto che il 2017 è l'anno dello "storico" sorpasso sul leader

di mercato per quanto riguarda il parco degli acquirenti (32,8% contro 30% sul totale delle famiglie italiane).

In termini di penetrazione, Conad resta l'insegna più importante in Abruzzo, Calabria, Lazio, Molise, Umbria

e Sardegna. Mentre occupa la 2° posizione in Campania, Emilia-Romagna, Sicilia e Valle d'Aosta e la 3° in

Toscana. Se i risultati sono buoni, un ruolo di primo piano l'hanno avuto i prodotti a marchio. Tutti i brand

del gruppo crescono molto più del mercato: la quota nel Largo consumo confezionato (Lcc) si attesta al

29% contro il 19,5% del valore medio dei supermercati (fonte: Iri, progressivo a ottobre 2017). E questo

nonostante la diminuzione della pressione promozionale, comune a tutto il mercato, anche se l'efficacia di

quella di Conad è risultata più alta rispetto ai competitor: nel 2017 ha generato oltre 715 milioni di euro di

risparmio per i clienti Conad nel solo Lcc (fonte: Iri). In particolare, la spesa alimentare mensile delle

famiglie (441 euro, fonte Istat) ha tratto beneficio dall'operazione nazionale Bassi&Fissi - nel 2017 ha

ribassato in media del 28,8% il prezzo di 421 prodotti rappresentativi delle 80 principali categorie di

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acquisto - generando un risparmio annuo per famiglia di 1.440 euro. Non meno significativo il sostegno a

tante piccole e medie economie locali, fatte di circa 7 mila produttori con i quali Conad e le cooperative

hanno sviluppato quest'anno un giro di affari che rappresenta il 18,6% di quello complessivo del gruppo.

Per quanto riguarda le altre tipologie di vendita, Conad registra nei distributori di carburanti (38) un fatturato

di 390 milioni di euro e uno sconto che, nel periodo 2005-2016, è stato in media di 8,6 centesimi di euro al

litro. Nelle parafarmacie (122) ricavi per 75 milioni di euro e prezzi in media inferiori di oltre il 20% rispetto

alla farmacia tradizionale (fonte: Ims). Nei PetStore (20) un fatturato di 10 milioni di euro e nell'Ottico (19) di

7 milioni, con politiche di sconto tra il 20 e il 50%.

Foto: Qui sopra Francesco Pugliese ad Conad; a destra un momento della conferenza stampa di Conad

all'Arco della Pace a Milano (foto di Alessandro Tosatto)

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L'OPINIONE "Tagliare le spese ottimizzando gli impianti è la strada giusta" "LA BOLLETTA È CARA? PER LE PMI MIGLIORARE LA PRODUTTIVITÀ È LA RICETTA CORRETTA",DICE MATTEO CODAZZZI, AD DI CESI, AZIENDA ITALIANA LEADER MONDIALE IN CONSULENZA ETESTING NEL SETTORE ELETTRICO (v.d.c.) Milano La spesa energetica per le Pmi italiane, che rappresentano il 12% del Pil del nostro Paese, continua

ad essere una zavorra per il loro conto economico perché continuano a pagarla più cara rispetto ai

competitor europei. Qual è la soluzione migliore per ridurre i costi complessivi in bolletta? «Bisogna

sgombrare subito il campo dall'idea che la soluzione possa essere una mera manovra tariffaria così come

giustamente avvenuto per le grandi aziende energivore, maggiormente esposte alla competizione

internazionali» risponde Matteo Codazzi, ad di Cesi, azienda italiana leader mondiale nella consulenza e

nel testing per il settore elettrico. «Spostare oneri e costi accessori dalle Pmi ad altre classi di consumatori,

infatti, non farebbe altro che tirare da un'altra parte una coperta già corta. Il progressivo allineamento dei

prezzi dell'energia al resto della Ue è, invece, una via sicuramente più efficace». Da questo punto di vista,

negli ultimi anni, il prezzo dell'energia italiano si sta allineando a quello francese e tedesco. Questo grazie

sia alla realizzazione di impianti di generazione rinnovabile che al potenziamento delle linee di

interconnessione con i paesi confinanti. «Un allineamento dei prezzi della componente elettrica comunque

da solo non basta, perché incide solo in parte sul costo complessivo in bolletta. La soluzione più efficace,

ma soprattutto più rapida, deve puntare a incrementare la produttività, ottimizzando contemporaneamente

l'utilizzo dell'energia. In questo senso, l'efficienza energetica deve diventare sempre più rapidamente uno

degli strumenti fondamentali nel complesso della politica energetica». Negli ultimi anni, le imprese europee

sembra stiano recependo in modo efficace il concetto di produzione efficiente. Infatti, a fronte di un prezzo

pari quasi al doppio, la Comunità Europea stima che l'impatto del costo dell'energia elettrica sul fatturato di

una impresa comunitaria sia quasi allineato con la sua omologa statunitense (European Competitiveness

Report 2014). In Italia, la maggior parte delle realtà industriali di grandi dimensioni ha maturato ormai una

consapevolezza sul potenziale di risparmio collegato agli interventi di efficientamento dei propri impianti. Un

risultato ottenuto grazie sia a strumenti di incentivazione mirati, i cosiddetti "certificati bianchi", sia al fiorire

di Esco (Energy Service Company): società che realizzano interventi diretti a migliorare l'efficienza

energetica, assumendo su di sé il rischio dell'iniziativa, affrancando così il cliente finale da ogni onere

organizzativo e di gestione nonché, spesso, anche di investimento. Al contrario, lo stesso non si può dire

per le quasi 200 mila Pmi e le oltre 4 milioni di micro imprese italiane. In questo caso la necessità più

urgente, quindi, è quella di stimolare le Pmi verso modalità di produzione più efficienti dal punto di vista

energetico. Un primo passo in questa direzione è l'armonizzazione degli strumenti amministrativi. «Da

iniziative regionali, spesso lodevoli ma ancora non organiche e di piccola dimensione - afferma Codazzi -

oggi bisogna passare a un approccio sistemico che parta dalla promozione e dalla sensibilizzazione sui

temi dell'auditing energetico. Non sono più necessari degli incentivi, come in passato, perché, grazie alla

riduzione dei costi delle nuove tecnologie digitali, gli investimenti si giustificano sempre più da soli. È

importante, invece, mettere in campo adeguati strumenti per facilitare il finanziamento degli interventi,

abbassandone il profilo di rischio e quindi il costo». In tal senso, fa notare l'ad, lo sblocco del Fondo

nazionale per l'efficienza energetica, che garantirebbe 70 milioni di euro all'anno a supporto degli interventi

di efficientamento, dal 2014 fermo in commissione Attività produttive, rappresenta una leva importante.

Anche promuovere e garantire i «contratti di prestazione energetica» ed estendere il perimetro degli

strumenti di supporto all'industria 4.0 è un altro passo necessario. «In altri termini, il problema non è più

tecnologico né di redditività dell'investimento quanto piuttosto di facile e rapido accesso al credito. Non

sbloccare questa situazione è un'opportunità mancata per il sistema Paese che potrebbe da un lato

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conseguire un più rapido abbassamento dei costi energetici per le aziende e dall'altro alimentare una

considerevole e qualificata filiera nazionale nell'efficienza energetica». Oltre agli strumenti legislativi, quello

che emerge già oggi come altrettanto essenziale per le Pmi è la capacità di affrontare il tema dell'efficienza

energetica con un approccio "olistico", considerando reti e connessioni sempre più ampie, che riguardano

l'assetto complessivo di un sistema. «Se prendiamo l'azienda come esempio di sistema, solo con un'analisi

complessiva delle esigenze dei processi e delle misure effettuate - conferma l'ad - è possibile determinare

l'uso ottimale dell'energia, identificare le soluzioni più appropriate e ottenere così un maggiore risparmio. È

il modello ISO 50001 di gestione dell'energia, che vede l'azienda come un sistema interconnesso di

tecnologie, sensori e misure, ma anche di comportamenti. L'esperienza realizzata da Cesi come auditor di

sistemi di gestione ha permesso di misurare l'efficacia di un approccio di questo tipo». Infine, nel prossimo

futuro saranno sempre più i sistemi intelligenti e le soluzioni 4.0 a garantire lo sfruttamento del potenziale di

efficientamento energetico delle aziende. «Questo porterà progressivamente a integrare soluzioni e

investimenti 4.0 con il mondo non solo dell'efficienza energetica ma anche della flessibilità della domanda,

invertendo così il paradigma tradizionale che vuole la generazione inseguire la domanda stessa». FONTE

POLITECNICO MILANO/ ENERGY STRATEGY GROUP S DI MEO

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Banche, in filiale resiste il modello tradizionale di sportello Roxy Tomasicchio La fi nanza diventa sempre più digitale, basti pensare che il 16% degli italiani ha utilizzato servizi Fintech

nel 2017 (soprattutto mobile payment, mobile wallet e strong authentication). Ma i margini di miglioramento

restano. Per esempio, un'area ancora poco esplorata dagli operatori è quella delle soluzioni digitali per le

piccole e medie imprese. E, soprattutto, la maggior parte delle fi liali bancarie resta ancorata a modelli

tradizionali. Stando ai dati dell'Osservatorio Fintech & Digital Finance della School of Management del

Politecnico di Milano, analizzando 50 banche e 15 gruppi bancari, risulta che la fi liale è focalizzata

sull'attività di uno sportello a cui i clienti si rivolgono per qualsiasi tipo di operazione. Nonostante la clientela

sia ben ricettiva sul fronte delle innovazioni. Infatti, un cliente su due (il 56%) si relaziona con la propria

banca utilizzando un pc, un tablet o uno smartphone. Un dato, forse, non ritenuto ancora suffi ciente per il

salto di qualità delle sedi degli istituti di credito. Così, solo una minoranza di banche ha installato chioschi

self-service all'interno di alcune fi liali (generalmente tra il 10 e il 20% della propria rete), che permettono al

cliente di svolgere in autonomia alcune operazioni (per esempio il versamento degli assegni o il pagamento

di F24 e MAV/RAV). Stesso discorso in merito alle funzionalità degli Atm (Macchina distributrice

automatica) presenti all'esterno delle banche. Quasi la totalità degli istituti dispone di un parco Atm

totalmente multifunzione e di una buona quota di questi che permettono anche versamenti di contante e/o

assegni. In particolare, mediamente oltre il 20% degli Atm risultano «evoluti» e accettano versamenti, ma

anche in questo caso con una doppia velocità: ci sono banche che hanno creduto di più in questo

strumento, sfi orando quote anche del 50%, altre meno, con quote di poco sopra il 10%. Invece sono molto

poche le banche che hanno deciso di dedicare degli spazi all'interno delle agenzie per permettere ai clienti

di videochiamare un operatore tramite una postazione attrezzata e svolgere attività legate ai titoli o ai fi

nanziamenti: solo due delle banche intervistate dispongono di questa possibilità e solo un altro paio di

istituti lo sta testando. Passando ai canali di comunicazione più digitali (Pc, smartphone e tablet) è evidente

come questi siano ormai canali portanti della strategia retail: mediamente il 38% dei clienti della banca è un

utente attivo tramite Pc (+5%), con istituti che superano anche il 47% dei clienti. Tramite computer si

eseguono in media circa 14 operazioni dispositive all'anno, (con punte di 30 disposizioni). Meno diffuso,

almeno per ora, il canale mobile (smartphone e tablet), ma le potenzialità di crescita non mancano. In

media, il 15% dei clienti delle banche intervistate è un utente attivo da smartphone o tablet (+9%). Chi ha

puntato fortemente sul digitale, impostando fin da subito una relazione multicanale con i propri clienti, arriva

a punte del 28-30% di base utenti attiva da mobile. Ogni utente, nel 2017, ha eseguito mediamente 6

operazioni all'anno, con punte di 9 operazioni. Ancora agli albori, infi ne, l'offerta di servizi di Robo Advisor:

sono pochi i casi e alcune piccole banche si appoggiano a servizi offerti da terzi

Foto: I canali

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INTERVISTA Regioni 4.0 Emilia Romagna UNA LOCOMOTIVA PER L'ITALIA Con l'obiettivo della piena occupazione, la Regione si propone a modello nazionale per l'innovazione e laformazione STEFANO CATELLANI Negli anni 80 è stata la punta della freccia con Lanfranco Turci governatore, poi, negli anni 90, la

locomotiva del Nord con Pierluigi Bersani ed è diventata l'eccellenza europea nel primo decennio 2000 con

Vasco Errani. Stefano Bonaccini è l'erede del sistema Emilia Romagna, intreccio virtuoso tra pubblico e

privato, genialità imprenditoriale e saper fare delle persone che ogni giorno fanno funzionare, crescere e

portano nel mondo meccanica, food, piastrelle, abbigliamento, tecnologie e un know how unico. D. Come

difendere tutto questo nell'era della competitività globale? R. Facendo migliaia e migliaia di chilometri lungo

la via Emilia e in ogni angolo del pianeta dove si presentano opportunità di sviluppo, dalla Silicon Valley alla

Cina. D. Fuor di metafora, come si posiziona oggi la regione nel contesto europeo? R. Siamo un territorio

sempre più competitivo, che ha saputo crescere e riposizionarsi a livello internazionale grazie a modelli

innovativi, come quello dei distretti, a politiche convergenti come il Patto per il lavoro, e ad interventi per

valorizzare il sistema scientifi co, fi ore all'occhiello di questa regione, senza dimenticare azioni per favorire

l'inclusione e la coesione sociale. D. In concreto? R. La conferma del fatto che l'Emilia-Romagna è una

terra veramente attrattiva per imprese, studenti e turisti è nei Cinquanta anni, modenese, due figlie, è

presidente della Regione Emilia-Romagna dal 23 novembre 2014 e, da dicembre 2015, della Conferenza

delle Regioni e delle Province autonome. Dal 1999 al 2006 è stato assessore al Comune di Modena con

delega ai Lavori pubblici, patrimonio e centro storico e in precedenza ha ricoperto il ruolo di assessore alle

Politiche giovanili, cultura, sport e tempo libero nel Comune di Campogalliano. È stato segretario del Partito

democratico a livello regionale dall'ottobre del 2009 al maggio 2015 ed ha fatto parte della Segreteria

nazionale del Pd con delega agli Enti Locali. Il 2 novembre scorso ha ricevuto all'Harvard Club di New York,

il premio «2017 Leadership Excellence», per il contributo dato nel portare l'Emilia-Romagna fuori dagli anni

della crisi economica e finanziaria. (continua a pag. 53) (segue da pag. 51) numeri. Molte imprese, anche

multinazionali, fanno qui investimenti che avrebbero potuto fare in altre parti d'Europa o del mondo. D. I

motivi di queste scelte? R. La disponibilità di capitale umano, di infrastrutture e anche per la velocità delle

risposte sulle procedure amministrative e l'impegno nel sostenere gli investimenti proposti. D. Un esempio?

R. Nei giorni scorsi a Sant'Agata Bolognese è stato presentato il nuovo Suv Urus di Lamborghini, che verrà

prodotto qui con un investimento per l'intero sito produttivo di circa un miliardo di euro e assicurerà oltre

500 nuove assunzioni di cui 110 laureati. È la conclusione di un percorso incominciato nel maggio 2015 e

sostenuto dalla Regione con 8,2 milioni di euro. D. Sul fronte dell'innovazione dell'Industria 4.0 che cosa

state facendo? R. Con un primo bando regionale del 2016 sono stati fi nanziati 13 progetti, in corso di

realizzazione. Tra questi oltre a quello della Lamborghini fi gurano quelli di Ducati Motor, Yoox, Teko

Telecom, Avl Italia, B.Braun Avitum Italy, Hpe e Ima. L'investimento complessivo previsto è di 126 milioni di

euro, di cui circa 41 milioni di finanziamento pubblico, e porta con sé circa 1.200 nuovi posti di lavoro a cui

si aggiungono alcune centinaia della Philip Morris per il nuovo stabilimento ad Anzola. D. Quest'anno non

avete fatto bandi? R. All'inizio di questo mese si è chiusa la prima parte del secondo bando regionale sulla

attrattività di investimenti. Sono stati ammessi 6 progetti in settori di industria 4.0: big data for industry,

internet of things, intelligenza artifi ciale, realtà virtuale e aumentata. D. Chi è stato ammesso? R. Ibm Italia,

la californiana Eon Reality, Aetna Group di Verucchio, nel riminese, la Bucci Automations di Faenza, la

Sacmi di Imola e la Energy Way di Modena. Hanno proposto piani di sviluppo strategici nell'economia

regionale che complessivamente prevedono investimenti superiori a 40 milioni di euro, con la creazione di

nuovi posti di lavoro, ai quali si affi ancheranno cofi nanziamenti da parte della Regione sui singoli progetti.

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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 18/12/2017 - 18/12/2017 55

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D. È tutto? R. È in programma un accordo per lo sviluppo sottoscritto da Regione, dal ministero dello

Sviluppo, Invitalia e il gruppo Yoox-Net-A-Porter, leader nell'e-commerce del lusso, il cui progetto riguarda i

siti di Interporto (Bentivoglio) e Zola Predosa, in provincia di Bologna. Prevediamo investimenti per oltre

210 milioni di euro e 500 nuovi occupati entro la fi ne del 2020. D. Quali risultati avete ottenuto sul fronte

dell'occupazione? R. La nostra ossessione è il lavoro. L'obiettivo del mio mandato è di raggiungere la piena

occupazione, partendo da una disoccupazione al 9%. Di questo passo il risultato è alla portata. D. Che

cosa glielo fa pensare? R. Il trend positivo si sta rafforzando anche grazie al Patto per il Lavoro con le forze

socio-economiche dell'EmiliaRomagna unito alle politiche messe in campo. D. Quali sono i numeri? R. Il

tasso di disoccupazione in regione era al 6,4% a metà di quest'anno, con un progresso dell' 1% rispetto a

un anno prima. Nei secondi tre mesi di quest'anno, gli occupati regionali erano oltre 65 mila in più (+3,4%)

rispetto al medesimo periodo 2015. Il tasso di occupazione nella fascia d'età 15-64 anni è al 69,1%, più alto

sia rispetto alla media Italiana (58,1%) che a quella del Nord Est del Paese (67,6%). Si tratta del valore più

elevato tra tutte le regioni, ad eccezione del Trentino Alto Adige (69,9%). Il tasso di attività regionale, che

misura il livello di partecipazione dell'intera popolazione al mercato del lavoro, è pari al 73,6%, il migliore tra

tutte le regioni italiane: la componente maschile è al 79,8%, mentre quella femminile è al 67,4%, la più alta

a livello nazionale. D. Il segreto? R. Investire in formazione e conoscenza, ricerca e innovazione: solo così

si può competere nel mondo. D. Come avete operato? R. Programmando in modo integrato le risorse dei

Fondi strutturali europei per realizzare, insieme a università, enti di ricerca e imprese, progetti specifici per

creare nuova e migliore occupazione e sostenere lo sviluppo. Abbiamo scelto di investire nella ricerca delle

risorse umane per la specializzazione intelligente e per l'economia digitale. Poi abbiamo previsto dottorati e

borse di studio per progetti di ricerca applicata, spin-off, master universitari e corsi di perfezionamento. D.

Un esempio di queste sinergie? R. Muner, due lauree inter-ateneo sulla tecnologia dell'automobile

fortemente volute dalla Regione e realizzate con le Università di Parma, Modena-Reggio, Bologna e

Ferrara e la partecipazione di Lamborghini, Dallara, Ducati, Ferrari, Haas F1 Team, HPE Coxa, Magneti

Marelli, Maserati e Toro Rosso. D. Come funziona? R. Le imprese defi niscono le competenze che

serviranno in futuro e contribuiscono con i propri tecnici per gli insegnamenti, le Università mettono a

disposizione i docenti. Con l'obiettivo di attrarre in Emilia-Romagna i migliori studenti universitari del

mondo, da formare e inserire nelle aziende come ingegneri progettisti del futuro. D. Come si è integrata

quest'attività con la rete dei tecnopoli su cui avete investito molte risorse? R. Nei 10 tecnopoli regionali,

dislocati in 20 sedi e fi nanziati con risorse europee, si è creato un circolo virtuoso che salda ricerca,

innovazione, Università con le imprese del territorio. Ai tecnopoli si sono poi affi ancati 83 incubatori e

strutture a supporto della creazione di impresa, 22 fablab, 10 laboratori aperti, 7 Clust-ER tematici nonché

spazi di coworking e percorsi di incubazione. È un patrimonio unico che ci permette di essere già nel futuro.

D. E sul fronte dell'internazionalizzazione, qual è il bilancio? R. Abbiamo in corso consolidate attività di

collaborazioneggi con la provincia cinese del Guangdong, quella sudafricana del Gauteng, gli Stati della

California e di New York, il land tedesco dell'Assia, che riguardano progetti comuni nel campo della ricerca

scientifi ca, dell'alta formazione universitaria, dello sviluppo sostenibile. Questi temi saranno al centro del

meeting "Rinascimento industriale e Industria 4.0" che stiamo organizzando per ottobre 2018 a Bologna

con i nostri partner internazionali. D. Sul fronte delle risorse manca il check up al turismo. Come sta

andando? R. Il valore aggiunto, oltre 16 miliardi di euro, è 12% del Pil regionale. Il 2017 registrerà un nuovo

record di presenze, circa 55 milioni, ben 10 milioni in più rispetto a soli tre anni fa. È il risultato della

valorizzazione dei territori compiuta con la nuova legge regionale che fa leva su brand conosciuti ad

apprezzati in tutto il mondo, Motor Valley, Food Valley e Wellness Valley. D. E Fico come si inserisce? R.

Non poteva che nascere qui, siamo la Regione con il maggior numero di eccellenze agroalimentari tutelate

al mondo, 44 tra Dop e Igp. D. Che cosa si aspetta dalla trattativa avviata con il Governo, insieme alla

Lombardia, per avere maggiore autonomia? R. Abbiamo defi nito 12 competenze di cui chiediamo la

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gestione diretta. Riguardano i rapporti internazionali e con l'Unione Europea delle Regioni, la tutela e

sicurezza del lavoro, l'istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche, il commercio con l'estero, la

ricerca scientifi ca e tecnologica e il sostegno all'innovazione per i settori produttivi, il governo del territorio,

la protezione civile, il coordinamento della fi nanza pubblica e del sistema tributario, la tutela della salute, le

norme generali sull'istruzione, la tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali, l'organizzazione

della giustizia di pace. D. Aspettative? R. Il Governo sta dimostrando grande disponibilità al dialogo,

l'obiettivo è quello di raggiungere un'intesa con l'esecutivo prima della fi ne della legislatura, a gennaio. Una

doppia lettura parlamentare adesso non sarebbe possibile. Ma il futuro Parlamento farebbe fatica a non

concedere autonomia a fronte di un'intesa raggiunta tra Governo e Regione.

FLASH SULLA CONGIUNTURA

4%

l'aumento della produzione nel settore meccanico ed elettromeccanico

5,5%

l'aumento delle compravendite immobiliare, contro il +20% del 2016

9,2%

l'aumento degli incassi da turismo nei primi sette mesi, rispetto al 2016

6,4

l'aumento delle esportazioni, inferiore alla media nazionale

3%

la riduzione dei prestiti bancari alle piccole imprese, aumentati alle grandi

1,9%

tasso medio in regione per i prestiti a medio e lungo termine alle imprese

l'aumento degli occupati

1,4%

l'aumento del credito al consumo

8,8%

15,3%

l'aumento dei depositi in conto corrente da parte delle imprese

Fonte: Banca d'Italia, novembre 2017. I dati si riferiscono al primo semestre di quest'anno, se non altrimenti

specificato

Foto: Stefano Bonaccini

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Regioni 4.0 Emilia Romagna LA MECCANICA DELLA RIPRESA Gli investimenti alimentano le previsioni di un buon 2018 STEFANO CATELLANI «La ripresa che stiamo vivendo è la base di lancio per una crescita strutturale e diffusa. Si stanno

rafforzando fiducia, domanda e investimenti. Migliora l'occupazione». Pietro Ferrari, da luglio presidente

della Confindustria regionale, nonché proprietario e numero uno dell'impresa omonima, Ing. Ferrari, di

progettazioni e impiantistica, non ha dubbi sulla direzione del trend congiunturale. A confortarlo sono i dati

dell'indagine congiunturale relativa al secondo trimestre 2017 sull'industria manifatturiera, realizzata in

collaborazione tra Unioncamere Emilia-Romagna, Confindustria Emilia-Romagna e Intesa Sanpaolo. Quasi

tutti i settori stanno traendo beneficio dal ciclo economico positivo. La produzione in volume delle piccole e

medie imprese dell'industria manifatturiera regionale è cresciuta del 3,1% rispetto allo stesso periodo del

2016, con una buona accelerazione rispetto ai tre mesi precedenti. Lo stesso messaggio arriva dal rapporto

congiunturale di Bankitalia rilasciato in novembre. «Nel nostro sondaggio periodico, oltre la metà delle

imprese ha segnalato un aumento di fatturato nei primi tre trimestri dell'anno, il dato è migliore di circa 10

punti percentuali rispetto a quello dell'Italia», hanno scritto gli analisti della Banca centrale, «e le attese

sono positive: quasi la metà delle imprese prevede un aumento degli ordini nei prossimi sei mesi, a fronte

del 4,5% che prevede una diminuzione». Le industrie meccaniche, elettriche e dei mezzi di trasporto,

tradizionale blocco manifatturiero lungo la via Emilia da Piacenza a Bologna, guidano l'espansione, che non

tocca per ora l'industria del legno e del mobile. L'ulteriore nota positiva è che la crescita si sta diffondendo

alle medie imprese e appare assai meno marcata la correlazione positiva tra andamento

congiuntu(continua a pag. 57) (segue da pag. 55) rale e dimensione d'impresa, nonostante questa rimanga

un fattore strategicamente rilevante. Con una notevole accelerazione, l'aumento della produzione delle

piccole imprese (+3,4 %) ha superato quello medio dell'industria regionale. Il fatturato ha ricalcato la

produzione. Nel secondo trimestre 2017 è stata registrata una crescita del 3,6 % rispetto all'analogo

periodo 2016, in accelerazione rispetto ai tre mesi precedenti (+2,8 %). E' l'incremento più elevato dal

quarto trimestre 2010. L'andamento del fatturato estero ha mostrato un'analoga tendenza espansiva con un

incremento (continua a pag. 61) (segue da pag. 57) tendenziale del 3,5 %. Alla crescita del fatturato e della

produzione si è associato un andamento positivo del processo di acquisizione degli ordini, che ha mostrato

un aumento tendenziale del 2,9 %, inferiore a quello del fatturato, traendo beneficio sia dal mercato estero,

sia da quello interno. Si tratta del risultato migliore dal secondo trimestre del 2011. Il grado di utilizzo degli

impianti si è attestato a 78,5 %, in aumento rispetto al livello del 76,1 % riferito allo stesso trimestre

dell'anno precedente. Uniforme l'andamento settoriale. A fare da traino l'industria metallurgica che ha

registrato il secondo più elevato aumento della produzione (+2,7 %) e una forte crescita del fatturato

complessivo, sostenuta dall'accelerazione della dinamica sull'estero. Anche il sistema moda sta

contribuendo alla ripresa. Sia in Romagna che nell'area Carpi-Bologna si è lasciato alle spalle diversi

trimestri di recessione e vede il fatturato complessivo salire dell'1,8 %, trainato dal mercato estero. La

produzione registra il più forte aumento dall'inizio della rilevazione (+2,4 %), avvicinato solo in passato da

quello rilevato nel primo trimestre del lontano 2006. L'industria alimentare ha ottenuto una forte crescita del

(continua a pag. 63) (segue da pag. 61) fatturato (+2,7%), trainata soprattutto dal mercato interno, mentre

l'incremento delle vendite all'estero è stato più contenuto. La produzione ha messo a segno un aumento più

contenuto e pari al 2,0 %, con un rallentamento sul trimestre precedente. Sulla base del Registro delle

imprese, quelle attive dell'industria in senso stretto regionale, a fine giugno risultavano 45.375 (pari

all'11,2% del totale della regione), con una diminuzione corrispondente a 769 imprese (-1,7%), rispetto allo

stesso mese dello scorso anno. L'occupazione complessiva in Regione segna un +0,4%. Il mercato del

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lavoro continua a mostrare segnali di miglioramento: circa un'impresa su 5 si attende un aumento

dell'occupazione. Non mancano alcuni campanelli di crisi legati a scelte di alcune multinazionali e di

aziende locali, ma rimangono intatti i dati legati alla crescita dei posti di lavoro, specialmente quelli di alto

profilo legati a investimenti in arrivo dall'estero e di quelli «autoctoni» frutto delle scelte di imprese

emilianoromagnole e italiane. Il trend dell'export In base ai dati Istat relativi al commercio estero regionale,

nel secondo trimestre dell'anno, le esportazioni di prodotti dell'industria manifatturiera, 14,9 miliardi di euro,

hanno fatto segnare un buon aumento (+4,2 %). L'andamento riflette la capacità di cogliere risultati positivi

sui mercati europei (+5,6% pari al 65,2% del totale) e su quelli asiatici (+5,9%, che assorbono il 14,9%).

Nell'Unione europea, la Germania ha continuato a tirare bene (+6,1%) superando gli incrementi del

mercato francese (+3,7%) e spagnolo (+4,9%), mentre il trend verso il Regno Unito è piatto. Fuori dalla Ue,

hanno fatto un balzo forte (+22,4%) le esportazioni verso la Russia, mentre è tornato il segno rosso in

Turchia (-5,7%). Riguardo all'Asia, la crescita dei flussi ha rallentato verso la Cina (+6,8%) e ancora di più

(+3,5%) verso i mercati americani, in particolare sul fondamentale mercato statunitense (+1,3%). Infine, si

conferma la nuova tendenza positiva delle esportazioni regionali verso l'Oceania, mentre arretrano

ampiamente quelle verso l'Africa. Per quanto riguarda i prodotti, la crescita si è di nuovo concentrata in

alcuni settori anche se il segno positivo ha prevalso quasi ovunque, con l'unica eccezione dell'industria

della moda. In termini di contributo si segnala in positivo soprattutto l'aumento superiore alla media delle

vendite estere di macchinari e apparecchiature meccaniche (+4,7%). A seguire, i prodotti della metallurgia

e dei prodotti in metallo, la sub fornitura regionale (+10,2%). Quindi, apparecchiature elettriche,

elettroniche, ottiche, medicali e di misura (+9,7%). Infine, industria alimentare e delle bevande (+8,5%), poi

chimica, farmaceutica e delle materie plastiche (+3,7%). Quasi al palo le esportazioni per mezzi di

trasporto, industria del legno e del mobile e ceramica, nel distretto di Sassuolo, e vetro. La lunga fase

negativa delle costruzioni non si è ancora conclusa. È proseguito il recupero delle compravendite di

abitazioni, ma è stato ancora insufficiente a sospingere l'attività produttiva del settore e i prezzi, anche a

causa degli immobili invenduti accumulatisi negli ultimi anni. L'attività economica nei servizi ha mostrato

segnali di miglioramento, trainata dal buon andamento del turismo e dei trasporti. «La nostra più recente

indagine sulle previsioni per la fine del 2017 conferma un clima di fiducia positivo, che prospetta un

consolidamento della congiuntura economica,» ha assicurato Ferrari, «i nostri dati confermano che le scelte

di politica industriale a livello nazionale e regionale degli ultimi due anni, proposte e sollecitate da

Confindustria stanno dando risultati positivi grazie all'impegno di tutti gli attori del sistema, a partire dalle

imprese». Secondo Ferrari sono stati e sono di particolare rilievo gli investimenti stimolati dalle misure

legate all'iper e super ammortamento, consentiti dalla normativa Industria 4.0, la diffusione dei progetti di

ricerca e innovazione e quelli rivolti ad ampliare i mercati di sbocco. «Occorre ora confermare la logica e i

principi ispiratori di questo pacchetto garantendone la continuità nel tempo e nei meccanismi applicativi.

Per quanto riguarda l'Emilia-Romagna è necessario rafforzare in particolare gli strumenti destinati agli

investimenti, all'internazionalizzazione delle imprese e allo sviluppo delle risorse umane, caratterizzando in

questo senso le scelte del bilancio previsionale 2018», ha concluso.

PMI, LE TOP 5 IN REGIONERank 1 2 3 4 5 Rating 9,18 8,64 8,36 8,32 8,23 Società Grasselli spa M.T.S. Srl Gamma Arredamenti

International spa Dolciaria Val D'Enza spa Pagani Automobili spa Prov. RE PC FO RE MO Ebitda Margin

% 36,236 19,585 14,232 15,598 21,363Rank 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23

24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 Rating 9,18 8,64 8,36

8,32 8,23 8,21 8,21 7,94 7,85 7,79 7,79 7,79 7,79 7,77 7,75 7,65 7,55 7,47 7,46 7,44 7,36 7,22 7,20 7,16

7,14 7,07 7,06 7,05 7,05 7,02 6,93 6,93 6,92 6,85 6,82 6,81 6,80 6,75 6,73 6,73 6,73 6,70 6,70 6,70 6,70

6,69 6,65 6,62 6,58 6,56 Società Grasselli spa M.T.S. Srl Gamma Arredamenti International spa Dolciaria

Val D'Enza spa Pagani Automobili spa Guaresi spa Sinfo One spa Farmo Res srl Verde 1999 srl Vem

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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 18/12/2017 - 18/12/2017 59

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Sistemi spa Italpizza srl La Galvanina - spa Gandolfi International Trading srl Fiap Lavorazione Materie

Plastiche srl Vercos Frigo srl Novomatic Italia spa Optima srl Voith Turbo srl Zanasi 2 srl Nuovamacut

Automazione spa General Noli Spedizioni Internazionali spa Simpes Faip spa Proteo Engineering srl Casa

Piocheur Italy srl Elettrica 77 Automation srl Track One srl Olmedo Special Vehicles spa Ceramiche Caesar

spa Ceramica Artistica Due spa Bertoli srl Duna-Corradini spa S.T.I. Solfotecnica Italiana spa S.A.F. srl

Archimede spa Best Motor srl Triballat Italia S.R.L Alce Nero spa Vulca ex Spa Dado Ceramica srl Bema -

srl Graf Synergy srl C.F.R. - srl Offi cina C.M.C. - srl Baule Volante srl Aavid Thermalloy srl Terminal Nord

spa Opocrin spa 3F Filippi spa Bt Enia Telecomunicazioni spa Compagnia Generale Macchine spa LE 50

MIGLIORI PMI

LE 50 MIGLIORI PMI Prov. RE PC FO RE MO FE PR RA MO FO MO RN PR PC RE RN RN RE MO RE

MO RE MO BO RE MO RE MO MO PR MO RA RN RE MO PR BO RA BO RE MO MO RE BO BO RA MO

BO PR BO Ebitda Margin % 36,236 26.099,7 19,585 20.526,2 14,232 18.022,7 15,598 14.431,4 21,363

41.952,9 26,820 19.835,9 17,358 12.962,9 9,944 17,170 15.670,2 17,435 36.456,7 15,773 87.136,8 15,952

47.259,9 4,604 14,712 15.878,2 9,430 16,373 63.545,8 22,642 93.578,0 16,645 19.632,6 45,226 13.080,1

8,517 5,500 5,708 6,300 12,593 44.401,9 26,722 13.295,3 8,879 13,105 26.782,3 17,286 153.832,5 19,728

23.657,3 20,481 12.716,2 17,581 42.711,6 29,737 36.484,0 10,189 15.049,3 2,867 29,423 18.182,1 2,226

2,463 3,802 9,491 5,017 7,422 7,721 Fatturato 2015 16.099,8 31.039,0 20.877,2 22.434,5 46.456,1

40.683,0 16.866,3 18.044,4 36.543,1 24.545,3 60.799,9 14,663 92.332,9 19.733,9 15,691 24.350,3

24.557,8 33,060 16.910,5 20,017 15.701,6 11,028 40.219,1 17.108,4 11,865 11.677,9 26,554 62.233,3

46.085,3 24,573 31.689,7 20.050,5 Var. % 61,3 69,2 23,6 30,4 30,7 60,1 29,1 43,8 22,6 28,4 15,9 23,4

175,6 25,2 49,0 35,9 11,7 21,5 29,2 20,2 38,7 73,0 52,8 39,0 15,4 30,9 113,5 15,1 22,4 13,1 18,5 15,6 16,4

29,2 16,0 26,2 16,6 14,2 43,3 17,6 32,6 14,2 12,4 24,4 13,9 13,8 11,2 13,0 15,1 21,1 Ebitda 2015 9.457,4

4.020,2 2.564,9 2.251,0 8.962,5 5.320,0 2.250,1 1.600,9 2.690,6 6.356,2 13.744,2 7.539,1 1.429,2 2.336,0

1.968,7 10.404,1 21.188,0 3.267,8 5.915,6 1.910,7 2.555,3 2.322,1 1.062,6 5.591,5 3.552,7 1.602,2

3.509,8 26.591,4 4.667,1 2.604,4 7.509,0 10.849,4 1.533,4 1.047,8 5.349,8 546,4 1.497,8 13.538,4 750,3

3.820,7 2.330,8 5.590,7 3.143,0 4.435,3 858,4 1.385,6 16.525,7 3.420,4 7.787,2 1.548,1 Var. % 133,1 83,8

146,2 608,9 169,6 63,5 77,7 156,0 123,3 53,3 88,4 138,4 362,5 66,8 186,6 6,7 38,3 76,6 48,5 120,8 457,2

113,3 118,9 56,3 31,5 113,7 248,3 44,0 67,2 39,2 63,2 30,7 65,1 296,2 15,5 368,3 190,2 64,0 77,6 389,6

102,2 34,5 57,5 37,8 250,3 79,6 38,9 300,9 18,0 114,1 Utile netto 2015 6.606,9 2.715,2 1.839,8 612,5

5.829,1 3.525,2 1.369,8 861,2 1.481,1 3.653,0 9.355,7 3.218,7 902,9 1.428,6 985,4 5.635,0 2.252,6

3.738,9 1.633,1 2.237,7 1.395,9 494,0 1.460,0 2.312,1 844,1 2.581,8 18.511,2 1.728,6 1.602,3 5.577,1

6.621,6 946,7 924,5 3.722,6 144,1 1.009,8 2.132,5 1.800,0 1.016,8 1.182,0 3.816,7 2.165,4 2.717,4 696,8

984,9 8.985,2 2.745,0 3.207,7 256,9 Var. % 152,7 -5.099,9 79,65 85,3 212,6 557,0 38,6 -23.700,2 209,63

88,0 111,9 -1.596,4 47,12 231,7 182,7 73,5 119,7 -1.421,3 182,86 520,3 12.700,3 -14,70 315,9 91,1 553,6

92,7 62,3 637,1 96,2 189,1 40,0 65,0 350,6 337,1 157,4 52,3 25,1 110,9 379,1 226,9 105,9 40,0 190,9 37,1

33,2 315,4 Indeb. Fin. Netto 2015 -1.047,1 584,18 -556,2 1.728,5 -40,44 -2.638,7 -26,52 -37,5 780,1 -524,9

-8,7 -106,1 -521,0 220,2 -1.479,4 3.206,6 9.180,3 -994,0 1.543,7 Var. % 138,61 -54,24 -68,01 -2.313,0

37,17 168,43 -6.607,6 87,56 3.297,9 -17,85 11.280,7 101,2 -25.143,0 390,55 260,3 -11.202,0 128,24 -

33,47 3.331,1 -29,30 -64,17 142,66 138,9 -3.164,0 -31,77 -79,06 -8,24 -1.494,7 58,22 -2,01 1.837,7 389,01

68,6 -41.755,7 64,45 14,99 -2.382,3 629,09 -9.473,3 17,80 44,3 -12.461,4 11,39 104,5 -2.959,4 18,70

401,58 20,9 -10.091,7 184,67 517,8 -1.046,4 31,89 748,3 -1.933,1 813,17 348,3 25.937,7 -15,75 291,4 -

1.089,0 -43,37 4.871,5 102,70 23,51 38,1 -11.481,6 11,58 911,3 -663,7 -700,1 -488,7 6.623,9 -42,93 29,77

723,20 104,3 -2.029,4 -12,67 106,03 222,7 -21.115,6 -15,98 -6.043,3 51,78 -4,26 Fonte: MF Database, dati

in migliaia di euro al 31/12/2015 - Le aziende sono state selezionate tra quelle con un fatturato compreso

tra 10 e 250 milioni di euro nel 2015, con un ebitda positivo e una crescita del fatturato superiore al 10%

sull'anno precedente. Il rating è funzione dei dati riportati in tabella e delle loro variazioni percentuali

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Foto: Uno dei grandi mercati (in alto) aperti a Fico Eataly World aperto dal 15 novembre scorso alla

periferia di Bologna. Qui sopra, a sinistra, un tecnico al lavoro su una delle macchine supertecnologiche

della Grasselli, la pmi più performante della classifica di MF. A destra, una blisteratrice alla Ima di Ozzano,

provincia di Bologna, forse l'azienda più avanti in regione sul programma industria 4.0

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Le imprese ibride/ 1 La metamorfosi in atto dopo la riforma del terzo settore BRUNO PAGAMICI La riforma del terzo settore ha contribuito a introdurre nuovi modelli per l'impresa e per fare impresa. Oggi

si assiste a una metamorfosi per cui la struttura giuridica degli enti «non profit» sta sempre più evolvendo

verso lo schema civilistico tipico delle società di capitali, mentre sul fronte del «for profit» i «tradizionali»

modelli imprenditoriali, per poter competere, evolvono sempre più spesso verso il social business. Da un

lato imprese sociali, società benefit, cooperative sociali, benefit corporation e aziende che sempre più

diffusamente adottano il modello della responsabilità sociale, sono rappresentative di imprese ibride in

quanto a cavallo tra «profit» e «non profit». Dall'altro, anche le imprese «for profit» per differenziarsi sui

mercati stanno scoprendo strumenti che vengono dal mondo dell'impresa sociale (certificazioni etiche,

bilancio ambientale, rapporti con il territorio ecc.). Sul fronte del «non profit», in cui la solidarietà tipica di

questo comparto si confronta sempre più con il mercato e i suoi principi di efficacia ed efficienza, il modello

dell'impresa ibrida sta accompagnando la metamorfosi dell'impresa sociale nel processo innovativo

finalizzato ad attuare l'integrazione tra le logiche imprenditoriali di business e le modalità di intervento per il

raggiungimento della mission sociale, come peraltro previsto anche dalla riforma del terzo settore (dlgs

112/2017 e dlgs 117/2017). In tale contesto, se il «non profit» sta compiendo il salto imprenditoriale,

discorso uguale e contrario sta verificandosi al mondo del «for profit»: le imprese «tradizionali», per

esigenze competitive, di immagine, ma anche di razionalità economica, si stanno sempre più avvicinando a

un modello di impresa sempre più socialmente responsabile (percorso descrivibile anche come «uscita

dall'autoreferenzialità»). Si assiste così alla trasformazione delle imprese classiche, tradizionalmente

orientate alla produzione di beni e servizi per il conseguimento di un profitto, in imprese ibride, contagiate

dalle nuove sollecitazioni economiche, sociali e ambientali. L'impresa ibrida. Di fronte alla rivisitazione dei

tradizionali modelli di business fondati sul raggiungimento del profitto a ogni costo e sulla prevalenza di

logiche di breve periodo, l'evoluzione di alcune delle economie occidentali ha avuto come effetto

l'allargamento dello spettro di azione dell'azienda privata, includendovi soggetti aventi obiettivi

principalmente di natura sociale, il cui concetto d'impresa non è più inconciliabile con il business. Il

fenomeno è riconducibile al modello dell'impresa ibrida che negli ultimi anni, sia a causa della crisi

economica, sia per il riposizionamento delle aziende «non profit» in nuove aree di intervento, sia in seguito

alla comparsa nello scenario nazionale e internazionale di nuovi modelli d'impresa, è stata oggetto di una

metamorfosi che ha determinato la nascita di un modello evoluto d'impresa, classificabile come la «nuova»

impresa ibrida o impresa ibrida di «seconda generazione». Nella realtà economica e sociale sono infatti

sempre più numerosi gli esempi di: - forme di impresa che con molteplici modalità e diversi gradi di

intensità, affiancano attività di natura commerciale ad altre di natura sociale, realizzando così un processo

di convergenza (o convergence) dei soggetti «for profit» verso la sfera «non profit»; oppure, viceversa, -

imprese che assumono mission sociali ma producono al contempo un reddito da attività commerciale per

poter perseguire le proprie finalità: in questo caso siamo di fronte a un processo di ibridazione di soggetti

«non profit» verso la sfera «for profit». Tali processi di convergenza e di ibridazione testimoniano che i

sistemi imprenditoriali stanno evolvendo, e questo fenomeno impone necessariamente il ripensamento dei

modelli operativi delle imprese. I soggetti interessati da tali processi, generano una dinamica che

inevitabilmente conduce a un cambio di paradigma. Prova ne è che sia le imprese tradizionali «for profit»,

sia le organizzazioni «non profit», stanno migrando verso nuovi modelli di business «ibridi», capaci di far

convivere in ognuno di tali organismi, la natura economica e la natura sociale dell'impresa. Sotto questo

aspetto, pertanto, i processi di convergenza e di ibridazione, sia per il confine sempre più labile tra enti «for

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profit» e «non profit» costretti ad adattarsi a scenari sociali ed economici sempre più fra loro interconnessi e

sovrapposti, sia per il concetto di impresa ibrida il cui significato racchiude in sé, sempre più

frequentemente, il risultato di un processo osmotico fra «profit» e «non profit» al di là rigidi steccati e di

definizioni standard, sia per la semplificazione, dettata da esigenze espositive nella trattazione dei

fenomeni di «trasformazione» in atto, verranno di seguito accomunati unicamente con il termine

«ibridazione», il cui significato deriva, appunto, dall'impresa ibrida, o meglio della nuova impresa ibrida o

delle imprese ibride di seconda generazione. Tali soggetti, nel perseguimento della sostenibilità mirano a

mettere in atto nuove combinazioni di attività imprenditoriali caratterizzate da elementi di innovazione, volte

a ottenere un forte impatto in termini di cambiamento economico e sociale. In linea con tale tendenza, la

formula imprenditoriale che si va affermando risponde a una logica di lungo periodo e di low profit, che

possa conciliare gli interessi privati con quelli della collettività. In altre parole, le forme di impresa

«tradizionale» (o «for profit») e dei modelli di business «non profit» si stanno evolvendo in nuovi modelli di

business ibridi, capaci di far convivere le due componenti che comunque devono essere tra loro, in varie

misure, correlate e cioè quella orientata alla massimizzazione del profitto e quella più incline al

perseguimento di finalità sociali. Queste nuove tipologie di aziende nascono pertanto con il duplice obiettivo

di raggiungere notevoli livelli di competitività sul mercato e alti livelli di beneficio per la società e l'ambiente

(tabella pagina a fianco). Il riposizionamento strategico. L'idea di business diversa dal «for profit» prende

forma non solo attraverso la creazione di nuove attività imprenditoriali a sostegno di una causa sociale, ma

anche con il riposizionamento delle aziende «non profit» in nuove aree di intervento e in risposta a nuovi

bisogni della collettività, che riflettono una separazione sempre più sfumata tra pubblico e privato. Le nuove

organizzazioni ibride sono realtà che si collocano su entrambi i lati della linea di demarcazione «for

profit»/«non profit», ovvero che tendono a ridurre questo confine. I soggetti «non profit», nell'ambito della

loro attività tipica, producono un reddito da attività commerciale per poter perseguire la loro missione, al

pari delle imprese «for profit». Sull'altro fronte, le imprese «classiche», tradizionalmente orientate alla

produzione di beni e servizi per il conseguimento di un profitto, si trasformano in imprese ibride assumendo

mission sociali, «contagiate» dalle nuove sollecitazioni dei contesti economico-sociali (processi di

cambiamento e di invecchiamento tecnologico sempre più veloci ecc.), per crescere in termini di

competitività e di differenziazione. Oggi esistono sempre più organizzazioni imprenditoriali in grado di

combinare componenti di natura economica e sociale attraverso processi di innovazione orientati alla

ricerca di nuove soluzioni a problemi sociali e ambientali, capaci di produrre valore per la collettività nel suo

complesso. Nel processo che conduce all'impresa ibrida, una quota crescente di imprese «for profit»

incorpora elementi di socialità per rigenerare gli oggetti della produzione e, più in generale, la legittimazione

presso consumatori che spostano i loro consumi verso prodotti e servizi dove l'attenzione alle comunità

locali, alle condizioni ambientali, al rispetto dei diritti dei lavoratori rappresentano criteri di scelta sempre più

rilevanti (processo che potrebbe essere definito come la «non profitization del business»). D'altro canto,

anche le organizzazioni «non profit» muovono sempre più verso nuovi modelli di impresa. L'evoluzione del

sistema impresa. L'impresa ibrida rappresenta dunque un driver per guidare l'evoluzione, con varie

gradazioni, combinate in un mix di tipologie organizzative «non profit» e «for profit». Fanno parte di

quest'ultima categoria, per esempio, le imprese «tradizionali» impegnate attivamente per la realizzazione di

uno sviluppo sostenibile della società, attraverso l'adozione del modello della Responsabilità sociale

d'impresa (Rsi). Con un cambio di paradigma finalizzato alla diversificazione e alla competitività, queste

aziende cercano di instaurare una vera e propria stakeholder-relashionship, preso atto che sempre più le

performance delle imprese dipendono non solo da elementi concreti ma anche dagli intagibles, quali la

fiducia degli stakeholder (tra cui in particolare le nuove generazioni dei consumatori), la reputazione e

l'attenzione al benessere dell'ambiente e della comunità in cui l'impresa opera o con cui entra in contatto.

Sul fronte del «non profit», il modello dell'impresa ibrida sta accompagnando la metamorfosi dell'impresa

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sociale nel processo innovativo finalizzato ad attuare l'integrazione tra le logiche imprenditoriali di business

e le modalità di intervento per il raggiungimento della mission sociale, come peraltro previsto anche dalla

riforma del terzo settore (dlgs 112/2017). Negli Usa, la piena integrazione degli obiettivi sociali e ambientali

con approcci commerciali, ha ricevuto il più ampio riconoscimento giuridico nella Benefit corporation, che

incorpora caratteristiche del c.d. quarto settore, quali la governance inclusiva, la rendicontazione

trasparente, la responsabilità ambientale, il servizio alla comunità e il contributo degli utili al bene comune.

La Benefit corporation è un modello di impresa ibrida nato spontaneamente negli Usa nel 2007, che fa del

social il proprio business, come peraltro testimoniano alcune importanti realtà italiane che hanno già aderito

a questo modello, creando un beneficio a vantaggio della collettività (in aggiunta a quello degli azionisti),

ponendo la massimizzazione del profitto in secondo piano (o quantomeno sullo stesso livello) rispetto a

finalità di tipo sociale e manifestandosi come un'evoluzione del business model della Rsi. In Italia, sulla scia

delle imprese ibride di oltreoceano, con la legge di stabilità 2016 il legislatore ha introdotto nell'ordinamento

la società benefit, ovvero un nuovo modello d'impresa che ricalca sostanzialmente il modello

imprenditoriale dell'antesignana Benefit corporation. Il processo di ibridazione. L'ibridazione dell'impresa,

sia sociale che «tradizionale» o «convenzionale», deriva dall'esistenza di due processi convergenti che

tendono a contendersi uno spazio decisivo e strategico (hybrid area): - da un lato, la necessità di

aggiungere al tradizionale operato (di natura sostanzialmente commerciale) dei soggetti «for profit», una

dimensione sociale (relazionale) che vada di pari passo; - dall'altro lato, il bisogno dei soggetti «non profit»

di fare propri modelli organizzativi e strumenti di mercato che permettano un più ampio respiro in termini di

superamento dei vincoli legati alla governance e di accesso a risorse finanziarie differenziate. La

testimonianza di questo processo evolutivo in atto all'interno delle imprese è dimostrato dall'affermarsi di

soggettualità economiche ibride: realtà che si collocano tra i confini del «for profit»/«non profit», assumendo

mission sociali e producendo al contempo un reddito da attività commerciale per poter perseguire la loro

missione, ovvero perseguire la massimizzazione del profitto, senza trascurare le finalità legate al bene

comune e al benessere sociale. Comune denominatore dell'azione di tali soggetti è il perseguimento della

sostenibilità, intesa non solo come riduzione dell'impatto negativo in termini sociali (o ambientali) delle

attività intraprese, bensì come tentativo di creare miglioramenti sistemici a livello sociale e ambientale,

attraverso la loro azione (erogazione di servizi o commercializzazione di prodotti). In tal modo, le

organizzazioni ibride sperimentano nuove combinazioni di attività imprenditoriali caratterizzate da elementi

di innovazione volti a ottenere un forte impatto in termini di cambiamento economico e sociale. In altre

parole, il percorso di ibridazione permette di massimizzare la capacità delle organizzazioni di adattarsi a

uno scenario, sociale ed economico, estremamente complesso e differenziato, a cui molto spesso

istituzioni tradizionali oggi riescono con difficoltà a fornire risposte adeguate. L'ibridazione delle imprese

«for profit». Le organizzazioni ibride introducono un nuovo modo di fare impresa, poiché il loro obiettivo

principale è ottenere miglioramenti di natura sociale a livello sistemico (social innovation o innovazione

sociale) attraverso un'attività commerciale. In tale contesto, se il «non profit» sta compiendo il salto

imprenditoriale, discorso uguale e contrario sta verificandosi al mondo del «for profit»: le imprese

«tradizionali», per esigenze competitive, di immagine, ma anche di razionalità economica, si stanno sempre

più avvicinando a un modello di impresa sociale responsabile. Questo percorso fa parte di un processo più

ampio, che da più parti è stato descritto come «uscita dall'autoreferenzialità». Punto di partenza essenziale

è la conoscenza, vero motore del contesto economico definito post-fordista. Sistemi prima solo

marginalmente connessi (la cultura, l'arte, la ricerca, la comunicazione, il sociale, la produzione di beni

materiali, l'economia dei servizi) appaiono oggi maggiormente integrati, al di là delle convinzioni

dell'immaginario collettivo che vede disgiunti tali sistemi sociali. Per superare questi ostacoli occorre

intervenire sui linguaggi, sull'ibridazione dei codici e, appunto, sull'uscita dall'autoreferenzialità.

Contemporaneamente, la conoscenza, proprio perché legata a campi dell'agire umano sempre più

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interconnessi, va incontro a processi di cambiamento e di obsolescenza sempre più veloci, rendendo le

nozioni superate con ritmi inusuali rispetto al passato. Si assiste così alla trasformazione delle imprese

classiche, tradizionalmente orientate alla produzione di beni e servizi per il conseguimento di un profitto, in

imprese ibride, contagiate dalle nuove sollecitazioni economiche, sociali e ambientali. Il ruolo strategico

degli stakeholder. L'impresa ibrida vive in un contesto relazionale con gli stakeholder, che ne consente la

sopravvivenza e la permanenza sul mercato. Sono considerati stakeholder tutti coloro che hanno legittime

pretese verso l'impresa e stakeholder «rilevanti» coloro che contribuiscono in qualche modo al successo

dell'impresa stessa (tabella pagina a fianco). Poiché la responsabilità di un'impresa è strettamente

collegata alla considerazione degli interessi di tutti gli stakeholder che compartecipano alla ideazione,

produzione, fornitura e vendita di un prodotto, scegliere, per esempio, la via della Rsi significa, perciò,

anche moltiplicare lo sforzo nel tentativo di mettere al centro gli interessi degli stakeholder. Il modello della

responsabilità sociale d'impresa. Il fenomeno della globalizzazione non è sufficiente a interpretare i

cambiamenti che negli ultimi anni hanno investito il mondo delle imprese e il loro ruolo nella società. Al

settore del «for profit», al settore del «non profit» e all'insieme degli attori qualificati come pubblici, il

complesso diversificato di soggetti di cui si compone la società e di cui le aziende fanno parte, continua a

richiedere un maggior coinvolgimento nella vita della comunità e la capacità di chiosare i mutamenti in atto

e di adattarvisi attivamente, con grande dinamismo e flessibilità. È in tal senso che l'adeguamento alle

istanze della Rsi rappresenta un chiaro segnale della volontà di alcune aziende di distinguersi nel contesto

globale, adottando comportamenti socialmente responsabili che vadano oltre i confini aziendali. La Rsi o

Csr (Corporate social responsibility) è, nel gergo economico e finanziario, l'ambito riguardante le

implicazioni di natura etica all'interno della visione strategica d'impresa: è una manifestazione della volontà

delle grandi, piccole e medie imprese di gestire efficacemente le problematiche d'impatto sociale ed etico al

loro interno e nelle zone di attività. Gli elementi fondamentali della Rsi sono sostanzialmente due: - in primo

luogo, il riconoscimento che l'impresa non può più limitarsi al perseguimento del profitto (che rappresenta

comunque il fine ultimo di ogni sua attività) e al rispetto della legge (condizione imprescindibile per operare

in una società), ma deve operare in maniera eticamente responsabile e sviluppare una «sensibilità sociale»

verso i temi di interesse collettivo; - in secondo luogo, la consapevolezza che ogni azienda si pone al centro

di una rete di relazioni, ciascuna delle quali coinvolge attori e interlocutori diversi di cui si deve tenere conto

poiché condizionano e influenzano le dinamiche aziendali. La Rsi e la sostenibilità elevata a paradigma di

business. In particolare, l'impatto della crisi degli ultimi anni ha reso necessario incentivare il contenimento

di quei fenomeni, sempre meno sostenibili, di distorsione nella distribuzione dei redditi, attraverso politiche

di inclusione sociale, lotta alla povertà, rispetto dei diritti umani, del lavoro e dell'ambiente. Una sempre

maggiore attenzione a questi valori porta a sua volta alla opportunità di creare nuovo valore, per cui la

sostenibilità viene vista dalle aziende non più come un costo, bensì come un vantaggio competitivo, parte

integrante delle strategie aziendali e che spesso alimenta e coadiuva la possibilità di successo e di

sopravvivenza dell'azienda stessa. Affinché la sostenibilità sia concretamente realizzata e non soltanto

dichiarata è necessario agire sui modelli di comportamento più generali dell'impresa e integrarla nel

processo di definizione delle strategie aziendali. Tale comportamento conduce all'impresa Ibrida, che deve

farsi carico delle attese degli stakeholder, anche oltre gli obblighi di legge, e iscrivere l'adozione di

comportamenti socialmente responsabili nelle proprie strategie, non soltanto per ragioni etiche o di

riconoscibilità sociale, ma con la consapevolezza che ciò si traduce anche in un vantaggio competitivo. In

questo senso, la Rsi si caratterizza come ricerca di soluzioni innovative atte a soddisfare un numero

sempre maggiore di stakeholder. Il processo di globalizzazione e la crisi economica e finanziaria hanno

pertanto contribuito a far maturare con sempre più forza l'idea che la sopravvivenza e lo sviluppo futuro

presuppongano l'equilibrio e la compatibilità tra tre fondamentali aspetti (associabili al c.d. triple bottom

line): - economico (capacità di creare ricchezza e di mantenere una posizione competitiva); - sociale

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(capacità di misurarsi con gli effetti sulla comunità e sul contesto sociale in cui opera); - ambientale (impatto

sul pianeta dei processi aziendali). aL'impatto del contesto economico e sociale nella Rsi. Essere

un'impresa responsabile richiede un sistema ampiamente focalizzato sulle interazioni tra persone, processi

e ambienti coinvolti nelle fasi di produzione. Il business model della Rsi fa infatti riferimento agli ambiti in cui

le aziende devono concentrarsi per migliorare i propri risultati: sicurezza e salubrità degli ambienti di lavoro,

riduzione dell'inquinamento e del consumo di risorse naturali, benessere dei consumatori, diritti umani e dei

lavoratori, livelli dei prezzi, qualità di un prodotto. Tutti elementi, questi, che devono mirare alla riduzione

dell'impatto socio-ambientale. Nell'azienda responsabile, quindi, il contesto ambientale e quello sociale

dialogano continuamente e le azioni messe in campo dalle aziende devono provare costantemente a

rispettarne i principi e le necessità: da un lato, spingendo verso la riduzione dell'impatto ambientale, dello

sfruttamento del territorio e verso il riutilizzo delle risorse e delle materie; dall'altro, muovendo nella

direzione dello sviluppo economico e sociale del territorio stesso in cui operano e nel rispetto dei lavoratori,

dei loro diritti e del loro benessere. Si tratta, insomma, di uno scambio continuo tra l'impresa e il contesto

ambientale e sociale in cui l'impresa stessa è inserita. I fattori di sviluppo della Rsi nelle Pmi. La Rsi

assume una prospettiva particolare quando viene calata nell'ambito delle Pmi a causa delle differenze

intrinseche tra imprese di piccola e media dimensione e grandi imprese. Essendo le piccole e medie

imprese entità economiche di minori dimensioni contraddistinte da significative specificità, mostrano

molteplici elementi differenziali rispetto alle grandi imprese nell'implementazione di politiche di sostenibilità

con riguardo a diversi aspetti. In particolare: - l'adozione di politiche di Rsi è spesso di tipo tacito e non

codificato. Ciò crea difficoltà nella misurazione e rendicontazione del fenomeno nelle piccole e medie

imprese; - la motivazione personale nell'implementazione di politiche socialmente responsabili prevale su

quella strategica, di marketing e relazionale; - le Pmi sono parte integrante e direttamente coinvolte nella

comunità locale nella quale operano; - la reputazione delle imprese di minori dimensioni assume notevole

importanza nello sviluppo di relazioni informali nell'ambito del contesto sociale nel quale operano,

vincolando le stesse ad agire con onestà e integrità; - il settore di appartenenza influenza la cultura delle

imprese minori con riguardo all'implementazione di politiche di sostenibilità. Le specificità che

contraddistinguono le imprese piccole e medie, dunque, influenzano direttamente la modalità di

implementazione e gestione di politiche di responsabilità sociale nei diversi contesti aziendali. Impresa

sociale. In Italia le imprese sociali sono imprese a tutti gli effetti come le altre imprese «profit», ma sono

soprattutto sociali. La loro mission non è il lucro per la remunerazione del capitale investito, ma la

realizzazione di beni o servizi di utilità sociale per finalità di interesse generale (o «per il bene comune»).

Sono dunque imprese che considerano il guadagno una necessità per raggiungere le proprie finalità

istituzionali, senza che vi siano azionisti da remunerare, perché la condizione per l'impresa sociale è,

appunto, l'assenza dello scopo di lucro. L'impresa sociale appartiene al sistema degli «ibridi» in quanto

rappresentativa di un'organizzazione imprenditoriale, di qualsiasi forma e natura giuridica, in cui convivono

due differenti tipologie d'impresa che interagiscono tra loro: - un'impresa «for profit», che pur mantenendo

finalità di interesse generale (indicate dal legislatore sul piano civilistico) svolge sul mercato stabilmente e

in via principale attività economica per la produzione e scambio di beni o servizi di utilità sociale (i settori di

attività dell'impresa sociale, caratterizzata dall'assenza dello scopo di lucro e il cui profitto viene gestito e

utilizzato come mezzo per rendere autosufficiente l'impresa stessa, sono individuati dall'art. 2 del dlgs

112/2017); - un'impresa «non profit», ovvero un organismo capace di rilevare e interpretare i bisogni

emergenti e rilevanti della comunità locale di riferimento, trasformando valori personali e sociali in attività

sostenibili sul piano economico. L'impresa sociale esclude la ricerca del massimo profitto in capo a coloro

che apportano il capitale di rischio ed è piuttosto tesa alla ricerca dell'equilibrio tra una giusta

remunerazione di almeno una parte dei fattori produttivi e le possibili ricadute a vantaggio di coloro che

utilizzano i beni o i servizi prodotti. In sostanza, si tratta di un'impresa che può coinvolgere nella proprietà e

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nella gestione più tipologie di stakeholder (dai volontari ai finanziatori), che mantiene forti legami con la

comunità territoriale in cui opera e che trae le risorse di cui ha bisogno da una pluralità di fonti: dalla

pubblica amministrazione (quando i servizi hanno una natura meritoria riconosciuta), dalle donazioni di

denaro e di lavoro, ma anche dal mercato e dalla domanda privata di beni e servizi. Tuttavia, al fine di

favorire il finanziamento dell'impresa sociale mediante capitale di rischio, il dlgs 112/2017 ha introdotto la

possibilità per le imprese sociali (costituite in forma di società) di remunerare in misura limitata il capitale

conferito dai soci attraverso la distribuzione di dividendi, cui però l'impresa sociale può destinare una quota

inferiore al 50% dei propri utili e avanzi di gestione, dedotte eventuali perdite maturate negli esercizi

precedenti. Il legislatore ha inoltre posto un limite soggettivo alla distribuzione di dividendi (l'interesse

massimo dei buoni postali fruttiferi, aumentato di due puntie mezzo rispetto al capitale effettivamente

versato), che è lo stesso che, ai sensi dell'art. 2514 c.c., si applica alle cooperative a mutualità prevalente e

alle cooperative sociali. Il dlgs 112/2017 ha inoltre previsto la possibilità (sempre nel rispetto del limite di

impiego di una quota inferiore al 50% degli utilie avanzi di gestione, dedotte eventuali perdite maturate negli

esercizi precedenti) per le imprese sociali di rivalutare il capitale sottoscritto dai soci e di effettuare

erogazioni gratuite agli Enti del terzo settore a essa non associati, né fondatori della stessa e non aventi la

qualifica di imprese sociali. In particolare, quest'ultima previsione serve a rafforzare le connessioni tra le

varie tipologie organizzative (o «famiglie») del Terzo settore, rendendo l'impresa sociale un possibile

strumento finanziario di crescita e di sviluppo a supporto di quegli enti a carattere non imprenditoriale.

L'impresa sociale, pertanto, può essere rappresentata come un soggetto giuridico privato e autonomo dalla

pubblica amministrazione, che svolge attività produttive secondo criteri imprenditoriali (continuità,

sostenibilità, qualità), ma che persegue, a differenza delle imprese «convenzionali», una esplicita finalità

sociale che si traduce nella produzione di benefici diretti a favore di una intera comunità o di soggetti

(anche svantaggiati). L'ibridazione dell'impresa sociale Le imprese sociali ibride. La nascita delle nuove

imprese sociali o delle imprese sociali di seconda generazione, ovvero di quelle che si sono evolute

attraverso un processo di ibridazione verso organismi più orientati a logiche «for profit» (le nuove imprese

ibride), è espressione di una evoluzione innovativa finalizzata al miglioramento di una situazione di

disequilibrio sociale. La social entrepreneurship ha aperto la strada all'impresa ibrida, ovvero al

cambiamento sociale e al raggiungimento di equilibri sostenibili all'interno di un contesto globale, ponendosi

come elemento di rottura delle pratiche tipiche del settore sociale e tentando di attuare la necessaria

integrazione tra le logiche imprenditoriali di business e le modalità di intervento per il raggiungimento della

mission sociale delle aziende «non profit». L'imprenditoria sociale Impresa sociale e differenze con gli enti

non profit. Oltre alle caratteristiche sopra evidenziate, l'impresa sociale si distingue: - dalle tradizionali

imprese di capitale perché caratterizzata da obiettivi, forme proprietarie, vincoli e modalità di governance e

di gestione che escludono la ricerca e soprattutto la mas simizzazione dei vantaggi (monetari e non) dei

proprietari; - dall'impresa pubblica perché fondata e gestita da soggetti privati, nonché dalle varie istituzioni

pubbliche di erogazione di beni e servizi perché è a tutti gli effetti un'impresa; - dalla società cooperativa,

cioè da un'impresa di proprietà di soggetti diversi dai portatori di capitale di rischio, ma finalizzata ad

apportare benefici diretti ai soli proprietari. L'impresa sociale è tuttavia per molti aspetti (proprietà, governo

democratico ecc.) più vicina all'impresa cooperativa che all'impresa «convenzionale», perché recupera per

molti aspetti lo spirito originario del movimento cooperativo (ciò spiega la scelta di molte imprese sociali di

adottare la forma cooperativa); - dalle onlus, dalle Associazioni di promozione sociale e dagli altri enti non

commerciali di cui al dlgs n. 460/97, che sono disciplinati in modo diverso e specifico. Resta inteso

comunque che tutte queste organizzazioni, se ne possiedono i requisiti, possono acquisire anche la

qualifica di impresa sociale. Impresa sociale e società di capitali. In seguito alle novità introdotte dal quadro

generale della riforma del terzo settore, e in particolare alla possibilità di distribuire gli utili consentendo a

queste imprese di remunerare, seppure in maniera limitata, il capitale di investitori «pazienti», i connotati

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dell'impresa sociale, per effetto di un inevitabile processo di ibridazione, saranno sempre più simili a quelli

di una società di capitali e non più unicamente a una società caratterizzata (e governata) dal fattore lavoro.

Tra le altre importanti novità della riforma, che secondo le previsioni potrà creare nuove opportunità

occupazionali e generare innovazione e sviluppo sociale soprattutto attraverso la possibilità di rispondere ai

bisogni (insoddisfatti) nel settore del welfare, si evidenzia l'allargamento dei settori per le imprese sociali, la

possibilità di attrarre capitali e finanziamenti «pazienti» (con basso rendimento e a lungo termine) per nuovi

servizi, la semplificazione e la chiarezza delle procedure per acquisire la qualifica. La cooperativa sociale:

la prima impresa ibrida in Italia. La cooperativa sociale è un particolare tipo di società cooperativa che

gestisce servizi sociosanitari ed educativi, oltre ad attività di vario genere finalizzate all'inserimento nel

mercato del lavoro di persone svantaggiate, e ha l'obbligo di iscriversi all'albo regionale delle cooperative

sociali, nonché all'albo delle società cooperative. La cooperativa sociale è una forma giuridica adatta alla

costituzione di imprese sociali che vogliano perseguire finalità «non profit», con una organizzazione

d'impresa e in condizioni di economicità della gestione. Per quanto riguarda la mission, in generale, le

cooperative sociali, oltre a ricercare occasioni di lavoro per i soci, hanno uno «scopo mutualistico esterno»,

ovvero finalità solidaristiche nei confronti della collettività e del territorio in cui operano: - svolgono l'attività

con gli enti pubblici e/o privati nel campo dell'assistenza, dei servizi di supporto in ambito scolastico-

educativo o di mediazione culturale, e comunque a favore di persone in stato di disagio e/o svantaggio

(anziani, degenti, handicappati, persone con problemi psichiatrici o di tossicodipendenza, minori a rischio); -

favoriscono l'inserimento all'attività lavorativa, in una certa percentuale stabilita dalla legge, di varie persone

in stato di svantaggio, che diversamente sarebbero escluse dal mercato del lavoro. Lo scopo delle

cooperative sociali comprende: a) la gestione dei servizi socio-sanitari ed educativi, a opera delle

cooperative sociali di tipo A; b) lo svolgimento di attività diverse (agricole, industriali, commerciali o di

servizi) finalizzate all'inserimento lavorativo di persone svantaggiate, a opera di cooperative sociali di tipo

B. Il fenomeno della cooperazione sociale, sta vivendo una profonda evoluzione per l'impatto sul mercato e

sugli operatori economici, in quanto rappresenta una rinnovata modalità di fare impresa e creare

occupazione nei cosiddetti settori tradizionali, gestiti prevalentemente dal settore pubblico o

Rientrano nella defi nizione di «nuova» impresa ibrida sia i modelli di business che per la prima volta si

stanno affacciando nel panorama normativo italiano (come le benefit corporation e le società benefi t), sia

quelle che, pur con varie gradazioni e intensità tra massimizzazione del profi tto e impegno sociale,

appartenevano già al sistema delle «ibride» (come le imprese sociali, le cooperative sociali, le imprese in

Rsi ecc.) e che in seguito ai cambiamenti economici e sociali dovuti alla grave crisi economica degli ultimi

anni, hanno variato il loro posizionamento all'interno dei confi ni del «profi t» e del «non profi t».

GLI ORGANISMI IBRIDI DI «SECONDA GENERAZIONE» Origine delle nuove organizzazioni ibride Al

centro dell'azione va messa la comunità come stakeholder principale Orientamento al mercato dei nuovi

progetti imprenditoriali (marketization) Qualità e valore sociale prodotto Nascono da processi di innovazione

cd. «disruptive», ovvero dall'introduzione di elementi di «rottura» da parte dei soggetti promotori dei nuovi

progetti imprenditoriali. Si tratta di innovazione sistemica che abbraccia totalmente il «modus operandi» del

nuovo progetto imprenditoriale e che vuole rompere con gli schemi più «tradizionali» Il tentativo di

rispondere a nuovi bisogni espressi dalla comunità di riferimento si incontra con modalità innovative e ibride

di risposta da parte di soggetti promotori che fanno riferimento alla cooperazione sociale Una delle ragioni

della nascita degli «ibridi» in campo sociale è legata alla volontà di ridurre la dipendenza dalla sfera

pubblica quale principale cliente per i servizi erogati e del ritardo nei suoi pagamenti. Essere sul mercato si

traduce soprattutto nella possibilità di dimostrare che l'effi cacia delle prestazioni effettuate deve essere

garantita, sia in termini di qualità che di «socialità» dei servizi, al pari dell'effi cienza Il patrimonio di tali

imprese è un «asset» indisponibile per shareholder, ma fondamentale per la comunità e il progetto

d'impresa. Sono realtà caratterizzate da «capital locked in», capitale vincolato al proprio interno, per essere

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massimizzato a uso esclusivo delle attività ibride da implementare

Nell'attuale panorama delle imprese sul mercato si possono classifi care le seguenti tipologie di soggetti: -

imprese «for profi t»; - imprese «non profi t»; - imprese tradizionali guidate da imprenditori che nell'ambito

dell'attività «for profi t» integrano una componente sociale, adottando un comportamento socialmente

responsabile; - imprese fi lantropiche guidate da motivazioni di interesse collettivo, che non hanno scopi di

lucro; - imprese ibride guidate da imprenditore tradizionali che hanno lo scopo di fare del sociale il proprio

business; - imprese ibride guidate da imprenditori sociali che hanno lo scopo di creare valore economico

per poter conseguire obiettivi di carattere sociale.

GLI STAKEHOLDER E GLI SHAREHOLDER Stakeholder Shareholder Gli stakeholder di un'impresa sono i

portatori di interesse che ruotano intorno all'organizzazione. Rappresentano l'universo delle persone e delle

entità interessate ai prodotti, ai servizi, allo stato e al benessere dell'impresa (comprendono anche gli

shareholder). Una volta venivano identifi cati con i clienti, gli investitori, i fornitori e i dipendenti dell'impresa

(i cosiddetti stakeholder tradizionali). Oggi si tende ad allargare il mix degli stakeholder includendo anche i

regolatori, i gruppi di pressione, l'opinione pubblica e i media, la comunità, i concorrenti, i potenziali

dipendenti, i potenziali investitori, i partner, e altri ancora (i cosiddetti stakeholder emergenti). Visto

l'ampliamento del mix di stakeholder, gestirne le relazioni è diventato decisamente più complesso che in

passato, anche se, nella maggior parte dei casi, i collegamenti più stretti rimangono quelli con un gruppo

limitato: gli investitori, i clienti, i dipendenti, i fornitori e i regolatori. Gli stakeholder assumono un'importanza

strategica per il business e per il successo dell'impresa Gli shareholder sono gli azionisti dell'impresa,

coloro che ne posseggono quote di capitale. Anche gli shareholder sono ovviamente stakeholder

dell'impresa, infatti rientrano nel gruppo degli investitori insieme alle banche e ad altri eventuali fi nanziatori

Poiché l'impresa si trova a interagire in un contesto complesso, destinato a modifi carsi nel tempo anche in

relazione alle scelte economiche, sia delle stesse imprese, sia dei governi, per poter rispondere al meglio

alle esigenze sociali ed economiche, occorre intervenire adeguatamente avendo come riferimento il

modello dello «sviluppo sostenibile», che consenta di ottenere una crescita economica equa ed equilibrata

fi nalizzata al miglioramento del benessere della società, tenendo conto non solo delle esigenze attuali, ma

anche di quelle delle generazioni future, che vanno salvaguardate.

Sviluppo sostenibile e gestione socialmente responsabile sono due tematiche che incidono su aspetti

diversi della realtà aziendale ma che, al contempo, sono strettamente interrelate tanto da non poter essere

trattate separatamente, due aspetti del medesimo problema: l'impossibilità di continuare a creare ricchezza

dando per scontato l'ambiente di riferimento nelle sue componenti economiche, sociali ed ecologiche.

Applicato alla Rsi il concetto di sostenibilità può essere interpretato come «un approccio fi nalizzato alla

creazione di valore nel lungo periodo, non solo per gli azionisti ma anche per gli altri stakeholder, fondato

sulla capacità di cogliere le opportunità e gestire i rischi derivanti dai cambiamenti del contesto.

Sostenibilitàequivaleresponsabilità: un comportamento sostenibile implica una responsabilità, un comportamento responsabile

nei confronti della società, dell'ambiente e una responsabilità economica (che viene esplicitata, per

esempio attraverso il bilancio sociale).

OBIETTIVI DI PROFITTO E DI IMPATTO SOCIALE For profit company Social business Impresa sociale

Charity Tende alla massimizzazione del profi tto della società. Responsabilità sociale e impatto sociale

sono considerati un «add on» (componente aggiuntivo) per l'agenda del core business Combina obiettivi

commerciali e sociali. Gli investimenti porterebbero a un aumento equivalente dell'impatto sociale Combina

commerciali ma con secondo. in Utili comunità e o obiettivi sociali, l'accento sul reinvestiti società Non

genera né profi tti né ricavi

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Con la possibilità di distribuire gli utili, remunerando anche se in parte il capitale degli investitori, l'impresa

sociale è sempre più simile a una società di capitali, e quindi sempre più ibrida, e non più solo a una

società caratterizzata (e governata) dal fattore lavoro. Inoltre, la «nuova» impresa sociale si caratterizza

non solo per i suoi obiettivi statutari e per il fatto di operare in determinati settori di attività, ma anche per la

capacità di produrre «impatti sociali positivi e rendicontabili»

L'imprenditorialitàsociale(osocial entrepreneurship) è rappresentata da una particolare classe di imprenditori che, mediante la

creazione di organizzazioni private, ha messo in atto delle risposte a problemi globali, quali la povertà e

l'inaccessibilità a servizi primari come l'educazione e l'assistenza sanitaria da parte dei meno abbienti.

L'imprenditore sociale potrebbe essere defi nito come colui che svolge il ruolo di agente del cambiamento

nel settore sociale: - adottando una missione per creare e sostenere valore sociale (non solo valore

privato); - riconoscendo e perseguendo nuove opportunità per servire la propria missione; - cimentandosi in

un processo di continua innovazione, adattamento e apprendimento; - agendo senza essere limitato dalla

quantità di risorse al momento a disposizione; - esibendo un elevato senso di responsabilità verso le

comunità servite e per i risultati ottenuti.

Per essere riconosciuti come enti del terzo settore non basta svolgere attività senza fi ni di lucro, ma si

devono possedere fi nalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. Ciò per evitare che enti commerciali,

solo perché svolgono alcune attività senza fi ne di lucro, possano approfi ttare delle agevolazioni per gli enti

«non profi t», con evidenti vantaggi anche per le restanti attività lucrative.

La cooperativa sociale appartiene al comparto delle imprese sociali, di cui è un sottoinsieme.La cooperativa sociale di tipo B è un'impresa ibrida che può operare in tutti i settori merceologici per la

produzione di beni o servizi, a condizione che i soci «svantaggiati» rappresentino almeno il 30% dei

lavoratori, soci e non soci.

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LE IMPRESE IBRIDE/ 2 BRUNO PAGAMICI operanti con formule di tipo assistenziale. Cosa non è la cooperativa sociale Nell'ordinamento italiano la

cooperativa sociale è un soggetto sui generis che, pur avendo alcuni caratteri tipici delle «istituzioni

pubbliche» propriamente dette (in specie riguardo allo «scopo») e altri delle «istituzioni private» del mondo

«for profit» (in riferimento alla «forma organizzativa»), si distingue tanto dalle prime, quanto dalle seconde,

proprio per la capacità di combinare e armonizzare questi caratteri: «etica imprenditoriale» ed «etica

sociale» Tali valori classicamente confliggenti, convivono all'interno di questa particolare struttura

organizzativa che, grazie ai vari interventi del legislatore che si sono susseguiti negli anni, rappresenta una

delle prime forme di impresa Ibrida apparse nel panorama economico italiano. La «terra di mezzo». Le

cooperative sociali, in particolare di tipo B, sono state fino a oggi la «terra di mezzo» fra il mondo delle

organizzazioni a scopo di lucro («profit») e quello degli enti senza scopo di lucro («non profit»). Si tratta di

forme imprenditoriali e organizzative volte a perseguire finalità sociali o solidaristiche che operano nel

mercato concorrenziale. Stanno sempre più assumendo la veste di imprese Ibride, e rappresentano una

vera e propria commistione tra un'anima «non profit» e una «profit» in quanto il perseguimento degli

obiettivi economici si coniuga con quello degli obiettivi sociali. La creazione del valore economico è infatti

necessaria per garantire la sostenibilità dell'iniziativa e l'autosufficienza finanziaria. Infatti, anche le

cooperative sociali, specie quelle di tipo B, nonostante le agevolazioni fiscali e regole diverse dal «profit»,

per poter sopravvivere devono comunque essere in grado di generare profitti. La riforma del terzo settore.

La riforma del terzo settore interviene sui vari temi, che riguardano il più ampio panorama delle imprese del

comparto, e che coinvolgono, pertanto, anche le cooperative sociali: - autonomia giuridica: la riforma ha

l'obiettivo di disciplinare, nel rispetto del principio di certezza nei rapporti con i terzi e di tutela dei creditori, il

regime di responsabilità limitata degli enti riconosciuti come persone giuridiche e la responsabilità degli

amministratori, tenendo anche conto del rapporto tra il patrimonio netto e il complessivo indebitamento

degli enti stessi; - partecipazione: verranno resi attuativi gli interventi per assicurare il rispetto dei diritti degli

associati, con particolare riguardo ai diritti di informazione, partecipazione e impugnazione degli atti

deliberativi, e il rispetto delle prerogative dell'assemblea, prevedendo limiti alla raccolta delle deleghe; -

regimi fiscali e contabili: la riforma prevede la razionalizzazione dei regimi fiscali e contabili semplificati in

favore degli enti del terzo settore, in relazione a parametri oggettivi da individuare attraverso decreti

legislativi di futura emanazione; - capitale di rischio e investimenti: si potrà accedere a forme di raccolta di

capitali di rischio tramite portali telematici (crowdfunding), in analogia a quanto previsto per le startup

innovative. Verranno altresì messe in campo misure agevolative volte a favorire gli investimenti di capitale.

La differenze tra imprese sociali e cooperative sociali. Il «plusvalore» della cooperativa sociale sta nel

concepire e rendere «produttivo» ciò che comunemente, nei termini della concezione economica classica

dominante, è considerato «improduttivo». Inoltre, le cooperative sociali: - perseguono l'interesse collettivo e

non quello dei singoli proprietari della società; - anche se per statuto devono perseguire fini sociali, con il

tempo si sono connotate come organizzazioni aziendali in maniera molto vicina al mercato, attraverso un

processo che ha sempre più caratterizzato la loro natura di impresa ibrida. Poiché la legge identifica le

cooperative sociali come onlus di diritto, questo significa che tali società sono senza scopo di lucro. Delle

imprese ibride hanno l'obbligo del deposito del bilancio come qualsiasi altra società di capitali, ma non

possono dividere gli eventuali utili prodotti che devono invece essere reinvestiti nei servizi o nei mezzi della

cooperativa stessa. L'impresa sociale, secondo la normativa di riferimento, non rappresenta una categoria

di persone giuridiche, ma propone una qualifica aggiuntiva, applicabile a tutte le organizzazioni che

esercitano attività economica per la produzione di beni e servizi di utilità sociale. Le organizzazioni che

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danno espressione oggi all'impresa sociale, fanno riferimento a tre tipologie d'impresa: - la cooperativa

sociale; - le imprese (srl, spa) «profit» attive nei settori normati dal dlgs 112/2017; - le «non profit»

commerciali attive sul mercato dei servizi sociali. Da ciò si evince che la cooperativa sociale è un

sottoinsieme dell'impresa sociale. Tali tipologie d'impresa, anche se non perseguono scopi di lucro, non è

escluso che debbano operare con profitto, condizione necessaria per poter far fronte ai costi di struttura e

garantire la permanenza dell'ente sul mercato. Benefit corporation: modello emergente di impresa ibrida.

Una «Benefit corporation» è un'impresa «for profit» nata spontaneamente negli Usa nel 2007, che vuole

andare oltre il profitto e tende a massimizzare l'impatto positivo verso la società e l'ambiente. L'obiettivo

delle Benefit corporation, che si inserisce a cavallo tra «profit» e «non profit», è condurre un business

proficuo, in grado di produrre un beneficio diffuso per le persone nel breve, medio e lungo termine. Tale

modello di business, che è espressione del forte bisogno sociale di cambiamento, proviene anche dalla

richiesta dei consumatori, ormai aperti a una nuova consapevolezza e a nuove esperienze di condivisione

dei comportamenti d'acquisto. Fin dalla prima comparsa sul mercato statunitense nel 2007, le Benefit

corporation americane hanno deciso di superare la tradizionale dicotomia esistente fra modello «for profit»

e «not for profit» o «non profit» per diffondere il modello «for benefit». Al centro di questa nuova tipologia

d'impresa risiede l'obiettivo di contribuire allo sviluppo e al benessere collettivo, creando un impatto positivo

di tre livelli: economico, ambientale, sociale. Impegnandosi a rispettare i più alti standard di scopo,

responsabilità e trasparenza, queste aziende puntano a considerare gli effetti delle proprie decisioni non

solo sugli azionisti di riferimento (shareholder), ma anche su tutti gli stakeholder (i portatori di interesse nei

confronti dell'azienda, cioè i lavoratori, i fornitori, le comunità in cui operano, compresi gli stessi azionisti).

La mission della Benefit Corporation La mission di una Benefit Corporation è infatti quella di creare un

beneficio a vantaggio della collettività, in aggiunta a quello degli azionisti, ponendo la massimizzazione del

profitto sullo stesso piano rispetto a finalità di tipo sociale. Il sentiment degli imprenditori «for benefit» è

dunque quello di porre in atto una dinamica di radicale cambiamento finalizzata a rimettere al centro

dell'agire sociale ed economico la crescita e il rispetto per il bene comune. Adottando questo nuovo

paradigma, le imprese avranno l'opportunità di guidare il cambiamento e valutare la propria performance

rispetto alle aziende «convenzionali» e, non per ultimo, differenziandosi rispetto alla concorrenza. Finalità

economiche e obiettivi d'impatto. Le Benefit corporation sono dunque forme d'impresa ibrida molto

innovative rispetto ai tradizionali paradigmi dell'economia capitalistica, in quanto sono enti con scopo di

lucro che intendono creare valore per la società, seguendo standard di trasparenza, responsabilità,

sostenibilità e performance (tabella pagina successiva). La «terza via» tra «for profit» e «non profit». La

Benefit corporation è un'entità ibrida che si struttura a agisce per essere non solo un motore dell'economia,

ma anche del benessere sociale, del progresso della collettività, del rispetto e del miglioramento

dell'ambiente. Tutto questo può avvenire, per esempio, organizzando e promuovendo attività a favore di

soggetti deboli o disagiati, scegliendo i propri fornitori tra le aziende del territorio e quindi favorendo

l'economia locale, attuando una campagna di risparmio energetico e di utilizzo di materiali ecologici e

riciclabili ecc. La filosofia delle Benefit corporation è dunque insita in un modello imprenditoriale ibrido,

quale soluzione di sintesi tra «for profit» e «non profit». Anche se i cardini della Benefit corporation, ovvero

sostenibilità, profitto e benessere sociale, sono elementi che potrebbero apparire in contrasto tra loro, se

armonizzati nella stessa realtà aziendale possono fungere da motore di sviluppo non solo economico ma

anche sociale. Oggi la riconosciuta forma giuridica Benefit corporation conferisce dignitàa quella che

potrebbe essere definita come una giusta «via di mezzo» tra «profit»e «non profit», stabilendo che possono

esistere imprese commerciali che si danno obiettivi sociali e ambientali stringenti, riuscendo a svolgere

entrambe le attività. Una Benefit corporation è pertanto un'impresa ibrida che rappresenta la «terza via» tra

le aziende «for profit» e le realtà «non profit». La Benefit corporation in Italia. L'approccio del più diffuso

modello americano, è stato già adottato anche da alcune imprese italiane come F.lli Carli (oleificio), Banca

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Prossima (credito), D-Orbit (aerospaziale), Equilibrium (bioedilizia) ecc. Inoltre, in Italia, il percorso che

conduce all'impresa ibrida è stato avviato anche dal legislatore della legge di stabilità 2016 il quale, per la

prima volta in Europa, ha introdotto il nuovo modello d'impresa della società benefit il quale nasce sulla

base di principi che hanno sostanzialmente informato la costituzione e il riconoscimento giuridico della

Business corporation. La società benefit. La società benefit, introdotta nel nostro ordinamento dai commi

376-384 dell'art. 1 della legge n. 208/2015 (legge di Stabilità 2016), ha la caratteristica di perseguire,

nell'esercizio di una attività economica, oltre allo scopo di dividerne gli utili fra i soci (quindi allo scopo di

lucro), una o più finalità di «beneficio comune» e di operare in modo responsabile, sostenibile e trasparente

nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni e attività culturali e sociali, enti (pubblici e

privati), associazioni, altri portatori di interesse. In definitiva, le società benefit rappresentano un'opzione a

disposizione delle imprese, sia di nuova costituzione che già operanti, per proteggere la propria missione

imprenditoriale di lungo termine; di conseguenza, la governance di tali società ha lo scopo di massimizzare

l'impatto positivo sui creditori e sugli stakeholder e non solo di massimizzare i dividendi per gli azionisti

come le altre struttura societarie «for profit». Un modello di impresa ibrida. La società benefit è pertanto un

modello di impresa ibrida, il cui obiettivo è quello del profitto «attenuato» a favore di una concreta

operatività in settori socialmente sensibili (ovvero società con caratterizzazione lucrativa operante nei

normali settori di attività, ma in modo strumentale a fini sociali). Come forma organizzativa la società benefit

nasce con l'intento di coniugare la prospettiva lucrativa di una qualsiasi società commerciale con uno o più

obiettivi sociali e/o ambientali di cui la stessa intende farsi carico. Si tratta quindi di una evoluzione

sostanziale della Rsi. Se infatti la Rsi può consistere in una mera politica di autoregolamentazione a cui la

società, volontariamente, decide di sottoporsi rendendo così la propria mission e il proprio business model

«etico» e «socialmente responsabile», con la costituzione di una società benefit siamo di fronte a un

ulteriore passo avanti, uno sforzo maggiore da parte dell'azienda nella direzione della responsabilità

sociale. Sostanzialmente, la società benefit è valutabile come una «società che fa responsabilità sociale

con commitment». L'ordinamento italiano. L'Italia è stata il primo paese in Europa ad avere riconosciuto alle

società benefit la veste di imprese «for profit» con finalità sociali, ovvero di imprese ibride che possono

esercitare una qualsiasi attività economica, distribuire utili e, contemporaneamente, conseguire scopi

benefici a favore della collettività. Il legislatore italiano ha dunque avviato un percorso di innovazione

economica che riguarda anche i modelli d'impresa, nella direzione della sostenibilità intesa nel senso più

ampio. In virtù di tali caratteristiche si può affermare che le società benefit rappresentano, nel nostro

ordinamento, il modello d'impresa ibrida per eccellenza (al pari peraltro della Benefit corporation), la cui

normativa mira a diffondere aziende che abbiano l'obiettivo non solo di realizzare profitti, ma anche di

migliorare l'ambiente naturale e sociale nel quale operano, partendo dal presupposto che oggi per generare

sviluppo, la produzione di valore economico e quella di valore sociale devono essere tenute insieme. La

relazione annuale. Secondo quanto stabilito dal legislatore, la società benefit è tenuta a redigere

annualmente una relazione concernente il perseguimento del beneficio comune, da allegare al bilancio

societario, che deve includere: a) la descrizione degli obiettivi specifici, delle modalità e delle azioni attuati

dagli amministratori per il perseguimento delle finalità di beneficio comune e delle eventuali circostanze che

lo hanno impedito o rallentato; b) la valutazione dell'impatto generato utilizzando lo standard di valutazione

esterno; c) una sezione dedicata alla descrizione dei nuovi obiettivi che la società intende perseguire

nell'esercizio successivo. Società benefit e imprese sociali. Le imprese sociali in maniera volontaria

perseguono un fine sociale che è core rispetto all'attività imprenditoriale messa in campo (e possono

operare solo in determinati settori, dall'assistenza sociale, all'istruzione, alla tutela dei beni culturali ecc.).

Le società benefit, invece, all'interno della loro attività economica devono (e possono) perseguire uno o più

effetti positivi o ridurre gli effetti negativi su una o più categorie di soggetti (su un piano strettamente

minimalista ciò significa che non necessariamente la società deve produrre impatti positivi ma è sufficiente

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che essa limiti le esternalità negative che è in grado di generare attraverso la sua attività principale, che

rimane quella di natura economica). Le differenze tra società benefit e impresa sociale La Società Benefit

come fattore di competitività. Sulla scia di quanto sta avvenendo negli Usa, l'innovazione voluta dal

legislatore nazionale aspira a essere un fattore di crescita in termini di competitività e di diversificazione, in

quanto nel perseguimento della sostenibilità, le società benefit dovranno mettere in atto nuove

combinazioni di attività imprenditoriali caratterizzate da elementi di innovazione, volte a ottenere un forte

impatto in termini di cambiamento economico e sociale (tabella pagina a fianco). La Finanza sociale. Con

Finanza sociale si intende ciò che consente di indirizzare debito o equity a imprese che producono beni

«sociali», cioè beni che incorporano un valore per le comunità, per esempio l'acqua, l'energia pulita o i

servizi alla persona. In tale ambito possono rientrare tra i destinatari della finanza sociale anche le Benefit

corporation, le società benefit e le cooperative sociali, ovvero le imprese tendenti all'impresa ibrida.

Nell'attuale fase di sviluppo dell'imprenditoria sociale e delle tecniche finanziarie al suo servizio, i rapporti

tra finanza tradizionale e finanza sociale risultano complessi sul piano culturale e operativo. La particolare

congiuntura economica globale degli ultimi anni ha indubbiamente sottratto credibilità alla finanza

tradizionale, che viene di frequente identificata come una delle principali cause della crisi iniziata nel 2007-

2008. Le profonde modificazioni della cultura economica che ne conseguono hanno riflessi positivi sulla

nascente industria della finanza sociale, in termini di prospettive favorevoli, seppure in mancanza di risultati

misurabili e di track-record significativi. Seguendo un criterio di selezione di natura morale, finalizzata a

perseguire maggiormente il bene comune, la finanza sociale coincide con la finanza etica. Un'altra

impostazione considera le modalità (o i mezzi di svolgimento) dell'impegno imprenditoriale in base al

«triplice approccio» (triple bottom line), secondo cui le attività d'impresa vanno valutate e misurate in

funzione del contributo combinato alla prosperità, al capitale sociale e alla qualità dell'ambiente. In sintesi,

la finanza sociale raccoglie risorse su mercati non tradizionali per offrirle a categorie di imprenditori, anche

innovativi, che non le riceverebbero, o che vi avrebbero accesso a condizioni proibitive, attraverso i canali

della finanza tradizionale. Le imprese che beneficiano della finanza sociale. Tra le categorie imprenditoriali

a cui la finanza sociale si rivolge, quella più rilevante è l'impresa sociale, che in un'accezione ampia si

connota per un «remunerazione» mista, composta dal profitto calmierato (fino al caso limite in cui è pari a

zero) e da componenti sociali e ambientali. Mentre la limitata distribuzione di dividendi potrebbe

rappresentare un freno allo sviluppo dell'impresa sociale, lo stesso non può dirsi per la cooperativa sociale,

in cui è previsto il socio sovventore, nonché l'azionista di partecipazione: entrambe le figure, per finanziare

progetti pluriennali di sviluppo, possono riscuotere una remunerazione superiore agli altri soci fino al 2%,

anche se il socio sovventore è penalizzato nella governance per via del numero di voti concedibile in

misura (generalmente) meno che proporzionale rispetto agli apporti, mentre l'azionista di partecipazione

deve limitarsi all'acquisto di obbligazioni senza entrare nel capitale. Rientrano nella categoria delle

organizzazioni che possono beneficiare della finanza sociale anche la statunitense L3c-Low profit limited

liability company (creata per colmare il divario «non profit» e «for profit» e fornire una struttura che faciliti gli

investimenti socialmente utili) e la britannica Cic-Community interest company (un nuovo tipo di società

introdotta dal governo del Regno Unito, progettata per le imprese sociali che intendono utilizzare i loro

profitti per perseguire finalità sociali). Entrambi sono società di capitali che possono emettere azioni

trasferibili, ma che hanno un patrimonio vincolato (assets lock) alla ricerca del public benefit, e un tetto

prefissato alla distribuzione degli utili (dividend cap). La provvista nei mercati «non usuali». In tali mercati,

in cui la finanza sociale effettua la raccolta di titoli di debito (mediante conti correnti, certificati di deposito,

obbligazioni bancarie), un primo ambito è costituito da istituti di credito aventi una mission sociale. In Italia

sono: - le banche di credito cooperativo e le casse rurali; - le cooperative di finanza solidale; - le istituzioni

di microcredito; - Banca Prossima. Un ulteriore ambito possibile è costituito dalle piattaforme telematiche,

come il crowdfunding, per canalizzare tanti microcontributi verso progetti d'intervento già selezionati. Data

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la sua particolare natura (solidarietà e gestione partecipata, da un lato; effi cacia ed effi cienza

imprenditoriali e qualità del servizio, dall'altro), la cooperativa sociale non ha (e non può avere), per quanto

attiene ai metodi e alle procedure da porre in essere per la realizzazione del proprio scopo sociale, un

modello organizzativo a cui direttamente riferirsi (non il modello organizzativo del welfare tradizionale, non

quello del volontariato propriamente detto e neppure quello del mondo «for profi t») Se lo scopo primario

delle cooperative sociali è la creazione del valore sociale a vantaggio della comunità in cui operano, questo

non signifi ca che valore economico e valore sociale si escludano a vicenda. In molti casi sono state per

tale motivo seguite regole precise, come per esempio il rispetto del parametro retributivo: lo stipendio del

primo dirigente non può essere superiore a tre volte quello dell'ultimo lavoratore. Ciò al fi ne non già di

livellare tutto verso il basso, ma di trovare un modello di sostenibilità. Nelle cooperative sociali, specie in

quelle di tipo B, è connaturata l'essenza dell'impresa ibrida in quanto tali enti perseguono obiettivi di

bilancio.

La Benefit corporation accetta di mettere la massimizzazione del profi tto sullo stesso piano delperseguimento di fi nalità di tipo sociale, talvolta sacrifi cando il massimo profi tto ottenibile inragione del perseguimento di altri valori di matrice sociale.Il perseguimento di obiettivi riguardanti l'impatto positivo sull'ambiente e sulla società è previsto, oltre al

perseguimento del profi tto, dalle clausole statutarie e dalle fi nalità delle Benefit corporation. In tal modo, gli

amministratori che dovessero utilizzare quote di profi tti per il perseguimento di fi nalità sociali, non

potranno essere soggetti ad azioni di responsabilità da parte degli azionisti.

La Benefit corporation si colloca a uno stadio più evoluto rispetto al modello della Rsi (che in relazione a

determinate fi nalità mantiene tuttavia la sua validità), in quanto non rappresenta semplicemente una realtà

attenta alla sostenibilità, ma un'azienda che evolve la sua natura per partecipare alla creazione di una

nuova cultura d'impresa, di un nuovo modello economico e sociale.

Con l'introduzione della società benefi t, l'Italia mira a diffondere nel contesto nazionale un nuovomodello di fare impresa che può intrecciare in modo effi cace e innovativo le due faccedell'imprenditoria, «for profi t» e «non profi t», traendo forza dai benefi ci che lacontraddistinguono.Cos'è una Benefit corporation La prima Benefit corporation La fi nalità La mission

Le Benefit corporation È un nuova tipologia di azienda, nata negli Usa nel 2007, che rispetta

volontariamente i più alti standard di scopo, responsabilità e trasparenza per sviluppare pratiche di «social

innovation» Allo stato del Maryland spetta il primato di aver completato nel 2010 l'iter legislativo per il

riconoscimento giuridico delle Benefit corporation. Nel 2013 nello stato del Delaware è nata la prima Benefit

corporation quotata in borsa, Plum Organics, controllata al 100% da Campbell Soup La Benefit corporation

svolge attività di business con modalità innovative e tende verso l'ottimizzazione, ma non la

massimizzazione a ogni costo, dei risultati economici Le Benefit corporation sono innanzitutto impegnate: -

ad avere un impatto positivo sulle persone e sull'ambiente; - a considerare l'impatto delle proprie decisioni

non solo sugli azionisti ma anche su tutti gli stakeholder e sul contesto; - a rendere visibile il loro impatto

materiale positivo su società e ambiente

Al modello della Società Benefit potranno accedere imprese fortemente motivate verso il sociale,che desiderano rendere pubblica e vedersi riconosciuta questa funzione.La società benefit persegue, accanto allo scopo «classico» della divisione degli utili senza limiti di

distribuzione, anche fi nalità di benefi cio comune. È una società commerciale (riconducibile al libro V del

codice civile) che mira ad avere un impatto positivo sull'ambiente e sulla società e intende operare in modo

sostenibile e trasparente.

Così come negli Usa, le Benefit corporation hanno superato la tradizionale dicotomia esistente fra modello

«for profi t» e «non profi t» per diffondere il modello «for benefi t», anche in Italia il legislatore ha voluto che

la mission della società benefit fosse quella di saper contribuire allo sviluppo e al benessere collettivo,

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creando un impatto positivo in termini economici, ambientali e sociali e impegnandosi a rispettare i più alti

standard di scopo, responsabilità, trasparenza e accountability.

L'impresasociale,destinatariadi particolari agevolazioni, rientra tra gli enti del terzo settore e la relativa qualifi ca può essere assunta,

oltre che da una società, anche dagli enti del libro I del codice civile (associazioni, fondazioni, comitati), con

i noti limiti e divieti nella distribuzione degli utili. La società benefi t, invece, è a tutti gli effetti un ente «for

profi t», non ha limiti nella distribuzione degli utili e non è destinataria di alcuna agevolazione. Nulla vieta, in

ogni caso, che lo statuto di una società benefit preveda una limitazione alla distribuzione degli utili, purché

vengano reinvestiti per potenziare le attività sociali o per fi nalità di impatto sociale/ambientale (società low

profi t)

In linea di principio la fi nanza sociale è un'istituzione che, previa valutazione delle iniziative che aessa si rivolgono, tenta di allargare il sostegno ad alcune tra le innovazioni imprenditoriali chesarebbero scartate dalla banca e dalla fi nanza tradizionaleLa SB deve avere un particolare oggetto

sociale? Qual è la policy aziendale della SB? Le SB possono distribuire dividendi ai soci?

L'amministrazione è diversa dalle aziende tradizionali?

LE SOCIETÀ BENEFIT (SB) La società può svolgere qualsiasi attività economica e deve indicare

nell'oggetto sociale le fi nalità di «benefi cio comune» La società deve operare «in modo responsabile,

sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni e attività culturali e

sociali, enti e associazioni e altri portatori di interesse» Le SB sono libere di pagare dividendi ai soci ma

dovranno «destinare una parte delle proprie risorse gestionali a fi nalità sociali» I dirigenti della SB hanno

gli stessi ruoli delle aziende tradizionali, ma sono anche tenuti a verifi care che determinati standard siano

rispettati. Le SB devono essere amministrate in modo da bilanciare gli interessi dei soci e il perseguimento

delle fi nalità di benefi cio comune. Le decisioni devono essere prese in considerazione degli effetti non

solo sul patrimonio ma anche su lavoratori, comunità e ambiente

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Lo sviluppo del Mezzogiornoil dossier Mai più zavorra di italia La ripresa (anche) nel 2018 In Campania, Puglia, Basilicata e Calabria le previsioni di crescita dell'Osservatorio dei Territori di Unicreditper il prossimo anno sono in linea o poco inferiori rispetto alle media nazionaleGoitini, direttore regionaleSud dell'Istituto: «Gli incentivi sono stati determinanti, ora non bisogna fermarsi» Eppur si muove. A dispetto della visione pessimista che vorrebbe il Mezzogiorno condannato senza

speranza a essere la zavorra dell'Italia, continuano a emergere segnali in senso contrario, chiari e

inequivocabili come soltanto gli indicatori economici sanno essere. Il Sud si sta lentamente risvegliando

dopo la lunga notte cominciata nel 2008 e lo prova il fatto che negli ultimi due anni è cresciuto a un tasso in

linea o addirittura superiore alla media nazionale. E questo sta avvenendo un po' dappertutto, anche se è in

particolare la Campania (qui il pil è aumentato nel 2016 del 2,3%, quasi il triplo rispetto a quanto fatto

dall'Italia nello stesso anno) a trainare la ripresa dimostrando nuova vitalità nel suo apparato produttivo. La

conferma di questo trend positivo viene dai dati forniti dall'Osservatorio dei Territori del gruppo UniCredit

guidato da Jean Pierre Mustier che, dopo aver analizzato la performance di quattro regioni in particolare,

Campania, Puglia, Basilicata e Calabria, ha tratto come conclusione che siamo di fronte a una svolta, a una

fase di espansione che da queste parti non si vedeva da un bel po' di tempo.

«È finalmente in atto un consolidamento della ripresa dell'attività economica», spiega Elena Goitini,

direttore regionale Sud di UniCredit. «Dopo l'importante performance del 2016, in particolare in Campania

ed in Basilicata, le previsioni del pil per il 2017 e il 2018 mostrano ancora una significativa crescita per il

Sud, anche se proprio in queste due regioni si registra un lieve fisiologico rallentamento rispetto all'anno

passato», aggiunge. Un cambio di passo, dunque, che sembra destinato a durare nel tempo e che

andrebbe incoraggiato.

Come conferma la stessa Goitini, infatti, le stime dell'Osservatorio di Unicredit non tengono ancora conto

degli effetti benefici dei recenti provvedimenti nazionali e regionali, che potrebbero portare ad un ulteriore

incremento della crescita reale, con effetti positivi sulla dinamica della domanda interna e sull'occupazione.

Ma da dove arriva questa spinta rivitalizzatrice? «Penso in particolare alla manifattura campana, alla

ripresa generalizzata del settore delle costruzioni, che aveva risentito particolarmente della crisi degli anni

passati, oltre al rilancio degli investimenti in tutte le regioni del Sud continentale», replica la top manager

del gruppo bancario, che fornisce anche una spiegazione di questa dinamica.

«Le politiche nazionali messe in campo per incentivare la ripresa economia dei territori del Mezzogiorno,

abbinate alle iniziative delle singole regioni - assicura Goitini - stanno iniziando a dare risultati importanti, a

testimonianza della grande potenzialità e della ricettività del tessuto economico ed imprenditoriale del

Sud». E ora tutti gli occhi sono puntati sul futuro. La legge di bilancio per il 2018 approvata dal Consiglio dei

ministri ha confermato e rafforzato gli impegni presi dal governo su coesione territoriale e Mezzogiorno,

incrementando ulteriormente le risorse e dando continuità alle politiche del cosiddetto Masterplan.

Un provvedimento commentato con soddisfazione dal ministro Claudio De Vincenti, il quale ha spiegato

che la manovra prevede l'incremento della dotazione complessiva del fondo Sviluppo e Coesione, il

rafforzamento della dotazione finanziaria del credito d'imposta per gli investimenti al Sud, la

decontribuzione al 100% per i neoassunti giovani e anche per tutti i disoccupati da almeno sei mesi,

l'istituzione di un fondo di investimenti destinato alla crescita dimensionale delle piccole e medie imprese

meridionali (da non dimenticare anche il progetto «Resto al Sud», che prevede incentivi per i giovani che

hanno idee imprenditoriali da sviluppare). «Siamo di fronte ad una importante opportunità per ridurre il

divario tra le regioni del Mezzogiorno ed altre aree del Paese, che resta purtroppo ancora rilevante -

commenta il direttore regionale Sud del gruppo bancario - C'è un gap profondo ancora da recuperare.

Pertanto è fondamentale non interrompere, ma anzi proseguire nella politica di stimolo all'economia di

quest'area, a beneficio di un processo di consolidamento del percorso di crescita in atto in tutto il Paese»,

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prosegue.

Ma come in tutti i processi di rilancio di territori depressi occorre un'azione che sia continuativa nel tempo

visto che i miracoli non esistono. La preoccupazione generale è che con la fine della legislatura

quest'azione a beneficio del Sud possa subire dei rallentamenti, anche se ormai la strada sembra segnata

e sarebbe quanto meno difficile per una nuova eventuale compagine governativa tornare indietro.

Così l'analisi della Goitini si chiude con un appello e anche un impegno in prima persona del gruppo

Unicredit: «È necessario saper fare squadra. Ogni attore che opera su questo territorio - imprese,

istituzioni, associazioni di categoria, università - deve cogliere l'importanza storica della fase economica

che ci troviamo a vivere. A partire dalle banche. Ed infatti come Unicredit lanceremo nei prossimi mesi un

piano di supporto al settore produttivo del Sud, finalizzato anche ad ampliare gli effetti benefici degli

incentivi nazionali e locali messi in campo per il prossimo anno».

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Aree4

Anche solidarietà

Sono 54 le onlus del Sud in gara per «Un voto, 200.000 aiuti concreti», campagna dedicata al non profit

realizzata da Unicredit. Stanziati 200 mila euro da distribuire alle organizzazioni del portale IlMioDono.it (31

in Campania, 16 in Puglia e 7 in Calabria). Partnership del settimanale Rcs «Buone Notizie - L'impresa del

bene».

Foto: Sono le regioni del Mezzogiorno (Campania, Puglia, Basilicata e Calabria) sulle quali si è concentrata

l'analisi dell'Osservatorio dei Territori realizzata dagli analisti del gruppo Unicredit in merito alle previsioni di

crescita economica nel 2018

Investimenti,manifatturacampanae costruzione:la spintarivitalizzatricearrivaproprio da quiÈ necessariofare squadraNoi lanceremo nei prossimi mesi un piano di supporto al settore produttivo

1,3%1,2

1,1

1 È la percentuale di crescita del pil nel 2017, previsione dell'1% nel 2018 È la percentuale di aumento nel

2017, il prossimo anno è 1,1% Nel 2017 è la percentuale della prospettiva di rialzo: 0,7 nel 2018

Percentuale stima di sviluppo nel 2017, sarà 0,8% nel 2018

Foto: servizi a cura di Mariarosaria Marchesano

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SCENARIO PMI - Rassegna Stampa 18/12/2017 - 18/12/2017 78

Page 79: CONFIMI€¦ · 18/12/2017 Corriere del Mezzogiorno Economia Campania «locomotiva» del Meridione 79 18/12/2017 Corriere del Mezzogiorno Economia Mai più zavorra di italia La ripresa

Campania «locomotiva» del Meridione È stata la prima regione italiana per crescita nel 2016 (+2,3% contro un media Paese dello 0,9%) grazie

soprattutto all'aumento della produzione industriale spinta dal settore manufatturiero. Un vero exploit quello

della Campania che però nel 2017 ha un po' rallentato il passo, pur mantenendo un trend di sviluppo che

promette bene anche per il prossimo anno. Secondo l'Osservatorio di Unicredit, che analizza il quadro

congiunturale della regione e la dinamica dei principali indicatori economici anche in chiave prospettica, il

pil campano si attesterà nel 2017 su una crescita dell'1,3% su base annua (+1,4% per l'Italia) e nel 2018

aumenterà dell'1% , con un tasso, quindi, che sarà di poco inferiore a quello italiano (1,2%). Il dato più

interessante resta quello del numero delle imprese attive in Campania che sono arrivate a 483 mila a

settembre di quest'anno facendo registrare un balzo dell'1,2% rispetto all'anno precedente a fronte di un

trend nazionale in lieve diminuzione (-0,1%). Analizzando il valore aggiunto per settore, si intravedono

alcuni segnali di ottimismo, specie in agricoltura, nel manifatturiero e nelle costruzioni con stime di sviluppo

anche per il 2018. Nello studio di Unicredit si evidenzia, inoltre, il buon andamento degli investimenti fissi

lordi, che risultano più vivaci in regione rispetto al resto del Paese: dopo anni in negativo, nel 2015 sono

tornati a crescere e il 2016 ha registrato un'accelerazione che proseguirà anche il prossimo anno,

fenomeno che sta agevolando la ripresa della domanda interna .

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Lo sviluppo del Mezzogiornoil dossier Mai più zavorra di italia La ripresa (anche) nel 2018 In Campania, Puglia, Basilicata e Calabria le previsioni di crescita dell'Osservatorio dei Territori di Unicreditper il prossimo anno sono in linea o poco inferiori rispetto alle media nazionaleGoitini, direttore regionaleSud dell'Istituto: «Gli incentivi sono stati determinanti, ora non bisogna fermarsi» servizi a cura di Mariarosaria Marchesano Eppur si muove. A dispetto della visione pessimista che vorrebbe il Mezzogiorno condannato senza

speranza a essere la zavorra dell'Italia, continuano a emergere segnali in senso contrario, chiari e

inequivocabili come soltanto gli indicatori economici sanno essere. Il Sud si sta lentamente risvegliando

dopo la lunga notte cominciata nel 2008 e lo prova il fatto che negli ultimi due anni è cresciuto a un tasso in

linea o addirittura superiore alla media nazionale. E questo sta avvenendo un po' dappertutto, anche se è in

particolare la Campania (qui il pil è aumentato nel 2016 del 2,3%, quasi il triplo rispetto a quanto fatto

dall'Italia nello stesso anno) a trainare la ripresa dimostrando nuova vitalità nel suo apparato produttivo. La

conferma di questo trend positivo viene dai dati forniti dall'Osservatorio dei Territori del gruppo UniCredit

guidato da Jean Pierre Mustier che, dopo aver analizzato la performance di quattro regioni in particolare,

Campania, Puglia, Basilicata e Calabria, ha tratto come conclusione che siamo di fronte a una svolta, a una

fase di espansione che da queste parti non si vedeva da un bel po' di tempo.

«È finalmente in atto un consolidamento della ripresa dell'attività economica», spiega Elena Goitini,

direttore regionale Sud di UniCredit. «Dopo l'importante performance del 2016, in particolare in Campania

ed in Basilicata, le previsioni del pil per il 2017 e il 2018 mostrano ancora una significativa crescita per il

Sud, anche se proprio in queste due regioni si registra un lieve fisiologico rallentamento rispetto all'anno

passato», aggiunge. Un cambio di passo, dunque, che sembra destinato a durare nel tempo e che

andrebbe incoraggiato.

Come conferma la stessa Goitini, infatti, le stime dell'Osservatorio di Unicredit non tengono ancora conto

degli effetti benefici dei recenti provvedimenti nazionali e regionali, che potrebbero portare ad un ulteriore

incremento della crescita reale, con effetti positivi sulla dinamica della domanda interna e sull'occupazione.

Ma da dove arriva questa spinta rivitalizzatrice? «Penso in particolare alla manifattura campana, alla

ripresa generalizzata del settore delle costruzioni, che aveva risentito particolarmente della crisi degli anni

passati, oltre al rilancio degli investimenti in tutte le regioni del Sud continentale», replica la top manager

del gruppo bancario, che fornisce anche una spiegazione di questa dinamica.

«Le politiche nazionali messe in campo per incentivare la ripresa economia dei territori del Mezzogiorno,

abbinate alle iniziative delle singole regioni - assicura Goitini - stanno iniziando a dare risultati importanti, a

testimonianza della grande potenzialità e della ricettività del tessuto economico ed imprenditoriale del

Sud». E ora tutti gli occhi sono puntati sul futuro. La legge di bilancio per il 2018 approvata dal Consiglio dei

ministri ha confermato e rafforzato gli impegni presi dal governo su coesione territoriale e Mezzogiorno,

incrementando ulteriormente le risorse e dando continuità alle politiche del cosiddetto Masterplan.

Un provvedimento commentato con soddisfazione dal ministro Claudio De Vincenti, il quale ha spiegato

che la manovra prevede l'incremento della dotazione complessiva del fondo Sviluppo e Coesione, il

rafforzamento della dotazione finanziaria del credito d'imposta per gli investimenti al Sud, la

decontribuzione al 100% per i neoassunti giovani e anche per tutti i disoccupati da almeno sei mesi,

l'istituzione di un fondo di investimenti destinato alla crescita dimensionale delle piccole e medie imprese

meridionali (da non dimenticare anche il progetto «Resto al Sud», che prevede incentivi per i giovani che

hanno idee imprenditoriali da sviluppare). «Siamo di fronte ad una importante opportunità per ridurre il

divario tra le regioni del Mezzogiorno ed altre aree del Paese, che resta purtroppo ancora rilevante -

commenta il direttore regionale Sud del gruppo bancario - C'è un gap profondo ancora da recuperare.

Pertanto è fondamentale non interrompere, ma anzi proseguire nella politica di stimolo all'economia di

18/12/2017Pag. 2 18 dicembre 2017 Corriere del Mezzogiorno Economia

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quest'area, a beneficio di un processo di consolidamento del percorso di crescita in atto in tutto il Paese»,

prosegue.

Ma come in tutti i processi di rilancio di territori depressi occorre un'azione che sia continuativa nel tempo

visto che i miracoli non esistono. La preoccupazione generale è che con la fine della legislatura

quest'azione a beneficio del Sud possa subire dei rallentamenti, anche se ormai la strada sembra segnata

e sarebbe quanto meno difficile per una nuova eventuale compagine governativa tornare indietro.

Così l'analisi della Goitini si chiude con un appello e anche un impegno in prima persona del gruppo

Unicredit: «È necessario saper fare squadra. Ogni attore che opera su questo territorio - imprese,

istituzioni, associazioni di categoria, università - deve cogliere l'importanza storica della fase economica

che ci troviamo a vivere. A partire dalle banche. Ed infatti come Unicredit lanceremo nei prossimi mesi un

piano di supporto al settore produttivo del Sud, finalizzato anche ad ampliare gli effetti benefici degli

incentivi nazionali e locali messi in campo per il prossimo anno».

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AreeInvestimenti,manifatturacampanae costruzione:la spintarivitalizzatricearrivaproprio da quiFoto: Sono le regioni del Mezzogiorno (Campania, Puglia, Basilicata e Calabria) sulle quali si è concentrata

l'analisi dell'Osservatorio dei Territori realizzata dagli analisti del gruppo Unicredit in merito alle previsioni di

crescita economica nel 2018

4

Anche solidarietà

Sono 54 le onlus del Sud in gara per «Un voto, 200.000 aiuti concreti», campagna dedicata al non profit

realizzata da Unicredit. Stanziati 200 mila euro da distribuire alle organizzazioni del portale IlMioDono.it (31

in Campania, 16 in Puglia e 7 in Calabria). Partnership del settimanale Rcs «Buone Notizie - L'impresa del

bene».

È necessariofare squadraNoi lanceremo nei prossimi mesi un piano di supporto al settore produttivo1,3%1,2

1,1

1 È la percentuale di crescita del pil nel 2017, previsione dell'1% nel 2018 È la percentuale di aumento nel

2017, il prossimo anno è 1,1% Nel 2017 è la percentuale della prospettiva di rialzo: 0,7 nel 2018

Percentuale stima di sviluppo nel 2017, sarà 0,8% nel 2018

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