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Raniero Regni La grande bellezza dello sport. Educazione e cultura sportiva Ha scritto P. Valery che «non c’è una parola che si possa comprendere se si va a fondo» e gli ha fatto eco Wittgenstein secondo il quale «le parole sono come una pellicola superficiale su un’acqua profonda» 1 . Questi due moniti, l’uno di un grande poeta e l’altro di un grande filosofo del linguaggio, valgono per ogni termine del vocabolario umano, con annessa enciclopedia, ma credo che si addicano in modo particolare alla parola sport. Essa rimanda a così tante dimensioni che lo slittamento semantico, culturale, sociale è enorme e continuo. Per certi versi il termine sport indica tutto e il contrario di tutto, si può connotare sia in maniera positiva che in maniera negativa fino a cadere nel paradosso agostiniano del tempo, «se non mi chiedi che cosa sia, lo so, se me lo domandi, non lo so più». Se poi si pensa all’aggettivo, sportivo, le cose non migliorano, perché la cultura sportiva è veramente qualcosa di ancora più vasto e indeterminato. Allora anche parlare della grande bellezza dello sport assume una sua peculiare ambiguità capace di includere nello stesso significato sia il compiacimento positivo che l’ironia negativa. Eppure il tema va affrontato perché è troppo importante nel contesto odierno. Per orientarci useremo la dimensione educativa, ovvero cercheremo i risvolti pedagogici del tema. Il punto di osservazione ma anche il punto di approdo sarà la cultura sportiva ovvero l’educazione alla bellezza fine a se stessa dello sport come forza umanizzante. 1. Dal gioco come origine della cultura alla filosofia dello sport C’è un grande e intenso dibattito interdisciplinare, per molti versi affascinante, su quale sia il grado zero della cultura 1 Riprendo le due citazioni da La grammatica della fantasia di Gianni Rodari, e precisamente dal capitolo intitolato Il sasso nello stagno, cit., Einaudi, Torino, 1973, p. 12.

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Raniero Regni

La grande bellezza dello sport.Educazione e cultura sportiva

Ha scritto P. Valery che «non c’è una parola che si possa comprendere se si va a fondo» e gli ha fatto eco Wittgenstein secondo il quale «le parole sono come una pellicola superficiale su un’acqua profonda»1. Questi due moniti, l’uno di un grande poeta e l’altro di un grande filosofo del linguaggio, valgono per ogni termine del vocabolario umano, con annessa enciclopedia, ma credo che si addicano in modo particolare alla parola sport. Essa rimanda a così tante dimensioni che lo slittamento semantico, culturale, sociale è enorme e continuo. Per certi versi il termine sport indica tutto e il contrario di tutto, si può connotare sia in maniera positiva che in maniera negativa fino a cadere nel paradosso agostiniano del tempo, «se non mi chiedi che cosa sia, lo so, se me lo domandi, non lo so più».

Se poi si pensa all’aggettivo, sportivo, le cose non migliorano, perché la cultura sportiva è veramente qualcosa di ancora più vasto e indeterminato. Allora anche parlare della grande bellezza dello sport assume una sua peculiare ambiguità capace di includere nello stesso significato sia il compiacimento positivo che l’ironia negativa. Eppure il tema va affrontato perché è troppo importante nel contesto odierno. Per orientarci useremo la dimensione educativa, ovvero cercheremo i risvolti pedagogici del tema. Il punto di osservazione ma anche il punto di approdo sarà la cultura sportiva ovvero l’educazione alla bellezza fine a se stessa dello sport come forza umanizzante.

1. Dal gioco come origine della cultura alla filosofia dello sport

C’è un grande e intenso dibattito interdisciplinare, per molti versi affascinante, su quale sia il grado zero della cultura umana. Quando l’essere umano è emerso dal mondo animale e si è avviato verso la sua umanizzazione? Semplificando al massimo possiamo dire che si contendono il campo tre espressioni tipiche della condizione umana: il gioco, il rito e il mito. Non conosco, ma credo che nessuno la conosca con certezza, la risposta giusta ed assoluta. Ma mi schiererei con coloro che sostengono che sia proprio il gioco il primum movens della sensibilità umana, a cui succede il rito, a cui si aggiunge, rimodellando poi anche i primi due, il mito. Il gioco e il rito sono infatti le forme culturali più legate all’azione, al corpo, alla perfomance. Secondo molti autori2, è proprio il gioco che ha forse creato per primo le condizioni di trascendenza, di festività extraquotidiana, un’oasi di libertà, una forma di immaginazione in azione, di esperienza estatica. Certo il gioco, il rito e il mito hanno tutti a che fare con la sfera che possiamo chiamare del «sacro», del non quotidiano, del non ordinario, dello straordinario, della trascendenza, di una dimensione che trova il suo contrario nell’impegno del lavoro per la sopravvivenza. Faccio un solo riferimento esplicito ad un’opera di immensa erudizione e originalità interpretativa di un grande autore, Robert Bellah, il quale nella sua affascinante ricerca sulla origine della religione umana discute in maniera magistrale il tema cui qui si è solo accennato. É necessario, conclude Bellah, «took play very seriously as a way in which men

1 Riprendo le due citazioni da La grammatica della fantasia di Gianni Rodari, e precisamente dal capitolo intitolato Il sasso nello stagno, cit., Einaudi, Torino, 1973, p. 12.

2 Il pensiero va naturalmente e senza nessuna pretesa di completezza a Schiller, Nietzsche, Huizinga, Ortega y Gasset, Plessner, Winnicott.

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and gods interact»3. Il gioco qui si trova strutturalmente connesso con i gesti rituali e con le credenze religiose. Sul piano sociale e culturale avendo però per base le strutture evolutive primitive che sono le «forme vitali»4, i «neuroni specchio»5, la «coscienza mimica e mitica»6. Allora diventa più comprensibile quello che dice lo scrittore messicano O. Paz, a proposito dei giochi del popolo azteco, «il Gioco della Pelota era lo scenario di un rito in cui il vincitore vinceva la morte per decapitazione [...] Si potrebbe addirittura dire che il gioco è la radice del rito. Il motivo è chiaro: la creazione è un gioco; voglio dire: il contrario del lavoro. Gli dei sono essenzialmente dei giocatori. Giocando, creano»7.

Il gioco come il rito è un fare più che un dire. É intrinsecamente non discorsivo. Il significato del rito, come quello del gioco, è prodotto dall’azione. Una partita può rappresentare un rito perché il punteggio conta meno della festa e del gioco. E non solo, essi hanno in comune la capacità di creare quelli che A. Seligman8 chiama «mondi soggiuntivi», ovvero mondi declinati «al congiuntivo», mondi «come se». Mondi che non dicono il mondo «come è», ovvero mondi indicativi, ma mondi come se fossero reali eppure perfetti, mondi «come dovrebbero essere». Per Huizinga9 il rito arcaico è un gioco sacro. É un atto libero che non appartiene al mondo della coercizione; è disinteressato ovvero non soddisfa bisogni o massimizza interessi; si aggiunge alla vita, vi si aggiunge come un addobbo; è al di là dei bisogni materiali; è separato dalla vita quotidiana, ha uno spazio e un tempo suoi separati dai rigori quotidiani. Sia il gioco che il rito creano mondi provvisori governati da un loro ordine e caratterizzati da una certa eccitazione sinestetica. Costruiscono un terzo spazio10 in cui fare esperienza e condividere realtà e ordini alternativi, tra l’interno e l’esterno, che è anche una delle ragioni per cui non bisogna mai chiedere ad un bambino se quella che sta cavalcando è un manico di scopa oppure un cavallo. Questa terza dimensione è il simbolo che sta tra l’interiore e l’esteriore. La terza area di Winnicott che non è né dentro né fuori dell’individuo, ma sta nel mondo della realtà condivisa. É lo spazio psicologico del gioco. E sarà il modo per rimanere anche da adulti in contatto con la parte più intima di se stessi. Giocare è una maniera particolare di agire, una maniera di trattare la realtà in forma soggettiva.

Il gioco ha ottime probabilità di affermarsi come origine della cultura umana. La sua natura fragile eppure indispensabile, la sua essenza futile eppure libera, ne fanno un candidato privilegiato per capire l’incipit dell’umanità. La sua capacità di distaccarsi, portandoselo però dietro e dentro, dal piano biologico ed elevarsi a quello spirituale, passando per quello culturale e sociale. La versatilità umana, la cui base neurofisiologica risiede nella plasticità cerebrale, fa dell’essere umano uno specialista nella non specializzazione. La sua lunga infanzia, permette di stabilizzare il gioco come carattere infantile che, nelle altre specie termina con la maturità, mentre nell’uomo viene appunto stabilizzato nell’età adulta e accompagna la vita in tutto il suo lungo ciclo. Se è vero quello che sostiene A. Gehlen11, che l’uomo, rispetto agli animali, non vive solo in un ambiente, non ha un suo habitat esclusivo e privilegiato, ma si adatta a molti ambienti, questo, strutturalmente, vuol dire che quello che si apre davanti a lui non è un ambiente ma un mondo, ovvero una realtà piena di sorprese. Allora il gioco, non il semplice cortocircuito stimolo-risposta, è una delle strategie di sopravvivenza.

3 R.N. Bellah, Religion in Human evolution. From the Palaeolithic to the Axial age, Harvard University Press, Cambridge (Ma) 2011, p. 583.

4 D.N. Stern, Le forme vitali. L’esperienza dinamica in psicologia, nell’arte, in psicoterapia e nello sviluppo , R. Cortina, Milano 2011.

5 G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai: il cervello che agisce e i neuroni specchio, R. Cortina, Milano 2006.6 M. Donald, L’evoluzione della mente, Bollati-Boringhieri, Milano 2011.7 O. Paz, Garzanti Milano, p. 178 A. Seligman e altri, Rito e modernità. I limiti della sincerità, Armando, Roma 2011.9 J. Huizinga, Homo Ludens, Einaudi, Torino 1972.10 D. Winnicott, Gioco e realtà, Armando, Roma 1974.11 A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1983, p. 106. Su questo mi

permetto di rinviare al mio «In principio era l’azione». Cultura ed educazione in A. Gehlen, in R. Regni, Educazione e disagio della modernità, Edizioni Era Nuova, Perugia 1997, pp. 103-130.

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Se il gioco è questa oasi della libertà e della possibilità tutta giocata tra il fisico, lo psichico e lo spirituale, è difficile distinguere il gioco dallo sport. Lo sport è la versione moderna e organizzata del gioco. Lo sport è il gioco più la tecnologia e l’organizzazione. L’origine inglese del termine la dice lunga sulla sua genealogia storica e geografica. Appare così più spiegabile perché il gioco-sport, il gioco sportivo abbia le caratteristiche di una costante antropologica, presente da sempre nella condizione umana. Si può cominciare a capire lo sport come universale culturale presente ovunque nella società umana come fatto sociale totale, che attraversa tutte le manifestazioni della società. E una prova ulteriore della sua forza la si vede nell’essere oramai fonte di ispirazione di un genere letterario, antico e importante, qual è l’epica: in assenza della guerra è oggi l’unico nutrimento del genere epico12.

Questa centralità del gioco ne avrebbe dovuto fare un tema dominate della riflessione del pensiero occidentale e invece così non è stato. Il gioco come tema filosofico non ha avuto molti cultori, soprattutto non è stato considerato un tema centrale dell’umano. Anche per questo forse tra gioco e filosofia non corre buon sangue, forse perché il gioco non sopporta le generalizzazioni, le astrazioni concettuali, nel senso che se le gioca, le illude, per cui ci si è forse persuasi che è inutile inseguire il concetto di qualcosa che non si lascia concettualizzare. Forse la ragione potrebbe essere anche un’altra, contenuta nella domanda impertinente: i filosofi non sanno giocare? Chi pensa non gioca e chi gioca non pensa, questa la convinzione errata che pure si è diffusa, diventando un invisibile, e per questo invincibile, pregiudizio. Il gioco non è una categoria ma forse le attraversa tutte, è uno degli aspetti fondamentali dell’ambito tensionale elementare della vita per cui «l’uomo è essenzialmente un mortale, un lavoratore, un lottatore, un amante - e un giocatore»13. Morte, lavoro, dominio, amore, eppure il gioco gli sta di fronte per cui possiamo giocare con tutte queste cose.

Anche la dimensione autoteletica del gioco, ovvero una attività che ha un fine in se stesso può spiegare perché la filosofia del gioco non abbia avuto un grande sviluppo. Come il mito e il rito, le cui parentele abbiamo già visto, il gioco è comprensibile quasi solo dall’interno. Università e stadio, sono stati separati per molto tempo così come filosofia e sport. Eppure non è una vaga fantasia pensare il filosofo come atleta e l’atleta come filosofo. Quando si trovano tracce di sport nelle biografie di grandi intellettuali questo spiega alcuni tratti del pensiero e della personalità. La cattiva reputazione dello sport tra gli intellettuali, il loro fastidio e la loro indifferenza oppure oggi il loro parassitizzare lo sport, sono piuttosto diffusi. E forse bisogna cercare, come ci ha insegnato F. Ravaglioli14, a criticare l’intellettualismo antisportivo ma anche l’idolatria dello sport, ricordando che il tema dello sport è un tema classico, rimanda ad un tema di fondo della civiltà. Il pensiero greco delle origini, la sapienza greca, faceva dire a Eraclito, nel famoso frammento 52, «il corso del mondo (Aiòn) è un bambino che gioca (Paìs paìzon) che gioca a dadi, è il regno di un bambino». Millenni dopo gli fa eco un greco della modernità, come Nietzsche. «Non conosco altra maniera di trattare i grandi compiti che non sia il gioco»15 e «soltanto i pensieri nati camminando hanno valore»16. Maestro privilegiato di una fröliche Wissenschaft, una scienza gaia, sorridente, che non scherza mai ma gioca sempre, Nietzsche, il filosofo e camminatore folle, colui che si fa profeta di un dio sorridente, che sappia ridere e danzare, l’autore secondo il cui pensiero non possiamo vivere ma che non possiamo ignorare, ricollega il gioco alla selvaggia saggezza del corpo. Se si esclude Huizinga e la sua opera fondamentale del 1938, la filosofia non ha dato il giusto spazio al gioco. Certo si ricorda la battuta di un pensatore che amava lo sport e aborriva il formalismo accademico come M. Heidegger che «chi non sa sciare non può fare filosofia»17 così come è nota a tutti la tesi sostenuta in un’intervista da A. Camus, che affermava «tutto quello che ho imparato sulla vita me lo

12 È questa la tesi sostenuta indirettamente dallo scrittore S. Veronesi, Un dio ti guarda, La Nave di Teseo, Milano 2016, un libro, come dice l’autore stesso, non di sport ma di epica.

13 E. Fink, Oasi del gioco, R. Cortina, Milano 2008, p. 13.14 F. Ravaglioli, Filosofia dello sport, Armando, Roma 1990.15 F. Nietzsche, Opere Complete, Ecce Homo, Adelphi, Milano 1964, p. 306, vol. VI, tomo 3.16 F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli ovvero come si fa filosofia col martello, Adelphi, Milano 2013, p. 30.17 A. Gnoli - F. Volpi, I filosofi e la vita, Bompiani, Milano 2010, p.103.

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ha insegnato il calcio»18. Camus giocava in porta, come estremo difensore, in una situazione paradossale vedendo i compagni di spalle e i nemici in faccia, per cui era solitario e solidale insieme, traendo probabilmente dallo sport alcune delle lezioni più vere che poi ha reso immortali nelle sue opere.

Ma oltre questo, resta poco altro. Eppure sin dall’inizio il gioco compare nella filosofia occidentale con la già citata sentenza di Eraclito che così Heidegger commenta, «perché gioca, il grande Fanciullo che Eraclito ha percepito in Aiòn, nel Tempo, il Fanciullo che gioca il Gioco del mondo? Gioca perché gioca. Il perché sparisce nel Gioco. Il gioco è senza perché. Gioca mentre gioca. Il gioco solo resta: è ciò che c’è di più alto e di più profondo». Uno dei pochi filosofi, che dopo Huizinga, innestano in profondità il gioco e lo sport all’interno del loro pensiero, è Ortega y Gasset. Per lui l’essere umano non vive di sola utilità e sembra avere uno straordinario bisogno di ciò che appare superfluo, improduttivo, senza scopo, futile, ma anche libero e infinito. Ortega critica l’utilitarismo, ovvero la concezione secondo cui tutta la vita, tutte le manifestazioni vitali sarebbero un rispondere a esigenze inevitabili e nel soddisfare delle necessità. Un’altra prospettiva sostiene che tutto ciò che è reazione ad attività gravose sono vita secondaria. L’attività prima e originale della vita è sempre spontanea, lussuosa, di intenzione superflua, libera espansione di energia pre-esistente. Anche sul piano dell’evoluzione biologica, osserva Ortega, l’occhio sorge e poi lo si utilizza, non nasce perché serve. Il concetto stesso di «necessità umana» abbraccia sia l’oggettivamente necessario che il superfluo. Anzi, «l’uomo è l’animale per cui è necessario solo ciò che è superfluo»19, per cui «vita, propriamente parlando, è soltanto quella dell’aspetto sportivo, il resto è in confronto meccanizzazione e puro funzionamento»20. La cultura non nasce dall’utilità, le creazioni non sono state fatte perché utili ma perché superflue. La figura del gentleman appare allora essenziale, forse più dell’hidalgo spagnolo, con il suo fair play applica alla vita quegli aspetti che altri relegano solo nel gioco e nello sport. «Il gioco è un lusso vitale», è uno sforzo ma che «riposa in se stesso senza quell’irrequietezza che infonde nel lavoro la necessità di ottenere a qualsiasi costo il suo fine»21. Ortega esalta lo sport perché fa sgorgare, nel tempo moderno, rompendo le dighe della storia, la primordiale potenza della biologia.

Un altro autore, che pure non tratta esplicitamente di gioco e di sport, ma che indaga molto sulla eccentricità dell’essere umano, rispetto al mondo animale, è uno dei grandi rappresentanti dell’antropologia filosofica tedesca che ha, come scuola di pensiero, un interesse strutturale per il rapporto tra la dimensione corporea, organica e quella culturale, spirituale, ovvero H. Plessner. L’animale ha un centro in se stesso ma non si vive come centro. L’uomo ha la possibilità di distanziarsi da se stesso ma per questo è eccentrico, «egli vive al di qua e al di là della frattura, come anima e come corpo e come l’unità psicofisicamente neutrale di queste sfere»22. Egli vive la frattura tra corpo vivente e corpo fisico, tra soggetto e oggetto, tra motricità e sensorialità. Questo porta l’uomo, l’uomo che ha un corpo, che è un corpo e che è un’anima incarnata in un corpo vivente, a dialogare intensamente tra dimensione psichica e corporea, tra dimensione sensoriale e dimensione motoria. «All’uomo è negato di essere tutt’uno con il corpo, unità che invece gli animali hanno senza avvedersene, e appunto perciò dominano così bene il corpo»23. La motricità umana è diversa da quella animale, anche per il dissidio originario con la sensorialità, ma questo è anche ciò che rende possibile la prestazione sportiva, la «sublimazione eroica dell’esercizio sportivo». L’uomo è essere che è solo ciò che fa di se stesso. Fino al punto che «manca l’oggettivazione manca anche il suo opposto, il volgersi verso l’interno»24.

18 Su Camus mi permetto di rimandare al mio Il sole e la storia. Il messaggio educativo di Albert Camus, Armando, Roma 2012. Vedi anche E. Santi, Il portiere e lo straniero, L’Asino d’Oro, Roma 2013.

19 J. Ortega y Gasset, Meditazione sulla tecnica, In Aurora della ragione storica, Sugarco, Milano 1983, p. 285.20 Ibi, p. 99.21 Ibi, cit., p. 307.22 H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica, Bollati-Boringhieri, Milano

2006, p. 316.23 H. Plessner, Antropologia dei sensi, R. Cortina, Milano 2008, p. 70.24 Ibi, p. 20

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Un allievo di Heidegger, E. Fink, è uno dei rari filosofi che ha dedicato i suoi lavori principali al gioco. Quella che il suo maestro chiamava la «radura» (Lichtung), la dimensione spaziotemporale dove l’essere appare, emerge proprio dal mondo irreale del gioco, la cui irrealtà è prodotta però con mezzi reali. Per lui il gioco non solo è un tema centrale della filosofia, ma attraverso il gioco interpreta il rapporto tra l’uomo e il mondo. Anche se Fink sa che il gioco non si lascia concettualizzare, afferma che esso rappresenta un’oasi della felicità e della libertà capace di infondere alla vita uno stile diverso, in cui il corpo diventa l’attore che rappresenta l’anima. Il corpo dell’uomo che gioca è al centro di molti sport, nella sua bellezza, forza vitale e libera autorealizzazione creativa. Sì, il corpo è al centro dello sport e il pensiero contemporaneo è, secondo lui, inadeguato a pensare il corpo oggi, è incapace di andare oltre il materialismo e lo spiritualismo. Il corpo «è spirito sensibile» che contiene le tracce dorate che portano anche alla filosofia. «Il gioco non ragiona, e tuttavia non è affatto povero di pensiero o privo di pensiero» 25, ed ha il potere di stare di fronte a tutta l’esistenza, giocandola.

Anche soltanto da questo breve elenco e da questi cenni, tutt’altro che sistematici e completi, si dovrebbe concludere che il gioco meriterebbe quindi un posto centrale nella riflessione filosofica che pure non ha avuto, e un discorso simile varrebbe anche per lo sport. Eppure la riflessione su questo tema è ancora più esigua ma con una grande eccezione. E parlo, per me ovviamente, del lavoro di Fabrizio Ravaglioli, Filosofia dello sport26. Un testo centrale e insuperato nel panorama italiano, ma credo anche internazionale, che fa il punto della riflessione sulla cultura sportiva al crocevia di filosofia, sociologia, etologia, antropologia e storia. Un’opera così ricca di spunti e riflessioni che non ho nessuna intenzione di riassumere qui. Dico soltanto che per Ravaglioli l’approccio «filosofico» intendeva essere un approccio libero, non impacciato da rigide classificazioni accademiche. La filosofia è un modo di esplorare zone ambigue del significato e dell’esperienza dove l’abilità e la competenza incontrano la resistenza e la differenza irriducibile. In questo senso la filosofia non è scienza, perché forse è molto di più. La filosofia come eccedenza della domanda che non si limita al noto e neanche allo scientificamente dimostrato ma che chiede anche dell’altro, avendo dalla sua parte tutto il vantaggio della congettura, dello slancio rispetto alla teoria solida. Ravaglioli coglie meglio di tutti lo sport come tema centrale del nostro tempo, luogo di incontro e quindi di analisi privilegiata dei grandi cambiamenti della società contemporanea con i suoi effetti sulla personalità umana. Per Ravaglioli il segreto dello sport nasce dall’unione di quel che è moderno, attuale, con quello che è antichissimo, arcaico, elementare. Posto al crocevia dei grandi processi di civilizzazione, lo sport, riducendo la distanza tra la civiltà e la natura, svolge una funzione insostituibile di alleviamento del disagio della civiltà. Indica non l’antico ma l’eterno delle forze mitiche più arcaiche che sono il passato ma anche il futuro dell’uomo.

2. L’ascesi come ideale sportivo

Uno dei contributi più recenti che possiamo collocare indirettamente nell’ambito della filosofia dello sport è quello di P. Sloterdijk e precisamente il testo in cui il filosofo tedesco ricostruisce la tendenza ascetica umana27. Almeno da quella che è stata definita «Età assiale»28, ovvero quel periodo che va dall’IX al III secolo avanti Cristo, in cui in cinque luoghi della terrà hanno fatto irruzione profeti, filosofi, maestri che hanno indicato agli esseri umani un cambiamento essenziale

25 E. Fink, Oasi del gioco, ed. cit., p. 46. Il testo contiene anche la conferenza tenuta Eugen Fink in occasione dei giochi olimpici di Monaco nel 1972, Il significato del gioco come mondo. Vedi anche Il gioco come simbolo del mondo, Firenze 1991.

26 F. Ravaglioli, Filosofia dello sport, Armando, Roma, 1990, ristampato a cura di P. Palmieri con il titolo La filosofia dello sport, Armando, Roma 2015.

27 P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, R. Cortina, Milano 2010.28 Sul concetto di Età assiale e sul suo rapporto con l’educazione e la pedagogia interculturale, mi permetto di

rinviare al mio Arcaico futuro. La grande pedagogia delle civiltà, Introduzione a K. Jaspers, Origine e senso della storia, Mimesis, Milano 2014.

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della vita, l’essere umano sembra sottoposto ad un imperativo di tipo ascetico. Ascesi, letteralmente, esercizio, che indicava inizialmente l’allenamento di un atleta per superare una prova, è diventata poi la tensione, tutta spirituale, di questi messaggi che ha messo in moto un processo che ha portato alla creazione di altrettante civiltà che hanno cominciato a considerare la vita come esercizio di perfezionamento ascetico e la formazione stessa come infinito viaggio interiore. Si tratta del «mio più intimo non-ancora» che impegna ognuno in una condotta che plasma e perfeziona se stessa, in un mai soddisfatto bisogno di forma. Buddha e Confucio, Lao Tze e Zarathustra, i profeti dell’Antico Israele (da cui poi deriva anche il Cristianesimo), Platone e i tragici greci, hanno creato delle differenze guida, differenze tra il più e il meno, degli attrattori che hanno innescato una tensione verticale capace di mobilitare masse di persone, per secoli, attraverso un vero e proprio training permanente contro lo «spirito di gravità». Chi cerca esseri umani troverà «acrobati» scrive Sloterdijk, se esercitarsi vuol dire abbandonare l’inerzia, la pigrizia, la trascuratezza, non tutti gli esercizi sono però virtuosi, alcuni possono essere tossici o «maligni», perché sviliscono, come spesso accade oggi, l’esercizio in performance. Per molti versi questa impostazione avvicina la filosofia alla ginnastica29. «Il termine ‘filosofia’ – osserva il filosofo tedesco - contiene senza dubbio un riferimento nascosto alle due principali virtù atletiche che, ai tempi di Platone, riscuotevano un altissimo gradimento. Esso rimanda da un lato all’atteggiamento aristocratico della ‘filotimia’, l’amore per la time, la fama gloriosa attribuita ai vincitori delle gare, dall’altro lato, rimanda alla ‘filoponia’, ovvero l’amore del ponos, la fatica, l’onere, lo sforzo»30. L’atleta ispira il filosofo, anche lui è impegnato nel suo atlos, nella sua lotta per raggiungere l’impossibile. Non a caso nel testo di Sloterdijk c’è anche un’originale ricostruzione storica dell’atletismo sia fisico che corporeo. Nella cultura scultorea dei greci regnava una parentela fisica tra atleti e divinità. Un dio era una sorta di sportivo e lo sportivo era una sorta di divinità. Il corpo dell’atleta univa bellezza e disciplina in una quiescenza pronta a scattare. Il culto greco per il corpo maschile, l’antico vitalismo atletico, la teologia muscolare hanno caratterizzato la cultura greca. L’avvento del Cristianesimo ha spiritualizzato questo genere di tensione atletica nell’ascesi (che è parola di provenienza sportiva, propria del lessico delle palestre) per tutta l’età di mezzo fino al tramonto del Medioevo. Con il XV secolo abbiamo un processo di riforma postcristiana caratterizzata dal «ritorno dell’atleta» e da una specie di «idealismo somatico» esaltato dalla scultura e dalla pittura rinascimentali. Un’altra insorgenza dell’ideale psicofisico dell’atleta l’abbiamo con quello che Sloterdijk definisce il tardo rinascimento europeo dell’inizio del XX secolo. E tale risveglio incontra ovviamente lo sport ed egli sottolinea quanto sia stata grande la sua influenza sull’ethos dei moderni, l’atletismo, la ri-somatizzazione ovvero la de-spiritualizzazione dell’ascesi, in una specie di risurrezione della carne nell’al di qua. Il somatismo (una delle grandi idee del Novecento assieme al socialismo) ha trionfato nella prima parte del Novecento ma l’atletismo eroico è diventato oggi una ascesi de-spiritualizzata, perdendo la trascendenza e il senso della verticalità. Le pratiche ascetiche si somatizzano su di un piano postspirituale e lo sport è proprio la metafora per eccellenza della performance, mentre le manifestazioni di spiritualità si verificano in pratiche postascetiche refrattarie alla disciplina e informali. La secolarizzazione dell’ascesi, anche sportiva, e l’informalizzazione della spiritualità, si sono appiattite sull’ideale del benessere e dell’essere in forma. Quelli che per Nietzsche erano gli abitatori della terra del tramonto, gli ultimi uomini sono quelli che non vogliono essere affatto più di se stessi, uomini senza aspirazione, piccoli borghesi all’ultimo stadio che dicono a se stessi «che cosa ci guadagno se vado oltre me stesso?».Chiudo questa veloce carrellata su filosofia e sport, tornando, da una parte, a Platone e, dall’altra, a Nietzsche, autori che mi permettono di introdurre due aspetti decisivi, ieri come oggi, dello sport e dell’educazione sportiva, due valori problematici come il coraggio e la competitività. Due virtù che

29 Su questo vedi G. Berto, Perdere la testa. Ginnastica e filosofia, saggio contenuto nel numero monografico di «Aut-aut», dedicato a Esercizi per cambiare la vita. In dialogo con Peter Sloterdijk, 355, luglio-settembre, 2012, Il Saggiatore, pp. 95-105.

30 Ibi, p. 4.

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hanno alimentato l’eroismo e l’agonismo, di cui può essere fatto un pessimo uso, sempre al centro dell’esaltazione e della condanna dello sport, croce e delizia della cultura sportiva.

É noto a tutti il paradosso storico che il padre della tradizione appunto, platonica, avesse un approccio tutt’altro che «platonizzante», spiritualistico, all’educazione. Nella Repubblica, il fondamento della Politeia, della Paideia della repubblica dei filosofi è l’educazione ginnico-musicale, a cui si aggiunge la matematica e, solo molto tardi, la filosofia. Ma qui vorrei riferirmi ad un aspetto particolare della filosofia platonica e precisamente all’analisi di una virtù che è il thumos, l’audacia, il coraggio su cui ha richiamato l’attenzione recentemente il filosofo francese R. Brague31. Parlando dell’educazione dei guerrieri, dei guardiani della città, parla di questa terza facoltà dell’anima. Tre sono le facoltà che corrispondono a tre parti del corpo. Platone distingue una parte dell’anima con la quale pensiamo (ragione, ratio, pensiero, calcolo) ed una con la quale desideriamo (istinti, fame, sete, appetito sessuale). Ed una intermedia, l’audacia, il coraggio, la parte irascibile, in inglese spiritedness. Esse vanno, anche anatomicamente, dall’alto al basso del corpo: la ragione è nella testa, i desideri sono nell’addome, il Thumos è nel torace, tra il collo e il diaframma. Thumos è il respiro, non quello cui si riferisce anche la parola «psiche», la brezza leggera, ma il sibilo, il respiro che deve forzare, il respiro trafelato dello sforzo. «Il Thumos è la facoltà che lo sport mette in gioco e coltiva»32. La respirazione è istintiva e volontaria, quella dello sforzo è invece frutto di una decisione e di un impegno. La parte irascibile, l’arrabbiarsi, la collera, presenta qui un aspetto positivo, è ciò che permette di rifiutare il disonore di sottomettersi, ciò che ci fa affermare la nostra indipendenza e combattere per essa. É il cuore, nel senso del coraggio, che porta a difendersi e ad avere qualcosa da difendere. É il principio della nostra libertà e della nostra azione. «Il Thumos ci permette di prendere l’iniziativa»33 É attraverso di esso che la ragione diventa pratica, che fa dell’uomo un essere né angelo né bestia. Il calcolo lo hanno anche i computer, i desideri anche gli animali. Senza questa facoltà intermedia che sembra proprio il punto di forza dell’educazione sportiva, le due facoltà estreme sarebbero lasciate a se stesse, costringendo l’essere umano, da una parte al razionalismo, dall’altra, all’emotivismo.

Ed ora vediamo Nietzsche. Nietzsche aveva colto la componente tragico-distruttiva del pensiero greco, di quel pensiero presocratico che pure ammirava. Nello scritto giovanile Agone Omerico, distingue infatti, con una geniale ricostruzione, due tipi di Eris, la contesa (anche invidiosa e competitiva) che già Esiodo aveva indicato nella sua duplice natura. C’è una contesa buona che spinge anche l’uomo inetto a migliorarsi e a trovare una sua misura, c’è la contesa cattiva che porta all’annientamento reciproco, che rompe ogni limite e misura, dove trionfa l’ambizione smisurata (nessuno deve essere sempre il migliore!). La cattiva Eris, da un lato favorisce la mediocrità aggressiva, dall’altro non conosce che un singolo, isolato vincitore che umilia tutti gli altri condannandoli all’insignificanza. Ma la cattiva contesa, la cattiva competizione, è quella che viene privata della dimensione ludica, allora la rivalità diventa aggressività incontrollata che porta all’annientamento dell’avversario.

«Se oggi lo sport è diventato eccessivamente formalizzato, cristallizzato e grottescamente serio, è perché ha perso definitivamente il suo spirito ludico sostituendolo con uno sterile ed esasperato agonismo – ha scritto un critico estremo ma ben informato come B. Ballardini – A causa di questa deformazione, l’unica finalità dello sport oggi è la vittoria. Di conseguenza, l’unica cosa che conti nella vita di milioni di persone influenzate dal Grande Gioco è vincere o sentirsi vincitori. Ma questo ha un carattere distruttivo ed è esattamente l’antitesi del gioco: questo è guerra»34.

3. Per una pedagogia dello sport

31 R. Brague, Thumos (o del coraggio), la terza facoltà dimenticata, in «Vita e pensiero», 6 (2015).32 Ibi, p. 90.33 Ibi, p. 92.34 B. Ballardini, Contro lo sport (a favore dell’ozio), Baldini & Castoldi, Milano 2016, p. 64.

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Nel XX secolo lo sport si è imposto come fenomeno sociale totale e anche la pedagogia si è trovata ad occuparsene. Tra gioco e sport (così come tra gioco, sport ed educazione) il rapporto non è semplice e lineare, ci sono tensioni. É questa una delle ragioni per cui lo sport, ovvero l’eredità moderna del gioco, ha una presa così vasta nell’età contemporanea ed un seguito così numeroso nella società. É questa la dimensione ludica dello sport che è e deve rimanere fratello gemello del gioco. E, nel gioco, c’è il rapporto con il destino, la tensione tra il finito e l’infinito, che lo apparenta al rito e al mito. Ma veniamo alla pedagogia dello sport. Come avrebbe detto Ravaglioli35, la si può intendere in due modi: la pedagogia è il soggetto e il gioco e lo sport sono situazioni a cui si applica (genitivo soggettivo). Oppure il gioco e lo sport sono sostantivi (genitivo oggettivo) e contengono elementi di sviluppo della personalità, e la pedagogia è solo un aspetto della sua evenienza. Per lui lo sport «al servizio di» non è più il gioco fine a se stesso, ovvero finalizzato proprio alla dimensione ludica umana. Se il valore educativo del gioco deve emergere spontaneamente, non può essere forzatamente convogliato al servizio dell’educazione, a maggiore ragione anche lo sport deve mantenere la sua autonomia.

Quando manca la cultura dello sport, ovvero l’educazione alla bellezza fine a se stessa, la scorciatoia è irresistibile, si cercano le scorciatoie del doping che segnala una cultura del vuoto, e questo accade quando si perde di vista il grande valore educativo che lo sport possiede con il suo potere di umanizzazione. Ma quali sono i valori educativi dello sport? Intanto, se bene inteso, lo sport ci presenta l’integrità della persona come corpo, anima e spirito. Cioè ci rimanda a una visione olistica, non dualistica, dell’essere umano, che ieri o altrove alcune filosofie hanno sostenuto e che oggi le neuroscienze confermano. Abbiamo visto che lo sport ha accesso a quelle forme di intelligenza legate ai sensi e al corpo che spesso l’educazione scolastica ignora, sottovaluta o comprime. La scuola potrebbe pensare di realizzare una educazione allo sport e con lo sport che oggi non esiste, capace anche di fare dei tecnici, degli allenatori, dei trainer degli educatori. E lo sport potrebbe ricordare all’educazione scolastica l’importanza, tra la molteplicità delle intelligenze, di quella corporeo cinestesica. La libera espressione di un gesto che coniuga alla perfezione le facoltà mentali, fisiche e spirituali dell’essere umano, si pone al di là della frattura tra mente e corpo e di spiritualizzazione della mente, di ogni intellettualismo e formalismo pedagogico come di ogni riduzionismo sia spiritualistico che materialistico. Lo sport come esperienza integrale in cui corpo, anima e spirito se la giocano alla pari36.

Abbiamo poi la bellezza. La grande bellezza dello sport, a cui rimanda il titolo di questo testo è una bellezza sottratta all’estetizzazione di molta cultura contemporanea, che sappia porsi non in maniera antagonistica ma di reciproco completamento tra etica ed estetica. Un’etica della bellezza che punti sulla condivisione37 di belle esperienze sportive riprendendo l’identificazione del Bello, del Vero e del Buono che era propria sia della filosofia greca che della filosofia monoteista medievale, «cristiana, ebrea e musulmana, che attribuiva a Dio la perfezione di queste tre idee di virtù»38. Ma anche nel senso di bellezza della persona buona che ci spinge a definire, nel linguaggio quotidiano, spesso più preciso del linguaggio filosofico che ha invece contribuito a separarle, per cui parliamo di «una buona azione una bella azione, un’anima buona una bella anima, una persona buona una bella persona»39. É A. Heller a teorizzare la bellezza della moralità, per cui certi atti

35 F. Ravaglioli, Il valore educativo dello sport, in Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano, pp. 11024-11025, vol. 17.

36 Il motto «mens sana in corpore sano» deriva da Giovenale ma il testo originale suona così: «Orandum est ut sit mens sana in corpore sano», «bisogna pregare (gli dei) affinché la mente sia sana nel corpo sano» (Satire, X, 356). L’ideale era quello dell’equilibrio delle facoltà intellettive e di quelle fisiche, ma eliminando l’invocazione agli dei, se ne è fatta un’interpretazione cartesiana. L’invocazione manteneva l’unità, venendo tolta si perde l’unità, ed anche se si esalta il corpo rimane un dualismo insuperabile. Su questo vedi B. Ballardini, Contro lo sport (a favore dell’ozio), cit., p. 57. Vedi anche E. Costantini, Un sport per l’uomo aperto all’assoluto. Cultura, educazione, spiritualità, Ave, Roma 2013.

37 Sull’etica delle bellezza mi permetto di rinviare all’omonimo paragrafo del mio Paesaggio educatore. Per una geopedagogia mediterranea, Armando, Roma 2009.

38 A. Heller, La bellezza della persona buona, Diabasis, Reggio Emilia 2014.39 Ibi, p. 117.

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meritevoli sul piano etico sono anche belli per il modo in cui vengono compiuti, c’è una forma elegante di fare del bene. Ma l’identità è ancora più sottile, e passa attraverso l’idea che è il bello ad essere amato. «Solo le persone possono essere belle essendo moralmente buone, dignitose, rette. Solo l’amore per un essere umano apprezza il bello della moralità»40, in questo senso non possiamo amare l’odio e perciò l’odio non può essere bello. Della bellezza come valore che emerge dallo sport fa parte la grazia e si parla perciò di gesti pieni di grazia. In Omero la grazia evoca la bellezza divina, qualcosa che sfugge e che abbaglia, uno splendore che attraversa i corpi e le materie, che sfiora l’umano, che esalta ciò che è nascosto e profondo. La grazia è una forma di bellezza spontanea. Dal paganesimo al cristianesimo è l’espressione di una perfezione e di una nobiltà creata senza sforzo, lo sconfinamento lieto del finito nell’infinito41. Se la grazia nelle arti è la giusta misura, nello sport è il movimento del nostro corpo e del nostro sguardo quando partecipiamo della vita del mondo: disinvolta e noncurante eleganza rispetto alle cose. Essa appare allora un dono contro il dolore che fonde ciò che è celeste e ciò che è terreno, l’umano e il divino. La consonanza dello spirito della natura, libera da legami, con l’anima, inafferrabile ma percepibile, la grazia è indefinibile ma quando la incontriamo sappiamo riconoscerla. C’è grazia là dove l’anima e il corpo sono in pieno accordo, quando la bellezza dell’anima è unita alla grazia sensibile.

L’ideale della grazia rimanda anche un altro dei valori educativi della pratica sportiva: il fair play. Il termine inglese per dire cavalleria e lealtà, dovrebbe essere quasi sinonimo dell’azione sportiva stessa. La fairness non è una richiesta semplice da esaudire, non c’è un codice, un insieme di regole che possa distinguere tra comportamento corretto e comportamento sportivo. C’è una fondamentale e paradossale affermazione del Taoismo che dice: «la suprema regola non è una regola». Questo vale per il comportamento morale e persino per quello religioso, per il Cristianesimo, ad esempio, esistono ovviamente comandamenti e regole morali ma la suprema regola è l’amore, quella che ha fatto dire a S. Agostino «ama, e fai quel che vuoi». Questa evidentemente non è una regola come le altre ma senza di essa le altre cadrebbero fatalmente nel precettiamo. Così è il fair play, non è una regola come le altre. Essa impone il rispetto delle norme e le regole di un gioco giocato correttamente ma rimanda anche alle regole non scritte e universali dell’umanità. Il fair play non vuole mai una vittoria a qualsiasi prezzo, accetta volentieri il rispetto per l’avversario sportivo e per il compagno. Laddove domina il fanatismo il fair play non è pensabile. É una forma di lealtà e onore indefinibile eppure essenziale perché lo sport sia, appunto, sportivo. É uno dei modi perché la vera aristocrazia dello spirito possa mostrare se stessa e la nobiltà d’animo possa farsi gesto. La nobiltà e il desiderio di eccellenza, non nel senso sociale del termine, potrebbe apparire come una costante antropologica se messa in relazione con la tendenza tutta umana a migliorarsi. La Paideia di Achille o di Pindaro hanno fatto del desiderio di «essere il migliore» il sinonimo dello spirito greco. Ma questo va sempre inteso correttamente. Il comportamento nobile, generoso, antiutilitaristico, non furbastro, sono propri della vera aristocrazia che è quella di chi non invidia niente, anzi, che esalta il valore educativo dell’ammirazione propri del gentleman e dello sportman.

Lo sport possiede poi un grande potere di inclusione e di integrazione ecco perché è un mezzo privilegiato per inserire anche persone disabili. Come mostrano le splendide esperienze di Special Olympics42 e delle Paralimpiadi, nello sport non ci sono diversi e non ci sono stranieri. Il gioco duro dell’integrazione rende possibile sia l’inclusione di persone diversamente abili che la integrazione interculturale. Anche se dello sport si è impadronito, in passato e ancora oggi, il nazionalismo aggressivo, c’è un potenziale sportivo che porta a distruggere i pregiudizi razziali e a vivere l’eguaglianza mondiale di tutti gli uomini. Il potere di pacificazione, l’utopia di un’umanità pacificata, appartiene allo sport. Il dialogo interculturale porta poi a cogliere ciò che unisce nella complementarietà grandi tradizioni come quella occidentale e quella orientale. La prima che separa la mente dal corpo, il dualismo cartesiano che si differenzia dall’ilemorfismo olistico della filosofia

40 Ibi, p. 133.41 R. Milani, Il paesaggio è un’avventura. Invito al piacere di viaggiare e di guardare, Feltrinelli, Milano 2005.42 T. Schriver, Pienamente vivi. La scoperta della cosa più importante, Itaca, Castel Bolognese 2016.

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greca, ha condizionato anche l’educazione fisica separata da quella intellettuale. Quella orientale che li vede invece uniti per cui la preparazione atletica si unisce con lo sviluppo delle virtù spirituali. Combinare spirito e corpo, unificando, su scala umana, la via dell’esperienza corporea orientale e quella occidentale.

Altri aspetti educativi dell’esperienza sportiva, ovvero che lo sport permette e sviluppa, sono il coraggio, sforzo, l’energia, la perseveranza. Nello sport c’è un’ovvia educazione del coraggio, della capacità di superare la paura e di misurare e sviluppare le proprie forze e le proprie risorse fisiche e mentali, allo scopo di superare ostacoli che spesso appaiono impossibili. La lezione più importante è quella di capire che ciò che conta è il porsi con la massima energia di fronte alla vita, in una sensazione quasi di salvezza. Il senso di pienezza che deriva da un lavoro ben fatto. Lo sforzo appare in questa luce come un profondo rinnovamento delle forze fisiche e spirituali, dell’anima e del corpo. Uno sforzo di questo genere permette di apprezzare meglio il rilassamento e il dolce abbandono dell’assenza di tensioni e preoccupazioni. É questo alternarsi di sforzo e abbandono, che si esaltano a vicenda, a rendere piacevole lo sforzo e intenso il riposo. Il gioco e lo sport insegnano anche una dote che sembrerebbe essere il contrario della festosa espressione della propria libertà: la perseveranza. Chi gioca impara a non darsi per vinto, impara la tenacia, la pazienza, l’impegno ripetuto. Impara a tener sotto controllo l’aggressività, perché, ad esempio, nei giochi di competizione un’eccessiva agitazione ci farebbe sbagliare. Ci sono poi il senso della sfida e quello della conquista. Parole usate, abusate e spesso manomesse dall’uso eccessivo, eppure parole necessarie. La sfida e la conquista intanto riguardano se stessi. Ma ci sono sport come la vela in cui il coraggio non implica la sfida: navigare con coraggio, senza atteggiamento di sfida, piegando la forza del mare e il soffio che viene dal cielo, piegando la forza della natura in un incontro con l’uomo. Spesso in molti sport, come l’alpinismo, si parla di «conquista dell’inutile». In realtà la conquista è quella di sé, in tutti i sensi e senza soluzione di continuità, dal self-control alla saggezza.

C’è poi il valore del rischio, una propensione innata, quasi una libido del rischio, che lo sport aiuta a rendere però calcolata e controllata. L’essere umano sente questa attrazione fatale per qualcosa di futile eppure pericoloso. Il rischio è fatto di paura e desiderio. La paura atavica dei predatori o del nemico, il desiderio che il cacciatore aveva della preda o del partner sessuale. Per il giovane adolescente che sente quasi come imperativo interiore la formula che dice “conquista la propria identità soltanto chi rischia di perderla», si espone al rischio e lo sport è una delle modalità migliori per assecondarla in maniera evolutiva ed educativa. Senza nulla concedere all’ideale astratto di virilità che confonde il rischio gratuito con l’audacia.

Un discorso ben più lungo e approfondito meriterebbe l’altro tema dell’educazione attraverso lo sport e parlo dell’agonismo e della competizione. L’uomo è un essere sociale con tendenze aggressive, per cui la collaborazione è innata anche se non stabile, così come la tendenza agonale. Sin dall’infanzia, egli appare come un essere teso al gioco competitivo con se stesso e con gli altri. Questo tema si collega ad un altro ancora più vasto che è quella della aggressività, tema che poi dilaga in ogni direzione, fino alla guerra. Accenno qui soltanto alla spiegazione etologica43. Essa cerca di integrare la teoria dell’apprendimento dell’aggressività, quella della aggressività da frustrazione, la teoria pulsionale (o dell’istinto) e il concetto di adattamento filogenetico. K. Lorenz ammette che l’aggressività intraspecifica sia una vera pulsione che però si collega al «sistema agonale» e questo si collega a sua volta al «sistema sinagogale», per cui la diffidenza per gli estranei è innata tanto quanto la curiosità e gli atteggiamenti amichevoli. La pulsione combattiva così come l’aggressività esplorativa, che hanno radici innate, evocano la necessità di trovare un contrappeso nel bisogno di limiti e di risposte di contenimento, di no. Senza limiti e divieti i bambini diventano più sfrenati e incapaci di autocontrollo nella loro aggressività. Come osservava

43 I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia umana. Le basi biologiche e culturali del comportamento, Bollati-Boringhieri, Milano 1993. In modo particolare il capitolo Il comportamento ostile intraspecifico: aggressività e guerra. Sulla collaborazione vedi R. Sennett, Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Feltrinelli, Milano 2012.

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genialmente T. Veblen, lo sport sostituisce la guerra e riesce a soddisfare il legame e la tensione, il divergente accordo tra istinto agonistico e bisogno di fraternità. Anche D. Morris, nelle geniali analisi della «tribù del calcio», evoca le arcaiche origini di questo gioco così popolare che vanno ricercate nelle abitudini dei nostri antenati cacciatori che per millenni hanno inseguito la preda. Dopo la sedentarizzazione agricola, «avevamo ancora bisogno delle sfide della caccia, dell’emozione della strategia, del rischio, del pericolo, e del grande climax dell’uccisione, e nella scrupolosa routine agricola non si poteva trovare nulla di tutto ciò»44. Per cui possiamo azzardare ad affermare che l’agonismo è probabilmente innato o comunque filogeneticamente acquisito con una funzione adattativa. La competizione trasforma l’agonismo in un sistema. In esso si trova il valore educativo dello sforzo e dell’incitazione ad andare oltre: «Non arrenderti! Ancora uno sforzo!, sei a un passo dalla meta!». L’incitamento al miglioramento e alla competizione, quantomeno con se stessi, è di origine atletica. Per cui lo sport può essere il luogo del vero agonismo. Non solo quello che non degenera, come abbiamo visto nella tesi di Nietzsche, nella cattiva contesa della guerra distruttiva, quello che non esacerba la competizione senza quartiere. Il rischio è che oggi ci venga ripetuto in ogni campo che dobbiamo competere. Se per alcuni ha un’accezione positiva, che richiama una possibile etimologia, cum-petere, ovvero cercare insieme, in generale è invece un invito alla gara continua in cui vediamo qualcosa che assomiglia ad una sportivizzazione della cultura e della società (molti politici si presentano come sportivi e in forma, quasi che la politica sembra piegarsi al modello dello sport), dove l’imperativo sportivo invade altri campi, cambiando però il significato e forse anche il segno, da positivo in negativo. Condividiamo una concezione agonistica dell’esistenza? Concepiamo l’esistenza come una gara incessante? Tutto è gara, valutazione, misurazione, classifiche, anche in cucina, master chef, anche a scuola e all’università. L’orgia delle classifiche (anche scolastiche ed universitarie) sembrerebbe confermarlo condannando le nuove generazioni, sin dall’infanzia, alla misurazione compartiva e competitiva. Dalla fitness al mantenersi in forma, tutta la lunga giornata diventa un lungo training, un immenso addestramento competitivo. A questo contribuisce sicuramente anche la concorrenza come cardine dell’economia capitalistica e liberistica, con il suo imperativo produttivistico e consumistico. Eppure l’estremizzazione della sfida, l’inseguimento del prestigio, il sogno della superiorità, che si accompagnano persino al disprezzo per il denaro, indicano che c’è una provenienza diversa, extraeconomica, magari da ricercarsi nell’ascesi di cui ha parlato Sloterdijk?45

Il modello agonistico sportivo sembra rafforzato anche dalla democrazia meritocratica: eguaglianza dei punti di partenza, abolizione dei privilegi, il merito personale come unico criterio. Questa è l’idea anche di giustizia sociale nella democrazia del merito, l’ideale di una gara corretta. A questo punto potrebbe essere utile ricordare che, se all’origine dell’uomo agonistico c’è il modello dell’uomo e della società greca, è necessario scrutare meglio in queste radici. L’uomo greco è un uomo agonale, un essere in perenne competizione. Nella Grecia omerica dominano quelle che A. McIntyre definisce le virtù delle società eroiche» secondo cui ciascun membro della società doveva eccellere in quelle che erano le qualità del suo rango e fare, fino alla morte, quello che doveva fare. La forza fisica, il coraggio, l’intelligenza sono annoverate tra le eccellenze. La vittoria e la sconfitta, il ricordo delle proprie gesta che echeggia nell’eternità e l’oblio della schiavitù e della morte, delimitano l’orizzonte delle possibilità. In realtà, osserva McIntyre, l’autore dell’Iliade, diversamente dai suoi personaggi, mette in discussione proprio che cosa vuol dire vincere e cosa vuol dire perdere. Fino al punto in cui la vittoria può essere una forma di sconfitta e quest’ultima può diventare l’occasione per una forma di vittoria. Questo tema viene poi sviluppato nell’Atene classica. La saggezza, Sophrosyne, è la virtù aristocratica di chi potrebbe abusare del suo potere e non lo fa. C’è un’altra virtù, la Esuchia, anch’essa una virtù aristocratica cantata da Pindaro, che è la serenità di spirito che spetta di diritto al vincitore di un combattimento quando si riposa dopo la lotta, ad essa si contrappone la Pleonexia, che è il nome di un vizio, il desiderio di avere di più. Questo è il vizio di Agamennone, il quale non ha mai voluto imparare la verità per

44 D. Morris, La tribù del calcio, Rizzoli, Milano 2016, p. 19.45 M. Jongen (a cura di), Il capitalismo divino, Mimesis, Milano 2011.

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insegnare la quale l’Iliade stessa è stata scritta. Egli vuole soltanto vincere e accaparrarsi i frutti della vittoria. Per lui il successo è l’unico scopo dell’azione «Per coloro che sono dominati dalla pleonexìa, l’àgon, la lotta, diventa una cosa del tutto diversa da quella che era nei giochi o per Pindaro. Diventa uno strumento della volontà individuale per raggiungere il successo e soddisfare i propri desideri»46. Quindi anche l’agonismo ellenico e la mistica della vittoria trovano un limite in se stessi. Per cui diventano legittime anche altre domande. Che ne è di chi perde? E che senso ha vincere, se alla fine saremo tutti sconfitti dalla morte? Qui si ripropone il problema del limite, del conosci te stesso» che per i Greci voleva dire «sappi qual è il tuo posto», non pensare di essere un Dio, per cui chi conosce il proprio limite non teme il proprio destino. Ma l’esercizio non è forse encomiabile? E il desiderio di perfezionamento non va elogiato? Sì, soprattutto nella competizione con se stessi, quando magari si ritorna a sé dopo che si è fatto squadra. Ma lo scopo della competizione non è vincere ma vivere una vita migliore, prendendosi cura della propria anima. Dovremmo comunque domandarci: che cosa si perde quando si vince? Dovremmo pure ridefinire il concetto di successo e di vittoria nella vita domandandoci «come abbiamo corso?», e non «come siamo arrivati?». Vincere allora può voler non solo essere il migliore, ma anche fare del proprio meglio.

É vero, lo sport in quanto gara e competizione produrrà sempre vincitori e perdenti ma guardando alla competizione da una prospettiva insolita come la teologia dello sport forse si può trovare il giusto sguardo. Al di la dell’attuale culto per la performance, e senza voler cambiare lo sport né strumentalizzarlo, si può ripensare lo sport in un momento in cui ha grande successo e ripensare il gioco in un momento in cui tutto è gioco. Si può re-immaginare lo sport, restituendolo a se stesso? Al di fuori dell’immaginario dei consumatori (rapporti di tipo finanziario e di pubbliche relazioni), dell’immaginario militare (lo sport come battaglia), dell’immaginario terapeutico o di propaganda (teso a raggiungere altri fini esterni), lo sport competitivo può essere reinventato. Come scrive L. Harvey, lo sport tra la grazia e il nulla, è un evento liminale paradigmatico, è un evento tenuto tra la vita di tutti i giorni e la eccezionalità ultraterrena. La vera competizione è quella della vita contro la morte, «per cui facciamo il tifo per la nostra squadra, perché non vogliamo morire (anche se per sapere che la morte è stata sconfitta dobbiamo andare in chiesa)»47. Nella vittoria celebriamo la vita che è più grande della morte. Nel culto della bravura, nella gloria mal riposta, nel luccichio della fama ci prendiamo troppo sul serio e la nostra giocosità viene corrotta. Ci illudiamo di essere degli dei e finiamo nel culto idolatrico di noi stessi. In questa prospettiva la vittoria diventa compatibile con la fratellanza universale, ed è possibile amare il prossimo mentre si cerca di batterlo in una partita di pallone. Così anche l’idea che lo sport sia la derivazione più diretta dalla guerra48, ovvero la prosecuzione della guerra o la preparazione alla guerra con altri mezzi, può essere messa in discussione anzi, forse si potrebbe parlare, al contrario, di una “sportivizzazione della guerra”49, in cui lo sport prova a rendere umano ciò che è disumano. La guerra è una corruzione dello sport. La guerra è una corruzione dello sport. Lo stato naturale è la pace? E nella

46 A. McIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Armando, Roma 2007, p. 177.47 L. Harvey, Breve teologia dello sport, Queriniana, Brescia 2015, p. 215. Secondo l’autore – ma è una tesi classica

– storicamente religione e sport sono strettamente intrecciati. I giochi erano nell’antichità intrecciati ai riti di passaggio (i giochi per la morte di Patroclo). Gli atleti divennero degli eroi. La passione per lo sport non è riducibile all’addestramento militare, anche se essa sarà spesso messa al servizio della guerra. I ludi romani erano eventi religiosi. Il vir doveva mostrare la propria virilità nella virtus militare sul campo di battaglia o nelle gare. Anche i giochi nel Colosseo erano eventi fondamentalmente sacri. Era un modo per imparare a morire bene. Gli spettatori erano più interessati all’atto del morire che al gesto dell’uccidere.

48 Sulla convergenza degli universi militare e agonistico vedi anche il recente P. Angeli Bernardini, Il soldato e l’atleta. Guerra e sport nella Grecia antica, Il Mulino, Bologna 2016.

49 Lo suggerisce l’episodio, diventato famoso, durante il primo conflitto mondiale, della Football Charge quando, nel corso della terribile battaglia della Somme, nel 1916, l’ufficiale Wilfred Nevill, uno sportivo provetto che aveva acquistato in licenza alcuni palloni da calcio, pensò di allentare la tensione e infondere coraggio nei suoi uomini lanciando, prima dell’assalto, la sfera di cuoio nella terra di nessuno, incitando i soldati a calciare i palloni verso le trincee nemiche. Fu una carneficina e Nevill stesso rimase ucciso nell’assalto. La sua unità raggiunse l’obiettivo anche se le truppe britanniche persero solo quel giorno quasi ventimila uomini.

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pace c’è una danza competitiva, non la guerra. Se la derivazione militare di alcune specialità sportive è evidente, lo sport, soprattutto le Olimpiadi, non hanno mai rinunciato a contribuire alla pacificazione (al disopra delle classi, delle nazioni e dei sessi, c’è la classe universale dell’umanità) e al potere di non disperdere l’utopia di una umanità pacificata (la pace olimpica). Lo sport, la competizione leale, parla una lingua universale che è capace di unire e non di dividere, di creare comunanza tra gli uomini, al di là di ogni discriminazione. Da questa prospettiva è possibile rifiutare l’alternativa tra gioco e prestazione. In molte discipline il momento ludico è un elemento della prestazione, e la prestazione è il presupposto in molti campi di un gioco efficace. Si può riavvicinare il dilettante, lo sportivo amatoriale e i campioni. Anche questi ultimi, se sono realmente dei grandi campioni, sono in fondo dei genuini dilettanti che conservano la soddisfazione per la prestazione sportiva in sé anche se partecipano allo sport professionistico. Il dilettante e il professionista: ciò che li unisce è l’esigenza del fair play e della schiettezza, il ragionare secondo i principi dello sport mantenendone integri gli aspetti morali e spirituali. In questa sommaria perlustrazione dei valori educativi dello sport sottolineo un ultimo aspetto. Tutti conoscono la battuta cinica «vincere non è importante. É l’unica cosa»50, come tutti ricordano l’altra dura sentenza, attribuita a Enzo Ferrari, che «il secondo è il primo degli ultimi». Forse però è meno nota la definizione di successo data da uno scrittore: il «successo è il participio passato del verbo succedere». Così l’orgoglio è ridimensionato. Questo serve a ricordarci che, nelle competizioni sportive come nelle prove a cui la vita ci sottopone, le sconfitte sono sicuramente più numerose delle vittorie. Allora uno dei valori educativi fondamentali dello sport è quello di imparare a perdere con grazia. Non si tratta solo della nobiltà della sconfitta, né del semplice rispetto per colui che perde e forse neanche il solo saper affrontare il proprio insuccesso personale senza sentirsi necessariamente falliti, ma ritrovando l’energia e la concentrazione per provarci di nuovo. Dentro la sconfitta, ma anche dentro la competizione e persino dentro la vittoria, c’è la scoperta umana del limite, della lotta contro il limite, dell’apprendere dai propri limiti. Ecco che appare nella sua giusta luce pedagogica la sapiente affermazione di C. G. Jung secondo il quale «non si può mutare nulla che non si sia accettato»51. L’accettazione del limite è il presupposto di ogni miglioramento. É solo scoprendo il proprio limite che si inizia a migliorare. Capovolgendo la crudele verità storica che ha sempre affermato che «ha ragione chi vince», possiamo scoprire che chi perde dopo essersi battuto fino in fondo possiede più onore, più nobiltà, più generosità, più meriti. Non c’è alcun avversario da sconfiggere al di fuori di noi. Era solo un gioco. Questa è la grande bellezza dello sport.

50 É attribuita a Vince Lombardi, allenatore negli anni ‘60 della squadra di football americano dei Green Bay Packers.

51 Psicoterapia e cura d’anime, in C. G. Jung, Psicologia e religione, Opere, Bollati-Boringhieri, Milano 1950, p. 321, vol. 21.