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XXVIII Convegno SISP
Università di Perugia, 11 - 13 settembre 2014
Sezioni e Panels
12. POLITICA E POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA, M. Brunazzo e F. Biondo
- Crisi economica e legittimazione dell’UE (I), Chair: Valeria Fargion
L'Europeizzazione dell'elite politica italiana ai tempi della crisi
Giulia Vicentini, Ph.D.
PhD in Comparative and European Politics Università degli Studi di Siena
CIRCaP: Centre for the Study of Political Change Dipartimento di Scienze Sociali, Politiche e della Comunicazione Via Mattioli 10, 53100 Siena
Abstract:
Negli ultimi anni, complice la grave crisi economica che ha assalito l’Eurozona, il processo di
integrazione europea è stato seriamente messo in discussione da una parte non marginale di
opinione pubblica e da diverse forze politiche sempre più rilevanti all’interno dei rispettivi stati
membri. Diversi analisi hanno dimostrato una crescente sfiducia popolare nelle istituzioni
comunitarie, ma anche a livello di elite, politica e non solo, gli “euro-entusiasti” sono in
continua diminuzione. Già gli ultimi dati IntUne avevano suggerito che dal 2007 al 2009 il
convinto europeismo della classe politica italiana era andato scemando, sebbene gli
euroscettici tout-court, Lega Nord in primis, rappresentassero ancora una netta minoranza. Il
perdurare della crisi, ma soprattutto l’irrompere sulla scena politica italiana di una forza
completamente nuova e tendenzialmente euroscettica come il Movimento Cinque Stelle,
potrebbero però aver ridisegnato significativamente il panorama. A tal proposito il paper ha
l’obiettivo di analizzare la propensione dei deputati italiani della diciassettesima legislatura nei
confronti dell’Unione Europea, attraverso i dati raccolti nei mesi a cavallo delle elezioni europee
del 25 maggio 2014 dal progetto comparato ENEC (European National Elites and the Crisis),
elite survey basato su un campione rappresentativo di 80 deputati, divisi per genere, numero
di legislature e gruppo parlamentare di appartenenza. Ciò permetterà di indagare la natura
multidimensionale dell’Europeizzazione guardando al rapporto tra elite politica nazionale e
identità europea, al grado di attaccamento ai diversi livelli di governace (locale/regionale,
nazionale, Europeo), alla volontà o meno di cedere ulteriore sovranità alle istituzioni europee
ed allocare all’Unione un numero crescente di competenze di policy.
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1. Gli italiani e l'Europa: stato della ricerca
Secondo gli studiosi il processo di integrazione europea è stato principalmente elite
driven, cioè a dire promosso dalle diverse elite nazionali senza bisogno di input provenienti
dalla cittadinanza, che comunque non vi si opponeva (Haas 1958, Cotta e Isernia 2012). Di
conseguenza anche nel nostro paese, fin dal dopoguerra, le elite (politiche ma anche
economiche e sociali) hanno avuto un ruolo rilevante nel costruire consenso attorno al progetto
di costruzione della futura Unione, che non a caso in Italia ha potuto contare per moltissimi
anni su un’opinione pubblica tra le più favorevoli.
In realtà questo consenso diffuso si è sviluppato in modo progressivo. Inizialmente il
tema europeo divideva le forze politiche italiane su basi ideologiche, riflettendo innanzitutto la
distinzione tra capitalismo e comunismo e la collocazione internazionale del nostro paese. Per
questo in una prima fase (anni '50 e '60) la nascita della Comunità Economica Europea è stata
sostenuta sopratutto dai partiti della maggioranza democristiana e centrista, mentre le sinistre
e le destre (molto più marginali) erano tendenzialmente contrarie. Nella seconda fase però, tra
gli anni '70 e il 1992, anno del Trattato di Maastricht, il sostegno per l’Europa unita ha
progressivamente coinvolto anche i socialisti (negli anni ’70) e i comunisti (nel decennio
successivo), sviluppando un consenso quasi unanime a livello di elite finalmente sostenuto da
un'altrettanto forte europeismo che arriva a radicarsi anche e sopratutto nell'opinione pubblica
(Isernia e Ammendola 2005). L'Europa rappresenta ormai il nuovo modello di
modernizzazione, motivo per cui un sostegno di tipo ideale e di principio si sovrappone
facilmente ad un sostegno fondato su basi più prettamente utilitaristiche, spingendo Cotta
(2005, p. 385) a parlare di “depoliticizzazione del tema”.
Gli sviluppi ma anche i fallimenti dell’ultimo ventennio – dal trattato di Schengen alla
moneta unica, dall’allargamento ai paesi dell’Est alla bocciatura della Carta Costituzionale –
hanno però messo a dura prova questo consenso diffuso, nel nostro paese come nel resto del
Continente (Verzichelli e De Giorgi 2012). Di conseguenza nella cosiddetta terza fase il tema
europeo si ri-politicizza – ponendo la dialettica tra UE come strumento di regolazione del
capitale o di liberalizzazione del mercato, ma anche il concetto di Europa delle banche
contrapposto ad un’idea di Europa sociale - mentre a livello di popolo si diffonde un crescente
scetticismo testimoniato tra l'altro da un'affluenza in diminuzione alle elezioni europee.
Uno scenario parzialmente ribaltato rispetto alla prima fase porta i partiti di centro-
sinistra della seconda Repubblica a diventare rapidamente i gruppi più europeisti all’interno del
sistema politico italiano, mentre nel centro-destra cominciano a delinearsi spaccature e
distinguo, per quanto sfumati (Conti e Verzichelli 2005; Roux e Verzichelli 2010). Ciò è in linea
con quanto avviene negli altri paesi europei, dal momento che diverse ricerche hanno già
dimostrato come la variabile ideologica sia tornata a rappresentare una discriminante
importante per quanto riguarda gli atteggiamenti delle forze politiche nei confronti dell’UE, con
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i partiti di centro-sinistra generalmente più europeisti di quelli di centro-destra, almeno a
partire dagli anni ’90 (Marks et al. 1999; Ladrech 2000; Tsebelis e Garrett 2000; Gabel e Hix
2004; Marks e Steenbergen 2004, Verzichelli e De Giorgi 2012). In realtà però, nel nostro
paese come nella maggioranza degli altri stati UE, il consenso per l’integrazione europea tende
a diminuire via via che ci si sposta verso i due poli più estremi del continuum destra-sinistra
(Conti e De Giorgi 2011). Non a caso partiti collocabili all’estrema sinistra quali Rifondazione
Comunista sono da sempre stati caratterizzati da un certo grado di euroscetticismo nei
confronti di un’Unione Europea baluardo del capitalismo e della distruzione del welfare state,
mentre sull’altro fronte l’opposizione più forte al processo di integrazione veniva dalla Lega
Nord, che pure era stata inizialmente europeista in un ottica di indebolimento degli stati
nazionali a vantaggio delle realtà locali.
Tutti questi elementi hanno portato a parlare, già un decennio fa, di “europeismo
disincantato” (Cotta 2005, p. 385): politici, forze sociali ed opinione pubblica abbandonano il
mito dell'Europa unita come soluzione di tutti i mali ma l'opposizione aperta all'UE rimane un
fenomeno sostanzialmente marginale. Dopo quel momento però l'UE si è trovata ad affrontare
una sfida ancora più delicata rispetto a quelle del passato: la crisi economica mondiale.
Secondo molti osservatori la reazione di Bruxelles è stata timida, tardiva ed inadeguata in
quanto basata su parametri economici superati ed inefficaci all’interno di un contesto globale
tanto mutato. Di conseguenza, dal 2008 in poi, il processo di integrazione – in Italia e in quasi
tutti gli altri stati membri – sembra essere stato messo in discussione in modo più profondo
che nel passato da una parte abbastanza estesa di opinione pubblica e da diverse forze
politiche sempre più rilevanti all’interno dei rispettivi paesi.
Una prima ricognizione scientifica degli effetti della crisi viene fornita dal progetto
IntUne (Integrated and United. A Quest for Citizenship in an Ever Closer Europe), che tra il
2007 e il 2009 promuove un’analisi approfondita delle tematiche europee in 15 paesi membri
(più Turchia e Serbia), intervistando circa 30.000 cittadini europei e 3500 membri delle elite
politiche, sociali ed economiche. Il persistere della crisi e i mutamenti a livello europeo e
globale potrebbero però aver significativamente mutato le conclusioni a cui i dati IntUne
avevano condotto appena cinque anni fa. Proprio per questo si è resa necessaria una nuova
ondata di ricerche che potesse integrare ed aggiornare i dati a nostra disposizione, partendo in
primo luogo dalle percezioni di un attore fondamentale all’interno del processo di integrazione:
l’elite politica. A tal proposito quest’anno, in Italia e in diversi altri paesi membri, è stato
avviato il progetto di ricerca “European National Elite and the Crisis” (ENEC). Questo paper ha
quindi l’obiettivo di presentare un’analisi preliminare di questi nuovi dati nel contesto italiano, i
quali riportano le visioni e gli atteggiamenti nei confronti dell’UE sviluppati dai deputati della
diciassettesima legislatura e le loro diverse percezioni della realtà europea.
L’analisi dei dati sarà presentata attraverso quattro sotto-paragrafi distinti ma tra loro
strettamente interconnessi: in primo luogo si guarderà ai concetti di identità europea ed
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attaccamento ai diversi livelli di governace (locale/regionale, nazionale, Europeo). In secondo
luogo ci soffermeremo sullo scopo della governance europea dal punto di vista dell’allocazione
di competenze di policy. Il terzo sotto-paragrafo sarà invece dedicato al giudizio complessivo
dei parlamentari italiani rispetto alla scelta europeista e alla volontà di portarla avanti o
tornare indietro. Per finire si analizzeranno le risposte ai quesiti relativi al futuro dell’UE, al fine
di comprendere fino a che punto le elite politiche italiane siano disposte a cedere ulteriore
sovranità e competenze alle istituzioni europee, e fino a che punto nutrano aspettative positive
o negative riguardo agli sviluppi decennali del processo di integrazione. Il paragrafo conclusivo
cercherà di tirare le fila di quanto esposto in precedenza soprattutto in merito alla posizione
complessiva dei singoli partiti, al fine di misurarne il livello di europeismo secondo una
prospettiva sia diacronica che sincronica.
2. Il dataset
Come già precedentemente segnalato, i dati qui presentati sono stati raccolti sotto
l'egida del progetto comparato “European National Elites and the Crisis” (ENEC), curato a
livello italiano dalle Università di Siena e Unitelma-Sapienza di Roma. In Italia l'elite survey è
stato condotto dal gennaio al giugno 2014, mentre in diversi altri paesi europei la ricerca è
ancora in corso. Al fine di adeguare il campione a quello degli altri paesi membri in cui
l'indagine è stata o sarà portata avanti – quasi tutti caratterizzati da parlamenti monocamerali
o bicamerali con un’unica camera elettiva – è stato necessario limitare l'analisi ai soli membri
della Camera bassa (cioè la nostra Camera dei deputati), con un campione composto da un
totale di 80 parlamentari eletti (circa l’8% dei 630 componenti).
Il campione è stato selezionato sulla base di tre criteri distintivi: party membership
(vedi tabella 1), genere e seniority (cioè a dire numero di legislature). Com’è noto, grazie
soprattutto all’emergere di nuovi partiti quali il M5S e Scelta Civica, ma anche all’impegno di
partiti preesistenti come PD e SEL, il Parlamento eletto nel febbraio 2013 si è caratterizzato
per un numero assolutamente inedito di donne elette (30,2) e un bassissimo tasso di
riconferma per i parlamentari uscenti (35,6). Per questo il nostro campione prevedeva una
percentuale di donne compreso tra il 30 e il 40% (alla fine le donne intervistate sono state il
38,7%), mentre la percentuale di newcomers intervistati coincide quasi perfettamente con
quella reale (63,4% contro 64,4%).
Quasi una settantina di interviste sono state svolte telefonicamente (un paio anche face
to face) e le restanti 10 sono state raccolte attraverso questionari autosomministrati. Viste le
difficoltà nel raggiungere la quota di interviste stabilite entro i termini prefissati, soprattutto a
causa dell’indisponibilità di alcuni gruppi politici, il lavoro è stato portato a termine includendo
nel campione anche un numero molto limitato di senatori (1: LN; 3: PDL; 1: PD). In un
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contesto di bicameralismo perfetto in cui Camera e Senato hanno poteri simmetrici e più o
meno stessa base rappresentativa (almeno fino alla completa applicazione del disegno Boschi
di riforma costituzionale), la scelta non è stata ritenuta lesiva della rappresentatività del
campione.
Tab. 1 - Numero di deputati eletti e numero di intervistati per gruppo parlamentare
Partito Numero di deputati eletti
Deputati intervistati Percentuale
Movimento Cinque Stelle (M5S) 109 15 17,3 Sinistra, ecologia e libertà (SEL) 37 5 5,9 Partito democratico (PD) 297 35 47,1 Scelta Civica (SC) + Per l’Italia (PI) + UDC 47 7 7,4 Fratelli d’Italia (Fr.IT) 9 1 1,4 Popolo della Libertà (PDL: FI + NCD) 98 12 15,6 Lega Nord (LN) 18 3 2,9 Gruppo misto 15 2 2,4 Totale 630 80 100
3. L’evoluzione del rapporto tra elite politica italiana e UE dal 2007 a oggi
3.1 L’identità europea
L’identità è un elemento importante del concetto di cittadinanza e si lega al senso si
appartenenza di un individuo ad una comunità. In questo senso, per comprendere quanto la
cittadinanza europea abbia valore agli occhi dei nostri parlamentari, è utile sapere quanto essi
si sentano legati all’Unione piuttosto che allo stato nazionale o al contesto locale. Altrettanto
importante è indagare il grado di legittimità che rivestono le diverse istituzioni europee agli
occhi dei nostri parlamentari.
La prima cosa da sottolineare è che, sia a livello di popolo che a livello di elite, sentirsi
“europei” non ha mai significato non sentirsi “italiani” (o francesi, spagnoli ecc.) o “siciliani,
toscani, lombardi”. Già di per sé il concetto di cittadinanza ha inevitabilmente un carattere
multidimensionale (Cotta e Isernia 2009), ma questo è ancora più vero se si guarda
specificamente alla cittadinanza europea. In effetti i dati IntUne del 2007-2009 e i dati ENEC
del 2014, presentati graficamente nella figura 1, mostrano un grado significativo di
attaccamento a tutti e tre i livelli. Se fino al 2009 l’attaccamento allo stato nazionale risultava
prevalente tra i parlamentari italiani (il 94% degli intervistati si dichiarava “molto” o
“abbastanza” legato), nel 2014 tale percentuale cresce di circa tre punti e mezzo ma viene
sorprendentemente superata dall’attaccamento al livello regionale, che cresce di quasi dieci
punti (solo un parlamentare del Nuovo Centro Destra si dichiara poco attaccato alla propria
regione). Il dato è sicuramente interessante, e fa pensare che fino ad alcuni anni prima diversi
parlamentari, soprattutto a sinistra, avessero remore nel dichiarare il proprio attaccamento alla
regione di appartenenza poiché questo poteva essere considerato una sorta di prerogativa
leghista.
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Ciò che qui interessa è però l’attaccamento al livello europeo: sorprendentemente
anche da questo punto di vista il dato del 2014 cresce rispetto alle rilevazioni precedenti.
Come mostra la figura, tra il 2007 e il 2009 l’attaccamento all’Europa diminuisce di circa sei
punti, passando dal 92,7 al 86,5%. Nel 2014 si risale fino al 91,2%, dato sicuramente inferiore
rispetto a quello relativo agli altri due livelli, ma pur sempre incredibilmente alto se si pensa al
presunto montare di euroscetticismo che pare aver investito il nostro paese negli ultimi anni.
In effetti la tabella 2 dimostra che anche i parlamentari appartenenti ai partiti considerati più
euroscettici si sentono in qualche modo legati all’Europa: due leghisti su tre si dichiarano
“abbastanza attaccati”, così come la stragrande maggioranza degli esponenti del Movimento
Cinque Stelle (67%). Da questo punto di vista i parlamentari grillini risultano addirittura più
europeisti di quelli appartenenti a Forza Italia, dal momento che nessun forzista si dichiara
“molto attaccato”, mentre il numero di “non attaccati” raggiunge il 29% (contro il 20%
grillino).
Fig.1 – Il grado di attaccamento ai diversi livelli di governance
Tab.2 - Il grado di attaccamento dei partiti
In che mi misura si sente legato a:* Quanto ha fiducia in:** Regione (%) Stato (%) UE (%) Parlamento Commissione Consiglio
FI 57 + 43 86 + 14 0 + 71 5,6 5,3 5,9 NCD 80 + 0 80 + 20 40 + 60 5,4 5,0 5,0 FdI 100 + 0 100 + 0 0 + 100 7,0 5,0 4,0 Lega 100 + 0 0 + 33 0 + 67 5,7 2,7 2,7 M5S 80 + 20 73 + 27 13 + 67 5,0 3,7 3,8 SC 57 + 43 86 +14 86 + 14 7,0 7,3 7,0 PD 77 + 23 83 + 17 77 + 23 7,6 6,9 6,3 SEL 20 + 80 40 + 60 60 + 40 4,8 3,6 3,4 Misto 100 + 0 100 + 0 50 + 0 4,0 4,0 4,0 Totale 75 + 23 72 + 26 36 + 49 6,4 5,6 5,3
* La percentuale si riferisce alla somma di coloro che si dichiarano “molto” o “abbastanza” legati.
** I numeri riportati si riferiscono al valore medio assegnato alle tre istituzioni dai componenti di ciascun partito su una scala da 0 a 10.
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Il concetto di identità europea non si sostanzia unicamente nel grado di affezione nei
confronti dell’Europa rispetto agli altri livelli di governo, ma si misura anche in base al livello di
fiducia nei confronti delle principali istituzioni dell’UE. D’altra parte sentirsi attaccati all’Europa
non significa necessariamente sentirsi legati all’Unione Europea, soprattutto a ciò che l’Unione
Europea oggi rappresenta. Ciò è immediatamente chiaro se si guarda ai dati 2014 relativi alla
fiducia dei parlamentari italiani nella Commissione europea, nel Parlamento europeo e nel
Consiglio dei Ministri dell’Unione.
Nel periodo 2007-2009 la diminuzione relativa all’attaccamento all’Europa non si riflette
in un simile calo per quanto riguarda la fiducia nelle istituzioni europee. Al contrario, la fiducia
delle elite politiche italiane cresce di circa mezzo punto per tutte e tre le istituzioni, pur
rimanendo ben al di sotto del livello di attaccamento. Parlamento, Commissione e Consiglio
ottengono infatti voti di poco superiori alla sufficienza (il questionario chiedeva: utilizzando la
scala da 0 a 10, mi dica per favore in che misura lei ha fiducia nel fatto che le seguenti
istituzioni prendano in genere le decisioni giuste). Nel 2014 però il giudizio su Commissione e
Consiglio scende di nuovo sotto la sufficienza, mentre la fiducia nel Parlamento Europeo
rimane stabile. Ciò suggerisce una forte insoddisfazione e sfiducia nei confronti delle istituzioni
europee non dipendenti da logiche democratiche, mentre non sembra rilevante la distinzione
tra istituzioni intergovernative (Consiglio) e non (Commissione e PE). Insomma, il fatto che il
Consiglio rappresenti direttamente gli Stati mentre la Commissione appaia sostanzialmente
slegata dagli interessi nazionali non basta agli euroscettici per preferire la prima alla seconda,
suggerendo una critica generica delle istituzioni europee non elette democraticamente che
prescinde dalla loro funzione e composizione.
D’altra parte questo calo di fiducia è dovuto al fatto che i giudizi sufficienti e positivi
sono rimasti più o meno gli stessi rispetto al 2007-2009, mentre è aumentato
significativamente il numero degli “arrabbiati” rispetto ai critici più moderati. Infatti circa un
quarto dei parlamentari “insoddisfatti” per l'attività svolta da Commissione e Consiglio non si è
limitato ad un voto mediocre (5), ma ha indicato valori compresi tra 0 e 4. Da questo punto di
vista i parlamentari di SEL si rivelano addirittura più critici rispetto ai leghisti e ai rappresentati
del M5S: due dei cinque intervistati appartenenti al partito guidato da Nichi Vendola assegnano
infatti un voto pari a zero a tutte e tre le istituzioni citate, mentre altri due danno un voto alto
al Parlamento Europeo ma assegnano un'insufficienza a Commissione e Consiglio. Ne risulta un
voto medio ampiamente sotto la sufficienza per tutte e tre le istituzioni. Lo stesso vale per i
parlamentari del M5S, che però si dimostrano leggermente più “indulgenti”. Il centro-destra (FI
e NCD) esprime invece un’insufficienza lieve, mentre i leghisti assegnano un voto leggermente
più alto al PE (ma comunque sotto la sufficienza) ma “stroncano” Commissione e Consiglio con
voti inferiori al 3. PD e Scelta Civica sono gli unici a “salvare” tutte e tre le istituzioni: il PD
assegna un voto medio superiore ai sette punti e mezzo al PE ma una valutazione inferiore alle
altre due istituzioni, mentre Scelta Civica invece premia soprattutto la Commissione.
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3.2 Perché l’Europa?
Appurato il forte attaccamento dei deputati italiani al concetto di identità europea, ed
appurata anche la fiducia solo parziale nei confronti delle principali istituzioni UE, viene da
chiedersi che cosa i nostri parlamentari si aspettano dall’Europa, quali dovrebbero essere
secondo loro gli obiettivi da perseguire e le eventuali ulteriori competenze da assegnare alle
istituzioni comunitarie.
La prima questione da sottolineare è che la maggioranza assoluta (56,3%) dei deputati
intervistati punta ad un’Europa del welfare, che garantisca protezione sociale a tutti i suoi
cittadini, contro un misero 13,7% che dichiara che l’obiettivo principale dell’UE dovrebbe
essere quello di rendere l’economia europea più competitiva sui mercati internazionali, mentre
il 28,8% cita entrambi gli obiettivi. Questo dato è interessante perché fino ad oggi la
competitività economica è apparso l’obiettivo principe dell’Unione, che invece non si è mai
interessata di politiche di welfare che sono ancora totalmente lasciate nelle mani dei governi
nazionali. Altrettanto interessante è il fatto che anche quasi l’intero centro-destra,
storicamente più attento alla cura del libero mercato piuttosto che alle politiche sociali, si
esprima a favore di un’Europa sociale contro l’Europa della concorrenza (solo un forzista e due
esponenti dell’NCD sostengono che obiettivo dell’UE dovrebbe essere la competitività
economica). Questo forse tradisce, più che un’improvvisa rivalutazione del welfare state, la
volontà del centro-destra italiano di scaricare sull’UE il peso delle politiche sociali che non si
vogliono più sostenere a livello nazionale. Gli unici che invece restano fedeli al modello europeo
della competizione economica sono i montiani, dal momento che il 66,7% opta per la seconda
opzione (escludendo dal conteggio un parlamentare eletto con Scelta Civica ma proveniente
dalle file dell’UDC e quindi sostenitore di un’idea di Europa sociale in linea con la sua
ispirazione cristiano-democratica).
Un altro punto da mettere in luce è il consenso ampiamente maggioritario (68,8%) per
l’istituzione di un esercito unico europeo in sostituzione dei vari eserciti nazionali. Il 13,7 è
invece favorevole a mantenere entrambi mentre solo l’8,8% preferisce continuare ad utilizzare
esclusivamente gli eserciti nazionali. Tra questi il gruppo maggioritario (40%) si trova tra i
deputati grillini, mentre i tre leghisti forniscono ognuno una risposta diversa: esercito unico
europeo, esercito nazionale ed europeo insieme o nessuno dei due (forse a vantaggio del tanto
discusso esercito “padano”). PD, SEL, Scelta Civica e NCD sono quasi unanimemente favorevoli
all’esercito unico, mentre qualche dubbio in più si riscontra in FI. Anche l’unico esponente di
“Fratelli d’Italia” da noi intervistato si dice favorevole, sebbene questa scelta sembri in
contrasto con il posizionamento fortemente anti-europeista assunto dalla dirigenza del suo
partito negli ultimi mesi. In ogni caso è interessante notare che i parlamentari di destra e di
centro-destra non sembrano particolarmente attenti alla difesa di un’istituzione simbolo come
l’esercito nazionale, nonostante la nota vicinanza ideologica e il sostegno spesso incondizionato
all’operato delle forze dell’ordine.
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D’altra parte il sostegno diffuso per un’Europa sociale ed un esercito unico europeo non
è frutto di un’evoluzione recentissima, poiché già i vecchi dati IntUne avevano suggerito un
forte consenso per una politica estera comune (in crescita dal 2007 al 2009 ma di nuovo in
lieve diminuzione nel 2014) e per una gestione condivisa a livello europeo delle politiche di
welfare (ma in questo caso tra 2007, 2009 e 2014 il consenso scema progressivamente), come
mostra la figura 2. Le percentuali 2014 restano comunque attorno al 90% di consenso,
l’opposizione si limita ancora una volta alla Lega e ad una parte del Movimento Cinque Stelle.
Fig.2 – Competenze ed obiettivi dell’UE (1)
Per quanto riguarda altri ambiti di policy bisogna segnalare che tra il 2007 e il 2009 è
cresciuto tra le elite politiche italiane il consenso per un sistema fiscale europeo, mentre
scende leggermente il numero di parlamentari favorevoli agli aiuti per le regioni dell’UE in
difficoltà. Nel 2014 il cambiamento più significativo in questo senso si ha per quanto riguarda
la politica fiscale: i favorevoli ad una gestione unitaria passano dal 68,2 del 2009 (63,4 nel
2007) all’85%, con solo i leghisti contrari (due su tre) e il M5S spaccato in due sul tema.
Cresce, seppur di poco, anche il consenso per gli aiuti alle regioni in difficoltà. In questo caso i
grillini si mostrano quasi unanimemente favorevoli, mentre le maggiori perplessità si
riscontrano non tanto tra gli esponenti leghisti (due su tre si dicono molto o abbastanza
favorevoli) quanto tra forzisti e montiani. Nel 2014 il questionario inserisce anche un nuovo
quesito relativo al giudizio sugli eurobond, i quali registrano la percentuale di consenso
maggiore in assoluto rispetto agli altri items.
Veniamo ora ad alcune aree di policies più specifiche, stavolta analizzate in prospettiva
sincronica (dati 2014) invece che diacronica: la figura 3 qui sotto mostra quale livello di
governo dovrebbe occuparsi di ciascuna di esse secondo i nostri intervistati. Come è evidente
la competenza esclusiva dell’UE è richiesta massicciamente su due ambiti principali:
regolamentazione del settore bancario e finanziario (67,5%), cosa già largamente acquisita, e
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soprattutto politica dell’immigrazione (77,5%), sulla quale le competenze dell’UE sono ad oggi
piuttosto marginali. Si tratta di un dato molto significativo: la difesa dei confini rappresenta un
elemento chiave della sovranità nazionale, eppure le forze politiche italiane – senza alcuna
rilevante distinzione di posizionamento politico – sembrano non solo disposte ma addirittura
desiderose di rinunciarvi, come nel caso dell’esercito nazionale. In effetti negli ultimi
mesi/anni, di fronte ai sempre più numerosi sbarchi sulle nostre coste di clandestini e profughi
dell’Africa subsahariana, spesso finiti in tragedia, tutti gli esponenti politici italiani hanno
invocato un intervento dell’UE per gestire l’emergenza. In questo senso la volontà di cedere la
competenza all’Unione non sembra tanto una scelta motivata da principi europeisti ma una
sorta di estrema ratio per liberarsi di un problema che a livello nazionale non è più gestibile.
Fig.3 – Competenze ed obiettivi dell’UE (2)
Vi è un’unica area di policy in cui la competenza di stato e regioni viene preferita a
quella europea: solo il 12,5% degli intervistati auspica una gestione della politica sanitaria
affidata all’UE, mentre due deputati su tre sostengono che essa deve continuare ad essere
gestita a livello locale e/o nazionale. Tra costoro la stragrande maggioranza boccia la
competenza esclusiva delle regioni in materia e si fa promotrice di un ritorno ad una gestione
nazionale o almeno condivisa. Tale preferenza nazionale/locale per la gestione di una delle
principali materie del welfare è in contraddizione con l’idea di Europa sociale di cui si è parlato
in precedenza. Insomma, i deputati italiani esprimono genericamente il desiderio che l’UE si
occupi di welfare, ma quando si tratta di toccare davvero i punti nevralgici dello stato sociale
sono molto più prudenti.
Per quanto riguarda gli altri ambiti (ambiente, lotta alla criminalità e alla
disoccupazione) l’opzione preferita è un concorso di UE e livello nazionale e/o locale. In questo
senso si auspica un significativo passaggio di competenze all’Unione in materie ancora
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ampiamente al di fuori della sua giurisdizione ma non si vuole sottrarre del tutto tale
competenza ai livelli di governo che già se ne occupano.
3.3 Soddisfatti o rimborsati?
E’ adesso il momento di chiedersi quale sia il giudizio retrospettivo che viene dato del
processo di integrazione. Ciò implica in primo luogo valutare fino a che punto la scelta
europeista dell’Italia (in primis l’adesione all’Euro, sebbene una domanda specificamente
riferita alla moneta unica non fosse stata prevista nel questionario) venga rivendicata, ma
significa anche guardare al grado complessivo di soddisfazione rispetto al modo in cui funziona
oggi l’UE.
I dati presentati nella tabella 2 dimostrano una insoddisfazione generalizzata rispetto al
funzionamento dell’impianto istituzionale dell’Unione, insoddisfazione di molto superiore alla
già scarsa fiducia nelle principali istituzioni europee di cui si è parlato in precedenza. In questo
caso infatti poco più di un parlamentare su tre si dice soddisfatto del modo in cui funziona la
democrazia nell’Unione, e tale giudizio negativo pare trasversale alle forze politiche. In realtà
però le differenze sono marcate: i deputati appartenenti a gruppi euroscettici (M5S, Lega) sono
concordi nella propria insoddisfazione, mentre tra gli ex Pdl il giudizio migliora ma la
maggioranza assoluta continua a dichiararsi insoddisfatta. A sinistra il PD è quasi
perfettamente spaccato tra soddisfatti e insoddisfatti, mentre in SEL l’insoddisfazione è molto
più diffusa. I più soddisfatti sono i parlamentari di Scelta Civica, ma il fatto che tre su sette
abbiano dato risposte diverse da “molto” o “abbastanza soddisfatto” fa pensare che neppure il
partito di Mario Monti possa essere dipinto come difensore dello status quo europeo.
Nonostante questa insoddisfazione, in pochissimi sono pentiti della scelta europeista.
Democratici, montiani, vendoliani, i due appartenenti al gruppo misto e addirittura l’unico
esponente di Fratelli d’Italia sono tutti concordi che l’Italia abbia beneficiato dall’appartenenza
all’Unione Europea. A destra dello spettro politico emerge però qualche dubbio in più, non solo
tra i forzisti ma anche e soprattutto (sorprendentemente) tra gli esponenti del Nuovo Centro
Destra, partito che ha fatto dell’europeismo convinto uno dei tanti motivi di cesura con gli ex-
colleghi di Forza Italia. Al contrario, prevedibilmente, i tre leghisti sono concordi sul fatto che
l’Italia non abbia tratto beneficio, così come la stragrande maggioranza dei grillini. Tra i 15
intervistati del M5S, infatti, solo tre considerano l’appartenenza all’UE una scelta positiva, e di
questi due sono oggi parte del gruppo Misto in quanto epurati dal Movimento (non certo per le
loro posizioni sull’Europa, ma è difficile dire se la risposta sarebbe stata la stessa se al
momento dell’intervista essi fossero stati ancora parte di quel gruppo parlamentare), mentre
un’altra è stata spesso annoverata nel gruppo dei dissidenti interni, per quanto faccia ancora
parte del Movimento.
Ciò detto, qual è il risultato complessivo che emerge dalla combinazione di questi solo
apparentemente confliggenti giudizi sull’UE? Ha senso andare avanti (e quanto) oppure ci si è
12
spinti troppo in là ed occorre fare un passo indietro? A tal proposito l’ultima domanda presente
sul questionario chiedeva: su una scala da 0 a 10, dove “0” significa che l’unificazione è fin
troppo avanzata e “10” che dovrebbe essere ancora rafforzata, quale punteggio indicherebbe
meglio la sua posizione? La domanda era seguita da un quesito aperto che invitava gli
intervistati a motivare il loro posizionamento. Il numero medio che emerge dalle risposte alla
domanda chiusa è 7,5; tale posizionamento dimostra la volontà dell’elite politica italiana di
portare avanti il processo di integrazione europea, ma ancora una volta le differenze che si
riscontrano tra i partiti sono piuttosto rilevanti.
Lega e M5S esprimono un punteggio compreso tra 3,5 e 4, invitando quindi a fermarsi.
I parlamentari di entrambi i partiti (soprattutto i grillini) partono dal presupposto che l’Europa
Unita avrebbe potuto essere una buona idea, ma lo sviluppo che ha portato ad un’Europa delle
banche affetta da un grave deficit democratico e dominata dagli interessi di pochi Stati fa sì
che oggi la partecipazione dell’Italia non sia più conveniente. Il problema non è quindi di
natura ideologica ma prettamente utilitaristico. In realtà nella risposta aperta i due
parlamentari NCD che hanno risposto “non so” alla domanda se l’Italia avesse tratto beneficio,
hanno entrambi sottolineato come l’integrazione debba essere portata avanti per quanto
riguarda la politica estera e monetaria ma come gli altri poteri debbano restare in mano agli
stati.
Tab.3 - Il giudizio sull’UE dei partiti
E’ soddisfatto del modo in cui funziona la democrazia nell'UE?
L'Italia ha tratto beneficio dall'appartenenza all'UE?
L'unificazione dovrebbe essere rafforzata?
FI 43 71 76 NCD 40 60 62 FdI 0 100 100 Lega 0 0 37 M5S 0 20 38 SC 57 100 77 PD 51 100 89 SEL 20 100 88 Misto 50 100 80 Totale 37 76 75
Gli intervistati che esprimono le posizioni più vicine alla media sono invece i
parlamentari di Forza Italia e Scelta Civica, i quali auspicano un rafforzamento che però non
stravolga l’attuale impianto dell’Unione. Le ragioni non sono necessariamente coincidenti: se
da una parte le risposte alla domanda aperta dei forzisti tradiscono un lieve euroscetticismo
accompagnato dal desiderio di lasciare all’Europa il compito di occuparsi dei temi più delicati
(politica estera, moneta, fisco) senza però sottrarre ulteriore sovranità agli Stati (questo è
esattamente quanto dichiarato anche dai due parlamentari NCD che hanno risposto “non so”
alla domanda se l’Italia avesse tratto beneficio), dall’altra i montiani esprimono un europeismo
convinto in cui il desiderio di una maggiore integrazione politica è compensato dalla piena
soddisfazione per il grado di integrazione economica raggiunta. Al contrario PD e SEL, con
13
punteggi medi attorno all’8,8, esprimono tutta la loro insoddisfazione per un’unione solo
economica, rivendicando un cambio di marcia totale verso una reale integrazione politica,
culturale e sociale. La maggioranza di coloro che esprimono posizioni europeiste sottolineano
inoltre che l’Europa Unita è l’unica possibilità che il vecchio continente ha di mantenere un
ruolo decisivo sullo scenario internazionale, poiché i singoli Stati non sarebbero in grado di
competere singolarmente con le grandi potenze mondiali e coi paesi emergenti.
3.4 Il futuro dell’Unione Europea
Quanto detto in precedenza dimostra che la stragrande maggioranza dei parlamentari
italiani si sente legato all’Europa, rivendica l’adesione all’UE ed auspica un’integrazione sempre
più profonda che implichi una crescente cessione di competenze, sebbene ci sia una certa
sfiducia nei confronti delle principali istituzioni comunitarie e una forte insoddisfazione per
come funziona oggi l’UE. A questo punto viene quindi da chiedersi quale futuro attende
l’Europa secondo i nostri parlamentari.
Tab.4 – Cosa accadrà all’UE tra dieci anni?
Maggiore integrazione politica
Economia più forte Minori differenze economiche
Minori differenze sociali
Maggiore peso geo-politico
FI 71 86 86 71 43 NCD 80 80 80 80 80 FdI* / / / / / Lega 33 33 33 33 33 M5S 40 40 53 53 40 SC 100 86 86 86 71 PD 86 74 69 71 71 SEL 100 60 60 60 60 Misto 50 50 50 50 50 Totale 74 66 66 65 60
* L’intervistato ha risposto “non so” a tutte le domande.
La tabella 4 fa riferimento alle aspettative degli intervistati in merito all’evoluzione del
processo di integrazione in un arco temporale di dieci anni. L’ottimismo sembra prevalere,
sebbene la maggior parte dei rispondenti abbia precisato che il loro era molto più un auspicio
che un giudizio basato su dati oggettivi. In ogni caso il 74% crede che tra dieci anni l’Unione
europea sarà più integrata. Tale giudizio ottimistico non comprende solamente gli europeisti
“senza se e senza ma” come democratici, montiani e alfaniani, ma anche i “diversamente
euroscettici” esponenti di Forza Italia e SEL. In controtendenza vanno gli euroscettici “veri”,
dal momento che due leghisti su tre e il 60% dei grillini non crede in una maggiore
integrazione: difficile dire se dal loro punto di vista questa è una previsione pessimistica
oppure un auspicio. D’altra parte una stessa proporzione di grillini e leghisti non crede che in
10 anni l’economia europea diventerà più forte ed ipotizza la condanna ad un ruolo sempre più
marginale a livello geopolitico, mentre lo stesso numero di leghisti e una percentuale solo
leggermente inferiore di esponenti cinque stelle vede nel futuro dell’Unione maggiori differenze
economiche e sociali tra i cittadini gli Stati membri, e questo non è certo un auspicio. Gli altri
14
gruppi sono tutti più ottimisti; solo per quanto riguarda l’ultima domanda relativa al ruolo
internazionale dell’UE anche la maggioranza assoluta dei forzisti appare scettica, seguita dal
40% dei deputati di SEL.
Per concludere guardiamo adesso a quanto auspicato dai parlamentari italiani riguardo
alla possibile evoluzione dell’assetto istituzionale dell’UE (figura 4). Tra il 2007 e il 2009 il
consenso verso maggiori poteri per le due istituzioni europee non intergovernative
(Commissione e PE) subisce un declino di sette e due punti percentuali, mentre aumenta il
numero di coloro che ritengono che gli stati membri dovrebbero rimanere gli attori principali
dell’UE (Verzichelli e De Giorgi 2012). Nel 2014 questa prospettiva viene completamente
rovesciata: da una parte crolla il numero di coloro che difendono il ruolo degli stati nazionali (-
14 punti percentuali), dall’altro sale il consenso nei confronti di un PE con più poteri e una
Commissione vero governo dell’Unione. Insomma, la reazione al crescente euroscetticismo e/o
al cattivo funzionamento dell’UE non segue l’ottica intergovernativa “meno Europa e più Stati”,
ma piuttosto ritiene che siano gli Stati a dover fare un passo indietro per permettere all’Unione
di svilupparsi finalmente come corpo politico autonomo dagli interessi di parte.
Fig. 4 - Possibile evoluzione dell’assetto istituzionale europeo
All’interno dei partiti però l’opzione intergovernativa vs. comunitaria incontra diverse
contraddizioni: i deputati del M5S sono quasi tutti d’accordo sul fatto che gli Stati debbano
restare gli attori principali e all’unanimità si oppongono ad una Commissione europea come
principale organo di governo dell’UE, ma al tempo stesso il 66,7% di loro chiede di rafforzare i
poteri del PE. Anche la Lega Nord si oppone ad un rafforzamento della Commissione ma preme
per dare più poteri al PE, lasciando al tempo stesso il primato agli stati (in realtà uno dei tre
non si dice d’accordo con quest’ultima possibilità, probabilmente perché ritiene che il potere
vada dato alle regioni e non agli stati). Il partito più coerentemente schierato a favore di
un’evoluzione comunitaria (più poteri a PE e Commissione, meno potere agli Stati nazionali) è
SEL, seguita da Scelta Civica. Nel PD c’è invece un po’ più di confusione: quasi tutti i deputati
intervistati vogliono dare più poteri a PE e Commissione, ma il 31,4% ritiene che gli Stati
15
debbano restare gli attori principali. Nell’ex PDL questa contraddizione è ancora più forte: il
75% circa vuole mantenere il ruolo preminente degli stati, mentre la stessa percentuale
intende rafforzare PE e Commissione.
4. I partiti e l'Europa
Secondo diversi studiosi il processo di integrazione europea è un tema trasversale
capace di spaccare i partiti o quantomeno produrre posizionamenti diversi al loro interno
(Gabel 2007; Edwards 2007; Smith 2012; Lynch e Whitaker 2013). In effetti i dati presentati
nei paragrafi precedenti dimostrano scarsa coerenza nelle risposte fornite dai rappresentanti di
uno stesso partito. Al tempo stesso però il cleavage ideologico si rivela altrettanto importante
quando si guarda ai dati aggregati. I dati 2014 confermano infatti che i deputati appartenenti
alle forze di centro-sinistra (e i parlamentari che si autocollocano nelle posizioni 0-4 sul
continuum ideologico) sono tendenzialmente più europeisti di quelli affiliati a partiti di centro-
destra (e dei parlamentari che si posizionano tra 6 e 10 sulla scala dx-sx), sebbene il partito
euroscettico più numeroso (il M5S) non appartenga a nessuna delle due categorie (quasi tutti
gli intervistati grillini hanno rifiutato la collocazione sull'asse dx-sx). La figura 5 riassume
graficamente quanto detto finora cercando di ordinare i diversi partiti in base al loro grado di
europeismo/euroscetticismo, posizionando ciascuno di essi rispetto a sette diversi items su una
scala 0-10 che trasforma le percentuali disaggregate per partito esposte nelle tabelle 2-3-4 (e
facendo una media tra i valori nel caso la domanda contenesse più items). Più i valori espressi
da ciascun partito si avvicinano al punto centrale interno, minore è il grado di europeismo.
Partiamo proprio dal Movimento Cinque Stelle, grande novità del panorama politico
italiano. Quello di Grillo è un partito pieno di contraddizioni dal punto di vista del suo rapporto
con l’Europa, come dimostra anche la sofferta scelta di sedere all’europarlamento con gli
euroscettici guidati dal britannico Nigel Farage, dopo aver (apparentemente) considerato anche
l’opzione di aderire ad un gruppo parlamentare pienamente europeista come quello dei Verdi.
L’impressione generale che emerge dai dati è quella di un partito idealmente europeista ormai
convinto che la deriva tecnocratica dell’UE non sia reversibile e sia quindi necessario fare un
passo indietro (in primis sul tema dell’adesione all’Euro). Questa delusione si unisce però
anche con un certo nazionalismo che porta a preferire il livello nazionale a quello
sovranazionale per quanto riguarda una serie di competenze. In questo senso il M5S, per molti
versi più vicino a posizioni di sinistra, si riavvicina in qualche modo ad un partito nazionalista e
tendenzialmente xenofobo come l’Ukip di Farage.
Restando al di fuori della distinzione destra-sinistra non è necessario soffermarsi a
lungo sul gruppo misto, che non viene infatti considerato nella figura 5. I dati non sono
particolarmente significativi non solo perché gli intervistati sono solamente due, ma perché
16
essi hanno provenienze politiche molto diverse che si riflettono in risposte largamente
contrastanti. Uno dei due è infatti un socialista che esprime posizioni pienamente europeiste,
l’altro appartiene al MAIE (Movimento Associativo Italiani all’Estero) ed è stato eletto in una
circoscrizione extra-europea, il che spiega la sua scarsa affezione nei confronti dell’UE.
Fig. 5 – I partiti e l’Europa
Analizziamo adesso gli altri partiti spostandoci lungo l’asse ideologico. Partendo da
sinistra incontriamo un primo caso interessante: quello di SEL. A differenza degli antichi
compagni di Rifondazione rimasti fuori dal Parlamento, SEL è un partito molto meno
estremista, quasi ovunque fedele alleato del PD a livello locale e potenzialmente anche a livello
nazionale se le “larghe intese” non avessero costretto democratici e vendoliani a separare
(momentaneamente?) i loro destini. Di conseguenza fin dalla sua fondazione SEL si è
presentato come un partito pienamente europeista, ma le ultime scelte politico-strategiche
hanno spinto alcuni osservatori a mettere in discussione questo convincimento. D'altra parte la
scelta di abbandonare l’obiettivo dichiarato di entrare nel partito socialista europeo per unirsi al
gruppo del GUE - attraverso l’adesione alla lista Tsipras in occasione delle elezioni europee del
maggio 2014, insieme agli ex nemici euroscettisci di Rifondazione comunista - ha provocato
non poche lacerazioni anche all'interno del partito stesso. A tale proposito è interessante
soffermarsi sulle risposte fornite dai parlamentari vendoliani al nostro questionario, sebbene il
loro numero molto esiguo (5) impedisca di giungere a precise generalizzazioni. Il primo dato
che salta agli occhi è il fortissimo attaccamento all’Unione Europea, pari a quello che
caratterizza i deputati PD. I parlamentari di SEL sono inoltre i più convinti sostenitori di un
massiccio passaggio di competenze dagli Stati all’Unione, si oppongono fermamente ad
un’evoluzione intergovernativa dell’assetto istituzionale e ritengono l’adesione all’UE una scelta
vantaggiosa. Insomma, dei veri europeisti. Eppure non appena si guarda alla fiducia e alla
soddisfazione per il funzionamento delle istituzioni europee i dati cambiano radicalmente e il
partito di Vendola diventa il più feroce critico dell’UE. In realtà non c’è però alcuna
17
contraddizione tra un senso di appartenenza molto forte all’Unione ed una profonda
insoddisfazione per ciò che essa è diventata (o non è diventata), il che riflette anche le
posizioni dello stesso leader greco Tsipras, sebbene il suo partito Syriza sia stato spesso
(erroneamente?) incluso da mass media ed osservatori tra le forze euroscettiche. Obiettivo suo
e di coloro che in Italia hanno fondato la lista che porta il suo nome non era infatti quello di
abbandonare il processo di integrazione ma piuttosto di rafforzarlo cambiandone radicalmente
gli obiettivi e i parametri. In questo sta l’essenziale differenza tra M5S e SEL per quanto
riguarda il tema europeo: entrambi sembrano condividere un’idea simile di Europa
partecipativa e non tecnocratica, ma mentre i primi non credono più che tale modello sia
effettivamente realizzabile, i secondi sembrano sperarci ancora. Viene comunque da chiedersi:
è stata l’insoddisfazione per ciò che è oggi l’UE e la volontà di cambiare l’ordine delle cose a
spingere SEL ad aderire alla Lista Tsipras o piuttosto è stata proprio l’adesione a tale lista,
dettata da calcoli strategici (necessità di superare il quorum del 4%) e dinamiche politiche
interne (lo strappo col PD dovuto alla ferma opposizione alle larghe intese) a spingere i
deputati vendoliani ad inasprire i propri giudizi sull’Unione? La risposta non è semplice anche
perché gli sviluppi successivi alle elezioni europee sembrano aver nuovamente allontanato SEL
(o quel che ne resta) dall' euroscetticismo rifondarolo e dal mondo “radical-chic” che aveva
sostenuto Tsipras.
Muovendoci verso il centro-sinistra le conclusioni appaiono molto più immediate. Il PD
risulta sicuramente un partito pienamente europeista, seppure con alcune contraddizioni
interne (ad esempio alcuni suoi rappresentati non abbandonano la prospettiva
intergovernativa). Rispetto a SEL le critiche al funzionamento istituzionale dell’Unione sono
molto più sfumate, ma è anche vero che i democratici non sono più “euro-entusiasti”. Si evince
pertanto un forte desiderio di cambiamento ai fini di una maggiore integrazione politica, che
possa garantire più democrazia e più attenzione ai diritti sociali anche a scapito della
competitività economica.
I rappresentati di Scelta Civica risultano invece i più convinti sostenitori dello status quo
europeo e dell’europeismo “senza se e senza ma”. In realtà anche loro manifestano una certa
insoddisfazione e auspicano una maggiore integrazione, ma tra i diversi gruppi sono
sicuramente quelli più fortemente legati all’idea dell’UE come grande mercato unico. In pratica
l’assenza di una reale integrazione politica è un problema sentito, ma un’integrazione
economica perfettamente riuscita è sufficiente a compensare. Neppure la gestione della crisi
economica mondiale è riuscita a scalfire tale convinzione: i montiani (diversamente dall’unico
deputato di provenienza democratico-cristiana) sono infatti i più generosi nel valutare il ruolo
giocato da istituzioni quali Commissione, Consiglio Europeo e BCE durante la crisi dell’Eurozona
(sebbene l’operato della BCE guidata dall’italiano Mario Draghi è giudicato positivamente anche
da molti esponenti PD e ex PDL).
18
Per quanto riguarda il centro-destra il discorso è più complesso. Al momento della sua
fondazione nel 1994 Forza Italia si presenta come un partito europeista che difende al
contempo l’identità nazionale (e subnazionale), promuovendo soluzioni intergovernative
piuttosto che comunitarie. L’adesione al Partito Popolare Europeo rappresenterà per Forza
Italia prima e il PDL poi un’importante fonte di legittimazione, il che impediva a Berlusconi e
agli esponenti del suo partito di assumere posizioni marcatamente europeiste. Eppure già i dati
IntUne 2009 suggeriscono un atteggiamento implicitamente negativo del PDL o quantomeno
una posizione favorevole al mantenimento dello status quo comunitario. In realtà più che
opporsi al processo di integrazione, Berlusconi e i suoi se ne sono progressivamente
disinteressati, mentre il PDL si divide tra spinte liberalizzatrici ed europeiste e posizioni più
protezionistiche e nazionalistiche (Conti e Memoli 2012). Con l’incentivarsi della crisi
economica l’UE è però diventata un facile bersaglio su cui scaricare le colpe, soprattutto di
fronte al crescente scetticismo manifestato da diversi leader del centro-destra europeo nei
confronti di Silvio Berlusconi. Il ritorno a Forza Italia e la separazione del gruppo moderato
legato ad Alfano sembrano aver portato il partito dell’ex Premier su posizioni più
marcatamente euroscettiche, come dimostra la campagna per le elezioni europee 2014. I dati
ENEC confermano questa percezione, sebbene l’euroscetticismo forzista rimane lontano da
quello leghista e grillino. Non a caso la stragrande maggioranza dei parlamentari forzisti
riconosce che l’Italia abbia beneficiato dell’adesione all’UE ed auspica che il processo di
integrazione possa andare avanti, pur non intaccando la sovranità degli Stati nazionali. Ne
risulta un posizionamento non molto diverso da quello degli ex colleghi dell’NCD, che pur
apparendo più genuinamente europeisti rimangono anch’essi strettamente legati alla
prospettiva intergovernativa.
Spostandoci ancora di più verso il polo di destra del continuum non occorre soffermarsi
sull’analisi relativa al partito “Fratelli d’Italia”, poiché abbiamo un unico intervistato che tra
l’altro curiosamente sembra esprimere posizioni molto più europeiste di quelle attualmente
sposate dai leader del suo partito. Si conferma invece il sempre più convinto euroscetticismo
dei parlamentari leghisti, sebbene il campione composto di sole tre unità non permetta alcuna
generalizzazione e le indicazioni che emergono dai dati non sono affatto univoche. In effetti le
risposte dei tre leghisti differiscono su alcuni punti fondamentali (attaccamento all’Europa,
fiducia nelle istituzioni europee, visione del futuro) ma c’è totale accordo sul fatto che la scelta
europeista sia stata un errore. Ciò spiega, oltre alle sempre più note posizioni xenofobe, il
feeling inedito tra un partito regionalista e il più nazionalista tra i partiti europei come il Front
National guidato da Marine Le Pen. Non a caso in questa fase la Lega pare aver messo da parte
le sue velleità secessioniste (che comunque sono sempre in agguato) a vantaggio di posizioni
più genuinamente di destra ed anti-europee: il nemico non è più “Roma ladrona” ma la
Bruxelles dei tecnocrati. Strano ma vero, per un leghista oggi essere italiano sembra quasi
meglio che essere europeo.
19
5. Conclusioni
I dati ENEC dimostrano che, nonostante la crisi economica e l’insoddisfazione crescente
dell’opinione pubblica, per l’elite politica italiana il rapporto con l’Europa non è in discussione. I
partiti che formano l’attuale “grande coalizione” a sostegno del Premier Matteo Renzi (PD, SC,
NCD) sono tutti genuinamente europeisti, sebbene l’NCD sembra maggiormente orientata
verso soluzioni intergovernative. Ciò conferma quanto emerso da alcuni studi secondo i quali la
partecipazione al governo spinge i partiti a sostenere con più forza l’UE e le sue istituzioni (Hix
et al. 2007). Forza Italia, formalmente all’opposizione ma comunque prezioso alleato del
governo sulle grandi riforme costituzionali, si posiziona in un limbo che permette di oscillare tra
l’europeismo tipico dei partiti mainstream e l’insofferenza populista nei confronti di Bruxelles. I
parlamentari forzisti non sembrano però arrivare al punto di mettere seriamente in discussione
il processo di integrazione, come fanno invece M5S e Lega. Questi ultimi due partiti sono gli
unici che risultano effettivamente euroscettici, in linea con il loro ruolo di partiti di opposizione
tout-court, dal momento che la letteratura ha dimostrato che le forze radicali sono quasi
sempre anti-EU (Conti 2012). Il problema però è che non si tratta affatto di forze politicamente
marginali. Il peso elettorale della Lega attualmente è abbastanza limitato (seppur in crescita),
ma si tratta comunque di un partito con prolungata esperienza di governo a livello locale e
nazionale e con un significativo “potenziale di coalizione”. Al contrario il M5S – nonostante
l’indisponibilità e l’impossibilità di stringere alleanze di qualsiasi genere per arrivare ad
occupare ruoli di governo o quantomeno ad acquisire un maggiore potere decisionale – è ad
oggi il secondo partito italiano, il che lo rende detentore di quello che Sartori (1976) definiva il
“potenziale di ricatto” tipico del PCI italiano. In questo senso la presenza di partiti rilevanti che
si oppongono apertamente all’UE – oltre a Lega e M5S dovremmo includere anche i Fratelli
d’Italia, sebbene le risposte fornite dal nostro intervistato non confermano tale impressione – o
che quantomeno dimostrano insofferenza verso le sue istituzioni e il suo funzionamento – FI e
SEL, seppur per motivi molto diversi – dimostrano che l’europeismo delle elite politiche italiane
non è un fatto acquisito e scontato ma piuttosto una scelta da sostenere e (ri)costruire giorno
per giorno.
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