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Anno XIII - N° 2, aprile-giugno 2018 Periodico di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina www.circoloathena.com AAnno XIII - N° 2 laprile-giugno 2018- Autoriz. Trib. di Lecce n.931 del 19 giugno 2006 - Distribuzione gratuita

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Anno XIII - N° 2, aprile-giugno 2018

Periodico di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina

www.circoloathena.com

AAnno XIII - N

° 2 laprile-giugno 2018- A

utoriz. Trib. di Lecce n.931 del 19 giugno 2006 - D

istribuzione gratuita

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SOMMARIO

Lasciatemi qui fra i miei campi

che ho vangato, arato e seminato

per tutta la vita,

nella mia casa,

piena di crepe e di fessure,

dove anche gli stracci

profumano di buono.

Qui tra le mie mura e la mia gente

anche un povero contadino come me

con la faccia arrostita dal sole,

si sente un Re.

E quando verrà la mia ora,

portatemi in fondo al campo

sotto una manciata di terra che

mi farà da coperta e cuscino;

lì potrò sentire ancora

l'odore della stalla,

il profumo del fieno,

il canto del gallo al mattino

e i cri-cri dei grilli la sera,

e mi troverò bene

come un nòcciolo in una ciliegia”.

Anonimo

Dedicata a tutti gli uomini che non hanno mai abbandonato la propria terra

Redazione Il filo di Aracne

L A S C I AT E M I Q U I

COPERTINA: Galatina (LE) - Ex Convento Santa Chiara - Veduta del porticatoph. Salvatore Chiffi

I Quadernetti di AthenaIL VIAGGIO DELL’ANIMAdi Rino DUMA 4

Extra moeniaLA MANIPOLAZIONE DEL SAPERE...di Giuseppe MAGNOLO 8

Donne nella storiaIPAZIA ASTRONOMA E FILOSOFA MATEMATICAdi Maurizio NOCERA 12

Risorgimento salentinoLE SETTE RIVOLUZIONARIE DELL’OTTOCENTOdi Carlo Vincenzo GRECO 16

Letterati salentiniGALATINA “GALATEANA”di Vittorio ZACCHINO 18

In novo vetusLATINO VIVOdi Fernando VINSPER 22

Usanze e costumi salentiniIL SALENTO DELLE LEGGENDEdi Antonio MELE/MELANTON 24

Storia delle IstituzioniPROVINCIA. IL VENTO DELLA RIFORMAdi Chiara PATERA 26

C’era una voltaLA RUOTA DELLA LIBERTÀdi Emilio RUBINO 28

Galatinesi illustriIL MONUMENTO A GIOACCHINO TOMAdi Rosanna VERTER 30

Pietre sacre e magicheLE PIETRE “MAGICHE” DEL SALENTOdi Adriano MARGIOTTA 32

Storia cittadinaLE MICROSTORIE DELLA CUCCUVASCIAdi Gianfranco CONESE 34

Terra nosciaNORMANDISMI, PROVENZALISMI,...di Piero VINSPER 37

Una finestra sul passatoCOGNOMI DI GALATINA A METÀ DEL ‘700di Alessandro MASSARO 38

Historia NostraPRISONER OF WARdi Salvatore CHIFFI 43

Gli articoli rispecchianoil pensiero degli autori enon impegnano assolu-tamente la Direzione.

Tutte le collaborazionisi intendono a titolo

gratuito.

Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina, edito dal Circolo Cittadino “Athena”Corso Porta Luce, 69 - Galatina (Le) - Tel. 0836.568220 info: www.circoloathena.com - e-mail: [email protected] del Tribunale di Lecce n. 931 del 19 giugno 2006. Distribuzione gratuitaDirettore responsabile: Ada DonnoDirettore: Rino Duma Vice direttore: Giuseppe MagnoloCollaborazione artistica: Antonio Mele/Melanton Redazione: Salvatore Chiffi, Gianfranco Conese, Pierlorenzo Diso, Giorgio Liaci, Adriano Margiotta,

Antonio Mele ‘Melanton’, Maurizio Nocera, Pippi Onesimo, Chiara Patera, Rosanna Verter, Piero Vinsper

Impaginazione e grafica: Salvatore ChiffiStampa: Editrice Salentina - Via Ippolito De Maria, 35 - 73013 Galatina

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Premessa

Nell’arco della propria vita ognuno di noi (chi più,chi meno, chi sempre) effettua dei viaggi. Nessu-no si sottrae al desiderio di venir fuori dal proprio

luogo, di trovarsi a contatto con altre genti, di esplorarenuovi territori e vivere esperienze diverse. Ci sono viaggidi breve o di lunga durata, di piacere oppure di lavoro o dinecessità: tutto dipende dalla natura del viaggio che s’in-tende compiere. Pur nella loro diversità, tutti condividonoun’unica caratteristica: non c’è viaggio, infatti, che non ab-bia come denominatore comune il ritorno nel luogo di re-sidenza.

Dei tanti esempi di viaggi ricorrenti nella letteratura, nel-la storia, nei miti, mi va di riprendere quello presente inuna delle maggiori opere letterarie italiane, sul quale èsem-pre bene tornare per riconfortare il cuore dai notevo-li pesi della vita e farsi un bagno di scolastica memoria. Miriferisco al romanzo “IPromessi Sposi” del Man-zoni, il quale descrive, inun passo lirico molto toc-cante, che ha il sapore piùdi poesia che di prosa, ildistacco di Lucia da Pesca-renico per sfuggire allevogliose mire di Don Ro-drigo.

Il romanziere raccontatestualmente nell’ottavocapitolo dell’opera: “Quan-to è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Allafantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, trattodalla speranza di fare altrove fortuna […] e tornerebbe allora in-dietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso”.

Anche Lucia Mondello, nonostante pronunci più voltela parola “Addio!”, spera di tornare nel paesello natio, di en-trare da sposa nella chiesa, dove l’animo tornò tante volte se-reno, e di abitare nella casa ancora straniera, casa sogguardatatante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore.

Non mancano altri esempi, come quelli di Marco Polo,di Ulisse, di Colombo, Cook, Magellano, Stanley, Livin-gstone, Scott, Amundsen, Darwin, Nobile, tutti accomu-nati dalla sete di avventurarsi, di esplorare, di scoprire, diconoscere.

Identico discorso si può fare per i migranti italianidell’800 e dei primi del ‘900 (in gran parte meridionali) eper quelli dei nostri giorni, tutti costretti ad abbandonarela propria terra per sfuggire alla fame, alle malattie, agliorrori, alla guerra, alla morte. Anche per loro non si spen-se e non si spegnerà mai il desiderio di poter tornare ungiorno nel luogo di origine, richiamati dagli affetti a loropiù cari e dall’amore per il paese natio.

Tutti i viaggi mantengono la connotazione del “ritorno”,tutti tranne uno, esattamente quello che ognuno di noi af-fronterà dopo il saluto terreno.

Cos’è l’anima?Sin dai primi albori della vita sensitiva e presso tutte le

genti, l’uomo, per cercare una risposta al desiderio di con-tinuare a vivere anche dopo la morte, si è posto il dilemmadell’anima e della sua esistenza. Le varie religioni, ma an-che i numerosi filosofi e teologi di ogni tempo, hanno pro-

posto differenti ipotesisulla sua natura, ma anchesulla sua esistenza.

Il nostro corpo, si sa, ter-mina il viaggio vitale conla morte. Ciò che rimane dinoi resta su questa dimen-sione terrena e va a dissol-versi lentamente. Siamoperò sicuri che la nostraconsistenza si perda deltutto con la morte? Oppu-re c’è qualcosa di noi che

viaggia in un eterno divenire? Per esigenza innata, l’uomo si è inventato un’entità

astratta, alla quale ha dato il nome di “anima”, che ci ac-compagnerebbe sin dalla nascita e che sopravvivrebbe alsaluto terreno. Il termine è di derivazione greca e significa“vento, soffio”. L'anima sarebbe “un’essenza incorporea”presente in tutte le persone ed è talmente inspiegabile e in-descrivibile che gli antichi, per indicarla, ricorsero all'ideadel vento, il quale, non essendo visibile, è giustificato da-gli effetti che provoca: un aquilone che svolazza, una nu-vola che si sposta lentamente, una finestra che sbatte, unmare in tempesta, ecc.

C’è tutta una filosofia che ruota intorno a questa affasci-nante e misteriosa figura. Numerosi sono i pensieri degli

4 Il filo di Aracne aprile/giugno 2018

QUADERNETTI DI ATHENA

Lucia e Renzo lasciano Pescarenico

Dedicato a Mariateresa Merico

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studiosi, che necessariamente vanno distinti e raggruppa-ti in due grandi correnti: quella dei negazionisti da unaparte e quella dei possibilisti dall’altra.

I negazionisti sostengono che la vita si sia generata spon-taneamente per Puro Caso dalla sintesi di alcune proteinepresenti nello spazio siderale, le quali via via, aggregan-dosi in maniera sempre più articolata, hanno dato vita adorganismi complessi. Per i negazionisti, ogni organismocesserebbe di vivere con la morte, senza lasciare alcunatraccia di sé e senza che di essi sopravviva alcuna ‘entitàsoprannaturale’. Punto.

I possibilisti, invece, ammettono la presenza di un ‘flui-do energetico’ (anche se lo spiegano in svariati modi) chesopravvivrebbe al nostro trapasso.

La teoria del “Puro Caso”A mio avviso, per dare una risposta plausibile al grande

dilemma, occorre porsi alcune domande sul meccanismo osul Principio Ordinatore della vita. E’ un punto di parten-za di fondamentale importanza. Solo svelando l’arcanocongegno che innesca il fenomeno vitale, l’uomo potràspiegarsi da dove provenga la vita e a quale destino sia in-dirizzata l’anima. Se prevarrà la teoria del “Puro Caso”,ogni parte di noi, comegià sostenuto, cessa di vi-vere con la morte.

Questa ipotesi, sempli-cistica e sbrigativa, perme non regge. Spieghia-mo le ragioni. La proba-bilità che tale fenomenopossa verificarsi, cioè chele so- stanze primordialiabbiano potuto interagi-re tra di loro per puro ca-so dando luogo alla vita,è rappresentata da 1 pos-sibilità contro 1040.000 . Perdeterminare il valore ditale potenza, bisogna ri-petere 40.000 volte il numero 10 e moltiplicarlo per se stes-so. Verrebbe fuori un numero lunghissimo cheoccuperebbe almeno 8 pagine di questa rivista. Il valoreottenuto spiegherebbe soltanto la possibilità di formazio-ne di un insignificante organismo unicellulare: possibilitàtroppo esigua! Se, invece, si prende in considerazione il‘genoma umano’, è stato calcolato che la probabilità lega-ta alla sua formazione, partendo dai gas primordiali, è rap-presentata da 1 possibilità contro 10 elevato 12 milioni! Perscrivere il risultato di tale potenza non basterebbero 40 del-

le nostre riviste, in cui si riverserebbe il numero 10 segui-to da un’infinità di zeri. Come dire che la teoria del ‘PuroCaso’ non risolverebbe il problema, perché vicina all’assur-dità.

Il fisico inglese di fama internazionale Paul Davies ritie-ne che l’origine della vita non sia affatto un miracolo, inquanto si vive in un universo predisposto alla vita, dal ca-rattere mirabilmente ingegnoso. Secondo lo scienziato, in-fatti, il cosmo sarebbe popolato sino all’inverosimile dadiverse forme di vita. A questa stessa conclusione sono ar-rivati molti studiosi, i quali sostengono che la vita non puòessere considerata come “un bizzarro accidente chimico tra igas primordiali”.

La teoria della “Genesi dallo spazio”Vi sono diverse teorie che spiegherebbero la presenza

della vita nell’universo. Delle tante, prendiamo in consi-derazione quella che va per la maggiore, cioè la teoria del-la Genesi dallo spazio, che ci sembra più verosimile erispondente ai tanti interrogativi che si sono posti gli stu-diosi.

Tale teoria considera la possibilità di un universo autor-ganizzato e governato da determinate leggi intrinseche,che favoriscono l'evolversi della materia in direzione del-la vita e dell'intelligenza. Un universo, quindi, “connotatoda una volontà pensante e onnipresente”. Si sta ammettendo,in pratica, che nello spazio cosmico ci sarebbe un PrincipioOrdinatore impersonale e immanente, cioè connaturatoall’universo e a tutti i corpi celesti in esso presenti.

Lo spazio siderale, in pratica, sarebbe un’entità comples-sa, la cui regia (impersonale e quindi non divina) non fa-rebbe capo ad un’unica mente pensante, bensì sarebbeequidistribuita in tutte le parti dello stesso. Parti che, por-tando con sé le informazioni necessarie a far scaturire lavita, sarebbero collegate tra loro da un meccanismo che in-

nesca numerosi cicli di produzione, decadimento e ripro-duzione perenne ed uniforme.

Va aggiunto che nel corpo di ogni organismo è presenteun procedimento universale, il quale concorre alla suacreazione, lo fa vivere e declinare sino alla morte, per poiconsentire allo stesso, sotto mutevoli sembianze, di rico-minciare il ciclo innumerevoli altre volte. Si dia uno sguar-do al di fuori del nostro mondo e ci si accorge che ognicosa nasce, vive (seppure osservando tempi diversi) emuore. L’esempio classico ci è fornito dalla morte di una

aprile/giugno 2018 Il filo di Aracne 5

Particelle primordiali

...e quando in terra si spegne ogni face, di Dio in cielo sfavilla eterna pace

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stella, da cui si generano nuove stelle, pianeti ed organi-smi: ogni cosa è racchiusa in un ciclo cosmico preordina-to, che si srotola in un identico e perenne divenire.

Non sarebbe solo la materia a seguire questo ripetersi disequenze, ma anche ciò che gli studiosi di ogni tempo han-no definito “anima”, la quale è configurata come “un’en-tità primigenia intellegibile e migrante”. E’ come direche, accanto ad “una vita a tempo” (il corpo), troverebbe po-sto “una vita incorruttibi-le” (l’anima). In pratica,dopo ogni morte, l’ani-ma tornerebbe al Princi-pio Ordinatore, dalquale verrebbe immessain un nuovo ciclo vitale.

Stiamo parlando, pe-rò, di un’anima imma-nente, cioè radicataesclusivamente all’uni-verso, e non certamentedi un’anima trascen-dente o spirituale.

Pur non confortati dauna chiara risposta scientifica, sono in molti a credere fer-mamente nella presenza dell’anima. Se la sentono dentroche esiste e scalpita, soprattutto in quei momenti in cui siavverte la necessita di stare un po’ con se stessi, di porsialcune domande e darsi delle risposte, insomma di fare unesame introspettivo. E allora ecco che ci si sente immersi inun’energia strana, leggera e conturbante, che pulsa in ogniparte del corpo, scivola dentro, scorrendo nelle vene. E’

una energia che a volte ci rimprovera per un errore com-messo, per un torto fatto, per un incidente di percorso malprogettato, ma che in altre circostanze si congratula perun’iniziativa che ha sortito buoni frutti, per un dono fattoa chi ne aveva bisogno, per una gentilezza sopraffina rega-lata nel momento giusto. Si comporta al pari di un giudi-ce severo, sereno, sincero, che condanna e ferisce, sicompiace e plaude.

E’ una voce, prove-niente dalle parti piùintime di ognuno dinoi, che i più scetticichiamano coscienza,ma che in effetti èl’anima, che in un pre-ciso istante avverte ilbisogno di dialogarecon noi. Va detto cheanche questo argomen-to è molto dibattuto.

Sono in tanti gli scien-ziati che aderiscono allateoria della Genesi dal-

lo spazio e della presenza nella struttura dell’universo diun Principio Ordinatore impersonale e immanente.

La teoria del Principio Ordinatorepersonale e trascendente

La mia esigenza spirituale mi spinge a scrutare oltrel’aspetto immanente e, quindi, a proiettarmi al di là del-lo scibile umano per una ragione di fede, che mi è sboc-ciata dentro in questa mia tarda età, dopo sofferte e

6 Il filo di Aracne aprile/giugno 2018

L’anima in viaggio

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lunghe riflessioni. Pertanto non posso, né riesco a fermarmi al

solo aspetto immanente della vita, perché sa-rebbe come costruire un ponte a metà, senzapossibilità alcuna di accedere nella parte oppo-sta. Sono dell’avviso che oltre al Principio Or-dinatore impersonale immanente, ci sia lapresenza di un Principio Ordinatore persona-le trascendente, che regola e sopraintende adogni cosa: personale, in quanto è riferito a Dio,inteso come un’entità senza tempo e senza luo-go, trascendente, perché è al di sopra di tutte lecose tangibili e spiegabili. Come dire che in noiè presente un’anima spirituale che, alla mortedel corpo, abbandona il contesto cosmico perentrare in una condizione di vita trascendente.

Tale concezione mi spinge a considerare l’ani-ma esclusivamente come “puro pensiero”, cheporta con sé un carico di informazioni relative alla vita ter-rena, appena conclusa. Ed è appunto con questo pesantebagaglio che ognuno di noi si presenterà a “colui che tuttopuote” per essere giudicato meritevole o meno della vitaeterna in Paradiso, inteso come uno stato, cioè come una

condizione dell’ani-ma, e non come unluogo, in senso fi-sico.

Pertanto, amicilettori, è impor-tante imparare avivere per benmorire, medianteun esercizio quoti-diano dello spiritoverso una “vita sa-na”, che ci consen-tirà di essere benpreparati al di-stacco terreno inqualsiasi momen-to. Tutto ciò com-porterà la più altapurificazione del-lo spirito, grazie

alla quale ci sarà garantito di godere dell’eternità. Eternitàche spetta esclusivamente a chi se l’è costruita, e quindimeritata, durante la vita terrena.

A tal proposito, così si esprime il teologo Vito Mancuso1:“Chi, nel tempo che gli è stato dato, ha raggiunto la forma so-vrannaturale dell’essere, quando muore nel corpo vi permane conl’anima, che continua a vivere nella dimensione beata”.

Pensieri di alcuni grandiIl 24 gennaio 1936 Albert Einstein rispondeva a un ra-

gazzo, che gli aveva chiesto se esistesse l’anima: “Chiunquepuò convincersi che un qualche spirito, molto superiore a quellodell’uomo, è manifesto nelle leggi dell’universo”. Tre anni do-po aggiungeva che: “La scienza senza la religione è zoppa, lareligione senza la fede è cieca”. Ed ancora in un’altra circo-stanza: “L’esperienza più bella e profonda che un uomo possaavere è il senso del mistero: è il principio sottostante alla religio-sità. Chi non ha mai avuto questa esperienza mi sembra che sia,

se non un morto, almeno un cieco”.Da parte sua Immanuel Kant riteneva che “…la persona,

anche se il suo corpo resta morto sulla terra, può continuare avivere e l’uomo, in quanto spirito, può raggiungere la sede deibeati”.

Concludo questa prima parte facendo mio un altro pen-siero di Vito Mancuso2, il quale afferma: “Se l’anima compieil medesimo lavoro del Principio Ordinatore trascendente, ilcui prodotto è la vita, vivrà… (in Paradiso – N.d.R.). Se l’ani-ma spirituale volutamente non compie il lavoro del Principio Or-dinatore, avrà un destino opposto all’ordine che ha rifiutato. E’ciò che le religioni chiamano Inferno. […] Se l’anima spiritua-le compie solo in maniera imperfetta e saltuaria il lavoro del Prin-cipio Ordinatore, necessiterà di un’ulteriore purificazione. E’ ilPurgatorio, che si estrinseca attraverso la reincarnazione”.

Perciò, ritengo che soltanto l’amore, rivolto continua-mente al Bene dell’uomo e della natura, sia lo strumen-to necessario per purificare lo spirito ed elevarlo almerito della “vita eterna”, piuttosto che, schiacciato dalpeso dei peccati, sia costretto ad una continua trasmi-grazione o, peggio ancora, precipiti nell’orrido pozzo dacui il risalir è vano. ●

Note:1-2. “L’anima e il suo destino” – Vito Mancuso – Raffaello Cortina editore.

Vito Mancuso Rino DumaFINE 1^ PARTE

Raffigurazione dell’anima

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Civiltà ed evoluzione. La storia della civiltà umanapuò considerarsi come un processo di evoluzioneinarrestabile, rivolto a produrre dei cambiamenti

per il meglio. Anche quei periodi che vengono considera-ti fasi di ristagno o di apparente regresso, di fatto prelu-dono ad ulteriori modifiche migliorative, che vengonoraggiunte grazie agli sviluppi della scienza e della tecno-logia. È davvero confortante pensare che ad ogni istantel’ingegno umano è in fermento alla ricerca spasmodica diraggiungere nuovi traguardi, superando i limiti ad essoimposti in parte dalla natura e le sue leggi fi-siche, in parte dall’ignoranza che spessofrappone ostacoli enormi all’afferma-zione di ciò che è nuovo e può con-fliggere con le consuetudini pre-esistenti. Due fattori in partico-lare attestano inequivocabil-mente il conseguimento di uncontinuo progresso per l’inte-ra umanità: il prolungamentodella durata media della vita el’enorme incremento della po-polazione mondiale, conse-guenze entrambe di miglioricondizioni di vita dal punto divista igienico-sanitario, nutri-zionale, lavorativo, ambientale evia dicendo.

Il progresso e il suo rovescio. Bi-sogna tuttavia osservare che vi sono al-cuni elementi che compromettono, oalmeno relativizzano, la portatadi tali risultati positivi. In pri-mo luogo si può notare la disparità fra i diversi gruppi diindividui che possono essere influenzati dagli effetti delprogresso, per cui accade che alcuni ne traggano gran be-neficio, altri meno o persino danno. Inoltre non va dimen-ticato che qualunque avanzamento della scienza e dellatecnologia comporta anche degli effetti negativi. Pensiamoad esempio agli enormi benefici prodotti dalla rivoluzioneindustriale nel rendere meno gravoso il lavoro umano, manel contempo all’inquinamento ambientale risultante daifumi, le scorie, i liquami e i vari scarti prodotti dalle indu-strie, per non parlare dell’inquinamento acustico causato

dal funzionamento dei congegni meccanici. Altrettanto di-casi della ricerca medica, che ha agito positivamente con-sentendo di curare malattie che un tempo erano mortali,ma ha anche permesso l’uso di tali metodologie per pro-durre armi chimiche e batteriologiche con esiti terribilmen-te distruttivi. Gli effetti ambivalenti della scienza siverificano in molti settori di sviluppo, dall’energia atomi-ca alla robotica, dalle nanotecnologie all’ingegneria gene-tica, fino all’ultima frontiera attualmente rappresentatadagli studi sull’Intelligenza Artificiale, le cui applicazioni

sono in grado di generare delle macchine pen-santi che non solo riescono a conseguire

prestazioni impossibili per qualunquemente umana, ma potrebbero giun-

gere a riprodurre sé stesse, met-tendo a repentaglio la stessa

sopravvivenza del genereumano.

Le meraviglie del digitale.Sviluppatasi in modo diffusivonegli ultimi decenni del secoloscorso, la tecnologia informati-ca ha veramente rivoluzionatoil modus vivendi praticamentein tutto il pianeta, in particola-

re nei paesi più avanzati e so-prattutto per le nuove genera-

zioni, che hanno maggiore dime-stichezza con i softwares applicativi

della rete. Oggigiorno si comunica on-li-ne con Twitter e Facebook, si ottengono infor-

mazioni tramite Google, si fannoacquisti su Amazon e e-Bay, ci si

scambia foto con Instagram, si condivide musica con YouTube e Spotify. Inoltre è possibile prenotare un taxi a buonmercato con Uber, oppure scaricare un film con Netflix.Molte attività vengono svolte attraverso Internet, come laprogrammazione delle vacanze (TripAdvisor), operazionibancarie (Homebanking), o la ristorazione a domicilio (Fee-dora), per non parlare del telelavoro, che si può espletarestando a casa o in un posto qualsiasi, purché collegati in re-te. Soprattutto nel settore dei servizi il fenomeno della de-localizzazione è sorprendente. Pochissimi immaginano,per esempio, che le prenotazioni dell’Hilton Hotel di New

8 Il filo di Aracne aprile/giugno 2018

EXTRA MOENIA

Galileo Galilei (1564 - 1642)

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York vengano gestite da un team di operatori informaticiche si trova in India a New Delhi.

L’invadenza dei networks e il vaso di Pandora. A fron-te di un indiscutibile miglioramento connesso ai vantaggidella comunicazione veloce offerta da Internet, esistono an-che degli effetti assai negativi. Vale la pena di esaminarnequalcuno, partendo da una notizia clamorosa, diffusa ametà marzo 2018, che ha rivelato come Cambridge Anality-ca, un’azienda inglese di servizi informatici, ha utilizzatoinformazioni riservate su alcuni utenti di Facebook1, per ri-cavarne dei profili da utilizzare per scopi commerciali op-pure promozionali in ambiti particolari. A tutta prima talenotizia è sembrata un segreto di Pulcinella, dato che lamaggior parte dicoloro che naviga-no su Internet san-no bene che, unavolta immessi nel-la rete, i loro dati etutto ciò che vieneda essi postato so-no fuori controllo epossono facilmen-te essere richiamatie ricontestualizza-ti. Infatti la casamadre che gestisceil motore di ricercaè in grado, me-diante l’uso di unalgoritmo2, di rie-laborare le informazioni sull’utente in suo possesso. Que-ste possono riferirsi ad aspetti disparati, dai suoi gustimusicali alla tipologia degli acquisti fatti on-line, dalle con-vinzioni politico-religiose alle mete scelte per le vacanze, ecosì di seguito fino a riguardare aspetti assai riservati del-la sua vita privata. L’elemento sconcertante in questa vi-cenda è costituito dall’ammontare enorme degli utenti i cuidati sono stati elaborati e ricontestualizzati (al momentole cifre indicano circa 87 milioni di persone coinvolte, pre-valentemente negli USA), venendo poi utilizzati per in-fluenzare con messaggi ingannevoli l’esito di consultazionipolitiche importanti, come la Brexit nel Regno Unito e lacampagna presidenziale USA nel 2016. Le rivelazioni suquesti gravissimi retroscena si sono diffuse repentinamen-te, scoperchiando una sorta di vaso di Pandora, che ha pro-vocato la caduta delle quotazioni in borsa dei socialnetworks, e un affannoso abbandono da parte di molticlienti, che comprensibilmente diffidano della riservatezzadi tutto ciò che li riguarda.

Le fonti e la manipolazione del sapere. Giova dunquesoffermarsi a riflettere in modo complessivo su come In-ternet abbia radicalmente mutato le modalità di trasmis-sione del sapere, e come l’informazione offerta agli utentirisulti ampiamente fuori controllo. Per millenni, a partiredagli inizi della memoria storica fino alla rivoluzione infor-matica, la conoscenza umana è sempre stata trasmessa inmodo diretto, ossia oralmente oppure in forma scritta me-diante libri, documenti o supporti materialmente control-labili. Sia l’informazione orale che quella scritta avevanodue caratteristiche che in qualche modo ne garantivano

l’autenticità: la prima era la certezza della fonte (chi parla-va o chi sottoscriveva il documento); la seconda era la pos-sibilità di un preciso riferimento cronologico (il momentodel pronunciamento orale, o la datazione del documentoscritto). Entrambi questi aspetti sono di fondamentale im-portanza per accertare la contestualizzazione storica e l’af-fidabilità dell’informazione, che è chiaramente ricon-ducibile al suo autore, il quale ne risponde in toto. Ricor-diamo come in alcuni periodi storici gli autori di afferma-zioni o scritti ritenuti non conformi alle opinioniufficialmente professate siano stati addirittura perseguita-ti. Citiamo due casi fra molti: Giordano Bruno e GalileoGalilei3. Invece si constata che l’anonimato e l’assenza di

riferimenti cronolo-gici è ciò che gene-ralmente caratteriz-za l’informazionediffusa tramite In-ternet. Inoltre la re-te ha incoraggiatofortemente la ma-nipolazione dell’in-formazione, dandola stura a varie for-me di falsificazio-ne, intesa non nelsenso proposto daKarl Popper4, ossiacome criterio di ve-rificabilità di unateoria scientifica,

bensì come pura alterazione o negazione della verità fat-tuale. Le “bufale” che corrono sui networks vanno dallasemplice tendenziosità fino alla spudorata menzogna ri-volta a negare verità sgradite, o a gettare nel discredito lareputazione di alcune persone. Ormai le fake news (notizieingannevoli) sono all’ordine del giorno, e molti utenti so-no costretti ad avere una percezione distorta di quanto av-viene, salvo poi a constatarne la smentita quando ormai ètroppo tardi5.

Comunicazione istintiva ed irriflessa. Occorre anche es-sere consapevoli di un altro effetto negativo connesso allacomunicazione veloce, ossia il suo carattere di precarietà eimprovvisazione. Si pensi alla differenza profonda fra icontenuti e la forma espressiva che viene adoperata in undiscorso organicamente concepito e curato nel lessico, inquanto rivolto ad un pubblico presente o in qualche modocontrollabile, rispetto ad un messaggio trasmesso tramiteTwitter, che, essendo indirizzato a lettori anonimi, ha sem-pre un carattere immediato, legato ad una particolare cir-costanza, e può essere smentito da un nuovo messaggio, ecosì a catena con la smentita della smentita. Non per nul-la è questa la forma di comunicazione attualmente prefe-rita da alcuni politici o leader mondiali, primo fra tutti ilpresidente americano Donald Trump, che mediamentetwitta 10 volte nel corso della giornata, tenendo sulla cor-da gli utenti che lo seguono, e facendo leva sulla loro rea-zione istintiva più che sulla riflessione ponderata6.Addirittura qualche politologo ha teorizzato l’utilizzo diInternet per realizzare la cosiddetta “democrazia diretta”(da alcuni definita “popolocrazia” per distinguerla dalla

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Karl Popper (1902 - 1994)

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democrazia rappresentativa), una forma di governo basa-ta sulla consultazione immediata e continua del popolo so-vrano, considerata preferibile rispetto alle lungagginiimposte dalle procedure parlamentari, che hanno riti etempi assai lontani dal decisionismo estemporaneo gradi-to ai leader populisti7.

L’evidenza dimostra invece il carattere elitario dei parti-ti politici e i movimenti che decidono in base a consultazio-ni in rete, perché di fatto tali procedure limitano la facoltàdi partecipazione a coloro che sanno fare uso degli stru-menti informatici. In tal modo avviene che una minoran-za assai ridotta decida per tutti. In realtà la rete crea unaclasse di esclusi, come avveniva per gli idiotes, coloro chenell’antica Grecia vivevano come privati cittadini, nonavendo accesso alle cariche pubbliche.

L’inganno della nuova agorà. È facile comprenderecome l’opportunità di contatti ampi e frequenti, apparen-temente offerta da Internet, finisca col rivelarsi una trap-pola disseminata di molte insidie. Anziché una nuova emoderna agorà che, annullando qualunque distanza, per-mette a tutti di incontrarsi e discutere per affrontare qual-siasi problema e risolverlo di comune accordo, si deveconstatare che l’uso della rete informatica comporta variinconvenienti. Oltre ai pericoli derivanti dall’inattendibili-tà dell’informazione, vi è l’uso distorto di dati personalisensibili carpiti all’ignaro utente, e la sua esposizione a sol-lecitazioni mediatiche che, facendo leva sulle sue paure oi suoi bisogni, lo incitano ad assumere atteggiamenti di in-sofferenza e di odio verso chi è ritenuto responsabile deisuoi mali. Come le folle incattivite di una piazza, anchemolti utenti di Internet sfogano il loro astio affidandolo a

messaggi e commenti fatti di insulti ed invettive mirate so-prattutto a fare scalpore e richiamare l’attenzione su chi neè l’autore. Di fatto mediante la rete si è ritornati ad una for-ma ancora più subdola dell’antica propaganda, incentratasulla ricerca del capro espiatorio e del consenso carpitoscreditando l’avversario reale o presunto. Se a questo si ag-giungono le devianze offerte su Internet dalla pornografia,la sollecitazione verso crimini abietti come la pedofilia o ilcommercio di droghe e di armi, o la diffusione di messag-gi rivolti ad adescare menti deboli per destinarle a com-piere massacri in nome di un fanatismo pseudoreligiosomai sopito, si capisce come davvero ci possa essere un ef-fetto di vera e propria ripulsa della rete, una forma aggior-nata di agorafobia, che produce angoscia, solitudine,rancore, rifiuto della socialità. Si spiega con tali considera-zioni la decisione di Bill Gates, l’imprenditore padrone diMicrosoft, poi divenuto filantropo, di permettere ai suoi fi-gli di utilizzare il computer soltanto per un’ora al giorno.

La pseudocultura generata dalla rete. Da ultimo, nondeve sfuggire il fatto che Internet agisce anche in veste divera e propria “agenzia formativa” nei confronti di adole-scenti ancora inesperti, ponendosi talvolta in posizione distridente contrasto rispetto all’azione educativa svolta dal-la scuola e dalle famiglie. Basta constatare quanti alunnisostituiscano lo studio domestico con lunghe sedute da-vanti al monitor del loro computer per preparare i compitimediante operazioni di “copia e incolla”, dato che su Inter-net riescono a trovare di tutto (traduttori, soluzione di pro-blemi, relazioni su temi di approfondimento, ecc.), oppuresemplicemente scelgano di affidarsi ai suggerimenti diqualche amico bravo e compiacente, che in rete già “fa

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mercato” del proprio ingegno. Persino dal punto di vistaespressivo sia scritto che orale in molti casi si coglie unafatale mancanza di esercizio all’elaborazione personale daparte di giovani, che di fronte al computer non trovano al-cuna motivazione ad articolare compiutamente il loro pen-siero. A volte l’uso di Internet tramite cellulari avanzati èdiventato persino strumento di bullismo, diffondendo im-magini compromettenti di compagni di classe o docenticarpite e rese virali per molestare il malcapitato di turno,con esiti sconcertanti e talvolta persino fatali8. Altrettantoperniciosa, d’altro canto, può risultare la sollecitazione, at-tualmente assai in voga sui social networks, ad adottare at-teggiamenti di per sé dequalificanti, come quello dirifiutare tutto ciò che sa di acculturamento, o presunto in-tellettualismo, per assumere pose di istintivo e rozzo spon-taneismo, ritenuto più genuino ed affidabile9. Èsignificativo il fatto che l’indifferenza delle nuove genera-zioni verso la memo-ria storica fosse unadelle maggiori preoc-cupazioni di Umber-to Eco (1932-2016),che poco prima dellasua scomparsa siesprimeva al riguar-do in questi termini:“I mass media sonoprincipalmente inte-ressati al presente.Accade sempre piùspesso che i giovaninon sono in grado diraccontare qualcosadi preciso su eventi avvenuti dieci anni prima della loronascita. In molti documenti fruibili on-line manca una da-ta di riferimento: si è persa qualunque profondità tempo-rale”10. È evidente che, una volta rimosso il legame dellamemoria, diventa assai difficile alimentare il senso dell’ap-partenenza e la difesa dei valori che essa richiama.

I rimedi. Che cosa può fare ciascuno di noi per evitare irischi connessi all’uso di strumenti e procedure informati-che? La risposta è fondamentalmente quella di usare ilbuon senso, ossia evitare di assolutizzare i vantaggi offer-ti da Internet, ignorandone i pericoli. Il che in concreto si-gnifica tre cose: la prima è avere consapevolezza chel’informazione che viene diffusa attraverso la rete può nonessere attendibile, per cui va recepita mantenendo un at-teggiamento avveduto e critico. In secondo luogo occorresottoporre le notizie e i dati ricavati a verifica costante me-diante altri mezzi di informazione (radio, televisione, gior-nali, libri, documenti vari). Infine è buona norma limitareragionevolmente il tempo trascorso in rete, constatandoche spesso ci propone occasioni di contatto solo fugaci eprovvisorie, a cui è da preferire il rapporto con la realtàvera, come requisito imprescindibile della propensione diqualunque essere umano alla socialità. Non bisogna di-menticare, come suggerisce Luciano Floridi, professore difilosofia ed etica dell’informazione all’università di Ox-ford, che “gli affari e la pubblicità in rete devono essere alservizio degli utenti e dei consumatori, e non vice versa”11.Il fatto che esistano i vari rischi di cui si è detto non è co-

munque un motivo per respingere le opportunità offerteda Internet. Sarebbe come dire che è bene non usare mail’automobile, così si è sicuri di non fare incidenti. È eviden-te che, qualsiasi mezzo o risorsa vengano da noi adopera-ti, occorre farlo “cum grano salis”, ossia con accortezza esenso della misura, analogamente a come avviene per al-tri elementi di cui facciamo uso, come un farmaco, un mez-zo di trasporto e i vari marchingegni che la scienza e latecnologia ci mettono a disposizione. ●

NOTE1. Facebook è uno dei social networks più importanti della rete. Control-la oltre 3 miliardi di utenze, quasi metà della popolazione mondiale, e sisostiene con la pubblicità. Il suo fondatore e direttore responsabile MarkZuckerberg è finito sotto inchiesta per mancata protezione dei dati suisuoi utenti e pubblicità ingannevole.2. Un algoritmo è un procedimento basato sull’uso di una formula mate-matica, che permette alle piattaforme digitali di classificare i dati sui pro-pri utenti per associarli in contesti diversi riferiti a parametri precisi, in

modo da ricavare ulterioriinformazioni in settori par-ticolari.3. GIORDANO BRUNO(1548-1600), frate domeni-cano, affermava che Dio ècausa immanente e princi-pio di armonia nell’univer-so (panteismo), per questofu condannato al rogo pereresia dalla Santa Inquisi-zione. Anche GALILEOGALILEI (1564-1642) fuprocessato nel 1634 per lasua teoria eliocentrica e co-stretto a fare abiura. 4. KARL POPPER (1902-94),filosofo ed epistemologodella scuola di Vienna, so-

stiene che la verità scientifica, essendo fenomenica, quindi condizionatadalla percezione soggettiva, è sempre relativa e modificabile. Il “falsifica-zionismo” è il criterio di demarcazione che distingue una teoria scienti-fica dalle affermazioni di altre discipline non scientifiche, come la storia,il diritto, o l’etica.5. Va segnalata la recente introduzione del neologismo “post-verità” (tra-duzione dell’inglese “post-truth”) anche nel vocabolario italiano. Il termi-ne “post-verità” si riferisce ad una notizia che prescinde dalla veridicitàdei fatti narrati e, tenendo conto dell’emotività e dei pregiudizi dell’opi-nione pubblica, cerca di condizionare il suo orientamento. Sulla dissimu-lazione in politica e la manipolazione dell’informazione si vedano leacute riflessioni di GIANRICO CAROFIGLIO – JACOPO ROSATELLI,in Con i piedi nel fango, Conversazioni su politica e verità, Ed. GruppoAbele, 2018, pp. 41-56.6. A proposito dell’uso di Twitter e la rilevanza dei social networks nelrapporto tra eletti ed elettori si veda la ricerca di ALESSANDRO DELLAGO, Populismo Digitale: La crisi, la rete e la nuova destra, Ed. R. Cor-tina, 2017.7. Una analisi attenta delle problematicità della democrazia rappresenta-tiva si trova in ILVO DIAMANTI – MARC LAZAR, Popolocrazia: La me-tamorfosi delle nostre democrazie, Ed. Laterza, Bari, 2018.8. Ricordiamo che STEFANO RODOTA’, l’insigne giurista deceduto nel2017, è stato il promotore già nel 1997 di norme di legge a difesa degliutenti di Internet, ricoprendo il ruolo di presidente del Comitato di Ga-ranzia per la tutela della privacy.9. Sulla deriva anti-intellettualistica e i modelli di comportamento prefe-riti in alcuni settori della società moderna si veda l’interessante saggiodel sociologo americano TOM NICHOLS, The Death of Expertise (La fi-ne della competenza), Oxford U. P., 2017.10. Riportato da UMBERTO ECO, “Contro la perdita di memoria”, “Lec-tio Magistralis” tenuta al Palazzo delle Nazioni Unite a New York il 21ottobre 2013.11. Sulla filosofia dell’informazione e le problematiche connesse all’eticainformatica cfr. LUCIANO FLORIDI, The Fourth Revolution: How theinfosphere is reshaping human reality, Oxford University Press, 2014.

Umberto Eco (1932 - 2016)

Giuseppe Magnolo

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La più insigne filosofa dell’età classica, il cui ricordoè giunto fino a noi, è Ipazia d’Alessandria d’Egitto,vissuta tra il 355/368 (alcuni studiosi le datano al

370) e il 415 d. C. Queste date sono solo indicative, l'unicacertezza è l’epoca.

Ipazia è conosciuta come filosofa matematica neoplato-nica e ricercatrice delle ragioni della “diversalità”. Questaparola non è, ancora oggi, ben definita all’interno del va-riegato mondo delle parole e delle loro etimologie. Comu-nemente, alla parola “diversalità” si è voluto erroneamentesostituire la parola “universalità”, intendendo con ciò unmondo unico (mono) al posto, invece, di quello della spe-cularità degli opposti contrapposti (bene/male,positivo/negativo, più/meno, ecc.), provocando così unospossessamento della vera definizione della parola stessa.

Quali erano i veri interessi filosofici di Ipazia? In primoluogo le sue convinzioni filosofiche matematiche, che af-fondavano nel pitagorismo e nella speculazione dei gran-di matematici precedenti all’epoca in cui ella visse. Suopadre (Teotecno o, più facilmente, Teone) era un grande

geometra matematico. Fondamentalmente la ricerca di Ipa-zia era indirizzata a cercare di capire dove andasse a finirel’anima (il cosiddetto spirito vitale) dopo la morte. Per que-sto la sua scuola (di cui fu prima “scolarca”) e il suo inse-gnamento erano di tipo multidisciplinare che coinvolgevadiscipline come l’astronomia, la matematica, la filosofia, lapoesia, l’estetica, e quante altre discipline avessero a che fa-re con la scienza e la parte astratta del pensiero umano.

Non si dubita sul fatto che suo padre Teone, anch’egli fi-losofo matematico, fu il responsabile della seconda biblio-teca d’Alessandria, dalla quale dipendevano diversi istituticulturali della città, ma anche del resto dell’intero Egitto.Non bisogna dimenticare che a quel tempo Alessandria,fondata da Alessandro il macedone, era una delle più im-portanti città dell’area e che la stessa città Il Cairo, attualecapitale egiziana, era ancora tutta da divenire.

Ipazia, almeno così ce la tramandano le citazioni che dilei fanno altri filosofi, fu allieva di suo padre Teone e leistessa maestra di una sua personale scuola filosofica. Sicu-ramente conosceva bene il mondo classico e sicuramenteviaggiò attraversando l’antica Grecia; conobbe gli ultimifilosofi della scuola di Atene, come conobbe le scuole filo-sofiche dell’impero romano, viaggiando attraverso le re-gioni di quelli che ormai stavano diventando i resti dellostesso. Molto probabilmente visitò anche Roma.

La filosofia di Ipazia indubitabilmente partiva dall’im-pianto del pensiero platonico, ma, contestualmente, tentòdi coniugare l’idea della filosofia socratica, imperniata sul-la ricerca utopica di un più felice divenire dell’umanità,con la concezione aristotelica del fare. Il suo pensiero filo-sofico si radicò anche sulle riflessioni dei filosofi matema-tici atomisti. È certo che uno dei suoi maestri fu ancheAristarco, pure egli filosofo della scuola di Alessandria, al-lievo di Stratone di Lampsaco. È nota la teoria di Aristar-co, quella eliocentrica, sulla base della quale, Ipazia fondòla sua ricerca.

Il periodo in cui visse la filosofa è conosciuto come quel-lo della transizione dal mondo classico a quello cristiano.Come tutti i periodi di transizione, il passaggio da un’epo-ca a un’altra non avviene mai in modo indolore. E a queltempo, dopo l’editto di Costantino (313) e quello di Teo-

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DONNE NELLA STORIA

Ipazia d’Alessandria d’Egitto

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dosio (380), che legittimò la religione cristiana come reli-gione di Stato, i dolori furono tanti. Se al tempo del disfa-cimento dell’impero romano, i cristiani furono perse-

guitati, arrestati, torturati e massacrati [i campi lager nazi-sti non sono un’invenzione del ‘900, provengono invece findalle viscere dell’umanità], dopo l'avvento del Cristianesi-mo su tutto il mondo pagano fu altrettanto crudele e ster-minatrice di altre comunità e altre culture. Noi oggipossiamo tanto ben parlare di sant'Agostino d'Ippona (Ta-gaste, 354 - Ippona, 430), filosofo, vescovo e teologo, ma ilsuo tempo non fu, soprattutto per coloro che non si confor-marono ai valori del tempo, tanto felice. Si pensi alla finedella stessa Ipazia, fatta massacrare su mandato del vesco-vo Cirillo.

Citano le antiche fonti (Socrate Scolastico in primo luo-go) che la filosofa era così aperta da permettere ai suoi al-lievi di professare qualsiasi religione di riferimento. Di ciòlei non se ne adontava, anzi si dice che incoraggiò taliorientamenti, perché era lei stessa a cercare di voler capi-re e conoscere. Era appunto la conoscenza, uno degliaspetti più importanti dell’intera riflessione filosofica a in-teressare la filosofa di Alessandria d'Egitto. Per cui, lungida lei l’idea di osteggiare una nuova filosofia, così innova-tiva e così rivoluzionaria com’era il Cristianesimo delle ori-gini del tempo di Cristo. Non di tale spirito conoscitivodoveva essere Cirillo il quale, forse per paura di esseremesso a confronto filosofico con Ipazia, tramò contro di leifino al punto di metterle contro una parte della popolazio-ne (un gruppetto di parabolani, al suo servizio, dai quali lafece pubblicamente lapidare).

Della vita e dell'opera della filosofa d'Alessandria, nel2009, il regista spagnolo Amenàbar ha girato un film: Ago-

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San Cirillo vescovo d’Alessandria d’Egitto

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rà, mentre non pochi scrittori si sono cimentati pubblican-do diversi libri biografici sulla sua vita.

IPAZIA, O DELLA FILOSOFIA!

È l’Inizio! Forse.È l’Inizio? Forse. È l’Inizio dell’Inizio? Forse.È l’Inizio dell’Inizio della Fine? Forse. È l’Inizio della Fine? Forse.È l’Inizio della Grande Fine? Forse.È l’Inizio della Grande Fine perl’Inizio dell’Inizio?Forse.

Inizio!Certo.Ipazia non è morta!Certo.È l’Inizio della Fine del Supplizio!Certo.È l’Inizio della Fine della Morte!Certo.Ipazia respira ancora in quella parte delnostro povero cuore al femminile!Certo.La pietra che ha schizzato il cervello dal craniodi Ipazia è solo una piuma dell’Angeloconfuso tra i ramarri di Badisco! Ne siamo tutti convinti. Ne è convinto anche l’uomo dei curli, che continua a gio-care a fare il matto sui cornicioni del santuario della Mi-nerva a santa Maria della Leuca sacra.

Ipazia è nuda tra i Parabolani della Morte! Trema.Trema come il nostro povero cuore al femminile! Trema.È nuda. Cogliamo il profumo della sua pelle straziata dalla rugo-sità delle pietre. Ipazia ci inonda di profumo di rose e mimose.

È l’Inizio della Fine?Sì.È l’Inizio della Fine delle Tenebre?Sì.È l’Inizio dell’Inizio della Luce?Sì.Tremolano i capelli di Ipazia al passo armato degli uomi-ni inflessibili. I Parabolani terrorizzano. Terrore globale.Fondamentalismo!

È l’Inizio della Fine della Storia?Forse.È l’Inizio dell’Inizio della Grande Fine!Certo.Ipazia guarda desolata i solchi del selciato della città egi-zia. La sua città.Alessandria.Il suo corpo è tenero e splendente come foglia nella tor-menta. Il tormento del nostro povero cuore al femminile.

Ipazia piange. Non per il suo dolore.

Per la doglianza dell’umanità.È solo una donna!Nuda.

Piange!Colpita.Ferita.Smarrita.

Piange!Una pietra le colpisce un occhio.Sono lacrime di miele amaro.Anche il marmo di Serapide

piange l’antico verde-rame.Ipazia piange, perché sulla carnestraziata del suo corpo sente l’ora

dell’Inizio della Grande Fine!Non per la sua povera fine di don-

na.

Ipazia.Piange per l’Inizio della Fine della

mano che la uccide!Piange per l’Inizio della Grande Fi-

ne del Verbo.È l’Inizio dell’Incanto della Parola.Ipazia sente che la Parola sostituirà il Verbo.È l’Inizio della Parola di Ipazia che effonde l’Inizio dellaLuce.Ne sono certi tutti.

Una pietra colpisce l’ampio Ventre di Ipazia.È l’Utero dell’Inizio del Creato.Ipazia non piange più.I suoi occhi sono miele e camomilla per l’Umanità.La sua doglianza è forza.

Il corpo straziato eppure bello si attorciglia sul selciato.Gli occhi della Filosofa si riempiono di gratitudine.Ipazia non piange più.Vede la sua Ellisse Matematica invadere la Sabbia della Vi-ta.È l’Utero Creatore.È la Luce della Ragione.È l’Armonia dei Sensi.

Il corpo di Ipazia:È Nudo.Straziato.Eppure:

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È bello.Splendente.Accogliente.

Una pietra colpisce una Mammella di Ipazia.Il sangue scorre.Sporca i marmi del Serapeo.I Parabolani gridano vittoria.I loro indici e medi in alto nel segno della V.Atrocizzano.Ancora calci e pugni.E pietre più pesanti, più devastanti.Ipazia addolora.Ipazia torna a piangere.Non per lei.È spietata la violenza.Il travaglio del corpo non l’offende più.Ipazia piange per la doglianza dell’Umanità.È impotente.Disarmata.Indifesa.Sputata.Lapidata.Il suo corpo è fatto a pezzi.Arto dopo arto. Brandello per brandello. Alla fine: Arso.Bruciato.Cancellato.

Il Martirio di Ipazia ora è sacro.Il suo corpo emana Luce splendente.Gli occhi dei Parabolani avvertono il Grande Caos nellaMorte di Ipazia.È l’Inizio della Grande Fine.È l’Inizio dell’Inizio della Luce.

Ipazia è la Filosofia!Ipazia è la Matematica!Ipazia è la Logica!Ipazia è l’Ellisse!Ipazia è la Sintesi!Ipazia è la Vita!Ipazia è il nostro povero cuore al femminile! ●

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“Parabolani” nel film Agorà

Maurizio Nocera

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Premessa

In questo dettagliato scritto sono riportate le principaliSette rivoluzionarie dei primi decenni dell’Ottocento.Esse trovarono terreno fertile soprattutto nel Salento,

dove maggiormente erano percepite le ingiustizie dellaclasse dominante (nobili, ricchi proprietari terrieri, altaborghesia) nei confronti della classe medio-bassa e, in mo-do particolare, dei contadini.

Sull’onda della rivoluzione americana (1775-1783) e fran-cese (1789), si propagò in tutta Europa un movimento libe-rale per combattere latirannia dei regnanti.

Questo fermento si pro-pagò in modo particolarein Italia, ancora divisa inpiccoli ed insignificantistaterelli (ad eccezione delRegno delle Due Sicilie)per diffondere l’idealeunitario, oltreché liberta-rio e repubblicano.

Il prof. Carlo VincenzoGreco, grazie a particola-reggiate ricerche, ha sapu-to elencare le maggioriSette rivoluzionarie che sicostituirono nella peniso-la salentina a partire dai primi anni dell’Ottocento.

Principali SetteAttendibili: attendibile era colui che aveva dato segni di

liberalismo ed era segnato in una lista e tenuto d’occhio. Ilprimo elenco di Terra d’Otranto reca la data del 6 dicem-bre 1845. In quello del 1846 si trovano annotati 221 atten-dibili che nel 1847 divennero 333.

Calderari: società segreta sorta nel Regno di Napoli altempo della Restaurazione (1815), e fu di carattere reazio-nario. Furono protetti dal Pietracatella, Intendente di Lec-ce, e dal Sindaco Marangio.

Carboneria: alla fine del XIV sec. Molti francesi per sfug-gire al governo tirannico della Regina Isabella abbandona-rono la città e si nascosero nelle foreste del Giura e delleAlpi. Qui decisero di costituire una società segreta per lot-tare contro la tirannia e la chiamarono Carboneria. Scelse-ro questo nome perché per vivere vendevano carbone

ricavato dalla legna della foresta. Essi ebbero anche unSanto protettore: San Teobaldo di Provins nella Champa-gne. Nei secoli successivi la Carboneria si diffuse in varieparti d’Europa, anche in Italia e soprattutto nel Salento.

Catena salentina o Salentini risvegliati: setta segretache ebbe un suo punto di forza nel mesagnese e fu moltoattiva negli anni 1825/1829. Non aveva uno statuto scritto,ma il seguente motto d’ordine: domanda – “ricchezza, ono-ri”; risposta – “un fumo”.

Circolo dei liberali: tale circolo ebbe sede a Lecce al lar-go del Seminario da dovepartivano i bollettini gior-nalieri diretti ai cittadini efratelli di qualunque an-golo della Terra d’Otran-to. Ne fecero parte tra glialtri: S. Brunetti, B. Rossi,B. Rizzo.

Decisi: setta sorta nel1815, per distacco daiCarbonari con a capo il le-gionario francavillese Pie-tro Gargano, ex murat-tiano e nipote di AchilleDel Preite. Fu una fazionestrenuamente risoluta afronteggiare gli avversari

con identiche armi, intrighi e maneggi, insidie ed agguati,pugnali ed archibugi.

Edennisti (o) Ellenisti (o) delle 7 o 8 lettere (o) dei 3 o 4colori.

1) col primo nome, si voleva indicare il “Giardino diEden”, ossia la delizia che i settari si proponevano di otte-nere;

2) col secondo nome, ci si rifaceva al modello politico esociale dell’antico mondo greco;

3) col terzo nome, si alludeva ai misteri della setta cheerano racchiusi in 7 e poi 8 lettere, ciascuna delle quali cor-rispondeva a particolari cognizioni o segreti che, a mi-su-ra dei gradi, si partecipavano agli ammessi;

4) col quarto nome, si denotava il segno materiale dei so-ci, consistente in laccetti di seta o margheritine dai colorirosso, celeste, nero e giallo che indossavano di sotto la ca-micia all’estremità di un triangoletto equilatero con le let-

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RISORGIMENTO SALENTINO

Cesare Braico

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tere L. U. G. che significavano: Libertà, Uguaglianza, Giu-stizia.

La corrispondenza era mantenuta per mezzo di fratelliserventi, i quali, sotto parvenza di rivenduglioli, di concia-piatti o caldaie, giravano per le province. Le loro riunioninon maggiori di sette si chiamavano campi o circoli.

Effervescenti: carbonari più focosi dei Riscaldati e pros-simi ad essere indicati dalla gendarmeria borbonica comeAttendibili.

Filadelfi o Adelfi: società segreta francese repubblicano-giacobina. In Italia ebbe parte nei moti piemontesi del1821 e poi si diffuse in tutta la Penisola. Era una società diispirazione liberale organizzata in squadriglie.

Guantai nuovi: società segreta nella quale fu presente ilbrindisino Cesare Braico, medico e membro della Societàdell’Unità italiana voluta dallo Spaventa. Partecipò allaspedizione dei Mille meritando l’apprezzamento persona-le di Nino Bixio.

Illibati: coloro che lavoravano nelle tenebre, fabbrican-do calunnie ed inventan-do imposture, secondati, eforse istigati, dall’Inten-dente D. Ferdinando Citoche aveva rovinato la Pro-vincia fabbricando pro-cessi falsi. (FerdinandoCito, de’ marchesi di Tor-recuso, venne come inten-dente della Provincia nel1823, preceduto da famadi funzionario duro e au-stero). Il Palumbo raccon-ta che costui aveva unparticolare odio, a ragionedi un fatto accadutoglipresso Guagnano, controun brigante chiamato De Polis messo al bando per causaingiusta.

Accadde che al ritorno da Napoli il Cito con la sposa in-toppò nella banda del brigante il quale per sete di vendet-ta del sopruso commessogli non solamente svaligiò ladiligenza ma per soprammercato rese onta alla signora.Preso dai gendarmi ebbe 24 anni di carcere. Ma all’inten-dente rimase l’odio contro i briganti, che spesso erano con-fusi coi Carbonari.

Massoneria: nacque in Inghilterra nel XVIII secolo, indipassò in Francia dove accolse i principii dell’Illuminismo.Dopo il 1815, si chiuse nel segreto ed affermò il suo carat-tere di internazionalismo. In Italia la prima Loggia fu fon-data a Firenze nel 1773.

Nel Salento vennero aperte delle logge a Lequile, San Ce-sario, Scorrano, Salice Salentino, Maglie, San Donato, Lec-ce. La più nota fu la “Libera muratoria”.

Mazziniani: un caffè, luogo di ritrovo fu quello del Gar-ganese nel quale comparve un certo Ciccillo Italia e al qua-le fu dedicata questa canzone “Llargatevi, llargatevi ca passaDon Ciccillo. Don Ciccillo la fanfara, è lu cori de mammà”. Aquesta società vi aderì anche Vincenzo Cepolla di San Ce-sario.

Messapi liberi: fu una vendita di carbonari sorta a Me-sagne nel 1819, per iniziativa di Giambattista Astuti di Lec-

ce, ufficiale di gendarmeria.Novelli Bruti: vendita carbonara galatinese, attivissima

specialmente nel 1817, quando a Galatina vi fu la grande“dieta carbonara” nella masseria “La Torre”.

Vi parteciparono tra gli altri: Giacomo Comi e GiovanniCampa.

Nuovo carbone: vendita carbonara costituitasi a Novolinel secondo decennio del 1800. Le riunioni venivano tenu-te in una villetta sulla strada Novoli-Lecce. Il primo Granmaestro fu Francesco Gaetano Oronzo di Paola Perrone na-to a Lecce il 15 giugno 1777.

Patrioti europei riformati: setta che rimanda a FilippoBuonarroti, rivoluzionario socialista, ed alla carboneria set-tentrionale.

Perniciosi: gente di cui bisognava guardarsi e che biso-gnava sorvegliare perché aveva la libertà e voleva la Co-stituzione, però con la morte dei tiranni.

Riscaldati: erano coloro che si infervoravano, ma che perla gendarmeria non destavano ancora eccessivi problemi.

Di fronte a troppo fervo-re, il governo borbonicomutava gli elenchi dei Ri-scaldati in quello degliEffervescenti.

Sanfedisti: società se-greta guidata da Cattani.Durante un’azione, i San-fedisti, sfondarono il por-tone dei Frati di Monte-scaglioso, invasero le cel-le in cerca dei nobili mas-soni e repubblicani. ISanfedisti erano detti an-che “Esercito della SantaFede”, società segreta dicarattere clericale e di

programma reazionario. Cesare Braico reclutò il maggiornumero di Liberali da opporre ai Sanfedisti.

Setta mazziniana italiana gioventù: perseguitata dal reFerdinando sin dal 1837, per la sua continua propagandaliberale nelle province di Bari e di Lecce.

Settari: venivano reclutati quasi sempre tra i proprieta-ri, liberi professionisti, industriali, sacerdoti, ma anche trai lavoratori del mondo agricolo ed artigianale. Il nostrocentro salentino, Monteroni di Lecce, fu tra quelli che evi-denziò sensibilità nei confronti delle idee innovatrici. Ver-so il 1820, i settari erano circa 90, tra proprietari, profes-sionisti, sacerdoti, artigiani e contadini.

Società dell’Unità italiana: fondata da Settembrini e dal-lo Spaventa ed aveva per programma la liberazione del-l’Italia dalla tirannide interna dei Principi e da ognipotenza straniera e renderla unita.

Solitari di Grecia: cospiratori sin dal 1814, allo scopo diottenere la Costituzione. Furono presenti nell’assise dellagrande dieta di Galatina del 1817, quando il governo bor-bonico mandò il maresciallo Church per domare le anar-chie.

Unitari: confluirono in una società sorta a Napoli. Uni-tario era colui che fondava le sue idee sull’Unità e sulla so-lidarietà di tutte le componenti ideali del Risorgimento. ●

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Diploma della Carboneria 1820

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Anche se la sontuosa rivista del Circolo Cittadino diGalatina “Aracne” ha proposto una commemora-zione del V Centenario della morte di Antonio De

Ferrariis Galateo (1448-1517) ad iniziativa di Maurizio No-cera1, privilegiando grecità, tarantismo, emporium com-merciale, centralità territoriale (Galateo la denominaval’ombellico della Iapigia) - (in umbilico totius peninsulae est), imonumenti, la basilica orsiniana di Santa Caterina d’Ales-sandria, credo che Galatina meriti di figurare tra i luoghiche l’umanista ha intensamente amato per i rapportiumani e culturali da lui avuti, anche perché essa è stata inquesto ultimo mezzo millennio una delle più vivaci capi-tali galateane, per iniziative e diffusione della statura intel-lettuale in Italia e in Europa di Galateo.

Ad iniziare dal vescovo di Nardò Stefano Agricola Pen-dinelli (1436-1451) un galatinese ritrovato in seguito aOtranto, al tempo della frequentazione dell’umanista del-la biblioteca di San Nicola di Casole, centro vivo dell’Uma-nesimo meridionale e custode dell’impronta dell’Ellade. AOtranto suo padre Pietro De Ferrariis ve lo conducevaspesso, e certamente l’adolescente Antonio ebbe occasionedi incontrare il consanguineo arcivescovo, primo martireucciso dai turchi l’11 agosto 1480. Che fu privato ingiusta-mente della beatificazione e della gloria degli altari. Forseper la vicinanza agli Orsini, (fu consigliere di Giovannan-tonio, celebrò i matrimoni delle nipoti e perfino il funera-le del principe di Tarantofatto eliminare ad Altamuranel 1463 da Re Ferrante).

Ma Galateo riscatterà ilPendinelli nel De Situ Iapy-giae, riconoscendogli unruolo primario di esorta-zione ai morituri a star sal-di nella fede di Cristo:“L’arcivescovo Stefano, miocongiunto, dopo che perl’intera notte precedente (…)aveva rincuorato tutta la po-polazione col sacramentodell’eucarestia (…) salì dal-la cripta della cattedrale nelcoro e lì, martire della pro-pria fede in Cristo e insigni-to dei paramenti sacerdotali, fu sgozzato sul suo seggiodai turchi, quando fecero irruzione”2. Né Galateo potevadimenticare l’azione del principe nei confronti di suo pa-dre Pietro ucciso, pro fide servanda e la punizione ai suoi uc-cisori.

Dopo il ve-nerando pre-sule consan-guineo, con-sanguineità alui derivatadalla parente-la con i Drimi, e propriamente col genero Gian Paolo, Ga-lateo mette a fuoco la figura dell’Ingenuus, o meglio diGerolamo Ingenio, figlio del medico Nicolò de Ingegne,o de geniis, giovane legista e amico fraterno del Galateo,il referente della lupiensis academia del 1499, l’accademio-la costituita complessivamente da otto sodali e protagoni-sta dell’epistola omonima (De Hyeronimo Ingenuo etLupiensi Academia) il quale nel 1482 divide con Angelo Ra-schione l’ufficio di << rectore et procuratore>> dell’ospe-dale. Ma evidentemente studente di legge a Napoli nelbiennio 1470-72 e dominus al termine del corso, quindi ac-cademico pontaniano3.

Alla fine del secolo, unitamente al Galateo, anche l’Inge-nio qual padrone di casa e primus degli otto pontaniani lec-cesi, condivideva otia, preoccupazioni, speranze, ansie perla sorte della dinastia aragonese, sospetti di disfattismo,paure per le coeve manovre turche. Tracciandone un so-brio profilo, Galateo lo descrive come figura simpatica, divero filosofo che sa comandare alle passioni e vivere con

misura e schietta autenticità.Con gli altri sette sodali in-contrati in casa sua, di tantoin tanto, nella hieronominia-na cryptoporticus, una galle-ria sita a due passi dallapiazza Leccese (ora S. Oron-zo), in cui sedevano Gala-teo, l’Ingenio, un Sergio (certamente il grecista Stisodi Zollino), Belisario Mare-monte, barone di Campi,Spinetto Ventura signore diPalmariggi, un Raimondo edue Donato. Otto personeperbene che nella perifericaLecce avevano costituito unsodalizio, una accademiola

secondo il modello della lontana e rimpianta AccademiaPontaniana, cui erano appartenuti tutti otto4.

In realtà la lettera De Hyeronimo Ingenuo et Lupiensi Aca-demia, a mio avviso è alquanto indecifrabile, sia per il les-sico oscuro, la proposta allettante fattagli dagli otrantini e

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LETTERATI SALENTINI

Antonio De Ferrariis detto “il Galateo”

Alessandro Tommaso Arcudi ritratto da Pietro Cavoti

GALATINA“GALATEANA”di Vittorio Zacchino

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dal loro governatore veneziano, ma rifiutata per l’inquie-tudine che sente a causa della doppiezza veneta, la trepi-dazione per l’imminenza di una possibile invasioneturca; i sospetti che gli otto susci-tano a Lecce, giudicati una manicadi disfattisti da prepotenti che spa-droneggiano, e impediscono a Luie consoci di render palesi le propriepaure e in cui, come nel 1513, Ga-lateo lamenta la precarietà e l’insi-curezza famigliare, le ristrettezzeeconomiche, così a Lecce alla finedel “400, come a Gallipoli nella Vi-tuperatio litterarum del 1513.

L’Ingenio è stato ritratto dal Ca-voti, ed edito a cura di Luigi Galan-te e Giancarlo Vallone, ma, a partegli scarsi studi e conoscenze delpersonaggio da parte dell’Arcudi edel Cavoti, l’affettuosa e amicaledescrizione galateana, contrastaevidentemente con la effigie realiz-zata dal Cavoti, inducendoci alladomanda: possibile che i ritratti dicasa Tanza fossero così temibili, daltruce Ingenio al Galateo così invec-chiato? Per non dire di un Salvato-re Grande così sciatto e negligentetraduttore che deforma il nomedel protagonista Ingenuus in Ra-gazzino?5

Occorre ricordarsi che a partire dal marchese d’Oriae dalsuo progetto basilense di metà ‘’500, le scritture inedite diAntonio Galateo, cominciando dall’Eremita, furono al cen-

tro di numerosi progetti editoriali in un fitto e continuosusseguirsi di tentativi che attraversano l’arco temporalecompreso tra il 1558 e la seconda metà dell’Ottocento in

cui Cavoti opera… L’obiettivo di quegli anni concer-

neva desiderata edizione a stampadi tutto il Galateo nella Europaprotestante. Nella raccolta di que-gli inediti si distinsero particolar-mente i liberi pensatori che av-vertivano nel pensiero galateanoconsistenti precorrimenti galatea-ni, ma pure filopatridi e antiquarinostrani, soprattutto ecclesiasticiattratti dal proibito che circolavanel celeberrimo dialogo lucianeo, acominciare da una mente universa-le come Erasmo da Rotterdam chevi modellò il proprio Iulius exclususe coelis (1518). Nel suo Catalogodei manoscritti di Galateo, AntonioIurilli rivela addirittura che l’Ere-mita fu copiato a Napoli, vivo l’au-tore, forse per committenza diFerrandino d’Aragona, e che essoseguì il suo regale committente pri-ma a Barcellona, quindi a Valencia.

Fu Padre Alessandro TommasoArcudi, predicatore domenicanoanche galatinese (1655-1718), ver-

satile autore della Galatina Letterata e di Le due galatine di-fese, che più di due secoli dopo, precisamente nel 1714, checon scontrosa bizzarria e spirito indipendente, rilanciò lafortuna di Galateo, rovistando tra le carte ereditate dal bi-

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L’Ingenio ritratto da Pietro Cavoti

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savolo Silvio Arcu-di, noto medico ga-latinese e collettoredi inediti opuscoli.Suoi biografi sonostati Mario Marti inScrittori Salentini diPietà fra Cinquecen-to e Settecento, e Mi-chele Paone nellapremessa ad unainedita e “supersti-te” relazione su ot-to dei conventi do-menicani salentini;è noto che recente-mente anche Mar-

co Leone lo ha stimato “buon letterato”. Nato dal medico Alfonso e da Maria Finestra di Melpi-

gnano, a causa di “certo suo foco naturale (che) gli fece di-menticare talora la dovuta moderazione” si attiròrisentimenti per cui i superiori lo restrinsero nel “piccioloconvento” di Andrano, nel profondo Capo di Leuca dovemorì nel 1718.

Di Galateo l’Arcudi scrisse il seguente succinto cennobiografico, inserito nella descrizione del convento leccesedi S. Giovanni d’Aymo (Relazione suiconventi salentini) redatta nel 1706-1707: “Nella cappella del Rosario nellaparte orientale sta sepolto Antonio Gala-teo, così detto dalla sua patria di Galato-la, essendo di casa de Ferraris, il piùeccellente medico e filosofo de’ suoi tempie tanto erudito quanto appare dalle di luiopre stampate e manuscritte, delle qualiio mi trovo una buona parte, e composeanche in latino la presa d’Otranto daiTurchi colla sua liberazione fatta dal reAlfonso II, allora duca di Calabria” (allu-sione ovvia all’ancor oggi controver-so De bello hydruntino che si concludecol famoso autoepitaffio funebre).

Di fantasia arcudiana a proposito dicerti ritratti cavotiani, parla Luigi Ga-lante a p.11, ma il concetto può essereesteso a certe trascrizioni incluse nelcod.49 della Biblioteca Provinciale diLecce in cui, al dire di Iurilli, l’Arcudirivela incerta e infida perizia ama-nuense.6

Certamente la trascrizione datata al 1714, fu una dellemeno appariscenti imposture eseguite ai danni di Galateonel sec. XVIII, aggiungendosi il galatino ad altri noti av-venturieri della penna, e meritandosi l’infame epiteto di“fanfarone” di cui lo gratificò Cosimo De Giorgi.7

Sull’autorità di Iurilli, l’Arcudi possedette o trascrissel’Eremita, il De Educatione, e l’Espositione del Pater Noster, inpiù Iurilli lo accusò nel suo prezioso Catalogo di moltepli-ci interventi emendativi su numerosi altri codici. Ma Ales-sandro Arcudi fu pure benemerito della diffusione miratadei sentimenti italiani di Galateo, ponendosi sulle ormedel bisavolo Silvio, che col De Educatione aveva inaugura-to l’atteggiamento galateano di attenzione patriottica e an-

tispagnola, spendendosi per salvare e divulgare le operegalateane, ampliando il loro mercato, e adoperandosi a chèquell’atteggiamento di precoce italianità, unitamente allelettere sulla disfida di Barletta, si protraesse fino agli annidell’Unità d’Italia.

Ovviamente, trattandosi di Galateo, qualsiasi antiqua-rio, togato o no, in ogni epoca, avvertiva la febbre dellacompetizione, di possedere, leggere, e possibilmente edi-tare il manoscritto. L’obiettivo era chiaro e ambizioso; enon stupisce che l’arciprete Gaspare Tafuri (1739-1772) al-lievo di Giovan Battista Vico conservando copia della ri-sposta negativa che la commissione napoletana aveva datoal calvinista Giovanni Lechlerc che aveva richiesto tutti imanoscritti di Antonio Galateo, nell’intento di una edizio-ne europea del pensiero galateano da farsi nella tolleran-te Olanda, come puntualmente dimostra il Catalogo diIurilli. Come non stupisce che successivamente all’Arcu-di, a Galatina pescassero il marchese di Presicce MicheleArditi, lo storico Baldassarre Papadia che nel 1806 ne scris-se la vita, l’abate Antonio Tanza, il giudice erudito LuigiSimone.

Purtroppo Alessandro Arcudi trascrivendo agli inizi delSettecento l’Eremita dal cod. D 2 10 DELLA BIBLIOTECAARCIVESCOVILE DI BRINDISI, e siglandolo FATAOP(Fra’ Alessandro Arcudi Ordinis Praedicatorum Attamen le-gendus) inaugurava quella serie di codici che poi trasmise

a Giovan Bernardino Tafuri e all’abateAntonio Tanza, e che in seguito con-fluirono nel Fondo Tafuri-Tozzoli del-la Biblioteca Provinciale di Avellino.

Oltre l’Arcudi, come ci dice Iurilli,anche il calvinista Giovanni Lechlerctentò di farsi dare gli opuscoli galatea-ni per pubblicarli in Olanda. Tentati-vo senza successo di cui è cenno inuna lettera dell’arcivescovo di Brindi-si Annibale De Leo a Michele Arditi alquale veniva consentito quanto nega-to al Lechlerc.

Ormai Galateo era considerato il“precorritore di una cultura religiosadi rottura”, degna di essere conosciu-ta in tutta Europa. Non fosse per nonfar ridere i protestanti olandesi. Intan-to lo scriptorium o copisteria allestitida Baldassarre Papadia8, con opusco-li che affluivano da Galatone, grazie aldottor Salvatore De Ferrariis, cognatodel prelato Tanza, deliziavano studio-

si come noti eruditi napoletani quali Agostino Gervasio. Val la pena riferire l’aneddoto del Tanza, bibliofilo ap-

passionato di opuscoli di Galateo, il quale raccontava diun certo canonico Stasi che, celiando, gli diceva: “O vica-rio, vicario, questi libri perché non te li vendi e non te li man-gi?” E il Tanza che replicava: “Oh lopa, Oh bricconeria,vendere i libri per mangiarli. Qualche d’uno non ha mangiatoper comprarli”9.

Successivamente al Convegno galateano del 1969, cuiavevano partecipato Mons. Antonio Antonaci e Aldo Val-lone, Galatina fu cantiere vivace di galateismo, di argo-menti connessi con le opere, i personaggi, i temi cariall’Umanista.

Il prof Aldo Vallone, dopo il magistrale saggio Galateo

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Abate Antonio Tanza

Stephanus de Pendinellis

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letterato, aveva rivisitato la figura del-l’umanista di Galatone nel 1992, inprospettive europee, con “Profilo dellaStoria letteraria meridionale dalle ori-gini all’Unità”, in “Storia del mezzo-giorno” vol. X a cura di G. Galasso e R.Romeo, definendolo la voce più alta ecomplessa in latino e volgare; poi in “Sto-ria della Letteratura Meridionale” (Na-poli, CUEN, 1996).

Suo figlio Prof. Giancarlo Vallone, po-nendo a fuoco in più luoghi le figure deivari personaggi macedoni della fami-glia Granai Castriota, vicini a Galateo,che possedettero feudi in Terra d’Otran-to, e con contributi originali, scavi e re-stauri archivistici, sulla rivista<<Bollettino Storico di Terra d’Otran-to>>, infine con intensi approfondimen-ti bio-bibliografici del fortunato testodell’Ispettore Donato Moro, Per l’auten-tico Antonio De Ferrariis Galateo (Napoli1991 e Galatina 2005).

Commetteremmo certamente un delitto di lesa maestàse omettessimo da questa rassegna il prof. Rosario Coluc-cia, galatinese verace, membro dell’antica Accademia del-la Crusca, filologo e linguista principe che tanto si èdedicato al latino e al volgare di Antonio Galateo, con ri-cerche e saggi rilevanti; tra cui ci piace ricordare partico-larmente “Lingua e Cultura fino agli albori del Rinascimento :L’opposizione ai modelli toscani e l’opera di Galateo; nel I volu-me della “Storia di Lecce” di Laterza edita il 1993.

Questa rassegna non poteva che concludersi con la figu-ra venerata di Donato Moro (1924-1996), il quale per de-cenni, a iniziare dal 1975, ha studiato Antonio Galateo,parallelamente alla cruenta vicenda idruntina del 1480-1481, compendiando le sue ricerche nei due tomi Hydrun-tum, a cura di Gino Pisanò, Galatina, Congedo, 2002.Unlavoro immane passato attraverso l’archivio e la bibliotecaapostolica Vaticana (ma pure attraverso tante altre biblio-teche e archivi italiani) dove Moro reperì fonti inedite e ra-re, tra cui la Relazione d’Acello e Rifacimento Otrantino, pertacere delle tante fonti salentine che confrontò con periziae rigore scientifico e filologico. Troppo lungo sarebbel’elenco delle pubblicazioni di Donato Moro, al quale il 19marzo 2013 il Consiglio Comunale conferì la cittadinanza

onoraria di Otranto “per i fondamentali eoriginali contributi alla conoscenza storicadella Città di Otranto dal Medioevo all’EtàProtomoderna, in cui ha posto in signifi-cativo risalto i caratteri originari e speci-fici del microcosmo idruntino, nelbivalente rapporto tra Bisanzio e l’Occi-dente10”.

Antonio Galateo e il De Situ Iapygiaefurono guida insostituibile di DonatoMoro il quale dedicò al nostro umani-sta più illustre la monografia Per l’au-tentico Antonio De Ferrariis Galateo,Napoli 1991, poi ristampata nel 2005 aGalatina a cura di Giancarlo Vallone.

Finalmente Beatrice Stasi, giovanespecialista di Italo Svevo e altri moder-ni, Patria per la Puglia, Novembre 2017col Galateo trattando del tema: “Retori-ca e antiretorica o retorica dell’antiretoricanel pensiero di Galateo”. ●

NOTE:1. Cfr, M. NOCERA, L’Idea di Galatina in Galateo, in << Aracne>> N.U.2017,pp.30-31.2. GALATEO, De Situ Iapygiae, Basileae, MDLVIII, pp.53-54.3. Cfr.V. ZACCHINO, Galatina e Galateo, in << Il Galatino >> 9 Aprile 1982.4. ivi.5. Per la epistola sull’Ingenio si veda A. PALLARA, Galateo Epistola XXV(Ad Crhisostomum) in <<Sallentum>> 16/ 1986, pp. 33-52. 6. cfr. P. CAVOTI, I ritratti degli illustri salentini , a cura di L. Galante e diG. Vallone, Galatina, Panico,2016, Premessa di L. Galante, p.11. A. IURIL-LI, L’Opera di Antonio Galateo nella tradizione manoscritta. Catalogo, Napo-li, Istituto Nazionale del Rinascimento Meridionale, MCMXC, p.34.7. Per le imposture e manipolazioni a danno di Galateo Cfr. V. ZACCHI-NO, Imposture e mistificazioni di agiografi e curiali ai danni di Antonio Gala-teo nel corso del Settecento in <<L’Idomeneo>> n.23 (2017), pp.209-222; Perla filopatria di religiosi salentini attestati nella curia di Brindisi, la con-trastata edizione olandese del Lechlerch, il giudizio sferzante del DeGiorgi su Alessandro Arcudi e il Grande, cfr.A. IURILLI, Antonio Galateofra Salento ed Europa. In “Graeci Sumus et hoc nobis gloriae accedit”,In memo-ria di Amleto Pallara, a cura di M. Spedicato e V. Zacchino,Lecce, Grifo,2016, pp. 87-91.8. Per lo scriptorium galatinese ottocentesco con cui Papadia rifornivaNapoli vedi IURILLI, L’Opera di Antonio Galateo cit. p.36.9. Cfr. N. VACCA, Terra d’Otranto fine Settecento inizi Ottocento, Bari, Socie-tà di Storia Patria,1966, pp.231-232.10. Vedi la miscellanea “Umanesimo della Terra “. Studi in memoria diDonato Moro, a cura di G. Caramuscio,M. Spedicato., V. Zacchino, Lec-ce,Grifo, 2013, pp. 11-14.

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Regina Isabella

Vittorio Zacchino

Da sn.: prof. Giancarlo Vallone, Mons. Antonio Antonaci, prof. Aldo Vallone, prof. Rosario Coluccia, prof.ssa Beatrice Stasi

Alcuni studiosi del Galateo

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Agenda: le cose che si devono fare. Tutti abbiamo quelfamoso libricino sul quale annotiamo gli appunta-menti, le scadenze, i numeri di telefono, le cose da

fare di giorno in giorno. Agenda è anche l’elenco degli ar-gomenti che devono essere trattati in una riunione di per-sonaggi politici, di uomini d’affari. Chi ha poca memoria otroppi impegni, non può fare a meno di questo suggerito-re delle “cose da fare”.

Pro memoria: come aiuto alla memoria, per la memoria, perricordare. Breve appunto con cui vogliamo ricordare, a noio ad altri, una scadenza, un appuntamento, un impegno.In italiano lo si applicasoprattutto a relazioni edappunti. Nel significatooriginale costituiva la di-dascalia di monumenti otarghe commemorative.Comunque questo com-plemento di vantaggio siè trasformato in un so-stantivo, promemoria, peressere usato in qualsiasicontesto.

Vademecum: vade me-cum, vieni con me, manua-le. E’ un libretto tascabile,contenente notizie di ne-cessaria e frequente con-sultazione; oppure unmanuale pratico e sintetico su una determinata materia,utile per chi esercita un’arte, una professione. Si usa anchemetaforicamente, per indicare il patrimonio delle cogni-zioni necessarie in determinato ambito.

Curriculum vitae: il corso della vita. Locuzione di uso co-mune, ad indicare i momenti salienti della vita e della car-riera di una persona. In ambito classico, essa indica sem-plicemente il corso della vita, con una metafora desuntadal curriculum nello stadio, cioè dalla circonferenza da per-correre nelle gare (ad es., in Cicerone, Pro Rabirio, 10, 30,l’oratore afferma che exsiguum nobis vitae curriculum natu-ra circumscripsit, immensum gloriae “la natura per noi trac-

ciò un percorso della vita breve, ma uno lunghissimo del-la gloria”). Essa compare ancora in Cicerone (Pro Archia,Academicae quaestiones), in Frontone, in Apuleio (Meta-morfosi, De deo Socratis) ed in autori tardi; sempre in Ci-cerone (De universo, 12, 45,) si ha Curriculum vivendi,mentre altrove il semplice curriculum è riferito al corso del-la vita.

Ad interim: (in carica) provvisoriamente. E’ una sorta dicomplemento di tempo formato con l’avverbio interim, chesignifica “frattanto”, “per ora”, e la preposizione ad, cheindica il momento fino al quale si estende il tempo di cui

si parla. Sia nel latinoclassico che nel linguag-gio moderno si usa parla-re di carica ad interim,quando chi la ricopra nonsia l’incaricato legittimo edefinitivo, ma solo un so-stituto, che ne svolge lefunzioni in via provviso-ria, in attesa dell’elezionedi chi la occuperà defini-tivamente. In Italia, peresempio, si può avere unPresidente della Repub-blica ad interim (il Presi-dente del Senato) in casodi morte, destituzione odimissioni del Presidente

in carica, oppure dei ministeri ricoperti ad interim, dal Pre-sidente del Consiglio, in caso di sostituzione di ministri di-missionari.

In primis: prima di tutto, soprattutto. Si usa quando, travarie cose, se ne vuol mettere in evidenza una di partico-lare importanza, oppure, in un ragionamento, quando simette un argomento come base di tutti gli altri. Dal mon-do classico la locuzione si è conservata immutata sino anoi, e ancora oggi è molto usata per indicare che si sta periniziare un elenco che l’ascoltatore deve ascoltare con at-tenzione.

Ad libitum: a piacimento. Questa locuzione latina è ora

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IN NOVO VETUS

Senato della Repubblica - Sala MaccariCicerone arringa Catilina

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di uso comune, sia in senso generico sia con accezioni spe-cifiche, ad indicare ad es., nelle ricette mediche, che non c’èuna dose determinata, o, in ambito musicale, che l’esecu-zione è lasciata alla discrezione dell’interprete, o che la par-te strumentale non è indispensabile, o, nella liturgia dellaMessa, che la colletta può essere liberamente recitata.

Alter ego: un altro me stesso. E’ questa un’espressione tut-tora di uso comune, ad indicare una persona talmente vi-cina ad un’altra da condividerne le idee o i comportamentio chi fa le veci di un altro o decide in suo nome. Modo didire diffusissimo in epoca classica (ne fa, per esempio,grandissimo uso Cicerone nelle sue Lettere) e indicava unamico così fedele da poterlo considerare veramente un al-tro se stesso. Oggi però lo si usa piuttosto per indicare unsosia, un vice o un sostituto, che possa svolgere le stessemansioni di un altro personaggio più famoso, più potenteo più alto in una scala gerarchica.

Ex aequo: per pari merito, alla pari. E’ una delle locuzionilatine attualmente più usate, soprattutto a proposito di ga-re in cui due o più concorrenti si sono classificati alla pari,con pari merito. Mi scuso con i lettori, ma qui vale la penafare una breve digressione. Visitando una mostra, di qua-dri, in un paese distante poche miglia da Galatina, mi tro-vai di fronte a due tele con la scritta: II premio ex equo.Chiesi al direttore della galleria dove stesse il “cavallo”, odove fosse rappresentato uno che scendesse o cadesse dacavallo. Quella persona allibì e si allontanò frettolosamen-te. Aequus, equo, giusto, uguale, pari era stato scambiato perequus, cavallo, per colpa di un asinus.

Ex abrupto: improvvisamente. L’espressione indica qual-cosa che inizia senza preavviso e premesse; di solito è rife-rita a discorsi e, parlando di un oratore che esordisce exabrupto, s’intende senza preparazione, improvvisando lì

per lì. Nella tecnica oratoria significa anche un esordio inmedias res, un inizio tolto dall’essenza dell’argomento.

Ex cathedra: dalla cattedra. Frase molto frequente nell’usoecclesiastico, specialmente per ricordare che il papa, quan-do parla ex cathedra, è infallibile, sia che definisca un dog-ma di fede o un articolo di morale sia che preceda ad unacanonizzazione. Così si distingue anche il parlare di unprofessore come uomo privato, oppure ex cathedra, cioèin virtù della sua autorità di insegnante. Infine si usa la fra-se ironicamente all’indirizzo di coloro i quali si danno ariedi dottori sputasentenze.

Asinus in cathedra: un asino in cattedra; questo detto, insé paradossale, indica una persona ignorante e cultural-mente rozza, che assume e si arroga la funzione di mae-stro. L’origine precisa non è nota: tra le sentenze medievaliè comunque attestata Asinus in scamno se vult similare ma-gistro: un asino in cattedra vuole atteggiarsi da maestro.

Non plus ultra: non più in là. Queste parole, secondo latradizione, sarebbero state scritte sulle cosiddette Colonned’Ercole (le colonne che Ercole avrebbe messo sugli scoglidi Calpe, Gibilterra, e di Abila, Ceuta, nell’attuale stretto diGibilterra) ad indicare che non era umanamente possibilesuperarle e come ammonimento ai naviganti a non tenta-re l’empia impresa. Negli autori classici tale iscrizione nonè mai menzionata e si può solo rilevare che Non plus ultraè la puntuale traduzione dell’ουκέτι πϱόσω usato da Pin-daro (Nemee, 3, 21) a proposito delle Colonne d’Ercole.Non plus ultra è ora espressione d’uso comune anche informa sostantivata, ma con una valenza leggermente di-versa: indica il più alto grado raggiungibile in un dato am-bito. Spesso viene usata dai rappresentanti di commercioper indicare un prodotto che ha raggiunto il massimo del-la perfezione: oltre non si può andare. ●

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Forse non ci sono davvero più le stagioni di una vol-ta. E credo che non sia soltanto un modo di dire, giac-ché appare per tutti evidente che alcune sensazioni

del tempo in sé siano cambiate del tutto in modo radicale. Di sicuro siamo cambiati noi. Eppure, indipendentemen-

te dalle varie considerazioni (talora perfino inopportune onegative) che se ne possono fare, la vita è bella. È piena disegreti, di scoperte, e di innumerevoli fascinosissime ‘pic-cole cose’ che piccole non sono. Bisogna saperla conserva-re nell’anima, la vita. Richiamare, di tanto in tanto – esenza sterile nostalgia, ma con la vivida gioia di aver vis-suto anche, e soprattutto, momenti lieti, che restano sem-pre con noi e dentro di noi): i nostri giochi bambini, icompagni di scuola (...e anche i professori!), la nostra cre-scita nell’immenso mondo – timorosa e insieme ardita –, eil nostro coraggio, e la curiosità, e il piacere di vivere, sem-pre protetti dalla nostra famiglia.

La vita non è un calendario: è un dono senza fine, checontinuerà anche dopo di noi, e per sempre con noi, se ab-biamo lasciato e donato i nostri ‘segni’ d’amore.

Se penso a 'lu schiaccu' o 'merìsciu' di quando eravamobambini o ragazzi, quasi mi perdo. E non so neanche do-ve. «D’altronde, se uno si perde... non può evidentementesapere dove sia andato a finire» celiava in questi casi lo zioNino, portiere e poi allenatore di calcio della gloriosa ProItalia, ma anche ‘filosofo di famiglia’ e mio idolo persona-le, insieme a mio padre. Entrambi dotati, peraltro, di uninnato spirito umoristico, che sfoderavano sapientementequando se ne presentava l’occasione. E che certo mi hannoinfluenzato, insegnandomi – forse inconsciamente – i se-greti della battuta e dell’humour immediato e penetrante).

Intorno agli anni Cinquanta, nei mesi più caldi, subitodopo l'ora di pranzo e per buona parte del primo pomerig-gio, la mia Galatina, come tutti i paesi e paesini del Salen-to, entrava in una sorta di catalessi collettiva. Le impostedelle case si serravano per non fare entrare la luce né il cal-do (e meno che meno le immancabili e noiosissime moscheche ronzavano dappertutto) e nelle strade, piazze, piazzet-te, e in ogni vicolo più remoto si spandeva rapidamenteun silenzio assoluto.

Ogni volta che cipenso riprovo quelsortilegio davvero ma-gico e indescrivibile.C’era, talvolta, la sen-sazione di sentirsi leg-gerissimi e di volare.Oppure di stare im-mobili e impietriti adascoltare improbabilivoci o suoni lontanis-simi, e nenie, e canzo-ni dolcissime dalleparole indistinguibili efascinose. Un’atmosfe-ra irreale che poi fini-va con l’avvolgerci tut-

ti, e la casa diventava per un po’ muta, e incredibilmentepiù grande. Al sonnellino pomeridiano io non mi ci eromai abituato. E per non disturbare, mi stendevo sotto il let-to, quasi appiattito al pavimento. Finché, trovata la giusta

posizione, con la luceche filtrava da sotto laporta, per quanto in-verosimile possa sem-brare, leggevo i mieifumetti preferiti (cheerano – lo dico a bene-ficio dei miei coetaneipiù ‘nostalgici’ – GimToro, Capitan Miki, ilGrande Blek, e Pippo,Pertica e Palla del miti-co Jacovitti).

Solo qualche volta,risalivo sul letto, met-tendomi a fantasticarefinché il sonno non miprendeva.

Chissà mai se quel‘silenzio creativo’ tor-nerà ancora, vincendol’inciviltà del rumoreche oggi ci opprime edeprime, rubandociinfine quella certa me-ravigliosa ‘poesia deltempo’ che ci rendevafelici senza saperlo...

Il fascino del temporaduna parole di vento edi sole.

E forse basta poco per ri-svegliare i cavalieri del mito, le principesse innamorate, iprodigi dei maghi o i sortilegi perversi di streghe e fattuc-chiere. In quel mondo fantastico siamo vissuti tutti, infine,e non sapremo mai se lestorie di mamme, nonne,zie, erano soltanto favole eleggende. Un po’ di veroresta sempre nel cuore del-le cose. E anche nel nostrocuore.

Lecce, città dalle millebellezze e dai mille misteri,è luogo fra i più affascinan-ti in questo gioco del so-gno, e della rivelazione odella scoperta. Chi cono-sce, ad esempio, l’austeroConvitto Palmieri sa che disera e di notte è luogo di ritrovo affollato da giovani e gio-vanissimi. Che ne sono maggiormente innamorati daquando il regista Ferzan Ozpetek ne ha fatto uno dei luo-ghi più suggestivi nel suo celebre film “Mine vaganti”.

Di giorno, quel luogo sacro della cultura è affollato distudenti desiderosi di conoscere e di sapere. E con rispet-toso silenzio affollano la biblioteca, che ha un patrimoniodi oltre 120 mila fra libri e documenti. L’atmosfera è fra lepiù serie e raccolte, creando un’aria magicamente suggesti-va e quasi irreale. In questo silenzio è nata così una leg-genda, che ha come protagonisti i vari personaggi storici

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USANZE E COSTUMI SALENTINI

Quando non ci saranno piø leggende da raccontare �niranno tutti i sogni. Ma per fortuna i sogni non �niscono mai.

Misteri, prod nell’antica Te

Seconda

di Antonio Me

Lecce - Chiesa

Il fumetto di Capitan Miki

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raffigurati in busti op-pure scolpiti in auste-ri medaglioni. Osser-vando tutte insiemetali figure, si ha l’im-pressione che i lorosguardi si concentrinoin un punto ben preci-so del pavimento. Ed èproprio in quel punto– secondo una leggen-da che si perpetua –che si nasconde l’ac-chiatura della biblioteca,un misterioso tesoro,che in tutti i secoli finqui trascorsi nessunoha ancora ritrovato,ma che si dice esistarealmente. Tant’è chenella prima metà delNovecento, durantealcuni lavori di risiste-mazione di tutto l’am-biente, tre operai ave-vano ritrovato un fo-glio pergamenato (malconservato, ma in par-te leggibile), che ripor-tava questa indica-

zione: “Nu passu a la derit-ta, trìdici a la mancina, fanne

nu mezzu giru, ca trovi l’oru te la Recina” (Un passo a destra,tredici a sinistra, fai un mezzo giro e trovi l’oro della Regi-na). Indicazioni abbastanza precise, ma che non hanno ri-

solto il mistero, rimasto talquale.

Chissà... Aggiungo sem-plicemente che, in casi delgenere, la nostra fantasticanonna Anna (analfabeta etutta saggezza), con un sor-risetto ironico sentenziava:«Ci cerca l’acchiatura perdelu tiempu senza mmasura».Ma ad altreleggende cicredeva an-che lei, al-troché!

Sempre a Lecce, nei pressi di Porta SanBiagio, c’è la splendida chiesa dedicata aSan Matteo. Che penso sia d’obbligo visita-re periodicamente, scoprendovi semprenuove curiosità. Costruito nel Seicento,questo tempio affascinante, ha varie somi-glianze – soprattutto nella facciata – con lachiesa di San Carlo alle Quattro Fontane a Roma (che il po-polo chiama San Carlino), capolavoro del Barocco, su pro-getto del Borromini.

Nella chiesa leccese di San Matteo (elevata nel 1667 su

disegni di Giannandrea Larducci) è da notare che le duecolonne dell’ordine inferiore della facciata non sono ugua-li. Al contrario di quella di sinistra, che è liscia, la colonnadi destra è infatti intagliata, ma solo in basso, a spirale, conun effetto magico e suggestivo. Perché il lavoro non è sta-to proseguito in tal modo per tutta l’altezza? «Per l’inter-vento di Satana in persona!», ci risponde il Libro delleLeggende. Ammirato dalla bellezza del decoro (che pote-va attirare folle ancor più numerose di credenti), e perciòstesso invidioso, fece sparire per sempre lo scalpellino chel’aveva originato. E nessun sostituto fu poi in grado dicompletare l’opera conformemente alla parte iniziata.

Avendo accennato a “Mine vaganti” di Ozpetek, filmche è un omaggio meraviglioso alla nostra piccola grandecapitale del Salento, mi prendo licenza di proporre, anzi-ché una terza leggenda, il monologo – che è una straordi-naria ‘leggenda’ di per sé (e molto di più) – di IlariaOcchini, nella parte della nonna di Tommaso. Leggetelocon attenzione e sentimento.

«Chi lo sa se questi luoghi avranno memoria di me. Se lestatue, le facciate delle chiese, si ricorderanno il mio nome.Voglio camminare un’ultima volta per queste strade chemi hanno accolta tanti anni fa, quando tutti mi chiamava-no “la toscana”. Voglio vedere se le strade conserverannoil rumore dei miei passi. La mia città, la città di Lecce, ladevo salutare prima di partire.

Ai miei nipoti Antonio, Elena e Tommaso lascio tuttoquello che ho, ma le terre che erano di Nicola, quelle voglioche sia Antonio ad averle. Devi tornare qui Antonio, per-ché è qui che appartieni, avrai la terra, la forza che vivequando noi moriamo. Tu Luciana, avrai tutto quello che tiserve, ma devi farti un po' di coraggio: i ladri non devonopassare per forza dalla finestra. Quella è pure casa tua. Voi,Vincenzo e Stefania, non c'è niente che potete fare, per nonamare Antonio. La terra non può volere male all'albero.Tommaso, scrivi di noi, la nostra storia, la nostra terra, lanostra famiglia, quello che abbiamo fatto di buono e so-prattutto quello che abbiamo sbagliato, quello che non sia-mo riusciti a fare perché eravamo troppo piccoli per la vita,che è così grande. La “mina vagante” se ne è andata. Così michiamavate, pensando che non vi sentissi. Ma le mine va-ganti servono a portare il disordine, a prendere le cose e ametterle in posti dove nessuno voleva farcele stare, a scom-binare tutto, a cambiare i piani.

Nicola mi ha insegnato la cosa più importante di tutte: a

sorridere quando stai male, quando dentro vorresti mori-re. Non siate tristi per me, quando non sentite la mia vocea casa: la vita non è mai nelle nostre stanze. Moriamo e poitorniamo, come tutto».

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ende da raccontare �niranno tutti i sogni. M sogni non �niscono mai.

igi e fantasie erra d’Otranto

a puntata

ele ‘Melanton’

Scena dal film “Mine vaganti” di Ozpetek

di San Matteo

(continua)

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Non posso scrivere qualche riflessione sulla riformache ha interessato le Province senza essere in qual-che modo coinvolta emotivamente. Da quasi 18 an-

ni è la mia seconda casa e lì trascorro la metà e più dellemie giornate; le pareti, gli armadi, le carte… le tante carte!!!… del mio ufficio mi hanno visto sorridere, piangere, esse-re preoccupata, scherzare con i colleghi… sempre lì adascoltarmi ed osservarmi in silenzio! Chissà quanti segre-ti custodiscono quelle mura, mi chiedo spesso, quante vi-cende hanno vissuto come silenziose protagoniste!

E quante volte mi sono state rivolte domande quali: mache fate in Provincia? Di cosa vi occupate? Ma le Provincenon sono state abolite? Ed ogni volta, con pazienza, ho cer-cato di fornire utili informazioni cercando di nascondere leemozioni contrastanti.

Ricordate il film “QUO VADO” di Checco Zalone chetanto ci ha fatto ridere ma an-che molto riflettere? Nel film ilprotagonista è un dipendentedell’ufficio provinciale Caccia ePesca il cui posto fisso vienemesso in discussione quando ilgoverno vara la riforma dellapubblica amministrazione conl’obiettivo di contenere la spesapubblica. Convocato al ministe-ro dalla spietata dirigente dot-toressa Sironi, Checco deve fareuna scelta difficile: lasciare ilposto fisso o mantenerlo accet-tando la mobilità. Per Checco ilposto fisso è sacro, quindi ac-cetta la mobilità ed i tanti tra-sferimenti. Dalla realtà al film il passo è stato breve proprioperché il film è uscito nelle sale cinematografiche dopo lariforma delle Province avviata con la Legge Delrio. RIFOR-MA che ho vissuto in prima persona e sulla quale la miamente si sofferma spesso come a voler rivedere un film vi-sto molte volte soprattutto dopo aver “fotografato” in ma-niera quasi indelebile uno scritto datato 1928 “Disegno diLegge presentato dal capo del Governo, Primo MinistroSegretario di Stato, Ministro dell’Interno (Mussolini) RI-FORMA DELL’AMMINISTRAZIONE PROVINCIALE”

Ebbene, già nel 1928 si parlava di riforma dell’ammini-strazione provinciale!

Così sono andata indietro nel tempo e, come un soffio divento, ho pensato di ripercorrere velocemente l’evoluzio-ne storica e geografica delle province senza avere assolu-tamente la pretesa di essere completamente esaustiva!

In epoca romana la provincia era la più grande unità am-ministrativa dei domìni romani in territorio straniero edera amministrata da un magistrato inviato da Roma i cuiabitanti non avevano diritto alla cittadinanza romana. Per-tanto il termine provincia ha origini latine provincia, pro-vinciae e risale ai tempi dell’Antica Roma.

Con la fine dell’Impero romano l’ordinamento territo-riale provinciale subisce profonde modifiche ma bisognaattendere la metà del 1800 quando con la Legge 23 ottobre1859 n. 3702 (Decreto Rattazzi), emanata appunto su ini-ziativa del Ministro dell’Interno del Regno Urbano Rattaz-zi, che si poté ridisegnare la geografia amministrativa dellostato sabaudo dopo l’annessione della Lombardia. Sul mo-dello francese il Regno venne suddiviso in province, cir-condari, mandamenti, comuni. Ogni provincia era guidatada un governatore, poi Prefetto col regio decreto 9 ottobre1861 n. 250, nominato dal re, alle dipendenze del Ministrodell’Interno, con una Deputazione Provinciale che funge-va da giudice amministrativo ed era scelta dal ConsiglioProvinciale. Le prime elezioni dei consigli provinciali sisvolsero il 15 gennaio 1860.

Il 17 marzo 1861 il re Vittorio Emanuele II proclama lanascita del Regno d’Italia suddiviso in 58 amministrazio-ni provinciali. La legge 20 marzo del 1865 n. 2248, LeggeLanza, fu una legge del Regno Unitario nota come “Leggeper l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia” e co-stituì nella sostanza una applicazione generalizzata del de-creto Rattazzi.

Il Governo Giolitti con la Legge 19 giugno 1913 n. 640deliberò che il suffragio universale, già previsto per le ele-zioni politiche, venisse esteso per le elezioni del consiglioprovinciale.

Ma l’avvento del regime fascista cancellò il criterio elet-tivo nella formazione degli organi provinciali. La letturadi qualche stralcio dello scritto datato 1928 “Disegno di

Legge presentato dal capo delGoverno, Primo Minstro Segre-tario di Stato, Ministro dell’In-terno (Mussolini) RIFORMADELL’AMMINISTRAZIONEPROVINCIALE” (D.L. n. 2092del 1928) ci dà sicuramente ilsenso del particolare periodostorico:

Disegno di LeggeArt. 1.

L’amministrazione di ogni provin-cia è composta di un preside e di unRettorato provinciale, costituitodal preside e dai rettori.

Il preside è coadiuvato da un vice-preside, che lo sostituisce in ca-so di assenza o di legittimo impedimento.

Art. 2.Il preside e il vice-preside sono nominati con decreto Reale, suproposta del Ministro dell’Interno. Ad essi sono applicabili lenorme di ineleggibilità e incompatibilità stabilite dalle legge Co-munale e Provinciale, testo unico 4 febbraio 1915, n. 148, per ideputati provinciali, escluse quelle che stabiliscono l’ineleggibi-lità degli stipendiati dello Stato e l’incompatibilità di deputato alParlamento e di deputato provinciale.

Art. 7.Il preside della provincia esercita le funzioni che la legge comu-nale attribuisce al Presidente della Deputazione e alla Deputazio-ne Provinciale.Il preside può affidare al vice preside speciali incarichi nell’Am-ministrazione della provincia.

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STORIA DELLE ISTITUZIONI

PROVINCIAIl vento dellariformadi Chiara Patera

Lecce - Palazzo dei CelestiniSede della Provincia

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Da tale disegno di legge si giunge alla Legge 27 dicembre 1928n. 296 con la quale viene bandito il criterio elettivo ed il capo del-la provincia viene incaricato per decreto reale;il Consiglio fu sostituito da un rettorato di no-mina prefettizia, mentre le competenze delladeputazione provinciale e del suo presidentefurono accentrate nelle mani del Preside.

Giungiamo velocemente al 1 gennaio1948: entra in vigore la Costituzione Ita-liana che, nella versione originaria, all’art.114 recitava: “La Repubblica si riparte in Re-gioni, Provincie e Comuni.”

La legge elettorale provinciale del Go-verno De Gasperi, Legge 8 marzo 1951 n.122, permise di ricostruire democratica-mente i consigli provinciali italiani dopola dittatura fascista ed il periodo bellico.La Giunta Provinciale sostituì la Deputa-zione provinciale ed il presidente dellaProvincia era a capo sia del Consiglio chedella Giunta. Bisognerà attendere la Leg-ge 25 marzo 1993 n. 81 per avere l’elezio-ne diretta a suffragio universale delPresidente della Provincia che poteva no-minare la Giunta e figura separata dalPresidente del consiglio provinciale.

Il secondo decennio del XXI secolo apreun ampio dibattito sul ruolo delle Provin-ce. Il governo Monti recepisce le spinte co-munitarie in materia di contenimentodella spesa pubblica e con il decreto Sal-va Italia (decreto legge n. 201 del 6 dicem-bre 2011 convertito con legge 22 dicembre2011, n. 214) si modificano gli organi del-la Provincia e la loro composizione: cancellata la Giuntaprovinciale, continuano ad esistere il Presidente della Pro-vincia ed il Consiglio provinciale eletti non dal corpo elet-torale ma dagli organi elettivi dei comuni ricadenti nelterritorio della provincia stessa.

Nell’aprile del 2014 entra in vigore la Legge Delrio (L.56/2014) che, in attesa di una più sistematica e ulteriore ri-forma del Titolo V della Costituzione (referendum costi-tuzionale del 4 dicembre 2016) ridefinisce le Province come

Enti di secondo livello titolari di funzioni fondamentali: a) pianificazione territoriale provinciale di coordinamen-

to, nonché tutela e valorizzazione del-l’ambiente, per gli aspetti di competenza;

b) pianificazione dei servizi di traspor-to in ambito provinciale, autorizzazionee controllo in materia di trasporto priva-to, in coerenza con la programmazioneregionale, nonché costruzione e gestionedelle strade provinciali e regolazione del-la circolazione stradale ad esse inerente;

c) programmazione provinciale dellarete scolastica, nel rispetto della program-mazione regionale;

d) raccolta ed elaborazione di dati, as-sistenza tecnico-amministrativa agli entilocali;

e) gestione dell’edilizia scolastica; f) controllo dei fenomeni discriminato-

ri in ambito occupazionale e promozionedelle pari opportunità sul territorio pro-vinciale.

Così come le funzioni non fondamenta-li vengono trasferite a regione e comuni,così anche il personale in soprannumerodegli enti di area vasta viene messo inmobilità e transita verso altre amministra-zioni statali e territoriali tramite il porta-le della funzione pubblica. Difficilesicuramente il distacco da colleghi con cuisi era condiviso un percorso lavorativoma anche di amicizia.

Sicuramente tutto ciò ha significato un rimettersi in gio-co, un ripartire per un nuovo viaggio.

Il Referendum Costituzionale del 4 dicembre 2016 havisto la vittoria del NO e le Province, nonostante la rifor-ma le avesse già travolte, continuano ad esistere! Per noiche siamo rimasti, il viaggio continua… non sappiamoquale sarà la prossima fermata.

Lo scopriremo solo vivendo! ●

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Sin dai tempi più antichi veniva riconosciuto ad alcu-ni personaggi importanti il diritto di non essere as-soggettati al rispetto di determinate leggi, alle quali,

però, non potevano sottrarsi i comuni cittadini. Tuttoraquesti assurdi privilegi sono garantiti in alcuni paesi dichiaro stampo dittatoriale o in paesi poco progrediti, co-me nell’Africa subsahariana, in alcune zone dell’Americacentro-meridionale o dell’Asia centrale.

Soprattutto alti funzionari, nobili e prelati godevano ditali assurdi diritti, a dimostrazione del buio di quei tempi

e della vita prettamente verticalizzata, in cui i cafoni si tro-vavano all’ultimo gradino della scala sociale e dovevanosubire ogni angheria e prevaricazione. In cima alla pirami-de spiccava la figura onnipotente del feudatario, del ras odel capobanda, che era autorizzato a compiere ogni nefan-dezza ed aveva diritto di vita e di morte nei confronti dichiunque. Questi lorsignori erano sciolti da ogni vincolodi legge e non rispondevano di eventuali illeciti, gravi omodesti che fossero, di fronte all’ordinamento giuridico.L’immunità era estesa anche agli ambasciatori e ai diplo-matici in genere.

Insomma per questi “uomini speciali” le leggi non era-no prese in considerazione e pertanto erano “legibus solu-ti”, sciolti dall’osservanza delle leggi e quindi intoccabili.

Ma attenzione. Un certo tipo di immunità era ed è tutto-ra garantita a coloro che, perseguitati per aver commessoun certo reato, si rifugiavano e si rifugiano nelle sedi di-plomatiche di altri stati o in determinati luoghi sacri, neiquali era ed è riconosciuto il diritto d’asilo.

Nelle epoche passate, questo principio di sacralità era ri-conosciuto ad ogni cittadino di alcuni paesi del Salento,solo quando, però, si trovava in determinate situazioni. Avoler fare un esempio, ad Aradeo esisteva una colonna vo-tiva, eretta nel 1658 dal monaco olivetano Fra’ Giovannida Napoli, che fu denominato “obelisco di San Giovanni”,per le sue doti magiche. Era ritenuto un monumento sacroe soprannaturale, che bastava toccarlo per garantirsi ampiaimpunità e protezione. Chiunque si aggrappasse alla co-lonna non poteva essere neanche sfiorato, pena una male-dizione divina per chi ne contravvenisse. La leggendavuole che alcuni armigeri, ignari del particolare sortilegio,morirono di una malattia letale dopo un solo giorno dallacattura di un pregiudicato che aveva abbracciato la colon-na. Altri contravventori perirono a causa di un fulmine, edun altro ancora morì cadendo violentemente a terra, disar-cionato dal cavallo. Da allora, per non subire le gravi con-seguenze dello strano maleficio, nessuno si è mai az-zardato a sfiorare il malandrino che, sfuggendo ai gendar-mi, riuscisse a cingere la colonna. Alle forze dell’ordinenon rimaneva altro che rientrare a testa china in caserma escusarsi della mancata cattura per colpa della… colonna.

Anche a Gallipoli vi era qualcosa di analogo. Mi raccon-tano alcuni parenti, residenti in quella città, che, per nonessere catturato dai gendarmi, al ladro inseguito bastava

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C’ERA UNA VOLTA...

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toccare un grande albero di pino, ritenuto sacro, posto nel-l’immediata periferia del paese.

Da parte mia, ricordo che da ragazzino si giocava ad“unu llìbbera tutti” (basta uno a liberare tutti), consistentein un fuggi fuggi generale da parte di alcuni ragazzi chefungevano da ladri, i quali veniva-no inseguiti da tre carabinieri (si faper dire). Se un ladro, abile nellacorsa, fosse riuscito a toccare laporta della chiesa (presa come pun-to di riferimento) e gridasse “unullìbbera tutti”, ogni ladro catturatosarebbe stato rimesso in libertà. Il gio-co sarebbe continuato all’infinito, sinoa quando, una volta catturati tutti, i ladri doveva-no sdebitarsi con i carabinieri offrendo delle no-ci, dei fichi secchi oppure qualche caramella.Erano i giochi innocenti d’un tempo.

A Nardò raccontano i più anziani che nel‘600 era riconosciuto il diritto all’impunità achiunque, sempre che il trasgressore toc-casse una particolare ruota di trai-no, posta in una determinata zonadella città. Non si comprende, pe-rò, quale proprietà soprannatura-le o divina avesse una normaleruota di traino.

All’epoca dei baroni Acquaviva, dominatoridella vita di Nardò per quattro secoli, tale ruotaera addossata al muro esterno di un antico edificio che sor-geva dove oggi insiste il palazzo Fonte, lungo la via Lata,alla confluenza con via Matteotti. Chiunque fosse insegui-to dai gendarmi e si afferrasse a quella benedetta ruota non

poteva essere arrestato.Prodigio dell’ignoranza e dell’ingenuità di quei tempi. Si racconta che un ladro, colto in flagranza di reato, ve-

nisse inseguito dai soldati del conte Acquaviva. Purtroppoil povero ladro era asmatico e non riusciva a dare al piede

una velocità sostenuta. Gli armi-geri, appesantiti dalle loro coraz-ze, stentavano a raggiungerlo masi avvicinavano sempre più al fug-giasco. Quando mancavano pochimetri alla ruota, il ladro si schian-tò per terra privo ormai di ognienergia. I due armigeri lo agguan-tarono mentre lui cercava invanodi toccare la ruota. Ma non ce lafece. Riuscì soltanto a dire: “Tocca-ta, toccata!”.

“Non è vero!... stai mentendo!” –disse uno dei due.

“Ho toccato, ho toccato!!” – ripetécon voce sfibrata il ladro.

“Dimmi, dove hai toccato?” – gliribatté il gendarme.

“Ecco, qui” – rispose il ladro, ag-grappandosi alla ruota in un estre-

mo slancio.“Sei un bugiardo… hai toccato so-

lo adesso e non prima”.“Che m’importa… l’importante è

aver toccato!... Vi ricordo che, se mi arrestate, la sorte divina siabbatterà su di voi in pochissimo tempo”.

In questo modo il ladro riuscì a farla franca.Morale della favola: “La necessità aguzza l’ingegno”. ●

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Èil 2 giugno 1928 e Galatina, sotto un sole canicolare,si prepara ansiosa a due grandi avvenimenti. Indos-sa il suo abito migliore, su ogni casa sventola una

bandiera, alti e maestosi pennoni sulle strade principali,festoni sulle facciate dei palazzi ed un viavai di dirigenti erappresentanti delle associazioni.

Sono tutti in fibrillazione. Perché? Perché il Vice segreta-rio del Partito Nazionale Fascista, l'onorevole Achille Sta-race, e il nuovo "fascistissimo" giovane prefetto S.E.Giovanni Maria Formica sono nella nostra cittadina peronorare la memoria dei figli caduti nella Grande Guerra,inaugurando il Monumento ai Caduti in Piazza Alighieri,e per rendere omaggio ad un suo figlio, un gran-de artista che con le sue tele e il suo patriotti-smo, indossando da sottotenente la camiciarossa garibaldina, portò alto il nome dellacittà natia: Gioacchino Toma.

Del primo evento (per chi non lo avesseletto) ne abbiamo parlato ampiamente neln. 4/2013 a pag. 10 di questo giornale, men-tre del Professore dalla complessa persona-lità sappiamo tutto o quasi e, pertanto, nonmi dilungo a narrarvi degli avversi numi chelo videro passare da una vita agiata a quelladi orfano diseredato dallo zio maternoche dilapida l’intero patrimonio deifratelli Toma in poco tempo.

Una vita, la sua, stentata e per-corsa da miseria e da doloroseperdite familiari in età infantile,vita che però ha "raggiuntoesiti pittorici di alto valorepoetico e di straordinaria mo-dernità". Nonostante il caldo torrido, dopo l'inaugurazio-ne del Monumento ai Caduti, le circa diecimila persone siassiepano sulla tribuna allestita in Piazza S. Caterina (og-gi P.za Toma), di fronte al monumento. L'on. Starace, il Pre-fetto Formica, il Podestà Domenico Galluccio scoprono ilbusto di colui che oggi occupa, all'interno della pittura ita-liana ottocentesca, un capitolo essenziale.

Ma come si giunse a questo evento? Un altro illustre figlio di Galatina, Gaetano Martinez, cir-

ca quattro anni prima aveva aperto una sottoscrizione fragli artisti napoletani e romani per donare alla casa, che ave-va visto nascere il 24 gennaio 1836 Gioacchino Toma, una

lapide commemorativa. Di ciò parleremo in altre pagineperché pur essendo stata controversa e complicata la vi-cenda per Martinez questa semplice targa, pur significan-do in sé stessa qualcosa, per lui non era sufficiente peronorare la memoria di colui che era stato una delle perso-nalità artistiche più spiccate della pittura napoletana di unOttocento che certamente non fu suo. Egli, infatti, seguivale orme del genius loci, fu sempre legato a quella perla d'uo-mo... a quel semplice e chiaro e mesto e pensoso pittore e, tro-vandosi in vacanza a Santa Maria al Bagno presso la casadi parenti, nella sua città si fece promotore di una nuovasottoscrizione perché "con denaro cittadino" venisse ricor-

dato il fratello in spirito, avvalendosi del giornale roma-no "Fiamma" e dell'aiuto dell'associazione Apulia.

L'iniziativa riscosse il plauso del mondo intellet-tuale e non solo dei semplici cittadini salentini

cultori delle belle arti. Alla raccolta fondi ade-rirono associazioni, scultori, artisti, per citare

qualcuno, Mancini, Casciaro, Cifariello, Guarino,Lancellotti, Celio... che inviarono al direttore del

giornale d’arte, Guido Guida, la loro adesione. Alla fine del mese di luglio del 1926

molti cittadini galatinesi, tra cui ifratelli Vallone e Spoti, NicolaBardoscia, Giorgio Specchia, Al-fredo Carrozzini, il farmacistaFerrarese, Giulio Teco, NicolaMauro e l’elenco sarebbe moltolungo, che con una quota vara-bile da £ 5 a £ 100, depositarono

presso la Banca Vallone lasomma di £ 1.000

Il Martinez riuscì così a farerigere al centro della piazzetta che conduce a Sogliano,un busto in bronzo, da lui modellato di cm 87x63x43. Lascultura, che sembrava voler rivelare l’anima sensibile delToma, si ispirava ad un sano classicismo, "coglie e riesce amettere in risalto, pur tra un'enfatica e alquanto retoricarappresentazione, i caratteri essenziali dell'animo del suoillustre concittadino: altezza di sentimento, profonda uma-nità, volontà ferma e sicura".

Il busto, modellato con un bel sintetismo e con un'attenzioneparticolare alla resa della statura, su una colonna in pietra diTrani, celebrava l'apoteosi di Toma e lo riprendeva col pet-to nudo, la lunga barba e con lo sguardo che sembrava

30 Il filo di Aracne aprile/giugno 2018

GALATINESI ILLUSTRI

Galatina (LE) - Particolare del monumento a Gioacchino Toma

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scrutare lontano. Oratore ufficiale della serata fu il Ducaprof. Salvatore Gaetani, il quale con contezza profonda econ vera competenza sottolineò che "nessuno meglio di To-ma serbò in sé una così alta messe di virtù patriottiche. Lafusione compatta dell'opera fu un continuo affinamentoverso alto sentire. Guidacostante il dovere, metacostante la virtù. In questopaesaggio Gioacchino To-ma non ama le colorazionivivaci, la tinta del sole;vissuto in Napoli, non neamò il chiasso; nell'acca-demismo fu anti accade-mico. Nessuno però fu piùdi lui maestro del colore,nessuno più di lui veromaestro. Egli ebbe il gran-de dono del genio... lascuola del dolore dovécontribuire sin dai primianni alla sua arte. Come nel Pascoli, in lui il dolore non fuamarezza sibbene malinconia, compatimento umano. In-vece di maledire amò, invece di odiare cantò, invece di di-struggere creò... Si volse verso le forme del dolore umano.Caduta la bardatura neoclassica la realtà vinse nelle for-me, come avveniva a Milano per opera dei fratelli Indunoe a Napoli con Domenico Morelli. Così il tema non piacqueperché andava contro la moda: Egli dipingeva quando lapoesia gli soffiava dentro e questa poesia non la colse nel-la opulenza e nel fasto, ma nelle corsie degli ospedali, nel-le prigioni, nelle miserie, ovunque vi fosse commozione eamore. Fu un pittore dunque squisitamente interiore, inun periodo in cui l’esteriorità e le mode dominavano ilcampo. Ecco perché non fu capito e non piacque. Ecco per-ché amò il grigio, l'unica gamma perché potesse svolgersiil dolore umano. In quel grigio non erano composti ele-

menti animali e vegetali, ma lacrime e ricordi della sua ter-ra, forse della sua giovinezza, pervasi da un onda dinostalgia. Quel grigio è dunque tutto Toma. Eppure il To-ma si stacca dal grigio nel quadro "I Garibaldini in carce-re" in cui la camicia rossa mette un'onda di vita, quandol'amore per la Patria lo esalta". Il prof. Gaetani concluse ilsuo discorso tra gli applausi con un: "Onoriamo in lui l'ar-chetipo del Salentino Moderno, oggi che la patria impron-

ta di nuova vita i suoi figli". A Gaetano Martinez, tra le tante lettere e telegrammi di

ringraziamento pervenuti, giunse anche la lettera del figliodi Gioacchino, Gustavo, che da Napoli gli scrisse espri-mendogli la sua gratitudine per aver onorato la memoria

di suo padre. Dolendosi dinon essere stato presenteall’inaugurazione, perchéammalato, gli chiese di po-ter avere una foto del bu-sto e terminava il suoscritto confessandogli che,essendo molto attaccato al-le tele, non immaginava dicerto di separarsi anche diuna sola ma se ciò dovesseaccadere i cittadini galati-nesi avrebbero avuto unsuo ricordo.

Denominatore comunetra Gioacchino e Gaetano è

la loro città, anche se il Toma, contrariamente ad altri, ful'unico a non tornare più, e pur non essendosi mai cono-sciuti forse, per ironia della sorte, Galatina li ha voluti uni-re dopo la morte facendoli incontrare nelle "vie". Al pittoredella mestizia, oltre alla piazza con il suo monumento, lasua città gli ha intitolato la via dove al civico 46 nacqueMartinez, e una scuola, nel 1896,d'Arte e Mestieri, oggi Li-ceo Artistico, invece ènella via dedicata alMartinez. Ma fa di più:acquista nel 2006 da uncollezionista L'elemosinaper 19.000,00 euro, oggiesposta nel Museo Civi-co “Pietro Cavoti” perrecuperare la memoria ecome tributo alla gran-dezza dell'artista e comescrisse l'Antonaci "lastoria ha avuto la sua ri-valsa sulla pochezzatalvolta insensata deimortali".

Gioacchino morì a 55anni, della stessa malat-tia della madre, proprioquando il successo comincia a sorridergli e, se non nelladimenticanza, nella indifferenza della critica e dell'ambien-te, così come era vissuto appartato e discreto. Solo dopo lasua morte qualcuno si accorse che il pittore Galatineserientrava a pieno titolo tra quei quattro-cinque pittori delSecondo Ottocento di levatura europea, in cui “l’equilibriofra il gusto del soggetto e la realizzazione espressiva si attua spes-so senza fratture”. Egli è stato il più delicato fra gli artistimeridionali del suo tempo e pochi hanno saputo esprime-re, come lui ha fatto, una poesia pittorica così raffinata, ari-stocratica, velata di sottile malinconia e di eccelsa moralitàpoetica.

Grazie Gioacchino! ●

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Gioacchino Toma e sua moglie

La tavolozza del pittore con-servata presso il Liceo artistico

“P. Colonna”

Gioacchino Toma - L’elemosina

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Sin dall’insediamento nella terra salentina, l’uomo ha avu-to un rapporto simbiotico con i vari tipi di pietra, utilizza-ta come elemento da costruzione, attrezzo per cacciare

animali o praticare l’agricoltura, strumento per costruire simbo-li e luoghi della vita, ma anche elemento religioso e divinatorio.

Mai come in questo territorio, l’uomo ha trovato una cosìampia varietà di pietre e, in alcuni casi, una facile lavorabilitàdelle stesse, tanto da permettergli di costruire importanti archi-tetture che ancor oggi ci circondano.

Mi soffermerò a trattare le “pietre magiche“ di questi luoghi,che hanno accompagnato l’uomo salentino per secoli e in alcu-ni casi per millenni, portandolo a credere nel potere magico cheda esse scaturiva.

Nelle mie ricerche mi sono imbattuto spesso in numerose va-rietà di pietra, come il tufo, la pietra leccese, la roccia viva e tut-te le loro variegate tipologie, molte delle quali accolgono al lorointerno i segni delle ere geologiche. Spesso mi accade di soffer-marmi ad osservare i molluschi fossilizzati in esse.

Nel caso che sto per esporre, il ritrovamento è stato di parti-colare importanza. Durante alcuni lavori di escavazione ese-guiti nel centro storico di Galatina, a pochi metri dalle antichemura urbane, mi sono imbattuto, meraviglia delle meraviglie,in un pezzo di pietra circolare di quasi 10/12 cm di diametrocon un cerchio al centro. È iniziata così un’attenta ricerca per

appurare il significato di quel simbolo. Si è trattato di un og-getto molto in uso in quelle antiche civiltà salentine, legato aduna religione arcaica, i cui credenti veneravano ogni aspettodella natura.

In antiche culture, l’uomo credeva che i sassi forati avesseroproprietà magiche e curative, ma, da un attento studio, si è trat-tato di sassi aventi buchi scavati esclusivamente dalla forza del-la natura. I nostri antenati credevano che contenessero una

saggezza divina e ritenevano inoltre che offrissero protezione,se indossati o portati con sé. Pietre forate larghe, scolpite a ma-no, chiamate "men-an-tols", erano impiegate nelle cerimonieantiche. In rappresentanza del passaggio tra il mondo fisico espirituale, venivano spesso disposte all'ingresso delle tombe edei tumuli. In alcune comunità si riteneva che rappresentasse-ro anche la rinascita e la transizione. Gli antichi Celti officiava-no cerimonie nuziali in cui la coppia univa le mani attraversola pietra per simboleggiare e benedire l'unione.

Secondo un’altra supposizione, la coppia, dopo un anno dimatrimonio, poteva rinunciare alla sua unione, grazie all’in-flusso magico della pietra.

Un altro potere attribuito alle pietre era quello della guari-gione. I bambini ammalati si facevano passare per tre volte at-traverso la pietra per curare rachitismo o tubercolosi. Gli adultistrisciavano nove volte al suo interno per curare reumatismi eproblemi alla schiena. In assenza di massi così grandi, si utiliz-zavano pietre più piccole che venivano sfregate sulla parte col-pita. L'attributo più potente di una pietra forata era il suo poteredi protezione. Se indossata o portata con sé, allontanava gli spi-riti maligni e proteggeva dai danni. Si appendevano i sassi al-le testiere dei letti per prevenire gli incubi. Se un sasso sirompeva, si era portati a credere che una vita fosse stata protet-ta. Si riteneva, inoltre, che queste potenti pietre custodissero ildono della ‘vista psichica’ per chiunque guardasse attraverso ilsasso. Ed ancora che, guardando attraverso il foro in direzionedella luna piena, si potesse vedere il “reame fatato”, così comefantasmi, visioni e, addirittura, l'"altro mondo".

Nel Salento, precisamente a Calimera, si trova una pietra dienormi dimensioni con un grande foro al centro, alla quale eraassociata la fertilità. Infatti è ancora in uso che, il lunedì del-l’Angelo, alcuni credenti si rechino nella Chiesetta di San Vitoper attraversare la pietra, al fine di garantirsi la propria fertili-tà e rigenerarsi. La pietra si trova all’interno della chiesetta chefunge da contenitore. Infatti fu costruita in quel luogo per inglo-bare e custodire la pietra, dove giace da millenni, a testimonian-za dei riti che avvicinavano l’uomo alla dea Madre.

Sempre sull’utilizzo delle pietre come elemento simbolico,alcuni ritrovamenti, sempre nelle nostre zone e più precisamen-te nella zona di Salice Salentino, hanno messo in luce la tenden-za (tipica anche di altre popolazioni) di rappresentare in pietrai genitali maschili e femminili. Nel caso specifico, si tratta di treapparenti manufatti in pietra, frammenti residuali di ciò cheresta di antichissimi villaggi preistorici di oltre 3000 anni fa in-sistenti nel Salento “ancestrale” e misterioso, dove pare si vene-

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Le pietre “magiche”del Salentodi Adriano Margiotta

Pietra forata ritrovata nel centro storico di Galatina (LE)

Liangzhu (Cina) - Pietra rituale forata in giada

PIETRE SACRE E MAGICHE

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rassero i simboli degli organi genitali sia maschile sia femmini-le. (ricerca a cura del Dott. Giovanni Greco, dottore in Conser-vazione dei Beni Culturali; http://belsalento.altervista.org/societa-arcaica-nel-salento-venerava-simboli-degli-organi-ge-nitali/).

Ma è anche importante comprendere come Dolmen e Men-hir siano stati fondamentali nel racconto dei nostri luoghi, epi-centri arcani di aree sacre primordiali, dove venivano officiatiriti alle divinità del cielo e della terra, nascondendosi all’ombradi ulivi millenari, sintomatici del rapporto magico tra le pietree l’uomo salentino.

Percorrendo il Salento in lungo e in largo si fanno incontriravvicinati con questi giganti di pietra, depositari di antichi se-greti, che si perdono nella notte dei tempi, e rimandano ad an-tichi sciamani, che, oltre a praticare riti di guarigione, sovrin-tendevano a quelli di iniziazione, segnati dall’impressionedelle mani sulle volte delle grotte-santuario come quella deiCervi di Porto Badisco, considerata per il suo repertorio pitto-rico la cappella Sistina della Preistoria.

Lasciando il Salento, anche in altri luoghi era presente il cul-to delle pietre. Le pietre forate giunte a noi sono conosciute conuna varietà di nomi: men-an-tol, an-cloc consanta (pietre lavo-rate), crick stones (un nome moderno), pietre delle fate, pietrestregate e pietre di Odino, quest’ultima deriva dal mito vichin-

go secondo cui il dio Odino si trasformò in un verme e strisciòattraverso il foro in una roccia per rubare "l'erba della poesia".La tradizione popolare indica che la pietra di Odino può favo-rire una gravidanza e protegge da malattie e maledizioni unbambino in arrivo, oltre ad essere un amuleto da esporre sullaculla.

In Inghilterra, presso la formazione di pietre chiamata Mên-an-Tol, a Cornwall, una leggenda locale racconta che se unadonna attraversa il foro della pietra sette volte, avanti e indie-tro, in una notte di luna piena, presto resterà incinta.

In America, le tradizioni dei nativi raccontano di speciali pie-tre (anche se non si tratta di pietre forate), chiamate watai, abi-tate dagli Inyan, il Popolo di Pietra. Questi sassi sono adoperatinelle cerimonie di guarigione e nelle ruote medicamentose perrimuovere la malattia e garantire la protezione. Si noti ancheche nei primi giorni di colonizzazione, i popoli nativi raccoglie-vano questi sassi e li lavoravano per creare collanine, che poierano barattate con gli esploratori in cambio di lenzuola ed al-tri articoli.

Come abbiamo visto la foratura di pietre, cristalli e sassi èuna pratica millenaria carica di simbolismo e di magia che uni-

sce i popoli di tutto il mondo, dal Salento alle Americhe, avvi-cinando l’uomo alla madre terra e a tutti gli elementi naturaliche lo circondano. ●

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Giuggianello (LE) - Lu furticiddhru te la vecchia

Calimera (LE) - Pietra della fertilità

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Questo è il seguito de “Le Microstorie della Cuccu-vascia “articolo apparso nel numero precedentedel “Filo di Aracne” (Anno XIII – n.1). Con le mi-

crostorie si intende far conoscere, tramite le numerose te-stimonianze storiche cartacee, quale poteva essere la vitacomune e sociale dei nostri concittadini alle soglie del XVIsec. ed anche più in là.Ad hoc ci viene incontro un prezioso manoscritto del 1500

posseduto dal Dott. Nicola Vacca che lo aveva ereditatodallo zio Pietro Cadura, letterato ga-latinese. (Il periodo temporale viag-gia tra gli ultimi decenni del 1700fino alla metà del 1800).

Il libretto dal formato di cm. 24 x 26in carta bambagina(1) è composto da24 fogli scritti fittamente. I primi 10,sono la copia di una cronaca iniziatada Niccolò Vernaleone, nella secondametà del 1500, membro esso di unadelle più antiche e nobili casate dellacittà di San Pietro in Galatina.

Le annotazioni del Vernaleone ini-ziano nel 1548 ma riportano anchefatti precedenti a quella data. Succes-sivamente il testo della cronaca gala-tinese continua ad opera dellafamiglia Foniati, (lo zio Giammaria ei fratelli Ottavio e Pietro Antonio.)Ad oggi non conosciamo i rapportitra i Vernaleone e i Foniati. L’ultimacronaca porta la data del 6 giugno1587, rendiconto di un avvenimento tragico, ossia l’ucci-sione di Ottavio uno dei due estensori di questa cronacacittadina che riproporremo come scritto nel documento.

Di questa cronaca riportiamo gli episodi più significati-vi, intercalando anche alcune brani come riportati nel vol-gare dell’epoca .

1489 - Ricordiamo che già nel 1481 Otranto era stataespugnata dai Turchi, e che oltre alla gran paura anche lecontrade vicine subirono la stessa sorte. In modo menoviolento, Galatina, secondo le cronache ebbe gravissimidanni; non andò allo stesso modo nel 1489, quando i Vene-ziani presa Gallipoli, ed impossessandosi di Nardò, volse-ro i soldati e bandiere vincitrici verso le mura di Galatina.

Molti cittadini chiesero al Sindaco Nico Nuzzo di aprire leporte all’esercito vincitore onde evitare di subire ulterioridanni, ma costui invece infiammò gli animi dei più giova-ni che, armandosi soprattutto di coraggio, attesero sullemura il nemico, oltre che incalzandolo con scontri improv-visi, fino a quando i Veneziani desistettero, abbandonandolungo le mura le scale di legno preparate per entrare in cit-tà. Uno di questi trofei fu appeso alle pareti della chiesaMadre e conservato fino al 1560.

17/02/1555 - Muore messer Altobel-lo Vernaleone per colpo apoplettico,dottore in fisica, fu uomo di lettere,oltre che sindaco di Galatina(2).

22/02/1558 - In questa data fu mes-so in funzione l’organo nella chiesadi Santa Caterina

29/10/1560 - Fu colata la campanagrande di Santa Caterina da messerLupo Paritati da Gallipoli, famosofonditore di bronzo. Purtroppo que-sta campana non esiste più.

1561- Il cronista riferisce che inquell’anno moriva Don Gian Paolodella nobile famiglia d’Aruca origi-naria di Corfù che per motivi di sicu-rezza si era trasferita in terrasalentina a Galatina. Gian Paolod’Aruca era cantore latino, per di-stinguerlo dai sacerdoti di rito grecoin quell’epoca ancora molto vivo incittà. All’inizio del Seicento su 34 sa-

cerdoti presenti in città, ben 29 erano di rito greco(3).Riportiamo come è scritto: in questo medesimo anno fu ca-

restia d’acque, che non pioppe da marzo perfì a settembre, ondetutte l’uve delle vigne siccaro.

1562 - Riportiamo: Adì primo d’aprile 1562 fu menata unabalestrata a Ferrante Seccondi e campò giorni cinque.Adì 14 del ditto mese fu ammazzato Scipione Scalfo avanti laporta de Cutrofiano... e l’ammazzò Scipione Secundi, et uno suocugino Bonifatio de Corliano et uno bastardo figlio d’OrsinoSciemmo, quale menò con la balestra ad Ercole Scalfo

12/09/1562 - Venne a San Pietro in Galatina la contessadi Potenza moglie del vicerè di Lecce e di Bari. Al suo se-

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STORIA CITTADINA

2^ puntata

Ada Antonelli - Contessa di Potenza

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guito cento cavalieri e una compagnia di 300 archibugieri.Alloggiò nel castello di Galatina per alcuni giorni per poiraggiungere suo marito, il vicerè, a Lecce.

7/08/1563 - Riportiamo: Bartolomeo (….) alias Bambulo diCollemeto autore di grandi nefandezze fu portato nella chiesa diSan Pietro e impiccato. Era giovedì, festa di San Simone e Giuda.

1564 - Un’altra gran-de siccità colpi l’agrodi Galatina, durò dalprimo di settembre1564 fino alla fine diMaggio 1565.

Agosto 1565 - Ripor-tiamo: essendo notaroRaimondo Scalfo Sindi-co, fè conzare la via diSanto Sebastiano, dovenon si poteva caminare,da uno nomine Andreada Solito, per ducati sei.

28/08/1569 - Monda-nità. Nella sala del ca-stello di San Pietro inGalatina fu rappresen-tata una commedia,detta “La Schiava” da-vanti all’eccellenze delcircondario come il duca di Nardò e la contessa di Alessa-no con la presenza di numerosi cavalieri. La commedia du-rò sette ore con musiche ed intermedi molto gradevoli. Gliautori furono Ottavio e Orazio Vernaleone. A Galatina viera una buona tradizione teatrale; già nel 1541 si mettevain scena l’opera di Altobello Vernaleone. Ricordiamo an-cora, Dialogo della virtù donnesca e L’inaspettati casi, operedel fisico Silvio Arcudi sempre Galatinese.

1569 - Pietro Antonio l’autore di queste cronache si am-mala tanto da star a letto per circa due anni, gli viene som-ministrata una terapia a base di latte per la diagnosi di Tisi(Tubercolosi) fatta dal celebre medico Teofilo Zimara, fi-glio del già celebre filosofo aristotelico Marcantonio Zi-mara.

1569 - Riportiamo: Si incominciò (La costruzione dellacappella(4)) lo Monte de la pietà. L’instituì fra Giovanni Puter-ti di Taranto Capuccino, et si fermo perfì al corpo di Cristo, et lo

levò esso e dopo lo venerdi andò a Otranto.

Alcuni riferimenti dopo la battaglia di Lepanto(07/10/1571) fanno riferimento alle terre salentine e a

Galatina.30.10.1571 - Passò dalla città il Principe di Palma e il

principe di Urbino; alseguito vi erano nu-merosi soldati ricchidell’oro trafugato aiturchi durante la fa-mosa battaglia e unsoldato spagnolo fuderubato e trucidatonottetempo per le stra-de di Galatina. La tra-dizione dice pure cheDon Giovanni d’Au-stria, reduce dalla bat-taglia di Lepanto,volle visitare la vicinaSoleto per rendereomaggio a Matteo Ta-furi alchimista e medi-co, famoso per le suedottrine in tutta Euro-pa, ma soprattutto per

le conclamate stupefacenti facoltà divinatrici.1579 - Intercaliamo ora una cronaca di Fausta Vacca: cro-

naca inedita galatinese del cinquecentoEsisteva una congrega detta dei Flagellati o dei Batten-

ti che per penitenza si battevano le spalle con la disciplina,cioè con il flagello, fino a farle sanguinare. La confraterni-ta aveva sede nella chiesa sita in via Marco A. Zimara, bel-la e ricca, costruita nel 1579. I Battenti erano celebri per ilunghi viaggi che effettuavano per affari. Un carteggio an-dato distrutto ricordava che un appartenente (Pietro Anto-nio…) alla congrega, partì per Roma il 24/02/1581 perritornarvi il 21 di Aprile. A conferma Monsignor AntonioAntonaci scrive che in Galatina, l’arte della manifatturadelle pelli costituiva sin dal 400, il nerbo dell’attività arti-gianale e commerciale che faceva del paese il maggior cen-tro per la lavorazione delle pelli, noto in tutto il regno diNapoli. Si pensa però che i lavori più gravosi, più inqui-

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Galatina (LE) - Chiesa della SS. Trinità o dei Battenti - Interno

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nanti e pericolosi venissero lasciati agli immigrati dell’epo-ca, quasi sempre famiglie di ebrei sfuggiti a qualche dia-spora o che comunque con questo lavoro riuscivano adarricchirsi: i ditiniuri. A conferma di ciò in via Zimara apochi metri dalla chiesa dei Battenti, esiste una casa a cor-

te del 1500 dove su l’architrave di una antica finestra inter-na, troviamo una epigrafe in ebraico “TETRAGAM-MATHON” (parola che indica DIO senza nominarlo diret-tamente), prova che in quella zona tra il (1400 e1500) esiste-va un ghetto giudaico che viveva con i lavori della concia.

A riprova, da una cronaca di G. Donno: a Galatina nel1770 su 4700 abitanti vi erano una ventina di botteghe edun centinaio di conciatori soprannominati ditiniuri (ditanere in riferimento all’utilizzo a mani nude di calce e tan-nino che, solubile in acqua per reazione chimica, trasformala pelle in cuoio ed altre sostanze che annerivano i polpa-strelli, intossicando gli operatori).

10/06/1572 - Una grandissima carestia affliggeva le con-trade di San Pietro in Galatina. I galatinesi, naturalmente, sidavano da fare per superareal meglio la calamità. Unacerta Polifila coniuge di uncerto messer Angelo Valentevendeva l’acqua delle sue ci-sterne per abbeverare il be-stiame per 30 ducati. Au-mentando le richieste diven-tò più esosa, ma fu sfortuna-ta, perché da quel giornopiovve con tanta abbondan-za che nessuno ebbe più bi-sogno della sua acqua.

1573 - La carne di porco sivendeva a Galatina a 7 gra-ni il rotolo (unità di misuracorrispondente a gr. 890,9).La carne di bue a 8 grani il rotolo

09/09/1573 - Si sparse la voce che un’armata di turchi fe-rocissimi erano a 2 miglia dal paese. Un figlio di messerCuchi raccontò che le frecce sibilavano numerose sulla suatesta mentre trasportava un carro carico di botti e, abbon-donando precipitosamente il mezzo, fuggì a cavallo sal-vandosi.

13/06/1574 - Muore Luttio Vernalione, aveva espressa-mente chiesto che non suonassero le campane e che nessu-no venisse a fare le condoglianze alla sua famiglia. Inoltreaveva preteso di essere vestito per la sepoltura con l’abito

di San Giovanni fatto, come da tradizione, di pelli di ani-mali.

19/11/1574 - Iniziarono i lavori per edificare la porta diSanta Caterina vicino all’anonima Basilica. Il mastro fumesser Stefano, genero di mastro Indriolo, già ricordato.

Nello stesso giorno morì Ferrante Foniati colpito da duecolpi di faretra menati da Francesco Antonio di Angelo Co-lofilippi. Il delitto avvenne alle 4 di notte. Una freccia col-pì una natica e il malcapitato riuscì a tirarla fuori dellecarni, l’altra freccia era penetrata nell’osso dorsale, e non cifu niente da fare. Nessuno dei 4 soldati a guardia tra lachiesa di santa Caterina, la piazza e la via di Marra, si ac-corse del crimine.

1586 - Altro anno di carestia. Prezzi delle derrate alimen-tari alle stelle: grano a 18 carlini il rotolo, l’orzo a 8 carlini,olio a 17 carlini, vino a 8 grane (un ducato erano cento gra-ne).

6/6/1587 - Concludiamo e riportiamo il tragico avveni-mento che pose fine al diario: “Sabato fu morto e assassinatoil povero et mal avventurato Ottavio Mio, nella piazza pubbli-ca, ad ore 17 incirca, dopo magnò in casa mia. Et quel dì istessovolea andare alla guerra con il sergente Moretto. Che certo mo-rì come martire, essendo stato ammazzato da persone a chi nonaveva mai fatto male… et campò mezo quarto di ora, avendo avu-to una dagata dietro alle reni della banda manca, che fu quella chel’ammazzò et una altra ferita alla testa di poco momento”.

Adesso mi fermo per non stancarvi, ma la storia di que-sta città va avanti ancora impetuosa;

Unica riflessione: la città è cresciuta quando si è ricono-sciuta unica e potente intorno ad un capo che intelligente-mente ha tracciato un solco, dove tutti senza polemiche edastiosità hanno seminato i loro semi che hanno portato ab-bondanza e ricchezza soprattutto per i loro figli. Speriamo

che si ripeta.

NOTE:(1). La carta di Amalfi, detta an-

che Charta Bambagina, è un parti-colare e pregiato tipo di cartaprodotto fin dal Medioevo nellacittà campana.

(2). Sotto la sua amministrazio-ne si iniziò ad edificare la cintamuraria della città, le vecchiemura del 1355 erano ormai peri-colanti. Fu chiamato il famoso in-gegnere Evangelista Menga diConvertino (Copertino) che giàaveva edificato il castello di Co-pertino e quello di Barletta, e LaGoletta (Malta), importante piaz-za d’armi della cristianità nel me-diterraneo.

(3). Ancora nel 1607, la popola-zione di Galatina, oltre a seguire il rito greco, parlava un dialetto greco co-me volgare ma solo nel basso ceto, e nella fascia contadina, insieme allepopolazioni di Soleto, Corigliano, Sogliano, Cutrofiano, Zollino, ed altriborghi del medio Salento, e si parlò fino al 1738 (Da notizie sul rileva-mento della numerazione dei fuochi in San Pietro in Galatina) .

(4). La Comunità francescana intendeva effettuare con sistematicità l’as-sistenza dei poveri, ma per questo era necessario disporre delle renditedi un patrimonio, che i Cappuccini non potevano possedere, in quantoappartenenti ad un Ordine monastico mendicante. Era quindi necessariocostituire un Ente, diretto da laici o da ecclesiastici non votati alla pover-tà, che avesse l’effettivo possesso dei beni, i cui proventi fossero destina-ti ad opere di carità. ●

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Galatina (LE) - Ghetto ebreo in Via Zimara

Chiesa dei Battenti - Affresco delle mura cittadine

Gianfranco Conese

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aprile/giugno 2018 Il filo di Aracne 37

Longobardismi e germanismi

Alcune popolazioni di origine germanica, Goti, Lon-gobardi, Franchi, hanno occupato l’Italia a partiredal V secolo d. C. Nei contatti tra vincitori e vinti,

tra Germani e Romani, parecchi vocaboli usati dagli inva-sori sono passati nei dialetti volgari. Ne riportiamo alcuni,filtrati nel Basso Salento, attraverso il ducato longobardodi Benevento nei secoli VII e VIII, tramite i soldati e i colo-ni profughi.

carànfuli: dal long. krapfo, uncino, artigli di pollo;chiascione: dal germ. ant. introdotto dai Longobardi

blahe + plahe, grossa tela, lenzuolo;finita: lat. finis + long. S(i)naida, < snaida, sentiero nel

bosco, scampagnata fuori città il lunedì in Albis; le finiteerano anche grosse pietre, spesso di pietra leccese, che se-gnavano il confine tra i campi;

nocca: dal long. knohha, giuntura delle dita (far scroc-chiare le nocche della dita), anche nastro annodato;

scarda: da skarda, spaccatura, scheggia di pietra, di le-gna;

scriddhrare: dal got. skilla, squillo, grido; strillare, gri-dare nell’orecchio. M’hai scriddhratu le ‘ricche: mi hai fattosquillare le orecchie. Cunta cchiu cittu e nu’ mmi scriddhrarele ‘ricche: parla a bassa voce e non mi gridare nelle orec-chie. Nu’ scriddhrare ca nu’ su’ ssurdu: non strillare perchénon sono sordo;

sparagnare: dal long. sparanjan: risparmiare. Sparagnala farina quandu la matthra è china, ca se lu fundu pare a ccesserve lu sparagnare? (risparmia la farina quando la madiaè piena, perché se si vede il fondo, a che serve risparmia-re?);

suppa: dal got. suppa, fetta di pane inzuppato, zuppa.M’haggiu fattu suppa suppa: sono tutto bagnato di pioggia.Fatti ‘na suppa!: vai a quel paese!;

tàccaru: dal germ. tak, pezzo di tronco, di ramo, perso-na rozza, tarda di mente, zoticone. Ste ddhrai comu nu tàc-caru: sta lì fermo, impacciato, come un tonto. De nu bbonutàccaru esse ‘na bbona àschia: da un buon ceppo si fa buonalegna;

vangale: dal lat. tardo adottato nell’area germanica gan-ga < longob. wanga, guancia, dente molare.

Ispanismi

Agli iberismi di epoca aragonese si aggiunsero nel lessi-co dialettale salentino, nel periodo del viceregno spagno-lo, che va dal 1559 al 1713, molti ispanismi o spagnolismi,tra cui:bbuscare: buscar, cercare, tentare, trovare, ottenere, gua-dagnare, ricevere. Lu buscare te ‘mpara a spendere: il guada-gno ti impara a spendere. ‘Stu mese imu bbuscatu pocu e filu:questo mese abbiamo guadagnato poco e niente. Mo le bbu-schi!: ora le prendi! M’haggiu bbuscatu nu piattu de fiche: miè stato regalato un piatto di fichi. Ci bbusca e ddè, an paradi-su vè: chi riceve e a sua volta dona, va in paradiso. Bbusca:piccola mancia, piccola ricompensa. camisciola: capichola, fettuccia o nastro di cotone o di se-ta; cafùrchiu: cabuerco, buco, tugurio, tana, cunicolo. Lu sòri-ce s’have scusu ‘nthra nnu cafùrchiu: il topo si è nascosto inun buco. La casa soa ede nu cafùrchiu: la casa sua è un’abita-zione angusta; rrisicare; arrisca, osare con rischio (lat. volg. ausicare, freq.di ausare, audère);rrunzare: arronzar, arronzare, fare un lavoro in fretta, sen-za impegno. Scòstate se no te rronzu: scòstati se no ti urto;rrunzatu, investito. Lu sartore m’have rrunzatu lu custume,il sarto mi ha confezionato male il vestito;sciamberga: chamberga, giubba, marsina, (introdotta nel‘600 in Spagna dal generale francese di origine tedescaSchomberg), coito, amplesso fuggevole. M’haggiu fattu ‘nasciamberga: mi son fatto una sveltina. Soprabito, vestito dapoco conto: càcciati de susu ‘ddhra sciamberga: togliti di dos-so quel vestito vecchio, lacero. Ubriacatura: stasera n’imufattu ‘na bella sciamberga: questa sera ci siamo fatti una bel-la ubriacatura. Si’ ‘na menza sciamberga: sei un uomo dap-poco. Faci le cose alla sciamberga: agisci senza criterio;varra: barra, grosso bastone per sbucciare il grano nel mor-taio, stanga, spranga, sbarra. Prima cu tte curchi, menti lavarra rretu ‘lla porta: prima di andare al letto, metti la sbar-ra dietro alla porta. Cu ‘na bbotta de varra ‘n capu lu stendu‘n terra: con un colpo di stanga in testa lo distendo per ter-ra. Da varra, nel nostro dialetto, deriva, in senso figurato,varrisciare, percuotere e varrisciata, bastonata. L’have fattu‘na varrisciata de mazzate: gli ha fatto una mazziata con tan-ti colpi di “varra”.capatazza: capataz, caposquadra, sorvegliante, capoma-

TERRA NOSCIA

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Quando si parla di senso di appartenenza, in gene-re vengono in mente il folklore, le tradizioni, le ri-correnze civili e religiose, che sono anche le tanto

attese occasioni di ritrovo familiare e sociale. Tuttavia, ilnostro senso di appartenenza va al di là delle ricorrenze insé. Esso dipende, infatti, dalla spontanea percezione o dal-la consapevolezza di avere delle cose che ci uniscono allepersone che ci circondano: l’ambiente in cui si cresce o sivive, le relazioni personali, le esperienze condivise e tuttociò che rientra a far parte di una memoria comune. Unamemoria che consisteanche nella coscienzadi avere uno stessobagaglio di cono-scenze, trasmesse daipropri cari o, in gene-rale, dai più anziani.

In una dimensionesociale così percepita,il concetto di ‘storia’non è più quello diuna materia teorica,noiosa o distante danoi, ma una realtà vi-va che ci rende parte-cipi. Si tratta quindidi una forma elemen-tare di coscienza sto-rica collettiva, chepuò tuttavia essere approfondita verso il passato, assol-vendo il bisogno di riconoscersi e immedesimarsi nel vis-suto di chi ci ha preceduto, dando modo di orientarsi e diidentificarsi nel tempo presente.

L’onomastica, oltre ad essere un aspetto affascinante, èun riferimento essenziale nella ricerca storica familiare. Inomi e i cognomi iscritti nelle fonti storiche costituiscono,infatti, il documento di identità dei propri antenati. La ri-cerca di quei nomi ci restituisce la meravigliosa testimo-nianza di una lunga memoria sconosciuta e insondata, piùche dimenticata.

È molto interessante riflettere, inoltre, sul fatto che inuna ipotetica rappresentazione genealogica, oltre al pro-prio cognome comparirebbero moltissimi cognomi mater-ni, ossia quelli delle mogli e delle madri di ogni proprio

antenato paterno. Inoltre, se l’indagine proseguisse, dira-mandosi, in cerca dei genitori di ogni singola antenata, icognomi si moltiplicherebbero in modo esponenziale. Per-ciò, le persone che ci circondano hanno, spesso e volentie-ri, un’insospettabile relazione con la nostra storiaonomastica e, talvolta, anche familiare. Una storia che fi-nisce così per assumere, con nostra meraviglia, una dimen-sione “comunitaria”. In questo modo di intendere lagenealogia, una rappresentazione grafica finirebbe neces-sariamente per raffigurare una foresta di alberi genealo-

gici intrecciati traloro, dandoci im-provvisamente l’im-pressione di essereparte integrante diuna realtà ben piùampia e complessa diquella che finora ab-biamo mai conside-rato. Se si tiene conto,poi, della mobilitàdei cognomi, neltempo, da una locali-tà all’altra, il sensostorico di apparte-nenza tenderà neces-sariamente a espan-dersi oltre i confiniideali della propria

città natale.Quali erano, dunque, i cognomi che in passato conno-

tavano le famiglie di Galatina? La nostra città, come ognialtra del resto, nel corso dei secoli ha visto di continuo dauna parte estinguersi alcuni cognomi, dall’altra giungernecontinuamente di nuovi e tutto ciò ha contribuito ad arric-chire, oltre alla nostra cultura, anche il patrimonio gene-tico e, chiaramente, l’onomastica galatinese.

Nessuna fonte storica riguardante la nostra città è in gra-do di fornire, da sola, una situazione demografica d'insie-me e al tempo stesso così dettagliata come il Catastoonciario di Galatina (1754), conservato presso l’Archiviodi Stato di Lecce. Si tratta, infatti, di un censimento dellapopolazione nel quale troviamo registrati tutti i nuclei fa-miliari (fuochi) galatinesi presenti in un periodo di circa

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UNA FINESTRA SUL PASSATO

India - Moschea di Sidi Saiyyed ad Ahmedabad - Albero della vita

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tre anni, dal 1751 al 1753. Perciò, possiamo considerarlocome una tappa evolutiva dell’onomastica galatinese inun’epoca intermedia: tra l’inizio delle registrazioni dellapopolazione (libri canonici dei battezzati, compilati a par-tire dal 1515) e oggi.

I cognomi dei capifamiglia (dei fuochi effettivi e fuochiacquisiti) riguardano ben 969 nuclei familiari (di cui 41 noncensiti come fuochi autonomi, ma inclusi in altri fuochi).Proprio in questo pe-riodo si registra l’inte-grazione civica dinuove famiglie: 384fuochi acquisiti, di cui34 dovuti a matrimo-ni contratti nei tre an-ni (1751-1753). Nelcomplesso, alcuni nu-clei familiari omonimisono più numerosi dialtri e ciò suggeriscela presenza dei rispet-tivi cognomi, in Gala-tina, da più genera-zioni. Ciò non toglieche anche quelle fami-glie che sono le uni-che ad avere un deter-minato cognome potrebbero essere state già presenti dapiù generazioni, tendendo però ad estinguersi il cognomeal momento del censimento. Molti altri cognomi, invece,dovranno ancora giungere.

Leggendo i cognomi, come riportati nel documento ori-ginale (298, includendo le varianti ortografiche)1, è interes-sante osservare quale fosse la forma cognominale2, cheall’epoca connotava ogni singola famiglia. Tuttavia, con-sultando i libri canonici parrocchiali coevi, conservati pres-so l’archivio storico della chiesa dei SS. Pietro e Paolo diGalatina o i relativi indici, si possono scorgere alcune dif-ferenze ortografiche rispetto agli stessi cognomi trascrittinel Catasto onciario di Galatina. Tali dissomiglianze sono

spesso dovute a interpretazioni, traslitterazioni fonetiche oerrori compiuti durante la scrittura3 dei documenti, che tal-volta sono all’origine del cambiamento del nome familia-re, tanto da indurre spesso a ritenere, il più delle volte atorto, che il proprio cognome non abbia una storia in co-mune con un altro analogo o un po’ differente4. La ricercagenealogica può dimostrare, invece, che spesso non è affat-to così: cognomi tra loro identici o similari hanno quasi

sempre una stessaorigine o testimonia-no comunque una re-mota storia familiarein comune.

Con tutte questeconsiderazioni, scor-rendo i cognomi deicapifamiglia della co-munità galatinese dimetà ‘700, ognunopotrà semplicementelimitarsi a riconosce-re il proprio (per alcu-ni, come era nellaforma ortografica pre-cedente)5, oppure, ri-flettendo sul fatto cheanche altri cognomi

lo potrebbero riguardare, dal punto di vista storico o ge-nealogico, potrà iniziare a riconsiderare il proprio senso diappartenenza:Abramo (1), Albanese (3), Alessandriello (1), Anastasia (6),

Ancora (1), Andriani (4), Angelini (1), Angelino (6), Angelli(1), Antonaci (11), Antonazzo (2), Antonica (1), Apollonio (2),Aprile (1), Arcudi (10), Ariello (1), Arseni (1), Atanasi (1),Avantagiato (1), Baffa (2), Baglivo (10), Baldari/o (1/7), Bal-di (4), Balena (4), Ballotta (1), Bardi (2), Bardoscia (4), Bar-ratta (1), Barrazzo (1), Beccarisi (1), Benaggia (1), Bene (1),Berdicchia (1), Berdoscia (2), Berga (1), Bianco (1), Bisci (1),Blaco (1), Boldi (1), Bonuso (4), Borgia (1), Brocani (1), But-tazzo (1), Cacciante (1), Cadura (1), Cafaro (1), Calò (4), Ca-

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Rappresentazione di alberi genealogici con stemma cittadino

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lofilippi (5), Campa (3), Cantore (2), Capani/o (1/2), Cappel-lo (1), Carachino (3), Caragiuli (2), Carcagnì (2), Caroppo(2), Carratta (1), Casaluci (1), Castelluzzo (1), Castrioto (5),Cataldo (1), Cavoti (2), Centonze (2), Cesari (15), Cesari Pio(1), Cesari Turlo (1), Cesaro (1), Chirenti (5), Cira (2), Codu-to (1), Colaci (6), Colaforte (3), ColoColo (1), Coluccia (7),Condari (1), Congedo (17), Contaldo (9), Conte (2), Conzen-ti (5), Coroneo (7), Coscia (1), Cosma (1), Costa (9), Costan-tino (7), Cudazzo (5), Cutoli (2), d'Amico (4), d'Amico aliasTamburrino (1), d'Anna (3), de Benedictis (1), de Donatis (1),de Giacomo (1), de Giovanne (9), de Laurentis (1), de Matteis(2), de Mico (5), de Paolis (9), de Paolo (2), de Salve (1), de Si-mone (6), de Virgilio (1), de Vito (3), d'Elia (2), della Ducata(4), dell'Abbate (2), di Don Lorenzo/Donlorenzo (2/7), Diso(3), Dolce (8), Duma (13),Esposito (2), Ferilli (2), Fer-rarese (1), Ferraro (2), Filoni(1), Finagrana (1), Fiore (1),Frassanito (2), Furone (3),Gabrieli (4), Galignano (5),Gallucci (2), Garrisi (1),Gentile (1), Gervasi (1), Ge-su (5), Giaccari (1), Giannel-li (2), Gianni (1), Giausa(7), Gicante (1), Giesotta (1),Giordano (1), Giuppa (7),Giurgola (1), Giuri (1), Gor-goni (4), Greco (6), Gugliel-mo (5), Ignonetta (2), Indic-chi (1), Indrichi (1), Ippolito(6), Isabella (8), Izzo (1), La-gna (3), Lanciano (1), Latino(7), Lauria (9), Lazzari (13),Lazzoi (4), Leo (2), Leone(1), Leuzzi (2), Lisi (2), Lu-ceri (28), Luceri Fuso (1),Luisi (1), Lupo (4), Maga-gnano (1), Magio/Maggio(2/2), Maiorano (4), Manca(3), Mandurino (2), Manfre-da (4), Mannara (1), Marchese (1), Margiotta (2), Margone(1), Mariano (4), Marinaci (1), Maritato (2), Marra (26),Marseglia (1), Marti (2), Martines/z (1/1), Marzano (2), Mar-zo (1), Masciullo (21), Massa (3), Massese (1), Matino (1),Maurico (1), Mauro (3), Mele (4), Melone (1), Mengoli (5),Merico (6), Mezio (3), Milelli (1), Mileti (3), Miri (4), Mol-le (2), Mongiò (4), Monte (1), Morcciano (2), Morì (4), Mo-ro (2), Morrona (1), Moscara (3), Mucedaro (1), Murcciano(1), Negro (1), Nico (1), Niso (1), Nuzzo (1), Orlando (3),Ottaviano (3), Pagano (1), Palmieri (2), Palumbo (2), Pan-dello (5), Panico (12), Papadia (30), Passante (1), Patera(2), Penna (1), Perelli (1), Perrone (1), Piatti (1), Pica (4),Picca (3), Pierri (1), Pisani (1), Pisino (1), Pita (1), Pitar-do (1), Pizzola (1), Protomastro (1), Quaranta (2), Rescio(5), Rianà (2), Rigliaco (1), Rizzo (7), Romano (10), Roncel-la (1), Russetti (1), Russo (1), Rutigliano (1), Sabatino (1),Sambati (14), Santese (11), Santoro (7), Sanzò (1), Saraci-no (1), Sardella (4), Scalese (3), Scarzia (4), Scollato (1),Scorrano (2), Scrimieri (7), Serafino (4), Siciliano (1), Sicu-ro (1), Silvestri/o (4/1), Spagnolo (2), Spalluto (2), Spedica-to (3), Sponziello (6), Stasi (3), Stefanelli (2), Stefanizzi (6),

Stella (1), Stifani (2), Strati (3), Stravella (1), Tafuro (4),Tanza (4), Tarantino (2), Tedesco (1), Tocci (3), Totaro (2),Tundo (23), Turcchi/Turchi (1/3), Vallone (1), Varratta (13),Vascio (1), Verdicchia (1), Vergaro (4), Vergine (1), Vernalio-ne (2), Vignola (1), Villano (3), Viola (4), Virgilio (1), Vita(3), Viva (2), Vonghia (1), Vozza (2), Zamboi (1), Zappatore(2), Zullino (1).

Si aggiungono, poi, i cognomi dei forastieri abitanti conl’interessante indicazione della provenienza: Arigliano (diGalatone), Barrazzo (di Noha), Cacciante (di Zollino), Carachi-no (di Corigliano), Casciari (di Vignacastrisi), de Matteis (diMelpignano), Giurdignano (di Aradeo), Greco (di Aradeo), Gre-co (di Galignano), Leuzzi (di Galatone), Lupo (di Amantea inCalabria), Manca (di Soleto), Pisani (di Lecce), Russo (di Sole-

to), Trianni (di Alliste), Tun-do (di Soleto).

È generalmente trascura-to, anche dalla storiografiacontemporanea, il cogno-me delle donne della co-munità (coniugi, madri,vedove, ecc.), che costitui-sce invece un aspetto mol-to interessante nell’inda-gine onomastica e antropo-logica. Per fare solo unabreve, ma importante con-siderazione basti pensareai matronimici, nati moltospesso da situazioni di ab-bandono della prole daparte del genitore paterno.Nei casi più antichi, i figliassumevano, come cogno-me, il nome proprio dellamadre; ne è un esempioColuccia, che nasce dall’afe-resi dell’ipocoristico Nico-luccia. In altri casi, i figlipotevano assumere come

cognome un sostantivo riferito alla madre; ad esempio ilcognome Papadìa, che in passato indicava la moglie delprete greco6. Successivamente, i figli non riconosciuti dalpadre spesso acquisivano il cognome materno.

Meritano una menzione, quindi, i cognomi (145) delle ri-spettive mogli e delle madri dei capifuoco censiti nel Ca-tasto onciario di Galatina. Non verranno riproposti icognomi (183) simili a quelli dei capifuoco già elencati,avendo peraltro, il più delle volte, le medesime origini fa-miliari. Alcuni cognomi di donne galatinesi segnano, in-vece, l’estinzione del nome stesso per effetto degli antichidiritti di successione ereditaria, che imponevano alla pro-le l’assunzione del cognome paterno. Altri, al contrario, so-no completamente nuovi, perché immigrati da poco aGalatina, e in 32 casi viene anche fornita l’indicazione del-la provenienzaAlfarano, Angelelli, Anna, Antonica, Atanasio, Bardicchia,

Blago, Bolognini, Bono, Bottazzi, Bramo, Brunetti, Bruno, Bu-glia (di Galatone), Cala, Calamo, Capoccia (di Lequile), Ca-scieri (di Vignacastrisi), Castrignanò, Catanzano (di Otranto),Cera, Cesare, Chiarello, Chiriatti, Chirvasi, Cocolona/e, Colafi-

40 Il filo di Aracne aprile/giugno 2018

Titivillus cerca di indurre in errore San Bernardo

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lippi, Comi (di Corigliano), Conversano, Coroneo, Cozzella,Crocivi, Curchi, Daga, de Battista (di Lequile), de Blasi, de Ca-po, de Leone, de Palma, de Paolo, de Tomasis, del Colle (di Cam-pobasso), dell'Abbate, dello Piano, Disola, Elia, Farina (diNardò), Feliciani (di Napoli), Ferrari, Ferro, Francioso (diLecce), Gianni (di Spongano), Gioffreda, Grandi, Guido, Indi-co, Inguscio, Iscieri, Levieri, Lezzi (di Nardò), Ligori, Lopex/z,Madalena, Maggi, Mancini, Mancino (di Barletta), Marina,Marra (di Melpignano), Martina/o, Martino (di Copertino),Mascio, Masi, Massaro, Mazzafara, Mecchi, Medaglia, Mega(di Galatone), Menzolina (di Gallipoli), Messi (di Palmarig-gi), Mì, Milone, Morello, Muscatello, Natale, Natali, Negro (diFrancavilla), Nero, Nisi, Papa, Parascia, Pecorino, Pellegrino(di Zollino), Pepe (di Francavilla), Piccinno, Pinto, Pisanò,Piscopo, Pitardi, Plana, Poli (di Molfetta), Preite, Riccio (diDiso), Rinaldi, Risola, Rizza, Roccio (di Seclì), Romana, Ro-stinci, Rugieri, Russo (di Soleto), Sanzarella (di Francavilla),Scappaldi, Sergio, Serra (di Zollino), Silverio, Specolizzi, Squa-triti, Sticca, Stravella, Tafuri (di Gallipoli), Torchetti, Turco,Vaglio, Vagnulo, Vergari, Vigneri, Vincenti, Vozza (di Matino),Zizzari (di Seclì), Zuccaro.

Tra le vedove, compaiono anche i cognomi: Scarccia, Ales,Chirenti, Margea, Curchì, Squadriti, Zacaria, de Simone, Masi,Rolli, Mollona, Orlando, Prato.

I nomi e i cognomi che ci appartengono, sono nati in pas-sato dalla necessità di identificarci e di distinguerci e tut-t’oggi servono a noi stessi per orientarci nella società.Senza il nome l’uomo perde, di fatto, la propria dimensio-ne storica, che è l’ancora di salvezza di ogni individuo, inun’epoca in cui la globalizzazione del capitalismo minac-cia di svilire la ricchezza delle diversità culturali, tenden-do a identificarci sempre più come dei “numeri” o dei“codici” piuttosto che come esseri umani dotati di una pro-pria identità, di una dignità, di una memoria.

Perciò, è molto importante credere nel recupero della pro-pria coscienza identitaria familiare e comunitaria, sia per ten-dere a una costante, responsabile ricerca di un proprio ruolopartecipativo nel presente sia come via utile a conoscere me-glio se stessi e sviluppare il proprio senso di solidarietà, perarrivare a trascendere ogni preconcetto di appartenenza (na-zionalità, razza, credo politico, religioso ecc.), spesso motivo

di disturbo della convivenza civile. ●

NOTE:1. Solo in un caso non è riportato il cognome del capofuoco: Donato

[…], di 14 anni, figlio di Donata Gicante (c. 129v).2. Si può constatare come già all’epoca ci fossero differenze ortografi-

che tra cognomi simili. Solo per fare alcuni esempi, appare facilmente in-tuibile che le due forme d’Amico e de Mico abbiano una stessa origine.Così pure i cognomi: Varratta, Barratta e Carratta, oppure: Bardoscia, Ber-doscia e Verdoscia (in seguito, anche: Verdosci), ecc.. Inoltre, si possononotare, eventualmente, differenze rispetto alla forma attuale del propriocognome e quindi quale poteva essere quella precedente o originale. Que-ste modifiche ai cognomi avvenivano, come noto, alla nascita, ad operadel redattore dell’atto di battesimo: l’arciprete (parroco) o suo sostituto.In generale, la compilazione dei libri dei battezzati è iniziata subito do-po la disposizione del Concilio di Trento del 1563. Dal 1809 in poi, in ap-plicazione del Codice napoleonico hanno avuto inizio anche gli atti dellostato civile (nati, matrimoni e morti), a cura del sindaco o suo delegato.

3. Nel Medioevo, per giustificare gli errori di copiatura dei monaci ama-nuensi si incolpò un fantasioso demone: Titivillus.

4. Per esempio, molti cognomi compaiono con una declinazione ma-schile in ‘i’, che il più delle volte non è una forma al plurale, ma dipendegeneralmente dall’uso del genitivo latino anche nella trascrizione del co-gnome paterno (ad es.: «Antonius filii Francisci Cataldi», anziché Cataldo).Nel caso delle declinazioni al femminile, qualora non si tratti di formematronimiche già consolidate, esse erano frequentemente utilizzate inpassato, durante la compilazione dell’atto, per rimarcare l’identità di ge-nere. Si possono riscontrare, inoltre, frequenti errori, di varia natura, ov-vero anche diversi tipi di interpretazione, anche nello stesso Indice deibattezzati (1650 – 1808): De Mico/D’Amico, Strati/Stasi, Marra/Manta, Mag-gio/Mascio/Massa, Sabella/Isabella, Rescio/Roccio/Tocci, Arcudi/Arcadi,Totaro/Totero. Oppure, si possono riscontrare differenze nei cognomi tra ilCatasto onciario di Galatina e l’Indice dei battezzati (1650 – 1808), qualiad esempio: Buia/Buglia, Murcciano/Murciano, Rostinci /Roncisti, Rizzo/Mi-ri, ecc.. Anche nello stesso Catasto onciario vi sono dei casi in cui, tra unaregistrazione ufficiale e il rispettivo duplicato varia, ad esempio, il co-gnome della coniuge: Manca/Marra; Bardicchia/Verdicchia, Gioffreda/Gianfre-da, Chirvasi/Chirivasi, Scarzia/Scarcia, Blaco/Blago, ecc..

5. Vanno segnalati alcuni cognomi composti, probabilmente non piùesistenti, nei quali il secondo fu adottato probabilmente per evitare la di-spersione dei patrimoni ereditari (in genere, della madre) e sono: CesariPio, Cesari Turlo, Luceri Fuso e, probabilmente, d'Amico alias Tamburrino.

6. Ricordiamo che Galatina faceva parte della Grecìa salentina. Papadia,infatti è tra i cognomi più antichi a Galatina, che potrebbe testimoniare,peraltro, la presenza del rito greco, come probabilmente anche Patera (gri-co patéra ‘prete’; greco patéras ‘padre’) e Papa (greco papàs ‘prete’).

aprile/giugno 2018 Il filo di Aracne 41

Alessandro Massaro

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HISTORIA NOSTRA

Prima dell’8 settembre 1943, giorno in cui il gen. Ba-doglio annunciava l’avvenuto armistizio con le forzealleate, le sconfitte militari italiane in Africa, in Unio-

ne Sovietica e in Sicilia avevano prodotto un elevato nu-mero di prigionieri.

Secondo alcuni dati i soldati italiani catturati dagli In-glesi in Africa settentrionale e in Etiopia furono circa400.000, mentre quelli presi dagli Americani in Tunisia ein Sicilia 125.000. Gli anglo-americani, contravvenendo al-la Convenzione di Ginevra, consegnarono alle truppe fran-cesi 40.000 militari e civili italiani da internare nei campi diconcentramento in Tunisia,Algeria e Marocco. A questivanno aggiunti i 95.000 in-ternati in Unione Sovietica.

I prigionieri furono depor-tati in centinaia di campi diconcentramento, che spazia-rono dall’Inghilterra al Me-dio Oriente, dal Sudafricaall’India.

L’interesse degli Alleatiper i prigionieri fu dovuta,innanzitutto, al loro utilizzodi manodopera a basso co-sto.

Le condizioni di vita deinostri militari, generalmen-te, erano accettabili, eccezion fatta per quelli detenuti daifrancesi, dai tedeschi e dai sovietici, che soffrirono la famee vennero sottoposti al lavoro forzato, a vessazioni di ognigenere, tanto che alla fine si contarono decina di migliaiadi decessi.

Molti altri furono internati nei campi in Olanda, Germa-nia, Polonia, Kenya, Sudan, Sierra Leone, India, Australia,Stati Uniti, Canada e in molti stati del Sud America.

Sui prigionieri internati negli Stati Uniti occorre precisa-re che molti di loro vennero ceduti agli americani dagli in-glesi e francesi, in violazione della Convenzione diGinevra che vieta il passaggio di prigionieri da una nazio-ne alleata ad un’altra.

Le condizioni di questi militari italiani furono natural-mente molto diverse da quelli detenuti negli altri campi,tant’è che molti di loro conservarono un buon ricordo di

quella esperienza. La prima fondamentale differenza fu si-curamente l’abbondanza di cibo.

Da ricordi e testimonianze appare, infatti, che i militarivenivano riforniti di cibo e di ogni conforto, dalle scarpe alsapone, dalla schiuma da barba fino al dentifricio, dagli in-dumenti alle sigarette, senza dimenticare coca-cola e dol-ciumi. Addirittura non mancarono casi in cui, invece diaspettare pacchi da casa, erano i prigionieri stessi a man-dare aiuti ai propri cari in Italia.

Fra i tanti prigionieri di guerra deportati con viaggi in-terminabili e sofferenze atroci, in giovane età e lontano da-

gli affetti più cari, durante laseconda guerra mondiale,tra il 1939 ed il 1945, anchetanti salentini e circa due-cento galatinesi. I trasferi-menti erano solitamente ef-fettuati con carri bestiameferroviari privi di finestrinio via mare con navi sovrac-cariche e con forti limiti intermini di servizi sanitari edi distribuzione del vitto.Prigionieri e cooperatori allostesso tempo, questi uominipagarono con il loro contri-buto di lavoro gli aiuti eco-nomici che gli alleati stava-

no concedendo all’Italia. Finita la guerra furono trattenu-ti nei paesi ospitanti ancora per molto tempo, con la giusti-ficazione delle difficoltà di trasporto per il rimpatrio, ma inrealtà perché utili, anzi fondamentali, per l’economia delpaese.

Tra coloro che persero la vita o furono catturati dalle for-ze alleate, naturalmente, tanti erano di origine salentina.Grazie a poche informazioni fornitemi dai familiari, horaccolto alcune notizie su alcuni nostri concittadini moltoconosciuti che hanno vissuto la triste condizione di P.O.W.(Prisoner of War) : il sig. Antonio Mangia, un arzillo signo-re di 96 anni che ricopre la carica di presidente dell’Asso-ciazione “Combattenti e Reduci” di Galatina, il sig. LuigiRomano che fino a pochi anni fa gestiva una rivendita ditabacchi situata accanto alla Porta Luce e il sig. AntonioZamboi che risiedeva in Via Zimara.

Prigionieri in un campo di internamento

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Dalla viva voce del sig. Antonio Mangia apprendiamoche egli prestava servizio a Durazzo (Albania) nel GenioMarconisti con la 11^ Divisione “Brennero” sotto il coman-do del gen. Aldo Princivalle.

Alla fine del settembre ’43, il gen. Princivalle, si adope-rò per convincere i propri comandanti che l’unica sceltaper salvare i soldati italiani era di farli passare dalla partedei tedeschi. Ottenute formali assicurazioni per l’incolu-mità di ufficiali e soldati e la promessa di mantenere intat-ta la Divisione al proprio comando in un futuro esercitocollaborazionista, ordinò ai reparti della Brennero di con-

segnare le armi. Princivalle sostenne a più riprese la necessità di dimo-

strare la propria affidabilità ai tedeschi, salvo poi concede-re che ognuno, una volta arrivati in Italia, si comportassecome meglio avrebbe creduto.

Molti, e fra questi il nostro concittadino, non aderironoalla proposta e nell’ottobre del medesimo anno furono con-segnati ai tedeschi.

Fu così che il sig. Mangia fu deportato dapprima inOlanda nel campo di transito di Westerbork dove gli fu as-segnato il n° di prigioniero 53.707, poi trasferito a Dui-sburg, in Germania, destinato come forza lavoro perl’economia del Terzo Reich nella fabbrica Thyssen e sotto-posto a un trattamento disumano, subì umiliazioni, famee le più tremende vessazioni.

“In prigionia pesavo appena 37 Kg - racconta con gli occhilucidi per la commozione - e tutti noi prigionieri eravamo in-festati da pidocchi. La sveglia nel campo era alle 4.00 del matti-no, ci era concessa mezz’ora per vestirci e per radunarci interziglie davanti al cancello per l’appello1. Alle 5.00 si partiva apiedi per raggiungere la fabbrica della Thyssen situata ad un’oradi cammino calzando zoccoli di legno e a stomaco vuoto. Ai pri-gionieri era riservato l’ingresso in fabbrica dalla porta n° 7 e lanostra attività lavorativa terminava alle 18.00.Gli operai tedeschi alle 9.00 si interrompevano il lavoro mez-

z’ora per fare colazione e alle 16.00 per consumare il pranzo,mentre a noi prigionieri era concesso solo un litro d’acqua a mez-zogiorno. Poi alle 19.00 ci radunavano nuovamente nei pressidella porta n° 7 per il rientro al campo di prigionia. Qui ci veni-va distribuito un filone di pane da dividere in sei persone e la ce-na costituita da una brodaglia fatta con erbe dal saporeamarognolo e senza alcun condimento. Non ricordo di aver maimangiato un pasto caldo. Sistematicamente appena servita labrodaglia che per noi costituiva colazione, pranzo e cena veniva-

mo accentrati in cortile per l’appello che veniva ripetuto più vol-te al fine di demoralizzarci e far raffreddare il pasto.Alla fine delle ostilità, durante un trasferimento verso Olden-

burg fummo abbandonati in un campo; ne approfittammo perfuggire ed io, febbricitante, ed alcuni commilitoni trovammo,ospitalità e cibo presso una fattoria in aperta campagna. In cam-bio, la proprietaria ci chiese di lavorare per lei e fu così che ci ri-trovammo a piantare verze in Bassa Sassonia sino a quando unanziano poliziotto, avvertito da qualcuno, ci scoprì e ci invitò aseguirlo verso la città, ma anziché arrestarci, viste le pietose con-dizioni in cui versavamo, una volta in aperta campagna e lonta-no da occhi indiscreti, ci indicò la direzione da prendere perraggiungere la ferrovia e, voltandosi dalla parte opposta, fece fin-ta di non averci mai incontrati e ci lasciò andare.Dalla Germania raggiungemmo la città di Verona a bordo di

camion messi a disposizione dalla Croce Rossa e poi, a piedi, Bo-logna. A bordo di un treno adibito al trasporto di carbone riusciicon altri ex internati a raggiungere Termoli dove, purtroppo, lalinea ferroviaria si interrompeva perché distrutta da vari bombar-damenti. Io e alcuni compagni, vestiti ormai di stracci, sporchi eanneriti dal carbone, pieni di pidocchi e, soprattutto, affamatiriuscimmo a salire furtivamente su un camion diretto a sud sen-za che l’autista se ne avvedesse e raggiungemmo San Pietro Ver-notico e poi Lecce ancora in treno. Durante questo tragitto nonfummo accolti benevolmente dai residenti, anzi diventammo ber-saglio di numerosi lanci di pietre che ci ferirono soprattutto nel-l’animo. Arrivati, incolumi, a Lecce ci separammo fra le lacrimee da lì raggiunsi, finalmente, a piedi la mia Galatina”.

Il sig. Luigi Romano, invece, prestava servizio in Marinain qualità di magazziniere e dai documenti rinvenuti sul si-to gestito dal governo australiano (www.naa.gov.au) risul-ta che fu catturato a Tobruk (Libia) il 22 gennaio 1941.

Da qui trasferito in Australia con la nave Queen Eliza-bet e sbarcato a Sydney il 13.10.1941 per essere internatonel Campo 12 di Camp Cowra, Nuova Galles del Sud, coln° di identificazione POW 48632 e registrato col n° 164876.Dai documenti risulta che all’epoca non era sposato e cheal momento della cattura non possedeva denaro, monilid’oro e orologi.

La libertà, per il nostro concittadino e insieme ad altriprigionieri in Australia arrivò solo dopo sei lunghi anni diprigionia, nel gennaio del 1947, ad un anno e mezzo dallafine della guerra, allorquando a bordo del vapore Otrantoapprodarono a Napoli per far rientro a casa. Fu la fine diun lungo incubo, che li segnò per sempre.

Il sig. Antonio Mangia ex prigioniero di guerra

La nave a vapore “Otranto” che rimpatriò i P.O.W. dall’Australia

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Il Sig. Antonio Zamboi, Sotto Tenente di Artiglieria de-gli Alpini fu catturato a Sciacca (Agrigento) il 20 luglio1943 dai paracadudisti americani della VII Armata duran-te lo sbarco in Sicilia (Operazione Husky) e trasferito in

Tunisia nel centro di smistamento di Medjez el Bab. Dopoessere stato immatricolato col n° di identificazione 81-I-49303 fu internato nel campo di prigionia P.W. 126 situato

nei pressi di Orano (Algeria) sotto il comando americano.La prigionia non era certamente una condizione piacevo-le, ma il trattamento che ricevevano i prigionieri in conse-gna alla U.S. Army era molto adeguato a quanto previstodalla Convenzione di Ginevra. Essi non avevano proble-mi di vitto o di vestiario e nei campi era loro concesso svol-gere attività ricreative e sportive.

Altrettanta fortuna non ebbero però i 40.000 prigionieriche gli alleati anglo-americani consegnarono ai francesi altermine della guerra in Africa Settentrionale conclusasi il13 maggio 1943

Particolarmente dete-stabile fu il comporta-mento dei comandi mili-tari Alleati che, dopo labattaglia di Enfidaville,per vendicarsi della com-battività degli italiani,consegnarono tutti i pri-gionieri alle truppe golli-ste ben sapendo che que-ste erano animate da unatavico rancore verso gliitaliani e non avevano vi-veri sufficienti per tantiprigionieri.

I francesi sottoposero i prigionieri italiani ad umiliantiperquisizioni personali e ad interrogatori violenti e offen-sivi. I soldati più disonesti ne approfittarono per depreda-re i prigionieri degli effetti personali, soldi, orologi,catenine e fedi d’oro e a chi osava protestare era assicura-

Australia - Camp Cowra - Foto di gruppo di prigionieri salentini internati al n. 6 P.O.W.Salvatore Marsella (Melpignano), Antonio Rizzo (Lecce), Antonio De Pascalis (Martano), Pantaleo di Carlo (?),

Luigi Romano (2° in piedi da sn. Galatina), Giorgio Zullino (Melpignano), Andrea Moschettini (?),Salvatore De Blasi (Martano), Antonio Ingrosso (San Donato), Armando De Blasi (Montesano)

Sopra e a latoalcune schede

informative delprigioniero di guerra

n° 48.632 Luigi Romano

S. Tenente Antonio Zamboi

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ta una congrua razione di percosse.Dopo l’immatricolazione e una selezione nel campo di

Medjez el Bab nell’entroterra tunisino, i prigionieri italia-ni furono trasferiti con una drammatica marcia forzata di500 chilometri lungo le coste tunisine sino al campo di pri-gionia di Costantina in Algeria. Una marcia disperata sot-to il cocente sole africano, ai margini del deserto, con unvitto costituito da 100 grammi di pane al giorno e broda-

glia di rape e una scarsissima razione di acqua.A guardia dei prigionieri i francesi utilizzavano truppe

di colore, goumiers marocchini, spahis e senegalesi al co-mando di ufficiali e soldati della Legione Straniera.

Al termine delle ostilità in mano francese erano rimasticirca 37.000 soldati italiani. Il loro ritorno in Italia non fufacile poiché i gollisti, accampando pretesti e cavilli buro-cratici, mandarono le cose per le lunghe e solo sul finiredel 1945 diedero il via al rimpatrio che avvenne con 40viaggi di navi civili e militari. ●

NOTE:1. L’appello, nei campi tedeschi e francesi, era una pratica di controllo sen-za alcuna funzione o utilità se non quella di rinvigorire l’ordine. Tutte letestimonianze concordano nel considerare questa pratica quotidiana, ri-petuta più volte al giorno, un vero supplizio: ore e ore al gelo, in Germa-nia, o sotto il sole cocente, in Africa, malcoperti o nudi, inermi. Si vienechiamati con il numero di matricola con cui all’ingresso nel campo è sta-to registrato ciascun prigioniero. Tale pratica sfibrante è una strategia perfar crollare le resistenze a proposte di collaborazione.

Etichetta che i prigionieri portavano appesa alla giacca

Posta per il Sottotenente Antonio Zamboi dai familiari

Truppe marocchine (goumiers) impiegate dai francesi

Salvatore Chiffi

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