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Racconti di classe! A.s. 2011-2012 I C

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Racconti di classe!

A.s. 2011-2012I C

DANZARE PER UN SOGNO

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Joni era una silenziosa sedicenne alla quale non piacevano la confusione e le grida… non aveva molti amici, anzi, non aveva davvero nessuno; era cresciuta senza il papà, la madre era costantemente impegnata al lavoro e i compagni la evitavano, neanche avesse la lebbra. Era molto bella: aveva dei lisci capelli castani lunghi fino alla vita, con dei riflessi dorati, che le incorniciavano il viso roseo e due occhioni verdi. Era diversa dalle ragazze della sua età: loro pensavano solo a uscire e fare shopping… il suo primo pensiero, invece, appena fuori la scuola, era la danza. Ballando lei esprimeva tutto ciò che a parole non riusciva a dire e si liberava di ogni preoccupazione. Allacciare i nastri delle punte attorno alla caviglia le dava una grande certezza che sostituiva ogni piccola insicurezza. E quando poi iniziava a volteggiare… era allora che lei sentiva davvero di appartenere al mondo; la sua timidezza spariva lasciando spazio alle più svariate emozioni che la melodia le procurava dentro il cuore e trasportava i suoi piedi sul legno del palcoscenico. Guardandola si capiva che non c’era bisogno della voce per comunicare. La danza era il suo regno, la sua famiglia. Quando non era in palestra era fissa davanti allo specchio, i piedi in prima e le braccia sollevate morbide ad accarezzare l’aria. Il suo più grande desiderio era di vivere nel suo regno, vivere di ballo e di emozioni che solo lei poteva capire. Sognava il ruolo di prima ballerina in una famosa compagnia. Molti ritenevano il suo grande sogno una cosa momentanea che sarebbe passata, altri addirittura le dicevano che anche se fosse stata vera passione non sarebbe mai riuscita a debuttare. Eppure Joni non aveva mai abbandonato il suo credo, era intenzionata a farlo diventare realtà. Solo Marina, la bidella della scuola, poteva capirla: da giovane aveva anche lei amato e adorato la danza; le stava vicino quando ne aveva bisogno e le dava utili consigli per migliorarsi. Anche quel pomeriggio, Joni andò, come sempre, in palestra annusando la piacevole aria profumata di fiori, immaginando già la coda che avrebbe dovuto interpretare, al teatro davanti a dei professionisti, per lo spettacolo di primavera, ma arrivata l’ edificio era chiuso, sul portone d’ entrata un grande cartello con scritto, a caratteri cubitali, vendesi attività. Poco più in la vide la sua allenatrice, che infilava in macchina gli ultimi attrezzi; le corse incontro chiedendole spiegazioni. La donna le disse solo, con voce fredda e distaccata – niente più fondi, niente palestra!- e andò via. Ebbe paura, non si sarebbe potuta allenare e non avrebbe avuto alcuna possibilità di essere notata. Le lacrime iniziarono a rigarle il viso, era indifesa ora ma decisa a rendere il suo sogno realtà. Corse a scuola, la sua ultima speranza, alla ricerca di Marina; lei le avrebbe sicuramente aperto la palestra, dove avrebbe potuto

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allenarsi. La buona donna, ovviamente, la accontentò vedendo i suoi occhi in quelli della giovane ballerina. Joni giunse soddisfatta in palestra e, guardandosi attorno notò che la sala sembrava molto più grande vuota. Non doveva, però, perdere tempo; strinse il fiocco del nastro e si posizionò al centro della palestra. Marina diede il via alla musica e uscì silenziosamente. Joni abbandonò il mondo reale volando verso il suo. I piedi iniziarono a sollevarsi da terra, sembrava un angelo che volteggiava fra le nuvole felice e spensierato quasi fosse il vento profumato che aveva sentito nell’ aria a trasportarla, fino al risuono dell’ ultima nota. La ragazza era al settimo cielo, in posa come sotto a un riflettore; nel suo cuore sentiva che il suo desiderio stava per avverarsi. I suoi pensieri furono interrotti da un applauso compiaciuto. Da dietro le gradinate uscì un bel ragazzo, capelli neri spettinati e occhi azzurri come il cielo. Le guance di Joni si infiammarono di vergogna; la ragazza abbassò lo sguardo cercando inutilmente di raccogliere le sue cose in fretta per fuggire. Tutto però, continuava a caderle, le mani le tremavano. Il ragazzo le si avvicinò, le si sedette accanto e cominciò ad aiutarla, mentre con una voce capace di sciogliere un ice- berg, si presentò: -Io sono Toni, sei.. molto brava…e anche… carina. Sai anche mio padre era un ballerino, ci siamo appena trasferiti, dirigerà  una nuova scuola di danza… ora dirige una compagnia abbastanza famosa… se vuoi posso parlargli di te… sono sicuro che gli piacerai!- Joni dentro di se gridava: -sisisisisisi!- ma dalla sua bocca non usciva un fiato. – sei timida eh!? Non preoccuparti… solo che sei speciale… quando balli intendo… cioè… insomma… allora?- Joni per la prima volta riuscì a parlare e non solo! Gridò un enorme sì gettandosi fra le braccia di quel ragazzo così attraente. Entrambi sorpresi caddero a terra ridendo. Il giorno dopo Joni danzava prima di chiunque altro, sul palcoscenico della nuova palestra.  Aveva ragione lei! Il suo desiderio era diventato una meravigliosa realtà che aveva portato con sé il suo primo amore.

Erika Bartolomeo

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GLI OCCHI BLU

Annalisa era una giovane ragazza di 21 anni. Era bellissima, i lunghi capelli castani le cadevano morbidi sulle spalle, accarezzandole le vellutate guance rosee; aveva gli occhi blu come il mare, che però non aveva mai avuto la fortuna di vedere. Annalisa, infatti, era cieca… non aveva mai potuto apprezzare le luci di un tramonto o la bellezza dei colori. Viveva in una casa sul mare lontana dai rumori della città. Amava ascoltare l’ infrangersi delle onde sulla spiaggia e immaginare quell’ azzurro spumeggiante che accarezzava il bagnasciuga. Non vedere era considerato da tutti un grande problema, ma per lei non era così… poteva immaginare il mondo e vederlo ogni giorno diverso mentre chiunque vivrebbe sempre nella stessa città abituato ai colori delle case e alle vetrine dei negozi. Il mondo, però, non era come lei immaginava, o almeno non le persone… spesso gruppi di ragazzi si divertivano a infastidirla, facevano rumore in varie parti della spiaggia, confondendola e talvolta impaurendola: doveva pur difendersi seguendo solo l’ udito! I ragazzi lo trovavano divertente, ma non capivano le sue difficoltà. Una sera, quando il sole era ormai tramontato lasciando il posto alla notte, i ragazzi attirarono la sua attenzione. Annalisa preoccupata dalla presenza di un ladro, si diresse verso i rumori che cominciarono a moltiplicarsi provenienti da ogni parte nel buio. Quella sera il mare era particolarmente agitato, il vento soffiava sulla sua superficie increspandolo e ogni onda che si infrangeva sulla costa sembrava un tuono caduto a pochi metri. La ragazza cominciò ad entrare nel panico: sentiva tantissimi suoni sovrapposti e non riusciva a capirne la provenienza; iniziò a roteare su se stessa alla ricerca di un punto di riferimento ma nulla. Era terrorizzata, tremava confusa e infreddolita, poi calò il silenzio.. “ C’ è qualcuno… via! Andiamo!” riuscì a capire poi un colpo di tosse, un uomo… c’ era qualcun altro che aveva assistito alla scena, quasi fosse uno spettacolo, senza intervenire in suo aiuto. Si avvicinò, per quello che aveva potuto capire dalla provenienza del suono e, con lo sguardo nel vuoto gli chiese: “ Chi è il cieco? Io o lei?”

Erika Bartolomeo

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Ti amo anch’io

In una fredda giornata di marzo, mentre il vento soffiava furioso, due ragazzi stretti l’uno all’altra camminavano per la strada. Arrivati a un portone che dava direttamente sulla strada, il ragazzo girò la chiave nella serratura e i due entrarono.-Hai freddo?- disse lui.-Si, puoi accendere i termosifoni?- la ragazza si tolse il cappotto e lo appese all’attaccapanni.-D’accordo-. Andò al termostato e lo regolò su ventidue. Poi si affacciò in camera sua per vedere che fosse tutto in ordine. Emma intanto si era accomodata sul divano e aveva il telefonino in mano. Dopo aver controllato gli sms, lo spense e lo lasciò lì.Luca le si avvicinò sorridendo, e lentamente si mise su di lei a baciarla.Emma rise. -Sei sicuro che i tuoi non torneranno stasera?- gli chiese cercando rassicurazione.-Sicurissimo. E comunque male che vada ti puoi nascondere nell’armadio-.-Ah, ah, spiritoso-. La ragazza si alzò, sfuggendo dalle sue braccia, lo guardò e non poté fare a meno di sorridere. -Io… io non lo so che devo fare. Dimmelo tu!--Non devi fare niente. Viene tutto naturale- disse lui sorridendo a sua volta.-Si, parla l’esperto!- Emma corse in camera del ragazzo facendogli capire che voleva essere rincorsa. Si fermò sulla porta a guardare: il letto a una piazza e mezza era immerso nella penombra, le pareti erano tappezzate di poster e di fronte un grande armadio beige occupava tutto il lato nord della stanza.Luca la raggiunse ed entrambi si buttarono sul letto abbracciati. Si guardarono negli occhi accarezzandosi il viso, e rimasero così per qualche minuto.-Ti amo-. Emma sembrava sincera, nei suoi occhi non c’era nulla di più che amore e gratitudine.***-Ti amo anch’io-.Emma e Luca, seduti sulla panchina fuori la scuola, parlavano concitatamente. Il viso di lei sembrava preoccupato e lui le stava spiegando una cosa, cercando di essere il più delicato possibile.-Mio…mio padre ha trovato lavoro in una ditta di costruzioni, dobbiamo trasferirci- disse tutto d’un fiato temendo la sua reazione. Senza aspettare che aggiungesse altro, la ragazza scoppiò a piangere. Si coprì la bocca con le mani, singhiozzando.

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-Emm… scusa, io non so che fare. Non posso restare qui e non posso lasciarti. Cosa devo fare?-. Aveva l’aria disperata come di chi deve scegliere tra il venire ucciso e il piantarsi una pallottola nel cranio.-Dove andate?- le uscì un sussurro smorzato dalle lacrime e tirò su col naso.-A Varese-. Cercava di chiedere scusa con lo sguardo, ma sapeva che neanche tutte le scuse del mondo sarebbero state sufficienti.-Varese!?!- Emma scattò in piedi e urlò. –Ma ti rendi conto?! Tu vai in alta Italia e io che dovrei fare?- continuava a urlare guardandolo, incapace di accettare la situazione.-Amore, mi dispiace un sacco! Lo sai che è l’ultima cosa che vorrei, ma che ci posso fare? Ti porterei con me ma…questo non è possibile!- La fece sedere e prese le sue mani. –Ti prometto che tornerò a trovarti ogni weekend! In treno sono circa tre ore e mezza. Te lo prometto cucciola. E’ tutto ciò che è in mio potere-.Emma lo guardò con gli occhi rossi dal pianto e si morse un labbro. Poi gli gettò le braccia intorno al collo e lo baciò con passione, attaccandosi a quella bocca che non avrebbe più rivisto per molto tempo.-Promettimelo!- Gli ordinò con voce tremula. –Promettimi che non avrai nessun altra e che mi penserai sempre. E che ci sentiremo tutti i giorni su Facebook!- lo implorò.-Te lo prometto. Te lo giuro-. E la avvolse in un tenero abbraccio che le sciolse il cuore.Quattro giorni dopo Emma era nel suo bagno e si teneva i capelli con una mano e con l’altra si appoggiava al water vomitando anche l’anima. Strappò una manciata di carta igienica e si pulì la bocca. Riprese fiato e ***si domandò cosa del giorno prima le aveva fatto male. Forse quel maledetto pollo fritto, forse il riso di due giorni prima…Si rimise in piedi e si guardò allo specchio. La sua aria da sedicenne sembrava andare sbiadendo pian piano, nascosta dalle occhiaie marcate e dall’aria distrutta che le aveva lasciato la partenza del suo unico amore.Si vestì e si preparò per andare a scuola. Erano solo cinque minuti a piedi da casa sua e se la prese comoda. Quando uscì nella fresca aria mattutina iniziò a camminare a testa bassa, con le mani in tasca e il cappuccio della felpa tirato su. Quando passò davanti la farmacia il rumore della commessa che alzava la serranda le fece alzare lo sguardo. Guardò l’insegna luminosa con la croce verde e un pensiero le balenò nella mente. Aspettò che aprisse ed entrò. Si frugò in tasca e pagò al bancone dove la donna stava ancora

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sistemando le prime cose. Le mise la scatolina contenente il test di gravidanza nella bustina ed Emma la infilò nello zaino.A scuola non mangiò niente, aveva paura di dover correre a vomitare di nuovo. Ogni ora pregava che finisse subito, non che tornare a casa avrebbe sistemato le cose. Ma quel luogo le ricordava troppo lui.Appena tornata a casa andò in bagno. Aprì la scatolina e lesse il foglietto delle istruzioni. Fece pipì, poi si sedette sul bordo della vasca e aspettò. Dopo cinque minuti comparvero due lineette rosa. La ragazza si lasciò sfuggire un sussulto e prese il secondo test. Corse in cucina con quello usato in mano, continuando a guardarlo come se quelle linee potessero scomparire all’improvviso. Bevve una bottiglina d’acqua e dopo poco tornò in bagno. Quando ne uscì iniziò a piangere, si appoggiò allo stipite della porta e si lasciò scivolare giù.Ecco, ora era proprio quello che ci voleva. Nulla più poteva andare storto, ora che il mondo le riversava tutte le sciagure addosso!Si trascinò singhiozzante fino al telefono e compose il numero della zia. Dirlo alla mamma non se ne parlava. Non sapeva neanche che aveva un ragazzo, ma Emma ci avrebbe scommesso la testa che lo sospettava.Zia Laura era sempre così dolce e disponibile e avrebbe capito sicuramente. E soprattutto avrebbe tenuto la bocca chiusa: poteva fidarsi solo di lei.-Zia?- Una voce femminile rispose al telefono ed Emma rispose cercando di sembrare come minimo calma. Ma non servì a niente: la zia capì subito che qualcosa non andava.-Che succede piccola?- le chiese dolcemente. Era bravissima a rassicurare le persone e a risolvere i problemi.-Zia ho un problema, mi devi aiutare-.-Mio dio bambina, certo che la sfortuna sembra avercela con te-. Zia e nipote viaggiavano in auto insieme ed Emma le aveva raccontato tutta la sua storia: da Luca alla scoperta di essere incinta.-Però alla mamma devi dirlo assolutamente, non puoi tenerlo nascosto a lungo, prima o poi lo verrà a sapere. E soprattutto… se ne accorgerà-. Lanciò un rapido sguardo alla sua pancia. Emma la guardò stupita.-Zia, non penserai mica che ho intenzione di tenerlo?- alzò un sopracciglio.-No ma, come pensi di fare tutto di nascosto?- il suo tono era eloquente.La ragazza abbassò lo sguardo e cercò una risposta. –Beh... io…-

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-Tu niente. Vedrai che questa ginecologa è bravissima, mi ha aiutato molto con Manuel-. Manuel era il cugino pestifero di Emma. Più volte le aveva distrutto e messo a soqquadro la stanza.-Oh, bene-.Dopo aver parcheggiato entrarono in un palazzo, la cui entrata era rivestita di marmo grigio. Salirono al secondo piano e una porta conduceva allo studio della Dott.sa Mariateresa Cardillo , come recitava una targhetta dorata all’entrata. Una segretaria le fece accomodare in una triste sala d’aspetto. Quando fu il loro turno entrarono in una stanza grande e ordinata. Una donna giovane e di bell’aspetto le strinse la mano sorridendo. Ci pensò zia Laura a spiegare la situazione, ed Emma si limitò ad annuire. La dottoressa la visitò e le fece anche un’ecografia.-L’embrione è alla quarta settimana, a questo punto devi dirmi tu cosa vuoi fare- si rivolse alla ragazza.-Io…non lo so. Penso che non lo terrò. Sono ancora troppo giovane….- trattenne una lacrima che minacciava di uscire e si passò una mano sulla ***faccia.-Hey piccola, tranquilla. Vuoi parlarne prima col tuo ragazzo?- chiese la dottoressa, passandole un fazzolettino di carta.-Emma sarebbe meglio che lo informassi di questo, deve sapere-, si intromise zia Laura.-Chiamami domani e fammi sapere cosa hai deciso, ok?- La dottoressa le sorrise e si alzò.Zia e nipote uscirono dallo studio medico uscendo salutarono la segretaria che, vedendo la ragazzina in lacrime, le lanciò un sorriso compassionevole.Emma prese il cellulare, seduta sul lettino nella sua stanza. Scorse l’elenco della rubrica fino a trovare il nome che cercava. Premette il tasto verde e si portò l’apparecchio all’orecchio.Dopo due squilli, una voce calda rispose: -Hey, piccola! Come stai amore? Mi manchi un sacco!-La ragazza cercò di trattenere le lacrime di felicità e gli rispose: -Hey, bene, bene. Luca, devo dirti una cosa importante-. Aspettò qualche secondo e cercò le parole giuste per dirglielo.-Dimmi tutto tesoro!- la voce di lui faceva capire che stava sorridendo.Emma chiuse gli occhi e fece un respiro profondo. Poi si decise: doveva dirlo, punto e basta.-Io sono incinta-.Il ghiaccio sembrò invadere la stanza e trasmettersi attraverso il telefono. I due rimasero in silenzio e quando Luca rispose non

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aveva più la voce serena di prima, ma era smorta e fredda.-Emma…io…mi dispiace-. Non sapeva che altro dire, non c’era molto da dire. –Hai già deciso quello che vuoi fare?--Veramente volevo chiederlo a te, voglio sapere che ne pensi. Io non posso tenerlo, non posso smettere di vivere a sedici anni-.-Emma, io non so se essere felice o preoccupato, ma so soltanto che qualunque cosa deciderai per me andrà bene-.-D’accordo, ti chiamerò quando andrò di nuovo dalla ginecologa-. -Va bene. Ti amo-.-Ti amo anch’io-.***Due giorni dopo Emma era in macchina con sua madre, diretta ad una clinica privata dove lavorava la dottoressa Cardillo. Quando la mamma aveva saputo ci era rimasta male, ma dopo un po’ lo aveva semplicemente accettato.La dottoressa aveva detto che data la gravidanza ancora all’inizio e l’età di Emma, era possibile procedere per via farmacologia. Avrebbe dovuto prendere delle pillole sotto la supervisione dei medici e tornare dopo due giorni per la seconda sessione. La cosa sarebbe stata assolutamente indolore e non se ne sarebbe neanche accorta.Era un giorno di pioggia, e la Opel Zafira slittava sull’asfalto viscido.Emma prese il cellulare e chiamò di nuovo il suo ragazzo. Gli disse: -Sto andando, fammi gli auguri-.-Amore sono con te, sono qui con te-.Il cielo plumbeo sembrava non voler mostrare a nessun costo neanche un raggio solare, e le gocce sbattevano incessantemente sul parabrezza.Due fari di una macchina accompagnati dal rumore di un clacson accecarono Emma e la madre. La loro macchina venne urtata, girò su se stessa e scivolò sulla strada fino ad oltrepassare l’altra corsia e finire nel fosso a fianco di strada. La signora uscì a fatica dalle lamiere accartocciate della sua auto, ferita e sotto shock. Senza neanche la forza di parlare, guardò la macchina che conteneva sua figlia.Emma gemette chiudendo gli occhi, e sentì un rivolo di sangue scenderle lungo la tempia. I sensi le si attenuarono, la vista si annebbiò, e le sue orecchie colsero l’ultimo, dolce suono.-Emma? Emma, che succede? Amore mio…-

Daniela Penna

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Le fate del donoUn giorno di scuola come tutti gli altri, la professoressa di Pozionologia entrò in classe. Lisa, tranquillamente seduta al suo posto, distolse l’attenzione dalle sue fantasticherie per guardare la professoressa che cominciava a parlare.-Ragazzi-, disse con aria cupa, -come ben sapete il mondo magico è in pericolo. Le rivolte che stanno scoppiando in questo periodo sono la conseguenza di ciò che sta accadendo in tutto il mondo: la scomparsa delle Fate del Dono. Non si sa ancora il motivo, e la polizia magica sta indagando sul fatto che rimane ancora un mistero.- Poi la professoressa aveva assegnato una ricerca sull’argomento da fare in coppia.Quel pomeriggio Lisa chiamò la sua amica Martina per fare la ricerca insieme a casa sua. Si misero davanti al computer e cercarono delle notizie sui disordini mondiali e sulle Fate del Dono. Questi erano minuscoli esserini, inivisibili ai non maghi, che quando nasceva un bambino, se questo era intelligente e dotato, gli trasmettevano il Dono della magia attraverso un sussurro, anche se i genitori non erano un mago e una strega. Ora però questo non stava succedendo più, perché le fate stavano via via scomparendo, non si sapeva perché. In questo modo, prima o poi la razza magica si sarebbe estinta.Navigando, Lisa lesse una cosa su un sito che la fece sobbalzare. Le fate erano difficili da trovare, assolutamente silenziose e discrete, ma potevano essere rintracciate grazie a dei particolari segnali simili a onde elettromagnetiche che emettevano comunicando tra loro. Questo le fece venire in mente che anni prima, sua nonna le aveva regalato una specie di bussola e le aveva detto che era capace a rintracciare le Fate. Con la sua amica ipotizzò che poteva servire a risolvere il problema, ma comunque loro due non potevano fare tutto da sole. Poi, un po’ per gioco, decisero di uscire a fare una passeggiata, portando con sé la bussola per le Fate. Pensavano che la possibilità che quell’antichissimo cimelio di famiglia funzionasse era pari a zero, ma iniziarono a girare per le strade, finchè non arrivarono davanti a un lussuoso palazzo che sembrava la sede di qualche amministrazione. Lisa quasi urlò dallo spavento quando l’ago della bussola iniziò a girare, finché non si stabilizzò nella direzione dell’entrata al palazzo. Le due si guardarono in faccia a bocca

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aperta.-Entriamo?- chiese Lisa.-Ma che sei matta?- rispose Martina. -Pensi che facciano entrare due mocciose come noi, senza motivo? E poi sicuramente questo aggeggio arcaico starà dando i numeri, è impossibile che…-. Mentre parlava, Lisa già stava camminando a passo svelto verso la via adiacente al palazzone, per trovare un’entrata secondaria. Martina la seguì sbuffando. Trovarono una porta, di quelle antipanico, cioè che si aprivano solo da dentro. Lisa si concentrò e, allungando una mano verso la serratura, pronunciò l’incantesimo a mente e la porta si aprì. Senza pensarci due volte entrarono e si trovarono in un corridoio senza porte, che portava solo a una stanza con un ascensore. La bussola girava sempre più velocemente, impazzita. Non sapendo che fare e, sentendo delle voci avvicinarsi, si precipitarono nell’ascensore e schiacciarono il bottone del piano più basso… dopo tre piani sotto terra, le porte si aprirono. C’era un altro lungo corridoio, stavolta con varie porte ed alla fine una specie di pannello mobile, di quelli che si vedono nei film e che si aprono con le impronte digitali, e che aveva l’aria di custodire qualcosa di molto segreto o molto pericoloso… Ma all’improvviso delle voci e un rumore di passi che avanzavano veloci… voltarono a destra e si nascosero in uno stanzino per le scope. Intanto spiavano dalla porta aperta due centimetri, una donna e un uomo che aprivano ed entravano. Senza dire una parola, si infilarono dietro di loro prima che si chiudesse. I due scomparvero presto, e loro si guardarono intorno in cerca della cosa che faceva girare la bussola in modo così frenetico. Una serie di cunicoli formavano come un labirinto in cui era facile perdersi, ma seguendo la bussola riuscirono ad andare nella direzione giusta. In una stanza molto grande, decine di persone dall’aria importante compresi i due che avevano visto prima, sedevano attorno a un grandissimo tavolo ovale e bianco e parlavano con un uomo in teleconferenza attraverso un maxi schermo. Lisa si mise dietro l’angolo ad origliare e Martina, apparentemente troppo spaventata e incredula per fare alcunché, si lasciò scivolare a terra con le spalle al muro.Sembrava un evento molto importante, e Lisa riconobbe perfino alcuni presidenti di stati importanti come Stati uniti, Giappone, Russia e altre potenze economiche. Il presidente italiano sedeva all’altro capo della tavola ed era intento a guardare lo schermo. Benché fosse una riunione ufficiale, la segretezza non permetteva che fossero presenti molte persone, se non i presidenti e i loro traduttori. L’uomo nel maxischermo parlava italiano e stava spiegando la situazione agli altri lì presenti. Lisa ascoltò

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attentamente. -E’ chiaro che ci troviamo in un nuovo Medioevo- stava dicendo. –Dopo la grande caccia alle streghe, per secoli abbiamo pensato che storie del genere non esistessero né in cielo né in terra. Eppure ora la smentita è arrivata. Dopo anni di segretissime ricerche, siamo arrivati alla conclusione che la razza magica esiste ancora e costituisce una minaccia per ognuno di noi. Le cose di cui sono capaci metterebbero in crisi la sicurezza nazionale di qualunque stato, per questo vanno eliminati in modo drastico. Siamo riusciti, come sapete, a risalire all’origine del problema. Il dono .. magico -fece una smorfia di disgusto- viene trasmesso ai bambini normali attraverso delle fate direttamente alla nascita. In questo modo, non elimineremo tutti i maghi e le streghe che esistono nel mondo (darebbe troppo all’occhio) ma stroncheremo il problema all’origine.- Aspettò che qualcuno parlasse e si diffusero mormorii d’assenso. –Quindi, attraverso sofisticate apparecchiature, abbiamo catturato tutte le fate, che ora si trovano in questa struttura sotto stretta sorveglianza.- Altri mormorii, questa volta un po’ agitati. Lisa diede una gomitata a Martina.-Hai sentito?? Le tengono qui!- scattò in piedi –Alzati su! Dobbiamo trovarle!-Riprese ad osservare la bussola e a camminare nella direzione che indicava. In modo totalmente apatico Martina la seguì.Un altro pannello blindato sembrava essere quello giusto. Lisa sospirò.-Beh lo so che non possiamo usare i nostri poteri fino ai 18 anni, ma tanto vale provare--Dici che ci riusciamo?- Martina si animò di una nuova speranza.-Io dico di si… su su, forza-. Fece un respiro profondo e si concentrò sulla porta. Lo stesso fece Martina. In due riuscirono a far muovere l’enorme pannello, ma alcune persone in camice bianco che portavano degli strani occhiali (Lisa suppose si trattassero di occhiali per vedere le fatine altrimenti invisibili) si girarono verso di loro allarmati. Iniziò a suonare un’assordante sirena che uno di loro aveva attivato, ma le due amiche misero ko quelle persone con i loro incantesimi più potenti e si diressero verso una specie di enorme scatola di vetro dentro la quale centinaia di Fate del Dono ronzavano velocissime, in trappola. Ancora una volta, unendo le forze le due amiche riuscirono ad aprire quella gabbia. Le fate si precipitarono fuori. Una di loro si fermò e disse:-Grazie- poi volò via.Intanto accorrevano delle guardie per catturarle, ma una voce che sembrava provenire da un megafono disse: -Fermi tutti, qui è la

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polizia magica, non fate un altro passo-.Lisa e Martina erano pietrificate dalla paura mentre la polizia segreta si materializzava davanti a loro e bloccava le guardie puntandogli le pistole addosso. Ai responsabili della cattura delle Fate fu cancellata la memoria, la centrale dove erano detenute fu data alle fiamme e sui giornali si lesse di in incendio a causa di una fuga di gas. Per questo Lisa e Martina ricevettero un enorme ricompensa in denaro e nel mondo tornarono a nascere bambini con poteri magici.

Daniela Penna

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Il sogno di un puntoCi sono tante persone che camminano sulle numerose ed illuminate strade delle grandissime città, piene di anime agitate con tante emozioni. Ognuno ha la propria direzione e il proprio verso della vita spontanea e piena di sorprese future. Sopra di queste creature c’è un immenso spazio nero ricoperto di illuminati corpi celesti che splendono, ricordando la notte in New York. Luci gialle, arancioni, bianche, azzurre è una bellezza incredibile che gli uomini non hanno tempo ad apprezzare, con tutti gli affari e i pensieri in testa. Una vita di sicuro non basterebbe a una creatura così viva. Però purtroppo tutto finisce, ma se c’è la fine, c’è anche l’inizio. Questo spazio infinito, pieno di pensieri, sogni, idee, bellezze è l’opera di un quasi nulla. Una volta nel nulla c’era un punto, privo di dimensioni. Per gli uomini un punto è insignificante. Ma anche un punto potrebbe pensare e proprio questo pensava. Sognava molto, visto che non gli restava nient’altro da fare. Aveva dei sogni infiniti, pieni di vita, emozioni, creazioni. Quel punto aveva tutto in se stesso. Voleva poter essere uno spazio immenso, pieno di sogni e delle idee realizzate. Voleva allargarsi, lottava con se stesso, si ribellava al suo destino e alla sua condanna originale, quella di essere un punto nel nulla. Lottava con il buio per poter realizzare i suoi pensieri e non mollò mai. Dopo tante ribellioni…una luce immensa partì dal punto ed ecco che…Ci sono tante persone che camminano sulle numerose ed illuminate strade delle grandissime città, piene di anime agitate con emozioni…

Karyna Tsyetkova

Il sogno di RemyIn un paese dello stato del Kentucky,c'era un ragazzo,Remy,era figlio di immigrati francesi e questi lo avevano abbandonato alla nascita. Comunque,lui,aveva un sogno nel cassetto,diventare un astronauta,perché voleva ammirare le stelle e i pianeti da vicino,ma questo era soltanto un sogno destinato a rimaner tale,poiché lui era povero e non poteva contare su nessuno per

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permettersi gli studi,finchè un giorno,mentre camminava per strada pensieroso,trovò un giornale per terra su cui c'era uno strano annuncio che recitava:"Biglietti a disposizione per salire sul nuovissimo shuttle,per la prima volta sarà aperto al pubblico e si potrà andare nello spazio".A quella notizia,Remy,desideroso di comprare un biglietto,cercò un lavoro per trovare abbastanza denaro per realizzare il suo desiderio,allora, dopo giorni e giorni di ricerche,riuscì a trovare due lavori,un baby-sitter e aiutante in una casa di riposo.Passò tre mesi a lavorare,che raggiunse la cifra necessaria,allora andò a comprare il biglietto,ma quando arrivò dal venditore,questo gli disse che ormai i biglietti erano finiti da diversi giorni e che purtroppo era arrivato troppo tardi.Remy deluso e arrabbiato tornò alla casa-famiglia e per la delusione passò tre giorni chiuso nella sua stanza,finchè,una settimana dopo ricevette una visita inaspettata,erano i suoi genitori. Al perché del loro comportamento suo padre disse:<<Ti abbiamo lasciato qui,perché dodici anni fa,non potevamo darti la vita che avresti meritato,mentre ora,siamo appena tornati per diventare una famiglia>>.Allora Remy corse incontro alla sua famiglia e visse con loro e dopo anni di studi e di sacrifici,riuscì ad esaudire il suo desiderio,diventò un grande astronauta.

Mattia Tucciarone

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Fratello Bancomat

Il signor Piero era un dipendente statale del ministero della Pubblica Istruzione, dove lavorava da circa venti anni; aveva una moglie molto bella di nome Laura da cui si era separato da poco. Era una mattina di primavera nell’aria si annunciava una splendida giornata di sole, il signor Piero prima di andare in ufficio andò a prelevare dei soldi al bancomat di San Francesco, pensando ancora all’abbandono della moglie che per futili motivi l’aveva lasciato andandosene via con il signor Vanini. Dopo aver infilato la tessera nell’apposita apertura, il Bancomat gli chiese voleva fare lui rispose che voleva prelevare dei soldi, inserì il codice e attese la risposta che tardò ad arrivare perché il computer centrale era lento come un ippopotamo. Il suo conto è in rosso, ma il signor Piero già lo sapeva e sperava solo in un errore del Bancomat, il quale era informato che la moglie Laura aveva estinto tutto il suo avere andandosene via con il signor Vanini che non era una persona onesta perché in suo conto in Svizzera era di provenienza illecita.Il signor Piero aveva bisogno urgentemente di tre o quattrocentomila lire per arrivare alla fine del mese ma purtroppo pensava che non sarebbe stato in grado di rimettere subito sul conto corrente. Allora il Bancomat da buon samaritano fece un prelevamento irregolare sul conto corrente del Vanini permettendogli così di risolvere i suoi problemi e di poter vivere in pace la sua viva senza mai più problemi economici.

Giandomenico D'Auria

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IL MIO SOGNO E’ SEGNARE AL SAN PAOLOFabio era un ragazzo che amava il calcio, e soprattutto la sua squadra del cuore, il Napoli. Egli tifava per gli azzurri sin da bambino, e ora che aveva ventidue anni il suo sogno di giocarci stava svanendo. All’età di dodici anni, egli giocava per la squadra del suo quartiere, l’Ares Vomero, e proprio il Napoli lo notò in un’amichevole, chiedendo al padre di Fabio se il figlio potesse sostenere un provino per la squadra. Fabio giocò una gara intera, in allenamento, e fece una doppietta, ma verso la fine della gara, un difensore avversario, tale Salvatore Aronica, entrò su di lui in scivolata, spezzandogli la tibia. Il dirigente del Napoli, dispiaciuto, non potè ingaggiare Fabio, ma gli paga tutte le cure mediche e la convalescenza. Il verdetto per Fabio è disastroso, è un miracolo che ancora cammini. Non può più giocare a calcio a livelli agonistici. Egli frequenta il Liceo Scientifico e si iscrive all’Università, e continua nel tempo libero a giocare nell’Afragola, prima categoria. Un giorno l’Afragola gioca in amichevole contro la primavera del Napoli e si fa notare proprio Fabio. Alla fine della gara gli si avvicina uno spettatore con la tuta del Napoli.- Tu sei Fabio Cammarota?-- Sì, signor Esposito.-- Ah, ti ricordi di me?-- Come non potrei. Stavo per realizzare un sogno grazie a lei, ma, ahimè, è andata com’è andata.-- Vuoi allenarti una settimana con noi?-- Sarebbe stupendo, ma...-- Ok, allora lunedì a Castel Volturno.- disse Esposito salendo sulla sua macchina.Durante la settimana si infortuniano due attaccanti del Napoli, e domenica, contro la Juventus, Fabio va in panchina. Per lui è già un successo. La gara procede per la sua strada, finchè , all’ 81’ sul punteggio di 1-1 Lavezzi si infortunia e gli dà il cambio Fabio Cammarota. E’ il 92’, Fabio ha toccato due palloni, entrambi persi e ormai si rassegna a tornare alla vita di tutti i giorni, quando su corner del Napoli la palla gli capita sui piedi. Fabio scaglia un tiro rabbioso, che va nel sette. E’ 2-1. Lo stadio San Paolo esplode per quel misterioso Cammarota che corre in tribuna ad abbracciare Esposito.

Andrea Brashchayko

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L’amore al tempo di FacebookMolti anni fa, ero un ragazzo alto, capelli castani e occhi verdi. Vivevo in una frazione di San Diego, chiamata Chula Vista.Finite la scuola media, decisi di andare in un liceo situato al centro della città.Lì non conoscevo nessuno inizialmente, ma con il passare dei giorni, cominciai a conoscere sempre più ragazzi e a stringere un legame con loro.Cominciai bene l’anno, ma ogni giorno diventava sempre più difficile e dovevo studiare sempre di più.Quando tornai dalle vacanze di Natale, andai su internet ed entrai sul mio profilo di face book, un social network che a quei tempi era molto usato.Mi accorsi di aver ricevuto una richiesta di amicizia da una ragazza che frequentava la mia stessa scuola, m io non la conoscevo. Si chiamava Rachel.L’accettai, e quando la trovai connessa, le chiesi chi fosse.Lei mi rispose che mi aveva visto molte volte e che era venuta diverse volte anche in classe mia.Nei giorni seguenti parlai molto con lei, e pian piano mi innamorai.Mi fece anche vedere delle sue foto, e guardandole bene mi accorsi di averla vista diverse volte.Alcuni giorni dopo, durante la ricreazione, mi feci accompagnare da un mio amico nell’atrio centrale, dove andava sempre lei.Ad un certo punto la vidi, ma non ebbi il coraggio di salutarla. Qualcosa dentro di me, mi aveva bloccato.Ci riprovai per più di 2 settimane, ma niente.Quando poi arrivò il “giorno della donna”, ero molto determinato e mi ero giurato che sarei riuscito a parlarle.Aspettai la ricreazione, e appena sentii la campanella, scattai in piedi e uscii dalla classe dirigendomi al piano terra per incontrare Rachel.Guardavo in tutte le direzioni, ma non la riuscivo a vedere. Ad un certo punto la vidi che usciva e si dirigeva nel cortile della scuola.Camminai velocemente e la raggiunsi. La chiamai, lei si girò e si avvicinò a me. Eravamo fermi, ci guardavamo negli occhi, ma nessuno dei due parlava.-Finalmente ci conosciamo veramente- dissi.-Non sai da quanto aspettavo questo momento- mi rispose.Ci avvicinammo ancora e senza pensarci troppo ci baciammo.Era una sensazione bellissima. Finalmente ero riuscito a conoscerla dopo quasi un mese. Ero felicissimo.Da quel giorno ci fidanzammo, e dopo aver finito la scuola ci sposammo e avemmo due figli, uno maschio e uno femmina.

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Ora lei è ancora viva, io sono morto, ma il nostro amore è ancora vivo.

Silverio D’atri

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Scalare un grattacielo.Mirko era un ragazzetto di 10 anni. Il suo abbigliamento era particolare che si contraddistingueva da un berretto che portava sempre con se, forse per nascondere i capelli rosso carota. Viveva in un paesino vicino Rieti e faceva tutte le cose che i suoi coetanei sono solito fare: andare a scuola, giocare, ma mancava la cosa più importante, la famiglia. Si, perché era rimasto orfano e non aveva mai conosciuto i suoi genitori. Ma in compenso lo avevano adottato i suoi zii che bene o male avevano sostituito i suoi genitori. Anzi più male che bene, lo zio Tom era un po’ cattivo nei confronti di Mirko, era abbastanza alto e quasi calvo. Portava sempre delle camicie corte e i pantaloni come quelli di tutti gli uomini della sua età, abbinati al colore delle camicie. Anche la zia Myriam non ci andava piano con Mirko, con la sua aria da saputella e le maglie portate sempre nere per credere di essere più magra, e al contrario di Mirko trattava con i guanti d’ oro suo figlio Gilio. Mirko si era abituato, ormai, alla situazione e non faceva quasi più caso agli insulti che a volte gli venivano addirittura detti e seguiti sempre dalla frase dello zio:” Fai come me, tagliateli quei capelli”. Si certo, non faceva più caso agli insulti ma solo apparentemente perché in cuor suo era triste, nello stesso cuore in cui covava il suo sogno. Nel frattempo cresceva e quando magari al televisore veniva trasmessa qualche serie ambientata a New York, vedendo i grattacieli pensava: “Un giorno costruirò anch’ io uno di quelli”. Mentre lui aveva finito il liceo il suo cugino si era già trovato un lavoro come camionista e si sentiva chiamare dagli zii fallito perché apposta di trovarsi un lavoro anche lui si era iscritto all’ università. Ovviamente gli studi non glieli pagarono gli zii, ma era lui che tra un lavoro da fattorino di cui gli zii non ne erano a conoscenza, e libri riusciva a sostenere l’ università. Finì il suo percorso e si laureò con il massimo dei voti. Al giorno d’ oggi non sono i laureati che mancano ma sono i posti di lavoro per cui Mirko rimase disoccupato per molto tempo. Continuava a vivere con gli zii e ormai non li sopportava più fino al giorno in cui il telefono squillò e non era una delle solite amiche pettegole delle zia. – Pronto… adesso le passo Myriam!-rispose come al suo solito Mirko. E dall’altra parte del telefono –Myriam? veramente cercavo stava Mirko Leone è in casa?.-e lui un po’ stupito disse che era proprio lui- Salve sono il signor De Agelis e sto cercando giovani architetti per la realizzazione di un progetto molto importante a Roma. Il signor De Angelis spiegò nei più piccoli particolari il progetto a Mirko che con entusiasmo accettò la proposta. Partì subito per Roma con quei pochi sodi che era riuscito a mettere da parte senza stare nemmeno lì a spiegare tutto agli zii disse semplicemente che

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partiva per lavoro. Arrivo sul posto Mirko fece dei test ideati dal signor De Angelis per verificare la preparazione degli architetti. Mirko risultò il migliore e fu messo a dirigere i lavori. Non immaginate la sua gioia mentre apriva quel foglio di carta con degli strani disegni assomiglianti a una torre altissima…

Ivan D’ Antuono

Il SognoLorenzo è un ragazzo semplice che si diverte a giocare a basket, dopo però aver studiato.È molto alto e in tutti i confronti fisici nel gioco lui ha sempre la meglio sugli altri.L' unico suo difetto è la timidezza che gli impedisce di “sfondare” nel basket.Il suo sogno infatti è quello di diventare un cestista professionista e di giovare nell' NBA anche per ricavare dei soldi per la famiglia, perché sono molto poveri.Tra gli amici è il migliore e infatti lo chiamano Michael Jordan.Per caso il padre di un suo amico li osserva mentre fanno allenamento e consiglia a Lorenzo di fare un provino nella squadra “Virtus Bologna”, quell'anno prima in classifica.Lorenzo ci prova, ma è troppo emozionato dall'idea di giocare in quella squadra e infatti non riesce neanche a palleggiare!Dopo pochi giorni arriva la risposta: Respinto.Passano gli anni, ma Lorenzo non si scoraggia e continua a fare provini, sempre con esiti negativi.Riesce ad entrare nella squadra “Basket Scauri”, una squadra di serie B, ma pur sempre forte.Durante una amichevole un osservatore americano gli offre un posto in NBA nei “Washington Wizard” e Lorenzo accetta e sceglie il numero 0,ma in questa squadra ha poco spazio e non gioca quasi mai.Durante una partita il playmaker si fa male. E il momento di Lorenzo... comincia a sudare freddo e entra.Lorenzo ha voglia di dimostrare quanto vale. Infatti la partita è andata benissimo e Lorenzo riesce a conquistare la maglia da

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titolare e di conseguenza riesce a sfondare nel basket.P.S. Ha scelto il numero 0 perché: lui è partito da 0 ed è arrivato al massimo.

Marco Pimpinella

LA CULLA DELL’ AMOREChiusa nella mia camera, davanti allo specchio, mi spazzolavo delicatamente i lunghi boccoli castani che mi incorniciavano il viso roseo. Ammiravo la mia immagine riflessa, per la prima volta soddisfatta e sicura di me. Avevo un vestitino turchese, lungo sulle ginocchia e scollato sulle spalle, che si intonava al fiocco nascosto fra i capelli e ai miei occhioni vivaci. Mi sentivo una principessa, quella mattina, mi mancava solo il principe. – Sophi, sei pronta? – fu il grido proveniente dal fondo delle scale che interruppe le mie fantasie – Jonathan è qui! – si, Jo, il mio migliore amico, con il quale ho condiviso anche il biberon. Cosa dire di Jonathan… beh… lui è il classico ragazzo per il quale si perde la testa al solo sguardo: occhi nocciola e capelli scuri spettinati, dolce e spavaldo. Passiamo ogni istante insieme… ci completiamo a vicenda. Torniamo a noi… a quelle parole diedi un ultimo frettoloso sguardo allo specchio, poi corsi giù per le scale e inciampai cadendo dritta fra le sue braccia. – ah… se non ci fossi io al tuo fianco! – disse ridendo come un matto, mentre io mi esprimevo in una sincera linguaccia. Ma non mi diede il tempo di ricompormi dalla mia esibizione, che già mi tirava per il braccio sicuro che avremmo fatto tardi anche il primo giorno nella nuova scuola. Arrivammo di fronte al cancello dell’imponente edificio, lui come se avesse fatto una passeggiata di salute… io come se avessi fatto tre volte il giro dell’isolato. Di nuovo rideva… gli tirai un pugno nello stomaco, ma lui non fece che ridere di più. Stavamo per cominciare la lotta con il solletico, quando un omone panciuto, armato di microfono iniziò uno di quei noiosissimi discorsi morali che, però, sei obbligato ad ascoltare, per cui rimandammo la resa dei conti. Al concludersi delle raccomandazioni per noi innocenti di primo, ci mostrarono le “magnifiche” aule somiglianti alle celle dei manicomi, per vederla al positivo. - Ecco la nostra prigione per i prossimi cinque anni! - fu l’ esclamazione, espressione di positività, di Jo. Mi guardò e mi sorrise confortante notando una leggera agitazione nei miei occhi. Non adoravo i cambiamenti. Mano nella mano, sostenendoci a vicenda, trovammo posto tra i banchi, circondati da persone mai viste. Loro, però, sembravano tranquilli, quasi si conoscessero da tanto. Comunque sopravvissi alla giornata, ma ora mi aspettava di peggio: il solletico di Jo. Scampata anche alle sue dita esperte,

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giunsi davanti casa. Naturalmente lui abitava nell’appartamento accanto, per cui ci demmo appuntamento alle finestre delle nostre camere, dopo pranzo. Nel salutarci, però, qualcosa di stano accadde. Un istinto, proveniente chissà da dove, mi spinse a dargli un bacio sulla guancia. In tanti anni non era mai successo, e per la prima volta l’ avevo visto arrossire. Qualche secondo di imbarazzo, poi scappammo a casa. Non feci altro che pensare a quell’imbarazzante situazione: che la nostra amicizia si stesse trasformando in qualcos’altro? No! Impossibile! Era solo un modo per ringraziarlo di avermi sostenuta a scuola. Corsi in camera e lui era già lì, affacciato con il suo bel visetto guardandomi sognante. Lo raggiunsi sul davanzale opposto e chiacchierammo senza far minimo accenno a ciò che era avvenuto. La mattina dopo, mi sentivo diversa… mi pettinavo e mi facevo carina come sempre… o quasi…volevo essere carina ai suoi occhi. E con il passare del tempo la situazione peggiorava: ogni volta che mi prendeva per mano il cuore accelerava a mille e appena tornata a casa il primo pensiero era il davanzale per rivederlo. Non poteva essere… non proprio di lui… mi ero innamorata. Più stavamo insieme, più il mio sentimento aumentava pericolosamente. Poi un giorno tutti i miei desideri divennero realtà. Nello zaino trovai una lettera di Jo che mi diceva di incontrarci in un posto che nella nostra infanzia era stato speciale. Tutto era stato speciale nella nostra infanzia… poi mi venne in mente! Vagando nel boschetto fuori città ci eravamo persi ed eravamo sbucati in un enorme prateria coperta di fiori di ogni colore; lì la luce giocava magica fra le cime degli alberi e ci eravamo giurati amicizia eterna. Scelsi il vestito più bello che avevo nell’armadio, bianco e rosa, mi sistemai alla svelta e uscii correndo senza dare precise indicazioni della meta ai miei. Ero emozionantissima e aspettare l’ autobus fu struggente. Finalmente arrivò e in dieci minuti mi ritrovai sul sentiero sterrato, per inoltrarmi tra i fitti alberi. Era difficile scovare la strada nei miei ricordi ma di tanto in tanto scorgevo petali dei meravigliosi fiori della prateria lungo il mio percorso… mi aveva fatto un sentiero di petali. Ed infine, ai miei occhi si aprì lo spettacolo che stuzzicava i miei ricordi. Nel bel mezzo, tra i fiori, lo vidi. Era meraviglioso, sarei rimasta per ore a guardarlo se non mi avesse incitato a raggiungerlo. Mi sedetti al suo fianco, ma lui mi prese delicatamente alla vita spostandomi fra le sue braccia. Un brivido mi salì su per la schiena. Spostò la sua mano morbida sulla mia e iniziò a accarezzarmi dalle nocche fin sopra la spalla. Mi stavo sciogliendo come gelato al sole, ma il silenzio che ci circondava era alquanto imbarazzante. Poi sollevò lo sguardo cercando il mio e si avvicinò lentamente finché non sentii un solletico alle labbra che

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terminò in un indimenticabile bacio pieno di passione. Provai tutte le emozioni del mondo che si susseguivano in un vortice di estrema felicità. La prateria era stata culla della mia prima vera amicizia e del mio primo immenso amore. Erika Bartolomeo

I SogniPaul era un uomo francese di 45 anni che fu costretto dai genitori ad arruolarsi nella marina militare francese. Lui disgustava il suo lavoro anche se era imbarcato sulle navi da ben 25 anni. Era un tipo polemico e “chiacchierone”, e per queste due caratteristiche non riusciva mai ad avere un amico, e per questo motivo il tempo sulle navi non passava mai. Nel suo ultimo viaggio era imbarcato su una nave mercantile che partiva da Marsiglia e arrivava a Città del Capo. Quel viaggio fu particolarmente agitato, infatti di fronte le coste della Nigeria trovarono una tromba d’aria che li risucchiò. Per loro fortuna erano vicini alla costa e quindi la maggior parte dell’equipaggio si riuscì a salvare. Ma 3 di loro, tra cui Paul, non furono ritrovati. Mi risvegliai, tutto bagnato, su una spiaggia. Mi alzai e rimasi incantato… davanti a me si trovava il Paradiso… Mi trovavo su un atollo ancora non toccato dall’uomo moderno. Mi inoltrai nella “foresta” di palme di cocco, e dopo che camminavo per circa 5 minuti vidi davanti a me sorgere un pittoresco villaggio primitivo, lo attraverso e vedo appoggiato ad un albero un vecchio che parlava da solo. Mi avvicino per chiedergli se si sente bene, ma mentre stavo per aprire bocca un gruppo di uomini mi si avvicina, mi stordiscono e mi portano via da lì. Mi risvegliai nuovamente, ma questa volta ero in una grotta legato ad un ragazzo. Fortunatamente in quell’isola parlavano francese così potei parlare con il ragazzo. Gli dissi quasi tutta la mia vita, però per non fare brutta figura gli dissi che avevo molti amici in Francia, e alla fine gli spiegai cosa avevo fatto e lui mi disse che quel vecchio che meditava era l’uomo più saggio dell’isola e una volta al giorno si mette a pensare sotto l’albero, e non si deve mai disturbare,

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qualunque sia il motivo. Poi gli chiesi di raccontarmi la sua vita. E mi disse di chiamarsi Jean, era orfano ed era stato rinchiuso nella grotta perché aveva disturbato il saggio, mentre giocava con degli amici. Gli amici anche erano stati rinchiusi, ma erano stati ripresi dai propri genitori. Lui doveva passare almeno 5/6 settimane chiuso lì. Ma ero deciso ad uscire da lì e portare con me il giovane Jean. Notai che il nodo fatto dagli aborigeni era poco resistente e così provò a sfilarselo. Il tentativo andò a buon fine e così riuscimmo ad uscire dalla grotta. Adesso arrivava la parte più difficile del piano: raggiungere la casa dello stregone, che si trovava quasi al centro del piccolo villaggio. La grotta si trovava dall’altra parte dell’isola e quindi per arrivare a destinazione ci voleva un po’ più tempo di quanto ci aspettavamo. Andando cominciammo a parlare e ci rivelammo i nostri segreti. Gli dissi la verità sugli amici e il mio sogno era avere un amico vero. Jean invece gli disse piangendo:<<Io vorrei avere nuovamente una famiglia dato che la mia l’ho persa>>. Mi commossi ma non lo feci notare e così arrivammo al villaggio. Decidemmo di far calar la notte prima di entrare così le guardie difficilmente ci avrebbero visti. Era ancora presto così decidemmo di riposare facendo turni di guardia, feci cominciare lui a dormire perché era evidente che era stremato dalle notti passate nella grotta. Subito dopo il tramonto lo svegliai per entrare così nel villaggio e andare dallo stregone. Lentamente entrammo e a pochi passi dalla porta una scimmia ci vide e cominciò ad urlare. Cominciammo a correre quei pochi passi che ci mancavano fino alla porta dove entrammo senza neanche bussare. Lo stregone aveva già previsto il nostro arrivo e aveva preparato una pozione che ci avrebbe modellato in modo irriconoscibile la faccia. Prima che la pozione agisse ci volevano ore così ci fece dormire nella sua casa. L’indomani io e Jean andammo sulla spiaggia vestiti e ci tuffammo. Andammo al villaggio fingendoci naufraghi e ci accolsero benissimo. Cominciai a lavorare come agricoltore e con i soldi ricavati da questa attività costruii una casa dove andammo a vivere io ed il mio amico Jean.

Alessandro Di Giovanni