1 la rivista del ferrara sharing festival

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Report della prima edizione del Ferrara Sharing Festival, 20 - 22 maggio 2016 The Sharing World Scenari e prospettive del mondo che cambia Un evento di Sedicieventi srl, con la collaborazione del Comune di Ferrara, l’Università di Ferrara, la Regione Emilia Romagna. Direzione artistica: Davide Pellegrini

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Report della prima edizione del Ferrara Sharing Festival, 20 - 22 maggio 2016

The Sharing WorldScenari e prospettive del mondo che cambia

Un evento di Sedicieventi srl, con la collaborazione del Comune di Ferrara, l’Università di Ferrara, la Regione Emilia Romagna.

Direzione artistica: Davide Pellegrini

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3,5 miliardi di euro per 100 mila posti di lavoro, il rapporto per l’economia italiana del 2015 presentato da Air BNB.

Un dato di fondamentale importanza, considerato che la proposta di legge presentata in 12 articoli dall’Intergruppo Innovazione del Parlamento sembra considerare le grandi piattaforme digitali come una priorità.

Ma cosa è la sharing economy, tolto il fenomeno del neo-capitalismo digitale?

Cosa è la sharing economyDefinizioni, modelli, piattaforme e comunità

di Davide Pellegrini

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SOMMARIO

Introduzione. La sharing economy: lo scenario

Fenomeno sharing:

- La ricomposizione della frattura fra spazio e tempo

- Il punto di vista di Bonomi

- Sharing economy: is the new black?

L’impresa dei millenial:

- Essere collaborativi, anche all’interno

- Ripartire dalle competenze

- Gli Italiani e la sharing economy

- Perché è difficile realizzare un’impresa digitale in Italia

Sezione 1: Digital Economy

- Il turismo e la sharing economy

- Il punto di vista

- L’importanza di un governo digitale

- Food Revolution

- Last Minute sotto casa

- Workshop il turismo e la sharing economy

Sezione 2: Social Enterprise

- Dalla coop alla platform cooperative

- Cosa è il business inclusivo

- Il diritto dell’eccezione, non della regola

- Tempi ibridi

- Open Innovation

- Workshop le nuove professioni

Sezione 3: Community

- Le esperienze di community e il valore condiviso

- Vivere il co-housing

- Workshop gli spazi della collaborazione

La felicità non costa niente:

- Cosa diventerebbe il mondo se la sharing...

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- Progettare la sostenibilità

- Riflessioni su un’economia della felicità

- Il contributo della finanza etica all’economia della condivi-sione

- La città intelligente come habitat relazionale

- Universo Bergonzoni

La cultura come cura:

- Le politiche culturali e l’orientamento dell’UE

- Workshop la cultura e la sharing economy

Pubblicazione gratuita a cura di Aise.

A cura di: Davide Pellegrini.

Editing ebook: Francesca Fornari, Edicoletta servizi editoriali

Contenuti: liberamente concessi dai partecipanti al Ferrara Sharing Festi-val.

Fotografie: Giulia Paratelli.

Immagini: alcune immagini sono state prese da internet. Se dovessimo aver infranto il copyright, vi preghiamo di comunicarcelo tempestivamente e prov-vederemo a rimuoverle.

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La sharing economy: lo scenario - di Davide Pellegrini

In un recente articolo, dal titolo La sfida del valore condiviso e le trappole della sharing economy, Andrea Granelli pubblica un’interessante riflessione sul tema dell’economia collaborativa. È un’ottima occasione per aprire un dibattito che, in varie forme, oggi investe tutti gli operatori che lavorano nei percorsi di innovazione. L’articolo pone l’interrogativo se il comportamento dello sharing sia, in contrapposizione con il concetto di dono di Marcel Mauss, da intendersi più come una forma di condivisione (dato che il pro-prietario resta di fatto in possesso di ciò che condivide). 

L’idea che, come abbiamo avuto modo di sperimentare, il termine sharing rappresenti attualmente un contenitore di differenti interpretazioni che pon-gono al centro la società connettiva, prima ancora che collettiva – come di-rebbe Manuel Castells – sembra piuttosto scontata. Così come lo è stata, fino a ora, la necessità di dividere chirurgicamente il mondo profit da quello no profit, ancora oggi fatalmente suggestionati dallo scopo dell’azione prima ancora che dalla possibile ricaduta benefica dei suoi effetti (Air Bnb è neoca-pitalismo digitale o un’opportunità per microeconomie di scala? E, soprattut-to, in che modo il valore condiviso si esprime in un servizio on demand?). Che il terzo settore da sempre sia connotato in modo molto specifico, nessu-no lo nega. Ma in un periodo di crisi e di totale e radicale trasformazione co-me questo, credo sia più giusto concentrarsi sul ruolo che l'azione imprendi-toriale deve avere, piuttosto che sulla esclusiva natura del servizio che offre. Giustamente, nel suo articolo, Granelli cita il famoso testo del 2011 di Porter e Kramer, Creating Shared Value, apparso su Harvard Business Re-view Italia nel gennaio-febbraio 2011. Secondo i due teorici «le aziende po-trebbero riconciliare affari e società civile se solo ridefinissero il proprio obiettivo nei termini di creazione di “valore condiviso” e rimettessero in con-tatto il successo di un'azienda con il progresso sociale». Qualcosa di non lontano dalla CSR che, però, appare distante dalla reale fisionomia del fenomeno innescato dalla cultura della sharing economy.

Non solo per il fatto che interpretare un’azienda dal punto di vista dei colle-gamenti infrastrutturali con un territorio non basta a costruire un legame pro-fondo con il territorio sul quale opera; poi, perché non è affatto semplice in-tercettare una serie di fenomeni che spesso sono mossi da processi di ge-stazione spontanea come nel caso degli spazi collaborativi, hub o fablab o, ad esempio, tutti quei progetti che propongono in ottica locale e collaborati-va prodotti e servizi di nicchia (prendete, ad esempio, il caso dei servizi cul-turali come TeatroxCasa o CitofonareInterno7). Fuori dall’idea che dietro l’ideologia del free si nascondano strategie di guadagno (anche se non per tutti), posso assicurarvi che alcune piattaforme si confrontano con il proble-ma della sostenibilità giorno per giorno e, il più delle volte, senza alcuna op-portunità di dialogo con le imprese del territorio sul quale operano.

È evidente che, per la maggior parte di questi team, il primo proposito sia quello della finalità sociale.

Se la sensibilità al sociale (visto che si parla ormai quotidianamente di im-prese ibride e di b-corp) sta abbattendo il confine stabilito dal fine di lucro, sta anche riconfigurando un intero sistema che stabilisce nuovi parametri: la differenza tra interazioni sociali e relazioni sociali. Nella sessione introdutti-va al recente Festival di Ferrara – tra gli altri – ce ne hanno parlato Paolo Venturi e Luigi Corvo, moderati da Alessia Maccaferri. Le interazioni, come nel caso delle piattaforme digitali, possono essere contatti favoriti dal fine utilitaristico del rapporto (un esempio sono proprio i servizi on demand), mentre le relazioni costruiscono valore. Ne parlo con grande trasporto per-ché, rispetto al dibattito che si è infuocato, e che ancora non riesce a eman-ciparsi dalla sua visione economico-aziendale, stiamo finalmente scoprendo che la sharing economy è prima di tutto un fenomeno che ha alla base un manifesto di idee di cambiamento che si esprime per comunità fisiche. Quel-lo che è uscito fuori, in quelle bellissime giornate ferraresi, è l’urgenza da parte delle persone di ritrovarsi in gruppi e avere l’opportunità di sentirsi co-involti in community attive prima ancora di diluirsi nel network aperto e illimi-

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tato della rete. Il sociologo Davide Bennato ha espresso un’idea ben preci-sa quando ha detto che in una fase storica in cui il contesto delle relazioni si caratterizza come ecosistema in cui prevale la desincronizzazione e la de-territorializzazione (ci si rapporta all’altro in tempo e luoghi diversi, pensate ai social media), il futuro creerà sempre più una netta distinzione tra i net-work e le community. Distinzione che, tra le altre cose – come dimostrano gli studi sul nostro paese – rafforza pienamente il retaggio culturale che esalta la propensione alla prossimità fisica, alla ricerca del gruppo e alla cooperazione. 

L’emancipazione dalla visione radicale aziendalista, che per la verità cita an-che Andrea Granelli, e la valorizzazione del genius loci al di fuori dalle retori-che coloniali di stampo anglosassone, ci aiutano nel recuperare la ricchez-za non solo produttiva, ma di idee e contenuti che possediamo come un te-soro naturale. Ora che anche il marketing si è fatto umanistico (giocando con Kotler), possiamo finalmente concentrarci su alcune importanti caratteri-stiche dell’economia collaborativa nel nostro paese:

1) l’impresa sociale di tipo collaborativo non si lega al territorio, ma da essa-nasce e con esso si sviluppa grazie all’interesse manifesto dei suoi soci, che sono espressione stessa del territorio che abitano, vivono e sono in-teressati a migliorare. Il concetto di “locale” non è affatto una limitazione concettuale del valore di un’impresa, ma può diventare un’opportunità nel-la misura dell’azione condivisa con infrastrutture, stakeholders, associa-zioni e comunità con i quali coordinare un’azione di sistema. L’impresa sociale non si misurerà più solo sulla base di indicatori econometrici, ma sul reale capitale sociale, di conoscenze e competenze sviluppare sul ter-ritorio;

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2) la costruzione di innovazione (che non si misura ex post, ma che ha un-suo senso più che manifesto nel compiersi del processo) e la nuova catena del valore fatta di progetti, piattaforme e spazi collaborativi, obbedi-sce alla volontà di riconfigurare il sistema sociale e culturale prima che all’obiettivo di realizzare un indotto milionario.  Mark Federman ha coniato il termine pu-blicy per definire la contaminazione tra la sfera pubblica e quella privata, propria di chi opera in rete (una condizione per dire che ormai la convergen-za delle due dimensioni ci costringe di fatto all’attenzione verso l’etica socia-le), Laura Boella, in Un Mondo Condiviso, scrive che il primo motore della collaborazione è l’empatia, una condizione naturale che avvicina le perso-ne nell’identificarsi l’uno nell’altro e nel condividere la rappresentazione di uno stresso destino. La spinta all’idealità dei gruppi collaborativi giustifica il passaggio dal capitalismo dell’iper-consumo alla partecipazione collettiva alla governance pubblica e alla gestione dei beni comuni. Obiettivo: trova-re soluzioni; 

3) il superamento della logica della rottamazione e il riconoscimento del senso del cambiamento. Parlando di neocapitalismo digitale, ad esempio, è un fatto che siano stati intaccati gli interessi di corporazioni e associazioni di categoria che cercano in qualche modo di mantenere delle posizioni, pur disponibili ad aggiornarle tramite un confronto con i nuovi attori. Il punto è che la dialettica, più che interessare il rapporto tra ciò che è vecchio e ciò che è nuovo, dovrebbe essere vista come un complesso dialogo tra gruppi che difendono interessi di gruppo. Da un lato ci sono le associazioni di cate-goria che, per come vengono rappresentate, difendono i proprio interessi e sono reticenti al cambiamento; dall’altro ci sono i neo-operatori delle gran-di corporate che, per come vengono raccontati, difendono gli interessi della nuova imprenditoria digitale; poi, ci sono le community di innovatori che, pe-rò, nel costruire delle alternative rappresentano di fatto un altro gruppo, di-verso per obiettivi e modalità, ma chiuso nelle proprie posizioni. Costrui-re ponti, collegare identità e missioni diverse equivale a trovare il giusto

equilibrio narrativo per comunicare che l’urgenza di cambiamento non vuol dire necessariamente destituzione forzosa di chi c’era prima;

4) la prossima civiltà sociale, la società partecipe, obbedisce a una finalità curativa. Tornando all’empatia, la malattia del millennio è nella rivelazione di tutto lo scibile senza più alcun contenimento. La storia si è sciolta e, nel flus-so che la vuole ormai come un eterno presente in movimento, ha svelato le sue fragilità, i suoi controsensi, obbligando ognuno di noi a subire un incipit narrativo come quello della Grande Crisi Globale, senza soluzioni né svilup-pi di sorta. In questo senso, la diffusione della necessità collaborativa, nel suo acquisire un rilievo collettivo, obbliga tutti a credere che un miglioramen-to sia possibile e ad agire perché accada. L’empatia è la cura. L’intenzionali-tà, la volontà di assecondare il cambiamento per mezzo di strategia positi-ve, sono gli strumenti. Nei giorni di Ferrara si è svolto un workshop sulla feli-cità in cui si è parlato di nuovi modelli. Dall’economia circolare («circolare,

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circolare, non c’è nulla da vedere», come direbbe Bergonzoni) all’economia civile, dal mutualismo alla ricerca della felicità.

5) l’innovazione può fare molta paura. Non siamo in un racconto di Asimov o di Philip Dick. Non c’è quella barriera della finzione a rafforzare il patto tra l’autore e il lettore. È qualcosa che succede realmente e ha delle riper-cussioni importanti nella vita di tutti. Se l’idea che abbiamo anche discus-so in alcuni workshop è quella del agire per cambiare, anche se non si viene capiti, si ripete probabilmente l’annosa quaestio che è alla base del-l’alternanza storica delle generazioni. In questo senso, gli innovatori sa-rebbero le avanguardie, così come ci sono state nella prima metà del No-vecento, e la dinamica sarebbe quella del conflitto, della contrapposizio-ne, della rottura degli equilibri e dell’instaurazione di nuovi paradigmi so-ciali, culturali, ecc. Oggi, invece, possediamo strumenti più efficaci e pe-netranti per costruire una dialettica rassicurante sul futuro e sull’innova-

zione. L’obiettivo dell’innovatore non consiste più nella ghettizzazione del suo ruolo, ma nello sforzo di rendere comprensibile quello che fa rispetto a ciò che è stato. 

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Fenomeno sharingriflessioni e appunti sul cambiamento

3,5 miliardi di euro per 100 mila posti di lavoro, il rapporto per l’economia italiana del 2015 presentato da Air BNB.

Un dato di fondamentale importanza, considerato che la proposta di legge presentata in 12 articoli dall’Intergruppo Innovazione del Parlamento sembra considerare le grandi piattaforme digitali come una priorità.

Ma cosa è la sharing economy, tolto il fenomeno del neo-capitalismo digitale?

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La ricomposizione della frattura fra spazio e tempo - di Davide Bennato

Le retoriche più diffuse alla base del contemporaneo cambiamento profes-sionale sono essenzialmente due: la novità dei processi lavorativi (come il lavoro a distanza) e l’ineluttabilità della componente tecnologica (la rete co-me unico spazio per gestire le attività professionali).

In realtà entrambe le retoriche peccano di “presentismo”, ovvero di una esa-gerata quanto errata attenzione al presente.

Prendiamo la prima retorica: la novità dei processi lavorativi.

L’attuale componente professionale deve confrontarsi con due interessanti processi macro-sociali assolutamente interconnessi che sono la deterritoria-lizzazione e la desincronizzazione. La deterritorializzazione è il processo in base al quale il lavoratore professionista non condivide lo stesso spazio fisi-co della sua attività lavorativa: per esempio un professionista che lavora su mercati internazionali e pertanto lo spazio fisico del mercato in cui opera non è lo spazio fisico dove si trova il suo ufficio. Come conseguenza della deterritorializzazione abbiamo la desincronizzazione, ovvero il processo se-condo cui i ritmi di lavoro sono scollegati dallo spazio fisico in cui avviene effettivamente l’attività lavorativa: come il caso del professionista che lavo-rando su mercati internazionali deve relazionarsi con clienti che non si trova-no nel suo stesso fuso orario e quindi lavora in un tempo che non appartie-ne al suo ufficio ma al suo mercato.

La deterritorializzazione non è un fenomeno nuovo: prende le mosse dalla rivoluzione industriale in cui lo spazio di lavoro (la fabbrica) non si trova più nello stesso posto dove vivevano gli operai (quartieri dormitorio o in tempi più recenti quartieri residenziali). Il tempo ancora non era un problema per-ché la distanza fra questi luoghi era relativamente breve, al netto di cambia-menti sociali come la nascita delle periferie e il progressivo allontanamento

dal centro cittadino. Con la globalizzazione degli anni ’80 del XX secolo le cose cambiano radicalmente. Nascono le multinazionali, imprese che travalicano i confini dello stato-nazione allontanando sempre di più lo spazio dei processi lavo-rativi dallo spazio dei mer-cati. Il problema da fisico diventa temporale, ci si tro-va a lavorare con altri fusi orari, entrano in gioco tec-nologie per lo spostamento sempre più efficienti come i trasporti aerei. Finché pro-gressivamente invece di spostare merci e persone, si cominciano a sposta-re i processi.

E qui entrano le dinamiche che ci aiutano a smontare la retorica del-l’ineluttabilità della tecnologia.

Le tecnologie ICT in genere – e in tempi recenti quelle legate a internet – non sono ineluttabili, sono frutto semplicemente del processo di remotizza-zione, ovvero servono tecnologie che permettono di agire a distanza, in re-moto, che permettono cioè di ovviare all’inconveniente per cui il professioni-sta (ma anche il lavoratore in genere) si trova in uno spazio/tempo diverso dal suo cliente e dal suo mercato. L’attuale successo dei processi lavorativi gestiti soprattutto grazie alle tecnologie della rete internet, sono in realtà la radicalizzazione di processi che sono stati attivati da strumenti come l’aereo

Docente di Sociologia dei media digitali, Università di Catania

Davide Bennato

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e il telefono e il fax, veri simboli dell’infrastruttura lavorativa delle multinazionali degli anni ’80. Quasi tutta la letteratura sociologica su lavoro e organizza-zioni ha tematizzato con forza questo aspetto. Studiosi come Manuel Castells (autore del concetto di spazio dei flussi), Anthony Giddens (la cui teoria di è concentrata sulle dinamiche di disintermediazione/reintermediazione) e John Urry (con i suoi illuminanti studi sulla sociologia della mobilità) hanno concen-trato la loro analisi sulla tripartizione tempo/spazio/tecnologia, ovvero la tecnologia è uno strumento che funge da collante per ricomporre la frattura socia-le fra tempo e spazio attivata dai processi lavorativi della fabbrica del XIX secolo.

Cosa c’entra questo con la sharing economy?

Se noi consideriamo la componente multinazionale della sharing economy – per esempio Uber – possiamo vedere come la tecnologia (l’algoritmo) serve per rendere accessibile e pertanto monetizzabile le strade della città (lo spazio), agendo sulla capacità di segmentare il tempo che si impiega per svolgere il servizio. Dinamiche simili se consideriamo la componente partecipativa della sharing economy ovvero economia della condivisione di merci/servizi basa-ta su una community di persone. In questo caso la tecnologia (la rete) è lo strumento di collante sociale che consente l’accesso a prodotti/servizi (il tem-po) cercando di ovviare alla scarsità di questi rispetto ad un preciso spazio fisico.

La tecnologia non è causa di queste nuove dinamiche sociali, ma la sua importanza cresce in quanto risposta a processi di frammentazione sociale che la velocità dello sviluppo economico (ma non solo) hanno estremamente accelerato.

Nell’Italia in metamorfosi c’è un tessuto di economia diffusa fatto di capitalisti molecolari attivi nella manifattura, nel commercio, nel turismo. Questi, nel bene e nel male, sono un’intelaiatura economica del paese proliferata nel primo postfordismo, fatto di distretti manifatturieri che hanno usato la rete per tenersi nelle filiere produttive e per la promozione di sé. Potevano fare riferimento al welfare e contare sulle istituzioni.

I nuovi mercati rimandano al secondo postfordismo della conoscenza globale in rete, soprattutto a base urbana, che dà corpo alla sharing economy, che ridisegna smart city in un’economia circolare della città possibile dove acqua, energia, rifiuti, mobilità, logistica, spazi pubblici, sicurezza, sanità, sono big data di un consumo e di una governance di nuove forme di convivenza. La società circolare che viene avanti, con la digitalizzazione, si chie-de come cambiano l’amministrazione, la partecipazione, la conoscenza, la formazione continua, l’accoglienza e l’inclusione. Nei comportamenti sociali, come sempre, ci sono alleati con cui tessere la ragnatela del valore.

di Aldo Bonomi, sociologo

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Sharing economy: is the new black? - di Luigi Corvo

Ma cosa è questa sharing economy di cui si sente così tanto parlare (ora persino in Parlamento)?

Proviamo a mescolare 3 fattori:

- il lavoro non riesce più ad essere il principale vettore per ridistribuire il valore fra coloro che hanno contribuito a generarlo;

- abbiamo accumulato asset che nel corso degli anni abbiamo sotto-u-tilizzato, per via di costi di coordinamento che ne rendevano inefficien-te una gestione condivisa;

- l’innovazione tecnologica ha ridotto quasi a zero i costi di coordina-mento e ha reso pop piattaforme di condivisione degli asset che fino ad oggi erano per lo più dormienti.

Mescolando questi elementi, e inserendo alcuni ingredienti fondamen-tali quali la centralità delle relazioni e la possibilità di incrementare i li-velli di fiducia fra gli agenti in condizioni di disintermediazione, si ottie-ne quell’effetto che chiamiamo sharing economy.

L’impatto è e sarà sempre più dirompente. Il messaggio forte è che qualunque asset, qualunque bene, materiale e immateriale, può avere una gestione condivisa, può generare valore con il contributo di più per-sone e a favore di più persone a patto che i costi di coordinamento sia-no quasi zero e che ci sia una governance inclusiva con una catena del valore circolare.

Ma ci sono due elementi che emergono e che aprono degli spazi per costruire una nuova economia. Il primo riguarda l’approccio al rischio:

se una piattaforma riesce a coordinare gli asset diffusi, riesce anche a sbriciolare il rischio che ciascun agente assume, e questo rende il mo-dello di business lean, scalabile e, soprattutto, antifragile. Pensiamo alla differenza fra le migliaia di stanze offerte da Airbnb e un hotel. Un host di Airbnb non ha costi fissi elevati, non necessita di ingenti investi-menti, non ha costi di personale e non ha strutture rigide cui far fronte. Il suo rischio è quasi zero, così come il costo di coordinamento, e que-sto funge da potente fattore abilitante, in grado di spiazzare il mercato degli hotel che, al contrario, hanno rigidità tali da necessitare di una do-manda quantomeno in grado di garantire il raggiungimento del punto di break even.

Applicando tale cambiamento a diversi settori/bisogni si ottiene un effet-to di shift che fa impressione. E che richiede politiche nuove, dall’istru-zione alla tassazione passando per la revisione delle regolamentazioni (e non solo).

Il secondo elemento attiene alla logica con cui l’economia ha trattato la questione delle inefficienze. Avere una parte di casa, quindi un asset, dormiente è una inefficienza, così come il fare un viaggio in automobile senza riuscire ad ottimizzare i posti di trasporto disponibili (e quindi i consumi). Le innovazioni che sono alla base della sharing economy rie-scono ad intercettare queste (e molte altre) inefficienze e trovano il modo per derivare valore da esse. Potrebbe sembrare un paradosso, ma per gli agenti dello sharing l’inefficienza è una bella notizia, perché in essa è insita l’opportunità di scovare l’innovazione che riuscirà a di-segnare una nuova catena del valore e a creare nuovi mercati e nuove prospettive.

In sintesi, dunque, viviamo una fase di transizione in cui ciò che gene-rava valore risulta sempre più inadeguato a garantire la sostenibilità

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sociale ed ambientale e avvertiamo l’urgenza di identificare nuove for-me di generazione e redistribuzione del valore. Non sarà immediato effettuare il cambio di paradigma, ma possiamo partire da un punto: lavorare sulle inefficienze come alleate del cam-biamento. Per farlo, e per fare in modo che i benefici non siano centralizzati nel-le mani di pochi, occorrerà lavorare mol-to sulla governance di questi processi e sulla misurazione e valutazione del loro impatto sociale ed ambientale.

Luigi Corvo, Docente di Social Entrepreneurship and Innova-tion, Università di Roma Tor Vergata

La campagna di CoRete, rete delle realtà collaborative romane

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L’impresa dei millenialpiattaforme, servizi, idee e comportamenti della collaborazione

La sharing economy ha cambiato l’idea del lavoro. L’incertezza di questi tempi, l’impossibilità di prevedere gli esiti della Crisi Globale non sono in realtà che alcune delle variabili.

Alla base del nuovo mutualismo e della spinta alla collaborazione c’è anche l’identità di una generazione (definita dei millenials) che convive con la mobilità, con la condivisione e che ha fatto della propria volontà di cambiamento il motore per ripensare ogni aspetto della vita politica, economica, civile, culturale, professionale.

L’identikit delle nuove imprese.

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Essere collaborativi, anche all’interno - Emanuele Quintarelli

Insieme ai file, abbiamo scoperto come in un ecosistema collaborativo possano circolare posti di lavoro, stanze, pasti, passaggi in auto, con risvolti in molti casi dirompenti su interi settori industriali.

La Sharing Economy ha introdotto una lunga lista di questioni legate all'impatto della digitalizzazione sul rapporto azienda-dipendente, sulla poten-ziale messa in discussione di diritti acquisiti con grande fatica, sulla necessità di nuove regole per il riconoscimento ed inserimento di attori econo-mici difficilmente classificabili all'interno degli schemi di mercato che anno caratterizzato il secolo precedente.

Per quanto simili domande siano ancora ben lungi dal trovare una risposta chiara e condivisa, esiste un'ulteriore dimensione dell'economia collaborativa che finora non ha addirittura trovato spazio all'interno della discussione pubblica. In un mondo dominato dalle piattaforme, in cui da fruitori gli utenti di-ventano partner, in cui il concetto stesso di lavoro si sfaccetta e fluidifica, dove il cliente è attratto da esperienze distintive, multicanale ed una relazione paritetica e trasparente con i provider, la prima a frantumarsi in mille pezzi è l'azienda tradizionale.

Dalle ceneri dei silos dipartimentali, del micromanagement, delle strutture verticiste, rinasce un'organizzazione finalmente pensata non tanto per sopravvivere, quanto per trarre il massimo vantaggio dalle dinamiche partecipative peer-to-peer tipiche del nuovo corso.

Aldilà di un buon marketing e di business model efficaci, è ormai evidente come l'era della condivisione imponga un vero e proprio cambio di DNA, in pri-ma istanza relativo al ruolo ed alle modalità di partecipazione di chi in azienda vive tutti i giorni.

La trasformazione della fabbrica di Taylor nell'azienda collaborativa richiede pertanto tre passaggi:

" •" Il superamento della gerarchica a favore di una struttura basata su team (pod) dotati di autonomia ed invitati a scambi paritetici

" •" Il riconoscimento delle community di clienti quali attori che affiancano l'azienda nel fornire servizi, creare prodotti e raggiungere il mercato

" •" L'inclusione degli stessi fornitori in qualità di co-creatori ed innovatori della proposta di valore di cui l'azienda si fa portatrice

Ancora prima della costruzione di piattaforme per attirare milioni di persone, startup ed incumbent stanno finalmente comprendendo come volatilità e complessità dell'economia attuale richiedano un'agilità, adattabilità e capacità di ascolto dei bisogni del cliente possibili solamente lasciando che la rete entri in azienda e l'azienda diventi essa stessa rete.

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Infografica della Social Enterprise - da Gist

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Ho toccato con mano come non siano l’età o il settore economico a delineare i percorsi di sharing ma la capacità dei singoli (spesso in organizzazioni) di comprendere le potenzialità, anche di mercato, che un’economia basata sulla fiducia, l’uso intelligente delle risorse, obiet-tivi di medio-lungo termine a fare la differenza.

Diverse aziende italiane cominciano a affrontare i loro progetti con logiche di crowdsourcing tra i dipendenti liberando idee e energie a lungo sopite, e mettendo talvolta in crisi rendite di posizione minacciate dagli ultimi arrivati magari più attenti o preparati. Gli stessi spazi di coworking stanno diventan-do veri servizi per l’impiego dove le persone vivono un inedito ‘apprendista-to alle professioni autonome’

In questo senso, gli ambiti di competenza richiesti dalla SE – spesso tra lo-ro correlati - sono:

1. La creazione, gestione, manutenzione di fiducia sia dei singoli e delle community

2. La capacità di strutturare processi di facilitazione e accelerazione nella creazione di relazioni volte a rendere lo ‘scambio’ facile, vantaggioso, attrattivo.

Ripartire dalle competenze - di Andrea Pugliese

II dibattito sulle prospettive e le opportunità legate alla Sharing Economy (SE) si focalizza da tempo sui temi dei modelli di business che la rendano sostenibile, della fiscalità che la deve accompagnare e delle piattafor-me necessarie a disintermediare le risorse che vengono condivise, siano esse tempo, talenti, auto, case o altro. Molta riflessione è poi per classifica-re i servizi: sono ‘buoni’ o ‘nocivi’ per l’economia? Creano o distruggono posti di lavoro? Uber è sharing o no? La nuova proposta di legge serve e ha senso? Nel frattempo le aziende profit e no profit si devono posizionare in un mercato poco regolato, dove muoversi per primi consente di intercet-tare bisogni più urgenti e creare community più ampie e motivate, e dove aleggia l’aforisma “E’ meglio chiedere scusa che chiedere permesso.”

Ecco che operare nella SE diventa una scelta che presuppone com-petenze specifiche, spesso aggiuntive a quelle più tradizionali.

Occupandomi di servizi per il lavoro ed essendo immerso ormai dal 2011 nelle spinte al cambiamento della Social Innovation, vorrei contribuire a orientare/riorientare le professionalità di chi vuole cogliere le opportunità della SE e per condividere qualche spunto anche con chi si occupa di pro-grammazione formativa e orientamento professionale.

Come è già stato per la Green Economy, la SE determina almeno due am-biti di impatto nel sistema delle competenze:

1." La comparsa di nuove professionalità, sebbene piuttosto poche;

2. L’evoluzione dei set di competenze professionali già in possesso di molti che vanno a essere integrate o evolute da conoscenze e abilità specifiche.

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3. Capacità di progettare esperienze (di incontro, di scambio, …) e conver-sazioni, on line e off line che siano funzionali ai servizi,

4. Capacità di portare i cittadini/clienti dall’inclusione all’azione di ‘scam-bio’ attraverso leve motivazionali coerenti con i valori che si vogliono esprimere, anche attraverso il gioco

5. Una concezione dei Beni Comuni abilitanti a processi di inclusione e sviluppo locale la cui cura e rigenerazione creino valore per il più alto numero di persone

6. Capacità di definire modelli di business in cui si trasmettano non solo i valori economici ma anche culturali, ambientali e sociali.

7. Capacità di business storytelling focalizzate sul ‘perché’ degli interventi/servizi piuttosto che sul ‘cosa’ e sul ‘come’.

8. Capacità di interpretare ed evolvere l’impianto delle regole normative, procedurali, finanziarie e fiscali in una logica aperta alla collaborazione e alla fiducia.

9. Capacità di valutare gli impatti degli interventi sulle relazioni, le conver-sazioni, la creazione di valore

Da questo elenco, di certo parziale, si evince subito come la dimensione umanistica, quella tecnologica, artistica, le scienze sociali, economia, legge declinate anche nel game design, il community management, la facilitazio-ne, debbano interagire spesso con le competenze tecnologiche.

In conclusione, vedo nella SE un'occasione imperdibile per un mercato del lavoro di maggiore qualità, in cui trova spazio la costruzione di fiducia e rela-zioni, la narrazione, la multicompetenza. Tutto questo per generare maggio-re resilienza dei singoli, della imprese e delle comunità.

Andrea Pugliese, consulente strategico in materia di programmazione di Fondi Europei, di politiche e servizi per lo sviluppo territoriale e occupazionale

Per approfondire:

Titolo: Mi fido di te

Autore: Gea Scancarello

Editore: Chiarelettere

Data: 2015

Costo: € 13,90

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Gli Italiani e la sharing economy - da Pubblicitaitalia - intervista a Federi-co Capeci

“La crescita della sharing economy in Italia è una crescita con il freno a mano – ha dichiarato Federico Capeci -. Da un lato vi è un’alta propensio-ne del cittadino a provare e usare servizi in condivisione, dall’altro, sia dal fronte dell’offerta e sia da quello delle istituzioni, gli attori del sistema sono al palo. Il consumatore è ben più avanti delle imprese e delle istituzioni in quanto ci mostra un insieme di possibili utilizzi e di motivazioni della sha-ring economy molto vasti, solo in parte colte dagli attori attuali”.

Uno dei motivi sottostanti a queste pratiche è il risparmio economico (lo studio effettuato da TNS segnala che il saving è una motivazione per il 41% degli utilizzatori), ma non è l’unico motivo per dare e chiedere servizi in sharing:

ci sono utenti mossi da desiderio di condivisione, da motivi di solida-rietà; dalla volontà di fare un’esperienza di uso più ricca; dalla voglia di fare impresa; dalla voglia di sperimentare nuove pratiche e esse-re al centro delle novità sociali. In Italia, la sharing economy è cono-sciuta dal 70% della popolazione.

Un Italiano su 4 la utilizza e la prospettiva è di ulteriore crescita: la mag-gior parte dei non utilizzatori sono propensi all’uso futuro (22%) o necessi-tano di maggiori informazioni (18%). Fra gli utilizzatori, un 10% di intervista-ti dichiara di usare alcuni dei servizi suggeriti, ma non li associa spontanea-mente al mondo ‘sharing’.

Fra i servizi utilizzati, gli italiani fruiscono di Servizi di mobilità (26%), Servi-zi organizzati di scambio e baratto di oggetti di vario tipo (10%), Servizi di alloggio di una camera o casa private (9%), Servizi culturali (8%), Servizi

di Social lending, prestiti fra privati (4%). Ma quali sono le barriere? La diffi-coltà a fidarsi e la mancanza di regole chiare e garanzie nell’utilizzo, pena-lizzano purtroppo ancora lo sviluppo.

Quello che vediamo da un punto di vista delle tutele e degli inqua-dramenti fiscali, assicurativi e sociali – ha affermato Capeci – è che le istituzioni sono al palo di fronte a questa crescente complessità e come risultato, stanno frenando l’esplosione di quella che potrebbe essere una leva di crescita di assoluto rispetto per il nostro paese.

“Dal lato dell’offerta – ha continuato Capeci – le proposte non sono in gra-do di seguire l’ampia gamma di opportunità, segmenti e servizi con chiari posizionamenti e benefit concreti per l’utente. La visione da parte dei Player dovrebbe mettere al centro l’utente, ‘ascoltarlo’ per valutarne aspettative ed esperienze concrete, in un continuo processo di finetu-ning ed ottimizzazione della proposta e della comunicazione. Gli uten-ti sono aperti all’utilizzo di nuovi modelli di business, come testimonia l’ele-vato livello di conoscenza dei servizi in condivisione e anche la propensio-ne all’uso in futuro, considerando che solo il 5% degli intervistati si dichia-ra non interessato a questa tipologia di servizi”.

Federico Capeci, Chief Digital Officer – CEO di TNS Italia, leader mondiale nelle ricerche di mer-cato ad hoc e nella consulenza di marketing.

Puoi scaricare la ricerca di TNS-Global Italia cliccando sulla copertina del-l’ebook alla pagina seguente!

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Homeaway è un sito che, sul modello di Air

Bnb, propone soluzioni di local hosting.

Il sito conta 1 milione di offerte per 160 paesi ed è parte del Gruppo Ho-meaway, i cui siti hanno registrato cir-ca 32 milioni di visitatori al mese.

www.homeaway.it

VizEat è un sito di social eating nato

in Francia nel 2014.

Il sito conta 20.000 eaters in 50 paesi ed è leader europeo. Riunisce viag-giatori e locali di tutto il mondo a tavo-la in incontri gradevoli da buongustai.

https://it.vizeat.com

GoGoBus nasce nel 2015, fondata da un gruppo di profes-sionisti di Torino.

Si tratta di Social Bus Sharing, sia per singoli che per piccoli gruppi. Spe-cializzato in trasporti per eventi e con-certi conta già migliaia di utenti.

www.gogobus.it

ICarry è stata fondata nel 2015 con l’idea di rivoluzionare il delivery.

Il sito, sul modello sha-ring economy, trasporta beni e merci facendo risparmiare agli utenti tempo e denaro. Oggi conta 8500 iscritti, tra utenti e corrieri.

www.icarry.it

Guide Me Right nasce nel 2014 e propone un nuovo tipo di turismo.

Con GMR si possono sco-prire e prenotare esperienze locali in compagnia di un Local Friend. Il sito offre 1757 esperienze in 561 città e 727 Local Friend.

www.guidemeright.com

Cocontest è un sito fon-dato nel 2012 e ha un

seguito su FB di 57mila utenti.

Il sito permette a clienti da tutto il mondo di lanciare piccoli concorsi pri-vati di progettazione e arredo di inter-ni, aperti a tutti i professionisti.

www.cocontest.com

Imprese digitali da seguire

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Perché è difficile realizzare un’impresa digitale in Italia - di Ales-sandro Rossi

Le startup italiane non crescono, tranne rarissime e per altro relative eccezioni, perché il sistema è pensato per non farle crescere, o alme-no è strutturato in modo tale che nessuna abbia veramente la possibili-tà di farlo. Mi spiego meglio: noi abbiamo moltissimi acceleratori, fac-ciamo un fiume di microseed da 30-50K che non servono a nulla (sen-za parlare della proliferazione di premi e premietti da 10K, che sono veramente utili solo ad illudere dei giovani ragazzi) perché poi sarà praticamente impossibile chiudere un Serie A. Non conosco i numeri precisi ma il meccanismo è chiaro ed è più o meno questo: su 100 startup che prendono un microseed, 30-40 riescono a prendere (il più delle volte a rate, non fatevi ammaliare dagli annunci di fundraising sui blog di settore) quello che in Italia definiamo un Seed, cioè dai 200 ai 600-700K. Di queste però solo 3-4 faranno un Serie A da 2-4 milioni e nessuna farà mai un Serie B da 20-30 milioni (almeno non in Italia e certamente non da fondi italiani). Ora, a meno che non si tratti di siti di e-commerce con orizzonti di scalata molto locali, per scalare veramen-te una startup innovativa deve arrivare a fare almeno un Serie B se non Round ancora più grandi. Dunque o fai il giochino in Italia, e poi vai all'estero a cercare i soldi veri, oppure ti tengono in vita con 50K all'anno, lavori gratis per far fare i belli ai vari acceleratori di turno, e poi fallisci avendo perso un mare di tempo e di energie. Il discorso è molto, molto serio e riguarda il futuro di migliaia di giovani italiani, for-se i migliori, sicuramente i meno omologati, i più creativi e coraggiosi. Eppure nessuno ne parla, magari lo scrupolo è far arrabbiare il mini investitore di turno.

Detto che il vero problema è l'atavica mancanza di finanziamenti, in particolare dei tagli dal Serie A in su (se ci fossero i soldi noi avremmo diversi team in grado di portare la loro startup a diventare l'incumbent internazionale del proprio mercato), sicuramente il legislatore e in ge-nerale il pubblico sono i soggetti più distanti dalla cultura dell'innovazio-ne digitale a cui facevo riferimento nella precedente risposta.

La ricetta è ghettizzare chiunque sostenga la malsana, e sem-pre di moda idea che si possa fare l'ecosistema innovativo all'ita-liana! Per queste persone qualsiasi cosa si fa, si fa all'italiana, che poi vuol dire farla malissimo o non farla proprio.

Semplicemente, e con maggiore umiltà, si deve copiare da chi l'inno-

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vazione digitale la fa serissimamente da decenni e continua a farla: cioè la Silicon Valley. Non inventare astruse ricette nostrane, sfornate da personaggi che non hanno mai fatto una startup in vita loro o peg-gio non ne hanno mai nemmeno utilizzata una, ma semplicemente concentrarsi a rendere il terreno il più fertile possibile per le nostre star-tup, per quelle italiane.

Faccio giusto un esempio, ma ce ne sarebbero decine e decine: uno dei fattori che storicamente ha influenzato la crescita degli investimen-ti di Venture Capital in Usa è stata la possibilità data ai grandi fondi pensione di diversificare il portafoglio, investendo anche in società in-novative contro equity. Immagina se Inarcassa investisse milioni su progetti come CoContest, invece di denigralo pubblicamente sui vari blog del settore. Diversamente, vedo che anche il nuovo sindaco di Roma, che se non sbaglio ha solo 37 anni, dichiara (se pur in campa-gna elettorale) che è contro Uber e a favore dei tassisti Allora capisco che non c'è davvero futuro per un ecosistema innovativo in Italia.

Sono proprio le startup (in questo caso le grandi aziende) disruptive come Uber che cambiano il mondo, il mercato del la-voro ed in generale la società, rendendo il tutto più dinamico, flessibile e meritocratico.

Noi invece non solo abbiamo rinunciato in partenza a creare i nostri Uber (colpa degli investitori non dei politici in questo caso), ma addirit-tura vogliamo negare ai nostri cittadini (consumatori) i vantaggi con-nessi alle rivoluzioni che vengono create nel resto del mondo, pazze-sco.

Credo sia cruciale la distinzione tra lavori a basso livello di specializza-zione (ad esempio il tassista, tutti alla fine sappiamo guidare una mac-china) e lavori ad alto livello di specializzazione (esempio l'architetto con CoContest).

Infatti se l'innovazione web (vedi Uber) nel primo caso rivoluziona le dinamiche del lavoro in quei mercati, permettendo a tutti di sostituirsi ad esempio al tassista, nel secondo caso è solo un mezzo nuovo, più dinamico, ecologico, trasparente e moderno di far concorrere tra loro i professionisti del settore e dunque non permettono al cittadino qualsia-si di sostituirsi al professionista. Questa distinzione è importante, infat-ti sicuramente le startup della prima categoria sono ancora più pro-consumatore e rivoluzionarie di quelle della seconda, ma anche, pro-babilmente, più rischiose sotto il profilo della transizione per i vecchi professionisti del settore.

La mia personale idea è questa: il legislatore dovrebbe essere concreto e cercare di limitare le startup solo quando ci siano ve-ri, e sottolineo veri, rischi per la sicurezza del consumatore.

Come esempio faccio il mio cavallo di battaglia, tu dove abbiamo man-giato da piccoli la stragrande maggioranza delle volte? Immagino a ca-sa grazie alla cucina di mamma o di nonna. Ora se siamo ancora vivi, come lo siamo tutti noi che leggiamo quest'articolo, vuol dire che pur senza aver superato i controlli sanitari la cucina delle nostre madri era sicura. Ergo, non c'è alcun vero motivo di sicurezza per limitare l'home restaurant, se poi il motivo è la tutela degli investimenti sostenuti da chi fa un determinato mestiere in maniera tradizionale o di presunta

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equità concorrenziale, allora dovremmo vietare per concetto qualsiasi tipo di innovazione vera nei modelli di business. Lo stesso ragiona-mento si può fare per Uber e i tassisti ad esempio. Poi noi, come amia-mo fare, andiamo oltre e vogliamo bloccare perfino quelle piattaforme come CoContest che non permettono alla collettività di sostituirsi ai professionisti del settore, in nome della dignità della professione o di qualche altra eresia anacronistica.

Ci sono varie situazioni emblematiche, pensa al caso di Soundreef che dovrebbe essere un vanto made in Italy e invece ha subito resi-stenze da parte della politica per proteggere un monopolio vecchio e cattivo come quello della Siae.

Alessandro Rossi, Architetto, Cofounder di Cocontest

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L’ideografica dell’impresa digitale all’epoca della sharing economy

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Paragrafi

1. Il turismo e la sharing economy

2. Il punto di vista

3. L’importanza di un governo digitale

4. Food Revolution

5. Last Minute sotto casa

6. Workshop il turismo e sharing economy

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Speciale imprese e sharing economy

Digital EconomyPiattaforme e nuove intermediazioni

Il turismo e la sharing economy - di Maurizio Davolio

Il processo innescato dalla sharing economy nel settore del turismo è desti-nato non solo a continuare ma anche a svilupparsi ulteriormente, con ritmi crescenti.

E’ emerso con chiarezza un aspetto finora poco considerato: tra l’economia convenzionale e quella condivisa e collaborativa sono in atto fenomeni di contaminazione e di avvicinamento.

Ci sono guide turistiche, con regolare patentino, che collaborano su piatta-forme come Guide me right o come greeters; stanno cioè attuando un ripo-sizionamento professionale che tiene conto dei cambiamenti in atto e sono consapevoli dell’interesse che almeno una parte della domanda turistica rivolge alla cultura tangibile e intangibile dei luoghi e delle popolazioni (non solo monumenti, musei e siti archeologici, ma anche botteghe artigia-ne, incontri con artisti, scoperta del patrimonio gastronomico ecc.).

Ci sono cuochi professionali che nei giorni liberi dal lavoro ospitano turisti e clienti nelle loro case all’interno delle piattaforme VizEat o Gnammo.

Per le case e appartamenti per vacanza posizionati su piattaforme con Airbnb o HomeAway, sono in offerta sistemi di revenue management co-me per gli alberghi, ovvero sistemi di check in collettivi.

D’altra parte anche parecchi albergatori si stanno strutturando per competere con le altre forme emergenti di ospitalità, puntando su personale in grado di offrire storytelling o indicazioni per il turismo esperienziale.

Rispetto al disegno di legge presentato dall’On. Veronica Tentori, la mag-

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gior parte degli operatori concorda sull’esigenza di una legge che faccia chiarezza e che consenta di operare nella tranquillità e nella legalità.

A tutti pare ormai chiaro che i fenomeni della sharing economy vada-no regolamentati ma non imbrigliati; va favorita la concorrenza in un quadro di correttezza e di parità; vanno garantite adeguate tutele ai consumatori e fruitori; il regime fiscale non dovrà essere oppressivo, trattandosi per lo più di attività non professionali e puramente inte-grative.

In occasioni future sarà interessante studiare gli sviluppi dei vari fenomeni anche alla luce dell’eventuale entrata in vigore e applicazione della legge.

Maurizio Davolio, Presidente AITR – Associazione Italiana Turismo Responsabile.

Il punto di vista - Zeno Govoni

Perché un bel problema?

✓ Un aspetto per nulla trascurabile nella sharing economy nel turismo è lo spostamento del rischio. Non è di certo la piattaforma ma sono i singoli host, autisti, ecc a caricare sulle proprie spalle lo shock della domanda, gli investimenti sul capitale produttivo, i problemi sulle tran-sazioni, i danni causati da catastrofi non prevedibili.

Questa platform economy crea un’appropriazione dei profitti ed una esternalizzazione dei rischi.

✓ Nella sharing economy il nuovo competitor non è più un’impresa/a-zienda ma è il privato.

✓Con la sharing economy l’offerta è diventata estremamente elastica e questo è diventato un problema per i revenue manager.

Prima l’offerta su una location era pressoché statica, ora invece non solo è dinamica ma imprevedibile.

Arriva sul mercato per motivi diversi: per un evento, una festività nazio-nale, un concerto oppure anche solamente dalla voglia di andare in vacanza e, quindi, dalla possibilità di recuperare del budget attraverso l’affitto dell’appartamento.

Perché un’ottima opportunità?

✓ Perché ci pone davanti a un ragionamento, a una riflessione da fare

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✓ Per la voglia di condivisione e d’incontrare i residenti, che porta a ridisegnare le parti comuni degli hotel come GENERATOR HOSTELS, THE STUDENT HOTEL.

✓ Perché la possibilità di spacchettizzare i classici servizi degli hotel porta a destrutturare gli hotel come OASIS COLLECTION [parallelo con quello che è successo nel mondo della musica online e cioè la possibilità di acquistare una sola canzona, quella che ti piace, e non tutto l’album].

✓ Perché la voglia di local porta a ripensare alle colazioni degli hotel CANOPY by HILTON

Perché la voglia di scoprire il quartiere, la zona, e di conoscere le chicche del posto, consente di riscoprire l’importanza dello staff e del concierge, da veder sempre più come uno storytel-ler.

✓ Perché l’hotel dovrà cambiare pelle, e questa è una bella opportuni-tà per mettere sul mercato qualcosa di nuovo. Uno degli aspetti per cui si sceglie AIRBNB è anche per il prezzo. Una realtà come GENE-RATOR ha pensato di togliere tutto quello che è superfluo nella came-ra, che spesso non si tocca né si usa mai, ma che porta a costi, ripara-zioni, manutenzione.

✓ Per rivedere i siti degli hotel, renderli più friendly e far capire che die-tro ci sono delle persone. Un sito classico di un hotel molto spesso vende solo se stesso, ora occorre vendere anche il quartiere, l’atmo-sfera local come avviene su Airbnb.

nell’individuare i perché del successo di AIRBNB e della sharing eco-nomy nel nostro settore. E una volta individuati i punti di forza e le novi-tà, occorre fare un’analisi per capire se e come introdurli negli hotel o come rivisitarli. Una bella sfida e un stimolo per non adagiarsi e quindi essere proattivi.

✓ Per la voglia di deregolamentazione per andare incontro al mercato e interpretare le nuove esigenze/richieste del viaggiatore.

✓ Perché riporta al centro il rapporto tra le persone.

Il modello di AIRBNB si basa molto sulla costruzione della fiducia e in questo noi albergatori dobbiamo imparare. Certo in AIRBNB la differenza sostanziale con noi è che la fiducia è costruita in modo bidirezionale invece da noi in modo unidirezionale.

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✓ Perché il modello iniziale di Airbnb ora sta lasciando il posto a un modello che vuole avvicinarsi a quello dell’hotel. Già i Superhosts so-no una selezione di host che forniscono un servizio di qualità rispetto agli altri, ora la selezione SONOMA, con servizi tipo alberghiero, poi le City Guide.

Inoltre sta introducendo una serie di servizi per gli host che pro-vengono dal mondo dell’hotellerie come ad esempio un softwa-re per fare revenue, un cruscotto per le aziende e per i soggior-ni del canale business.

Zeno Govoni, Manager Director di Hotel Annun-ziata di Ferrara.

L’importanza di un governo digitale - di Luca Sini

Quando abbiamo iniziato Guide Me Right eravamo sicuri del nostro ap-proccio (Andrea, uno dei miei soci co-fondatori, un po’ meno). L’idea era quella di facilitare al massimo l’incontro tra un viaggiatore e un esperto lo-cale permettendo loro di definire l’esperienza insieme e con la massima flessibilità. Il Guest poteva unire più attività per comporre la sua esperien-za. Poteva definire lui la durata dell’esperienza e scegliere quali attività, in quell’arco di tempo, fossero attività “for sure” (si sarebbero dovute fare, si o si) e attività “maybe” (da fare in alternativa o se fosse avanzato del tem-po).

Un casino, vero.

Dopo qualche mese di lavoro e un po’ di esperienza maturata ho ricono-sciuto il nostro errore:

era stato un viaggio pindarico, con delle intenzioni sane ma troppo decontestualizzato e autoreferenziale. Questo è anche quello che mi è venuto in mente ultimamente leggendo, ascoltando e dibatten-do della proposta di legge sulla Sharing Economy.

La legge si pone come obiettivo quello di regolamentare un fenomeno in forte crescita. Lo fa intervenendo su diversi fronti: dalla definizione di Sha-ring a quella dei soggetti che la compongono, dal nuovo regime fiscale per gli utenti operatori (10% di tassazione fino ai 10.000€ di guadagni occasio-nali) al ruolo di sostituto d’imposta per gli utenti abilitatori, dalla previsione del rispetto di condizioni minime per i portali della Sharing (assicurazione, pagamenti online, condivisione dei dati di utilizzo ecc) all’identificazione di un ente centrale incaricato di identificare chi è Sharing e chi non lo è.

Da una prima lettura, molte di queste iniziative possono sembrare sensa-

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te, ma più si entra nel dettaglio e più emergono dubbi e difficoltà nel regola-re e comprendere tutte le casistiche che possono venire a crearsi.

Mi sorge un domanda: siamo sicuri che la lezione che dobbiamo portar-ci a casa dall’enorme crescita di questo movimento della Sharing Economy sia che serve un regolamento per farla crescere all’interno del nostro sistema? 

E se fosse esattamente il contrario: se invece la vera lezione fosse quella che dobbiamo adattare il sistema attuale a quello che la Sha-ring Economy sta facendo emergere?

Il vero problema che la Sharing Economy ha fatto emergere, agli occhi di chi scrive, è l’eccesso di burocrazia che si é generato nel tentativo di rego-lamentare ogni singolo servizio e i relativi requisiti necessari per operare sul mercato.

Se questo è vero, allora l’approccio non dovrebbe essere quello “permis-sion first” adottato dalla proposta di legge, che cerca di delimitare dei confi-

ni chiari a qualcosa in costante evoluzione attribuendo ancora una volta a un organo centrale l’assegnazione del permesso a operare o meno sul mercato, in questo caso quello della Sharing Economy.

Questo è lo stesso errore che abbiamo fatto con Guide Me Right: aveva-mo sviluppato un’esperienza utente pensando che avrebbe facilitato enor-memente i nostri utenti ma che poi, alla luce dei fatti, si è rivelata un qual-cosa che gli utenti non solo non capivano ma che proprio non cercavano.Fare questi errori è normale e comprensibile. In una startup digitale è faci-le porre rimedio. Ma in un governo, anche se digitale, lo è meno.

Nel frattempo, piuttosto che affermarci come primo paese in Europa in grado di prevedere una legge sulla Sharing Economy, rischiamo di diventare gli unici a porre dei freni a questa evoluzione sociale ed economica.

Quindi? Bisogna cambiare approccio muovendosi per davvero come un governo digitale, con un approccio rivolto a snellire e non ad appesantire ulteriormente tutto.

Due sono le azioni che andrebbero intraprese:

1. Prevedere 2/3 requisiti minimi comuni a tutte le iniziative di Sharing e che dovrebbero essere rispettati a tutela di tutti, concentrandosi piuttosto sul renderli possibili. Ad esempio facilitando l’offerta di una copertura assi-curativa per questo tipo di iniziative, primo limite per chi vuole fare Sharing in Italia. Non è necessario entrare nel merito di cosa è Sharing e di cosa non lo è, sarà il tempo a dirlo accompagnato da un’attività di studio e moni-toraggio volta a capire nel dettaglio questo percorso evolutivo prima di re-

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2. Snellire la burocrazia attuale per permettere agli operatori attuali di adat-tarsi e rimanere competitivi affinché gli stessi possano finalmente avere un ruolo attivo, e non ostruttivo, nella crescita di questo nuovo ecosistema competitivo.

Questo è quello che ci ha insegnato la Sharing:

viviamo in un mondo aperto, dinamico e globale dove le risposte non vanno trovate ma vanno cercate, dove la validazione non è cen-tralizzata a livello pubblico ma viene esternalizzata alla community, dove il lavoro non è fisso e garantito ma è flessibile e meritato. An-che, e soprattutto, in questo mondo chi ha qualità e disponibilità da offrire troverà il suo posto. Questo è uno dei motivi per cui certi pro-fessionisti non dovrebbero sentirsi minacciati dalla Sharing Eco-nomy ma piuttosto dovrebbero cominciare a prenderne parte attiva-mente per essere certi che questa si evolva anche in base a quelle che sono le loro esigenze e conoscenze.

Allora non mettiamo i paletti a questa evoluzione, che tocca e andrà a toc-care tutti i settori produttivi vecchi, attuali e futuri. Rendiamola possibile creando un ecosistema favorevole, dinamico e flessibile come il mondo in cui viviamo. Forse è quello che serve a questo paese per rilanciarsi.

Luca Sini, Founder Guide Me Right.

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Food Revolution - di Eugenio Sapora - coordinatore Italia Alveare che dice sì

Un nuovo modo per vendere e comprare i prodotti locali utilizzando inter-net e la sharing economy: questa l’idea alla base de L'Alveare che dice Sì!, progetto nato in Francia nel 2011 che arriva ora anche nelle diverse città d'Italia.

Unendo agricoltori, cittadini consapevoli e innovazione digitale, L'Alveare che dice Sì! è una piattaforma online che permette una distribuzione più efficiente dei prodotti locali, per dar vita ad un modello replicabile di impre-sa sociale: la piattaforma di vendita favorisce gli scambi diretti fra agricolto-ri locali e comunità di consumatori, che si ritrovano una volta alla settimana creando piccoli mercati temporanei a Km 0, conosciuti come Alveari.

Ad oggi sono più di 750 gli Alveari presenti in Francia, e oltre 70 quelli nati da inizio anno in Italia.

 Come funziona L’Alveare che dice sì!

I produttori locali presenti nel raggio di 250 km si iscrivono al portale www.alvearechedicesi.it e si uniscono in un “Alveare”, mettendo in vendita online i loro prodotti: frutta, verdura, latticini, formaggi. I consumatori che si registrano sul sito posso acquistare ciò che desiderano presso l’Alveare più vicino casa, scegliendo direttamente sulla piattaforma.

Il ritiro dei prodotti avviene settimanalmente nel giorno della distribuzione organizzata dal gestore dell’Alveare, cioè colui che ha preso l’impegno di tenere il contatto con gli agricoltori e che si occupa di pianificare eventi, aperitivi e visite guidate nelle aziende dei produttori per creare un vero net-work di relazione e conoscenza diretta.

L’incontro tra agricoltori e consumatori può avvenire in luoghi diversi, dal bar al ristorante, alla sala dell’associazione che mette a disposizione i pro-pri spazi.

Lo spirito però è sempre lo stesso: permettere ai produttori di vende-re direttamente e in modo facile e dare ai consumatori accesso ad alimenti freschi, locali e di qualità, rivalutando il cibo e il suo ruolo nella  promozione di uno stile di vita sano.

In questo meccanismo, che mette al centro la comunità e la genuinità dei prodotti, è fondamentale il ruolo della tecnologia: la piattaforma è stata svi-luppata lavorando a stretto contatto con gli utilizzatori, per modernizzare ed accelerare la filiera corta e promuovere un modello di commercio più equo.

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Cosa è il Food sharing - di Francesco Ardito, cofounder LMSC

LMSC, nata all’interno dell’Incubatore I3P del Politecnico di Torino, da piat-taforma desktop è diventata un’apprezzata App che propone una formula originale di marketing di prossimità. Gli esercenti con prodotti alimentari in eccedenza informano con immediatezza e semplicità i consumatori che si trovano nelle vicinanze, i quali possono approfittare della promozione “last minute” in corso.

La App (e il portale) danno la possibilità ai consumer di indicare a che di-stanza vogliono ricevere le proposte in tempo reale e da quali tipologie di negozio, ricevendo così solo offerte specifiche “sotto-casa”.

E’ questa la filosofia vincente di Last Minute Sotto casa: concreti van-taggi commerciali ai negozianti, ai quali si aprono nuove prospettive economiche grazie all’accesso di nuovi clienti e risparmio quotidiano per questi ultimi, che possono acquistare prodotti sempre freschi ne-gli esercizi vicino casa.

Gli effetti positivi non sono solo economici, ma dai risvolti etici ed ecososte-nibili. Già oggi, ogni mese, due tonnellate e mezzo di prodotti alimentari non vengono gettati nella spazzatura grazie a LMSC! Il progetto, la cui ori-ginalità è stata sottolineata dal riconoscimento di numerosi premi nazionali ed internazionali, è l’unico italiano arrivato alla finale della European Social Innovation Competition 2015, fra più di 1.000 progetti sottoposti alla valutazione della EU ed è il vincitore del premio Edison Pulse 2015.

Durante il percorso di sviluppo del portale si sono potute osservare le po-tenzialità di questo strumento che tutela non soltanto il commerciante, il consumatore e il pianeta ma permette alla categoria dei piccoli esercizi

commerciali di ridurre il digital divide rispetto ad altri soggetti più organizza-ti.

”Il progetto è nato un quartiere della città di Torino – sottolinea Francesco Ardito, co-fondatore LMSC con Massimo Ivul – “con l’idea che si potesse recuperare il pane invenduto a fine giornata, poi si sono aggiunti altri quar-tieri della città e altre tipologie di attività commerciali come pescherie, ga-stronomie, macellerie e ultimamente i mini-market di prossimità, tutti con il problema comune del prodotto fresco che a fine giornata, se non venduto, deve essere buttato. Abbiamo fatto un conto di massima sul risparmio che ogni mese grazie all’utilizzo del portale abbiamo garantito ad una città co-me quella di Torino; ebbene il risultato è sorprendente, più di una tonnella-ta di cibo, 1.000 chilogrammi! A un anno e mezzo dal lancio ufficiale del progetto, abbiamo raggiunto quasi 50.000 utenti registrati e stiamo arrivan-do sempre più capillarmente nelle principali città italiane. Grazie alla part-nership con il Gruppo UP e al sostegno che una importante e autorevole organizzazione come LifeGate ci potrà offrire, stiamo preparando un piano di sbarco al di fuori dei confini nazionali”.

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Il workshop il turismo e la sharing economy

I nuovi modelli di turismo. Coordinatore Maurizio Davolio - di Redazione

Elisabetta Luise: HomeAway è il leader mondiale nel mercato online degli affitti di case vacanza e ingloba ad oggi oltre 1 Milione e 200 mila annunci in circa 190 paesi nel mondo. Online su HomeAway, proprietari privati e professionisti immobiliari offrono un’amplia selezione di case vacanze offrendo ai viaggiatori di tutto il mondo la possibilità di sperimentare esperienze memorabili assieme ad altri numerosi benefit, come più stanze a disposizio-ne dove rilassarsi godendo di maggior privacy a fronte di un minor costo rispetto alle sistemazioni più tradizionali come gli hotel. La società è infatti un punto di riferimento sia per i proprietari privati di case vacanze che per i pro-fessionisti immobiliari che desiderano pubblicizzare le loro proprietà e gestirne le prenotazioni online. Il portfolio di HomeAway include 50 siti leader di mercato che attraggono ogni mese più di 44 milioni di viaggiatori e sono declinati in 13 lingue diverse. HomeAway è oggi parte della famiglia Expedia Inc.

“E’ la tua vacanza perché condividerla?” campagna di brand HomeAway 2016 https://www.youtube.com/watch?v=Cio5fClAtDA

HomeAway lancia un messaggio provocatorio e nel contempo ridisegna il concetto della Sharing Economy così come intesa in relazione ai viaggi e al turismo. E’ davvero un bene condividere tutto con tutti?  HomeA-way chiarisce così il proprio posizionamento a livello globale per l’affitto breve di case vacanza per intero, da condividere sì, ma con i propri cari e la famiglia, non con gli estranei e gioca ironicamente con alcuni aspetti che i viaggiatori non gradiscono dei altre tipologie di sistemazioni: buffet affollati, piscina condivisa con ospiti rumorosi, stanze e appartamenti condivisi con estranei etc.

La diversità e la complessità dell’offerta turistica online, che troviamo oggi declinata in un proliferare di siti web, OTA, agenzie etc.. deve necessariamente presupporre una conoscenza approfondita della sharing economy e dei suoi modelli da parte del legislatore che si approccia a regolamentare il settore. Giusto semplificare ma senza penalizzare e imbrigliare un settore  che al suo interno raccoglie una grande complessità e che sta dando grandi

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opportunità al mercato.

Luca Sini: Guide Me Right è un community marketplace dove scoprire e prenotare esperienze local autentiche in tutta Italia: il progetto nasce dalla volontà di rinnovare e rilanciare un'industria turistica che ha la responsabilità di essere uno degli asset della ripartenza del sistema Italia. Per dare risalto alle bellezze italiane (non solo nelle grandi città ma anche nei piccoli paesi) abbiamo adottato un approccio "dal basso". GMR cerca di coinvolgere atti-vamente i cittadini nella promozione attiva del territorio a vantag-gio dei cittadini stessi (opportunità di guadagno), dei viaggiatori (nuove esperienze) e dei territori stessi (soddisfazione del viag-giatore e distribuzione della ricchezza)l. 

GMR è attivo in più di 550 città Italiane grazie a più di 700 esperti locali (Local Friend) che offrono più di 1700 esperienze: creare un marketplace liquido di esperienze gioverebbe a tutti.

Infatti, piuttosto che a una potenziale riduzione dei guadagni per chi offre il servizio (da dimostrare nel lun-go periodo), i marketplace della sharing economy che riescono a funzionare non fanno altro cha favorire l'efficienza riducendo i tempi morti e permettendo di sfruttare al massimo le proprie risorse (stanze, posti auto, tempo libero) grazie alla tecnologia. I professionisti pre-sharing economy dovrebbero prendere parte a questo movimento, che alla fine va a premiare comunque chi (A) ha un'offerta di qualità da offrire e (B) ha la disponibilità per garantire l'offerta.

La pubblica amministrazione dovrebbe invece cambiare approccio legislativo nei confronti della Sharing, impo-stando dei requisiti minimi a tutela di tutti (assicurazioni, professionale vs occasionale ecc) e parallelamente dere-golamentando in maniera da semplificare la macchina burocratica/legislativa. 

Presidente AITR

Maurizio Davolio

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Paragrafi

1. Dalla coop alla platform cooperative

2. Cosa è il business inclusivo

3. Il diritto dell’eccezione, non della regola

4. Tempi ibridi

5. Open Innovation

6. Workshop le nuove professioni

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Dalla coop alla platform cooperative - di Andrea Rapisardi

Quando con alcuni colleghi cooperatori si è cominciato a riflettere sul tema dell’economia collaborativa alcune delle reazioni alla vicenda Uber-taxisti che andavano per la maggiore erano le seguenti:

“La cooperazione esiste da quasi 2 secoli! I soci cooperatori si sono sem-pre uniti per raggiungere uno stesso fine sulla base dei principi di collabo-razione e solidarietà. Cosa c’è di innovativo nell’economia collaborativa? Come mai da un lato la collaborazione va tanto di moda sembra essere la cosa più “cool” del momento e invece la “cooperazione” ha raggiunto uno dei momenti più bassi di reputazione (almeno in Italia)? Fra l’altro Uber sot-topaga i conducenti!”.

Bene, sembrerebbero chiacchiere da bar ma in realtà niente è più attuale di queste affermazioni!

Proverò a fare alcuni esempi per farvi capire cosa c’è di differente fra Eco-nomia Collaborativa e Cooperazione e quali invece sono le opportunità che la cooperazione potrebbe cogliere per giocare un ruolo attivo all’inter-no di questo variegato fenomeno.

Prima degli esempi però possiamo già fare una prima grande distinzione.

L’economia collaborativa è innanzitutto un fenomeno estremamente varie-gato, è come parlare di Green Economy o New Economy e si riferisce quin-di a settori diversi, organizzazioni societarie diverse, ecc…

La cooperazione rappresenta un movimento altrettanto variegato che si basa sulla promozione di una specifica forma di impresa, la cooperativa, che ha una sua architettura chiara e normata dalla legge.

Vediamo alcuni casi di studio.

Speciale imprese e sharing economy

Social EnterpriseImprese, cooperazione, comunità

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ES.1: MOBILIFICIO

A) Pensate ad una classica fabbrica di mobili degli anni cinquanta. Nel-la maggior parte dei casi si trattava di un’impresa di capitale in cui la-voravano i componenti della famiglia proprietaria. Per svolgere la sua funzione produttiva, l’azienda aveva bisogno di una fornitura di mate-rie prime conveniente, di un luogo di produzione, macchinari, dipen-denti. Creava una linea di prodotti ed organizzava la vendita o diretta-mente o con accordi di distribuzione sui mercati di riferimento o con accordi di produzione per terzi.

B) La cooperativa rappresenta un’innovazione economica e sociale di grandissima rilevanza che passa dal cambio di modello societario. Il funzionamento aziendale poteva essere esattamente lo stesso, la diffe-renza stava nel fatto che la proprietà era dei lavoratori, che questa ri-specchiava l’equilibrio di governance rappresentativa 1 testa 1 voto, che il patrimonio prodotto era intergenerazionale e che l’unione dei la-voratori era finalizzata al raggiungimento di un obiettivo comune: la ga-ranzia di condizioni di lavoro migliori! 

- INNOVAZIONE NELL’ORGANIZZAZIONE SOCIETARIA

C) L’azienda che mette in pratica il modello piattaforma è portatrice di un’innovazione altrettanto rilevante che passa invece dal cambio di modello di business. La compagine societaria potrebbe essere esatta-mente la stessa. Cosa realmente si innova è il modello di relazione fra i diversi attori della filiera produttiva. L’azienda crea una piattaforma digitale di scambio che abilita uno scambio fra Designer (che vendono i loro progetti), Makers (che vendono l’utilizzo dei macchinari o diretta-mente la loro capacità produttiva), Clienti finali (che acquistano il pro-

prio mobile riadattato secondo le proprie necessità). La piattaforma guadagna da percentuali sulle transazioni ma lascia che i pari si auto-selezionino in tutto il mondo secondo un sistema reputazionale, non assumono dipendenti per la parte creativa o per la parte produttiva (bensì solo quelli che servono per sviluppare e promuovere la piattafor-ma), non stabiliscono i prezzi se non le percentuali di commissione su-gli scambi (le regole del gioco per l’utilizzo della piattaforma).

Perché è più “cool”? Perché in termini capitalistici è molto scalabile. In 2 soli anni di attività si rivolge a milioni di utenti, in tutto il mondo, non ha costi fissi enormi, non ha costi logistici, ecc… E’ sicuramente un buon soggetto nel quale investire!

- INNOVAZIONE NEL MODELLO DI BUSINESS

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ES.2: MACCHINA CON CONDUCENTE

A) Probabilmente un tempo (ed esistono ancora) le agenzie di noleg-gio erano delle società di capitale, che erano proprietarie di una flotta di macchine, avevano fra i dipendenti i conducenti, avevano alleanze commerciali e strategie di comunicazione specifiche (es.: convenzio-ne con gli alberghi e con i musei).

B) La cooperativa di conducenti funziona nello stesso modo in termini organizzativi, i soci spesso non sono proprietari della macchina, sono legati alla cooperativa perché ne sono soci e perché hanno un contrat-to di lavoro.

- INNOVAZIONE NELL’ORGANIZZAZIONE SOCIETARIA

C) Uber detiene la piattaforma, si basa sul lavoro on demand, non de-tiene la flotta di macchine, i conducenti non sono dipendenti, apre con facilità in tutto il mondo (a meno di problemi di regolamentazione). È più “cool” perché in pochissimi anni ha raggiunto un valore di circa 60 Miliardi di dollari, ha solo 400 dipendenti, ha raccolto più di 2 Miliardi di investimenti.

- INNOVAZIONE NEL MODELLO DI BUSINESS

Alla luce di questi due esempi il confine sembrerebbe netto. Il punto è che la cooperazione può sicuramente cogliere degli spunti dal mondo delle im-prese (e delle altre organizzazioni) tipiche del fenomeno dell’Economia Collaborativa.

Il vero confine è quello dell’innovazione e di un’innovazione che sia fedele e che anzi metta in risalto i valori e le caratteristiche distintive della cooperazione. L’obiettivo è quello di rilanciare le cooperative esistenti e di crearne di nuove rendendole al passo con i tempi!

Allo stesso tempo l’economia collaborativa nelle sue forme di collaborazio-ne competitiva e non solo ha molto da imparare dalla cooperazione per-ché come abbiamo visto in alcuni casi (soprattutto riferendoci ai casi più famosi) gli impatti possono essere quantomeno discutibili in termini di so-stenibilità economica, sociale e ambientale.

La vera domanda a cui ci interessa allora rispondere è: quali sono le frontiere di innovazione che possono far SVILUPPARE e RIGE-NERARE la cooperazione in futuro?

Proverò ad elencarvi alcuni spunti che ritengo estremamente interessanti:

1. la cooperazione non ha ancora sfruttato a pieno la tecnologia digitale a disposizione che invece potrebbe portare grandi vantaggi sia in ambito pro-duttivo, che in ambito comunicativo, di governance, commerciale, di gestio-ne dei dati, di R&D. Come costruire una identità digitale cooperativa?

2. come ripensare e innovare i modi e i concetti della mutualità riportando al centro la relazione e lo scambio tra soci?

3. come ripensare i modelli e gli strumenti per cooperare in ottica multista-

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keholder (mutualità plurima) tra soggetti attivi nella produzione e fruizione dei servizi?

4. come sfruttare il potenziale dell’open manifacturing e l’open innovation anche attraverso la nascita di luoghi come coworking e fablabs?

5. come coinvolgere comunità e reti su ampia scala facendo collaborare tra loro anche persone molto distanti e creando nuove forme di relazione (sia interne che esterne alla cooperativa)?

6. come favorire un maggiore scambio e collaborazione intra e inter-setto-riale, anche tra cooperative di professionisti, imprese e imprenditori?

7. come sviluppare nuove risposte ai bisogni favorendo l’accesso alla pro-prietà, mettendo in rete le persone e le risorse e incorporando/applicando l’economia collaborativa nei processi di produzione del valore?

8. come utilizzare gli strumenti digitali per favorire la valutazione e il feed-back sui servizi da parte degli utenti, che possono essere coinvolti anche nella co-costruzione dal basso dei servizi ?

9. come rinnovare le forme di comunicazione e di engagement coinvolgen-do le nuove generazioni?

10. come valorizzare gli strumenti in rete per sviluppare nuove forme e so-luzioni che rispondano alle sfide?

11. come giocare un ruolo di primo piano nell’ambito della gestione di beni collettivi e della rigenerazione di asset comunitari dormienti?

Andrea Rapisardi, Economista dello sviluppo, Pre-sidente e socio fondatore di LAMA.

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Che cosa è il business inclusivo - di Lucia Dal Negro

Il punto di contatto tra la Sharing Economy e il Business Inclusivo è nel-l’uso di metodi partecipativi per ideare soluzioni di mercato che risolvano i bisogni delle persone che vivono in stato di povertà (i) e nel condividere processi di NDP (new product development) tra attori di natura diversa (aziende, persone svantaggiate, istituzioni pubbliche, attori intermedi).

La parola-‐chiave quindi è inclusione, dacché e per includere bisogna con-dividere. La prospettiva del business inclusivo, quindi, muove dall’inte-resse di attori profit a condividere con altri soggetti i processi di R&D che caratterizzano l’innovazione di prodotto e di processo.

La scommessa è quella di riuscire a produrre modelli di busi-ness più responsabili, proprio perché partecipati e condivisi con per-sone che solitamente non hanno la possibilità di poter contribuire con idee, esperienze e know-‐how all’interno delle operation azien-dali.

Chiaramente questo processo che arricchisce le aziende del valore ag-giunto innovativo di persone che co-‐creeranno con esse le soluzioni alle sfide del futuro (cioè prodotti che contribuiranno al raggiungimento dei SDGs, per esempio) va gestito in maniera responsabile per evitare due rischi:

1) che si confonda la natura profit dell’attore aziendale che resta ta-le, pur aprendosi allo scambio e alla condivisione con attori diversi;

2) che si generino soluzioni solo apparentemente partecipate e non real-mente portatrici di un cambio culturale nel modo contemporaneo di opera-re sul mercato.

Per chi fosse interessato a capire meglio quale tipo di contributo possa da-re una persona svantaggiata a un’azienda in espansione sui mercati in via di sviluppo, vale la pena citare il caso di un progetto seguito personal-mente dalla Dott.ssa Del Negro, localizzato in Senegal, in cui la partner-ship tra azienda e comunità a basso reddito (seguita e studiata da De-‐ LAB) ha portato alla costituzione di un modello commerciale originale per l’uso e la manutenzione di pannelli fotovoltaici manutenuti e distri-buiti con modalità studiate dall’azienda e dagli stessi beneficiari, con im-patti sociali di empowerment della comunità e rafforzamento delle relazioni commerciali.

Lucia Dal Negro, fondatrice di De-LAB, il primo focal point italiano di progettazione sociale per imprese.

Per approfondire:

Titolo: Base of Pyramid

Autore: Stuart L. Hart

Editore: Greenleaf Publishing

Data: 15 aprile 2015

Costo: Kindle, € 27,66

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Il diritto dell’eccezione, non la regola - di Enrico Parisio

Sharing economy, social innovation, open governament, commons, open data… sono azioni o politiche che avranno la forza di traghettare il grande passaggio dall’economia manifatturiera a quella digitale? Siamo solo all’ini-zio, e sicuramente i dati non sono incoraggianti: dai bilanci delle start up innovative al polarizzarsi della ricchezza, fino all’impoverimento del ceto medio e ai flussi migratori, sembra proprio che il futuro sharing stenti ad accontentare i più. Ma tralasciamo i dati per ora, e cerchiamo di capire il vero motore dell’innovazione, cioè la semantica dell’uomo digi-tale, il dispositivo retorico che definisce e orienta tutti noi.

Superata la dialettica capitale/lavoro, il lavoratore è l’impresa, e l’impresa è il lavoratore.

Più che guardare al numero degli independent contractors statuni-tensi, o al lavoro autonomo e la microimpresa italiana, agli knowled-ge workers europei, guardiamo alla rappresentazione di questi lavo-ratori: i valori dell’impresa (economicità, efficacia, just in time, 24 hours, aggiornamento, competizione, innovazione…), albergano nel-la coscienza infelice dei soggetti infelici della nuova classe aspiran-te lavoratrice; o essi trasformano i propri corpi in nodi della rete, in hubs che veicolano e diffondono i flussi, o non esistono.

Il modello di business sharing si basa sulla creazione di valore attraverso le interazioni peer to peer tra gli aderenti alle communities. Le piattaforme possono essere “di proprietà” degli users (o abbandonare addirittura il mo-dello “gerarchico validante” attraverso il blockchain, e quindi di owners-hip), e in questo caso il valore generato appartiene alla comunità, oppure tale valore può essere “estratto” (modello dominante delle grandi piattafor-me di sharing).

Il valore estratto, oltre ad essere immediatamente economico (la fee sulla transazione, ad esempio), è soprattutto costituito dal-l’immagazzinamento delle nostre abitudini e dei no-stri gusti in forma di open data. Quest’ultimo è tutto lavoro gratuito, non mal pagato, sfruttato, precariz-zato, semplicemente non è lavoro. Attraverso la co-struzione di un ambiente accessibile, in grado di accogliere il mio desiderio (di far due chiacchiere, di una casa al mare, di un passaggio in auto…), trovo un luogo in cui il mio narcisismo e il mio bisogno è rappresentato. Anche la prospettiva di un gua-dagno passa per questa rappresentazione (essere aggiornato, smart, creati-vo, poliglotta, friendly…). Uno su mille arriva a un reddito (e qui ritornano i dati di cui sopra), ma il resto è comunque al lavoro, inconsapevolmente, o meglio, senza altra alternativa che l’accesso.

Ma poi ci sono i corpi, che vivono in luoghi, ci sono bisogni.

Luoghi abbandonati, corpi da nutrire, e nessuno a cui chiedere, per-ché una volta estratto tutto il valore possibile, si perde l’accesso. Il sistema di welfare dovrebbe pensare loro, ma anche da questo dispo-sitivo è stato estratto tutto il valore, e gli abbandonati sono i più, non i meno.

Presidente dell’associazione di promozio-ne sociale e coworking “Millepiani”

Enrico Parisio

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E il “public sector”, da questa posizione di debolezza, deve fare una scelta, se vuole essere “public”: abilitare, sostenere, investire in tutte quelle piatta-forme che trattengono valore nei luoghi, occuparsi di costruire comunità au-togovernate, accompagnare nella creazione di diritto locale, di lavorare sul-l’eccezione, non sulla regola. Se il tema è il superamento della proprietà a favore dell’accesso e dell’uso, deve essere il primo a cedere proprietà e so-vranità a favore delle comunità decentrate.

La ricchezza che poi sono in grado di esprimente le comunità abbandonate sono sotto gli occhi di tutti: esperienze partecipate, ricche di competenza,

mutualismo, vera creatività. Ma serve una mano, questa volta non invisibile.

Infografica del 16 marzo 2016, dal sito memefactory.

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Non bastano  i manuali di diritto societario per fare nuove imprese ibride. Non solo perché si tratta di organizzazioni che sfidano le suddivisioni clas-siche – tra pubblico e privato, tra lucrativo e non lucrativo, tra individuale e collettivo – intorno alle quali sono stati costruiti assetti di governance e mo-delli di gestione che riempiono i toolkit manageriali. Ma soprattutto perché occorre comprendere la direzione e la portata di quelli che  leggiamo co-me vettori di cambiamento profondo a livello economico e sociale e che si apprestano a definire la nuova architettura della nostra società. Driver che diventano pilastri: come le persone escluse dal mercato del lavoro e dal welfare che nel giro di pochi anni definiscono, loro malgrado, una compo-nente strutturale e in alcuni contesti maggioritaria della società. Oppure come il crescente numero di immobili abbandonati e sottoutilizzati che trat-teggiano lo skyline dei paesaggi urbani e delle aree interne, antenne non solo del degrado ma del fallimento di modelli di sviluppo, sia pubblici che privati. E ancora come un tessuto imprenditoriale che da una parte perde preziosi asset in settori chiave e si ripropone in altri ambiti come i servizi di terziario sociale, facendo però ancora fatica a generare risultati  in termini di innovazione, di produzione di ricchezza e, non da ultimo, di mobilità so-ciale. Sono queste alcune delle sfide sociali che richiedono di elaborare nuove risposte nell’alveo dell’innovazione sociale.

Risposte che scaturiscono non solo da strategie e azioni di change making nell’ambito delle istituzioni, ma piuttosto dal consolidamento e dalla diffusione di nuovi modelli ibridi d’impresa.

A prima vista si tratta di un manipolo di organizzazioni, in buona parte in fase di avvio e quindi non ancora in grado di generare impatti rilevanti. In realtà, esperienze come le startup a vocazione sociale, le imprese sociali

di capitali, le cooperative di comunità e le più recenti imprese benefit pog-giano su più consistenti “popolazioni organizzative” che operano da tempo con l’intento di definire nuove catene di produzione del valore dove sociale ed economico sono reciprocamente condizione necessaria di efficacia.

Ecco quindi imprese ibride che nascono grazie ad amministrazioni locali che si pongono il problema di come riconoscere e rigenerare i propri “beni comuni”; che si sviluppano come articolazioni di filiere di Pmi che lavorano su economie coesive legate ad asset espressio-ne del made in Italy; che si moltiplicano tra organizzazioni nonprofit che individuano nello scambio di mercato una modalità non residua-le per perseguire la loro missione public benefit.

Il fare, l’associarsi, il partecipare, il condividere, il proteggere si esercitano in modo sempre più diffuso attraverso matrici nuove che ridefiniscono mez-zi e fini dell’azione in senso più cooperativo. In questa prospettiva i nuovi attori ibridi rispondono allestendo community hub, dove si processano in senso imprenditoriale le sfide che la società del rischio propone. Il welfare per una società degli esclusi si realizza incrociando le piattaforme di sha-ring economy non solo per essere più sostenibile, ma soprattutto per favo-rire l’empowerment dei beneficiari. L’accompagnamento all’imprenditoria avviene non solo attraverso l’erogazione di “servizi reali” ma gestendo in senso mutualistico gli spazi di coworking; la rigenerazione dell’abbandono costituisce ormai una nuova asset class di infrastrutture sociali per la coe-sione, l’accoglienza, l’educazione.

L’ampiezza dei mutamenti in atto e i divari rilevati nella capacità di risposta lasciano intravedere una soluzione che non si limita a riposizionare il pen-dolo tra Stato e mercato o a rinforzare l’effetto cuscinetto esercitato dalla “società civile organizzata”. Le imprese ibride si sviluppano nei “sotterra-nei” delle istituzioni tradizionali, ma assumono un peso sempre più rilevan-

Tempi ibridi - di Paolo Venturi

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te perché possono contare su ecosistemi vocati all’innovazione sempre meglio distribuiti lungo i principali divide della nostra epoca: tra nord e sud del Paese, tra innovazioni tecnologiche e sociali, tra risorse donative e fi-nanziarie, tra nuova domanda sociale e riconversione produttiva, ecc. Quel che conta è favorire al massimo le occasioni di fertilizzazione incro-ciata che non significa replicazione nuda e cruda, ma piuttosto apprendi-mento e capacità adattativa. Per questo è necessario aggiornare il quadro normativo rendendolo più rispondente alle trasformazioni. La scelta di ma-cro politica prevedeva due opzioni: dar vita a un nuovo aggregato istituzio-nale dove raccogliere i diversi rivoli di  ibridazione, oppure consolidare i principali contesti generativi senza intaccare gli aggregati tradizionali.

La Riforma del Terzo Settore che, salvo inconvenienti dell’ultima ora, si ap-presta a essere varata dal Parlamento va in questa ultima direzione. Ha il merito di incorporare alcuni marcatori dell’ibridazione (la parziale remune-razione degli utili, l’apertura dei settori e della governance) e di consolida-re un importante bacino di imprenditoria sociale – il non profit – ma forse ha meno appeal su altre fenomenologie che però potranno trovare forme di regolazione nel quadro delle startup e Pmi innovative o delle già citate società benefit. È in ogni caso un avanzamento  pensato per innescare quell’impreditorialità orientata all’impatto sociale che sta emergendo nella terra di mezzo fra profit e non profit.

 Paolo Venturi, Direttore di AICCON

Per approfondire:Titolo: Imprese Ibride, modelli d’inno-vazione sociale per rigenerare valore

Autori: Paolo Venturi, Flaviano Zando-nai

Editore: Egea

Data: Maggio 2016

Costo: € 15,00

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Open Innovation - di Carlo Boccazzi Varotto

Nel nostro paese, come corollario del dibattito sulla Social Innovation, stimolato dalla programmazione europea H2020, si sta fortemente ra-dicando la consapevolezza di come la tecnologia nei prossimi anni po-trebbe cambiare molti aspetti nell’elargizione dei servi di welfare. Cre-scente disintermediazione, sharing economy, produzione/erogazione on-demand, propensione alla customizzazione ecc. sono solo alcuni dei fattori che si potrebbero integrare nelle nuove progettazioni di wel-fare.

Eppure, in Italia il modello organizzativo e finanziario del terzo settore fa fatica ad investire in ricerca e sviluppo, soprattutto, tecnologico, pro-ponendo schemi poco adatti a incorporare le competenze economiche e culturali che questo comporterebbe. Il risultato e' oggi una dispersio-ne di energie e risorse attorno ad esperienze “finaziate a bando” che, spesso, si esauriscano limitatamente alle conseguenze istituzionali o, nell'ipotesi più alta, negli ambienti di prossimità e che, raramente, si consolidano trasformando le soluzioni tecnologiche innovative in vero valore economico.

Sara' necessario, nei prossimi mesi, costruire strumenti collaborativi non solo rivolti alla produzione ed elargizione dei servizi ma anche con l'obiettivo di fare interagire in modo efficace e conveniente i diver-si attori che avrebbero vantaggio nel collaborare: ad esempio, il terzo settore e le startup tecnologiche che operano nella conciliazione; nella distribuzione alimentare; nell'assistenza ecc., che, distanti dall'impresa sociale tradizionale, affidano il proprio successo (e spesso insucces-so) alla costruzione di community on line. Il punto di incontro potrebbe essere, ad esempio, in una logica di open innovation, dare evidenza

ad alcuni asset del terzo settore: la possibilità di verificare e sperimen-talmente aspetti della business idea; la possibilità di abilitare servizi gia' esistenti; la possibilità di interagire con community gia' strutturate ecc. e trasformali in capitale d'investimento da investire nelle startup.

Attivista nel coinvolgimento delle comunità creati-ve e tecnologiche nello sviluppo delle imprese e dei contesti locali.

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Le nuove professioni - di Chiara Bertelli

Come l'innovazione tecnologica e la sharing economy stanno modificando il mondo del lavoro nell'ambito delle professioni intellettuali. Quali nuovi bisogni esprimono i professionisti e quali sono le possibili risposte.

Ne abbiamo parlato con Chiara Bertelli, Coordinatrice territoriale per Ferrara di Legacoop Estense, Diego Farina, Presidente della Cooperativa Città della Cultura Cultura della Città, Demetrio Chiappa, Presidente della Coopera-tiva Doc Servizi, Dario Carrera, Co-founder di Impact Hub Roma e Mico Rao, Co-founder di Lab21 e con i parteci-panti al world cafè.

Gli interventi introduttivi dei discussant hanno dipinto uno scenario caratterizzato da:

1) trasformazione dei ruoli e delle competenze dei professionisti (dagli architetti ai grafici, dagli artisti ai consulen-ti, passando per gli archeologi e gli infermieri) che operano in contesti sempre meno codificati e codificabili;

2) flessibilità del lavoro; dalla commessa al progetto, dalle competenze alle esperienze;

3) sempre maggiore complessità ed eterogeneità dei team di lavoro per raggiungere un obiettivo che in preceden-za poteva essere raggiunto grazie all'apporto di un singolo professionista;

4) condivisione delle esperienze e delle expertise che diventa necessaria e allo stesso tempo rischiosa. La condi-visione deve produrre valore per più persone, non creare precariato intellettuale;

5) scarsa rappresentazione pubblica dei bisogni dei lavoratori precari e intellettuali. Le istituzioni e le organizzazio-ni sindacali continuano a privilegiare, nell'elaborazione delle politiche del lavoro, la visione del lavoro salariato, faticando a trovare soluzioni normative alle problematiche dei professionisti;

Il workshop nuove professioni

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6) attualizzazione dei luoghi della collaborazione (contesti associativi, case del popolo, spazi autogestiti...) come luoghi fisici e virtuali in cui stabilire connessioni, favorire lo scambio di idee e la ricerca di soluzioni condivise (coworking, fab lab, laboratori urbani...);

7) nascita di cooperative tra professionisti, come forma strutturata di collaborazione tra professionalità diverse.

Ai partecipanti è stato chiesto di dividersi in maniera casuale in 5 tavoli. Ogni tavolo era coordinato da un discus-sant.

Ogni tavolo aveva il compito di rispondere a 3 domande:

DOMANDA 1: LO SCENARIO

In che modo l’innovazione sta cambiando il mondo dei lavori creativi e intellettuali?

Nuove competenze, nuovi profili, nuovi bisogni: quali sono le professioni del futuro?

DOMANDA 2: COSA MANCA

Cosa rende difficile regolamentare e tutelare le nuove professioni?

Quali bisogni sono senza risposta?

DOMANDA 3: COME RISPONDIAMO

Quali strutture organizzative e quali strumenti si possono creare e adottare per dare risposte ai nuovi bisogni del-le nuove professioni?

Restituzione del lavoro svolto nei gruppi:

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Domanda n.1

Non cambiano le professioni, cambiano le competenze. I “nuovi professionisti” devono possedere competenze trasversali, soft skills, saper interagire con il contesto e creare connessioni con altri professionisti. Per fare questo attualmente manca una formazione che sia orientata alle professioni e ai bisogni del futuro (ma anche a quelli at-tuali).

I nuovi professionisti vengono definiti “empatizzatori”, “service designers”, “facilitatori di comunità”. A questi viene richiesto sempre più di creare valore, non solo economico. Il lavoro di architetti, sociologi, progettisti etc... deve avere una ricaduta positiva sulla società, sulle comunità in cui operano.

Domanda n. 2

a) non riconoscibilità del valore economico delle professionalità e delle prestazioni;

b) difficile operare un controllo della qualità dell'operato dei nuovi professionisti, se non attraverso la misurazione dell'impatto sociale che essi generano;

c) difficoltà del legislatore ad adeguarsi ai cambiamenti;

d) regolamentare le nuove professioni è una necessità, ma anche un rischio (rigidità come disvalore);

e) mancanza di una rappresentanza del mondo dei nuovi professionisti;

f) mancanza di tutele e di welfare;

g) scarsa consapevolezza “di classe” dei nuovi professionisti (chi siamo, quanti siamo, che bisogni condividiamo);

h) bisogno di autoformazione dei nuovi professionisti;

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i) problemi con gli ordini professionali, spesso guidati da logiche superate, e con le casse previdenziali.

Domanda n. 3

k) sviluppo di luoghi della collaborazione (Fab Lab dei servizi, ma-ker space, coworking, piattaforme) in cui fare rete, aggregarsi, trovare una risposta collettiva ai bisogni;

l) cooperative di professionisti;

m)dare voce ai professionisti intellettuali, ai precari, anche attra-verso lo sviluppo di attività formative, la creazione di luoghi del-la partecipazione;

n) la riscoperta del valore della cooperazione, non solo come mo-dello imprenditoriale per stare sul mercato, ma anche come elemento che favorisce la consapevolezza della propria condi-zione professionale e aumenta le possibilità di successo nel “fare lobby”.

Coordinatrice territoriale di Legacoop Estense per la provincia di Ferrara

Chiara Bertelli

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Paragrafi

1. Le esperienze di community e il valore condiviso

2. Vivere il co-housing

3. Workshop: gli spazi della collaborazione

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Speciale imprese e change making

CommunityLe comunità di cambiamento e gli spazi di collaborazione

Le esperienze di community e il valore condiviso - di Silvia Candida

Se c’è un aspetto fondamentale alla base della sharing economy senza il quale essa non sarebbe ciò che è, è l’aspetto relazionale, quello cioè che punta alla generazione di legami di comunità come valore in sé, a prescin-dere dal suo tradursi o meno in attività d’impresa vera e propria o comun-que generatrice di valore monetario. È questo tornare a centro scena della relazione – che presuppone contatto e scambio tra le persone - rispetto a un’economia tradizionale fatta di transazioni sempre più astratte e imperso-nali, che rappresenta il primo ‘moto’ da cui prende vita ciò che oggi è un fenomeno da analizzare anche sub specie economica.

Il tema del community building è ormai centrale. Non si tratta di atti-vità economiche strettamente intese, quanto di un substrato sociale e culturale che rappresenta a sua volta - a volte anche in tensione con l’idea di una sua possibile valenza ‘commerciale’ -  un processo di (ri)costruzione di valore dopo la grande crisi del 2008.

Esperienze come quella di via Fondazza a Bologna, la prima social street: un esempio chiaro del fatto che il concetto di ‘condivisione’ non rimanda primariamente a una strategia di mercato bensì ad un comportamento so-ciale. Tra gli elementi che definiscono la comunità  bolognese - e tante al-tre che si sono formate in Italia e nel mondo sulla sua scia - c’è, non a ca-so, la gratuità dello scambio e del mutuo aiuto tra i membri, insieme a un’inclusività trasversale a qualsiasi categorizzazione etnica, anagrafica, culturale, socio-economica... e alla ricerca di uno spazio di socialità reale, da vivere nel quotidiano. Si crea così un percorso “dal virtuale al reale al virtuoso” che può anche produrre economia nel senso di risparmio e mi-glior uso delle risorse, ma prima di tutto una qualità della vita più appagan-te.

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la valorizzazione dei beni comuni e la governance partecipata.  

Così come proattivamente si pone una realtà di nuova generazione come OuiSha-re, think tank e incubatore nato in Francia e formato oggi, a poco più di tre anni dal suo esordio, da una rete di communities attive a livel-lo locale in 25 paesi ma an-che capaci di coordinarsi sui progetti internazionali. Essa nasce con l’intento esplicito di promuovere l’elaborazio-ne di una visione sistemica e la sperimentazione di mo-delli, strumenti e pratiche in grado di accelerare la transizione verso un’eco-nomia e una società collaborative, producendo e diffondendo conoscenza attraverso la ricerca e la formazione, connettendo tra loro le persone e i pro-getti che si muovono in questa direzione e facilitando la comprensione e l’adozione di un approccio collaborativo anche tra i soggetti dell’economia privata tradizionale e della pubblica amministrazione.   

Pur nella diversità di queste esperienze e dei contesti in cui si svilup-pano,  vi sono nodi critici potenzialmente comuni ai processi di forma-zione ed evoluzione di qualsiasi gruppo o rete di persone  che voglia uscire dalla dimensione digitale della community per costruire iniziati-ve condivise e valore sociale nel mondo reale, diventare cioè (an-che) comunità.

Esperienze come quella tutta ferrarese del cohousing San Giorgio,  di inno-vazione che nasce iper-locale e dimostra quanto la progettualità collettiva possa ‘funzionare’ anche su un obiettivo complesso come la progettazio-ne, costruzione e gestione di un condominio di nuovissima generazione, fungendo da ‘aggregatore’ delle competenze professionali necessarie e producendo soluzioni avanzate sul piano della sostenibilità ambientale. Ri-pensando radicalmente l’idea di condominio come semplice giustapposizio-ne di spazi privati chiusi, e accettando - vincendola - la sfida di costruire insieme agli spazi condivisi anche la comunità che li condivide, cioè un in-sieme affiatato di ‘vicini solidali’.

E vi sono poi esempi di soggetti collettivi di lungo corso come Cittadinan-zattiva, che non vengono comunemente inclusi nella narrazione innova-tion-oriented del ‘fenomeno sharing’ ma di cui è facile portare alla luce im-portanti punti di contatto con le  odierne comunità p2p.

Un tema, questo della contiguità fra il tessuto associativo (civico, co-operativo, mutualistico e così via) preesistente alla disruption digita-le e le possibili declinazioni italiane della ‘condivisione’ a più spicca-ta vocazione sociale, che troppa attenzione alla platform economy modello Silicon Valley tende a sospingere in secondo piano ma che contiene i germi -  non ancora maturi a dire il vero, ma attentamente osservati da chi nel nostro Paese si occupa di sharing con cognizio-ne di causa - di una ‘via italiana’ alla società collaborativa.

La possibilità di alleanze  intorno a un’idea di società collaborativa come modello di democrazia per il XXI secolo si rafforza nella misura in cui un’idea di ‘cittadinanza attiva’ che consiste nel denunciare i disservizi e pungolare il soggetto pubblico preposto affinché provveda, lascia il posto a una più spiccatamente proattiva, che progetta e propone su temi come

Membro di Ouishare

Silvia Candida

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Come alimentare la vita del gruppo in modo che le sue attività siano vera-mente inclusive, coinvolgenti e capacitanti per tutti, evitando che una parte dei membri o potenziali membri si senta esclusa o si autoescluda? Come creare un rapporto di scambio con il territorio e gli altri suoi soggetti sociali, evitando che si trasformi in "bolla" autoreferenziale e trasformandola in ca-talizzatore di un ecosistema e generatore di impatto sociale anche al di fuori del proprio perimetro organizzativo? Come gestire il dialogo e l’even-tuale collaborazione con le amministrazioni locali che possono rappresen-tare un punto di riferimento utile per i progetti della comunità, ma non sono abituate a loro volta a riconoscere come interlocutore chi non rappresenta un “corpo intermedio” nel senso istituzionale del termine, o potrebbero stru-mentalizzarla, o far sorgere conflittualità tra i membri sulla base del ‘colore’ politico?

Domande che aprono una serie di riflessioni e di possibili soluzioni. 

La prima: l’attivazione di tutti i membri, e con essa la chance di non ‘esauri-re’ in breve tempo energia e motivazione ma di far durare la comunità e i suoi progetti nel tempo, non è un risultato che si può dare per acquisito con l’atto di nascita: va alimentato con cura, anche per evitare di ricadere in un atteggiamento passivo da ‘consumatori di esperienze’ e nella logica comoda e deresponsabilizzante della delega ai più attivi, che vuol dire sna-turare una delle spinte più fertili e autenticamente rivoluzionarie della sha-ring economy.

In questo senso tutti i nuovi ecosistemi, a differenza delle strutture gerarchiche che tendono a conservarsi, sono cantieri permanenti in cui sperimentare di continuo quali pratiche di governance interna fa-voriscono lo sviluppo di dinamiche virtuose e autenticamente parteci-pative.  

La seconda: prima di – e piuttosto che - ricercare la legittimazione e l’ap-poggio dell’autorità pubblica locale per poter iniziare ad agire, è utile che la comunità collaborativa si dia da fare per concretizzare progetti che può gestire in autonomia. Questo le permette di legittimarsi come portatrice di valore nei confronti della wider community, facendo da propulsore per la formazione di un vero e proprio network aperto di soggetti locali che gene-rano innovazione e ne beneficiano; e di resistere ai tentativi di fagocitazio-ne da parte dei players tradizionali, valorizzando invece la propria carica innovativa come ‘agente mutageno virtuoso’ per il territorio e per la stessa amministrazione pubblica.

Terza, ma non ultima: la dialettica tra finalità sociali e finalità economiche della sharing economy, nel senso della “monetizzabilità” delle interazioni, è un tema estremamente delicato. Finita la fase degli entusiasmi ingenui, è ben avvertito da parte delle comunità che si attivano spontaneamente dal

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Vivere il Cohousing - di Alida Nepa

Co-housing: possiamo tradurlo come “ condominio solidale” o “ abitare condiviso”, si tratta in pratica di un gruppo di famiglie che acquista un terreno e costruisce oppure ristruttura un edificio dove ogni famiglia vivrà in normalissimi appartamenti con il valore aggiunto di avere altri spazi e beni comuni in condivisione ( ad esempio nel nostro cohou-sing SanGiorgio condividiamo una sala, libreria, camino, lavatrici, cuci-na, asciugatrice, pozzetto congelatore, trapano, idropulitrice, orto, giar-dino, cane, gatto… e molto altro). Quali i vantaggi?

Il risparmio economico legato alla condivisione di beni e servizi, attrezzature, professionalità, progetti di gruppi di acquisto solida-le

La qualità dell’abitare: la progettazione partecipata è fondamentale e utile, l’edificio che abbiamo realizzato, in classe A4 , ha appena vinto il prestigioso premio internazionale Green Building Awards; e visto che l’abbiamo progettato noi che siamo semplici impiegati, farmacisti, insegnanti, cuochi, è stata una bella soddisfazione!

Un vantaggio dell’abitare condiviso è in primis la possibilità di conciliare i tempi di vita e di lavoro tramite la semplice collabora-zione reciproca, il supporto amicale e di buon vicinato; fantasti-ca la possibilità per i figli di crescere in modo armonioso giocan-do con altri bambini, ritornando ai contesti di “cortile” in cui le relazioni di appoggio/sostegno erano naturali.

Ma vi conoscevate? Ci chiedono spesso. No, ci siamo conosciuti du-

basso il timore che l’introduzione del denaro - e più che mai la nascita di ‘unicorni’ dall’incubatore della condivisione - ne snaturi l’aspetto comunita-rio, riducendo le relazioni di nuovo a mere transazioni.

Chi pensa a un modello di impresa collaborativa, dunque ad un sog-getto economico che si inserisca in modo non parassitario in questi ecosistemi emergenti, dovrebbe curare con grande attenzione l’equili-brio tra esigenza di sostenibilità e ambizione di ‘scalare’, da un lato, e primato del valore non monetario generato e ridistribuito all’interno dell’ecosistema dall’altro.

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rante il percorso, ma ad esempio abbiamo ancora un appartamento libero, chi ci verrà ad abitare? Non lo sappiamo ed è questa la sfida, essere aperti ed avere la volontà di andare d’accordo, se c’è la volon-

tà – come in tutte le relazioni, anche nelle relazioni di coppia, di lavoro ecc. - se c’è la volontà, la soluzione si trova.

La sicurezza per noi è conoscerci, imbastire buoni rapporti con i nostri vicini di casa, nei condomini vicini e nel quartiere; a volte si ha della sicurezza un’idea opposta, cioè quella che la scelta migliore al giorno d’oggi sia barrarsi in casa, non aprire a nessuno, non dare confidenza perché tutti possono essere potenziali malintenzionati. Per noi è esat-tamente l’opposto.

Noi auspichiamo in un futuro non lontano che gli abitanti di un norma-

lissimo condominio un giorno decidano di usare insieme i locali al pian-terreno abbandonati, i negozi su strada sfitti, le terrazze comuni e gli androni; siamo certi che, anche con il nostro esempio e sostegno, tan-ti anonimi condomini potranno trasformarsi in realtà abitative collabora-tive e di reciproco sostegno ricreando un tessuto sociale vitale e rigo-glioso nel quartiere e nella città.

Alida Nepa, Co-Housing di San Giorgio, Asso-ciazione Solidaria

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Millepiani è il coworking del

Municipio VIII di Roma, spazio collaborativo per eventi-formazione, startup, progetti di innovazione socia-le e produttiva. Ospita 30 startup, 50 lavoratori free lance ogni giorno.

www.millepiani.org

Nata nel picco-

lo paese di Favara, vicino Agrigento, dove le strutture devastate dall’incu-ria sono state recuperate e contami-nate con architetture moderne, Farm Cultural Park è un centro dedicato al territorio, all’arte e al sociale.

Ex Fadda na-sce 4 anni fa,

quando grazie al lavoro di una corda-ta di imprese e associazioni attive nel-la comunicazione, nella cultura e nel sociale, viene recuperato un vecchio stabilimento enologico in disuso vici-no Brindisi per farne uno spazio per la creatività e l’innovazione.

www.exfadda.it

Il Consorzio “Wunder-kammer” è un centro di produzione cultura-

le che reinterpreta in chiave contem-poranea il concetto di “camera delle meraviglie” per raccogliere e organiz-zare in maniera innovativa le capaci-tà artistiche e produttive del territorio.

Andrea Paoletti e Ma-riella Stella hanno rea-lizzato Casa Netural,

uno spa-zio di lavoro, socializzazione e collaborazione dove in-contrare pro-fessionalità per creare progetti. Tra le attività coworking, coliving, formazio-ne, esperienze condivise.

Imprese sociali e community di cambiamento

Avanzi nasce come idea di 4 ragazzi nel

1997. Nel 2011, dopo varie esperien-ze, viene fondato Avanzi, Sostenibili-tà Per Azioni, uno spazio di cowor-king che, tra i vari servizi, sostiene e accelera le imprese a vocazione so-ciale e ambientale.

www.avanzi.org

www.farm-culturalpark.com

www.consorziowunderkammer.org www.benetural.com

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Gli spazi della collaborazione - di Leonardo Delmonte

Il 20 maggio 2016 a Ferrara, presso la Sala della Musica del complesso rinascimentale di San Paolo, si è svolto un workshop sul tema degli spazi della collaborazione. L’ incontro, organizzato nell’ambito del Ferrara Sharing Fe-stival, ha analizzato l’impatto delle nuove forme di lavoro condiviso sulla trasformazione della città contempora-nea. Ho avuto modo di coordinare il laboratorio in qualità di direttore dell’APS Basso Profilo, un’associazione che, dopo aver fondato a Ferrara un consorzio, Wunderkammer, per trasformare gli ex magazzini fluviali della città in un laboratorio di innovazione culturale, ha avviato da alcuni mesi, con il progetto Smart Dock, un processo di rige-nerazione urbana dell’area. Un quartiere progettato nei primi del novecento secondo i canoni della “città giardino” e oggi caratterizzato da una debole identità e un diffuso senso di insicurezza.

Nella prima parte del workshop si è discusso di come - reinterpretando la funzione di edifici esistenti - coworking, incubatori e acceleratori siano in grado di cambiare fisionomia al sistema territoriale dell’innovazione in maniera sostenibile.

Andrea Paoletti, fondatore di Casa Netural, un originale spazio della collaborazione a Matera, ha puntato l’accen-to sull’importanza del legame che questi luoghi dell’innovazione devono creare con la comunità locale per poter essere sostenibili.

Ci si è spostati ancora più a sud, a Favara, piccolo paese dell’agrigentino, con l’intervento di Andrea Bartoli, diret-tore creativo di Farm Cultural Park. Anche la sostenibilità dell’esperienza della factory creativa siciliana è forte-mente legata alle esternalità positive che la stessa ha generato negli anni sul territorio. Partendo dal recupero di case disabitate attorno a sette cortili in disuso, infatti, la Farm Cultural Park è stata capace di ridare vita all’intero centro storico, risvegliando energie civiche sopite e attirando appassionati d’arte contemporanea da tutto il mon-do.

Il workshop spazi di collaborazione

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Come ha sottolineato Monica Bernardi, ricercatrice dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca,

spazio della collaborazione per essere sostenibile deve essere inclusivo e in grado di fare rete a livello na-zionale e internazionale. Perché ciò sia possibile, però, è cruciale il ruolo che il pubblico deve giocare per favorire l’accesso di questi hub al finanziamento.

A concludere questa discussione attorno alla sostenibilità degli spazi collaborativi ci ha pensato Davide Zanoni, Amministratore Delegato di Avanzi, un gruppo di imprenditori, consulenti e ricercatori che gestisce a Milano lo Spazio Barra A, un vero e proprio distretto dell’innovazione sostenibile. Zanoni è tornato a parlare del ruolo del pubblico, ricordando che, se per uno spazio di coworking è semplice riuscire a raggiungere la sostenibilità econo-mica, non lo è per un coworker. La soluzione a questo problema può venire da una partnership pubblico-privata in grado di offrire strumenti di supporto e finanziamenti ai giovani creativi nel passaggio dall’idea alla realtà im-prenditoriale, magari attraverso dei pool di risorse in grado di ridurre il rischio del singolo finanziatore.

La seconda parte del workshop ha visto i discussant e i presenti organizzarsi in quattro tavoli di lavoro per indaga-re, attraverso la metodologia del world café, il ruolo degli spazi della collaborazione nella rigenerazione urbana. Il primo tavolo ha sottolineato come uno spazio collaborativo, attraendo soggetti eterogenei, sia in grado di facilita-re scambi tra centro e periferia e catalizzare la voglia di riscatto e rivalsa propria delle aree caratterizzate da mar-ginalità fisica e sociale. L’attenzione del secondo gruppo di lavoro si è concentrata sulla dimensione processua-le della rigenerazione urbana. Il fatto che qualcuno inizi a portare speranza in luoghi dimenticati è sempre conta-gioso, e acceleratori, incubatori e coworking sono spesso pionieri. Nella città resiliente sono le persone e le rela-zioni a fare la differenza, questo l’assunto del terzo teamwork.

Perché uno spazio della collaborazione possa caratterizzarsi come driver di rigenerazione urbana in un’area periferica è fondamentale che sia il più possibile aperto e, quindi, in grado di costruire un ecosiste-ma ricco di diversità dove ciascun soggetto, pur restando indipendente, sia in grado di trarre giovamento dal sistema di relazioni dal cui è circondato.

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Interessante il punto di vista dell’ultimo tavolo che, leggendo gli spazi collaborativi come strutture ibride a servizio della comunità, ne ha evidenziato il molteplice ruolo di avvio, garanzia e presidio di percorsi di rigenerazione urbana. Abilitando nuovi attori, gene-rando lavoro e ospitando pratiche eterogenee, questi spazi riesco-no, infatti, a sostenere processi di integrazione e ricucire la città.

Ha concluso la giornata di lavoro una riflessione sulla difficile le-gittimazione sul mercato di questi spazi e di chi ci lavora, avviata dal direttore del Ferrara Sharing Festival, Davide Pellegrini. Spesso quello dell’innovazione culturale e sociale è un meta-rac-conto che non arriva alla comunità, la soluzione, però, secondo i partecipanti al workshop, non è quella di creare l’ennesimo albo professionale, bensì aprirsi ancora di più. Portare sempre più per-sone a frequentare e conoscere spazi innovativi, è questa la stra-da maestra per la legittimazione.

Direttore dell'APS Basso Profilo e Se-gretario del Consorzio Wunderkammer

Leonardo Delmonte

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La felicità non costa nienteL’economia circolare e la felicità possibile

La sharing economy ha il merito di riportare l’analisi economica alla sua funzione primaria. Rendere sostenibile un sistema nella delicata simmetria delle sue parti.

Impresa e produzione, governance pubblica e comunità, servizi e welfare. Sono solo alcuni dei temi, ma in comune hanno l’urgenza di trovare soluzioni con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita.

Le varie interpretazioni dell’economia dovranno fare i conti con questo nuovo bisogno collettivo. Tornare a guardare alla felicità in modo concreto, come progetto necessario e realizzabile.

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Cosa diventerebbe il mondo se la sharing... - di Giancarlo Sciascia

Il tempo scorre senza soste, senza possibilità di inversione di marcia, a suo modo a senso unico, perché se anche io provassi o voi provaste insie-me a me a riavvolgere il mio nastro, o a far lo stesso col vostro, il risultato non sarebbe un’emozione tale e quale ma uno specchio in frantumi di quel-l’istante, di quel momento, di questo, e avanti un altro.

Quando, in terza elementare, ho scritto la prima “composizione” che ho sentito davvero mia, la maestra ci aveva chiesto di descrivere cos’era per noi, bambini oggetto di (quella che oggi potrei chiamare) adver-bombing dalla mattina alla sera, l’amicizia. Non ricordo quanto ci pensai a lungo, di certo so che feci una scelta: parlarne attraverso un’amica, Laura, pensan-do a lei e lasciando qualche traccia di quel che provavo e pensavo sulla carta Fabriano che papà mi aveva portato in dono dopo una trasferta in continente.

L’amicizia, che ancora dura, come un magnete resistente, che si oppone alla deriva di terreni comuni su orizzonti inesplorati, oggi si alimenta di messaggi radi ma intensi, sempre meno spesso si tratta di geniali cartoline o surreali tshirt, a volte si rasenta il telegrafico denso però di riferimenti a scampoli dei nostri ricordi, a parole chiave della nostra cassettiera di picco-le complicità, col sapore talvolta agrodolce e talaltra corroborante (mai as-saggiato il sarcasmo?) della bellezza di sentirsi uniti nonostante la distan-za e le alterne sorti.

Mi è stato chiesto di fare una riflessione sulla sharing economy; ne appro-fitto per prendermi una pausa ed entrarci dentro, come in un buco nero del-la mia coscienza che fluisce, e mi domando con te che mi stai leggendo cos’è per noi la condivisione. A me torna prima di tutto in mente questo, fra tanti inizi di lunghe amicizie; e il seguito, una catena di senso che si ramifi-ca, fuori e dentro di noi, che ci dà le parole per sognare e la forza per sop-

portare, la tenerezza per non perdersi e il dispetto di guardar lontano.

Faccio “parte di una generazione che è, più o meno consapevolmente, at-trice, interprete e testimone del ripiegamento di un modello di società e del contestuale emergere di nuovi paradigmi tecnologici e produttivi, del con-fronto con la globalizzazione economica e con i flussi migratori, con nuovi stili di vita, inediti modi di lavorare e di essere cittadini: nel mondo e nella città.”

Adesso il mio lavoro quotidiano lo svolgo quasi per intero attraverso uno schermo che, grazie a dei codici scritti negli ultimi dieci anni e a protocolli di trasmissione dei dati inventati probabilmente mentre scrivevo dell’Amici-zia, mi fa leggere, scrivere, immaginare, ascoltare, raccontare, comprende-re e fraintendere, poi verificare e ricredermi, ma soprattutto condividere, imparare, pensando e sentendo insieme, connessi e quando va bene con nessi ed emozioni pulsanti.

La mia sfida è creare sempre nuove connessioni fra le comunità, le persone, ciascuna con la sua storia; e le idee che mettono in moto piccoli o grandi cambiamenti. In questi legami temporanei, vulnerabi-li, dalle conseguenze imprevedibili, si manifestano possibilità di fidu-cia che fanno sorgere opportunità impensate.

Questo instancabile e poetico lavoro di cura delle relazioni lo svolgo al ser-vizio della reputazione, della credibilità, della capacità delle organizzazioni di esprimere il proprio potenziale comunicativo, praticando e condividendo I valori che le caratterizzano. Chi si è già accorto di quanta importanza ab-bia questo aspetto ha già cominciato a investire in questa direzione e tra-sformato gradualmente il proprio modo di intendere la comunicazione e l’organizzazione stessa, andando nella direzione dell’open innovation, adattandosi sempre più rapidamente e riuscendo a rispondere sempre me-

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glio ai bisogni emergenti con soluzioni di impatto sociale auto-evidenti nel-la loro utilità e capaci di generare consenso e attrarre risorse e talenti.

Il mio auspicio è che le pratiche della sharing economy determinino davvero la trasformazione concettuale del lavoro e la soluzione alla crisi economica e finanziaria dando risposta alle emergenze sociali contribuendo al rilancio dell’economia. La collaborazione fra pari, come modello che accorcia le distanze e ridefinisce i rapporti di lea-dership, sia politici che finanziari, può essere un contrappeso decen-trato, “iperlocale” alla deriva delle insostenibili politiche di “dumping” sovranazionale che hanno prodotto crescente disuguaglianza e una sempre più ampia e profonda instabilità globale.

La via dell’economia circolare, il caregiving resiliente, è anche un messag-gio carico di speranza che consta-ta l’interdi-pendenza, afferma con forza la no-stra respon-sabilità di ricostruire il futuro e ri-mette al centro la felicità.

Ben avvertito da parte delle comunità che si attivano spontaneamente dal basso, il timore che l’introduzione del denaro - e più che mai la nascita di ‘unicorni’ dall’incubatore della condivisione - ne snaturi l’aspetto comunita-

Giancarlo Sciascia, dal 2015 è Community Mana-ger in Fondazione Bruno Kessler. Nelle edizioni 2014 e 2015 ha curato la sezione “cultura” di Inter-net Festival.

rio, riducendo le relazioni di nuovo a mere transazioni.

Chi pensa a un modello di impresa collaborativa, dunque ad un sog-getto economico che si inserisca in modo non parassitario in questi ecosistemi emergenti, dovrebbe curare con grande attenzione l’equi-librio tra esigenza di sostenibilità e ambizione di ‘scalare’, da un la-to, e primato del valore non monetario generato e ridistribuito all’in-terno dell’ecosistema dall’altro.

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Progettare la sostenibilità - di Massimiliano Mazzanti

Per Progettare la sostenibilità occorre intervenire sulle sfere tecnologi-che, organizzative, di norme e valori, di comportamento e, non ultima, di politica pubblica. La prospettiva socio economica vede queste sfere come complementari e tutte rilevanti. La difficoltà sta nell’attivazione congiunta e non diacronica delle varie dimensioni. L’attivazione di una o poche sfere può addirittura essere inefficiente (es. cambiamento dei valori e comportamenti senza adeguamento di politiche e infrastruttu-re, o viceversa).

La sfera tecnologica è rilevante per mitigare gli impatti ambientali della crescita del PIL, al fine di incrementare l’efficienza col quale producia-mo beni (es. aumentare il PIL/CO2, PIL/rifiuti prodotti). L’efficienza e la technè non devono tuttavia divenire fini. L’obiettivo della sostenibilità è incrementare lo sviluppo umano, che vede come componenti cruciali aspettativa di vita e scolarizzazione. La seconda è il cardine dello svi-luppo sostenibile ed equo.

Occorre prestare molta attenzione all’impatto della tecnologia sulle skill dei cittadini/lavoratori. La tecnologia aumenta le no-stre possibilità e competenze, ma se l’effetto è diseguale la coe-sione sociale si riduce, e provoca effetti politici che sono alla ba-se dei ‘divide’ osservati oggi in Europa.

L’ultimo è il caso della Brexit, in gran parte motivata da forti differenze geografiche e sociali per ciò che riguarda gli effetti della globalizzazio-ne, dipendenti anche da diversi livelli di scolarizzazione tra classi ed età.

Quindi, tecnologia ed educazione sono stretti complementi per affron-tare le sfide di una progettazione sociale sostenibile ed equa.

À la Langer, dobbiamo essere ‘’viaggiatori leggeri’, più sostenibi-li, conoscitori e portatori di conoscenze, al fine di costruire ponti sociali.

L’educazione porta con sé cambiamenti di valori, che in loro stessi so-no innovazioni radicali. Le rivoluzioni organizzative più efficace avven-gono tramite cambiamento delle menti. Le rivoluzioni organizzative, nelle imprese, nelle città, sono comunque dirimenti. Le ‘fabbriche’, le organizzazioni sociali in genere vanno ripensate riprendendo esempi di forte innovazione già presenti decenni fa.

Si pensi alla Olivetti di Ivrea, che già a fine anni 40 associava la bellezza della fabbrica e la cultura dei dipendenti e la loro quali-tà di vita ai profitti, per cercare sinergie e non conflitti tra uomini e produzione. La Olivetti che assumeva poeti e scrittori (Volpo-ni, Fortini, Ottieri, etc..) per progettare le strategie sugli investi-menti tangibili e intangibili.

Il comportamento sociale deve essere guidato da cambiamento di va-lori ed obiettivi, individuali e sociali: il PIL è uno strumento, come la techné, per assicurare migliore sviluppo (o ‘progresso’ nel senso Paso-liniano), cioè migliore qualità di vita (life satisfaction), minori impatti am-bientali, più equità nella distribuzione delle risorse. Ricordiamo che una iniqua distribuzione della ricchezza materiale ma soprattutto intan-gibile (educazione, skill, competenze, le capabilities à la Sen) porta

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minore crescita e conflitti socio-politici, chiaramente presenti nella geo-grafia europea degli ultimi 10 anni.

La politica deve supportare tutto questa transizione socio-econo-mica-ambientale. Deve investire, comunicare, mutare le condi-zioni del mercato. Investire in ‘cervelli’ e ‘reti sociali’.

Le reti possono emergere spontaneamente ma devono essere suppor-tate e alimentate dall’investimento in educazione, di base e avanzata. Deve cambiare i ‘prezzi’, spiegando perché i beni che impattano sul-l’ambiente devono costare di più sul mercato. Su queste direzioni, l’azione pubblica e fiscale rimane centrale in una società avanzata che vuole innovare e transitare verso altre economie (green, circolari, sha-ring).

Massimiliano Mazzanti, Professore Associato in Economia Politica Università degli Studi di Ferrara.

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Riflessioni su un’economia della felicità - di Fulvio Fortezza

Il tema della Felicità stuzzica e, al contempo, solleva una serie di interroga-tivi apparendo, a taluni, o dominio eccessivamente soggettivo, personale, oppure una sorta di chimera, al di fuori del controllo dei singoli. La scelta di parlare di Felicità nasce da una motivazione specifica: l'ampia letteratu-ra (interdisciplinare) sul tema mette in luce l'esistenza di un "linguaggio uni-versale della felicità", alla cui base vi sono le relazioni.

Infatti, sebbene la Felicità sia per ognuno un percorso estremamen-te intimo e personale (questo è vero), è fuori dubbio che fra i princi-pali driver di Felicità vi siano comunque l'intensità e la qualità dei rapporti interpersonali.

Ecco, allora, che la condivisione (sharing) di tempo, risorse, passioni, ener-gie, obiettivi può essere un potentissimo viatico per la Felicità.

Da questo punto di vista, l'esplosione del web, nelle forme che oggi cono-sciamo, consente di interconnettere le persone su base planetaria, consen-tendo un netto ampliamento del "circuito della condivisione". Qui si apre un mondo, decisamente interessante, che è fatto di cooperazione e di col-laborazione e che in parte può portare a un'emancipazione (solo parziale) dal mercato, perché nell'ambito delle dinamiche della condivisione, appun-to abilitate dalla tecnologie, è possibile dare valore a risorse che altrimenti non ne avrebbero o non ne avrebbero più, prescindendo anche dal merca-to.

Si entra, così, in una nuova era nell'ambito dell'accesso alle risorse utili al-la creazione di valore individuale. Il riferimento non è alle formule di Airbnb ed Uber, per capirci, perché, sebbene si tratti di casi clamorosi di successo post-industriale, di nuovo prototipo di un'economia più veloce e completa-

mente o prevalentemente immateriale, non rappresentano veri cari di sha-ring; piuttosto configurano esempi del cosiddetto "pseudo-sharing".

Un tema trainante per il futuro sarà quindi di certo rappresentato dal nuovo connubio fra pratiche di acquisizione di risorse e di disposizio-ne di risorse che passano tramite il mercato e altre pratiche che sca-valcano il mercato, almeno per come l'abbiamo sempre concepito.

In tutto questo, i molteplici siti internet che nascono quasi ogni giorno nel-l'alveo della sharing economy rappresentano una nuova categoria di player interessante e necessaria, ovvero quella degli infomediari, che abili-tano la capacità di autonoma generazione del valore da parte delle perso-ne, secondo le logiche dell'empowerment della folla e della coproduzione di valore.  

Fulvio Fortezza, Docente del Dipartimento di Eco-nomia e Management di Unife.

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Il contributo della finanza etica all’economia della condivisione - di Simone Grillo

Il concetto di Felicità, come ricorda la Treccani, deriva dal latino Felicitas, richiamo alla divinità romana protettrice della fecondità, della ricchezza e del successo, personificazione divina di un'astrazione. L'aspirazione alla felicità è stata caratteristica dell'età classica, nella quale si sviluppò la dot-trina socratica dell'Eudemonismo. In questo contesto, ricorda sempre la Treccani, l'ideale espresso da Aristotele identificava la felicità con la perfe-zione individuale, come attuazione delle proprie capacità, il cui culmine si raggiunge nell'esercizio dell'attività relazionale.

Questa nozione, trascurata a partire dalla posizione rigoristica di Kant, ha comunque continuato ad ispirare il pensiero filosofico, politico e sociale eu-ropeo.

Il tema della felicità torna evidentemente oggi all'attenzione comune, consi-derando l'esigenza di costruire un nuovo modello economico e sociale ri-spetto a quello che ci ha accompagnato negli ultimi decenni e che, eviden-temente, non appare più sostenibile.

Come si evince anche dagli spunti offerti dal Prof. Fortezza, le scien-ze economiche e sociali hanno già da tempo affermato come l'esat-ta identificazione tra ricchezza e felicità (l'idea di ricchezza come fi-ne e non come mezzo) rischi in realtà di condannare la persona al-l'infelicità.

Sicuramente il denaro può essere uno strumento utile alla ricerca della feli-cità, a patto di essere validamente messo all'opera nel sistema economi-co.

Purtroppo, negli ultimi decenni, il funzionamento di questo sistema è stato orientato all'affermazione della shareholder wiew (in ottica di mera massi-mizzazione del profitto), il che si è tradotto inevitabilmente nella finanziariz-zazione del mercato.

L'affermarsi di queste dinamiche ha finito per influenzare sempre di più la società, spingendola a piegare il mercato (che dovrebbe essere una espressione della socialità) ad esigenze di profitto (e consumo) individuali-stico sempre più stringenti, auto-escludenti e, soprattutto, prive di un fine ultimo ulteriore, coerente con la naturale vocazione della persona alla rela-zione nella ricerca della felicità.

L'insostenibilità di questo modello è certo all'origine della crisi finan-ziaria, la quale si è riversata sulla vita quotidiana di una moltitudine di persone, facendo emergere vulnerabilità divenute ormai questioni di rilevanza sociale (si pensi al “gioco d'azzardo patologico”).

Lo scenario che abbiamo di fronte ogni giorno deve essere attentamente interpretato, in quanto troppo alto è il rischio di limitarsi alla constatazione

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del fallimento della nostra condizione o alla condanna del mercato.

Questa errata prospettiva può non farci vedere, invece, come proprio tra le pieghe dell'attualità emerga una rinnovata socialità, capace di tradursi an-che nel mercato in occasioni di rigenerazione.

La finanza etica, in realtà, ha sempre cercato di identificare l'aspetto uma-no delle relazioni economiche, soffermandosi sull'esigenza di valutare “le conseguenze non economiche delle attività economiche”.

E' una visione che viene da lontano, che trae origine dalla finanza france-scana del XV° secolo e che, in età contemporanea, ha trovato applicazio-ne nel nostro Paese attraverso le cooperative del Commercio Equo e Soli-dale, nonché attraverso le MAG. L'esigenza di riportare la finanza a stru-mento al servizio della persona (e della sua ricerca della felicità, personale e comunitaria) ha del resto spinto una quantità di associazioni, realtà sin-dacali, sociali e, soprattutto, privati cittadini a investire una piccola parte del proprio risparmio per arrivare a creare Banca Etica.

La crescita registrata dalla Banca in questi anni ha permesso di compren-dere quanto diffuso sia il bisogno di una finanza a servizio dell'inclusione economica e sociale, capace di vedere il potenziale insito in realtà troppo spesso liquidate come marginali, ma anche di supportare iniziative di inno-vazione e di responsabilità sociale in ogni ambito del mercato.

L'esperienza di questi primi diciassette anni di Banca Etica rende oggi più che mai chiara l'esigenza di superare la dicotomia tra profit e non-profit, promuovendo progetti a prescindere dalla personalità giuridica dei proponenti, a patto che siano seriamente volti ad opera-re in ottica di Economia Civile.

I driver di riferimento per chi affida i propri risparmi a Ban-ca Etica corrispondono ai va-lori di riferimento della finan-za etica stessa: equità, re-sponsabilità, creazione del bene comune.

La Banca è chiamata a ga-rantire la capacità di promuo-vere progetti capaci di “stare sul mercato”, capaci cioè di mantenere un proprio equili-brio economico/finanziario, il quale non può però scindersi dal necessario equilibrio sociale e ambientale.

A garanzia dell'applicazione di quest'ottica, Banca Etica ha promosso, e perfezionato negli anni, la propria Valutazione Socio-Ambientale, strumen-to realizzato da soci attivi adeguatamente formati e teso a verificare che chi richiede credito a Banca Etica intenda impiegarlo per iniziative capaci di realizzare uno sviluppo integrale (economico, sociale, ambientale) ed integrato nel territorio in cui opera, favorendone la resilienza e la capacità di rigenerazione soprattutto nel presente momento di crisi.

In questi anni è stato certo necessario anche affrontare lo scetticismo, pe-raltro comprensibile rispetto alla possibilità di far convivere questa imposta-zione in un contesto complesso come quello bancario.

La prima risposta da offrire, istintivamente, a questo scetticismo sarebbe nei numeri del recente Progetto di Bilancio Integrato: dalla crescita del ca-

Ufficio strategie e comunicazione di Banca Etica

Simone Grillo

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pitale sociale (oltre 54 milioni, +4% rispetto al 2014); all'aumento dei clienti risparmiatori (+13%); dalla raccolta complessiva (+9%), alle ridotte soffe-renze nette (0,65%, a fronte del 4,94% del sistema bancario), all'utile netto (750.000 euro nel 2015). Ancor più significativo, del resto, potrebbe essere il riferimento ai risultati conseguiti nel mercato degli investimenti responsa-bili da Etica S.G.R.

Potrà sembrare banale, ma siamo convinti che non possa essere questa la risposta più convincente.

La continuità di risultati positivi ha senso solo a patto che se ne in-tenda il senso profondo, che è dato dallo sforzo continuo profuso nella ricerca dell'innovazione.

Una innovazione che non è meramente intesa in termini di processi o stru-menti finanziari, ma che si fonda sulla capacità di leggere i bisogni della società, le sue aspirazioni, le sue difficoltà, ma anche le sue risorse e ten-sioni alla felicità.

E' una ricerca difficile, perseguendo la quale inevitabilmente si com-mettono errori, si affrontano ritardi e inadeguatezze, vissute nella consapevolezza di essere impegnati lungo una strada necessaria.

Per percorrere questa via è necessario imparare a guardare le cose da prospettive sempre nuove, formando e, soprattutto, cogliendo occasioni di formazione dall'esperienza quotidiana, nella quale si possono trovare espressioni sempre nuove per fare finanza etica, rinnovando così la rispo-sta alla domanda di alternativa economica di chi ha scelto (o intende sce-gliere) la finanza responsabile.

Sulla base di questa impostazione Banca Etica ha accolto con vero piace-re l'invito di Ferrara Sharing Festival.

Si tratta di una occasione per offrire un contributo al dibattito sulla Sharing Economy, di modo da far si che le energie provenienti dalle piattaforme di economia della condivisione possano farsi strumento di rivitalizzazione dei saperi responsabili, delle competenze, delle risorse naturali e finanziarie, delle passioni certamente presenti sui territori, creando occasioni di relazioni economiche (anche dotate di un potenziale imprenditoriale) e umane orientate a generare valore in una logica integrale (economica, sociale, ambientale).

Banca Etica sta partecipando a questa tensione ed ha messo in campo strumenti quali la collaborazione con la piattaforma "Produzioni dal Bas-so", il progetto "Soci In Rete" (teso a far incontrare on-line la domanda e l'offerta di beni e servizi tra persone fisiche e giuridiche socie di Banca Eti-ca) e il recente bando sul Crowdfunding dedicato (in questa sua prima edi-zione) proprio alla promozione dei Beni Comuni.

Intendiamo così mobilitare la comunità dei nostri soci attivi e volontari, al-largare la rete delle relazioni tra persone che condividono valori e istanze, incrociare nuove esperienze (anche comunitarie, come la bella esperienza del co-housing “Solidaria” nata proprio a Ferrara) e progettualità coerenti con i valori di Banca Etica, declinando così concretamente quella di idea di Nuova Economia che Banca Etica ha deciso di promuovere come pro-spettiva per una Economia Civile e responsabile, consapevole dell'interdi-pendenza delle persone, tesa a promuoverne tanto le relazioni economi-che quanto la condivisione delle esperienze sul piano sociale.

Gli strumenti del web possono offrire uno straordinario contributo a queste

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relazioni, attraverso le quali ripensare il rapporto ci ciascuno con i consumi e promuovere la partecipazione di ciascuno al rafforzamento di comunità resilienti, inclusive, innovatrici del bene comune. Comunità che perseguo-no la felicità.

La città intelligente, partecipativa, creativa - di Gianfranco Franz

Più la crisi economica e sociale avanza e si avvita su se stessa, coinvol-gendo in questa spirale non solo ampi strati di popolazione (anziani, giova-ni senza lavoro e prospettive, famiglie dai redditi bassi e sempre più incer-ti), ma anche governi e istituzioni sovranazionali, che si logorano e sgreto-lano, e più le città devono cercare di mantenere e possibilmente aumenta-re la loro capacità di inclusione, per evitare di diventare giungle d’asfalto, in cui domina il rancore dei singoli, il conflitto sociale e l’insicurezza. Un compito che è quasi impossibile per casse pubbliche vuote e comunque sempre insufficienti a provvedere a bisogni sempre crescenti. Bisogni so-ciali, ma pure bisogni tecnici e tecnologici. Anche le città, infatti, si sfaldano e si consumano se non si hanno le risorse e la costanza di mantenerle, cu-rarle, aggiornarle.

Tenere in buono stato le città e farle funzionare nel miglior modo possibile non ha a che vedere solo con la gestione urbana, non è solo una questione di management.

Questo obiettivo può anche rappresentare una risposta di welfare, per chi ha meno e quindi ha anche meno accesso; può rappresentare una rispo-sta di ‘buon vivere’, in termini di servizi che vengono incontro, che riduco-no i costi individuali e gli impatti ambientali, in termini di spazi aperti pubbli-ci che diventano occasione di incontro e di condivisione piuttosto che di paura, in termini di spazi e luoghi addormentati, semi dismessi, che con-sentono alle persone di poter esprimere altri usi, altre forme di lavoro e di consumo, altre forme di socialità. Parlare di smart city può voler dire anche questo.

Perché in Italia i rapporti fra Esco e Amministrazioni locali non funzionano?

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La città intelligente come habitat relazionale - di Gianfranco Franz

Più la crisi economica e sociale avanza e si avvita su se stessa, coinvolgen-do in questa spirale non solo ampi strati di popolazione (anziani, giovani senza lavoro e prospettive, famiglie dai redditi bassi e sempre più incerti), ma anche governi e istituzioni sovranazionali, che si logorano e sgretolano, e più le città devono cercare di mantenere e possibilmente aumentare la lo-ro capacità di inclusione, per evitare di diventare giungle d’asfalto, in cui do-mina il rancore dei singoli, il conflitto sociale e l’insicurezza. Un compito che è quasi impossibile per casse pubbliche vuote e comunque sempre insuffi-cienti a provvedere a bisogni sempre crescenti. Bisogni sociali, ma pure bi-sogni tecnici e tecnologici.

Anche le città, infatti, si sfaldano e si consumano se non si hanno le risorse e la costanza di mantenerle, curarle, aggiornarle. Tenere in buono stato le città e farle funzionare nel miglior modo possibile non ha a che vedere solo con la gestione urbana, non è solo una questio-ne di management.

Questo obiettivo può anche rappresentare una risposta di welfare, per chi ha meno e quindi ha anche meno accesso; può rappresentare una risposta di ‘buon vivere’, in termini di servizi che vengono incontro, che riducono i costi individuali e gli impatti ambientali, in termini di spazi aperti pubblici che diventano occasione di incontro e di condivisione piuttosto che di paura, in termini di spazi e luoghi addormentati, semi dismessi, che consentono alle persone di poter esprimere altri usi, altre forme di lavoro e di consumo, altre forme di socialità.

Parlare di smart city può voler dire anche questo.

Perché in Italia i rapporti fra Esco e Amministrazioni locali non funzionano?

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Pubblico e privato continuano a non trovare intelligente e vantaggioso ridur-re i costi del conto energetico, con una Esco che rinnovi tutto il sistema illu-minotecnico dei beni pubblici di una città; si alleggerirebbero i costi vivi del-la bolletta di un Comune, liberando così risorse che possono remunerare il capitale investito dalla Esco e permettere all’Amministrazione di fare altri investimenti. Perché non si fa?

E’ solo un esempio fra i tanti possibili.

Allo stesso modo, promuovere la partecipazione e il coinvolgimento diretto e non solo passivo dei cittadini può condurre a forme di as-sunzione diretta delle responsabilità nella gestione di parchi, giardi-ni, edifici pubblici non utilizzati, con forme di creatività e di impegno dal basso che fanno scaturire nuove energie e un nuovo senso civi-co, evitando che molti aspetti fondamentali del vivere quotidiano ven-gano ridotti e banalizzati a telecamere, ronde e presenza di forze dell’ordine.

Condividere il tempo, le risorse, le idee, mettere insieme le energie e le reti di relazione diventa un vantaggio sia per i cittadini, sia per le città, che non hanno da soli e da sole le forze per provvedere a tutte le necessità emer-genti.

Un parco autogestito dai fruitori è forse più interessante, vivace e meglio mantenuto di un parco la cui cura sia affidata ad una grande multi-utility, il cui primo obiettivo è, ormai, la remunerazione dei soci investitori. Un giardi-no pubblico, in un quartiere in sofferenza, è meglio controllato se i cittadini si auto-organizzano e se lo gestiscono in maniera condivisa, aumentando il senso di appartenenza e di responsabilità.

Un’infinità di beni pubblici, di piccola e grande dimensione, di valore stori-

co maggiore o minore, in condizioni non sempre disastrose, possono esse-re liberati dall’abbandono e dall’incuria e restituiti al be-ne comune, offrendo un’oc-casione a chi ha talento, idee, voglia di spendersi di misurare una potenziale realtà professionale in un mercato del lavoro sempre più volatile e radicalmente diverso perfino da quello, pur precarizzato, di qualche anno addietro.

Tutto quanto qui ho appena tratteggiato non è una fumo-sa proposta di azione margi-nale.

Un numero sempre maggiore di città, piccole e grandi, in un’Europa sempre più sterile ed egoista, sta oggi dimostrando che produrre in-novazione sociale e creatività urbana è possibile e non è neanche troppo difficile da conseguire, perché quando i cittadini hanno meno, automaticamente riscoprono i valori e la rilevanza della condivisione e dello stare assieme, a prescindere dalle transazioni commerciali.

Vale lo stesso per le città degli Stati Uniti, che sembrano ricchissime, ma dove la ricchezza si concentra, in realtà, in una minoranza di residenti e di imprese, lasciando la collettività e la città pubblica a confrontarsi con pro-blemi apparentemente irrisolvibili.

Professore associato di Urban and Re-gional Policies, Dipartimento di Econo-mia e Management, Unife

Gianfranco Franz

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Un’azione diversa e dal basso restituisce anche valore al terzo settore, pro-fessionalizzato da una distorsione del principio di sussidiarietà, che è stato ridotto, negli ultimi vent’anni, a un mero trasferimento di risorse pubbliche verso soggetti privati.

Lasciar fare, predisporre regolamenti urbani e norme gestionali affinché sia possibile l’auto-gestione dal basso e la condivisione di iniziative ed inte-ressi, è oggi un approccio vincente per dare senso e ottimismo anche al-l’emergente sharing economy, le cui forme egemoniche e più rappresentati-ve sono quanto di più lontano dalle pratiche di una vera condivisione.

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Universo Bergonzoni - di Davide Pellegrini

Ma cosa c’entra Alessandro Bergonzi con la sharing economy? Tutto e niente. Niente, se pensiamo al sapere tecnico speciali-stico di chi se ne occupa per lavoro. Tutto, se ci fermiamo a pensare al significato più profondo della condivisione. Non è un caso che uno degli argomenti che interessano di più le per-sone, preoccupate di non avere un riferimento, una direzione, sia il tema della felicità. Ma per essere felici, si sa, bisogna pri-ma capire... come dire Urge trovare Nessi. E allora, chi meglio di Alessandro, con una delle sue non-riflessioni aperte, tra affa-bulazione e calembour, tra non sense e lucido delirio? Chi me-glio di un autore visionario con il raro talento di interconnettere l’invisibile e renderlo in-comprensibilmente ragionevole, poteva darci la scossa, la vertigine di cui avevamo bisogno?

L’economia? Non facciamone una questione di dati. Ché i dati, una volta dati non ci son più...

L’economia circolare: circolare, circolare, che non c’è niente da vedere.

Alessandro Bergonzoni ama definirsi un captautore, nel senso che capta le frequenze dell’intelligenza, le onde del senso e ci costruisce sopra giochi ri-flessivi e autoriflessi; ma è anche l’uomo-attore che ha da tempo cominciato una ricerca sul contemporaneo ed è per questo, forse, che mi è sembrato im-portante che ci fosse. Ha davvero parlato con il cuore per il tramite di una mente affilata, è arrivato alle emozioni con il ritmo algebrico delle parole. Que-sto è?

Io spero che per lui diventi un’abitudine partecipare al nostro festival. Io che ho realizzato il mio piccolo modesto sogno di accompagnarlo sul palco e go-dermi fino in fondo la serata.

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La cultura come Cura Sostenibilità, cultura, mercato sociale

La sharing economy e la cultura. da sempre trattato come il figlio di un Dio minore, il mondo culturale rivendica oggi l’importanza del suo scopo.

Fuori dalle logiche economiche di speculazione finanziaria proprie della visione capitalista, gli operatori culturali costruiscono comunità e progetti di contenuto nell’idea di creare un capitale di idee volto a favorire la crescita intellettuale, critica, etica delle persone.

Non c’è bisogno di giustificare la sostenibilità di tali operazioni. La cultura crea benessere ed è ora che tutti ne capiscano il valore.

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Le politiche culturali e l’orientamento dell’UE - di Cristina Da Milano

Dall’idea di sviluppo sostenibile a quella di sostenibilità

Di fronte al fallimento dello sviluppo sostenibile da un punto di vista am-bientale, sociale, economico e individuale, l’alternativa che ci troviamo di fronte è quella di un modello basato sulla sostenibilità che richiede – per essere attuato – nuove organizzazioni sociali, nuovi modelli economici ma soprattutto una nuova cultura.

Morin sostiene che la situazione del mondo richiede la costruzione colletti-va di nuovi modi di pensare, di agire e di percepire il mondo attorno a noi e le relazioni all’interno di esso. (Morin, E. , 2008, On Complexity, Cresskill New Jersey, Hampton Press Inc.). In una parola, ci è richiesto un cambia-mento culturale che possa far leva anche sull’infrastruttura tecnologica che abbiamo a disposizione in una nuova dimensione relazionale basata sugli scambi di beni e servizi in un’ottica che Mason definisce post-capitali-sta (P. Mason, 2016, Post-capitalismo, Il Saggiatore).

Il cambiamento di paradigma è quindi prima di tutto un fatto cultura-le, di cui quindi il settore culturale è chiamato a farsi carico, attraver-so la costruzione di nuove conoscenze, responsabilità, consapevo-lezza e nuovi modi di pensare.

Politiche culturali europee: una visione sistemica

Ma per far sì che questo cambiamento culturale avvenga, è necessario che i decisori politici mettano la cultura al centro del processo, compren-dendone appieno la natura multi-settoriale e trasversale a tutti gli altri setto-ri del vivere civile e indicando strategie adeguate.

A livello di Unione Europea, la visione integrata della cultura come elemen-to trasversale di altre policy è affermata nella Comunicazione della Com-

missione “Verso un approccio integrato per il patrimonio culturale per l’Eu-ropa” (COM (2014) 477) che sottolinea la dimensione “trasversale” e “trans-settoriale” delle politiche sul patrimonio, che interessano diverse po-litiche pubbliche (sviluppo regionale, coesione sociale, welfare, ambiente, turismo, istruzione, agenda digitale, ricerca e all’innovazione).

Si tratta di un’affermazione che segue il reinserimento del patrimonio cultu-rale nel quadro programmatico 2014-2020, non solo nei programmi più strettamente legati alla cultura quali Europa Creativa o Erasmus+ ma an-che in Horizon 2020, dedicato a ricerca e sviluppo, e nel COSME, che ha come scopo lo sviluppo delle piccolo e medie imprese.

Le strategie europee in materia di cultura si basano su concetti tradizionali – come lo sviluppo della creatività e l’ampliamento dell’accesso e della par-tecipazione alla cultura (audience development) – ma anche su altri meno consueti nel settore e derivanti direttamente dalla sharing economy, quali l’idea di condivisione della proprietà culturali e delle informazioni, di gover-nance partecipata, di partenariati a vari livelli (pubblico-privato, inter-istitu-

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zionali, creative) e di produzione e distribuzione peer-to-peer .

La visione europea sembra essere quindi chiaramente orientata verso un’idea di cultura come uno dei pilastri della sostenibilità individuale, socia-le e ambientale.

Rimangono però delle zone d’ombra, soprattutto rispetto alla consi-derazione – ancora presente a livello europeo, nazionale e locale - del valore economico della cultura come predominante rispetto al valore sociale: un esempio lampante è la concezione della cultura quasi esclusivamente come volano di sviluppo turistico, dando scar-so rilievo alle potenzialità che essa ha per lo sviluppo socio-cultura-le della cittadinanza.

Un altro aspetto da chiarire – in questa corsa verso le nuove tecnologie – è il ruolo che esse giocano nello sviluppo di società democratiche e soste-nibili: da una parte esiste il tema del digital divide, dall’altra quello dell’ab-battimento dei modelli tradizionali di definizione, produzione e comunica-zione della cultura e della loro sostituzione con uno in cui la produzione di beni e servizi – anche culturali – avviene tra pari, è distribuita orizzontal-mente, ed è priva di una gestione centrale.

Le nuove teconologie e il loro utilizzo nell’ambito di un modello culturale nuovo, più ampio e trasversale, rappresentano quindi sfide cruciali e cam-biamenti radicali, che devono essere compresi e gestiti per poterne sfrutta-re appieno le potenzialità.

Per approfondire:

Titolo: Postcapitalismo, Una guida al nostro futuro

Autore: Paul Mason

Editore: Il Saggiatore

Data: Marzo 2016

Costo: € 18,70

Cristina Da Milano, Presidente di Eccom

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Esempi di collaborazione culturale - di Giulio Costa

Nell’ambito del Ferrara Sharing Festival 2016 si è tenuto un workshop dedicato alla cultura e a nuovi modelli di collaborazione.

L’incontro è cominciato con la presentazione di tre attività che stanno tentando di mettere in moto nuovi modelli collaborativi. I tre ideatori di queste attività sono Raimondo Brandi (TeatroxCasa, che porta il teatro nelle case, e i ‘privati’ diventano direttori artistici di rassegne nelle proprie abitazioni), Giacomo Sbalchiero (fondatore di Su-perFred, piattaforma per lo scambio di libri), Rossano Astremo (ideatore di Citofonare Interno 7, incontri con gli scrittori prima che i loro testi vengano pubblicati).

A tutti è stato chiesto: come, quando e perché è nata l’attività; specificando non tanto cosa fanno, quanto

perché lo fanno e perché hanno cominciato a farlo; come si è sviluppata, con quale mission; quali sono i risultati ottenuti; quali i punti di forza; quali i punti di debolezza.

Altre domande emerse, in base alle loro presentazioni, sono: come si può espandere il modello artigianale (Tea-troxCasa ad esempio si rifà al modello dell’osteria)? come si realizza il salto di scala? quali sono i requisiti neces-sari? come immaginare il progresso a lungo termine, in termini di ricadute economiche, sociali e culturali? come evitare dinamiche di volontariato (e quindi di insostenibilità) o di mera convenienza (nella logica di creare un cli-ma culturale fecondo)?

Il comune denominatore emerso dalle loro presentazioni è l’urgenza di mettere in moto uno scambio

sociale e culturale. E, allo stesso tempo, il non essere sostenibile economicamente. O meglio, nessuna delle atti-vità si è preoccupata, nel momento in cui è stata avviata, di essere sostenibile.

Questo è diventato il tema portante del cosiddetto “world café”, tavola rotonda con gli spettatori presenti. Inizial-

Il workshop cultura

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mente dovevano essere tanti tavoli di lavoro su diversi temi, tra cui il rapporto con il web, il rapporto con il territo-rio, la costruzione di una rete a livello nazionale e internazionale. Gli spettatori però hanno espresso la difficoltà a costituire piccoli gruppi fra persone sconosciute. Così si è preferito fare un’unica assemblea dove i tre invitati e gli spettatori potessero confrontarsi.

Da subito è emersa una netta contrapposizione tra chi prova a fare cultura e chi ne dovrebbe fruire. I primi hanno sostenuto il valore delle proprie attività e il volerle portare avanti anche se non del tutto sostenibili economicamente. I secondi hanno provato a proporre modelli aziendali o mutuati da altri ambiti.

Personalmente, questa scissione tra le parti è ciò che maggiormente mi ha colpito. Da una parte vedevo la buona fede e la nobiltà di intenti delle attività presentate; dall’altra sentivo le ragioni dei fruitori, le comprendevo, ma a volte non potevo non trovare semplicistiche le loro proposte. Credo che la cultura - più che qualsiasi altro settore - necessiti di uno studio approfondito sull’unicità delle azioni che mette in moto. Il paragone con AirBnb o Bla Bla Car, che più volte ho ascoltato, mi sembra poco adeguato. In questi casi, si parte da una convenienza reciproca, sia per chi offre sia per chi fruisce: uno guadagna, l’altro risparmia.

Come può invece essere conveniente - da entrambi i lati - uno scambio culturale? e perché dovrebbe es-serlo per forza? Tanti facevano la domanda ai tre invitati: ma perché io dovrei sostenere la tua attività? Do-manda lecita, così come la risposta dei tre relatori che, giustamente, difendevano la necessità di ripristina-re un rapporto ‘sano’ e semplice con la letteratura, con il teatro, con la creatività e l’arte.

Visto lo scollamento fra le parti, probabilmente varrebbe la pena provare a renderlo ancora più evidente, facendo delle sessioni di lavoro separate - una solo con gli operatori e una solo con gli spettatori -, dopodiché riunirli in una sorta di assemblea plenaria. A tutti si potrebbe chiedere: cos’è per voi la cultura? cosa vorreste che fosse? cosa dovrebbe ‘produrre’? con quale scenario futuro? e che relazione dovrebbe avere con l’economia? come la si mette in pratica? quali potrebbero essere i passaggi concreti per mettere in pratica la vostra idea di cultura?

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Forse questa modalità risulterebbe un po’ delirante e non del tut-to utile, tuttavia potrebbe chiarire ciò che durante il workshop è rimasto sfocato (o, per lo meno, non condiviso), cioè il senso e il valore della cultura. Da queste riflessioni potrebbe inoltre emer-gere qualche idea su come e, soprattutto, perché sostenere le attività culturali.

Dal mio punto di vista, come operatore culturale e come fruitore, finché non si chiarisce l’unicità e l’immaterialità della cultura, diffi-cilmente si riusciranno a mettere in moto delle fantasie di collabo-razione e sostenibilità che esulino da modelli precostituiti e predi-geriti in altri tavoli di lavoro.

Responsabile produzione Teatro Off

Giulio Costa

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Citofonare Interno 7 nasce nel

2011 come piccola casa editrice.

Presto, grazie a un’originalissima mo-dalità sharing, si impone sul panora-ma culturale romano per la sua idea di reading-mobs.

TeatroxCasa nasce nel

2014T per mettere in contatto padroni di casa e attori per performance nei domicili pri-vati. I partecipanti condividono un’at-mosfera intrigante, magica e piacevo-le, un divano e un po’ di vino.

Superfred è un social network nato nel 2014, dedicato al mon-

do dei libri. Usa la strategia del-la prossimità e mette in contatto le persone con l’idea di scambiare testi e confrontarsi su ciò che si è letto.

Imprese del settore culturale

www.teatroxcasa.org/https://citofonareinterno7.wordpress.com/ http://superfred.it/