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1 marzo 2006 XV congresso La relazione di apertura Guglielmo Epifani Gentili ospiti, amici invitati, delegate e delegati, care compagne e cari compagni, torniamo a Rimini dopo quattro anni per celebrare assieme il XV congresso nazionale della Cgil. Abbiamo alle spalle mesi e mesi di dibattiti, confronti, discussioni serrate. 55.000 assemblee nei posti di lavoro, nelle leghe e luoghi dei pensionati. Una partecipazione di oltre 1.600.000 persone fra iscritte e iscritti alla Cgil e una presenza al voto quasi altrettanto alta. Abbiamo in questi mesi incontrato tanti giovani per la prima volta, spesso precari nella loro condizione di lavoro e di vita; tanti migranti, quelli più fortunati, a cui un lavoro regolare ha ridato dignità e identità sociale; tante anziane e anziani a cui il tempo non ha attenuato né la passione né la volontà di agire. Questa è la Cgil, il più grande sindacato italiano, e tra i primi in Europa; questo è il suo volto: una comunità di uomini e di donne che liberamente si associano, discutono, agiscono e decidono per dare dignità e diritti alle persone, e dare forza ai valori della solidarietà e della giustizia sociale. Qui, prima che nei numeri – in questa passione e in questi ideali – risiede la vera forza della Cgil. Una organizzazione serena, affidabile, ferma nei suoi principi, aperta al confronto e al dialogo con tutti. Noi, riempimmo il Circo Massimo in una straordinaria giornata di primavera. Il 23 marzo del 2002 rappresenta - anche simbolicamente e per le cose dette da Sergio Cofferati in quella piazza – il momento politico più alto, nella storia del paese, della centralità del lavoro, dei suoi diritti, della sua dignità. Insieme con quei cinque milioni di firme raccolte in pochi mesi in ogni angolo d’Italia. Noi, con tante e tanti altri, soprattutto giovani, abbiamo manifestato per la pace e contro la guerra in Iraq, tappezzato i balconi di bandiere e colori, cambiato la fotografia delle città e quella delle coscienze. Noi, insieme a studenti e famiglie, ci siamo battuti per un’idea laica e universale dell’istruzione pubblica, per affermare il diritto allo studio e un uguale diritto alla formazione. Noi – insieme con Cisl e Uil –in una Piazza del Popolo già pronta per il Natale del 2004 abbiamo organizzato la più grande manifestazione dei lavoratori migranti che l’Italia abbia mai avuto. Noi nei giorni scorsi – infine - siamo stati l’anima a Milano ed a Napoli di uno straordinario atto di amore verso la vita e verso le donne. C’è un legame profondo che tiene assieme la nostra critica alle leggi sul lavoro, sulla scuola e sull’immigrazione. Ognuna di queste leggi, al di là delle singole norme o istituti che ne compongono il testo, riafferma, in forma ideologica, un attacco esplicito ai diritti delle persone e alla dignità di ciascuno. Nelle settimane scorse un delegato del Senegal, intervenendo al proprio congresso ha detto in modo pacato e assai fermo che non ne poteva più di sentirsi un “male necessario”: chiedeva soltanto di essere considerato come un uomo. In un altro congresso, mi ha colpito e vi devo dire anche emozionato

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1 marzo 2006

XV congresso La relazione di apertura Guglielmo Epifani

Gentili ospiti, amici invitati, delegate e delegati, care compagne e cari compagni, torniamo a Rimini dopo quattro anni per celebrare assieme il XV congresso nazionale della Cgil. Abbiamo alle spalle mesi e mesi di dibattiti, confronti, discussioni serrate. 55.000 assemblee nei posti di lavoro, nelle leghe e luoghi dei pensionati. Una partecipazione di oltre 1.600.000 persone fra iscritte e iscritti alla Cgil e una presenza al voto quasi altrettanto alta. Abbiamo in questi mesi incontrato tanti giovani per la prima volta, spesso precari nella loro condizione di lavoro e di vita; tanti migranti, quelli più fortunati, a cui un lavoro regolare ha ridato dignità e identità sociale; tante anziane e anziani a cui il tempo non ha attenuato né la passione né la volontà di agire. Questa è la Cgil, il più grande sindacato italiano, e tra i primi in Europa; questo è il suo volto: una comunità di uomini e di donne che liberamente si associano, discutono, agiscono e decidono per dare dignità e diritti alle persone, e dare forza ai valori della solidarietà e della giustizia sociale. Qui, prima che nei numeri – in questa passione e in questi ideali – risiede la vera forza della Cgil. Una organizzazione serena, affidabile, ferma nei suoi principi, aperta al confronto e al dialogo con tutti. Noi, riempimmo il Circo Massimo in una straordinaria giornata di primavera. Il 23 marzo del 2002 rappresenta - anche simbolicamente e per le cose dette da Sergio Cofferati in quella piazza – il momento politico più alto, nella storia del paese, della centralità del lavoro, dei suoi diritti, della sua dignità. Insieme con quei cinque milioni di firme raccolte in pochi mesi in ogni angolo d’Italia. Noi, con tante e tanti altri, soprattutto giovani, abbiamo manifestato per la pace e contro la guerra in Iraq, tappezzato i balconi di bandiere e colori, cambiato la fotografia delle città e quella delle coscienze. Noi, insieme a studenti e famiglie, ci siamo battuti per un’idea laica e universale dell’istruzione pubblica, per affermare il diritto allo studio e un uguale diritto alla formazione. Noi – insieme con Cisl e Uil –in una Piazza del Popolo già pronta per il Natale del 2004 abbiamo organizzato la più grande manifestazione dei lavoratori migranti che l’Italia abbia mai avuto. Noi nei giorni scorsi – infine - siamo stati l’anima a Milano ed a Napoli di uno straordinario atto di amore verso la vita e verso le donne. C’è un legame profondo che tiene assieme la nostra critica alle leggi sul lavoro, sulla scuola e sull’immigrazione. Ognuna di queste leggi, al di là delle singole norme o istituti che ne compongono il testo, riafferma, in forma ideologica, un attacco esplicito ai diritti delle persone e alla dignità di ciascuno. Nelle settimane scorse un delegato del Senegal, intervenendo al proprio congresso ha detto in modo pacato e assai fermo che non ne poteva più di sentirsi un “male necessario”: chiedeva soltanto di essere considerato come un uomo. In un altro congresso, mi ha colpito e vi devo dire anche emozionato

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ascoltare un altro delegato, sempre di un paese dell’Africa, che si interrogava di fronte a quel congresso su come arrestare il declino dell’Italia. Tutto questo mi ha fatto pensare a quanto miope sia non riconoscere il diritto di cittadinanza, dalla nascita, ai figli di lavoratori migranti che nascono in Italia, sapendo che se le prime generazioni – come è avvenuto anche per noi italiani nel mondo – tendono a tornare nei luoghi di origine, mentre le seconde e ancor più le altre finiscono per restare là dove sono nate e dove da subito sarebbe giusto considerarle uguali nei diritti e nei doveri. Questa uguaglianza avrebbe dovuto affermarla il Trattato costituzionale europeo, risolvendo, una volta per tutte e in modo moderno, la vecchia questione sull’origine del diritto alla cittadinanza. Dove va l’Europa; il Mediterraneo, la “ guerra di civiltà” E’ per tante ragioni come queste che l’Europa oggi vive una situazione di difficoltà ed è soprattutto priva di una prospettiva certa. La crisi del grande disegno dei padri fondatori, lo smarrirsi della cultura politica che ne sosteneva il progetto, gli effetti sociali della situazione economica si riflettono nella realtà dei nostri giorni: un’Europa sospesa tra integrazione più avanzata e ritorni nazionalistici, tra chi apre i mercati e chi li chiude, tra grandi ambizioni e poco peso effettivo, fra logica burocratica e quella legata ai mandati democratici: tra quella più stretta e quella più larga, quella con l’euro e quella con le tante monete nazionali. La difficile trattativa sul bilancio, il futuro oscuro del Trattato costituzionale, l’irrilevanza sul piano internazionale e della politica estera, l‘assenza di coerenza fra obiettivi di Lisbona e mezzi impiegati, l’asimmetria che si registra tra il desiderio di acquisire aziende altrove e di non essere oggetto di “scalate” in patria, ne sono le conseguenze inevitabili. Per tutti coloro che vedono l’Europa come uno spazio per il libero mercato e per il libero commercio tutto questo può – anche se in realtà sempre meno - non rappresentare un problema: se si consolida il metodo intergovernativo e si semplificano procedure e normative di riferimento. Per coloro che – e noi, sindacato italiano ed europeo siamo fra questi – invece credono che l’Europa debba essere una vera costruzione politica e istituzionale, un mercato regolato con norme condivise, istituzioni comuni e piena reciprocità, un processo di partecipazione e democrazia, un modello sociale, un’idea di responsabilità fondata sui diritti delle persone, uno spazio comune per tanti valori e tante idealità, a partire da quelle già presenti nella sua storia bimillenaria, un’Europa come una casa dove tutti possano sentirsi cittadini, e non solo produttori e consumatori; bisogna invece domandarsi cosa si può e si deve fare per superare una inerzia che fatalmente ci porterebbe indietro. La Cgil – lo dico con forza e convinzione - non è mai stata nella sua storia nazionalista né protezionista, né ha mai creduto al mito del mercato che non fosse regolato da regole e istituzioni. Per questo oggi, di fronte alle scelte del governo francese non abbiamo bisogno – come molti liberisti pentiti – di riscoprire il ruolo della responsabilità pubblica, e chiedere la protezione delle aziende italiane. Continuiamo a pensare che ci voglia un vero e reciproco mercato europeo. E per l’Italia una politica industriale che promuova e faccia crescere le nostre imprese. Rimettere in moto il processo politico istituzionale è interesse dei governi che

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credono in questa prospettiva e deve esserlo per la Confederazione Europea dei Sindacati. Ci vogliono tante volontà politiche, istituzionali e sociali e tanta passione. Non basterebbe un paese guida che prenda la testa della locomotiva europea, tra un’elezione che finisce ed una che si aspetta; né la pur necessaria scelta di cooperazione rafforzata che è sempre preferibile al non far nulla. Bisogna restituire un consenso, un’anima al progetto europeo tra le persone. Il tempo di riflessione sancito dal Consiglio europeo usiamolo, come sindacato europeo e come sindacati nazionali, per una campagna di mobilitazione per una vera Costituzione europea che contenga i principi ed i valori della prima e seconda parte del Trattato, ed espunga – perché materia estranea al profilo costituzionale – quella terza parte così dissonante dalle altre, rispondendo così ad una parte delle critiche che hanno portato al NO nei referendum in Francia e Olanda. Anche in questo campo il nostro governo ha grandi responsabilità. L’Europa è stata vista solo come causa di mali più che di opportunità; nessuna vera integrazione industriale europea è stata tentata; l’Euro dileggiato, la Commissione giudicata in base a quello che l’Ecofin dice sul nostro bilancio e sul suo crescente disavanzo. E se il ministro Tremonti si ispira a Colbert e al protezionismo, non ha poi i titoli per lamentarsi del paese dove il colbertismo è nato ed ha lasciato segni che arrivano fino ai giorni nostri. Nel Mediterraneo, verso i paesi dell’altra sponda e del Medioriente, l’Italia ha perso quel ruolo di dialogo intelligente che ha svolto per decenni. L’onorevole Calderoli ne è l’ultimo, più clamoroso, e delicato esempio. Per lo sviluppo dei paesi più poveri destiniamo quasi zero, lo 0,1 del Pil: siamo insieme i meno generosi ed i meno accoglienti, pur stando di fronte a noi l’Africa, il continente dimenticato, il più povero fra i due miliardi di esseri umani che vivono con meno di due dollari al giorno. Quando nel 1995 si avviò il processo di Barcellona per definire nel 2010 l’area di libero scambio, l’obiettivo dichiarato era quello di fare del Mediterraneo un mare di pace e prosperità, ponte di dialogo fra culture, metafora di civiltà che si riconoscono e si rispettano. Il “nostro mare” è il teatro di tutte le contraddizioni che vi sono oggi nel mondo: ricchezza e povertà, immigrazione forzata, le tante guerre aperte e quelle che si annunciano, conflitti etnici, un terrorismo alimentato da fondamentalismi religiosi che attecchiscono nell’acqua della miseria e della frustrazione sociale. E tra tutto, il tema più difficile: la reciprocità, il riconoscimento pieno di diritti e libertà, la coesistenza e la convivenza di culture diverse, dentro le nostre società e nel rapporto fra Occidente e Islam. Il Mediterraneo è dunque il banco di prova per la comunità internazionale e l’Europa nel misurarsi con queste sfide. I problemi tendono a diventare giorno dopo giorno più difficili e più concatenati. La vittoria di Hamas suona come sconfitta della politica, per quello che non è stata in grado di costruire nei decenni passati, l’obiettivo di due popoli e due Stati. La situazione irachena dà giorno dopo giorno sempre più ragione a quello che era stato detto e temuto anche prima dalla Cgil: il rischio di guerra civile, l’accentuarsi del fondamentalismo religioso e del terrorismo, la completa

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destabilizzazione dell’area. La nuova dirigenza dell’Iran arresta i lavoratori che scioperano, nega l’olocausto, può fare salire la tensione ad un punto di non ritorno. Il fondamentalismo di matrice islamica continua ad espandersi sotto la superficie e alimenta la strategia delle guerra fra civiltà, e anche fra religioni. Per la Cgil è ora il tempo per la politica – a partire dall’Europa – di tornare in campo con una strategia che affronti i problemi nel modo giusto: si abbassi la tensione tra israeliani e palestinesi, si concentri qui il duplice sforzo di costringere Hamas a riconoscere Israele, a combattere l’uso del terrorismo e Israele a non tornare indietro dal processo di pace, non isolando, esasperando e umiliando i palestinesi. L’ONU continui la sua pressione sul governo siriano e il controllo sulla situazione libanese; si prema con gli strumenti giusti sull’Iran, gli si faccia sentire il peso della condanna della comunità internazionale, e si trovino le strade per abbassare la tensione e allontanare i rumori di guerra. L’Italia ritiri le sue truppe dall’Iraq. Si cerchino altre soluzioni per accompagnare una definitiva autodeterminazione da parte del popolo e del governo iracheni. Soprattutto dobbiamo tenere fermi i valori in cui crediamo. Se un giornale pubblica una vignetta offensiva nei confronti della religione, la responsabilità ricade sul giornale. In questo caso non c’entrano i governi né tantomeno i popoli. Se un ministro sbaglia, risponde il governo e al governo bisogna chiederne conto, senza incendiare e devastare sedi e ambasciate. Non va tollerata l’uccisione di preti cattolici in Turchia o di fedeli in Nigeria. E naturalmente non va fatto il contrario nel nome di un uguale e reciproco rispetto tra fedi e tra credenti. Sta qui la vera fermezza che ci vuole. Nel difendere questa fede nella democrazia, nei valori di libertà e di responsabilità individuali ovunque, nei diritti contenuti nella Carta delle Nazioni Unite. Dicendo ancora una volta, nella maniera più alta, che il terrorismo deve essere estirpato; che la guerra, oltre a non risolvere i problemi, fa pagare il conto ai più deboli, a chi non ha responsabilità; che la tortura non può essere mai giustificata e tutti i prigionieri vanno trattati secondo le convenzioni internazionali. Il nostro congresso Care compagne, cari compagni, il voto degli iscritti ha dato un consenso quasi generale all’obiettivo di fondo, alle parole d’ordine del nostro Congresso. Una unità di giudizio alimentata da una grande fiducia e da un grande orgoglio di appartenenza. “Riprogettare il paese” per noi vuol dire innanzitutto mettere a disposizione di tutti, forze politiche, schieramenti, istituzioni, associazioni di impresa e di reti sociali la nostra analisi sul paese e le nostre proposte di riforma. I nostri amici e compagni di Cisl e Uil le conoscono e per una parte le condividono, perché sono anche il frutto di un lavoro comune, di una ricerca che ci ha visto impegnati insieme, a livello nazionale e nelle nostre città e regioni. In questi anni dopo la divisione sul Patto per l’Italia, abbiamo per merito di tutti ripreso a tessere un lavoro unitario; quello che ci ha portato alla piattaforma dell’Eur, che ci ha visto insieme negli scioperi generali per chiedere un cambiamento nelle scelte di politica economica e sociale del governo; quella

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unità che ci ha fatto sottoscrivere oltre 400 accordi territoriali, e che ha consentito di rinnovare tutti i contratti di lavoro nel settore pubblico e in quello privato, e per ultimo quello dei lavoratori metalmeccanici. Un paese in bilico Riprogettare il paese partendo dal lavoro, dai diritti, dai saperi e dalle libertà presuppone ovviamente un giudizio preoccupato e allarmato sullo stato del paese, sulla condizione della maggioranza dei nostri cittadini, sullo stato dell’etica pubblica, sul funzionamento delle sue istituzioni, e in una parola, sul futuro dell’Italia. Non si deve credere che il nostro sia un giudizio mosso da un pregiudizio, ideologico, di parte. Quando fra i primi, alla fine del 2000, avvertimmo il paese sul rischio di un suo declino industriale, in molti alzarono le spalle. Vi furono polemiche e accuse. Come ricordiamo, vi fu chi ci spiegò che in realtà l’Italia era alla vigilia di un nuovo miracolo economico, e qualcuno coniò un neologismo, oggi possiamo dire davvero sfortunato: “turbosviluppo”. In realtà era dal 1996 che l’Italia aveva cominciato a perdere quote industriali nell’export mondiale, e già allora era chiaro che non era solo “colpa” della Cina o dell’euro, dal momento che Francia e Germania non condividevano il nostro stesso destino. Da allora la situazione è andata peggiorando, soprattutto per responsabilità dell’azione e delle scelte del governo. Questa mattina è arrivata la notizia che non avremmo voluto: il nostro Pil è allo zero tondo. Mentre noi siamo in questa situazione, la Germania è tornata ed essere il primo esportatore al mondo di beni industriali; la Francia ha avviato un ambizioso piano di ricerca e innovazione tecnologica; la Gran Bretagna si conferma leader al mondo nel mercato dei capitali finanziari e nell’istruzione; la Spagna ci supera per dinamismo e capacità di fare sistema ed i paesi scandinavi offrono, unici al mondo, un modello dove welfare e innovazione tecnologica, alte tasse e alti investimenti, coesistono e si alimentano positivamente. I cinque anni della legislatura che sta per finire presentano la crescita media più bassa del Pil italiano di tutta la storia delle legislature di questa Repubblica, e il disavanzo della bilancia commerciale nel 2005 richiama come paragone negativo e come dimensione quelli più pesanti degli anni ‘80. L’andamento negativo generale non sta a significare che tutti i settori sono in crisi e colpiti nella stessa misura. Fra il 2000 e il 2005 la produzione dei mobili ha perso l’8,2%, i mezzi di trasporto il 22%, gli apparecchi elettrici e di precisione il 29%, le gomme e la plastica il 10%, le pelli e le calzature il 33%, il tessile e l’abbigliamento il 19%. Mentre le industrie alimentari sono cresciute del 6%, le raffinerie del 9%, la stampa del 5% e la produzione elettrica del 11%. Questo spiega anche perché l’ultimo esame annuale di Mediobanca sulle più grandi società italiane fotografi incrementi di fatturato e di profitti: le nostre aziende più grandi – tranne la Fiat - sono collocate nei settori di maggiore crescita e profittabilità (energia, chimica, telefonia mobile, siderurgia, oltre alla finanza e alle banche): settori in parte protetti dalla concorrenza internazionale. I dati sull’occupazione e quelli sui redditi non danno elementi difformi. Il governo ha tentato in tutti i modi – e a più riprese – di presentare

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un’immagine del paese dove l’occupazione cresceva e il tasso di disoccupazione diminuiva. Senza porsi la domanda di come fosse possibile questo risultato senza crescita, industriale, produttiva e di reddito. Noi questa domanda ce la siamo posta, e grazie anche all’ufficio studi della Banca d’Italia, l’Ires ha trovato la risposta. La popolazione residente in Italia è passata negli ultimi cinque anni da 56.000.000 a 58.200.000 abitanti. Gli occupati nello stesso periodo sono passati da 21.380.000 a 22.540.000. Questo è dovuto alla regolarizzazione del lavoro degli immigrati, già presenti e già al lavoro, ma privi di identità pubblica e di rilievo statistico. Per questo confronti più omogenei fra il terzo trimestre del 2002 e il terzo trimestre del 2005 portano invece alla riduzione di 177.000 unità lavorative, come viene confermato dal fatto che proprio alla fine del 2005 il tasso di attività del paese si abbassa al di sotto del 62%, per l’effetto anche dello scoraggiamento che porta a cancellare dalle liste di collocamento le persone in cerca di lavoro. Nel Sud, dove il fenomeno di regolarizzazione degli immigrati è stato quasi irrilevante e lo scoraggiamento più forte, nello stesso periodo abbiamo 40.000 persone in meno occupate. E’ il nostro Mezzogiorno, insieme con le aree a più veloce deindustrializzazione del centro Italia, a pagare i prezzi più alti di questa situazione. Tutti gli indici, di occupazione, di reddito, di consumo, di povertà, di abbandono scolastico, confermano che si è arrestata quella primavera, quella stagione di crescita e di ripresa produttiva delle nostre città e regioni. E cominciano a diventare sempre di più, e sempre più costanti nel tempo, i processi di migrazione interna: i tanti giovani diplomati e laureati che partono con la speranza di trovare un lavoro, che non trovano laddove vivono le loro famiglie. Qui è la parte più consistente dell’identità di un paese che si ritrova più diviso e relativamente più povero: quella divisione che riguarda insieme generazioni, reddito, territori, lavoro. Con gli anziani a reddito basso, sono proprio i giovani del Mezzogiorno coloro che più hanno pagato politiche economiche e redistributive sbagliate. Il nostro Presidente del Consiglio, come sappiamo, non condivide questo giudizio. Egli pensa in realtà che il paese sia più avanti di quello che le cifre rappresentino e porta sempre ad esempio il numero dei telefonini posseduti dagli italiani. In più ha detto che “l’Italia in Europa non siede più in panchina”. Qualcuno di noi ha provato a fare una classifica di un eventuale campionato europeo. Aumento della produttività: Italia ultima; crescita della spesa in ricerca: Italia ultima; prodotto interno lordo: ultima; competitività globale: ultima; aiuti alla cooperazione: ultima; esportazioni high tech: terzultima; creatività economica: terzultima; laureati: terzultima; collegamenti ad internet: quartultima. E ancora siamo primi nell’inquinamento, primi nel costo dell’energia, primi per debito pubblico; secondi per la disoccupazione giovanile e quella di lunga durata; di nuovo primi per i rischi di povertà, tra i primi per numero di morti e di incidenti sul lavoro. A Davos un importante esponente del mondo finanziario ha detto che l’Italia avendo perso tutte le opportunità è rimasta importante solo per il cibo e per il calcio. E come sappiamo nella classifica del World Economic Forum siamo al

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quarantaquattresimo posto dopo tutta l’Europa, il Cile, la Malesia, la Corea del Sud, la Giordania, la Colombia, il Brasile. L’Economist ci fa sapere che nelle previsioni di crescita l’Italia è quintultima tra tutti i paesi. In tutta onestà non penso che questa sia la vera condizione del paese, e che l’Italia stia un po’ meglio di come i numeri la raccontino, ma siamo e continuiamo a restare su un piano inclinato e questi cinque anni sono stati anni persi e hanno aggravato la nostra condizione. Ma non c’è solo questo. Il paese attraversa ancora la sua lunghissima, infinita, transizione istituzionale e ogni provvedimento, in questo senso preso, ha peggiorato la situazione. La revisione costituzionale operata dalla maggioranza parlamentare rappresenta per noi il coronamento di un processo negativo che finisce per svuotare di senso i principi contenuti nella prima parte della Costituzione; rende diseguali i cittadini nel diritto comune all’istruzione, alla salute, alla sicurezza, e altera in maniera non accettabile l’equilibrio da difendere fra prerogative del Parlamento, quelle del capo del governo, e quelle del capo dello Stato. Siamo onorati di aver contribuito – insieme al Presidente Scalfaro – alla raccolta delle firme per chiedere il referendum previsto dalle procedure in materia di revisione costituzionale, e riaffermo qui – in questa sede per noi solenne - di fronte a tutti che la Cgil si impegnerà - come sa fare quando vuole - perché i cittadini respingano il testo della nuova Costituzione. E’ proprio questo andare e tornare, questa assenza di certezze, a generare una permanente confusione istituzionale: confusione e conflitti che questo governo ha accentuato, accentrando decisioni e caricandone i costi e gli oneri su Regioni e autonomie locali; operando su competenze e materie concorrenti, in modo da non tener conto dell’opinione delle istituzioni locali che dopo la revisione del Titolo V compongono insieme allo Stato, la nostra Repubblica. Le Regioni, i Comuni, le Province hanno sempre trovato nella Cgil un interlocutore attento alle loro richieste e alle loro ragioni. Insieme abbiamo provato a modificare indirizzi e scelte di politica economica; insieme abbiamo criticato le leggi di bilancio; in molte città i sindaci hanno sfilato nelle manifestazioni di Cgil, Cisl e Uil. Li abbiamo visti con noi a Roma, Napoli, Bologna, Firenze, Genova, Torino. Quello che ci ha tenuto uniti non è solo il rifiuto comune opposto alla scelta di ridurre trasferimenti per gli investimenti e le spese sociali, ma qualcosa di più. Istituzioni locali e sindacati rappresentano reti di servizi e reti sociali fondamentali per dare sicurezza ai cittadini, ai lavoratori e ai pensionati, per affrontare le aree di bisogno e le condizioni di difficoltà. Spesso rappresentiamo, insieme con le organizzazioni della Chiesa, i luoghi e i percorsi di solidarietà per tanti che si sentono soli e restano abbandonati. La condizione di precarietà attraversa il mondo del lavoro, quello degli anziani e la società italiana. La stabilità del lavoro – che non può essere mai un disvalore – è per molti un traguardo difficile. Le crisi aziendali ricorrenti cancellano occupazione e identità sociali; nei settori del pubblico impiego, della scuola, della ricerca, dell’Università aumentano le sacche del lavoro precario e di quello a termine, e la combinazione fra riduzione degli organici e tagli agli investimenti cancella servizi e ne abbassa la qualità. La stessa mobilità sociale, quella verticale, è oggi sostanzialmente ferma. E

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questo non genera solo una fortissima e ulteriore discriminazione – di cui non si parla - verso le donne, le più colpite da questo. Ma una cristallizzazione delle gerarchie sociali negli averi e in quelle dei saperi. Disegna un progetto di società dove avere patrimoni conta più che avere talento e capacità, fare i soldi attraverso i soldi più che farli con gli investimenti e il capitale di rischio; essere furbi o furbetti più che essere onesti e trasparenti; evadere le tasse e ricorrere a tutti i condoni più che pagarle e fare il proprio dovere fiscale. Qui vedo il carattere tutto regressivo, anche culturalmente, e un po’ da ancien regime, (avevo pensato di togliere questo riferimento, ma se penso alle nomine che il Ministro Tremonti vuole fare per la Banca del Sud, altroché ancien regime) della decisione di cancellare il prelievo fiscale sui trasferimenti ereditari dalle grandi ricchezze e dai grandi patrimoni, la logica dei condoni ripetuti anno dopo anno, il non aver voluto uniformare le aliquote fra diverse forme di risparmio e investimento finanziario. Qui vedo il principio dell’affievolimento dell’etica pubblica, dello spirito civico, dell’etica di una responsabilità condivisa. Qui onestamente vedo la causa e l’effetto più duro da rimuovere se si vuole evitare il declino del paese. E’ sulla base di questo che nelle tesi congressuali abbiamo scritto che l’Italia è giunta ad un bivio, e che se non si opera un profondo cambiamento di volontà, indirizzi, scelte, strumenti e priorità il bel paese è destinato - come spesso è capitato nella sua storia bimillenaria – a restare indietro e dividersi. Il lavoro e la via alta allo sviluppo Il bilancio di questi cinque anni ci dice onestamente che il disegno di far ripartire il paese con la riduzione delle tasse e i premi fiscali verso patrimoni e rendite, e con la riduzione dei diritti del lavoro è fallito; come è fallita la scelta di cancellare il dialogo sociale, il confronto con le controparti, il rispetto verso la funzione collettiva della rappresentanza sociale. Più individuo, più patrimoni, più mercato senza regole non sono la soluzione ai problemi del paese, ma forse una delle componenti più profonde della sua crisi. Per questo riprogettare il paese vuol dire ripartire dalla centralità del lavoro e dalla sua qualità, determinare le condizioni per una via alta allo sviluppo, fondata sull’innovazione, la ricerca, la conoscenza, il trasferimento tecnologico. Vuol dire una diversa responsabilità pubblica nell’orientare scelte e missioni produttive; qualificare il welfare anche come fattore di sviluppo; difendere i beni comuni; mettere in collegamento infrastrutture materiali e immateriali; bonificare e difendere per davvero – altro che delega ambientale! - il territorio; avere una politica energetica moderna e capace di ridurre la dipendenza dall’estero. Ci vuole in definitiva un programma ambizioso, capace di spostare investimenti e risorse privati e pubblici dalla rendita agli impieghi produttivi, con una moderna capacità di scelta, di selezione degli obiettivi e di governo di sistema. Con una particolare attenzione rivolta al Mezzogiorno e alla soluzione dei suoi problemi. Ci vuole una politica industriale che la smetta di sostenere investimenti estensivi o di processo, e che si concentri nel qualificare l’innovazione di prodotto sia nei settori tradizionali, che in quelli di più rapido sviluppo. Politiche che difendano identità, tracciabilità e marchi delle nostre produzioni, che

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aiutino la crescita e l’integrazione fra aziende piccole e medie, e ne sostengano le reti distributive e commerciali in Italia e nel mondo. Ci vogliono infrastrutture efficienti, a partire da quelle del trasporto – compresa l’alta capacità - dove oggi scontiamo i ritardi ed i problemi più acuti. Le ferrovie sono abbandonate a se stesse, senza investimenti, senza rapporti intermodali e con problemi di sicurezza crescenti; il trasporto aereo – a partire dalla situazione dell’Alitalia - è da tempo nella bufera, senza programmazione alcuna del sistema aeroportuale e della concorrenza; le strade e le autostrade non reggono più la crescita del traffico e l’assenza di investimenti. Lo stesso sistema portuale – la sorpresa più positiva della nuova centralità del Mediterraneo nel commercio mondiale – è lasciato a se stesso. Il porto di Gioia Tauro, senza collegamenti di terra e difesa attiva contro i tentativi della malavita organizzata, corre il rischio di non portare nessun vantaggio al paese e al Mezzogiorno. In questi anni nel settore dei trasporti, dell’energia e delle telecomunicazioni l’esecutivo ha lasciato che le cose andassero per conto proprio – a differenza di quello che stanno facendo altri paesi -, dimostrando qui per intero l’incapacità di operare un governo accettabile dei sistemi complessi. Quando ha provato a farlo – ad esempio nel caso della legge obiettivo – i danni arrecati hanno di gran lunga superato i vantaggi; per non parlare degli accordi con la Russia sull’approvvigionamento del gas naturale. La stessa apertura alla concorrenza nei settori dei servizi a caratteristiche industriali non ha determinato quei vantaggi e quelle opportunità che erano state immaginate. In molti casi si è solo sostituito al monopolio pubblico quello privato. In altri la concorrenza non funziona, o avviene solo al ribasso di standard di qualità, prezzi per il consumatore e universalità del servizio. Nel settore bancario e assicurativo, il paese ha finito per risentire di scelte e politiche inadeguate. Ha sbagliato la Banca d’Italia - e lo dico senza particolari elementi di polemica- in questi anni a favorire un equilibrio del sistema a scapito di una sua più rapida integrazione dimensionale, con la conseguenza di non difendere né l’italianità delle banche, né il loro ruolo nella scena europea e internazionale, né la trasparenza del mercato e la correttezza di molti suoi attori. Anche in campo assicurativo il principio di concorrenza e di qualità ha lasciato troppo spesso il posto a logiche di cartelli che penalizzano i consumatori e fanno salire i costi per le persone. La stessa legge sul risparmio, approvata con irresponsabile ritardo, non risponde ai problemi di funzionamento del nostro mercato finanziario. Non interviene nel campo dei conflitti di interesse nelle attività degli intermediari bancari né con la leva della regolamentazione, né con quella della concorrenza; non affronta il nodo degli assetti proprietari e azionari delle banche italiane, nodo destinato a diventare o il freno o la leva dei percorsi di riaggregazione che si stanno costruendo e che riguardano non soltanto le quattro banche di cui si parla, ma la stessa Mediobanca e Generali, e quindi il cuore del potere finanziario italiano. Per non parlare dei più grandi gruppi industriali, quali Telecom e la Fiat. Gli stessi intrecci fra banche e imprese pongono, infatti, problemi. Se il valore totale delle partecipazioni bancarie delle nostre imprese non finanziarie è

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rimasto al di sotto dei tetti massimi previsti dalla normativa, sta invece aumentando il peso, anche qualitativo, assunto da molti gruppi bancari nella struttura proprietaria delle nostre imprese. Oggi, almeno sette dei primi dieci gruppi bancari italiani hanno tra i propri azionisti di riferimento uno o più gruppi industriali; e in almeno cinque casi su sette gli azionisti industriali denunciano posizioni di forte indebitamento rispetto al gruppo bancario partecipato. Come è evidente tutto questo è destinato a rendere opachi le scelte e i mercati. Per questo – e lo dico con rispetto e conscio dei problemi – penso che Confindustria e ABI debbano affrontare il problema, oltre all’Osservatorio comune che hanno: studiare nuove regole per una governance più trasparente. E qui sì forse proporsi meno patti incrociati di controllo – quelli di sindacato - dove con poco sei proprietario di tutto e dove così eviti contendibilità e scalate sgradite. Nel turismo il paese deve ripensare a fondo la propria strategia. In pochi anni, un paese come il nostro, pieno di giacimenti culturali e bellezze straordinarie, è riuscito a perdere posizioni e arretrare. Prezzi alti, poca qualità, nessuna politica di sistema e promozione integrata. Il regionalismo qui ha dato il peggio di sé, come se nel mondo di oggi fosse importante promuovere solo una parte del paese, e non tutto, non l’insieme. Ancora peggio è andata per la nostra industria agroalimentare: Parmalat, Cirio, molti dei nostri marchi finiti in mano delle multinazionali; le filiere dello zucchero e del tabacco in difficoltà e difese con i denti; e un paese impreparato alla concorrenza che si aprirà nell’area del Mediterraneo. Quanto alla distribuzione e alla logistica – che non sono irrilevanti per il sistema produttivo moderno – sembra che nessuno se ne interessi, tranne che la cooperazione per una parte. La ricerca, i saperi Per l’insieme di questi motivi, riprogettare il paese è assolutamente fondamentale puntare sullo sviluppo della ricerca, dell’innovazione e della formazione. Qui non c’è solo la responsabilità di questo governo. Da almeno quindici anni gli investimenti in ricerca sono fermi, se non addirittura in calo; gli obiettivi del patto del 1993 non sono stati raggiunti per responsabilità degli attori pubblici e di quelli privati. Il paese resta carente nella ricerca di base e in quella applicata, e solo parzialmente presente nei settori di punta della ricerca del futuro: le biotecnologie, le nanotecnologie, le tecnologie ottiche, le nuove fonti energetiche. Il Presidente Ciampi, che con noi firmò l’accordo del 1993, non perde giustamente occasione per insistere su questo rilievo, e a ragione, perché anche i modelli matematici confermano la stretta relazione esistente fra investimenti in ricerca e crescita del Pil. Quello che noi non facciamo oggi è destinato a pesare nei prossimi dieci anni. Devo anche dire che questo è il punto di maggiore complessità da risolvere, come dimostra il fallimento degli obiettivi di Lisbona in campo europeo. Qui non bastano solo incentivi o maggiori investimenti pubblici. Ci vogliono catalizzatori di progetti, piani integrati fra aziende e università, fra Comuni ed enti di ricerca; vanno cambiate insieme le aziende, le università, i centri di ricerca. Va separato l’investimento a breve, tipico della ricerca applicata, da quello di lungo periodo, proprio della ricerca di base. Va garantita autonomia e

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libertà al ricercatore. Va data fiducia alla sua responsabilità e maggiore capacità di controllo e di applicazione degli effetti della ricerca. Bisogna premiare i talenti, formarli, evitare che se ne vadano all’estero, avere dei veri e consolidati punti di eccellenza. E difendere quelli che ci sono. La medesima qualità va portata verso il sistema formativo. Cancellare le riforme della Ministra Moratti non vuol dire ritornare al modello precedente, ma riprogettarne uno nuovo, guardando in avanti e assumendo come valori di riferimento quelli fondanti la nostra Carta costituzionale. Noi vogliamo che l’obbligo scolastico sia riportato a 16 anni e che possa arrivare a 18 nell’arco della legislatura, con tutte le implicazioni che questa scelta comporta. Non si tratta di un obiettivo facile, ed è forte l’obiezione che ci viene mossa in nome della condizione di quei ragazzi che abbandonano la scuola o ne sono respinti. Ma senza un segnale forte, un indirizzo esplicito e coerente, il paese avrà sempre un terzo di diplomati in meno degli altri paesi europei e andrà indietro per qualità dell’offerta formativa. Insieme, va ricostruito un forte sistema di formazione professionale, come raccordo fra scuola e lavoro, fra lavoro e lavoro, in grado di fare crescere competenze e forme rinnovate di conoscenza. E vanno triplicati i numeri dei nostri laureati, intervenendo sugli assetti organizzativi dei percorsi universitari, superando modalità che non hanno funzionato e adeguando finanziamenti e principi di valutazione. La scuola, la formazione professionale, l’università, la ricerca costituiscono il cuore della nostra scommessa riformatrice. Qui si vince o si perde il progetto dell’Italia che vogliamo. Il patto fiscale Proprio l’altezza di questa sfida dà forza, senso e centralità alla richiesta che avanziamo di un nuovo patto fiscale. Sotto questo titolo, per noi si definiscono molti obiettivi. Reperire risorse - in una situazione di conti pubblici ritornata difficile per responsabilità del governo e per la prospettiva del rialzo dei tassi – da destinare agli investimenti, all’istruzione, al welfare; ripristinare una giustizia fiscale nel nome del principio che chi più ha, più paga, che non vi debbono essere più condoni, che va combattuta l’evasione; riequilibrare la tassazione fra rendite, patrimoni e redditi da lavoro; restituire il drenaggio fiscale e sostenere anche fiscalmente i redditi da pensione; operare una fiscalizzazione contributiva sui salari più bassi. Un patto fiscale di questa natura diventa anche un nuovo patto di cittadinanza, una rinnovata base di coesione sociale e di etica pubblica. Su questo terreno – se Cisl e Uil fossero d’accordo, come penso – insieme dovremo fare il primo passo: chiedere al governo che uscirà dalle elezioni, se avrà questi obiettivi nei suoi impegni di programma, un confronto in questa direzione, dando la disponibilità a negoziare, e a definire – se ve ne saranno le condizioni – un accordo di legislatura. Per noi questo significa che non vi potranno essere due tempi – prima il risanamento e poi il resto – e che il governo dovrà in questo modo sostenere esplicitamente i redditi da pensione e quelli da lavoro dipendente. Un nuovo patto fiscale sostiene anche un’idea di stato sociale inclusivo, efficiente e di qualità. In questi anni, indipendentemente dal livello della spesa

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pubblica, il sistema di welfare è stato impoverito e dequalificato; non ha contrastato precarietà e insicurezza; non ha rappresentato leva di sviluppo e di qualità; ha lasciato ai margini l’infanzia e una parte della popolazione anziana, non ha ridotto l’area della precarietà, soprattutto nel Mezzogiorno. Quello per cui ci siamo battuti, insieme con i sindacati dei pensionati e le associazioni del terzo settore, è un welfare improntato ad un’idea di Stato laico, che sappia valorizzare le differenze e rispettare la libertà di ognuno, senza pretesa di definire modelli morali e imporre criteri etici di valutazione e di comportamento. La centralità del ruolo del sistema pubblico va affrontata - anche per questo – non solo nella programmazione e nella definizione di regole e standard qualitativi, ma nella stessa gestione dei servizi, a partire dalla sanità e dall’istruzione. Fa sempre più parte di un welfare inclusivo, accanto alle politiche verso i giovani - oggi esclusi da qualsiasi accesso al sistema di protezione sociale - e quelle per l’invecchiamento attivo degli anziani, il tema della casa, che riguarda sempre di più bisogni ed esigenze diffuse: ancora i giovani, gli anziani, gli immigrati, i lavoratori in mobilità. Qui non ci vogliono illusioni, piani ad effetto, proposte dell’ultima ora per strappare qualche voto, per di più da persone che hanno realmente bisogno. In cinque anni il governo aveva il dovere di fare. Non ha oggi il diritto di promettere, ancora. Non ci ha convinto e non ci convince l’intervento operato dal governo in materia previdenziale. Una operazione ingiusta tra fasce di età, rigida nelle modalità di scelta per innalzare l’età di accesso alla pensione, e che ha lasciato irrisolti i problemi che la riforma Dini non aveva completato. Ci troviamo così, oggi, senza soluzione per i lavoratori e le lavoratrici con lavoro discontinuo e a basso reddito, per la rivalutazione del valore delle pensioni per le quali valgono le proposte avanzate dal nostro sindacato pensionati, e con il posticipato delle misure di sostegno e incentivazione per l’adesione alla previdenza complementare. Il reddito minimo di inserimento è stato cancellato, il fondo per i non – autosufficienti lasciato ai margini del lavoro parlamentare, il fondo sociale delle Regioni dimezzato. E i Comuni chiamati a scegliere se tagliare investimenti – per fare quadrare i bilanci – o ridurre i servizi; con i Comuni più poveri costretti a fare l’una e l’altra scelta. Non parliamo poi degli ammortizzatori sociali, della loro riforma e delle tutele verso il lavoro. Proprio in questi anni di crisi industriali e di trasformazioni produttive, di delocalizzazioni e di riconversione, il paese avrebbe avuto bisogno di strumenti più estesi e intelligenti e di una politica di raccordo fra welfare e mercato del lavoro. Abbiamo invece avuto poche risorse, nessuna riforma e l’assenza di una integrazione di questa natura. Tutto questo ha finito per dividere i lavoratori, le aziende, i settori, i territori. C’è chi ce l’ha fatta ad avere qualche tutela e chi niente, come la miriade di lavori e persone invisibili dell’indotto, delle subforniture, delle piccole e piccolissime aziende. Ancora in questi giorni stiamo aspettando risposte per i lavoratori dell’elettronica, della chimica, del tessile abbigliamento, e per regioni come la Sardegna, l’Abruzzo, la Campania. Per non parlare della Fiat. Oggi non ha proprio senso che si parli di licenziamenti; lo dico con la forza necessaria alla Fiat e al Ministro Maroni.

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Anche in ragione di questi comportamenti, il mondo del lavoro è stato oggetto di processi di frantumazione e di divisione, indotti da scelte di imprese, da un’idea di competizione basata sulla riduzione di costi e diritti, dal tentativo di contrapporre le diverse forme e tipologie del lavoro, giocando al ribasso fra persone e fra diverse condizioni lavorative. Con la scelta di intervenire sull’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, il governo ha fornito, d’accordo con la Confindustria di Parma, il fondamento ideologico e l’attacco che doveva essere risolutivo. Le cose, come sappiamo, hanno preso un’altra piega. La resistenza della Cgil, e dei lavoratori, lo schierarsi della maggioranza dell’opinione pubblica a fianco di quanti si battevano per la dignità dei lavoratori e dei loro diritti hanno arrestato il disegno e ridato forza a una diversa prospettiva riformatrice. Si tratta, oggi, quindi, di andare oltre la legge 30, ribaltandone la filosofia: andranno cancellate tutte le norme che precarizzano il rapporto di lavoro, favoriscono la destrutturazione dell’impresa e indeboliscono la contrattazione collettiva. Bisogna tornare a fare del contratto a tempo indeterminato la normale forma di lavoro, limitando altre forme di contratto all’eccezione e qualificando le forme di ingresso al lavoro con effettivi e qualificati percorsi formativi. Non si dovranno più avere costi diversi e più bassi per le forme di lavoro flessibili; bisognerà controllare e ridurre le esternalizzazioni nei settori pubblici; andranno contrattati piani di stabilizzazione per i precari di lunga durata. Per i lavoratori migranti andrà stabilita l’istituzione di un permesso di soggiorno per ricerca di lavoro, e questo, se gestito correttamente anche con accordi bilaterali con i paesi d’origine, limiterà clandestinità forzata e lavoro nero, e farà venire meno ogni pretesto da cui sono nati i centri di permanenza temporanea. Infine, vanno rimosse le norme, e in particolare l’articolo 14 del decreto legislativo 276 del 2003. L’integrazione nel mondo del lavoro delle persone con disabilità è un segno distintivo della qualità della vita sociale, civile e della cultura di un paese. Integrare nel lavoro i disabili con forme di precarietà nel rapporto di lavoro è una scelta che ci porta fuori dalla ragione e fuori dal rispetto che si deve alle persone. Questo è – nel modo più sintetico possibile – il segno e il senso del nostro progetto per il paese. Una diversa politica Per tanto tempo ed in ogni occasione istituzionale, queste idee e ragionamenti sono stati proposti al governo in carica, ad ogni Finanziaria, ad ogni incontro. Il governo di centrodestra ha lasciato cadere qualsiasi volontà di dialogo, di confronto, di risposta. Malgrado il lavoro di alcuni componenti del governo, tra i quali il sottosegretario Letta che ci onoriamo di avere qui, oggi, nostro ospite. Verso di noi, verso Cisl e Uil – all’indomani della firma del Patto per l’Italia - e come ho già detto verso il complesso delle autonomie locali e delle Regioni. Gli accordi stipulati con Confindustria e le altre associazioni sul Mezzogiorno, le infrastrutture, la formazione, le politiche fiscali sono rimasti lettera morta. Il governo non ha sentito neanche il dovere e l’educazione di rispondere alla richiesta di incontro, quand’anche per dire NO. Per questo, e per le responsabilità che il governo porta per la situazione del

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paese, oggi questa proposta viene avanzata innanzitutto al centrosinistra, allo schieramento dell’Unione, alla vigilia delle elezioni legislative. Quasi un anno fa, i dodici segretari confederali indirizzarono una lettera a Romano Prodi esprimendo preoccupazione per la situazione del paese e chiedendo un programma di radicale cambiamento. Qualcuno polemizzò con questa scelta, senza capire che era il modo più trasparente e rispettoso da parte di un sindacato di rivolgersi ad uno schieramento politico, senza confusione di ruoli e di responsabilità. Tanto è vero che nel passato lo facemmo nello stesso modo insieme, come Cgil, Cisl e Uil. Oggi che il programma dell’Unione è stato varato, la Cgil può dire di trovarvi una risposta positiva a quella lettera. Di scoprirvi una valutazione dello stato del paese comune, una volontà di cambiare rapidamente, per non rassegnarsi al declino; una disponibilità ad un rapporto positivo con le organizzazioni sindacali. Non tocca a questa relazione, né al Congresso, dire cosa va bene e cosa manca in questo programma. Ci compete piuttosto ripetere – anche di fronte alle promesse in libertà che si sentono ogni giorno e nelle quali il Presidente Berlusconi è maestro - che il paese ha bisogno di cambiamenti concreti, e che pesa sull’Unione una grande responsabilità, che senza retorica si può definire storica: quella di fare prevalere nel consenso democratico la necessità di questa svolta, e in questo caso di assicurare con serietà e rigore l’opera della ricostruzione. Dal nostro punto di vista, sappiamo che riprogettare il paese non sarà impegno facile, né di breve durata: e questo richiede unità, costanza, determinazione, coraggio. Non una politica dei cento giorni, ma dei tremila. E tanta passione civile, tanta sensibilità sociale verso quelli che stanno peggio e da soli non ce la fanno: e tanta libertà e rispetto per chi rischia, investe, ha talento, ha voglia e capacità di fare. Occorre unire quello che è stato diviso. Ritessere le reti di coesione e solidarietà, dare qualità, efficienza e terzietà alla macchina amministrativa, combattere davvero la criminalità organizzata, che in questi anni ha rialzato la testa. Rispettare la Magistratura, la sua autonomia e la sua indipendenza, le leggi dello Stato; il pluralismo dell’informazione e la cultura; fare un passo indietro nel rapporto fra Istituzioni e interessi economici, rendere più forti e autorevoli le autorità di vigilanza e di controllo, regolamentare per intero i conflitti di interesse. Fare che la politica ritorni ad essere una funzione di servizio verso i cittadini. E ricordarsi che la libertà di tutti è garantita solo in uno Stato pienamente laico. Se questo avverrà, per la Cgil sarà un motivo di grande soddisfazione. Perché vorrà dire che l’impegno, l’abnegazione, la lotta di tanti sarà servita per un nobile e alto progetto di cambiamento civile e morale. Per questo qui voglio esprimere l’affetto e l’ammirazione, a nome di tutto il Congresso, al nostro segretario della Camera del Lavoro di Corleone, Dino Paternostro, minacciato ma non intimidito dalla mafia: ultimo di una serie lunga di atti compiuti contro sedi e persone della Cgil, che non hanno risparmiato, come a Comiso, il

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coraggio civile delle nostre giovani compagne. Il salario, i contratti Care compagne, cari compagni, non è stato facile per il sindacato in questi anni battersi per difendere il lavoro, il reddito, la condizione dei lavoratori, la situazione degli anziani. Ed è evidente l’esistenza di un grande problema sociale, costituito dalle condizioni di reddito di lavoratori e pensionati. C’è difficoltà, disagio, vero malessere. C’è chi ha ridotto i consumi, chi i risparmi. Dove c’è un reddito solo, le difficoltà aumentano. Dove c’è precarietà e i soldi che entrano non superano 600, 700 euro si tira la cinghia e di brutto. Per non parlare dei pensionati al minimo e che ancora aspettano le promesse che erano state fatte. Di converso qualcuno in questi anni si è arricchito: chi ha potuto fissare - nel commercio e nelle professioni – liberamente i prezzi dei propri servizi; chi ha patrimoni e rendite da far valere; chi evade o elude le tasse. Vi è qui una delle più grandi responsabilità di questo governo: non essersi occupato – come doveva – della condizione dei primi e di essersi preoccupato eccessivamente della condizione degli altri. In assenza di una politica capace di aiutare i redditi da lavoro e di operare un controllo su prezzi, tariffe, costi dei beni e dei servizi pubblici, è toccato alla contrattazione il compito di difendere potere d’acquisto e valore dei salari. Il bilancio di questi anni presenta luci e ombre. Con forza e determinazione, e con un numero alto di mobilitazioni e scioperi, Cgil, Cisl e Uil sono riuscite a completare – sia pure con un ritardo a volte pesante – tutti i rinnovi dei contratti nazionali. Con la firma degli Enti Locali e il rinnovo dei metalmeccanici, il sindacato ha dimostrato anche in condizioni difficili di difendere l’istituto del contratto nazionale. E questo aiuterà i rinnovi aperti: dalla chimica, al petrolio, dall’energia, all’edilizia, ai braccianti, dai tessili ai contratti considerati a torto, minori. Le ombre riguardano la qualità che è mancata in molte occasioni, la stasi degli assetti degli inquadramenti professionali e gli addensamenti in basso che si sono ampliati. Sul terreno del recupero dell’inflazione, qualche contratto è andato oltre, qualche altro è rimasto in linea. I ritardi dei rinnovi nei settori privati hanno ridotto le capienze totali degli aumenti retributivi e laddove i riferimenti hanno preso la strada dell’inflazione attesa, i risultati sono stati migliori. Anche la contrattazione di secondo livello è stata spesso difensiva e l’intervento sulla condizione di lavoro e la quantità delle prestazioni insufficiente. Qui naturalmente hanno pesato le crisi produttive, le riorganizzazioni, le esternalizzazioni, il modesto tasso di crescita e l’ampliarsi della precarietà e la situazione particolare di molti settori, quali i quali il trasporto pubblico locale. Ricomporre il lavoro e i diritti Abbiamo in ogni caso il dovere di non fuggire da un esame attento delle difficoltà, di quelle antiche e di quelle nuove, derivanti dai modelli di organizzazione della produzione di beni e servizi, dalla frantumazione dei luoghi del produrre, dei lavori e del mercato del lavoro. Quando abbiamo per ogni impresa fino a dieci tipologie di lavoro, quando un bene o un servizio è ottenuto attraverso filiere con quattro, cinque o sei contratti di lavoro diversi, anche nel caso di settori delicati, quali la cura o

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l’assistenza delle persone; quando anche per professioni qualificate – come le infermiere – si torna al caporalato; quando i lavoratori stranieri e le donne vengono per lo più confinati nei lavori più pesanti, o solo in quelli meno retribuiti o precari; quando la distribuzione del tempo di lavoro ci dice che c’è chi lavora cinque giorni in un anno, chi trenta, chi tre mesi, chi sei e poi magari altri tre o altri sei; quando ci sono persone che lavorano quindici, sedici, diciotto ore settimanali, magari divise giornalmente in due o tre aree (come, ma non solo, nel commercio o nelle imprese di pulizia) con una rigidità e pervasività del tempo di lavoro che occupa tutto di sé; quando non ce la facciamo a tenere logicamente assieme il valore di un lavoro semplice– come definito dai contratti – e i lunghissimi tempi dei mesi di apprendistato per raggiungere tale qualifica: allora dobbiamo parlare di noi, di quello che non possiamo scaricare solo su un’altra legge o altre responsabilità. Dobbiamo parlare onestamente dei nostri limiti, di come ne discutiamo, di come lavoriamo con le RSU o i delegati; di come mettiamo a verifica esperienze, risultati, progressi, o sconfitte; di come anche noi torniamo a occuparci bene della condizione concreta del lavoro. E dico: noi tutti, categorie e confederazioni. Anche per questo ci siamo battuti contro la Direttiva Bolkestein, non per fermare un processo di integrazione nel campo dei servizi. Ma per evitare di mettere in concorrenza lavoratori contro lavoratori; norme di un paese contro norme di un altro paese, contratti contro contratti, sapendo che poi sarebbe finita qui la vera partita: scaricando tutto sui più deboli, mentre i forti ne sarebbero stati esclusi. Più integrazione dei mercati è necessaria, ma ci vogliono regole e standard uniformi, e per questo contratti collettivi europei. Non atti di furbizia e di divisione del lavoro. Il Parlamento europeo ha compiuto un passo in avanti: ha eliminato il principio del paese d’origine; ha escluso il diritto del lavoro e riconosciuto il ruolo dei contratti collettivi; ha ribadito l’esclusione delle agenzie interinali, i servizi di interesse generale, e salvaguardato la direttiva sui distacchi dei lavoratori. Altre parti, invece, sono rimaste ambigue e in contraddizione con le modifiche apportate: cosa succede per i rifiuti, per l’acqua, per l’istruzione privata e la formazione professionale, per la sanità privata? Per questo bisognerà insistere per migliorare il testo della Direttiva, anche per ridurre le interpretazioni che potrebbero portare a una lunghissima serie di controversie di carattere giudiziario. Noi condividiamo il giudizio della CES. Spesso abbiamo avuto accenti critici verso la CES, ma in questo caso si è mossa bene: e questo dimostra che se il sindacato europeo sta in campo con forza, i risultati possono arrivare; e che quindi l’Europa ha bisogno di un forte e vero sindacato europeo. Il Congresso di Siviglia nella primavera dell’anno prossimo può e deve per la Cgil rafforzare la dimensione sindacale della CES. Una CES più forte è anche la condizione perché abbia più forza quel processo di unificazione, deciso a livello mondiale. Nell’autunno di quest’anno nascerà un sindacato internazionale più grande e noi speriamo sempre più forte perché di questo abbiamo – giorno dopo giorno – sempre più bisogno. La riforma dei contratti

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Negli ultimi mesi, da parte di Confindustria è stato più volte posto l’accento sulla esigenza di modificare gli assetti contrattuali e l’impianto del 23 luglio. Alcuni studiosi hanno contestato il ruolo e la funzione del contratto nazionale, oggi fino a prefigurare un salario minimo di legge e una contrattazione basata su differenze di territorio, di genere, di età. Altri propongono di ricorrere al principio delle deroghe aziendali. Anche il presidente del CNEL ha voluto dire la sua, e mentre propone il CNEL come sede di confronto, ha espresso già da subito il suo giudizio critico verso il contratto nazionale. Noi rispettiamo tutte le opinioni e le proposte, soprattutto quando sono in buona fede, e vengono formulate con argomenti e con il rispetto necessario. Non consideriamo né nemico, né avversario (ci mancherebbe) chi ha opinioni diverse dalle nostre. Il dialogo, il confronto, la libertà di giudizio e di critica sono il sale della democrazia. Ma non per questo la Cgil cambia idea. Per noi il contratto nazionale è ancora la forma più moderna ed efficace per regolare norme, diritti e doveri del rapporto di lavoro su tutto il territorio nazionale e per concorrere alla difesa e all’incremento in maniera uniforme del potere di acquisto delle retribuzioni. Senza questo la media delle retribuzioni è destinata inevitabilmente ad abbassarsi. Per noi il sistema di regole contrattuali deve essere unitario per tutti i settori pubblici e privati. Per noi il livello nazionale di contrattazione non può essere messo in alternativa alla qualificazione della contrattazione decentrata, scelta oggi ancora più importante e fondamentale di fronte alle trasformazioni nell’organizzazione del lavoro, nei confini dell’impresa, e nella condizione dei lavoratori. Su questo – va detto lealmente - abbiamo differenze con le posizioni di Confindustria. Non ci convince il documento che Confindustria ci ha inviato, per molte buone ragioni. Il contratto nazionale - che pure viene confermato – è visto in modo troppo parziale e riduttivo. E dove si chiede che sia più forte, lo si fa per superare prerogative e responsabilità – come in materia di orari di lavoro – che sono, per una parte, proprie delle rappresentanze aziendali. In tema dei conflitti di lavoro, Confindustria propone interventi che ne restringono unilateralmente il ricorso, chiede arbitrati obbligatori e sorvola – e fa male- sulle responsabilità che le imprese hanno avuto nel determinarli. Infine, insiste molto su politiche di riduzione del cuneo fiscale e contributivo, e di vantaggi fiscali per il Mezzogiorno. Su questo, il confronto invece potrebbe essere reciprocamente utile, a condizione che si abbia – gli uni e gli altri - il senso di misura tra vantaggi che potrebbero ricadere sulle aziende e quelli che dovrebbero riguardare i lavoratori. Proprio questo mi porta a fare una osservazione di fondo. Con la nuova Confindustria, alla quale abbiamo riconosciuto il diverso atteggiamento verso di noi, abbiamo da subito lavorato insieme su tanti temi e altri indicati: i migranti, la formazione, la fiscalità di vantaggio, il Mezzogiorno, le infrastrutture. Ma tutto o quasi è restato fermo, bloccato dalla questione del modello contrattuale. Non penso che questo sia per tutti il modo migliore per affrontare i temi di comune interesse. Se c’è davvero interesse su questi temi, il confronto e il lavoro devono andare avanti, senza farsi condizionare da quei problemi su cui oggi non c’è ancora accordo. In caso contrario, e lo dico con

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spirito costruttivo, nella logica del tutto o nulla, ci ritroviamo il nulla e finiamo per dare ragione ai tanti – non tutti in buona fede – che ci chiedono di fare e non solo di criticare e di chiedere agli altri. Perché ad esempio, siamo fermi da quasi otto anni su come ridurre il numero dei contratti di lavoro? Perché non possiamo – da subito – decidere di formare una commissione di studio con il compito di istruirne i temi e offrire almeno il quadro delle soluzioni possibili? Naturalmente, come sappiamo, vi sono differenze anche tra le posizioni di Cgil, Cisl e Uil. Quelle che non hanno consentito di arrivare a una intesa nelle commissioni unitarie di lavoro. La prima riguarda il nodo della produttività e sottintende una parziale idea non omogenea del rapporto e del peso reciproco tra i due livelli di contrattazione. La seconda concerne la difficoltà ad arrivare ad una intesa tra le confederazioni sulle modalità di validazione e di mandato per piattaforme e accordi. La terza: il diverso giudizio sull’esigenza – che la Cgil sollecita– di estendere con legge ai settori privati una verifica effettiva della rappresentatività di ognuno, sul modello di quanto previsto per i pubblici, prevedendo inoltre criteri e procedure per il voto dei lavoratori sugli accordi sottoscritti. Come sempre accade in presenza di opinioni diverse, le distanze possono ridursi o allargarsi secondo le volontà e la disponibilità dei rispettivi punti di vista. Prese in sé – anche dopo il lavoro comune fatto – le posizioni non appaiono facilmente mediabili. Diverso è se si valutano i comportamenti concreti, gli accordi trovati dai sindacati pubblici, la conclusione del contratto dei metalmeccanici, che presenta anche qualche soluzione innovativa, il referendum fatto tra i lavoratori del settore, le richieste avanzate unitariamente in tutti i rinnovi. E anche sulla legge tutto potrebbe essere più facile, se prima si raggiungesse un accordo sindacale e si pensasse assieme al fatto che una legge era stata unitariamente richiesta da Cgil, Cisl e Uil al Parlamento, nella passata legislatura. Comunque sia, è questo insieme di nodi che non ha reso possibile – fino ad oggi – una mediazione unitaria e quindi la possibilità di aprire un confronto con le controparti. Tutte le controparti pubbliche e private, che hanno firmato l’accordo del 23 luglio. E non solo con una di esse. Qui davvero non vedo scorciatoie. Trattare senza merito condiviso tra Cgil, Cisl e Uil non ha senso. Espone il sindacato a rischi di accordi separati o al fallimento del confronto, sottrae ai lavoratori la possibilità di condividere una proposta di riforma e di discutere e approvarla o meno. Bisogna avere pazienza e riprendere il filo della ricerca unitaria. Contare sull’unità che si è realizzata in molte categorie. Fare tesoro di come siamo arrivati alla firma dell’intesa, sia pure sperimentale, nel settore degli artigiani, non per copiarne le soluzioni – che già erano diverse prima – ma per la misura che ognuno ha avuto nel gestire i punti di vista diversi nel sindacato e fra le controparti. Sarebbe anche importante che tutti riflettessimo sulla forza che tutti abbiamo ricevuto dalla grande partecipazione al voto per le RSU nei settori pubblici e nella scuola; la risposta più alta ai tentativi di delegittimazione esercitata da settori del governo nei confronti della rappresentanza sindacale e della sua funzione di contrattazione collettiva. E di come la contrattazione territoriale e sociale, esercitata in molte città e

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territori, possa dare e ricercare nuove risposte alle politiche di sviluppo e a quelle di coesione. Qui davvero può ripartire una sperimentazione dal basso, in grado di dare significato e risultati alla partecipazione democratica, e forse aprire un nuovo terreno di presenza e di accordi. Tutto questo noi lo vogliamo fare con l’intesa di tutti. Nei confronti degli amici e dei compagni di Cisl e Uil abbiamo avanzato nelle tesi una prospettiva di rafforzamento dell’identità comune e del lavoro unitario. Tutti assieme rappresentiamo il più grande sindacato europeo e una grande forza di rappresentanza sociale. Quando la esercitiamo per davvero, la nostra proposta conta, pesa, orienta. Abbiamo superato ancora una volta nel corso di questi quattro anni una fase difficile, e come tante altre volte siamo stati capaci di ripartire con il lavoro e l’impegno comuni. Siamo, ognuno per sé, fieri della nostra identità e convinti che il sindacato italiano è forte e cresce, perché fatto di tante culture, sensibilità ed esperienze. Perché davvero sindacato generale, confederale, non corporativo e non unionista. Tocca a ognuno di noi provare a fare un passo in avanti. La condizione del paese richiede un sindacato unito, autonomo, plurale, democratico. Noi siamo pronti a lavorare in questa prospettiva. E rivolgeremo sempre attenzione e rispetto a quelle organizzazioni sindacali - tra cui l’Ugl – che hanno lealmente lavorato insieme a Cgil, Cisl e Uil. A Savino Pezzotta voglio dire che anche nei momenti più duri di divisione e polemica, quelli di tre anni fa, non è mai venuto meno il rispetto della Cgil e la considerazione per l’autonomia delle sue scelte e di quelle della sua confederazione. E lo stesso vale per Luigi Angeletti, e per tutte le compagne ed i compagni della Uil. La Cgil Riprogettare il paese esige che la Cgil abbia la forza di guardare dentro di sé e riprogettare se stessa, la propria organizzazione, i propri insediamenti, le proprie modalità di lavoro. In questi anni il peso e la forza dell’iniziativa esterna della Cgil hanno messo in secondo piano le verifiche necessarie della vita interna e le modifiche da apportare. Molto è stato fatto, in ogni caso. Oltre 200.000 iscritti in più in quattro anni, 260.000 in cinque anni, per la maggior parte lavoratori attivi, tanti immigrati divenuti delegati e dirigenti delle nostre strutture. Abbiamo lavorato per rendere più forte lo SPI, l’Auser e le reti territoriali degli anziani. Nidil è cresciuta e in molte categorie il nuovo tesseramento ha riguardato giovani e donne. Abbiamo potenziato l’offerta dei nostri servizi e del patronato; fatto crescere una formazione di qualità e di eccellenza. L’Ires, l’Isf, la Fondazione Di Vittorio, ognuna nel suo campo, sono divenuti riferimenti affidabili nel settore della ricerca, dello studio, delle politiche formative, delle analisi economiche, sociali, giuridiche e storiche. Con questo Congresso abbiamo dato vita a due nuove federazioni di categoria: quella dei lavoratori della conoscenza, la FLC, nata dall’incontro fra il sindacato della scuola, quello della ricerca e dell’università, e soprattutto frutto delle

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grandi mobilitazioni di questi anni. E la FILCEM, il sindacato dei lavoratori dell’energia e della chimica, che ha preso il posto di due vere istituzioni della nostra storia sindacale, la Filcea e la Fnle. Abbiamo infine dimostrato una grande e affidabile capacità organizzativa e di mobilitazione e raggiunto risultati oltre le attese, in tutti i rinnovi delle rappresentanze sindacali. Proprio questa forza ci deve mettere in condizione di affrontare meglio i problemi che avvertiamo. Siamo ancora una struttura organizzativa mutuata dalla storia del fordismo, e pur confermando le due matrici storiche delle strutture di categoria e di quelle orizzontali, dobbiamo realizzare forme di lavoro a rete e sinergie, capaci di rappresentare quel mondo del lavoro che non incontriamo, affermando realmente una centralità dell’azione e del progetto nel territorio. Non va cambiata la forma dello SPI, che rappresenta una originale e fortunata forma di rappresentanza generale dei pensionati e degli anziani. Ma va aperta una discussione su come lo SPI possa aiutare e sostenere con più efficacia il lavoro delle strutture, nella consapevolezza affermata con forza da Betty Leone – nella sua relazione al congresso - che il patto generazionale non può riguardare solo la società, ma anche noi e la nostra vita interna. Dobbiamo decidere qui, al Congresso, la prospettiva di integrazione tra la Filtea, un altro grande e storico sindacato, oggi in posizione di frontiera e la FILCEM. Con lealtà dobbiamo ammettere che la presenza dei giovani alla vita e alla direzione della Cgil è ancora troppo inadeguata, che per i migranti per diventare un vero sindacato multietnico dobbiamo fare di più e che la definizione della Cgil come sindacato di uomini e di donne vale per gli iscritti e un po’ meno per i quadri, gli apparati, i gruppi dirigenti. Su tali problemi, che poi richiamano sempre al fondo una verifica della destinazione e distribuzione delle risorse e delle nuove priorità che dobbiamo assumere solidalmente, è giusto prevedere una conferenza organizzativa apposita, che questa volta non possiamo più rimandare e che va preparata con rigore, partecipazione e chiarezza di obiettivi. Questo nostro XV congresso è partito con una impostazione e una scelta di unità. Non si sono più misurate nel rapporto con gli iscritti mozioni globalmente alternative, come era accaduto negli ultimi tre congressi. Questa è e resta una scelta di grande forza e maturità. Voglio dare atto a tutte e a tutti di avere concorso a questo obiettivo, soprattutto a chi ha rinunciato in prospettiva a posizioni di vantaggio o di convenienza. Il voto unanime sul preambolo del documento congressuale conferma che questa è l’opinione condivisa dai nostri lavoratori e dai nostri pensionati. La discussione è stata in ogni caso una discussione vera, come è nel costume della Cgil, aiutata dall’esistenza di tesi alternative sulle politiche contrattuali e sulla democrazia. Tutti i congressi svolti – e dico tutti – si sono chiusi con documenti unitari. Solo in tre congressi – di grandi e importanti strutture – vi è stata una differenziazione nel voto delle liste per l’elezione dei comitati direttivi. In tutti i congressi a cui ho partecipato personalmente ho avvertito fortissimo il

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sentimento unitario: ed è in ragione di questo che penso che vada fatto ogni sforzo perché anche il Congresso nazionale possa chiudersi nel segno dell’unità. Non per obbligo o convenienza, ma per rispetto del mandato che abbiamo chiesto e del modo in cui si sono espressi i nostri iscritti. E’ vero che il passaggio da una modalità congressuale tradizionale a quella di oggi ha aperto una discussione al nostro interno sul peso da dare ai voti raccolti dalle singole tesi alternative e su che cosa questo pluralismo nel voto comporti nella definizione dei pluralismi interni. Ma anche questa discussione – e i diversi punti di vista che sono in campo, sui quali continueremo a ragionare – non devono modificare, secondo il buon senso, la conclusione logica di tutto l’iter congressuale. Resta inteso che il nostro congresso è libero e sovrano e deciderà in piena autonomia e responsabilità. L’anno del centenario Care compagne e cari compagni, il 1 ottobre a Milano celebreremo i cento anni dalla nascita della Confederazione Generale del Lavoro. Si tratta per noi tutti di una ricorrenza importante perché ricorda l’ingresso nella storia del paese non del sindacato, che era già nato con le prime Camere del Lavoro e le più antiche federazioni di categoria (metalmeccanici, lavoratori della terra, tessili, grafici, panettieri, vetrai, edili), ma di quella particolare forma unitaria e generale di rappresentanza del lavoro. Quella che solo due anni prima era stata anticipata e richiesta dal primo sciopero generale. Il centenario è quindi l’occasione per riscrivere questa storia – che non è solo la nostra ma appartiene a tutti - per tirare fuori dagli archivi la memoria di persone e generazioni che con il loro impegno e la loro scelta di vita hanno contribuito al processo di emancipazione del lavoro, hanno dato senso a parole come diritti e dignità, hanno liberato il lavoro dalla schiavitù, dall’oppressione, hanno fatto crescere partecipazione e democrazia, coscienza di sé e delle proprie ragioni. Ci hanno fatti diventare tutti un po’ più diversi, e un po’ più uguali, un po’ più meticci. In tanti convegni, in tanti libri, abbiamo ricostruito le parti più significative di questa storia, le conquiste sindacali più importanti, le lotte più epiche, la difesa operata nei confronti di un fascismo che chiudeva Camere del Lavoro e colpiva persone inermi. Abbiamo rievocato gli scioperi del 1943 – 1945, unici in Europa, in un paese in guerra e sotto l’occupazione straniera, che portarono alla deportazione di 12.000 lavoratori, e che sono all’origine della parte prima e del primo articolo della nostra Costituzione. Abbiamo riletto la vita e l’esperienza delle personalità più importanti di questa storia, da quelle più lontane nel tempo, tra le quali voglio ricordare la figura di Argentina Altobelli, segretaria dei lavoratori della terra, in un periodo in cui alle donne non era consentito il diritto di voto, a quelle più vicine, tra le quali un posto a sé merita la figura di Giuseppe Di Vittorio, capace di unire il suo impegno sindacale negli anni venti tra i suoi braccianti di Cerignola con quello che lo porta ad essere con Grandi e Buozzi autore del Patto di Roma, della rinascita della Cgil unitaria del dopoguerra, e poi dopo la divisione, primo segretario della Cgil, nel pieno degli anni della guerra fredda. Tante storie locali, municipali, di città e di paese, più antiche e più recenti, si sono aggiunte in una gara per scoprire radici lontane e suggestioni sempre

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uguali: le storie di miniera (ad agosto ricorre il cinquantesimo anniversario dei morti di Marcinelle) e quelle delle risaie, gli opifici e le manifatture, le prime grandi fabbriche, l’epopea dei nostri martiri siciliani, prima e dopo Portella della Ginestra, le emigrazioni degli anni cinquanta e sessanta, il lavoro fordista, la stagione terribile delle stragi e del terrorismo. Quel terrorismo che poco dopo il nostro ultimo Congresso uccise il professor Marco Biagi. Tutto questo per arrivare ad una conclusione semplice e vera: questa storia non è la storia di una parte del paese, o una storia minore, ma costituisce – non da sola ovviamente – la nostra identità storica e la nostra comune democrazia. E’ la radice delle nostre libertà. Per questo, e lo dico rivolto alle forze politiche tutte, non bisogna rimuovere il valore del lavoro, la sua dignità, la sua centralità dalla vita pubblica e da quella politica del paese. E questo invito vale in particolare per le forze che sono legate al lavoro e nel lavoro affondano radici storiche e identità. Anche per questo valore, abbiamo tenuto in vita in questi anni una luce. Quella di cui parlava un compagno che ci ha lasciato, dopo avere con noi condiviso lotte, utopie, domande. Tom Benetollo parlava del lampadiere, di colui che procedeva nel buio ma rischiarava la strada a chi veniva dietro, per indicare il cammino, per dire da che parte si stava. Quella stessa luce – che in un giorno triste della nostra storia recente – abbiamo visto negli occhi e nei cuori delle ragazze e dei ragazzi di Locri. A conclusione del documento congressuale, abbiamo scritto che il progetto per il paese si rivolge ai giovani, al loro futuro, alle loro legittime attese. A maggior ragione, alle tante e ai tanti che non si rassegnano, come i ragazzi di Locri, è dedicato questo nostro XV Congresso.

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Conclusioni XV congresso Il documento politico approvato a larghissima maggioranza

Il XV Congresso Nazionale della Cgil, riunito a Rimini dal giorno 1 al giorno 4 di Marzo 2006 approva la relazione del Segretario Generale Guglielmo Epifani, i contributi emersi dal dibattito e le conclusioni del Segretario Generale. Il nostro percorso Riprogettare il Paese: con questo obiettivo più di un milione e seicentomila lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati hanno partecipato al percorso congressuale della Cgil. Un percorso che ci ha visto interloquire con i principali protagonisti sociali, economici, politici, della cultura e della società civile del nostro paese, e che ribadisce la totale autonomia programmatica e valoriale del più grande sindacato italiano e la nostra identità di forza di progresso. Dopo quattro anni di intense battaglie e mobilitazioni per la pace, per i diritti e per una maggiore giustizia sociale la Cgil, che molti pronosticavano isolata e all’angolo, dimostra tutta la propria vitalità e centralità, sociale e politica. L’impostazione congressuale unitaria, che ha registrato l’esito di tesi alternative su cui si è espresso il voto delle iscritte e degli iscritti nelle assemblee, è stata premiata perché ha colto le attese delle nostre compagne e dei nostri compagni e la necessità, per il paese, di una Cgil forte e coesa nel rispondere alla grave crisi morale, civile, sociale, istituzionale ed economica che abbiamo di fronte; apprezzandone al contempo la funzione propositiva che sempre ha accompagnato lotte e proteste e realizzando una nuova e più avanzata fase di democrazia interna all’organizzazione, così come sancita dall’assise congressuale nazionale. Questo congresso, che si è svolto in occasione della celebrazione del centenario, ha dimostrato non solo come le nostre radici affondino in un patrimonio storico fatto da donne e uomini che hanno sempre lottato per la difesa e l’affermazione dei diritti dei lavoratori, ma dimostra anche la nostra capacità di guardare avanti, proporre nuove sfide, fornire - come sempre è stato nei momenti più difficili del 900 - l’intelligenza e le energie migliori del movimento operaio e democratico alla causa della rinascita dell’Italia. La memoria è per noi quindi una componente fondamentale del nostro essere e il tempo non può farci smarrire il significato degli eventi passati, ne il valore attuale della nostra Costituzione nata dalla Resistenza e dalla lotta antifascista. Difendere la nostra Carta fondamentale dagli attacchi del centrodestra è per noi un tutt’uno con la nostra storia, la nostra identità, la nostra proposta generale. Per questo ci siamo impegnati nella raccolta delle firme per chiedere il referendum popolare sulla riforma costituzionale varata da questo governo e ci impegneremo perché i cittadini la respingano con il loro voto. Il centenario della Cgil è stato ed è, infine, una grande occasione per parlare al paese e soprattutto a tanti giovani, molti dei quali incontrati anche recentemente nei movimenti per la pace, contro i provvedimenti del centrodestra su scuola e università, nei diversi Forum sociali. Un’occasione per parlare del grande patrimonio umano, culturale e politico che il nostro sindacato rappresenta; protagonista, sin dalla sua nascita, di ogni battaglia di civiltà e dignità che ha accompagnato la trasformazione democratica, sociale e produttiva della nostra comunità.

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Gli anni del centrodestra Gli anni che ci dividono dal XIV Congresso sono stati anni in cui il paese è divenuto più povero, meno solidale, più chiuso: l’Italia che oggi siamo chiamati a riprogettare necessita di un grande sforzo programmatico, ideale, di passione civile dopo i disastri del centrodestra e dopo l’acuirsi di una crisi del nostro sistema produttivo senza precedenti. L’Italia governata dal centrodestra è un’Italia in bilico, nei suoi assetti interni ed internazionali: con un senso della legalità, della morale e della responsabilità calpestato da leggi e atti politici che hanno inciso profondamente nella coscienza di questo paese (si veda per tutte l’attenuarsi della lotta alla mafia e alla grande criminalità organizzata e il contemporaneo attacco alla magistratura e alle istituzioni); con una coesione sociale sempre più precaria che ha visto svilire la funzione emancipatrice del lavoro e del sapere ed aumentare le disuguaglianze; con l’assecondare l’idea sciagurata per cui la democrazia sia esportabile con la violenza, partecipando ad una guerra deleteria innanzi tutto per la funzione di “grande potenza di pace” che, come Italia e come Europa, abbiamo sempre professato, soprattutto verso il vicino mondo arabo. Una parte del paese, attraverso la rendita e la speculazione si è grandemente arricchita, mentre i salari e le pensioni sono stati profondamente intaccati; tanto è che mentre nei principali paesi europei la quota dei redditi da lavoro dipendente sul Pil si manteneva sostanzialmente costante, in Italia, negli ultimi trent’anni , è diminuita di quasi dieci punti percentuali. Una diffusa precarietà sociale ha invaso ogni ambito della nostra vita, svilendo le intelligenze, le competenze e le aspettative di intere generazioni. Il capitalismo dell’era globale, in Italia più che altrove, ha visto così il trionfo della finanziarizzazione dell’economia, della riduzione dell’impresa da fattore di sviluppo a strumento per profitti esclusivamente a breve periodo, anche attraverso una vera e propria “pirateria” di borsa, illegalità diffusa, mancanza assoluta di trasparenza. E’ su questa basi materiali che si è quindi portata avanti, in questi anni, un’idea di sviluppo, di società, di relazioni basata sull’egoismo sociale, sulla separazione, sulla privatizzazione dei luoghi della cittadinanza: dalla legge 30 a quelle Moratti, dai numerosi condoni e dai decreti attuativi della delega ambientale alla legge fiscale, dalla Bossi-Fini fino alla Gasparri, dalle leggi ad personam alla pericolosa riforma costituzionale, il centrodestra ha portato avanti una vero e proprio attacco alla democrazia, all’universalità dei diritti fondamentali, ai diritti del lavoro e della cittadinanza, alla libertà di informazione, alla coesione sociale. La riforma costituzionale, in particolare, rappresenta il coronamento di un processo negativo che finirà, se non contrastata, per svuotare di senso i principi fondamentali alla base della nostra convivenza, secondo una visione anti solidale e anti democratica dei rapporti tra cittadini, istituzioni e territori. In difesa della laicità dello Stato, la Cgil conferma e rafforza il proprio impegno, in nome di una concezione della libertà e della responsabilità pluralista; questo impegno assume come grande questione la battaglia per la difesa dei principi di autodeterminazione e libertà delle donne. In questi anni si sono riproposte le ingiuste e fallimentari parole d’ordine

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contro l’immigrato che fugge dalla miseria e dalla fame; degli insider contro gli outsider; dei lavoratori garantiti contro i lavoratori precari; dei lavoratori regolari contro quelli in nero. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: aumentano i clandestini ricattati e sfruttati, aumenta il lavoro precario - soprattutto tra le donne - e quello sommerso, l’occupazione cresce solo per via delle regolarizzazioni ed è di scarsa qualità, diminuisce l’occupazione femminile stabile, molte imprese chiudono, speculano o delocalizzano, aumentano i poveri e gli emarginati, il divario tra il Mezzogiorno ed il resto del paese è tornato a crescere. L’azione di contrasto della Cgil è stata quindi forte, commisurata alla gravità degli accadimenti e al fatto che le principali politiche del centrodestra portavano con sé la negazione totale dei valori di fondo e dell’identità del sindacato confederale. In diversi casi la nostra azione di contrasto è stata coronata dal successo, come dimostra da un lato la battaglia in difesa dell’articolo 18, contro la proposta di nuovo Testo Unico sulla salute e sicurezza, contro le leggi Moratti, dall’altra i rinnovi unitari di molti CCNL e la stipula di diversi accordi confederali territoriali. Molto, però, rimane da fare, anche nella nostra azione di difesa contrattuale. Per affiancare al protagonismo delle nostre categorie e delle nostre camere del lavoro quell’iniziativa più generale che chiami in causa la parte migliore del paese, della sua classe politica, imprenditoriale, della cultura e dei saperi, occorre passare ad una nuova stagione rivendicativa. Ripensare un modello di convivenza e di sviluppo Per la Cgil va ripensato l’attuale modello di sviluppo, in un contesto europeo e mondiale profondamente mutato. La fine del sistema bipolare dopo la caduta del muro di Berlino e l’affermarsi di una forte identità sociale europea avrebbero potuto rappresentare l’occasione per il dispiegarsi di un reale sistema multipolare, basato su una maggiore solidarietà ed uguaglianza tra nord e sud del pianeta. Così non è stato però: l’aumentare dei conflitti e del terrorismo da un lato e l’emergere di un’unica cultura mercantilista dall’altro ha reso il nostro pianeta più insicuro e instabile, minando le basi del diritto internazionale a favore di una logica basata sulla “privatizzazione” del pianeta. E’ questa una visione del rapporto tra paesi e tra popoli che non solo non condividiamo, ma che riteniamo sia destinata a produrre ulteriori lacerazioni e tensioni. Alla globalizzazione dei mercati e alla logica delle armi deve essere contrapposta una globalizzazione della democrazia e della giustizia sociale, attraverso il dialogo, il confronto, la conoscenza e la comprensione reciproca fra uomini e culture. La Cgil è impegnata ed intende mantenere, allora, un ruolo importante nel movimento internazionale per la pace e per la giustizia sociale. L’affermazione della pace e il ripudio di ogni guerra e di ogni terrorismo sono strettamente connessi con la promozione e l’estensione dei diritti del lavoro, dei diritti sociali e politici, in Italia e nel mondo. Per questo, in coerenza con l’art. 11 della nostra costituzione, la Cgil ribadisce la richiesta di un piano per il ritiro immediato delle truppe italiane dall’Iraq ed un nuovo ed immediato intervento dell’ONU, unico organismo autorizzato dal diritto internazionale al mantenimento della pace. La Cgil considera importante, inoltre, la convocazione di una grande Convenzione internazionale per la pace, promossa

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dalle forze sociali, i movimenti, i popoli di tutto il mondo. Contestiamo alla radice l’idea per cui la disuguaglianza tra persone, popoli e stati possa essere il motore della crescita e dello sviluppo: per troppo tempo questo principio è stato accettato per legittimare le grandi ingiustizie della nostra epoca. Non vi è pace e giustizia sociale possibile senza un profondo rilancio dei principi del diritto internazionale così come sanciti dalla Carta fondamentale delle Nazioni Unite e dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro e senza una reale democratizzazione dei grandi organismi economici internazionali: Wto, Banca Mondiale e Fmi per primi. Anche per questo la Cgil ritiene necessario impegnarsi perché politiche positive di contrasto alla speculazione finanziaria internazionale possano trovare presto attuazione, a partire dalla Tobin Tax. L’affermarsi di una forte soggettività politica e sociale dell’Unione Europea, basata sulla valorizzazione del suo modello sociale, è allora condizione imprescindibile: da qui il rifiuto e la contrarietà a norme come quelle previste dalla direttiva Bolkestein che snaturano la funzione stessa di un modello di sviluppo alternativo a quello liberista. Proprio rispetto alla direttiva servizi, pur apprezzando i diversi passi avanti recentemente compiuti grazie alla mobilitazione del sindacato europeo, riteniamo necessario continuare in un’opera di consolidamento nei nuovi testi di quanto ottenuto e, contemporaneamente, di contrasto verso le parti più ambigue e negative che ancora permangono. Norme che continuano a negare quell’idea di Europa sociale, democratica e del lavoro che noi consideriamo irrinunciabile e che vogliamo sostenere anche attraverso il consolidamento delle esperienze di collaborazione transfrontaliera delle nostre strutture territoriali confinanti con i paesi recentemente entrati nell’Ue. Così come è necessario assumere la questione dell’invecchiamento della popolazione come un dato strutturale delle società industriali che deve cambiare le scelte economiche e sociali dell’Europa. Non è infatti scontato che una società più anziana sia condannata al declino se si sarà capaci di utilizzare la risorsa anziani per contrastare la disgregazione sociale, costruire un sistema di sicurezza per le nuove generazioni e rafforzare per questa via la stabilità economica. Altrettanto urgente, per indicare una via diversa e possibile, è procedere ad una reale cessione di sovranità dei sindacati nazionali a favore di quelli europei, al fine di dare gambe ed incisività al protagonismo dei lavoratori su scala internazionale. Un protagonismo che deve però vivere su una grande identità confederale, di tutela generale dei lavoratori e dei cittadini, rifiutando approcci corporativi e nazionalisti e che scommetta su un nuovo livello contrattuale specifico per la dimensione internazionale dell’impresa. In particolare a livello europeo occorrono definire prime forme di sperimentazione di contratti collettivi cogenti per tutti. Con la costruzione del nuovo sindacato internazionale sarà altresì necessario impegnarsi per definire prime piattaforme sindacali multinazionali, assumendo come prioritaria la rivendicazione dell’estensione dei diritti sociali minimi stabiliti dalle convenzioni internazionali dell’ILO in tutte le contrattazioni che hanno dimensione globale. Scommettere sulla giustizia sociale e sulla sostenibilità ambientale è il modo migliore per costruire un rapporto positivo tra economie e culture, e quindi tra

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popoli e governi, per rendere sostenibili gli stessi tassi di crescita nei paesi emergenti e più trasparente il mercato e il flusso delle merci. Noi non condividiamo l’idea del mercato sia in grado di autoregolarsi ne che, in suo nome, si possano sacrificare i diritti e le libertà di chi è nato e di chi deve ancora nascere, tanto nel Nord che nel Sud del mondo. Lavoro, saperi, beni comuni, ruolo del pubblico: le coordinate per uscire dalla crisi italiana L’impegno della Cgil è quello di rimettere al centro della politica e dell’economia la funzione sociale del lavoro, strumento fondamentale di libertà ed emancipazione; fare di un sapere diffuso lo strumento principale per uno sviluppo di qualità del nostro sistema produttivo; riconoscere i grandi beni comuni, tra cui la salute, l’acqua, la conoscenza, come basi materiali dei diritti di cittadinanza; rilanciare il ruolo del pubblico e la responsabilità collettiva e diffusa come unica via al governo della complessità, alla diversificazione e al miglioramento dei sistemi economici, produttivi, sociali. Sono queste, per la Cgil, le coordinate per una nuova politica adatta a riprogettare il paese, in un contesto europeo che valorizzi a pieno il suo modello sociale. Queste le parole chiave per rispondere alla crisi della democrazia contemporanea. Si pone di fronte a tutti noi, infatti, la questione di un salto di paradigma; un salto basato sull’assunzione dell’ambiente, della ricerca pubblica (in particolare quella di base) e della sostenibilità sociale come elementi fondanti che, nella piena, stabile e buona occupazione, trovano lo strumento per affermare una crescita qualitativa del sistema produttivo italiano, investendo nel sapere e nella formazione come volano e come garanzia contro una precoce selezione sociale dei giovani, e in un welfare di cittadinanza più inclusivo come rete di accompagnamento delle grandi trasformazioni-riconversioni dell’apparato produttivo. Per la Cgil le politiche di welfare sono infatti “motore di sviluppo”, non una spesa, ma un investimento nel senso proprio del termine. Per questo riteniamo che la redistribuzione di risorse e potere verso i lavoratori sia oggi la condizione necessaria e non eludibile per procedere sulla strada della ripresa, e che non siano possibili politiche dei due tempi. L’unico risanamento e sviluppo praticabile passa attraverso il ridare, prima, ai lavoratori pubblici e privati, ai pensionati, ai bambini e ai cittadini quegli strumenti e quei diritti per troppo tempo negati o compressi. Le risorse necessarie per una politica di sviluppo che sia prima di tutto una politica redistributiva vanno quindi reperite a partire da dove vi è stato arricchimento in questi anni, speculazione, evasione, lavoro nero. Rifiutare la politica dei due tempi è per noi tutt’uno con una più generale “questione morale nazionale” che richiami tutti alle proprie responsabilità. Per questo punto centrale della nostra proposte è la richiesta di una immediata politica di giusta redistribuzione; rivendichiamo un nuovo patto fiscale che esplicitamente assuma la crescita dei redditi da lavoro e da pensioni, aumenti le tassazioni delle rendite finanziarie e dei patrimoni, faccia della lotta all’economia sommersa una delle priorità del prossimo Governo. Chiediamo da subito un’immediata fiscalizzazione contributiva sui salari più bassi; la restituzione del drenaggio fiscale; la riduzione del carico fiscale sulle pensioni, dentro una strategia più complessiva di recupero del loro potere

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d’acquisto; il ritorno ad una progressività del prelievo fiscale, anche per ridare slancio al mercato interno e alla capacità di consumo di milioni di cittadini. La Cgil si impegna, altresì, ad aprire vertenze a livello nazionale, regionale e locale per mettere sotto controllo i prezzi degli alimenti, dei medicinali, delle prestazioni sociali, delle imposte e degli affitti per la casa, delle tariffe dell’energia e dei servizi, con misure equitative per i redditi più bassi, adottando anche opportune modifiche al paniere Istat in relazione ai diversi livelli di reddito e alle diverse tipologie di consumo delle famiglie, nella loro varia composizione generazionale e sociale. Occorre chiamare, infine, l’impresa italiana alle proprie responsabilità: per troppo tempo si è riconosciuta una centralità politica all’impresa, errata ed ingiusta, a scapito del lavoro. La Cgil chiede alle imprese e alle loro associazioni di rappresentanza di dire quale sarà il loro contributo allo sviluppo; il loro contributo a penalizzare comportamenti poco lungimiranti. La Cgil ritiene che sia venuto il momento per una reale discussione sul modello capitalista italiano e sul ruolo di responsabilità, indirizzo, controllo, propulsione che il pubblico è chiamato a ricoprire. Cioè sulle energie, le risorse e le intelligenze che lo Stato e il pubblico da un lato, il sistema di impresa dall’altro devono mettere a disposizione del paese e dei suoi cittadini, assumendo l’etica della responsabilità come valore di riferimento. In particolare qualificare l’impresa vuol dire intervenire sulla sue condizioni strutturali, sulla sua capacità di innovazione, sulla sua regolarità contributiva e fiscale, sulla sua responsabilità verso i lavoratori, il territorio, la comunità. Per troppo tempo il sindacato da solo ha evidenziato i limiti del nostro capitalismo, le sue storture, le sue inadeguatezze, le sue stesse mutazioni “genetiche”. Occorre saper sfidare la parte migliore dell’imprenditoria italiana per crescere, innovare, partecipare alla nuova divisione internazionale del lavoro, sapendo occupare posizioni avanzate. Occorre tornare a responsabilizzare l’impresa in tutte le sue componenti, sapendo mettere a frutto le energie comuni disperse dagli atteggiamenti e dalle strategie sbagliate del vecchio gruppo dirigente di Confindustria e , oggi, da una mancanza di coerenza e da un’incertezza nel mettere fino in fondo in discussione rendite e privilegi. Come dimostrano gli stessi tentativi di scommettere ancora sulla riduzione del costo del lavoro e dei diritti quali volano per la crescita. Su questo occorre sfidare tutte le grandi organizzazioni datoriali, da quelle industriali, della cooperazione, del commercio e servizi, fino alle piccole imprese artigiane, ai vecchi e nuovi professionisti. Promuovere l’inclusione sociale, combattere la precarietà e il lavoro nero per una piena cittadinanza. Combattere la precarietà per la Cgil vuol dire cancellare la legge 30, ma soprattutto: dare nuova centralità al contratto a tempo indeterminato; ripensare in profondità il mercato del lavoro attraverso l’estensione del concetto di lavoratore economicamente dipendente con una modifica dello stesso codice civile; avere nuove norme a salvaguardia dell’unitarietà dell’impresa e del ciclo produttivo; estendere e universalizzare gli ammortizzatori sociali; tutelare la dignità dei lavoratori disabili e svantaggiati.

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Il tutto secondo le proposte già avanzate nei diversi appuntamenti programmatici della Confederazione. E’ questo un obiettivo fondamentale per combattere da un lato il senso di vulnerabilità e incertezza che comprime le migliori energie e aspettative delle giovani generazioni e dall’altro per dare loro una prospettiva positiva per il futuro. Le proposte della Cgil puntano a ristabilire quella centralità delle organizzazioni sociali e della contrattazione collettiva che il legislatore ha sottratto alla libertà delle parti sociali, disconoscendo il confronto (e anche il conflitto) come parte integrante di un complesso sistema di relazioni industriali. Contrastare il lavoro nero e l’evasione fiscale per la Cgil deve essere un impegno strategico a cui chiamare le istituzioni e le imprese per eliminare l’altra faccia dell’attuale crisi produttiva e sociale, recuperando al sistema quel 20% del PIL sottratto annualmente. Vuol dire restituire dignità e futuro a quattro milioni di uomini e donne, premessa per ogni politica seria e sostenibile di rilancio dell’economia italiana e del sistema di protezione sociale. La Cgil assume quindi l’impegno per una grande campagna di mobilitazione a partire dai prossimi mesi contro l’economia sommersa, proponendo alle parti sociali e alle istituzioni un percorso che possa giungere ad un “Accordo per la legalità e l’emersione del lavoro nero”. Una campagna di civiltà, che sappia sconfiggere anche la più grande vergogna oggi possibile per una società moderna: lo sfruttamento dei bambini e delle bambine. Occorre dare nuova centralità ad una battaglia per la salute e sicurezza dei lavoratori, estendendo le funzioni dei rappresentanti per la sicurezza, rafforzando il ruolo dei servizi ispettivi e di presidio del territorio e inasprendo le sanzioni e la loro reale esigibilità; per ideare e realizzare una società in grado di accogliere i cittadini e lavoratori stranieri (da qui l’impegno prioritario per la cancellazione della Bossi-Fini, nonché l’introduzione del permesso di soggiorno per la ricerca di lavoro e il diritto di soggiorno per gli immigrati che denunciano i datori che ricorrono al nero); per incidere sulle vecchie e nuove forme di esclusione che attraversano i tessuti delle nostre città e metropoli (a partire dal diritto negato alla casa); per rendere effettivo il protagonismo attivo della terza età. Per questo, la Cgil ritiene strettamente intrecciati alla più generale strategia di rilancio del nostro paese, alcune priorità: - fare dei sistemi educativi, senza ambiguità alcuna verso i provvedimenti del centrodestra, parte integrante di una nuova etica collettiva e di una reale politica di inclusione, con interventi mirati a consolidare il sistema di istruzione, formazione e ricerca. Mentre tutti gli indicatori ci segnalano una caduta dei livelli formativi in tutti i cicli dell’istruzione, il sapere è per noi il motore fondamentale di nuova crescita ed emancipazione; attraverso la cancellazione dei provvedimenti Moratti, l’innalzamento dell’obbligo scolastico da subito a 16 anni ed entro la prossima legislatura a 18, la valorizzazione dell’università, della scuola pubblica e di un sistema formativo per tutto l’arco della vita come strumenti di reale mobilità per tutti, senza distinzioni alcune e investendo sugli insegnanti, i docenti, i ricercatori; - riconoscere la conoscenza e il sapere come garanzie dell’accesso ai diritti e indicatori della qualità dello sviluppo collettivo. In questo ambito è centrale la capacità di programmare e investire in attività di ricerca: ricerca di base e

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libera, per consentire la crescita dei talenti creativi, costituire un serbatoio di conoscenze accessibili a tutti, non privatizzabili, e per costituire il serbatoio di idee e sinergie su cui fondare lo sviluppo tecnologico; ricerca applicata e finalizzata, per trasferire al sistema socio-economico i frutti delle frontiere ultime del progresso. In questa complessa articolazione di sistema, il ruolo del pubblico è decisivo per la missione di diffusione e crescita del sapere per tutti e tutte, ai fini del bene collettivo; - ridare centralità alla funzione del pubblico: sia le politiche nazionali che locali devono recuperare e valorizzare lo spazio pubblico e il ruolo dello Stato, ripensando l’attuale politica di liberalizzazione, privatizzazione e di esternalizzazione (processi finalizzati prevalentemente a “fare cassa”, sostituendo monopoli pubblici con monopoli privati, che non hanno favorito né una generale riduzione delle tariffe, né tanto meno un miglioramento della qualità del servizio offerto ai cittadini). La Cgil chiede perciò più risorse per i dipendenti pubblici, della scuola, dell’università, della ricerca e per le forze di sicurezza; maggiori investimenti per la loro qualificazione; una generale stabilizzazione dei troppi precari che ne garantiscono i servizi ordinari e le importanti funzioni sociali, solidali e di sviluppo a questi connessi; - riconoscere la sostenibilità sociale come variabile indipendente dalla crescita e una qualità alta del modello sociale come fattore di sviluppo e buona occupazione. Per questo è necessario non solo rafforzare i sistemi di protezione sociale, con una visione universalista degli interventi, ma anche estendere e rafforzare una rete integrata di servizi che sostengano sul territorio l’autonomia delle persone e le responsabilità famigliari. Non è infatti possibile rispondere ai bisogni sociali con i soli trasferimenti monetari ma è necessario, invece, riconfermare la responsabilità e il ruolo pubblico nel garantire l’esigibilità dei diritti di cittadinanza. In questo quadro di riferimento le priorità sono: la rete di nidi e servizi per l’infanzia; integrazione dei servizi sociosanitari; l’istituzione di un fondo nazionale per la non autosufficienza, alimentato dalla fiscalità generale. Va inoltre sostenuta e qualificata la rete del no profit e del volontariato che può contribuire alla produzione di beni sociali e al contempo incentivare una pratica di democrazia partecipata attraverso l’esercizio della cittadinanza attiva; - cambiare radicalmente la controriforma pensionistica del centrodestra, giungendo subito alla definizione di una giusta legge sul trattamento di fine rapporto; garantendo un trattamento pensionistico adeguato ai lavoratori discontinui e a termine, i cui costi salariali e contributivi devono, per questo, essere maggiori rispetto a quanto previsto per i lavoratori subordinati a tempo indeterminato; - avviare una politica sistematica di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per le lavoratrici, attraverso il rafforzamento di servizi e l’applicazione della legge sui congedi parentali. La Cgil si impegna inoltre a favorire l’occupazione delle donne anche tramite un “investimento” contrattuale di tutte le categorie sul part-time scelto e regolato, secondo le migliori esperienze presenti nei diversi settori. Un paese senza industria, servizi avanzati, infrastrutture e fonti energetiche adeguate non ha futuro La Cgil ritiene indispensabile un profondo rilancio dell’industria e del terziario

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nei settori più strategici, attraverso politiche settoriali di sistema, in grado di aumentare il grado di innovazione contenuta nei prodotti, nei processi e nella stessa organizzazione produttiva. Il nostro paese, per essere competitivo in Europa e nel mondo non può indebolire la sua vocazione industriale. Ciò presuppone un preciso e qualificato progetto di politica industriale basato su alcuni determinanti capisaldi quali la ricerca, l’innovazione tecnologica, la formazione e riqualificazione, le infrastrutture materiali e immateriali. Una strategia di politica industriale basata sull’innovazione e la ricerca per sostenere sia l’industria manifatturiera che i settori ad alta tecnologia e di maggiore prospettiva, anche in funzione di una internazionalizzazione delle imprese italiane, in grado di contrastare meglio le delocalizzazioni finalizzate alla competizione sul mero costo del lavoro. Le cause del declino sono molte e strutturali: mancanza di un welfare in grado di sostenere i nuovi rischi sociali, scarsità di etica pubblica, diminuzione del potere d’acquisto di lavoratori e pensionati, contraddizioni nelle diverse specializzazioni produttive, assenza di investimenti in ricerca, inadeguatezza del sistema formativo, nanismo aziendale, fragilità delle strutture proprietarie, carenza di infrastrutture materiali e immateriali, ristrettezza e parzialità del mercato creditizio, difficoltà di personalizzazione dei servizi alle imprese, svilimento delle funzioni propulsive e di accompagno delle pubbliche amministrazioni, mancanza di fonti energetiche pulite in grado di ridurre i costi di lavorazione. Una verità è però evidente: senza una forte industria nel paese non è possibile nessuna ripresa e nessuna crescita. Per questo rivendichiamo una politica industriale lungimirante e una vera e propria programmazione degli “investimenti strategici”, in grado di mettere in rete e di favorire una nuova collocazione internazionale del made in Italy. Per questo la Cgil ritiene prioritario un rinnovato e più forte ruolo dello Stato e della Pubblica Amministrazione, a livello nazionale e locale, anche attraverso la programmazione, il controllo e il rafforzamento di scelte di gestione nei settori dell’energia e dell’ambiente. E’ infatti evidente che occorre reagire con l’attivazione urgente di politiche che sappiano invertire e costruire un ambiente favorevole allo sviluppo, proprio a partire dal riconoscimento del ruolo e del valore del lavoro e dell‘industria nella crescita e nella costruzione del benessere, utile per l’ intero Paese, in un rapporto nuovo e trasparente verso gli stessi consumatori. Conseguentemente, particolare attenzione dovrà avere l’individuazione delle priorità nel settore delle infrastrutture, consapevoli che il risanamento del territorio e l’investimento in energia pulita rappresentano la prima grande opera di cui l’Italia ha bisogno. La Cgil ribadisce altresì la propria contrarietà allo snaturamento del ruolo della protezione civile operato dal governo di centrodestra. La Cgil, evidenziando l’essenzialità di processi condivisi e democratici di partecipazione dei lavoratori e dei cittadini nella determinazione di importanti interventi che coinvolgono il territorio e la vita associata, ritiene strategico investire su fonti energetiche alternative al petrolio, rinnovabili e pulite, valorizzando le esperienze migliori diffuse in Europa. Considera altresì

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necessario superare i limiti dell’attuale sistema infrastrutturale, evitando sprechi e inutili opere faraoniche, e scommettendo sul trasporto ferroviario e sulle autostrade del mare, come contributo essenziale prima di tutto al rilancio del Mezzogiorno. Al contempo non è più rinviabile una profonda riforma del sistema creditizio e bancario che completi i processi avviati negli ultimi anni, chiamando il sistema finanziario ad una responsabilità verso il paese e la sua ripresa, con particolare attenzione all’investimento di rischio, al sostegno alla crescita dimensionale e al miglioramento delle piccole imprese. L’organizzazione tutta deve impegnarsi per un’opera di forte sostegno alla crescita qualitativa del terziario, dei suoi settori strategici, a partire dai servizi alle imprese e dal turismo. In questa direzione la Cgil rivendica il ruolo fondamentale della contrattazione e del confronto confederale tra le parti sociali e le istituzioni: strumenti non solo di difesa dei diritti e dei salari, ma di governo condiviso dei processi di rilancio complessivo dell’economia. Riprogettare il paese vuol dire riprogettare il Mezzogiorno Il paese non può uscire dalla sua crisi morale, civile, sociale ed economica senza scommettere sul Mezzogiorno. La questione meridionale va quindi ricollocata interamente nella prospettiva di sviluppo del paese, nella quale il sud può avere un futuro se opera come sistema, giocando un ruolo cruciale nel Mediterraneo e diventando il riferimento per l’Europa nel rapporto con l’Oriente, il ed i Balcani. Il Mezzogiorno può vincere queste sfide se supera quindi le proprie fragilità economiche e sociali e se, come precondizione per lo sviluppo, sia da tutti assunta fino in fondo la questione prioritaria della definitiva sconfitta della mafia e di ogni forma di criminalità organizzata. Indirizzare azioni di sviluppo, accrescere e consolidare le produzioni già presenti in quest’area geografica, è un’opportunità per l’Italia intera. Guardare con attenzione allo sviluppo già in atto nei diversi Paesi che si affacciano sul Mediterraneo significa cogliere, anche tramite la promozione di un Forum Internazionale permanente dei paesi che vi si affacciano, una domanda insieme di crescita di quei mercati e di creazione di attività produttive e servizi nel Sud. Fare della filiera agro alimentare, del grande patrimonio ambientale, culturale e artistico i settori di punta di un grande rilancio economico è la vera scommessa nazionale. Occorre altresì investire sulla lotta alla dispersione e all’analfabetismo, sulla società della conoscenza e sull’innovazione delle Pubbliche Amministrazioni, come operazione strategica per il Mezzogiorno; accanto ad un investimento programmato e condiviso sul sistema dei trasporti e della logistica, assumendo l’esigenza di nuove e più efficaci reti infrastrutturali come condizione indispensabile per orientare lo sviluppo del territorio verso l’area mediterranea. Al sud vi sono, del resto, molte delle risorse migliori oggi disponibili nel Paese, notevolmente sotto utilizzate per incuria e per precise scelte politiche. Nel quadro di rinnovate politiche industriali la Cgil ritiene essenziale individuare, infine, misure ed interventi specifici per la crescita qualitativa dei sistemi industriali meridionali, rafforzando prima di tutti i tessuti e distretti esistenti. Ai necessari interventi di natura territoriale, principalmente nelle competenze delle Amministrazioni localiattraverso la programmazione di un corretto orientamento e utilizzo delle risorse pubbliche, della fiscalità di vantaggio,

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dell’adozione dei Protocolli di legalità sugli appalti, di una specifica, mirata ed imponente strategia contro il lavoro nero, deve accompagnarsi l’intervento selettivo del Governo nazionale. La Cgil rivendica quindi l’attuazione dell’importante accordo siglato tra le parti sociali per lo sviluppo del Mezzogiorno, dove sono state individuate misure, tempi e risorse possibili per una seria politica per il Sud. Centralità del contratto nazionale, ruolo della contrattazione decentrata e della contrattazione confederale territoriale La Cgil ritiene indispensabile il mantenimento di due livelli di contrattazione, riaffermando il ruolo del contratto nazionale di lavoro quale strumento universale di garanzia dei diritti fondamentali per tutte le lavoratrici e i lavoratori, di incremento del potere di acquisto delle retribuzioni. Per la Cgil il 2° livello contrattuale nelle sue articolazioni (aziendale, di gruppo, sito, filiera, distretto, territoriale) deve estendersi e riqualificarsi (escludendo qualsiasi funzione derogatoria rispetto ai CCNL), rafforzando il ruolo delle RSU al fine di intervenire con piena titolarità nel negoziato su tutto ciò che attiene l’organizzazione, gli orari e le condizioni di lavoro. La Cgil ritiene importante valorizzare il coordinamento contrattuale relativo alle filiere produttive per ricomporre l’unitarietà dei cicli produttivi e del valore del bene-servizio. Le proposte finora avanzate da Confindustria non sono da noi condivise; per la Cgil è obiettivo prioritario rilanciare il ruolo e le funzioni di autorità salariale e normativa della contrattazione, nonché di intervento preventivo sulle strategie industriali. Questa é la risposta reale sia alle ipotesi di contratti leggeri che ai cosiddetti federalismi contrattuali, interventi questi che svuoterebbero la contrattazione collettiva del ruolo di redistribuzione di diritti, di aumento del salario contrattuale e di effettiva ed equa redistribuzione della produttività. Risultati che dovranno in più essere difesi e sostenuti da politiche sociali e fiscali solidali, che valorizzino il ruolo del lavoro nell’ambito della produzione della ricchezza reale del Paese. Alla richiesta di aprire un tavolo negoziale per la riforma del modello contrattuale, la Cgil ribadisce l’importanza di un modello unico per tutti i settori sia privati che pubblici e risponde che prima di iniziare la trattativa è indispensabile ricercare una posizione sindacale unitaria, che contenga anche le regole condivise di democrazia da adottare per la pratica contrattuale, in modo da garantire la validazione certificata delle piattaforme e degli accordi, il cui valore sia riconosciuto e valido per l’intero mondo del lavoro. Per questo la Cgil proporrà a Cisl e Uil la ripresa del confronto al fine di costruire una proposta complessiva unitaria, da sottoporre alla verifica dei lavoratori e delle lavoratrici. La Cgil ribadisce inoltre la validità della contrattualizzazione del rapporto di lavoro per tutti i lavoratori pubblici, del sistema di relazioni basato sull’Aran il cui ruolo va rilanciato. In questo quadro la Cgil ritiene necessario battersi per l’ estensione della contrattazione. La Cgil ritiene fondamentale, infine, la contrattazione confederale territoriale, investendo nella capacità di essere soggetto attivo nella contrattazione di quote di salario sociale e nella contrattazione dell’allocazione delle risorse pubbliche, dei programmi territoriali e degli investimenti per lo sviluppo e la crescita; anche attraverso un sistema di tutele e promozioni locali in grado di

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alimentare una democrazia e una partecipazione sostanziale alla vita delle comunità. Promuovere politiche di inclusione significa infatti agire sul ruolo dei territori e delle città, sulle priorità negli investimenti, sulle politiche di inclusione sociale, sulla tutela dei diritti, sulle possibilità che gli stessi cittadini hanno di promuovere benessere per loro stessi e per la collettività. In questo contesto appare fondamentale il ruolo della Cgil e delle sue categorie e associazioni, ognuno con il suo ruolo e le sue competenze. Una diversa politica per il futuro del paese In ogni occasione istituzionale le idee e le proposte della Cgil sono state avanzate al governo in carica, che però ha lasciato cadere qualsiasi volontà di dialogo, di confronto, di risposta. Gli stessi accordi stipulati fra le parti sociali sul Mezzogiorno, sulla formazione, ecc. sono rimasti lettera morta. Il governo non ha sentito neanche il dovere di rispondere alle richieste unitarie di incontro, quand’anche per esplicitare la propria contrarietà. Per questo e per le responsabilità che il governo porta per la situazione del paese, oggi le nostre proposte vengono avanzate innanzitutto al centrosinistra, chiedendo prima di tutto un metodo di confronto rispettoso del nostro ruolo e di chi i sindacati confederali rappresentano. Oggi che il programma dell’Unione è stato varato, la Cgil vi trova una sintonia di analisi: una valutazione comune dello stato del paese; una volontà di radicale cambiamento, per non rassegnarsi al declino; una disponibilità ad un rapporto positivo con le organizzazioni sindacali. Il paese ha bisogno di discontinuità e cambiamenti concreti: pesa sull’Unione la grande responsabilità di far prevalere nel consenso democratico la necessità di una svolta radicale a favore del lavoro, dei redditi più bassi, delle imprese che vogliono competere sulla qualità. La Cgil dice chiaramente a chi si candida a governare il paese che occorre unire quello che è stato diviso, ampliare le reti di coesione e solidarietà, contrastare la precarietà, dare qualità, efficienza e terzietà alla macchina amministrativa, fare della conoscenza lo strumento di un diverso modello sociale e di sviluppo, combattere la criminalità organizzata e il lavoro nero. Con la consapevolezza che riprogettare il paese non sarà impegno facile, né di breve durata; e questo richiede unità, costanza, determinazione, coraggio. E’ in questo quadro che la Cgil indica la necessità di un nuovo patto fiscale e di una valorizzazione piena della funzione sociale del lavoro e della buona, stabile e piena occupazione, come basi di una rinnovata coesione sociale e di una nuova etica pubblica. Nell’ottica di un auspicabile accordo di legislatura, teso a consolidare un nuovo patto di cittadinanza e di uguaglianza tra cittadini. Solo così si potrà riconnettere, nella distinzione dei ruoli, rappresentanza sociale e rappresentanza istituzionale, affinché la politica ritorni ad essere una funzione di servizio verso i lavoratori e cittadini. Se questo avverrà, per la Cgil sarà un motivo di grande soddisfazione. Nel merito delle singole scelte, nel quadro delineato, e più in generale della politica economica, sociale ed internazionale che il futuro Governo porterà avanti la Cgil ribadisce la propria autonomia programmatica e sosterrà le proprie proposte con quella serietà e serenità che ci ha sempre contraddistinto. La riforma della Cgil e i rapporti unitari Per riportare ad unità il vasto mondo del lavoro sempre più frammentato; per

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riannodare i diritti tra i tanti diversi; per responsabilizzare nuovamente l’impresa italiana definendo un nuovo patto comune per il bene del paese è necessaria una Cgil rinnovata. La Cgil deve affrontare la sfida quantitativa e qualitativa di “una nuova rappresentanza” attraverso un profondo rinnovamento, anche dei gruppi dirigenti. Per questo la Cgil investe sulle donne, sulle giovani generazioni, sulla rappresentanza del multiculturalismo. La Cgil ha realizzato con questo congresso la dimensione quantitativa prevista dalle norme andiscriminatorie, ma questo ancora non basta: la Cgil si da l’obiettivo di aprire ulteriormente l’organizzazione alle donne, alle giovani generazioni e agli immigrati, a tutti i livelli della Confederazione e delle categorie, estendendone le esperienze di direzione. La Cgil si dà con questo congresso l’obbiettivo di divenire il primo grande sindacato multietnico del paese e l’organizzazione sociale con il maggior numero di giovani dirigenti, in Italia ed in Europa; anche con la promozione di specifici momenti di formazione e con la valorizzazione in incarichi di massima direzione delle diverse strutture. La Cgil riconosce poi nella funzione centrale delle Camere del Lavoro, delle strutture regionali e delle categorie il punto di massimo protagonismo sociale, culturale e politico, della nostra azione di tutela collettiva ed individuale (anche grazie al rafforzamento del sistemi servizi e del patronato), investendo nella capacità di essere interlocutore a tutti i livelli istituzionali, con particolare attenzione alle specificità delle diverse aree metropolitane. Il reinsediamento della Cgil nel territorio come fattore di riorganizzazione della stessa democrazia e della saldatura tra diritti del lavoro e diritti di cittadinanza deve allora trovare risposte organizzative conseguenti. Per tutti questi motivi, il Congresso dà quindi mandato al Comitato Direttivo di convocare la conferenza di organizzazione (in preparazione della quale sarà realizzata la conferenza nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori dell’artigianato, con l’impegno di farne un appuntamento annuale di riflessione). Dopo che molte delle posizioni in campo sono mutate e superati i tempi degli accordi separati e del Patto per l’Italia, si è ritrovata su molti punti una forte intesa tra la Cgil, la Cisl e la Uil. Occorre allora investire in percorsi per rendere tale unità di intenti più forte e sistematica, senza nascondere differenze che tra noi ancora persistono, ma che possono essere superate proprio in nome e per conto di chi, tutti i giorni, cerchiamo di rappresentare. Da soli non si può dare gambe fino in fondo ai propositi di sviluppo e di redistribuzione che ci promettiamo; così come è ormai evidente che non si possa rilanciare nessun patto sulle regole e sul contributo del mondo del lavoro per l’uscita dalla crisi, senza il contributo della più grande organizzazione dei lavoratori.Per questo la Cgil è chiamata ad un di più di responsabilità, proseguendo, con coraggio, sulla strada intrapresa, forte di milioni di persone che guardano a noi con fiducia. La Cgil intende promuovere da subito un percorso di confronto con CISL e UIL, forti di esperienze unitarie tra diverse categorie, per definire una “comune carta dei valori e degli intenti” del movimento sindacale confederale unitario.

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Conclusioni di Guglielmo Epifani Rimini, 4 Marzo 2006

Care compagne e cari compagni, siamo all’atto conclusivo non solo di queste quattro giornate ma anche dei mesi e mesi che hanno preceduto queste giornate e quindi di tutto lo svolgimento del nostro congresso.

In tutta onestà, e non solo per le responsabilità che ho, io credo che possiamo essere tutte e tutti davvero soddisfatti. Abbiamo svolto un congresso vero, una discussione seria e abbiamo avuto qui, da noi, presenze importanti; in modo particolare ieri Romano Prodi, oggi il presidente Scalfaro. E lo voglio dire con qualche soddisfazione: è la prima volta, in tutto il dopoguerra, che a un congresso nazionale della Cgil partecipa un presidente onorario della nostra Repubblica. E, avendo anche in maniera davvero appropriata detto qualcosa anche della nostra vita interna, mi sono permesso di dirgli (e lui mi ha già detto che mi ringrazierà), che alla prossima occasione, come abbiamo fatto ad esempio con un grande magistrato, Antonino Caponnetto, sarà nostro onore dargli la tessera onoraria dello Spi e della Cgil.

Il congresso si svolge e si concluderà in maniera unitaria. Toccherà naturalmente poi al voto sulle mozioni, sugli emendamenti e sulle tesi la conferma di questo orientamento, ma possiamo già dire che aver composto, sia pure faticosamente, in maniera unitaria le liste per il Comitato direttivo, è un segno importante. Voglio ringraziare tutti per la responsabilità con la quale hanno concorso a questo; e voi capirete il perché se in modo particolare ringrazio e apprezzo la scelta che in questa direzione hanno fatto e hanno riconfermato nei loro interventi a questo congresso ieri Gianni Rinaldini e questa mattina Giampaolo Patta.

Mi interessa dire insieme che è stato un congresso che effettivamente ha risentito, e non poteva che essere così, del fatto che tra un mese si vota. Ma è stato un congresso che, se si fosse tenuto in un altro quadro, in un’altra circostanza, non sarebbe stato diverso nella sua impostazione di fondo, nei valori, nelle politiche che ci siamo assunti il compito di definire e nelle parole d’ordine, che guardano al futuro e alla responsabilità comune. Ringrazio – voglio fare in premessa quello che si fa alla fine – tutti coloro che hanno reso possibile lo svolgimento di questo congresso, le compagne e i compagni e soprattutto quelli che non si vedono, quelli che lavorano dietro, quelli che lavorano a parte, quelli che hanno lavorato alle riprese, alla regia, alle nostre immagini, alla scenografia e a rendere questo posto davvero così pieno di fascino. Quando, il giorno prima dell’apertura del congresso, sono entrato in questo grande spazio, ho pensato subito che mi ricordava uno spazio che avevo incontrato non più tardi di due mesi fa. Mi ricordava un grande capannone industriale, un grande spazio dove lavorano tante persone e dove un tempo lavoravano migliaia e migliaia di persone. Mi sono ricordato di una mattina di due mesi fa in cui, insieme con altri dirigenti dell’organizzazione, andammo a Legnano, alla Franco Tosi, una grande azienda metalmeccanica, a ricordare la deportazione, sessant’anni fa, di quegli operai che furono tra coloro che pagarono i prezzi più alti alla loro azione e alla nostra democrazia.

Ringrazio i giornalisti, coloro che hanno seguito i nostri lavori; ognuno con il proprio punto di vista, come è giusto che sia, ma tutti mi sembra, o quasi tutti, con il rispetto e l’attenzione che si deve a una grande organizzazione che rappresenta milioni di persone. E siccome me ne sono scordato nella relazione, e mi è stato fatto notare, voglio dire grazie alle compagne e ai compagni di “Rassegna sindacale” e della nostra casa editrice, che della nostra memoria e dei nostri lavori sono stati testimoni importanti.

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Infine voglio ringraziare i tanti ospiti e delegazioni straniere. Davvero ne abbiamo avuti tanti: centotrenta/centoquaranta persone; novanta sindacati; sessanta paesi, dai più lontani ai più vicini hanno seguito minuto per minuto – ve lo posso assicurare – lo svolgimento di questo congresso. Lo hanno voluto capire, lo hanno voluto riconoscere, hanno provato a vedere se dalla nostra discussione potevano esserci, come ci sono, elementi importanti per il loro lavoro. In modo particolare voglio ringraziare le compagne e i compagni dirigenti dei sindacati del Sud America, che non solo erano in tanti ma avevano qui tutti i loro presidenti o segretari generali del Brasile, del Cile, dell’Argentina, della Colombia e degli altri grandi paesi. Questo per dire quali rapporti di solidarietà, antichi e nuovi, noi abbiamo con loro e loro hanno con la Cgil.

Dal nostro congresso mi sembra esca confermato l’impianto della nostra proposta e delle nostre tesi. Riprogettare il paese per l’economia, per le persone, per i lavoratori, per i giovani, per i diritti, per l’etica pubblica. Quando, nelle nostre tesi e nel preambolo, accanto alle grandi questioni della nostra esigenza di ricostruzione, abbiamo molto insistito sulla ricostituzione di un’etica pubblica e di uno spirito civico, abbiamo pensato a tante cose; a tante cose che adesso Scalfaro ci ricordava e a tante cose che potevano avvenire. Bene. Io penso, ad esempio, che ricostruire un’etica pubblica significa non far dire al nostro ministro della Difesa, come è avvenuto ieri, che l’uccisione di Niccolò Calipari è stata il frutto di un caso, del fato, perché fato vuol dire che era ineluttabile, che doveva accadere, e noi sappiamo invece che poteva non accadere e che si poteva fare di tutto perché Calipari non pagasse con la vita il suo senso di servizio alle istituzioni e ai valori della nostra Repubblica.

D’altra parte, che la scelta della ricostruzione del paese si renda oggi sempre più necessaria ce lo dice per ultimo la notizia, che abbiamo commentato in relazione, della crescita zero e che è il simbolo, purtroppo, della conferma delle nostre ragioni e delle nostre preoccupazioni. E la cosa che più mi ha colpito di questa notizia è stata l’assenza di reazioni da parte del governo e del centro-destra. Mai mi sarei aspettato, di fronte a una notizia come questa, che si rispondesse: “Sì, è vero; ma intanto il nostro rapporto tra debito pubblico e Pil è migliorato di uno 0,1 per cento”. Per cortesia, facciamo le persone serie.

Io capisco perché il governo fa lo gnorri su questo problema e cercherà anche in questa campagna elettorale di non parlarne, perché è evidente: se questo dato negativo della nostra crescita avviene nell’ultimo anno della legislatura, se questo dato avviene nel mentre gli altri paesi europei hanno ripreso a crescere e a camminare, se questo avviene con un aumento dell’export che ha aiutato un po’ a comporre – pensate – lo zero, e con una massiccia dose di spesa pubblica che è tipica di tutti gli anni pre-elettorali, voi avrete chiaro il quadro: questo zero segna lo zero in condotta della politica economica di questo governo. Perché di questo non si può accusare nessun altro: né l’euro, né l’11 settembre, né il sindacato, né la mancanza di flessibilità del lavoro, né il costo del lavoro. Di questo bisogna che il governo si faccia una ragione.

E noi invece siamo preoccupati per questo zero, perché questo zero vuol dire intanto che oggi il paese non è cresciuto, non ha risorse da redistribuire; per noi vuol dire precarietà che aumenta, meno investimenti, meno qualità e più disoccupazione. Questo zero vuol dire che l’anno prossimo il paese non crescerà secondo le proiezioni che il governo ha assunto, ma forse di meno della metà; e soprattutto vuol dire che il paese è ripiombato in quel circolo vizioso tipico degli anni 80, che noi speravamo di esserci messi alle spalle: perché noi oggi abbiamo insieme un export negativo, una spesa pubblica e un disavanzo crescenti, un’inflazione che si mantiene nei rapporti europei sulla fascia medio-alta e un paese che non cresce.

Un rialzo dei tassi come quello deciso dalla Banca centrale europea non aiuta a superare questa situazione, perché noi non siamo come gli altri paesi che hanno ripreso a camminare. Un aumento

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dei tassi anche piccolo, in un paese in cui gli investimenti sono fermi e il debito è salito per responsabilità del governo, non aiuta la ripresa. Io penso davvero che il confronto elettorale tra gli schieramenti si debba poter fare anche su questo, e noi dobbiamo pretendere che questo avvenga perché, come ieri abbiamo sentito quello che pensa Prodi e il centro-sinistra, abbiamo il diritto e il dovere di sapere che cosa pensa il centro-destra per uscire dalla situazione in cui è precipitato il paese. Dalle prime cose che si sanno del suo programma, mi pare che il centro-destra non abbia capito nulla di quello che è avvenuto e si proponga, anche per il futuro, di continuare con le stesse ricette che hanno portato il paese a questa situazione di sfascio.

Invece, e questo credo vada apprezzato, da questa tribuna i due segretari di Cisl e Uil hanno usato un linguaggio comune con quello delle nostre posizioni e delle nostre preoccupazioni. E non era scontato, perché solo un anno fa anche con Savino Pezzotta avevamo avuto una discussione, perché lui vedeva più gli elementi della metamorfosi, della trasformazione del sistema. E noi dicevamo: “Sì, c’è la trasformazione, ma al segno di un paese che va in declino, di un paese che sta arretrando. Quindi una trasformazione che non aiuta la ripresa della crescita ma peggiora, se è possibile, la situazione”.

Le parole che hanno usato a questa tribuna sono parole che non lasciano equivoci; e questo è importante, perché avere un punto di vista comune su qual è il vero stato del paese, naturalmente, è la premessa per poi avere proposte unitarie per come uscire dal quadro delle difficoltà. Così come non c’è dubbio che le parole dette sulla pace, sul no alla guerra, sulla centralità del Mediterraneo, sul bisogno di una conferenza sul Mediterraneo, sui valori del sindacato confederale che ci uniscono, e anche la passione con la quale a questa tribuna i nostri amici e compagni di Cisl e Uil sono intervenuti, sono elementi per noi importanti.

È vero, restano divisioni su un punto, che naturalmente non è né un punto secondario né un punto sul quale possiamo far finta di nulla: quello del sistema e delle politiche contrattuali. Il segretario della Uil ha fatto un passo in avanti sul terreno della democrazia, delle regole, del consenso e dell’estensione generalizzata delle rappresentanze sindacali unitarie. Non è un passo da poco, perché ancora oggi noi abbiamo settori in cui non riusciamo a eleggere unitariamente le rappresentanze sindacali unitarie nei luoghi di lavoro; mentre, di fronte alle difficoltà che ci sono sul modello, il segretario della Uil ha proposto di prendere tempo e di farne a meno, di far finta che il problema non c’è.

Savino Pezzotta ha ribadito le posizioni della sua organizzazione per quanto riguarda sia la questione della produttività sia la questione della democrazia. Io non condivido, ma posso capire quello che spinge la Cisl e il suo segretario a proporre la prima scelta; davvero però non riesco a capire e non mi rassegno a che la Cisl non capisca e non arrivi a un’intesa con noi e con la Uil sulle regole della democrazia sindacale. E non mi rassegno perché, in questi mesi, in queste settimane, in questi anni, accordi importanti sono stati fatti da quasi tutte le strutture di categoria private e pubbliche; e non riesco a capire perché, se i pezzi del tutto si mettono d’accordo, non si può fare un accordo sul tutto anche tenendo conto delle esperienze che nei settori privati e nei settori pubblici in questi mesi e in questi anni si sono fatte. E aggiungo: esperienze tutte positive, non per la sola Cgil ma per tutto il movimento sindacale unitario; ed esperienze che, dove si sono fatte, hanno rafforzato il rapporto con i lavoratori e hanno rafforzato l’unità del sindacato confederale.

Così come penso che il bisogno di una legge che estenda e rafforzi questi diritti resti nell’orizzonte delle cose da fare. Voglio qui ricordare in modo particolare il valore che ha avuto e che ha per noi l’insegnamento di Massimo D’Antona, che a quelle leggi sulla rappresentanza spese l’ultima parte della sua vita. Naturalmente queste questioni esigono, anche da parte nostra, il massimo della chiarezza. Io non credo che noi possiamo lasciar perdere il bisogno di avere regole unitarie in

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materia contrattuale. È stata una parte della discussione del nostro congresso. Non credo che possiamo lasciar perdere, come dice Angeletti, e non solo perché, se noi lasciamo perdere, avremo dieci, venti, trenta, quaranta soluzioni differenziate, ma perché non potremmo noi sopportare una contraddizione. Noi non possiamo dire che il liberismo, la forza del mercato, la forza delle imprese si argina anche con la forza delle regole. E, sul cuore del potere di rappresentanza del sindacato qual è il terreno contrattuale, non possiamo dire che non ci vogliono o oggi non sono necessarie delle regole. Magari le avessimo, come diciamo noi, con la forza e l’estensione di un sistema forte. Io credo che questo sia necessario. Naturalmente la complessità che in questi anni si è prodotta nei territori e nelle aziende non la riduciamo a unicità con la nostra difesa del contratto nazionale, ma ne diamo forza se manteniamo quell’unicità dell’impostazione di fondo che solo il contratto nazionale ci può dare. Davvero – lo voglio dire al presidente – abbiamo avuto un’altra lezione quando a questa tribuna Fisichella, nel corso della tavola rotonda dell’altra sera, ci ha detto: “Oggi che è insidiata l’unità del paese, il valore del contratto nazionale è un valore che dà forza alla solidarietà e alla tenuta e all’identità del nostro paese”. Per questo, quando sento dire anche in questi giorni, che sarebbe più moderno fare altro, che sarebbe molto più aderente ai processi di oggi fare altre scelte, io confermo quello che ho detto nella relazione: oggi la difesa del contratto nazionale è la cosa più moderna che noi dobbiamo sostenere. Non ha un valore antico: ha un valore moderno.

D’altra parte, se noi rinunciassimo alla nostra impostazione, che cosa avverrebbe? Avverrebbe o no una diminuzione del valore medio delle retribuzioni dei lavoratori dei singoli settori? Avverrebbe o no una difesa più difficile di coloro che stanno peggio, che hanno meno potere, che hanno meno forza contrattuale? Avverrebbe o no che quella parte del paese che produce sarebbe anche in questo più svalorizzata, più resa ai margini? Su questo Confindustria deve rispondere, non sul fatto di chi è più antico o più moderno, perché per noi difendere il valore delle retribuzioni, la dignità dei lavoratori e il potere dei lavoratori è – ripeto – questione fondamentale della cittadinanza moderna, non di quella del secolo scorso.

Per queste ragioni voglio dire che la nostra proposta del Patto fiscale, dell’accordo su questa materia, ha avuto, com’era inevitabile, una grande eco nel nostro congresso e nelle nostre discussioni. Naturalmente io insisto su un punto: che per noi Patto fiscale vuol dire molte cose, non una. Vuol dire partire dove è giusto che si parta per un governo che vuole cambiare in maniera forte le politiche economiche, sociali e quelle della redistribuzione. Per noi nuovo Patto fiscale vuol dire più giustizia fiscale, vuol dire lotta all’evasione, al lavoro nero, all’elusione, al lavoro irregolare. Vuol dire fondare, nel patto tra cittadino e cittadino e cittadino e Stato, una nuova idea di cittadinanza. Vuol dire sostenere le ragioni inclusive di un nuovo welfare: senza il Patto fiscale le ragioni inclusive di un nuovo welfare non avrebbero fondamento. Vuol dire dare simbolo e sostanza a un’alternativa di politica economica e di politica sociale. Questa è la forza che questo messaggio ingloba.

E abbiamo bisogno di un periodo lungo. Io l’ho chiamato un accordo che abbia un quadro di legislatura; un accordo di legislatura non per avere una gabbia (nella quale naturalmente sarei il primo a non voler entrare), ma perché mi rendo conto che, se vogliamo prendere noi un’iniziativa e mettere al centro questa questione, dobbiamo noi assumere un impegno che abbia un profilo di legislatura. Nel caso contrario avremmo due rischi: innanzi tutto, con i dati di cui parlavo prima, alla prima Finanziaria che si farà dopo le elezioni, in caso di vittoria del centro-sinistra, magari ci diranno: “Oggi no, domani vediamo”; oppure ti danno qualcosa adesso e poi si vedrà. No. Se questo deve orientare la scelta di una diversa politica economica, occorre la responsabilità di un impegno che, anno dopo anno, si sostanzia e diventa concretezza, perché anche noi abbiamo bisogno, come i tempi della ricostruzione del paese, dei tempi di un lungo periodo di risarcimento, non solo di reddito, nei confronti dei lavoratori e dei pensionati.

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Per questo non dobbiamo avere paura, non dobbiamo avere timori. Dobbiamo prendere noi l’iniziativa come abbiamo fatto con le nostre tesi, e come abbiamo fatto con il nostro congresso. E io penso che per noi sia stato un grandissimo vantaggio il fatto che oggi tutti discutono del Patto fiscale e di che cosa significa, perché vuol dire che gli altri discutono delle cose che noi proponiamo.

E quando, ancora oggi, sento dire da persone anche di grande intelligenza che cosa dà in cambio la Cgil, che cosa ci mette la Cgil, mi viene ovviamente da dare tante risposte. La più semplice mi pare che in questo Patto fiscale la Cgil ci mette la propria passione verso il paese, il proprio bisogno di giustizia sociale, la voce degli ultimi che in questi anni sono rimasti indietro e che chiedono giustamente di essere rivalutati. Per questo io credo che le cose dette ieri da Romano Prodi a questa tribuna siano state cose importanti. In modo particolare voglio sottolineare un punto che, con i tempi che corriamo, non è secondario: la serietà del suo intervento. Ha parlato dei problemi, di quelli che avevamo posto, ha dato le sue risposte e quelle della sua coalizione. Io so bene – perché ho ascoltato molti giudizi anche dei nostri compagni – che, accanto a grandi aree di soddisfazione, vi è anche qualche lamentela perché questo o quel punto non è stato toccato con l’attenzione che noi magari ci aspettavamo. Ma lasciatemi dire: questo fa anche la serietà delle cose che qui Romano Prodi ha detto. Non ha fatto la fotocopia, come ho letto, della mia relazione: ha esposto i punti che ritiene fondamentali del programma con cui l’Unione chiederà il voto ai cittadini e si impegnerà a governare il paese.

Non c’è dubbio che, sul tema della centralità del lavoro, dei diritti, delle politiche di welfare, del ‘no’ ai due tempi e della volontà di reagire al declino del paese, le cose dette ieri da Romano Prodi incontrano le nostre; e le incontrano in quello che c’è di fondamentale nel ripartire dal lavoro e dai diritti, dal non rassegnarsi, dallo stare in campo, dal provare, come lui ha condiviso, il bisogno di riprogettare il paese.

Qualcuno questa mattina ha detto: “Avete fatto come a Parma”, ricordando il 2001 e quell’incontro in cui il presidente di Confindustria e quello che sarebbe diventato il presidente del Consiglio si dissero alla tribuna: “Il tuo programma è il mio; il mio programma è il tuo”. Per onestà tra di noi, il programma della Cgil è il programma della Cgil; il programma di Romano Prodi e dell’Unione è il programma di Romano Prodi e dell’Unione. Ma c’è un’altra profonda differenza. L’operazione tentata a Parma era giocata contro i lavoratori e i diritti del mondo del lavoro. Il nostro programma e quello esposto da Romano Prodi sono fondati esattamente sull’idea opposta. E c’è ancora una terza e per me fondamentale differenza. L’operazione di Parma fu l’operazione di una lobby di interessi giocata contro gli interessi del paese; quella di Rimini è esattamente un’operazione contraria. Noi, con le cose che diciamo e le cose dette da Romano Prodi, facciamo esattamente il contrario: un atto di impegno, di rispetto e di amore verso gli interessi generali del paese, partendo da quelli che noi rappresentiamo.

Naturalmente tutto questo porta a una conseguenza. Siccome noi crediamo che, per le cose in cui ha condiviso il nostro programma e anche per gli altri punti di vista espressi, Romano Prodi abbia parlato e abbia usato il linguaggio della verità, noi gli diciamo qui che, con grande lealtà e con grande rigore, verificheremo atto dopo atto, mese dopo mese, il rispetto delle cose che qui ha annunciato. E questo perché c’è bisogno di mantenere il profilo alto della nostra autonomia.

Vedete, io non ho timori, di quelli che ogni tanto ascolto e ho ascoltato alla tribuna, rispetto a una fase nuova che si dovesse aprire. L’unico vero timore che ho è se questo vento di cambiamento non ci dovesse essere, perché di quello davvero avrei preoccupazione e paura.

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Noi non dobbiamo avere paura, perché l’autonomia sta dentro di noi; autonomia che, come è stato detto, non è però mai indifferenza: è rispetto di quello che noi pensiamo e relazione con quello che avviene fuori di noi; è incontro tra la forza e la coerenza delle nostre idee e le scelte che si fanno fuori di noi. Sono convinto che, come in questi anni, anche in futuro il paese abbia bisogno di un sindacato unitario e di una Cgil dal profilo rigorosamente autonomo.

Romano Prodi ha fatto infine un passaggio molto importante, devo dire quello che mi ha colpito di più perché gli altri in parte me li aspettavo, quando ha parlato dei migranti e del diritto di cittadinanza. Ho riflettuto molto e può darsi che io mi sbagli, però se qualcuno mi dovesse chiedere: “Dimmi una sola cosa che, nel suo carattere simbolico, possa dare il segno di una svolta”, vi devo dire in tutta onestà che, prima ancora della legge Biagi, della Moratti, di tutte le cose che vogliamo siano cancellate, vi devo dire che quella avrebbe per me il valore di un simbolo straordinariamente universale e inclusivo di tutte le cose delle quali abbiamo parlato. È per questo che non sono soddisfatto della presenza dei nostri compagni e compagne migranti nel nuovo Comitato Direttivo. E per la responsabilità che porta me la prendo. Però voglio anche dire che, se il Direttivo che sarà eletto sarà d’accordo, desidero che ci sia una sessione del nostro Comitato Direttivo da preparare avente all’ordine del giorno unicamente il tema delle nostre politiche e dei lineamenti di costruzione di un sindacato realmente multietnico; e mi impegno, se saremo d’accordo, a operare quelle cooptazioni nel Comitato Direttivo che ridiano peso e forza politica a queste persone.

D’altra parte le cose che abbiamo visto in questi giorni implicano da parte nostra che ci si metta al lavoro subito finito questo congresso. Ci aspettano alcuni contratti aperti, vertenze molto difficili e dolorose, come le due compagne che hanno parlato questa mattina hanno ricordato; e ci aspetta un impegno per dare senso alle cose di cui abbiamo parlato con Scalfaro questa mattina. Noi dobbiamo impegnarci seriamente a far vivere il ‘no’ alla riforma costituzionale nei nostri territori, nei luoghi di lavoro, nelle leghe dei pensionati. Questo è per noi e per le nostre politiche, se posso dire, un appuntamento altrettanto decisivo di quello che si giocherà alle elezioni legislative; e su questo sarà misurata la forza che abbiamo messo in campo nella raccolta di firme. E anche qui, con un paradosso ma neanche tanto, vi prego di credere che io penso ancora più importante quel risultato perché, con quel risultato, potremmo bloccare la costruzione ideologica che ha puntato a svilire in altro modo i valori contenuti nella prima parte della Carta costituzionale.

Per quanto riguarda la nostra vita interna, penso davvero che, finito il congresso, dovremo cominciare a preparare la nostra conferenza di organizzazione. Naturalmente abbiamo problemi in una macchina che va sempre rinnovata e oliata. Sono questioni delle quali dobbiamo parlare. Consentitemi però di dire, con la stessa franchezza con la quale prima ho detto che non ci siamo per quanto riguarda la presenza dei migranti, delle nostre compagne e dei nostri compagni, nel Comitato Direttivo, e questa volta con un pizzico di orgoglio, che è la prima volta nella nostra storia in cui il Comitato Direttivo della Cgil è composto da più del 40 per cento da nostre compagne. E lo dico non per una soddisfazione, della quale non c’è bisogno, ma per dire che dobbiamo continuare a lavorare perché alle compagne, dai posti di lavoro in su, siano affidate sempre più postazioni e responsabilità evidenti.

Non va bene una segreteria confederale al 50 per cento e, nella maggioranza delle nostre strutture, una presenza di compagne che non è adeguata al peso e alla storia che le compagne hanno nella nostra organizzazione. Così come non c’è dubbio che dovremo riflettere e ritornare a discutere sul valore che assegniamo alla parola confederalità. Io davvero credo, non per qualche recondito pensiero, che quello che ha fatto la differenza, di fronte a questa cultura che in molti paesi ha fiaccato il sindacato e la nostra esperienza, risieda in questo. Quando siamo stati al congresso del sindacato americano, l’estate scorsa, mi ha fatto davvero amarezza vedere quello che è stato un

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tempo un grandissimo sindacato arrivare ad avere né più né meno gli iscritti che hanno Cgil, Cisl e Uil.

È riflettendo su quello, in modo particolare, che mi sono convinto che questa è la chiave della nostra differenza. Quando tu, come avviene lì, ti concentri solo nei luoghi di lavoro, quando anche in ragione di questo hai una legislazione che ti impedisce di iscriverti al sindacato, quando cioè il luogo dove esprimi la tua rappresentanza diretta diventa insieme l’unico perimetro nel quale tu vivi, quando cioè la concezione unionista del sindacato viene impoverita, anche per responsabilità delle controparti e di quelle politiche, è evidente che lì tu segni la tua sconfitta e soprattutto la tua subalternità; mentre dove, come da noi, abbiamo tenuto forte il valore di quello che ti fa essere nei luoghi di lavoro rappresentanza di interessi e insieme valore solidale per tante persone di ogni settore e tra generazioni, quel valore rende impossibili i tentativi di rinchiuderti in uno spazio sempre più angusto nel quale alla fine rappresenti sempre di meno.

Per questo la confederalità è il valore e il diritto di cui ogni iscritto e iscritta alla nostra organizzazione hanno piena titolarità e che non può essere requisito da nessun gruppo dirigente né di questa né di quella parte, né di sotto né di sopra, né di una Camera del Lavoro né di una categoria, né di una confederazione né dei sindacati più piccoli: è un diritto di tutti. E non ha niente a che fare con il valore del pluralismo, perché il valore del pluralismo è un valore che fonda la nostra democrazia e il nostro stare assieme.

Noi non potremmo immaginare un sindacato così grande e rappresentativo se non come un grande sindacato plurale, dove convivono tante identità, tante specificità, tanti valori, tante storie di appartenenza vecchia e antica che, insieme con le regole, si abituano a vivere e a convivere liberamente e democraticamente. Nella nostra democrazia c’è il seme della nostra forza; e nell’idea di confederalità c’è il fondamento della nostra democrazia interna.

Infine penso davvero che in questo centenario noi stiamo facendo una grande operazione culturale, quella legata alla nostra memoria, come ho detto, alla rilettura dei nostri valori, delle nostre radici. Ma dobbiamo fare però adesso – e lo dice uno che in questi mesi ha molto lavorato sul terreno della memoria – un’operazione ancora più ambiziosa: usare il nostro centenario per mettere questi valori e questa memoria al servizio di una nostra capacità sempre più estesa di governare i cambiamenti, di rappresentare i cambiamenti del lavoro e di vivere le trasformazioni necessarie.

Questo mi sembra che, da oggi in poi, noi dobbiamo fare, finito il congresso e utilizzando anche le occasioni celebrative del centenario. Questo perché, rileggendo la nostra storia, è evidente che esce fuori il quadro di un’organizzazione che è stata, tra le generazioni e tra i decenni, soprattutto una grande scuola, con maestri un po’ strani e alunni e studenti un po’ strani. Un grande luogo dove i giovani imparavano dai compagni più vecchi, dove i compagni di una fabbrica imparavano dai compagni di un’altra fabbrica, dove l’esperienza di un territorio si confrontava con l’esperienza di un territorio. Noi siamo stati una rete straordinaria di educazione civile, politica, morale e umana.

E oggi, in un momento in cui, come abbiamo detto, ritorna il bisogno di avere tante sedi di ricostruzione, di identità, di valori e di capacità di stare assieme, quella storia e quest’esempio ci dicono le cose che dobbiamo fare per il futuro. Questo naturalmente vuol dire anche avere la capacità e la responsabilità di operare con la forza e con la coerenza necessarie. Quando scorrevano le immagini, prima dell’apertura del congresso, delle cose che abbiamo fatto in questi quattro anni, non solo ho avuto la possibilità di riordinare tanti fatti e tante date ma anche di restare, come voi, impressionato dalle cose che tutti assieme abbiamo fatto, da quelle più grandi, quelle che abbiamo visto, alle tante di cui non abbiamo visto traccia ma che traccia hanno lasciato. Riflettendo, ho pensato anche a chi e a che cosa dà a tutti noi la forza di fare tutte queste cose e di

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farle, se consentite, anche così bene. Ed è la stessa cosa che ho pensato di me. Quando, nel settembre del 2002, il Comitato Direttivo mi diede l’incarico di segretario generale della nostra organizzazione, devo dirvi la verità avvertii tutto il peso, soprattutto in quel momento, di questo incarico e di questa funzione. Riflettendo su di me e su quelle immagini, mi sono chiesto che cosa, in alcuni passaggi importanti, mi abbia dato la forza di prendere decisioni che io penso giuste, come è avvenuto sulle scelte che pure ci hanno diviso sul referendum, com’è avvenuto quel giorno in cui in Confindustria, alzandomi da solo, io credo davvero di aver salvato la stagione dei contratti e la prospettiva per la quale stiamo lavorando.

E c’è una sola risposta: questa forza te la dà la Cgil, le sue donne e i suoi uomini. Ed è solo per questo che, pensando alle cose che sono avvenute ieri, alle cose dette da Romano Prodi, io trovo qui davvero motivo di grande riconoscimento della forza di queste donne e di questi uomini, perché se da qui a un mese soffierà, come deve soffiare e come soffierà, il vento del cambiamento, quel vento del cambiamento avrà i contorni del nostro quadrato rosso, e cioè del cuore di tutte le nostre compagne e di tutti i nostri compagni.

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DOCUMENTO POLITICO VI CONGRESSO FISAC CGIL Bari 6/9 febbraio 2006 Il VI Congresso Nazionale della FISAC CGIL approva ed assume la relazione introduttiva del Segretario Generale Domenico Moccia, il documento della Segreteria Nazionale, arricchito dai contributi intervenuti nel dibattito dei Congressi Regionali, le conclusioni del Segretario Nazionale della CGIL Achille Passoni. La globalizzazione: Il processo di globalizzazione in atto risulta dominato da strategie e politiche liberiste, dall'esercizio della competizione senza regole che accresce povertà e disuguaglianza, dal drenaggio di ricchezze e risorse naturali a favore dei paesi sviluppati, dallo sfruttamento indiscriminato della natura con pesanti sconvolgimenti e mutazioni ambientali. Sono messi in discussione diritti inalienabili quale il diritto universale alla salute, all'accesso a beni comuni come l'acqua potabile e ad una alimentazione adeguata, all'istruzione, all'ambiente, e i diritti sociali di cittadinanza e del lavoro. La divisione del mondo in aree di paesi sempre più ricchi e paesi sempre più poveri è la prima causa dei conflitti. La guerra: Il Congresso ribadisce il rifiuto della guerra come strumento di soluzione delle controversie politiche e il valore universale della Pace come strumento per favorire sviluppo e riequilibrio economico. Guerra preventiva e democrazia esportata con le armi sono concetti che favoriscono lo scontro di civiltà e alimentano il terrorismo; la Fisac.Cgil esprimendo profonda condanna per gli attentati terroristici che, come la guerra, mietono vittime fra la popolazione civile, manifesta preoccupazione per il permanere del conflitto in Iraq, per l’escalation di tensione nei rapporti con l’Iran e per il rischio di un nuovo arresto del processo di Pace fra Israele e Palestina. La permanenza delle truppe italiane in Iraq è inconciliabile con tale esigenza. L’intera area mediorientale vive tuttora in un clima di grave instabilità. La questione palestinese è senza dubbio fra le cause principali di tale situazione. Compito delle istituzioni sovranazionali, a partire dalla Comunità Europea, dovrebbe essere quello di favorire una soluzione che assicuri contemporaneamente condizioni di sicurezza per lo stato israeliano e il compimento delle aspettative della popolazione palestinese, che deve poter avere un proprio stato, autonomo ed indipendente, e deve veder rimosse le

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ingiustizie derivanti dall’espulsione dalla propria terra e dall’occupazione dei Territori da parte dell’esercito israeliano. L’Europa L’Europa, perseguendo la pace, deve costruire una posizione autonoma che dia spazio al primato della politica nei rapporti internazionali e ad un modello sociale inclusivo fondato sulla democrazia e sulla centralità dei diritti sociali e del lavoro. Pace, diritti e lavoro non sono ancora l’elemento centrale della politica europea, mentre le istituzioni comunitarie incentrano la propria attività sul sostegno alle imprese, sulla compressione dei costi e sul dumping interno. La direttiva Bolkenstein rappresenta una delle espressioni più evidenti del tentativo di superamento del modello sociale europeo; anche per questo il sindacato internazionale si deve impegnare a giocare politicamente un ruolo globale nei confronti delle istituzioni europee e delle multinazionali. L’estensione dei diritti deve essere considerato un obbiettivo centrale e strategico. Tutti i settori della nostra Oreganizzzione non possono considerarsi estranei alle politiche internazionali e risentono inevitabilmente degli effetti della globalizzazione; occorre pertanto estendere e riportare a livello sopranazionale, ed in modo esigibile, diritti che sono stati storicamente limitati dentro i confini dei singoli paesi, battendosi per un modello di sviluppo europeo che tenga insieme crescita economica, coesione sociale e qualità ambientale. In questo scenario il sindacato deve avere un ruolo forte, organizzato e strutturale per poter combattere le derive liberiste che sono presenti nel contesto europeo, a partire dalla Direttiva Bolkestein, che può avere effetti devastanti anche per il nostro settore. L’avvio dell’azione di coordinamento delle politiche contrattuali nazionali da parte della CES ed una sua più incisiva politica nei confronti del Parlamento europeo, le maggiori possibilità di dialogo sociale offerto dalla direttiva sulla società europea e la sperimentazione, in qualche caso nell’ambito dei CAE, del modello di relazione sindacali europeo di estensione all’istanza di negoziazione, rappresentano un promettente esordio per costruire in Europa un concreto rapporto di solidarietà tra i lavoratori e le lavoratrici, quale presupposto insopprimibile per esercitare un’efficace azione di contrasto nei confronti delle politiche neoliberiste e dello strapotere delle multinazionali. Il CAE come elemento importante e stabile di relazioni industriali a livello trasnazionale, così come definito nella Direttiva 2002/14, che mira a promuovere il dialogo fra aziende e lavoratori superando i confini nazionale, favorendo la partecipazione attiva dei lavoratori stessi nella vita dell’impresa, elemento decisivo di

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quel processo di crescita dell’impresa e del lavoro messo in rilievo dalla “strategia” di Lisbona. Italia/Costituzione Le tensioni e le guerre, la povertà e la fame che da decenni caratterizzano l’intera area Africana ed Asiatica provocano flussi migratori costanti verso il Nord; flussi che da anni ormai investono l’Italia. Appare pertanto centrale all’interno della nostra riflessione congressuale il tema dei diritti che vanno declinati in un contesto sociale caratterizzato dalla complessità, dal multiculturalismo, dal moltiplicarsi delle emergenze a livello sociale ed ambientale. Il diritto all’accoglienza rientra a pieno titolo fra i diritti umani. Le politiche sull’immigrazione devono essere conformi a tale principio riservando le pratiche di contenimento e di tutela dell’ordine pubblico esclusivamente a comportamenti oggettivamente criminali, tra i quali non può essere prevista l’immigrazione clandestina. La chiusura dei Cpt, è improcrastinabile essendo intollerabile la detenzione di persone che non hanno commesso nessun reato. A questo proposito appare fondamentale battersi, attraverso lo strumento referendario, contro lo stravolgimento della Carta Costituzionale. La riforma approvata dalla maggioranza di destra, infatti, mina l’unità del paese, allargando ulteriormente le disuguaglianze fra Nord e Sud, inserisce ulteriori elementi di autoritarismo a livello istituzionale, indebolisce i ruoli di garanzia, a partire da quello del Presidente della Repubblica, mette in discussione il principio di divisione dei poteri dello stato. La difesa della Costituzione deve estendersi anche ai principi indicati nella I Parte della Carta, oggettivamente messi in discussione da una riforma così radicale. Da anni è in atto un tentativo, a volte mascherato, a volte esplicito, di relativizzare l’origine antifascista della Repubblica. Non è questione di pacificazione nazionale, che dovrebbe semmai riguardare periodi storici più vicini all’ attuale, ma il tentativo di confondere le responsabilità, di azzerare le differenze fra chi si batté per la democrazia e chi difese il nazifascismo. Persino il principio di laicità dello stato risulta messo in discussione. Non si tratta di ostacolare il diritto di parola e di espressione delle opinioni, ma di evitare ogni tipo di

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ingerenza indebita, a partire da quelle relative ai lavori parlamentari ed alle scelte elettorali dei cittadini. L’attacco ai diritti ed alla laicità dello Stato oggi si è spostata sul terreno della bioetica, della sperimentazione, dei diritti delle donne. Emblematico il caso della azione di contrasto da parte dell’attuale Ministro della Salute, contro l’utilizzo della pillola cd. ”del giorno dopo” come esempio, attraverso una strumentale ed indebita ingerenza in campo sanitario, di attacco alla libera scelta delle donne. Rivendichiamo la difesa dei PACS e della Legge 194 sull’aborto oggi oggetto di un attacco da parte del Governo. La grande manifestazione di Milano e quella a Napoli del prossimo 11 febbraio, in difesa della L.194 dimostrano ancora una volta la determinazione con la quale le donne e gli uomini italiani intendono difendere leggi scaturite da decenni di mobilitazione che hanno consentito, se pur lentamente, di far maturare nel paese una maggiore coscienza civile e democratica. L’Italia la situazione politico/economica La crisi dell’economia, le scelte inique e l’incapacità dell’attuale Governo Berlusconi pongono problemi a livello di politiche industriali, causando l’esaurimento di interi filoni produttivi. Questo Governo lascia a chi verrà dopo una situazione del Paese ai limiti del disastro in materia di economia, finanza, bilancio dello stato, politiche sociali e industriali, etica pubblica, di arretramento nella qualità dei servizi, della scuola, della ricerca e dell’università ed anche di grave crisi, del tessuto sociale: il livello di povertà si è pericolosamente elevato ed una famiglia su quattro secondo le ultime rilevazioni è sotto questo livello. Il mercato non può diventare l’unico regolatore della vita sociale e per far questo occorre che la politica riacquisti il suo ruolo di direzione nell’identificazione delle linee strategiche a livello economico e di mediazione fra i diversi interessi che a livello sociale si manifestano. La CGIL propone al paese un nuovo modello di sviluppo fondato sulla qualità, sull’innovazione e sulla ricerca, sulla valorizzazione della risorsa lavoro, sulla sostenibilità sociale e ambientale. La scrittura di un nuovo “patto di cittadinanza” è un progetto alto per ridefinire il paese, fatto di valori, contenuti, obbiettivi e strumenti, e di determinazione e passione civile per la sua ricostruzione e per la sua rinascita civile e morale, partendo dalla centralità del valore del lavoro.

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Tra gli strumenti per rendere concreto ed esigibile tale valore, vi è certamente la formazione intesa come diritto che accompagna l’intero arco della vita, dall’infanzia alla vecchiaia. Noi, come sindacato, siamo chiamati ad occuparci soprattutto della formazione continua, strumento indispensabile per impedire che i costanti processi di ristrutturazione e le continue trasformazioni derivanti da innovazioni tecnologiche sempre più sofisticate, portino fasce sempre più ampie di lavoratrici e lavoratori verso l’obsolescenza delle loro competenza e quindi verso l’espulsione dal mondo del lavoro. Ma la formazione va intesa anche come strumento per migliorare la qualità del lavoro ed il grado di soddisfazione che ne deriva per ogni persona che ha l’opportunità di crescere culturalmente e di essere così più forte e più libera. Per le nostre categorie due sono gloi strumenti a disposizione: i Fondi Interprofessionali per la Formazione continua e la Parte A del Fondi di sostegno al Reddito. Le politiche pubbliche devono assumere un fondamentale potere decisionale in campo economico e nella regolamentazione del mercato, attraverso la politica di bilancio, la definizione di standard normativi, una nuova programmazione pubblica e l’intervento diretto (soprattutto nel settore dei beni comuni e nel controllo dei monopoli naturali), mirato e selettivo, finalizzato a garantire l’universalità dei servizi e dei diritti, prevedendo l’intervento del privato sociale solo nell’integrazione di livelli essenziali adeguati. Sanità e istruzione sono diritti universali dei cittadini da garantire indipendentemente dal censo. Saranno necessarie sedi di confronto tra Governo e Parti sociali, che non possono essere concepite come riedizione acritica del modello concertativo del’93, che ha dimostrato nel corso del tempo i limiti di una politica di redistribuzione delle ricchezze e dei profitti, che ha costantemente penalizzato i lavoratori. La logica perversa dei due tempi ha di fatto causato una riduzione sostanziale del potere d’acquisto di salari e stipendi. All’interno di una ridefinizione di un nuovo modello di relazioni sindacali va preservata la centralità della contrattazione collettiva nazionale ed aziendale, oggi pesantemente messa in discussione. Il CCNL ha un ruolo fondamentale che deve essere rafforzato: è, e rimane, lo strumento universale che definisce regole, parametri e criteri certi per garantire uguali diritti per tutti i lavoratori, sia del settore pubblico che privato, su tutto il territorio nazionale e per incrementare il potere d’acquisto delle retribuzioni oltre

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all’inflazione reale, recuperando quindi quote di produttività, non distribuita attraverso i CIA. Oggi in un paese sempre più diviso, in cui la forbice tra poveri e ricchi si è allargata, non si risorge dal declino puntando sul controllo dei salari e sulla precarizzazione delle prestazioni lavorative bensì assumendo come propri riferimenti essenziali la crescita dei redditi da lavoro e da pensione e la lotta alla precarietà del lavoro, avviando una politica di solida e stabile occupazione, accompagnata da una ricerca di sempre più alti livelli qualitativi nello sviluppo di prodotti. L’estensione dei diritti deve essere considerato un obbiettivo centrale e strategico. In Italia diritti e lavoro stanno subendo da cinque anni pesanti attacchi da parte del Governo, che hanno fatto precipitare il Paese in una crisi morale e sociale inquietante. Sono state privilegiate scelte di politica economica e del lavoro dannose e destabilizzanti che la CGIL ha sempre denunciato e ripetutamente contrastato, portando in piazza milioni di lavoratori e lavoratrici, spesso da sola e con un ruolo fortemente autonomo rispetto al quadro politico ed istituzionale. Punti fondamentali dell’azione sindacale sono stati, e ancora sono, il contrasto alla Legge 30 e la difesa del diritto al rinnovo dei contratti nazionali. La cancellazione della Legge 30 e di tutte le norme derivate che precarizzano il rapporto di lavoro, sostituite da un sistema di norme e diritti complessivamente alternativo, dovrà essere la prima naturale conseguenza di tale politica: il contratto a tempo indeterminato deve ridiventare la forma prevalente di rapporto di lavoro. Una forte azione sindacale, che ricerchi un accordo unitario con CISL e UIL sulla rappresentanza, e adeguate norme di legge, da ottenere nelle prossima legislatura, dovranno rendere esigibile il diritto di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori ad eleggere i propri rappresentanti ed a votare in modo trasparente e certificato sulle piattaforme e sugli accordi che li riguardano. L’elezione dei rappresentanti sindacali aziendali (RSU) su base proporzionale in tutti i settori (compreso il nostro), la consultazione capillare delle lavoratrici e dei lavoratori nel corso delle trattative, con opportuni e frequenti momenti informativi, sono gli strumenti pratici per rilanciare partecipazione e democrazia sui luoghi di lavoro. I processi di riorganizzazione e ristrutturazione delle Aziende nel settore del credito oltre che mettere a rischio l’unicità della filiera produttiva hanno prodotto una frammentazione delle rappresentanze con evidenti difficoltà a garantire diritti di

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informazione, partecipazione ed assemblea a fette sempre più consistenti di lavoratrici e lavoratori. Nell’imminente rinnovo contrattuale del settore credito si dovrà allargare lo spazio democratico, rivendicando, in attesa della legge, le soluzioni più adeguate sia per la rappresentanza sia per il diritto di assemblea, da rendere veramente universale. Appalto assicurativo Il settore assicurativo registra un costante incremento di volumi di affari e di redditività delle imprese. La crescita avviene attraverso una pluralità di canali acquisitivi ma, centrale, rimane la struttura della rete agenziale e pertanto diventa sempre più stringente il rapporto diretto tra Agenzia e Compagnia mandante. In questa ottica la Fisac Cgil ritiene indispensabile rafforzare il quadro normativo e contrattuale di questo settore che vede i propri dipendenti tra i più svantaggiati del comparto assicurativo italiano. La nostra Organizzazione si impegna a potenziare la propria iniziativa con l’investimento di risorse adeguate per consolidare la Rete ed il Coordinamento Nazionale Appalto e tutti gli strumenti informativi e formativi oggi disponibili. Sul piano delle politiche complessive la Fisac intende sviluppare un più stretto rapporto tra le proprie strutture interne alle Imprese, i Gruppi Agenti aziendali e le stesse imprese di assicurazione. In particolare, nell’Appalto assicurativo lo stato di ulteriore precarizzazione, con l’applicazione della L. 223 nelle Agenzie Anagina, in assenza di qualsiasi ammortizzatore sociale, è uno degli ultimi tasselli di questa degenerazione dei rapporti di lavoro. Questo quadro sfavorevole impone al Sindacato il puntuale governo di tutte le ricadute, che derivano dall’inarrestabile processo di ristrutturazione del settore assicurativo ed una pratica rivendicativa inedita e supportata dalla mobilitazione di lavoratrici e lavoratori, come avvenuto in questi giorni nel Gruppo Generali/INA, accanto ad una pratica più tradizionale, volta a dare una risposta concreta alle istanze di tutela dell’occupazione e di valorizzazione del personale delle agenzie di assicurazione.

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La prossima scadenza del CCNL ANIA deve servire a sviluppare normative contrattuali che diano senso e solidità a questo rapporto, avendo come obiettivo strategico la ricostituzione della filiera contrattuale di tutto il settore, con l’inclusione della rete di vendita. In sintesi: la Fisac è impegnata nel rilanciare un cammino di solidarietà che valorizzi la scelta di accorpare settori diversi ma sempre più intrecciati. Si tratta di rafforzare il quadro normativo di tutele e di diritti per migliorare la condizione dei lavoratori dipendenti, a cominciare da quelli piu’ svantaggiati dell’appalto e dell’ANAGINA. In questo ambito le rivendicazioni dei CCNL si muovono non sono per il recupero del potere d’acquisto delle retribuzioni, ma al tempo stesso, per evitare la precarieta’ nei rapporti di lavoro, per valorizzare le professionalita’ e rendere esigibili tutte le norme contrattuali, in un quadro di tutele delle agibilità sindacali. Per quanto riguarda il CCNL dei dipendenti delle Direzioni, si dovra’ puntare ad un ulteriore rafforzamento dell’area contrattuale, all’esclusione di ogni forma di precarita’, alla valorizzazione dell’informazione preventiva, della consultazione e contrattazione sull’organizzazione del lavoro. Si tratta di proseguire nella definizione dell’area contrattuale, come gia’ avviato nell’ultimo CCNL, cui hanno fatto seguito importanti processi di insourcing, di attivita’ e di centinaia di lavoratrici e lavoratori. Tema innovativo, per la categoria, dovra’ essere l’istituto della responsabilita’ sociale dell’impresa: tanto piu’ importante in un settore che ha il delicato compito di offrire tutele per i cittadini. E’ anche in questo quadro che va visto un nuovo protagonismo sindacale, mirato alla qualita’ e trasparenza dei servizi assicurativi, con i conseguenti risvolti sull’occupazione e la professionalita’ dei lavoratori. Tutto cio’ richiede una capacita’ nuova del sindacato di categoria che, a tutti i livelli, e’ chiamato ad intervenire nei confronti delle singole aziende e dell’ ANIA, utlizzando tutti gli strumenti contrattuali esistenti ( informazione sull’organizzazione del lavoro e sulla qualita’ del servizio, professionalita’, orari, organici, etc,) e quelli in via di definizione nella piattaforma del CCNL (responsabilita’ sociale dell’impresa, rapporto azienda-agenti-sindacato, controllo del sistema liquidativi, call center, etc).

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E’ in questo contesto che sara’ necessario sviluppare una nuova fase nei rapporti con le Associazioni dei consumatori, per realizzare azioni sinergiche che, mettendo al centro la qualita’ e competitivita’ dei servizi e dei prodotti, obblighi le assicurazioni a svolgere quel ruolo economico e sociale cui sono deputate. Anche i rapporti con ANIA dovranno registrare una significativa inversione di tendenza e segnare una forte evoluzione, sia per quanto riguarda il dialogo sociale sui tradizionali temi di categoria, che sulle grandi questioni del ruolo dell’assicurazione nel nostro Paese. Infatti, la Fisac ritiene non piu’ rinviabile un rapporto sistematico delle organizzazioni sindacali categoriali e confederali con l’ANIA su temi quali il rapporto tra welfare e ruolo delle assicurazioni private; tra sistema produttivo, sviluppo del Paese e sistema assicurativo privato. Per quanto riguarda i call center, la Fisac si e’ posta con determinazione l’esigenza di profonde modifiche contrattuali, con l’obiettivo strategico del superamento della terza parte, a partire dal riconoscimento della professionalita’ in molte attivita’ di call center. Contemporaneamente diventa sempre piu’ urgente generalizzare la contrattazione delle provvigioni e del PAP, per sottrarre i lavoratori a criteri unilaterali di gestione di parte del salario e per rafforzare un processo di recupero economico significativo per questi lavoratori. Il nuovo contratto dovra’ dare risposte anche alle pesanti condizioni di lavoro ( stress, ripetitivita’ di mansioni, etc) e garantire migliori tutele rispetto a forme di controllo a distanza che violano le disposizioni previste dalla legge, in assenza di accordo sindacale in materia. La forte presenza della nostra organizzazione tra questi lavoratori, la loro capacita’ di mobilitazione, l’impegno di tutta la categoria rappresentano fattori determinanti per conquistare una reale evoluzione delle loro condizioni di lavoro. Riscossione

Nel settore della Riscossione Tributi con la riforma recentemente approvata si è avviato un processo di profonda trasformazione in direzione della internazionalizzazione e della pubblicizzazione del servizio; occorrerà accendere i riflettori sul grosso interrogativo che si apre e vigilare affinché la risposta si concretizzi in termini positivi rispetto alla maggiore efficienza ed economicità che di tale riforma rappresentano gli obiettivi dichiarati.

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Con la realizzazione del processo di riforma si avvia a superamento quella situazione di immobilità che ha negativamente influenzato la vita delle aziende del comparto negli ultimi anni. Non di meno la problematica sindacale si fa più difficile e complessa: la forte incertezza che da anni permea l’attività del settore, oggi si viene a concretizzare maggiormente rispetto alla possibilità di mantenere, quale futura area contrattuale delle lavoratrici e lavoratori del comparto, l’attuale concreto riferimento sostanziale al CCNL ABI, oltre che tutte le condizioni di favore legate all’appartenenza al mondo del credito. A ciò si aggiunge l’ulteriore pesante criticità relativa ai trattamenti contrattuali delle lavoratrici e lavoratori interessati dalle cessioni dei rami d’azienda che svolgono attività di fiscalità locale. La FISAC CGIL assume l’imperativo forte di affrontare tali criticità e tali problematiche con l’obiettivo di garantire il mantenimento dell’attuale CCNL di comparto, collegato alla categoria del credito e con esso le attuali complessive condizioni contrattuali della categoria la salvaguardia del loro sviluppo dinamico in armonia con l’evoluzione delle condizioni contrattuali dei lavoratori del credito. Settore finanziario: conflitto di interessi/Authorities/legge sul risparmio L’assenza di indirizzi di politica economica ed industriale si è riflessa inevitabilmente anche sul settore finanziario. L’evoluzione normativa ha portato Banche e Assicurazioni a privilegiare la finanziarizzazione delle proprie attività. Le privatizzazioni non hanno portato i previsti comportamenti trasparenti e virtuosi. Si è privilegiata una strada che ha limitato le potenzialità che pure esistevano, ed esistono, nel rapporto fra banche, fondazioni, territori di insediamento e di riferimento. Si è sottovalutato tra l’altro che la conseguenza di tale scelta comportava in non poche realtà il moltiplicarsi del conflitto di interessi generato dallo scambio di pacchetti azionari fra banche e imprese.

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Il conflitto di interesse, unitamente all’assenza di corporate governance, è stato uno degli elementi che hanno caratterizzato la complessiva crisi del sistema finanziario emersa nell’ultimo anno con le vicende Antonveneta/ABN AMRO/BPI e BNL/BBVA/UNIPOL, su cui fin dall’inizio Fisac e Cgil Nazionali hanno espresso in modo chiaro e netto la loro posizione. Sulla vicenda UNIPOL: Il Congresso riconferma le critiche della nostra Organizzazione sul merito del progetto Unipol che, per come era impostato, rappresentava un danno per BNL e un incognita per la Compagnia di Assicurazione. Il Congresso rileva altresì che le responsabilità delle scelte del precedente gruppo dirigente di Unipol sono state totalmente disgiunte dagli interessi delle lavoratrici e dai lavoratori, veri artefici, con il loro quotidiano impegno e volontà, del risanamento e del consolidamento ai vertici nazionali della Compagnia. La Fisac conferma inoltre di ritenere la Cooperazione una delle maggiori risorse economiche del paese, rilevando, nel contempo, come il maggior inserimento nel processo economico debba avvenire senza che vengano alterati, o anche solo offuscati, i valori che portarono alla nascita di questa importante realtà economica. Il Congresso della FISAC CGIl valuta come una interessante opportunità l’acquisizione di BNL da parte di BNP Paribas, come espresso già dal Coordinamento Aziendale e di Gruppo di BNL, ferme restando le successive verifiche sulla coerenza del Piano industriale che deve rispondere ad un effettivo consolidamento e rilancio di questo importante Istituto di Credito Nazionale. Questa offerta a parere della FISAC assicura ad UNIPOL la già solida base patrimoniale e concrete prospettive di futuro sviluppo. Sulla vicenda BPI Antonveneta: La BPI, già BPL, e di conseguenza l’intero Gruppo, sono diventati, sotto la guida di dirigenti avidi e spregiudicati, un esempio degenerato a livello di gestione dell’attività creditizia e finanziaria. Per riemergere dalla situazione nella quale il Gruppo è precipitato, occorre che la nuova amministrazione impronti la gestione al totale rispetto delle reali esigenze della clientela e della dignità dei lavoratori, ispirandosi a regole di assoluta moralità.

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Destano forti preoccupazione in tal senso le vicende legate alla recentissima assemblea dei soci di BPI, ai rumors circa possibili cordate legate ad “antichi” interessi, all’emergere di intercettazioni che coinvolgono il nuovo gruppo dirigente, alla riconferma nel consiglio di amministrazione di personaggi legati al passato e riciclatisi con insospettata rapidità. Credito e Mezzogiorno: Il sistema creditizio può e deve svolgere un’azione positiva per lo sviluppo del Mezzogiorno. Non si tratta di inventare un’improbabile “banca del sud”, ma di incidere sul pesante divario ancora esistente rispetto al costo del denaro e delle assicurazioni che le imprese meridionali si accollano in più rispetto a quelle del Centro Nord (come si evidenzia da una recente indagine commissionata dalla Camera di Commercio di Napoli all’Università Federico II di Napoli ed al Politecnico di Torino). Occorre che il principio della Responsabilità Sociale dell’Impresa, cui l’ABI si richiama ufficialmente, si coniughi non solo rispetto all’utenza ma anche rispetto ai territori. Per le Banche deve significare almeno reinvestire le risorse e gli utili prodotti localmente proprio in quei territori. Accompagnando queste scelte ad un’opera di sostegno e di indirizzo delle attività imprenditoriali, puntando in particolare a :

1. incentivare un salto dimensionale delle piccole e medie imprese attraverso sinergie e consorzi che permettano di superare il nanismo aziendale;

2. puntare a valorizzare e rilanciare le risorse produttive e naturali già esistenti per uno sviluppo diffuso e sostenibile.

Entrambe le iniziative sono considerate indispensabili anche per contrastare il peso della criminalità organizzata nell’economia e nella società.

Infine le Banche devono impegnarsi in modo certo e verificabile, per la creazione di Centri Decisionali al Sud, per la difesa e la crescita dei livelli occupazionali (falcidiati dalle concentrazioni bancarie) e per ancorare in loco professionalità e saperi che sostengano idee e progetti di sviluppo, sapendo valutarne innanzitutto la validità e la positività. E’ del tutto evidente che questo impegno diventa ancor più stringente per quelle Aziende che hanno scelto di agire in una logica di RSI.

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Responsabilità sociale delle imprese Dai recenti fatti emerge un modello di impresa che stride con l’immagine che il “Protocollo sullo sviluppo sostenibile e compatibile del sistema bancario” dovrebbe ispirare. E’ questo un terreno sul quale sfidare le imprese dei nostri settori ad un comportamento mirato alla qualità del servizio verso la clientela ed alla qualità del lavoro per tutte le lavoratrici e i lavoratori. La firma del “Protocollo sullo sviluppo sostenibile e compatibile del sistema bancario”, è stata una prima risposta a questa esigenza ed identifica, come obiettivo da perseguire, uno sviluppo sostenibile che impegni le aziende a valutare costantemente gli impatti sociali ed ambientali della propria attività, così come la qualità del credito che erogano, a cominciare dal finanziamento alle fabbriche di armi e così indirettamente alle guerre.. Ovviamente è necessario che la firma del Protocollo generi ulteriori intese negoziali che traducano, nel concreto della vita lavorativa, le opzioni strategiche delineate e che consentano di ampliare la nostra capacità di contrattare tutte le fasi e le conseguenze dell’attività lavorativa stessa. Occorre cioè dare attuazione concreta al Protocollo sulla Responsabilità Sociale delle Imprese, che dovrà riguardare una normativa reale ed esigibile sui sistemi incentivanti, a tutela della clientela e delle lavoratrici e dei lavoratori, che devono basarsi su strategie di mercato commerciali “etiche” nella collocazione e vendita dei prodotti finanziari. Inoltre è ormai non differibile l’attivazione dell’Osservatorio Nazionale sulla RSI e il livello preventivo nella definizione dei Piani Industriali per il coinvolgimento dei diversi stakeholder e per la valutazione degli impatti socio-ambientali. Authorities/legge sul risparmio Il comportamento e le decisioni del Governatore della Banca d’Italia e di alcuni suoi diretti collaboratori hanno fortemente condizionato le ultime vicende ed hanno messo in luce autoreferenzialità di ruoli, assoluta carenza di collegialità nelle decisioni e conflitti con altre istituzioni dello Stato.

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Da esse il Governo ha tratto spunto per una Legge sul risparmio che introduce, nello stesso articolo, la depenalizzazione di fatto del falso in bilancio ed una Commissione di controllo del risparmio i cui membri sono nominati dal Presidente del Consiglio e alle sue dipendenze, quindi privi di autonomia. La Legge rappresenta un tentativo limitato e disorganico di regolamentazione delle autorità di vigilanza. Vengono introdotti elementi restrittivi dell’autonomia della Banca d’Italia, che tradiscono l’intenzione di mettere l’Istituto sotto tutela dell’Esecutivo, sia attraverso il potenziale condizionamento derivante dal doppio mandato (fermo restando il condiviso superamento del mandato a vita), sia con l’attribuzione di maggiori poteri al CICR: Andrà seguita con particolare attenzione la modalità di attuazione del riassetto della proprietà dell’Istituto, onde evitare forme di statalizzazione e conseguente perdita della autonomia. La Legge attribuisce competenze sulla concorrenza ad Antitrust e Bankitalia insieme, con il rischio di conflitti istituzionali ed immobilismo di fatto. Si è persa, così, l’occasione per ridisegnare complessivamente le competenze per finalità delle singole Authorities e ricondurle a sistema. Auspichiamo che il legislatore formuli un progetto complessivo che parta dalla difesa dell’autonomia e dell’indipendenza dell’Authorities (criteri di nomina, autonomia di bilancio, collegialità delle decisioni). Tale indipendenza deve essere garantita anche dalla difesa e dalla crescita delle risorse interne e quindi dallo sviluppo di strutture altamente qualificate, evitando l’utilizzo surrettizio dello strumento del comando nella composizione delle risorse necessarie,nonché dalla trasparenza delle procedure di formazione delle decisioni. I provvedimenti più significativi per la tutela degli investitori e dei risparmiatori sono demandati a successivi interventi normativi e manca completamente la necessaria introduzione nel nostro ordinamento della “class action” (azione collettiva). Infine la legge assume caratteristica di discriminazione nel limitare il diritto di voto delle Fondazioni nelle assemblee delle Banche e si traduce in un intervento ad hoc mirato evidentemente a tre sole di tali istituzioni: Monte dei Paschi, Carige e Carifirenze. Il Sindacato deve fare la sua parte, ponendosi come soggetto attivo della coerente definizione di un processo di riforma.

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Credito: Le concentrazioni in Italia stanno progressivamente portando alla sostituzione di un sistema fondato prevalentemente su banche locali di dimensioni medio/piccole con un sistema di banche nazionali. L’assenza di una politica di indirizzo ha provocato la riduzione delle banche locali, che sta determinando - come hanno ripetutamente sottolineato gli analisti dei distretti industriali - un consistente abbassamento delle capacità conoscitive sul territorio, mentre non ha favorito il raggiungimento di adeguate dimensioni europee ed internazionali per alcune aziende. Inoltre, l’instabilità dei mercati induce all’adozione di modelli divisionali che in molti casi rispondono solo ad obiettivi di breve termine, a strategie fondate non sull’offerta e sull’innovazione di prodotto, ma sull’inseguimento della domanda e sul processo. Solo recentemente la fase appare maggiormente caratterizzata dalla dimensione trasnazionale dei processi di acquisizione e di riorganizzazione. Siamo in presenza di nuovi processi organizzativi a dimensione sovranazionale che vanno in parallelo con i processi di espansione della presenza delle imprese, soprattutto nei nuovi mercati dell’Europa centro-orientale. L’acquisizione di HVB da parte di Unicredit e le delocalizzazioni e le vendite societarie che hanno riguardato la stessa Unicredit e Banca Intesa, per non parlare di Generali o di Allianz e Axa, rappresentano solo le realtà di maggior rilievo di questa nuova fase. Inoltre, si è assistito nei settori del credito e delle assicurazioni a fenomeni diffusi di frammentazione della filiera in più aziende attraverso esternalizzazione delle attività con scorpori di rami aziendali ed appalti, segmentazione dei processi. La marginalizzazione delle attività e dei lavoratori rende sempre più difficile la difesa dell’area contrattuale e l’esercizio del controllo sindacale per l’applicazione dei diritti e delle garanzie. Gli ultimi anni, con le privatizzazioni, le concentrazioni e la ridefinizione della filiera su piu’ società, hanno visto l’affermazione del Gruppo come modello strutturale organizzativo della filiera e l’accentramento dei livelli decisionali e delle attività di Direzione sulla Capogruppo.

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Questo ha determinato mobilità del personale al di fuori del territorio e spesso perdita di lavoro a livello locale: in tal senso è anche necessario ripensare ad un sistema di rappresentanza sindacale locale che recuperi autonomia e capacità contrattuale e che permetta di ristabilire una più efficace comunicazione con i lavoratori e le lavoratrici sulle tematiche legate all’organizzazione del lavoro (organici, ambiente e salute e sicurezza). Banche/FABI/FIBA/Pezzotta Le privatizzazioni hanno portato con il conflitto di interessi anche una crescente autonomia del ruolo dei Banchieri. Il rapporto tra capitale industriale e capitale finanziario in Italia sembra oggi volgere a favore di quest'ultimo: il conflitto di interessi non si ridurrà per la massa ingente di crediti in convertendo che grava sui principali operatori del credito. Una volta diventate soci di grandi Gruppi industriali, siano essi Fiat, Telecom o Autostrade, le Banche italiane avranno ancor più difficoltà a separare il loro ruolo imprenditoriale da quello di soci interessati al sostegno sempre e comunque del capitale investito, diventando nel contempo prigioniere dei loro stessi affidati. In questo senso è emblematica la recente polemica fra l’A.D. della FIAT ed il Presidente del S.Paolo IMI circa la vendita del pacchetto FIAT. Questa autonomia consente il conflitto di interessi. Per rendersi autonomi dalla soggezione ai banchieri, e per avere quindi accesso al credito senza problemi di contingentamento, alcuni (non pochi) possessori di capitale industriale e/o speculativo (Gnutti), in un poco trasparente ed edificante sistema di intrecci tra banche e imprese, siedono (direttamente o indirettamente) in consigli di amministrazione di banche d'affari (e viceversa). Progressivamente estromesso lo Stato e progressivamente liquidato il piccolo capitale locale, i soli grandi banchieri si sono resi autonomi ed hanno preso le redini del comando. E’ evidente che occorre un rinnovato e forte protagonismo del Sindacato, che dovrà trovare autorevolezza nella sua coesione e nel radicamento tra i lavoratori.

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Occorre un Sindacato capace di un progetto di forte riformismo che si traduce in presidio dell’area contrattuale nella sua estensione ai nuovi processi societari, nell’indisponibilità ad ogni tentativo di precarizzazione del lavoro, nell’estensione dei poteri contrattuali in azienda, nel controllo rigoroso della prestazione lavorativa, nel pungolo costante nei confronti di Banche ed Assicurazioni perché si impegnino in un processo virtuoso a sostegno dell’economia nazionale. Ciò premesso certe fasi si risolvono positivamente solo in un modo: rendendoci come FISAC CGIL, come abbiamo sempre fatto, protagonisti di una rinnovata strategia sindacale che, partendo dalla riconferma del tavolo a cinque, detti regole di trasparenza capaci di far convivere valori ed azioni concrete nell’interesse delle lavoratrici e dei lavoratori. A tal fine viene riconfermato il giudizio positivo sul lavoro svolto dall’alleanza con FALCRI, FIBA CISL, UILCA e DIRCREDITO, che ha portato alla positiva conclusione del rinnovo del CCNL e alla sottoscrizione del Protocollo sullo Sviluppo Sostenibile, oltre a garantire con equità e senza precarizzazione gli intressi dei lavoratori nei continui processi societari e riorganizzativi. Si è trattato.di un bilancio molto positivo sancito da uno straordinario consenso e che ha visto tutte le Organizzazioni rafforzarsi in termini di iscritti e di insediamento nonostante la concorrenza aggressiva della FABI. Verso questa Organizzazione non è mai esistita una preclusione regressiva od umorale, né un’antistorica “conventio ad escludendum”, ma una valutazione meditata ed attenta sui suoi comportamenti, sulle scelte politiche e negoziali. Il recente patto politico ed organizzativo fra la CISL e la FABI ha modificato radicalmente il contesto dei rapporti unitari. A tal proposito ribadiamo l’indisponibilità della FISAC a subire una politica di potenza e di potentati. Occorre superare rapidamente l’attuale crisi nei rapporti unitari, ripristinare il tavolo a cinque e tutti insieme valutare la dichiarata evoluzione della FABI definendo collegialmente tempi e modi per una sua eventuale riammissione. Le ipotesi di lavoro A questa strategia la FISAC CGIL deve rispondere con il merito della politica sindacale, senza demonizzazioni, ma con fermezza e costanza a cominciare dalla contrattazione integrativa, in cui avviare la traduzione in norme dei concetti contenuti nel Protocollo. Vanno posti al centro delle rivendicazioni contrattuali i sistemi incentivanti, con particolare attenzione a ristabilire un corretto equilibrio fra salario

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fisso e variabile. Analoga centralità va riservata a percorsi formativi e di sviluppo professionale equi e trasparenti, nonché sistemi valutativi basati su criteri oggettivi e trasparenti svincolati dal raggiungimento di obiettivi meramente quantitativi. Più complessivamente una sempre maggior esigibilità delle norme. Poiché l’apprendistato sta diventando la tipologia prevalente di assunzione delle banche, la fase di rinnovo dei CIA dovrà introdurre in termini decentrati forme di controllo del rispetto degli obblighi formativi, nonché dell’effettivo ruolo di tutoraggio previsto dalla legge e dagli accordi nazionali. Il rinnovo dei CIA dovrà inoltre costituire un’importante occasione per estendere a tutte le lavoratrici ed i lavoratori i diritti contrattuali, previdenziali ed assistenziali previsti a livello aziendale per quelli a tempo indeterminato. Le ristrutturazioni dell’ultimo periodo hanno inoltre provocato nuove cessioni\scorpori di rami aziendali e recentemente i trasferimenti di attività fuori dal Gruppo e l’esternalizzazione oltre frontiera di lavorazioni a basso valore aggiunto. Di fronte ad aziende che tentavano di eludere le norme di legge sulla cessione di ramo d’azienda e sull’appalto, cercando di utilizzare tutte le forme di precariato e di annullamento dei diritti individuali e collettivi, la Fisac Cgil ha ingaggiato e continuerà ad ingaggiare una battaglia determinata, contrastando gli aspetti più deleteri di questa politica padronale. In conclusione il Congresso della Fisac-Cgil ritiene opportuno: • elaborare piattaforme che mantengano al centro l’area contrattuale e, nella logica

delle tesi congressuali, impediscano un’ulteriore frammentazione della catena del valore, favorendo al contrario la ricomposizione della filiera;

• rafforzare le normative sulla cessione di azienda e di ramo d’azienda, introducendo

la garanzia del collegamento societario, nella logica della “codatorialità” prevista dalle tesi congressuali, e, nei casi di cessione all’esterno del Gruppo, le garanzie di salvaguardia occupazionale, territoriale e di qualità del lavoro;

• potenziare i diritti di informativa e contrattazione sull’appalto ed il sub appalto e

sulle nuove forme di lavoro, coordinandosi con le altre categorie e presidiando il territorio, al fine di impedire l’interposizione fittizia di mano d’opera e l’introduzione surrettizia delle figure “atipiche”;

• prevedere, a fronte di una situazione di “disagio lavorativo” sempre più ampio e di

un peggioramento sostanziale delle condizioni di vita e di lavoro derivanti dai processi di ristrutturazione e dalle politiche esasperate legate al raggiungimento

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degli obiettivi aziendali, la continuazione dell’esperienza avviata con l’ultimo CCNL in materia di politiche sociali e di tutela della salute, ampliando la presenza degli RLS e rendendo più incisiva la battaglia sui diritti per la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori.

* * *

I nuovi processi organizzativi e la dimensione sopranazionale, che vanno in parallelo con i processi di espansione soprattutto nei nuovi mercati dell’Europa centro-orientale rendono essenziale un nuovo impegno del sindacato per affrontare queste problematiche ed i conseguenti riflessi contrattuali e occupazionali. La Fisac/Cgil ritiene, pertanto, necessario assumere la dimensione europea del settore quale elemento centrale del proprio ruolo e del proprio impegno, non disgiunta e non altra rispetto alla dimensione nazionale. Questo impone un sempre maggior impegno da parte di tutti i livelli della nostra Organizzazione, ma anche la necessità di rivedere il nostro modello di funzionamento. Come ha evidenziato il nostro Segretario Generale nella sua relazione la Conferenza di Organizzazione sarà anche la sede in cui ricercare un equilibrio maggiore fra Gruppi, Aziende e Territori sia nella composizione dei gruppi dirigenti, sia nell’individuazione di un nuovo equilibrio politico ed organizzativo che consenta la redistribuzione di poteri e risorse. Abbiamo la consapevolezza che le complesse sfide del futuro si risolveranno con un gruppo dirigente preparato e consapevole a tutti i livelli dell’Organizzazione.

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Cari compagni e care compagne, cari delegati e care delegate, graditi ospiti, celebriamo il 4° Congresso della Camera del Lavoro Metropolitana di Messina in un momento particolare del nostro paese. Speriamo, questo, possa essere un appuntamento importante e significativo di discussione, di proposte, in questo modo non solo definiremo la nostra linea programmatica per i prossimi anni ma daremo un contributo al 15° Congresso della CGIL che si terrà il prossimo marzo, il 3,4 e 5, a Rimini sotto lo slogan “riprogettare il paese” perché dopo anni di disastri ricostruirlo non si può. Noi abbiamo contribuito al percorso congressuale celebrando 13 congressi provinciali di categoria, tutti di grande significato, che hanno consentito di approfondire le tematiche dei settori e dei comparti, abbiamo tenuto il congresso della Camera del Lavoro di Milazzo come unica Cdl di medio centro dove si sono rilanciate la tematiche industriali e del risanamento ambientale nella nostra provincia. Abbiamo svolto centinaia di assemblee di base, di luogo di lavoro, di lega comunale che sono state occasione importante per rinsaldare il rapporto con i lavoratori, con i disoccupati, con i giovani, con i pensionati. Abbiamo sperimentato anche le assemblee congressuali di distretto incominciando a costruire le piattaforme per la contrattazione territoriale e sociale. A questi appuntamenti hanno partecipato discutendo e votando il documento unitario e le 10 tesi migliaia di donne e di uomini dei 54 mila iscritti che la CGIL ha nella nostra provincia e che la rendono la più grande organizzazione presente sul territorio. Questa importante fase è stata l’occasione per verificare che nonostante le difficoltà e gli attacchi ricevuti il sindacato confederale, la CGIL, resta un presidio di democrazia di partecipazione, utile al paese ed al suo sviluppo. Sono passati 4 anni dall’ultimo Congresso nel quale abbiamo discusso dei pericoli che correvamo ma anche delle prospettive che si erano aperte e delle speranze di cambiare la situazione del paese, della sua economia, del lavoro e dell’occupazione, osservando che, pur in un quadro denso di difficoltà e problemi, erano molte le opportunità da cogliere. Pensavamo che, pur con un liberismo globale senza regole per la protezione dei diritti dei lavoratori che spirava non solo nel nostro paese, ci sarebbe stata la possibilità di ricerca d’accordi e regole . Pensavamo che l’Europa, all’indomani del periodo che aveva portato alla moneta unica, avrebbe potuto esprimersi con una impostazione alta di politica economica e sociale, quella definita dagli obiettivi dell’Agenda di Lisbona e garante dei diritti secondo la certa di Nizza. Tutto ciò non è stato, anzi. La coalizione di centrodestra che ha vinto le elezioni nel 2001 sostenuta dal patto con la Confindustria stigmatizzato nel Convegno di Parma ha invece da subito avviato provvedimenti di politica economica e sociale di direzione chiaramente opposta: quelli tesi a ridurre ogni vincolo per l’impresa; quelli che portavano un attacco esplicito ai diritti dei lavoratori, con l’intervento sull’articolo 18; l’attacco alla scuola. Provvedimenti che si sono sommati ad altri come quelli dei cento giorni e la prima finanziaria, tanto inefficaci quanto dissipatori di risorse e pieni di iniquità. La situazione mondiale si è aggravata per il ruolo aggressivo svolto dagli Stati Uniti di Bush che con la sua guerra preventiva ha messo in discussione la pace nel mondo ed il governo democratico di tutte le istituzioni a cominciare dall’ONU. Si è interrotta la lotta contro la povertà e le disuguaglianze tra il nord ed il sud, quella contro il lavoro minorile e contro la fame ha subito un brusco rallentamento e le stesse

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iniziative meritorie come la “tobin tax”o la fornitura dei farmaci salvavita assieme alle quote di bilancio degli stati da destinare ai paesi in via di sviluppo hanno subito un brusco arresto. Nei paesi economicamente avanzati sono cresciute la precarietà sociale e l'insicurezza come risultato dell’impoverimento e della crescente precarizzazione del lavoro dipendente. La globalizzazione e le nuove interdipendenze e differenze che ha determinato rischiano di trasformarsi in conflitti esasperati, tra paesi, continenti, lavoratori e lavoratrici, costituendo una vera propria acqua di coltura per terrorismo e guerra, e non c’è possibilità, allo stato attuale, di ricomposizioni sulla base di un riconoscimento reciproco. Il ruolo dell’Unione Europea che tante speranze aveva portato con l’introduzione dell’Euro e l’allargamento a 25 che avrebbero dovuto portare all’Europa sociale ed all’approvazione della Costituzione si è paralizzata divedendosi sulla guerra in Iraq e sulle quote di partecipazione al bilancio comunitario. A distanza di 4 anni la situazione del paese si presenta drammatica, connotata da una crisi profonda: dissesto produttivo ed industriale, recessione, carenza di infrastrutture materiali e immateriali, assenza di politiche e di strategie verso il Mezzogiorno,arretramento nella qualità della scuola, della ricerca e dell’università, una politica sociale che, senza affrontare i problemi dell’efficienza e della qualità dell’offerta pubblica, attraverso una sistematica politica di riduzione delle risorse, ne ha colpito il carattere universalistico e ha finito per privilegiare un’offerta privata di bassa qualità e di alti costi, senza attenzione verso le crescenti aree della povertà, del disagio, della emarginazione. E’ aumentata la precarietà, sono nate nuove forme di lavoro che non offrono ai giovani alcuna garanzia per il loro futuro né sulla qualità dell’occupazione né sui livelli retributivi né sulla loro prospettiva di vita. L’Italia è oggi insieme un paese più disgregato, più diviso, più insicuro dal punto di vista economico e sociale, e ancor più sotto il profilo della qualità della vita democratica e dell’etica pubblica. Un paese dove sono aumentate le disuguaglianze e l’impoverimento di ampi strati sociali fra cui i giovani, le donne e gli anziani. Un paese dove la criminalità organizzata ha rialzato la testa e le illegalità sono cresciute. L’Italia si presenta come il grande malato dell’Europa, per le proprie condizioni materiali e per quelle in cui versano giovani, lavoratori e pensionati. E’ un paese che deve essere riprogettato ed il nostro congresso vuole offrire a chi dovrà governarlo proposte radicali per consentirlo. A cominciare dall’abolizione dei nefasti provvedimenti adottati in questi anni. La CGIL già allora aveva lanciato il grido d’allarme ed aveva previsto e temuto che il sistema produttivo, tutto tipico del capitalismo familista italiano, sarebbe stato travolto dalla crisi arrivata come una gelata dopo l’11 settembre 2001. Aver sposato l’idea della competizione sui costi, in primo luogo sul costo del lavoro e non sulla qualità sull’innovazione e la ricerca, aggredendo i diritti e le tutele contro le direttive dell’Unione europea, si è rivelato un errore drammatico. Il Governo di centrodestra è stato portatore di una politica economica neo liberista, miscuglio di localismo e di egoismo sociale, tutta rinchiusa a difendere gli interessi di gruppi e mai quelli generali, che si è rivelata pericolosa miscela d’incompetenza ed inadeguatezza in politica economica e in politica finanziaria e fiscale, tanto che entrambe in meno di 5 anni hanno dovuto subire spesso forti cambiamenti, contraddicendosi anche nel corso di vigenza di una stessa finanziaria. Nei suoi primi 100 giorni, forte di una maggioranza schiacciante, ha dimostrato com’era possibile togliere i vincoli alle imprese, aggredire la CGIL attaccando i diritti dei lavoratori

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come emblematicamente dimostrato dalla vicenda dell’art. 18, tentando di dividere il sindacato con il bluff del Patto per l’Italia per fiaccarne la resistenza e cancellare poi i diritti conquistati in 50 anni di lotte, abolendo tutele, degradando la convivenza civile e imponendo la cultura del mercato e del capitale su quella del lavoro, principio fondativo della nostra costituzione. Non c’è riuscito del tutto per la resistenza e le straordinarie lotte messe in campo dalla CGIL, dal sindacato nel suo complesso da altri settori della cosiddetta società civile che man mano si è risvegliata ed è diventata sempre più crescente fino a diventare la stragrande maggioranza del paese. Purtroppo tutti questi sforzi non sono riusciti a fermare il declino del paese, la crisi profonda che n’è scaturita, il blocco della crescita che ormai è costante da 2 anni certificato da tutti gli indicatori dalla macroeconomia all’economia delle famiglie, dal commercio estero calato paurosamente alla incapacità di reggere alle nuove sfide della competitività con i paesi dell’Europa e di quelli che si affacciano in mercato globale. I conti pubblici come certificato da tutti gli organismi di controllo internazionale a cominciare dall’Unione Europea sono fuori controllo . Il governo, dopo aver chiesto il superamento del vincolo di Maastricht che ha minato la tenuta dell’economia degli stati europei più virtuosi e essersene vantato il merito, ha fatto l'ennesima figuraccia e, come dimostra l’ultima previsione della finanziaria, non è riuscita a rispettarne i parametri. Il giorno dopo aver approvato la finanziaria si è costretti ad altre correzioni mentre cresce il fabbisogno pubblico, non si ha avanzo primario e la spesa è fuori controllo. E’ calato paurosamente il livello di socialità e di qualità della vita che non è misurata solo dal consumo di telefonini né dall’abbonamento alla TV digitale ma testimoniata dalla crisi della quarta e a volte della terza settimana per fasce sempre più larghe di famiglie cadute sotto il livello di povertà. I continui tagli a regioni e comuni che nella finanziaria 2006 sono arrivati a livello di insopportabilità e di dissesto hanno minato assieme al welfare anche la coesione sociale del paese. Si è pensato di scaricare per questa via sulle autonomie locali il fallimento della politica economica per costringerli ad aumentare l’imposizione locale le tariffe ed i tributi per penalizzare coloro che si erano disimpegnati o si erano messi contro ma anche per costringerli a tagliare i servizi pubblici ai cittadini. L’azione del governo ha prodotto guasti e degrado determinando povertà e disagio, precarietà ed emarginazione solitudine ed abbandono. Ha inoltre disgregato il tessuto sociale riducendo gli spazi di democrazia smantellandone quelle della partecipazione. Ha attaccato in maniera decisiva quelli più sensibili tentando di rendere irreversibili i sistemi del loro funzionamento, avendo anche la tentazione di creare un regime autoritario vero e proprio senza utilizzo della violenza ma controllato da forme sofisticate di poteri mediatici. UN NUOVO GRANDE FRATELLO. Ha attuato la politica del bavaglio, della subordinazione della sottomissione all’esecutivo di tutti i poteri, minando autonomie e equilibri, acuendo le conflittualità. Gli strumenti più sensibili per una democrazia hanno subito manipolazioni e alterazioni, dall’informazione, alla giustizia, dalla istruzione scolastica ed universitaria alla ricerca. Tutte sono state oggetto di attenzione con una produzione legislativa a senso unico sostenute da maggioranze silenziose ed obbedienti. Nell’informazione, dove già era evidente il conflitto d’interesse, la legge Gasparri, che invano era stata rallentata dal Presidente della Repubblica, ha permesso il salvataggio di Rete 4, mentre le norme sul decoder e sul digitale terrestre hanno allargato l’influenza ed il

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business anche al fratello del nostro Presidente del consiglio fino al monopolio ed al controllo di tutti i sistemi informativi pubblici e privati. Nella giustizia, con l’ attacco continuo dell’Ingegnere che ha usato il ministero come una clava, e con l’aggressione quotidiana degli avvocati in parlamento che accusavano i magistrati per intimorirli ed approvare una legge che non consentirà più di esercitare il principio di legalità. Questa legge è stata approvata nonostante innumerevoli scioperi dei magistrati, degli avvocati e degli operatori, le prese di posizione contrarie di tutti i presidenti della Corte costituzionale ed è stata solo la penultima di una lunga serie…. tutte leggi ad personam, da quella sulle rogatorie internazionali, a quella sulla sanatoria per il rientro dei capitali dall’estero, anche e per lo più illegali, da quella sul falso in bilancio, aggravata dalla recente riforma del risparmio e della Banca d’Italia che ne attenua ulteriormente gli effetti, a quella sul legittimo sospetto, o l’ultima, la cosiddetta legge Cirielli che riduce i termini della prescrizione dei reati e fa scarcerare gran parte degli imputati. Il colpo più grave per il paese è però stato inferto dalla devolution che riforma la Costituzione, divide il paese, frantuma i diritti fondamentali di cittadinanza quali la sicurezza, l’istruzione, la salute, il welfare, parcellizzandoli per territori di residenza introducendo “muri” regionali invalicabili per i diritti dei cittadini delle regioni più povere. Si rompono gli equilibri previsti dalla Costituzione repubblicana, antifascista, fra i poteri dello Stato ed i loro organismi. In questo modo si sono dati pericolosamente all’esecutivo e al premier poteri che potranno sfociare nella negazione della democrazia parlamentare per sostituirla con quella plebiscitaria, alla sudamericana. In questo modo si è sterilizzato e svuotato il ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica, si è asservita, riducendone l’autorevolezza, la Corte costituzionale, e si è impedito il corretto ed equilibrato funzionamento del Parlamento. In questo modo non migliorerà l’efficienza della democrazia ed il funzionamento del sistema, ma si affermerà soltanto il disegno neoautoritario della dittatura della maggioranza. Tutto ciò è evidenziato anche nella legge di riforma elettorale recentemente approvata dove assieme al ritorno al sistema proporzionale apparentemente in controtendenza si afferma il principio delle liste preconfezionate con le candidature calate dall’alto che impediranno la libera scelta degli elettori. TUTTO QUESTO NON POTRA’ E NON DOVRA’ PASSARE Occorre pertanto con il referendum impedire che la devolution entri in vigore. Con una grande mobilitazione, raccogliendo le firme nei tavoli già predisposti dal comitato “salviamo la costituzione “ presieduto dal Presidente Scalfaro a cui la CGIL da il suo contributo ed il suo sostegno. Occorre ribadire con forza che i principi sanciti dai Padri costituenti non possono essere rinnegati, innanzitutto quelli antifascisti. Occorre evitare la tentazione di equiparare il sacrificio dei partigiani che hanno lottato per la liberta a quelli dei reduci di Salò che si sono opposti a difesa del regime fascista. Bisogna ribadire il principio della laicità dello stato nato dalla lotta risorgimentale e separare il ruolo dello stato da quello della chiesa in una sfera di reciproca autonomia in cui esercitare il loro ruolo. Contrastare i tentativi di rigurgito clericale e confessionale nella sfera delle libertà individuali con i tentativi di captare benevolenza di là del Tevere. Battendosi contro la modifica della legge 194 che in maniera strisciante ma manifesta viene portata avanti,uscendo dal silenzio assieme alle nostre donne e per impedire che le legislazioni privilegino le confessioni e queste abbiano la prevalenza sulle libertà individuali e civili (PACS) .

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Difendere la laicità dello stato significa anche battersi per la libertà nella ricerca scientifica così attaccata dalla legge sulla procreazione assistita dalla gerarchia ecclesiastica. A caratterizzare il tutto, quasi a condire, direi, la riforma dell’istruzione, la riforma Moratti dove si è inteso introdurre forme di attacco alla laicità dello stato ed al suo ruolo autonomo con una miscela d’ideologia confessionale e classista . Questa legge riporta il sistema scolastico a quello precedente la scuola dell’obbligo, reintroducendo l’avviamento professionale come strumento di selezione per una società sempre più stratificata che dilata le ingiustizie. Consente il finanziamento pubblico delle scuole e delle università private in dispregio al principio costituzionale per spostare risorse e privilegi fiscali verso un sistema in gran parte inefficiente, produttore di diplomifici ed inutili attestati, che blocca la mobilità sociale ed impedisce ai figli degli operai e dei contadini di potersi realizzare secondo il principio delle pari opportunità. Un altro pezzo importante della produzione ideologica di rottura della coesione sociale e di indebolimento della solidarietà che hanno caratterizzato l’attività di questo governo, è la legge 30, la cosiddetta legge Maroni e Sacconi, dove i 50 tipi di contratti atipici sempre più convenienti per le aziende sostituiscono quello a tempo indeterminato contenente tutele e diritti. La legge 30 ha demolito la costituzione materiale nei suoi principi fondamentali, modificando nei fatti il disposto dell’art.1, sicchè oggi non possiamo più limitarci a dire che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro …, ma sul lavoro precario, semmai! La legge sull’immigrazione, la Bossi Fini, ha negato i diritti degli immigrati e ha mortificato la dignità di un popolo che essendo stato un popolo di emigranti fino a qualche decennio fa dovrebbe fare della cultura dell’accoglienza un principio fondamentale. Il Mezzogiorno è stato fortemente penalizzato da una politica filo leghista fino al punto da dovere subire il blocco degli investimenti per infrastrutture e la fine degli incentivi per le imprese che avevano portato un certo beneficio negli anni passati. Non si è rispettato il patto di solidarietà che doveva assegnare almeno il 40% delle risorse del Paese al Mezzogiorno: mai risorse sono state più ridotte di quelle destinate e spese negli ultimi 4 anni, e paradossalmente dopo gli impegni che erano stati sottoscritti nel contratto con gli italiani e nelle cartine di Vespa che si sono rivelate bugie colossali. La legge Tremonti che ha segnato la fine sostanziale degli incentivi previsti dalla legge 488, dei Patti territoriali e degli strumenti della programmazione negoziata che pur fra limiti e contraddizioni avevano segnato un’inversione di tendenza, l’assenza di una politica infrastrutturale nel mezzogiorno, il fallimento d’Agenda 2000 e dei fondi strutturali che hanno fatto del Mezzogiorno la regione più arretrata d’Europa. Rispetto a questo quadro di devastazione economica e sociale occorre riprogettare il paese, avviando un radicale, forte, deciso cambiamento, perché se non cambiano le scelte, i valori, le priorità, l’Italia si allontanerà dall’Europa e precipiterà in una crisi irreversibile. Per fare questo occorre ricreare le condizioni per riscrivere il Patto di cittadinanza che è la base sociale dei diritti e dei doveri, occorre determinare il profilo di una nuova etica pubblica, una pratica della democrazia e della partecipazione, il ripristino di una cultura delle regole e del rispetto d’ogni prerogativa istituzionale nel rispetto delle reciproche autonomie. Un cambiamento profondo fondato su alcuni assi fondamentali come la centralità del lavoro, la sua qualità come contenitore dei diritti, l’idea di sviluppo fondato sulla conoscenza, sull’innovazione, sulla formazione, sulla sostenibilità.

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Un metodo di programmazione democratica e partecipata dello sviluppo tra rafforzamento del welfare - inteso esso stesso fattore di sviluppo e di redistribuzione-, con un nuova politica fiscale che lo sostenga. La centralità dello sviluppo del Mezzogiorno come interesse nazionale che, come detto nella manifestazione di Reggio Calabria dello scorso dicembre fra CGIL-CISL-UIL, Confindustria e Coordinamento delle Regioni, individui alcune priorità politiche. Come un quadro di certezza delle risorse che porti rapidamente la quota del Mezzogiorno al 45% sul totale nazionale e assicuri certezza sull’addizionalità dei nuovi Fondi Europei 2007-2013. Come il miglioramento delle condizioni di fare impresa nel Mezzogiorno, la creazione di occupazione con la fiscalità di vantaggio, le semplificazioni amministrative, la promozione dei prodotti e dei servizi del Sud. Come il potenziamento della dotazione infrastrutturale che sviluppino i collegamenti e la mobilità con il resto del mondo, creando porti hub anche come poli localizzativi, attivando le autostrade del mare, gli interporti, le connessioni mare-ferro, nuovi collegamenti aerei e tariffe a basso costo, reti telematiche. Come l’avvio della valorizzazione e il risanamento delle città e delle periferie, e la valorizzazione dei saperi che nel Mezzogiorno si traduca in una cultura dell’accoglienza turistica potenziando l’offerta culturale e ricreativa. Lo sviluppo del Mezzogiorno non è solo un dovere etico ma è un’opportunità per lo sviluppo dell’intero Paese. Per la CGIL un’altra priorità deve essere la lotta alla precarietà del lavoro che, per dimensioni e conseguenze sociali, è diventata la piaga più odiosa di tante lavoratrici e lavoratori, ABOLENDO COME PRIMO ATTO DI GOVERNO LA LEGGE 30. Un processo serio di riconversione economica e produttiva deve essere fondato su una politica di solida e stabile occupazione. I diritte e le tutele contrattuali e sociali dovranno caratterizzare il modello economico, produttivo e sociale e dovranno essere fattore di competitività, ridefinendo per questa via una nova identità dell’Italia ma anche dell’Europa. Così si ridurrà la precarietà dei giovani, degli anziani, degli immigrati costretti a vivere nell’illegalità e s’impedirà di scaricare sulla condizione femminile gli effetti della crisi industriale e della distruzione del Welfare. Una politica del lavoro dovrà determinare un’assunzione di responsabilità delle imprese ed loro ruolo sociale in coerenza con l’art. 41 della Costituzione per impedire i fenomeni delle delocalizzazione, dei trasferimenti di produzione in altri paesi a più basso costo e minori diritti come quelle delle condizioni di lavoro della prevenzione contro i rischi e le nocività. Un nuova politica industriale deve basarsi sul Mezzogiorno, sulla ricerca, sull’innovazione, sulla crescita dimensionale delle imprese in raccordo con le specializzazioni e le politiche industriali e di sviluppo dei grandi paesi dell’Unione Europea, con un ruolo pubblico della programmazione democratica che sappia orientare nel mercato la qualità dell’offerta e dei contenuti tecnologici sempre più alti finalizzati agli obiettivi di crescita e di sviluppo. Per raggiungere questi obiettivi occorrono risorse adeguate da indirizzare verso investimenti e fattori di crescita oltre ad una politica che individui strumenti e metodi fortemente partecipati. Una nuova politica fiscale intesa come patto di cittadinanza e d’uguaglianza che faccia crescere i redditi di stipendi e pensioni ed individui i trasferimenti selettivi per gli investimenti. Occorre riequilibrare la tassazione fra redditi da lavoro, rendite e patrimoni avviando una politica redistributiva fra tutti i redditi che costituisca il sostegno alla contrattazione, e a una politica di investimenti.

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Solo così si riporta il capitale verso l’investimento produttivo allontanandolo da quello finanziario e speculativo e si evita che i furbetti del quartierino possano avere accesso alle scalate finanziarie. Non e’ più proponibile la politica dei due tempi anche perché la cinghia dei lavoratori è troppo stretta! Una nuova politica fiscale deve abiurare i condoni, le sanatorie e avviare una rigorosa lotta al lavoro nero sommerso irregolare non solo per ragioni etiche e di solidarietà ma soprattutto per ragioni economiche, impedendo la concorrenza sleale fra le imprese a scapito della collettività derubata, in questi anni, di quantità di ricchezza evasa, una quantità immensa. Occorre rilanciare l’intervento pubblico in economia ed un ruolo decisivo dello Stato per far funzionare il mercato. Non è più tollerabile l’intreccio fra le scalate ed il consolidamento di posizioni di privilegio che hanno concentrato in forme improprie partecipazioni pubbliche e disponibilità finanziarie in società e contenitori occulti, snaturando le stesse privatizzazioni . L’intervento deve consentire ai mercati di essere efficienti e trasparenti, regolati nell’interesse dei cittadini, dei consumatori, dei lavoratori, delle imprese e dei risparmiatori. L’intervento pubblico dello Stato è necessario anche per difendere le produzioni strategiche del paese ed i beni collettivi di rilevanza sociale. Questo appare decisivo sui terreni dell’innovazione di prodotto, della ricerca e nella formazione, nelle politiche infrastrutturali materiali ed immateriali, nella gestione del territorio, nella promozione di politiche di investimento per le aree svantaggiate dei fondi europei, nelle politiche ambientali, del ciclo dei rifiuti e della ricerca delle fonti energetiche alternative. Un’altra priorità per lo sviluppo del paese è una nuova politica del welfare che dovrà avere l’obiettivo dell’inclusione sociale e quello di fattore di redistribuzione contro le povertà e le disuguaglianze. Un welfare universale e di qualità fondato sui principi di uguaglianza e cittadinanza, garanzia di esigibilità dei diritti costituzionali e difesa dei beni comuni. Siamo convinti che uno stato sociale nuovo dovrà garantire nelle sue funzioni fondamentali la sicurezza, la prevenzione, la salute, l’assistenza, l’istruzione, la previdenza . Sarà nel contempo fattore di sviluppo esso stesso generando servizi sempre più estesi e personalizzati. Ma, prioritariamente, dovrà affrontare le due condizioni sociali di maggiore disagio, quella degli anziani non autosufficienti e quella della prima infanzia. In Sicilia le condizioni di crisi segnate a livello nazionale hanno determinato un vero e proprio disastro, aggravato dalla presenza della criminalità e della mafia che ha visto coinvolto direttamente, in numerose vicende, lo stesso governatore Cuffaro oltre che numerosi rappresentanti del governo e dell’Assemblea Regionale. Siamo in presenza della desertificazione industriale con la scomparsa o la crisi dei grandi poli di sviluppo la crisi della grande industria. Assistiamo al fallimento dei fondi strutturali utilizzati per spese ordinarie e tappare le emorragie del bilancio regionale oltre che a foraggiare le clientele e la mafia. Assistiamo al dissesto finanziario della regione, assieme a quello territoriale ed ambientale incoraggiato dai continui condoni, caratterizzato da un tasso di disoccupazione sempre altissimo, da un tasso di povertà del 30% , da quello di analfabetismo doppio rispetto al resto del paese. Tutto questo viene spacciato come buon governo. Le vicende di questi giorni nell’approvazione della finanziaria e l’arroganza con la quale si ripropongono le norme impugnate dal Commissario dello Stato con le quali s’intendeva e

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si intendono alacremente foraggiare le clientele fameliche necessarie alla costruzione del consenso per le prossime elezioni, dimostra come il cuffarismo sia ormai anche la degenerazione della politica in Sicilia. La guerra per la nomina dei dirigenti delle ASL, molti dei quali chiacchierati, altri indagati per mafia, segue la rotazione indecorosa di alcuni mesi fa, confermando la sfrontatezza di questo governo. In Sicilia infatti la sanità ha rappresentato e rappresenta la chiave di volta della politica di Cuffaro sia per il rapporto politica-affari, con le convenzioni private ad un numero scandalosamente ed incredibilmente più alto che nel resto del paese - 1850 ! -, che in quella del legame stretto con la criminalità organizzata come la vicenda Aiello dimostra. Mentre i soldi erano pochi, Cuffaro li buttava dalla finestra ai privati ed ai mafiosi. Mentre i siciliani soffrivano, lui appesantiva i costi a carico dei cittadini con ulteriori tickets per fare fronte alle sue scelte scellerate. E dopo avere avuto il rimborso delle tasse dallo stato lo ha sprecato in altre spese allegre finanziando scelte parassitarie e nuove clientele. Un altro fatto rappresentativo è lo snaturamento della legge Ronchi che in Sicilia, con un piano di rifiuti voluto da Cuffaro Commissario straordinario, ha moltiplicato gli ATO, i CdA, le spese per gli amministratori, il tutto legato al suo enturage, in attesa dell’affare termovalorizzatori e in costanza dell’affare discariche, provocando un rialzo inaudito dei costi a carico dei cittadini. Se è vero che la politica sanitaria della regione è stata decisa in un retrobottega di Bagheria, chissà in quali altri luoghi extraistituzionali è stata decisa la politica degli altri settori …. magari anch’essa in un rapporto stretto con ambienti illegali. La legge sugli appalti tanto voluta da Cuffaro e desiderata anche dagli imprenditori edili siciliani non consentirà di contrastare la mafia in un settore tradizionale di infiltrazione e collusione. Anzi, rischia di favorirle. In questo contesto Messina e la sua provincia continuano ad essere un esempio di crisi permanente, il tessuto economico, sociale, civile, politico è andato in questi anni disgregandosi fino a relegare la nostra città in coda a tutte le graduatorie nazionali. E se oggi non siamo più all’ultimo posto è solo perché la politica disastrosa del governo nazionale ha determinato un peggioramento degli altri , non un nostro miglioramento. Permane un tasso di disoccupazione del 35% che al netto degli abbandoni, di chi ha perso la speranza nella ricerca di un lavoro, significa quasi 150.000 disoccupati, un dato che riferito ai giovani in età compresa tra i 25 ed i 29 anni supera il 40%, con un mercato del lavoro che non accoglie ma respinge e costringe più di 5000 messinesi ad andare via, privando il sistema produttivo locale delle energie più produttive e più professionalizzate, impoverendo sempre di più il territorio e aumentandone la sofferenza. Abbiamo un tasso di occupazione irregolare pari al 70% fatta di lavoro nero sommerso e precarietà multiforme certificata dagli organismi istituzionali di controllo,(INPS,INAIL,ISPETTORATO DEL LAVORO,PREFETTURA,CASSA EDILE ). La nostra è una provincia con 200.000 pensionati, la cui stragrande maggioranza ha un reddito inferiore ai 400 euro al mese. E’ una provincia dove sono continuati i fallimenti e le dismissioni di aziende industriali e nei servizi, sono fallite la gloriosa SMEB cantieri navali, la CIAPPAZZI, la MIRA COMPONENTI ,la ceramiche CALECA e nessuna nuova iniziativa è stata assunta a eccezione di qualche insediamento commerciale di dubbia sostenibilità e trasparenza finanziaria. E’ una economia non solo debole ma ancora in regresso nel 2005 nella quale i settori tradizionali quali l’agricoltura, l’artigianato, il commercio, mostrano scarsa capacità innovativa ed un’asfissia grave. Il regresso è in termini sia relativi che assoluti: diminuisce

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il numero di imprese e la loro capacità di creare occupazione, e l’arretramento è più grave che nel resto della Sicilia. E’ un’economia debole e povera, la nostra, che non trova occasioni per rilanciare lo sviluppo, e la gran parte della ricchezza è concentrata in pochissime famiglie e gran parte della produzione e del fatturato viene dai due grandi siti industriali, quello petrolifero e quello energetico e dall’attività di traghettamento. Permane una forte illegalità, un’economia criminale fatta di traffico di droga che, come dice il Procuratore della Repubblica dott. Croce, condiziona i ritmi, i tempi, la quantità e la capacità di consumo nei villaggi e nei quartieri. Truffe, riciclaggio, usura con una forte proliferazione di agenzie finanziarie che testimonia l’aumento del fenomeno di persone che si rivolgono al credito irregolare. A fronte di tutto ciò la politica non è stata all’altezza del suo compito. C’è stata una debolezza strutturale per la frantumazione degli interessi, a seguito della fine dei grandi partiti nazionali, e un’incapacità nel formare e selezionare classi dirigenti all’altezza del compito. I parlamentari nazionali Messinesi, quelli regionali, le istituzioni locali sono state prese dal piccolo cabotaggio, dalla ricerca e dal mantenimento del consenso attraverso il clientelismo. Questo sistema ha portato la politica a umiliarsi ed immiserirsi mentre personaggi ombrosi controllano, speculano si arricchiscono e, di fatto, sono il vero governo il territorio. Questo è evidente soprattutto nei quartieri e nei villaggi della città capoluogo ma anche in vaste aree degradate della nostra provincia. Sono questi i fatti che spiegano i fenomeni di transumanza da uno schieramento all’altro: il cosiddetto pensiero debole non è moderatismo ma solo il tentativo di mantenere i privilegi derivanti da questo modo di intendere la politica. L’imprenditoria locale non riesce ad affrancarsi dalla logica della protezione politica, fatta di dipendenza dai rivoli di spesa pubblica e seppur con alcune lodevoli eccezioni, vive sostanzialmente nella logica del mercato locale e non è disponibile a confrontarsi con i mercati esterni. Gia nel marzo del 2003, alla presenza del Segretario generale Epifani avevamo lanciato l’allarme indicando Messina come priorità nazionale, un allarme fatto di denunce ma soprattutto di proposte. Oggi la CGIL vuole rilanciare Messina chiamando a raccolta tutte le forze sane e disponibili a condividere una progettualità ed un programma che, partendo dalle potenzialità presenti ancora nel territorio, si metta al servizio dello sviluppo, lo coniughi con il lavoro, con la tutela dei diritti, che sia strumento di lotta alla precarietà ed al degrado sociale con un confronto trasparente con la politica e le istituzioni locali nazionale e regionali senza invasione di campo né confusione di ruoli. Partendo da un coinvolgimento forte dei saperi. Come CGIL lo abbiamo fatto creando il Sindacato della conoscenza, con la la valorizzazione del rapporto con la nostra Università che anche in condizioni difficili e dopo un’esperienza di rottura e discontinuità (quella del verminaio del dopo omicidio Bottari purtroppo ancora senza colpevoli ) ha saputo un avviare un percorso di consolidamento per coniugare sempre di più la sua attività allo sviluppo del territorio, in un confronto stretto con le forze sociali. La stessa cosa deve essere avviata con il CNR per mettere in condizione la ricerca e l’innovazione sia sempre più applicata al territorio per lo sviluppo della sua economia in settori strategici come i trasporti, l’energia alternativa, l’ambiente o la biomedica.

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Con la Camera di Commercio che è stata in un periodo strumento di promozione e di coordinamento dei vari soggetti sociali ma che è diventata purtroppo un’istituzione paralizzata, rischiando di rimanere invischiata sempre di più nella vicenda del suo presidente di cui si è denunciata l’assenza ma anche la presenza ingombrante in alcune attività poco chiare nell’ambito degli strumenti della programmazione negoziata per obiettivi ancora tutti da chiarire. Se Billè ha rappresentato una risorsa per le prospettive economiche della nostra provincia con il suo ruolo nazionale, oggi rappresenta una remora di cui occorre liberarsi. Così come per Messina Sviluppo e per la prospettiva del contratto d’area di Villafranca. Il comune di Messina dopo 2 anni di commisariamento, frutto della protervia, dell’arroganza di monopolizzare le istituzioni messinesi per subordinarle agli interessi personali e di partito, con l’avvenuta elezione del nuovo sindaco ha oggi un’occasione straordinaria di rilancio. L’on. Francantonio Genovese con la sua giunta, sostenuto da un forte consenso popolare per il cambiamento, anche senza maggioranza consiliare potrà invertire un modo, un metodo, avviando quello del confronto, quello della concertazione con tutte le parti sociali, definendo programmi e progetti per ridisegnare la città, per individuare gli investimenti necessari, gli strumenti di finanziamento, le priorità, i tempi di realizzazione. Partendo dal rilancio dell’edilizia e delle costruzioni pubblica e privata per fare di Messina una città vivibile dove il diritto alla casa sia esigibile ma anche quello ad avere gli spazi, il verde ,l’arredo urbano, il recupero del tessuto edilizio. Occorre rilanciare anche l’edilizia privata in una logica non più speculativa ma di rispetto del PRG, rivedendo ed annullando tutti i project financing avviati da Scoglio e definiti senza nessun confronto con la programmazione democratica della città. Occorre completare le incompiute quali gli svincoli di Giostra e dell’Annunziata finanziati dall’accordo di programma del 1990, trovando subito le risorse per finanziare il completamento dell’approdo di Tremestieri, previsto dall’APQ DEL 2000, e gestito dal commissario straordinario che per rinuncia del sindaco di allora è stato individuato nel Prefetto. L’emergenza traffico e la liberazione dai TIR non cesserà se non si aggiungeranno i moduli necessari per convogliare tutto il traffico gommato che attraversa la città. L’altra incompiuta è rappresentata dal mancato risanamento dalle baracche post terremoto. Questa deve diventare occasione di bonifica territoriale e sociale con le necessarie risorse che occorre trovare alla regione siciliana. In questo contesto bene ha fatto il sindaco ad attribuire lo strumento di un assessorato per venire a capo di una vicenda che è considerata uno scandalo nazionale con il coinvolgimento di tutti i parlamentari nazionali. Tutto questo è fondamentale per rendere manifeste le bugie di Berlusconi in campagna elettorale. Le sue bugie hanno avuto le gambe troppo corte perché non c’è stata né l’inaugurazione di Tremestieri il 5 dicembre, né la nomina del commissario governativo per lo sbaraccamento ! Ma occorre fare presto e bene, non c’è più tempo da perdere , siamo alla vigilia del centenario del terremoto e vorremmo che a quella data non ce ne fosse più traccia. Occorre inoltre determinare condizioni di sviluppo del porto di Messina integrato con quello di Milazzo affinché le attività marinare e mercantili si possano sviluppare in previsione dell’avvio dell’area di libero scambio del 2010, affinché sia possibile un nuovo protagonismo dello stretto di Messina rilanciandone l’area integrata, con la bonifica della rada S.Francesco ,il recupero del water front , lo spostamento della Fiera nell’area ex

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Sanderson ,la realizzazione della Strada del mare ,l’avvio del progetto di risanamento delle aree utilizzate e ora dimesse dalle ferrovie per riconsegnare un pezzo importante della città alla fruibilità sociale. Certo, non quello predisposto da Rete Ferroviaria che va nel segno opposto. La possibilità di rilancio nella Zona falcata della cantieristica, di quella pubblica e di quella privata, con lo sviluppo del protocollo siglato dalle Istituzioni che prevede la creazione di un Distretto di eccellenza della cantieristica navale e da diporto per Messina e Giammoro dove è necessario avviare i lavori di costruzione del pontile che da anni è rimasto incompiuto. Il bacino deve essere qualificato per sfruttare le potenzialità di un mercato in espansione che con l’assegnazione alla nuova impresa potrà contenere non solo la soluzione dei lavoratori ex Smeb ma per altre centinaia di nuovi occupati. Nella Zona falcata occorre con urgenza intervenire per attuare la bonifica ed il risanamento ambientale che registra ritardi non più spiegabili e sopportabili e che è propedeutica a qualsivoglia iniziativa di reinsediamento. In quell’area c’è un concreto rischio per la salute degli addetti e dei cittadini, che ovviamente sono sempre più preoccupati. Sono convinto che le ipotesi di recupero e sviluppo delle attività industriali della Zona falcata possano anche essere compatibile con progetti di valorizzazione della Cittadella e dei beni culturali che richiamano la storia ,l’arte e le tradizioni della nostra città. Tutto questo può e deve trovare possibilità e compatibilità se si scongiura l’ipotesi Ponte sullo stretto. Il progetto e lo strumento della legge obiettivo, e non l’idea in sé, ha visto l’avversione ed opposizione alla sua realizzazione da parte di crescenti parti dell’opinione pubblica nazionale e messinese. Io credo che le stesse modalità di trasporto, sia delle persone che delle merci, nel traffico locale e di lunga percorrenza, sempre più indirizzate verso la via aerea e quella via mare e l’abbattimento delle tariffe che le rendono sempre più competitive, dimostrano quali siano le vere utilità oltre che le priorità. E’ per questo motivo che oggi sembra non necessaria un’opera che costa un’enormità ,che sfascia il territorio distrugge l’ambiente. Le grandi opere hanno sempre necessità d’essere valutate nel rapporto costi benefici. Oggi questa valutazione è assolutamente negativa . Credo però che bisogna tentare di rimodulare risorse ed investimenti da utilizzare per le infrastrutture più necessarie ad ammodernare il nostro territorio . Occorre innanzitutto completare i raddoppi ferroviari Messina- Palermo e Messina- Catania- Siracusa previsti nei piani da quasi trent’anni, in parte progettati ma che non trovano avanzamento per assenza di fondi per i tagli alle ferrovie previsti anche nell’ultima finanziaria non consentono il completamento nemmeno dei tratti iniziati e ancora in fase di lavoro. Dopo l’incidente di Rometta bisogna onorare gli impegni allora assunti: non c’è più tempo per i tentennamenti e sarebbe auspicabile pensare che una parte dei miliardi di euro previsti per il Ponte sullo stretto più quelli sottratti alle ferrovie per il pedaggio sull’attraversamento potrebbero consentire il completamento del raddoppio delle tratte ferroviarie ancora a binario unico e per l’ammodernamento della rete. E non solo quella. Un’altra parte di quelle risorse potrebbero essere utilizzate per risanare il territorio di Messina degradato dalla servitù per l’attraversamento dei TIR , e indirizzarle alla costruzione di parcheggi di interscambio che allevino il traffico in città e per finanziare il servizio di attraversamento a sud, fuori dalla città come dicevo prima, a Tremestieri. Ancora, altra parte potrebbe essere utilizzata per ammodernare il traghettamento nello Stretto, per renderlo più veloce e più sicuro.

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La CGIL di Messina assieme a quella regionale parteciperà domani alla Manifestazione contro la costruzione del Ponte sullo stretto per chiedere l’immediata sospensione delle procedure in atto per evitare che al danno si aggiunga la beffa dell’avvio di una procedura che a prescindere dal come si concluderà potrebbe determinare costi e risarcimenti. Penso che il sindaco debba finalmente far sentire la voce della città prima che l’apertura dei cantieri renda tutto più difficile e sia troppo tardi. Sarebbe ancora meglio se la Provincia regionale svolgesse un ruolo più attento su questo tema ,dopo essersi battuta inutilmente per la Legge speciale, mai approvata dal Parlamento, e per il finanziamento delle opere cosiddette compensative non previste in nessuna finanziaria nazionale ne in quella regionale intervenga a chiedere anche lei la sospensione delle procedure . Il progetto delle Ferrovie, lungi dall’essere quello annunciato,cioè un’opera di risanamento e bonifica con spostamento della stazione ferroviaria fuori dalla città a prescindere dal Ponte, ne diventa invece subalterno, rendendo più chiaro quanto sia devastante anche per la stessa città il tentativo di connettere la viabilità al Ponte. L’amministrazione provinciale potrebbe così tentare di riscattare un ruolo non adeguato e subalterno. Ma l’amministrazione provinciale nata dallo scambio dei palazzi, dopo la fine dell’esperienza Buzzanca sindaco, sembra sopravvivere come proiezione in un equilibrio ormai interrotto e senza nessuna capacità politica. Tutti i temi ad essa demandati non hanno riscontro operativo per mancanza di volontà politica e di risorse da dedicare Rischia di affogare assieme ad un’istituzione sempre più stretta e compressa dai centralismi statali e regionali e che non assolve più a nessuna funzione di governo del territorio. Non riesce ad approvare un programma di sviluppo del territorio provinciale. E’ carente sui temi della viabilità intercomunale dove da anni non vengono previste nuovi interventi e la titano quelli di manutenzione. E’ assente sui temi dell’industria e del risanamento delle aree degradate, in quello dell’ambiente, del turismo della gestione delle risorse idriche dove si rischia ancora di più rispetto a quello dei rifiuti. Sul tema della gestione delle risorse idriche ha svolto un ruolo coercitivo nei confronti delle autonomie dei comuni per imporre la forma di privatizzazione non compatibile con l’uso di un bene comune come l’acqua, senza la giusta consapevolezza che l’intervento di riorganizzazione su un servizio così delicato deve avere. Non ha saputo svolgere il ruolo assegnato dalla legge in ambito di promozione, organizzazione dei servizi socio assistenziali del loro controllo e monitoraggio dimostrando un’incapacità a svolgere il ruolo di indirizzo e programmazione territoriale che le è proprio. Il ruolo della provincia di coordinamento per il completamento di programmazione d’agenda 2000 oltre che propri limiti è venuto meno sull’altare dei localismi del clientelismo e dell’affarismo espresso nei PIT e nelle varie modalità della presunta programmazione territoriale. La nuova programmazione 2007-2113, a parte il documento preparatorio frutto di alcuni suggerimenti e alcune ipotesi di sperimentazione come i distretti produttivi e i distretti turistici, contiene ipotesi vecchie o progetti di sponda, come la costruzione dello scorrimento veloce Patti Taormina venduta sempre per nuova nonostante sia incompleta da vent’anni o alcune previsioni di infrastrutturazione azzardata come la costruzione dell’aeroporto nella piana di Milazzo, osteggiato fra l’altro dalla popolazioni e dalle comunità locali. CGIL-CISL-UIL unitamente all’Assindustria recuperando lo spirito del 2004 dovranno stimolare e sollecitare affinché i contenuti della piattaforma congiunta presentata in quella

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sede possa recuperare vigore impedendo che la nuova programmazione vada a finire al finanziamento di sportelli,consulenze project manager senza nessun beneficio per le imprese né per l’occupazione o sia sprecata del tutto. Partendo dalla verifica degli strumenti di programmazione in corso di attuazione come il Contratto d’area di Villafranca che non ha prodotto fin qui quei risultati da tutti auspicati e per i quali ci siamo battuti. Ad oggi solo qualche centinaio di lavoratori è stato occupato e le più importanti e consistenti iniziative sono ancora incomplete o non sono state avviate. I patti territoriali e quelli verdi che hanno proliferato nella nostra provincia dopo una fase di vivacità hanno determinato iniziative la gran parte delle quali sono già in difficoltà per la difficile congiuntura, e altre sono fallite prima di nascere. La Ceramiche Caleca ne è l’emblema. Per rilanciare l’industria nella nostra provincia bisogna ridefinire il ruolo dell’ASI oggi ancora commissariata come quasi tutti gli enti regionali ,perché la riforma prevista dalla legge regionale potrebbe potenziare i distretti industriali della ceramica a S. Stefano di camastra, quello tessile dei Nebrodi compresso da una crisi strutturale e di mercato, delle gomma e plastica di Torrenova e Brolo quello dei laterizi di Venetico ecc. Un ruolo centrale continua ad esercitare per livelli produttivi ed occupazionali l’Area industriale di Milazzo ,per la sua peculiarità , per la sua storia con i suoi colossi produttivi della Raffineria RAM e della Centrale Elettrica Edipower. E’ possibile se si contrasta la politica di Nania della delocalizzazione, allargare l’area di insediamento utilizzando le altre aree e costruendo i necessari servizi ausiliari come l’inutilizzato centro mercantile , risanando il territorio attraverso lo strumento dell’area ad alto rischio ambientale che attualmente non viene reso esigibile dai ritardi e dalle inadempienze della Regione Siciliana. Lo sciopero del 25 novembre ha avuto questo significato. Le vertenze dell’indotto della raffineria e della centrale rappresentano questa volontà e tenacia . Ci vogliono risorse e capacità di governo finalizzate al risanamento ambientale, alla tutela della salute dei cittadini ma soprattutto allo sviluppo delle attività produttive compatibili e sostenibili. La CGIL riconferma questa posizione, figlia della sua storia , e continua a sostenere che senza attività industriale di produzione manifatturiera anche in una provincia come la nostra che ha immense risorse naturali ed ambientali non potrà esserci sviluppo produttivo stabile e duraturo. Tutto ciò è possibile svilupparlo partendo dalla difesa delle aziende e dei livelli occupazionali esistenti che è possibile rilanciare in un momento in cui il mercato dell’energia e la discussione sulla diversificazione delle fonti e dei prodotti petroliferi è in forte espansione. Prevedendo nuovi investimenti in innovazione, ricerca, in tutela della sicurezza e della salute Il protocollo ipotizzato qualche settimana fa da parte dell’Edipower e del Comune di S.Filippo del Mela può andare in questa direzione , ma occorre allargarlo a tutte le istituzioni dal Governo nazionale a quello Regionale e alle parti sociali per arrivare ad un vero accordo di programma che attragga nuove risorse dallo Stato dalla Regione e dalle imprese interessate. Perché lo sviluppo industriale possa rilanciarsi occorre determinare le necessarie infrastrutture ed i servizi. Molti servizi sono stati investiti da processi di privatizzazione e liberalizzazione che hanno penalizzato la nostra provincia nelle poste, nelle telecomunicazioni, nelle reti di distribuzione elettrica , nel credito dove è rimasto il servizio di raccolta ma non quello di utilizzo dei depositi.

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La legalità continua a rappresentare una condizione preliminare per gli investimenti, ma è anche un’emergenza per il territorio che rischia di pregiudicare lo sviluppo. Una politica nazionale che l’ha disincentivata ha portato un calo significativo delle denunce e dell’associazionismo antiracket, nostro territorio ha fatto crescere una presenza mafiosa significativa con infiltrazioni anche negli apparati dello stato della pubblica amministrazione. Le vicende recenti lo dimostrano a Terme Vigliatore, Galati Mamertino, Barcellona , in settori dei servizi della pubblica come la raccolta dei rifiuti, e Messina Ambiente, il mondo degli appalti pubblici. Le inchieste della Procura diretta dal procuratore Croce hanno svelato un mondo criminale molto insediato e dimostrano come la vigilanza e la mobilitazione antimafia è sempre necessaria per creare cultura antimafia ,coraggio alle vittime. Le iniziative del sindacato di fronte al saccheggio della Lelat ola mobilitazione del 7 giugno a Piazza Cairoli in occasione della visita della commissione antimafia nella quale abbiamo denunciato fra l’altro il racket sul lavoro e le estorsioni sulla busta paga e quello sul condizionamento nell’attività di parcheggio a pagamento seppur meritori evidenziano che ancora non c’è la necessaria cultura antimafiosa e la conseguente mobilitazione. Si può e si deve fare di più come ammonisce l’arcivescovo mons. Marra con tenacia perché si abbia la speranza del rilancio e del riscatto. Come dice il nostro Presidente della Repubblica la lotta contro la mafia oggi non basta occorre sconfiggerla e per sconfiggerla non basta dire solo che la mafia fa schifo occorre il buon governo e la buona amministrazione. Il sindacato avvierà tutte le iniziative di prevenzione con un monitoraggio dei flussi di spesa sul territorio per rilanciare i protocolli di legalità che coinvolgendo gli imprenditori e le istituzioni possano prevenire tutti i fenomeni di infiltrazione, le collusione nei settori tradizionali come le campagne e nelle attività agricole con il mercato delle giornate, gli appalti pubblici delle costruzioni ma anche nei settori nuovi come quello dei servizi, della sanità, la cosiddetta mafia bianca ,degli appalti della pulizia , delle gestione delle discariche dei rifiuti normali e speciali, per intercettare anche gli usi assistenziali clientelari e mafiosi della spesa pubblica che alimentano la cultura dell’illegalità. Il turismo può ancora svilupparsi nella nostra provincia pur in presenza di luoghi di assoluta eccellenza , deve farlo recuperando la centralità del capoluogo cittadino come centro di un polo geografico e paesaggistico storico culturale da valorizzare. Rilanciando la programmazione nel settore in una logica distrettuale e di integrazione dei servizi con una legislazione di sostegno fatta di sgravi ed incentivi, una politica delle tariffe e dei trasporti e dei servizi che superando nel contempo la stagionalità e la precarietà determinano un forte incremento dell’occupazione nel settore ed in quelli collegati creando magari ulteriori rapporti con la formazione che qualifichi il mercato del lavoro. La fiera di Messina potrà rappresentare un volano per il settore turistico e per quello commerciale . Ma per fare ciò la Regione deve arrestare la pantomima dei commissariamenti utili solo a drenare affari, consenso clientele assunzioni. La gestione attuale dopo quella disastrosa chiusa con gli arresti un anno fa a seguito della denuncia del sindacato sembra non avere imparato nulla nè nel merito né nel metodo. Occorre che il Sindaco ed il Presidente della Provincia evitino che un ente glorioso e utile per lo sviluppo continui ad essere l’unico strumento della politica regionale buono solo per fare i soliti mercati e le bancarelle, con i soliti partecipanti perché legati al “carrozzone “ clientelare ieri di Catania, oggi di S.Teresa o di Graniti, e sia invece trasformato in utile strumento di promozione e sviluppo.

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L’agricoltura nonostante sia stato il settore più colpito dalla crisi degli ultimi 10 anni per lo spopolamento e l’abbandono delle campagne, e l’introduzione di nuove tecnologie continua ad essere importante nell’economia della nostra provincia e per circa 30.000 famiglie di cui circa 4.000 alle dipendenze della forestale. E’ un settore in cui anche nella nostra provincia lavorano molti immigrati anche in settori avanzati come il vivaismo. Occorre prevedere il rilancio selettivo degli investimenti nel settore agricolo per la difesa del suolo e per combattere il dissesto idrogeologico con iniziative di rimboschimento dei Peloritani e dei Nebrodi dando così stabilità a tanti braccianti oggi penalizzati ma non rassegnati dalla scelta del governo di tagliare la ds agricola. La loro lotta, come quella dei braccianti degli anni sessanta, dovrà garantire oltre la previdenza una prospettiva lavorativa e di vita dignitosa di intere comunità collinari che non vanno ulteriormente abbandonate. Occorre nel contempo rilanciare un agricoltura moderna fatta di qualità, di tipicità, di filiera, di rintracciabilità in un contesto in cui avviene la valorizzazione del territorio, delle sue tradizioni delle vocazioni e della cultura in un intreccio con l’artigianato e l’industria agroalimentare. La CGIL ritiene che anche nella nostra provincia ci sia spazio per questa via ad un’agricoltura moderna dove sicurezza alimentare e qualità dei prodotti, tutela dei consumatori vadano di pari passo con il rispetto delle norme contrattuali il riconoscimento della professionali in rischio estinzione per determinare stabilità occupazionale nei luoghi dove si è nati. Occorre anche rilanciare in chiave di valorizzazione il ruolo dei parchi e delle riserve come il Parco dei Nebrodi e quello dell’Etna che con la scelta dei commissariamenti che nelle mani del centro destra producono solo proliferazione del sottogoverno ,di incarichi, consulenze,precariato, clientelismo oltre alla polemica per i calendari. Il commercio e il settore della grande e piccola distribuzione negli ultimi anni ha subito una profonda trasformazione ma Messina ed il suo territorio ne hanno subito solo effetti negativi. La grande distribuzione ha scelto di insediarsi in altre province mentre in città storiche aziende come la Standa hanno preferito abbandonare. Il settore viene gestito in condizioni di sempre maggiore precarietà e di non rispetto dei diritti dei lavoratori. La pubblica amministrazione a causa della riduzione di risorse, per il blocco del turn over si è sempre più degradata e non risponde al bisogno ed allo sviluppo delle attività produttive e delle imprese. La scuola pubblica a Messina rappresenta un dramma sia sul versante delle strutture che su quello occupazionale e ciò non può non scaricarsi negativamente sugli studenti e sulla loro formazione. Gli immobili sono per lo più in affitto, inidonei ed insicuri e gravanti sul bilancio della provincia per oltre 5 milioni di euro. Ipochi edifici sicuri esistenti vengono disputati tra diversi istituti e non ne vengono costruiti di nuovi. Tutto questo mentre le scuole private mantengono la caratteristica di diplomifici gestiti in forma clientelare, funzionali al profitto senza alcun rispetto delle norme di garanzia e sicurezza. I servizi sociali sono stati smantellati o ridimensionati un po’ ovunque. La legge 328 non ha avuto in Sicilia il significato per cui era stata approvata in una logica di integrazione fra le varie istituzioni ed il territorio , il ritardo o la non approvazione dei piani di zona nei distretti della nostra provincia continua a perpetuare e a ridurre servizi senza qualificarli, mantenendo le vecchie tipologie di assistenza rivolte al bisogno tradizionale. A Messina l’Istituzione per i servizi sociali con personalità giuridica, caso unico in tutta Italia, che gestisce i servizi per conto del comune, si è rivelata una forma di sovrapposizione utile solo, a drenare risorse per gli amministratori (550 mila euro l’anno)

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per i consulenti, appesantita dalla proliferazione dei contenziosi che portano puntualmente ai concordati; un carrozzone clientelare che occorre subito chiudere e smantellare rilanciando il ruolo ed il protagonismo dell’ente locale e certezze occupazionali e contrattuali degli operatori . Occorre avviare da subito la riqualificazione dei servizi sociali a partire dagli asili nido che a Messina non esistono. La sanità anche a Messina subisce i morsi del cuffarismo e gli scandali degli ultimi mesi per le morti sospette ne sono la cartina da tornasole più forte, evidenziandone la limiti e deficit. Proliferano i reparti ospedalieri e gli incarichi di direzione senza servizi e senza divisioni, scarseggia la qualità nella gestione oggi in mano al potere politico che ne fa uso per il consenso clientelare. La CGIL deve riprendere l’iniziativa per recuperare alla sanità pubblica il valore della prevenzione ,della cura,della riabilitazione nel territorio per riaffermare il principio dell’universalità della prestazioni come affermazione del diritto alla salute anche con una ripresa della lotta per l’abolizione dei tickets. Partendo dalla riduzione delle liste d’attesa,della ridefinizione di livelli di assistenza più congrui in termini di qualità che di tempestività in un raccordo funzionale tra la medicina generale,il distretto,il presidio ospedaliero. Tutto questo mantenendo i presidi di emergenza e le guardie mediche per la peculiarità del nostro territorio e per la loro funzione sociale e di primo intervento . Cari delegate care delegati la CGIL in questi 4 anni ha saputo sviluppare un livello di iniziative di mobilitazione che hanno determinato forte identità nel rapporto con l’opinione pubblica e con gli iscritti, con i militanti, fatta di tutele contrattuali collettive e individuali ma anche di lotte e di mobilitazione. Si sono realizzati 6 scioperi generali di cui 1 proclamato della sola CGIL e si sono organizzate manifestazioni molto partecipate, anche a Messina. I rapporti unitari sono notevolmente migliorati e consolidati evidenziando come il sindacato messinesesia molto coeso su tanti temi, dalla pace alla lotta alla mafia, dal lavoro nero alla deindustrializzazione della Zona falcata, dai parcheggiatori liberati dall’oppressione delle cooperative. La convulsa vicenda delle elezioni amministrative di Messina arrivate dopo due anni di commissariamento e fortemente invocate dal sindacato,per ridare un governo alla città ,di fronte ad una destra che resisteva ed il modo come si sono affrontate la confusione che si è generata nella definizione degli schieramenti, non può fare disperdere un patrimonio importante di lotte e di elaborazioni unitarie nella direzione del rinnovamento. La CGIL è gelosa della sua autonomia e del suo ruolo distinto da quello della politica e dalle Istituzioni , questa posizione è figlia della sua storia dove non c’è posto per il pansindacalismo. Non ci sono governi amici né amministrazioni amiche a cui fare sconti . La CGIL porterà avanti un confronto programmatico rigoroso con la nuova amministrazione che abbiamo voluto e sostenuto, convinta che solo così la si metterà in condizioni di fare bene e meglio il suo compito. Pensiamo che non servano né gli ammiccamenti, né gli sconfinamenti, ma un rapporto trasparente, alla luce del sole, per la soluzione dei drammatici problemi di coloro che rappresentiamo. Credo che questo debba valere per tutto il sindacato messinese perché siamo convinti che oggi c’è bisogno di una grande unità ma anche di un po’ di umiltà.

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La CGIL in questi 4 anni ha consolidato un percorso di unità interna che ha consentito al compagno Epifani di assumere la Segreteria generale in un percorso di coerenze e di rigore dopo una fase esaltante della nostra storia. Celebriamo questo Congresso con un documento unitario che recupera il valore dei suoi molteplici pluralismi programmatici che sono vissuti nelle lotte e nelle mobilitazioni, esaltandone il valore e con un sistema di regole ne ha garantito legittimità e agibilità. A Messina, questo ha permesso di continuare e realizzare molti degli impegni assunti 4 anni fa, quando mi è stata rinnovata la fiducia della nostra organizzazione per guidare questa gloriosa Camera del Lavoro con un gruppo dirigente via sempre più unito e coeso. Questo è un patrimonio che non va disperso e va valorizzato, consentendo di avviare nel breve e medio periodo anche un processo di rinnovamento dei nostri gruppi dirigenti per impegnare i tanti giovani che in questi anni hanno dato il loro contributo alla crescita della CGIL nella provincia di Messina. A partire dal migliaio di delegati eletti nei comitati degli iscritti e nelle Rsu,del pubblico impiego ,della scuola, dell’università, nei servizi ed in tutti i luoghi di lavoro, delle leghe comunali e di distretto che militano nella nostra organizzazione. Gran parte lo fanno volontariamente, con abnegazione e spirito di servizio supportati da grandi ideali: quelli del lavoro, della giustizia sociale di una grande organizzazione che compie 100 anni. E’ il contributo allo spirito del volontariato !! Sul terreno organizzativo da questo Congresso occorre riprendere un percorso che rilanci la presenza sul territorio a partire dalle Camere del lavoro comunali e distrettuali come luogo di partecipazione democratica, occasione di socializzazione , strumento di tutela dei diritti ma anche di contrattazione territoriale. Il territorio deve ritornare ad essere il luogo dove esercitare l’azione sindacale confederale di rivendicazione dei servizi e del welfare,in un concerto fra i sindacati di categoria,ed il sistema dei servizi della cgil si potrà determinare il reinsediamento,per la sindacalizzazione,la diffusione del rispetto del contratto di lavoro e il rilancio della contrattazione dello sviluppo locale e delle politiche sociali e dei bilanci dei comuni. La CGIL deve allargare la sua presenza nella piccola e media impresa dove il bisogno di sindacato è essenziale e la precarietà si è estesa. Abbiamo costruito la presenza del NIDIL con risultati di grande prestigio e con battaglie importanti per dare tutele ad un mondo sempre grande fatto di giovani,alte professionalità senza diritti. Dai call center, ai professori dell’orchestra V. Emanuele, ai dottorandi gli specializzandi,i ricercatori. Si è svelato un mondo che racchiude difficoltà ma anche enormi potenzialità. Il tema della sicurezza sui luoghi di lavoro è stato fortemente sviluppato assieme alla rete di Rls così come quello delle Pari opportunità e delle tutele per gli Immigrati. Abbiamo un sistema dei Servizi, sempre più qualificato fatto di rinnovamento formazione qualificazione un sistema integrato fra uffici vertenze e legali,il patronato ed i servizi fiscali. La Conferenza di organizzazione da tenere nel prossimo autunno dovrà essere l’occasione per approfondire un progetto di ulteriore presenza e decidere le modalità organizzative definendo ruoli poteri strutture e quote di risorse per finanziarle. Quest'anno ricorre il Centenario della Cgil ed anche a Messina saranno previsti eventi celebrativi che consentiranno di approfondire la nostra storia, soprattutto quella delle origini che con forme diverse ha visto nascere a Messina il sindacato. Recuperemo la memoria di alcuni compagni protagonisti delle lotte sindacali e del riscatto a Messina e nella provincia.

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Le risorse per rilanciare Messina bisogna trovarle nel nostro progetto nei nostri ideali ma anche nella nostra memoria ,nella storia di un sindacato che ha saputo dopo il terremoto del 1908 organizzare la condizione per la ricostruzione e che con alla testa il compagno Lo Sardo ha saputo imprimere da Messina all’intero paese il riscatto dei lavoratori. Rilanciare Messina ,riprogettare il Paese, la sua ricostruzione civile e morale. Compagni e compagne,diceva il compagno Cofferati che il corpo del povero cadrebbe a pezzi se non fosse legato dal filo invisibile dei sogni. La CGIL deve continuare a irrobustire questo filo perché il povero possa trasformare il suo sogno in realtà.

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Domenico Moccia

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Autorità, gentili ospiti, care compagne e cari compagni, qui a Bari, il tredici maggio del 1944, un gruppo di uomini e donne, fondando la

Federazione libera dei funzionari, impiegati e del personale subalterno, costituiva il primo nucleo del Sindacato dei bancari.

Erano i giorni in cui la seconda guerra mondiale raggiungeva il suo apice di ferocia. In cui la risalita delle truppe alleate si infrangeva sanguinosamente sulla linea Gustav a Montecassino e le bande nazifasciste commettevano gli atti più esecrabili, come lo sterminio della popolazione civile di interi paesi.

Successivamente a Roma, il tre novembre, nello stesso giorno in cui il generale Alexander impartiva alla radio l’ordine alle formazioni partigiane di “cessare le operazioni su vasta scala e di disporsi sulla difensiva”, il Comitato dei bancari di Roma, il Sindacato provinciale di Napoli e la Federazione libera davano vita alla FIDAC/CGIL.

Iniziava così la nostra storia. Una storia di passioni, ideali, sacrifici, abnegazione. Scritta da decine di migliaia di militanti e dirigenti che con la loro vita hanno inverato e testimoniato che: “la storia degli uomini è fatta di infiniti, piccoli atti di coraggio e fede. Ogni volta che un uomo difende un ideale o agisce per migliorare le condizioni degli altri o sciopera contro un’ingiustizia trasmette una piccola onda di speranza e questa, mescolandosi a milioni di altre, crea una corrente che può abbattere il più solido muro di oppressione”. Se, oggi, siamo qui, da uomini e donne liberi, lo dobbiamo al loro coraggio, ai loro sogni, ai loro valori.

Tuttavia, se dovessimo confrontare le speranze di quella generazione, la

inesauribile voglia di libertà, di giustizia, di uguaglianza, con il mondo di oggi, dovremmo trarre conclusioni amare. La guerra, con il suo lugubre stillicidio di morte e disperazione, continua a martoriare l’umanità. Il terrorismo annulla la speranza nel domani. La politica imperiale degli USA esporta solo miseria, devastazione e lutti.

Un miliardo di persone – un sesto dell’ umanità – vive in condizioni di povertà estrema. Il 40% della popolazione mondiale sopravvive di mera sussistenza ed ogni giorno muoiono per denutrizione e banali malattie migliaia di donne e bambini. L’ecosistema rischia l’autodistruzione per l’uso folle ed indiscriminato delle risorse disponibili e un timido trattato, come quello di Kyoto, non viene sottoscritto dalle nazioni più rapaci e aggressive nell’attacco alla natura.

Un intero continente, l’Africa – dove per la prima volta è comparso l’uomo –, è utilizzato come pattumiera del mondo. Dominato con crudeltà e cupidigia predatoria, ulteriormente desertificato dalle scelte di mercato delle multinazionali farmaceutiche, che, nella loro bulimica avidità di profitti, impediscono la liberalizzazione dei brevetti e la diffusione delle medicine agli indigenti, in particolare, ai malati di AIDS.

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RELAZIONE INTRODUTTIVA VI CONGRESSO FISAC/CGIL

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La globalizzazione, anziché essere orientata per dare risposte ai più poveri, alla tutela dell’ambiente, alla diffusione del benessere e della democrazia, ha accentuato drammaticamente le disuguaglianze economiche e sociali. Nel 1820 il maggior divario tra l’economia più sviluppata, quella inglese, e la più povera, quella africana, si definiva in un rapporto del reddito pro capite di quattro ad uno. Oggi è di venti ad uno.

La ricchezza si concentra in gruppi sempre più ristretti avviando ampie fasce sociali, una volta garantite, verso la marginalità.

Ad oltre sessanta anni di distanza dalla fine del secondo conflitto mondiale, le quattro priorità indicate da Roosevelt “la libertà di parola ovunque nel mondo, la libertà di onorare Dio ciascuno a proprio modo, la libertà dal bisogno, la libertà dalla paura” rimangono priorità assolute.

Tutto ciò, però, non può indurci solo ad un bilancio di sconfitte, al ripiegamento

dinanzi alla inesorabilità del male, alla scettica constatazione del reale. Noi, oggi, abbiamo il dovere di credere e dire che un mondo migliore è possibile ed a questo obiettivo dobbiamo dedicare la nostra azione, il nostro impegno, la nostra passione militante.

Se tra le macerie dei bombardamenti, gli orrori delle stragi, il totale degrado della vita civile, un gruppo coraggioso ambiva a costruire il sindacato ed a questa finalità sacrificava la propria vita; noi non possiamo essere bloccati da opportunismi, piccoli egoismi, paralizzante realismo. “Compagni – scriveva Vladimir Majakovskij – la primavera è sempre all’ordine del giorno”. Per questo noi dobbiamo considerare la pace, la libertà, la giustizia, la fratellanza, sempre all’ordine del giorno.

Un nuovo ordine mondiale e una società più aperta e più giusta saranno possibili se al capitalismo imperiale americano, a quello oligarchico russo e a quello “leninista” cinese, sapremo opporre un modello che, partendo dall’Europa e dalla sua peculiare esperienza sociale, economica e produttiva, possa garantire universalmente libertà, progresso, giustizia, tolleranza, uguaglianza.

Nonostante il fallimento dell’agenda di «Lisbona 2000», che poneva all’Europa

l’obiettivo di diventare il sistema economico più innovativo ed a più elevata conoscenza del mondo, nonostante il vulnus prodotto dai referendum sulla Costituzione e le divisioni tra i Paesi fondatori, l’idea di Europa continua a conservare straordinaria attualità ed analoga potenzialità.

La crisi di consenso, ogni giorno più pronunciata, della presidenza imperiale di Bush, le difficoltà crescenti di Blair, l’assenza di grandi leadership a livello internazionale, la perdita verticale di credibilità dell’unilateralismo, l’affacciarsi sulla scena mondiale di nuovi attori come India, Brasile e Messico, aprono uno spazio immenso ad un Europa che sappia, però, ritrovare slancio, unità e sia capace di offrire i propri valori come terreno di costruzione per una nuova convivenza.

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Domenico Moccia

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L’economia basata sulla conoscenza, i concetti di accoglienza e cittadinanza, l’integrazione come progetto collettivo, il welfare costruito come protezione ed inclusione, lo sviluppo inteso come sostenibilità ambientale e sociale, rappresentano l’identità dell’Europa, in antitesi a modelli che hanno nella tirannia, nello sfruttamento, nel cannibalismo sociale, nella precarizzazione strutturale, i tratti costitutivi dell’economia e della società.

Non è, infatti, la crescita indiscriminata il parametro unico con il quale misurare lo stato di salute di una comunità. Se così fosse, dovremmo dare il primato assoluto alla Cina, ovvero al paese che coniuga la dittatura più feroce con lo sfruttamento più intenso, che ha il capitalismo più avido e predatore, che avvelena irresponsabilmente l’ambiente, che fa controllare il lavoro in fabbrica dall’esercito, che vìola tutti i diritti umani e soffoca nel sangue anche i più timidi tentativi di opposizione.

Per questo occorre un rilancio forte dell’Europa, che le consenta di superare l’attuale fase di stallo.

E’ necessario creare e consolidare gruppi di avanguardia che diano impulso al processo di integrazione; rafforzare il parlamento; utilizzare il bilancio come strumento per una strategia di sviluppo; promuovere una politica europea nelle sedi multilaterali come l’ONU e il Fondo Monetario Internazionale, Si può partire dalle questioni economiche e sociali, dalla sicurezza e dalle riforme istituzionali per dare una nuova spinta vitale alla costruzione dell’unità europea che non sia solo monetaria e finanziaria.

L’integrazione europea è – come è stato detto – “il più importante processo sociale degli ultimi cinquant’anni”. Il mondo ha bisogno dell’Europa, l’Italia ne dipende in termini di salvezza e sopravvivenza.

Il ruolo politico ed economico dell’Italia nel ventunesimo secolo, può solo

ricavare conseguenze irreversibilmente negative dalla crisi dell’Europa. Di ciò avrebbe dovuto tener conto il Presidente del Consiglio in questi anni quando, invece, ha scambiato un soggiorno in un ranch texano ed un paio di stivali da cowboy con l’ossequio più servile nei confronti di Bush e della sua politica.

Se dovessimo sintetizzare in un solo sostantivo lo stato della società italiana, questo sarebbe: devastazione. Il governo Berlusconi si è abbattuto, come un uragano, sul nostro sistema, travolgendo istituzioni, leggi, economia, etica e lasciando un Paese disastrato, annichilito.

Da sempre, gli analisti considerano quali caratteri distintivi e competitivi di un sistema nazionale la credibilità delle istituzioni, la esemplarità e la esigibilità delle norme, la qualità della politica economica, il funzionamento trasparente dei mercati.

Un programma perfettamente realizzato, si potrebbe dire con umorismo britannico.

Le Istituzioni, tranne l’altissimo magistero del Presidente della Repubblica, sono state soggiogate agli interessi del governo e contaminate dalle lobbies. Le regole

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RELAZIONE INTRODUTTIVA VI CONGRESSO FISAC/CGIL

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costantemente evase. La giustizia piegata ad interessi di parte. La politica economica desaparecida.

L’Italia versa in condizioni di grave arretratezza e si avvia ad un destino di marginalità.

Il costante declino della competitività del sistema produttivo e la continua espansione del debito pubblico sono i killer più idonei per uccidere una economia.

Questo governo li ha richiamati in vita, li ha armati e li ha indirizzati contro il Paese.

Flessione dell’export a prezzi costanti dell’1% negli ultimi sette mesi; diminuzione della produttività di oltre il 2%; debito pubblico al 108% del PIL; avanzo primario azzerato.

Ecco il nuovo miracolo italiano. La nuova età dell’oro profetizzata a suo tempo da Berlusconi e Tremonti, validata in posizione genuflessa da Fazio e dispiegata a gran voce dai tanti corifei televisivi.

Il reddito pro capite, con una perdita di cinque punti percentuali, si situa sotto la media europea, i salari nominali sono cresciuti ad un tasso inferiore rispetto ai prezzi al consumo. Politiche fiscali mirate solo verso i ceti abbienti e incentivanti l’evasione hanno consentito che, nel 2004, i lavoratori autonomi vedessero il loro potere d’acquisto crescere dell’11,7%, mentre quello dei lavoratori dipendenti ha subito una diminuzione del 2,1%. Il PIL è cresciuto solo dello 0,1% e le previsioni più ottimistiche per il 2006 prevedono un aumento dell’1%.

Il tasso di occupazione giovanile – ovvero, quello riferito alla fascia d’età dai 15 ai 24 anni – è diminuito. La millantata crescita occupazionale è dovuta esclusivamente alla regolarizzazione dei lavoratori immigrati ed al contemporaneo ritiro dal mercato del lavoro di chi, dopo decenni di attesa, ha perso ogni fiducia.

Le quote di mercato legate all’esportazione sono regredite al 7,8% e nel triennio 2002-2004 è stata registrata una perdita di competitività di oltre il 18%.

Il livello medio di istruzione è costantemente al di sotto di quello dei Paesi dell’area dell’euro.

La nostra industria manifatturiera perde in termini di produzione e redditività, mentre le condizioni di monopolio dei settori dell’energia e dei trasporti ne appesantiscono i costi e ne degradano le prestazioni.

L’Italia si colloca, così, nel mondo: - al ventunesimo per il sostegno all’innovazione - al quarantaduesimo posto tra i Paesi più liberi economicamente - al quarantottesimo posto tra i Paesi più progrediti, subito davanti allo Botswana - al quarantesimo posto nella lotta alla corruzione.

Questi non sono i dati di un analista impazzito, ma dei “santuari mondiali” del libero mercato, quali l’«Economic Forum» di Davos, «Trasparency», l’«Heritage Foundation».

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Il governo delle tre «I» – inglese, impresa, internet – ha aumentato il tasso di analfabetizzazione, distrutto scuola ed università, devastato l’impresa.

L’elevatissimo rischio di declino irreversibile del nostro paese è aggravato dallo stato dell’economia americana, nella quale il rendimento dei titoli a breve ha superato quello di medio-lungo periodo. Questo indice ha sempre preceduto fasi recessive. Inoltre, gli ultimi dati sulla crescita ne mostrano un forte ridimensionamento. Infine, la guerra in Iraq, l’involuzione illiberale del governo Bush, la restrizione delle libertà civili, dopo aver turbato le élite, stanno propagando, in strati sempre più ampi della popolazione, angoscia e pessimismo.

La crisi della nostra società non è, però, solo economica, produttiva e materiale. Viviamo un tempo malato. Il sistema televisivo schiaccia e annulla ogni cosa

nel pulviscolo catodico. La cultura è sotto assedio e si concentra in ridotte sempre più isolate e lontane tra loro. La violenza è sempre più estesa e trasversale. Le voci illuminate ci arrivano indistinte e confuse perché coperte e travolte dal gossip urlato da giornali e radio.

La sinistra, sotto la spinta di un modernismo superficiale ed omologante ha, da troppo tempo, rinunciato ad essere un riferimento culturale. Si è lasciato, così, lo spazio ad un protagonismo reazionario e neo ecclesiale.

I “teocon” hanno invaso l’etere, sono diventati i nuovi maitres a penser. Hanno una ricetta salvifica: ripristinare il potere ecclesiale, abolire lo stato laico, sottomettere l’agire umano ai valori religiosi, ripristinare la gerarchia di censo e di classe, riprendere il controllo sociale.

E così abbiamo i codici di bioetica sottoposti al parere vincolante della CEI, attacchi forsennati alle leggi che garantiscono l’autodeterminazione delle donne, infiammati volontari antiabortisti nei consultori. E ancora, un’offensiva sgradevole e minacciosa contro le diversità sessuali, campagne urlate contro la ricerca scientifica, appassionate intemerate per la tutela dell’embrione, filippiche indignate contro la decadenza dei costumi, capziosi ragionamenti speculativi sulla superiorità della religione cattolica.

Dobbiamo reagire. Dobbiamo reagire con pacatezza e forza, perché l’Italia non

diventi una provincia estesa del Vaticano. Contro il tentativo di voler sottomettere ogni comportamento, ogni atto, ogni

scelta al si licet, contro l’invasività del potere curiale e della gerarchia ecclesiale, rivendichiamo in modo sobrio, ma intransigente, la nostra libertà laica, il nostro diritto al pluralismo culturale, all’esercizio del dubbio, alla professione dell’accoglienza, della tolleranza, dell’inclusione. Il nostro diritto a vivere in uno Stato libero.

Siamo, poi, fermamente e particolarmente convinti che non ci sono politiche liberticide, rigurgiti reazionari, culture regressive che possano intralciare o arrestare la

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straordinaria marcia emancipativa delle donne. Esse, formidabile motore della storia, sono da sempre e per sempre schierate contro l’oscurantismo e , per questo, sono state bruciate sui roghi come streghe, perché detentrici del sapere medico, del potere di guarire.

Ne siamo certi. Non ci saranno altri roghi, né fisici, né simbolici, non lo permetteremo.

Occorre, è evidente, un radicale cambiamento. A tal fine nella più assoluta libera, autonoma, convinta determinazione, noi ci

impegneremo appassionatamente perché lo schieramento di centro sinistra vinca le prossime elezioni e perchè le vinca con lo scarto più ampio. Noi chiediamo che la politica si riappropri del suo rango e torni ad esprimere la sua primazìa.

Noi vogliamo una politica alta e consapevole della funzione di servizio verso la collettività. Una politica fatta di valori e di ideali, universalmente intelligibile, autenticamente democratica , restituita definitivamente ai cittadini ed ai lavoratori.

Una politica che sappia sempre distinguere ed insegni a noi, menti e spiriti semplici, a distinguere tra un imprenditore e chi fa finanza rapace, tra un creatore di ricchezza sociale e un raider, tra un costruttore ed un faccendiere, tra un manager ed un intrallazzatore.

Una politica che sappia che “i figli di un dio minore” sono gli svantaggiati, i marginali, i drop outs e non chi coltiva irresponsabili progetti di espansione. Una politica che abbia impresso nella propria costituzione organica che il denaro, anche se non è lo “sterco del demonio” di luterana definizione, odora sempre perché le mani in cui transita, il modo in cui è stato accumulato, le finalità per cui viene utilizzato lo marcano indelebilmente. Il business non può mai essere disgiunto dall’etica.

Scriveva Tommaso Moro: “dove tutto si misura con il denaro non è possibile che la vita dello Stato si svolga giusta e prospera”, ci sembrano parole di straordinaria attualità. Per questo il nostro è il bisogno di una politica che funzioni come Blaise Pascal descriveva il processo della conoscenza, ovvero che “sappia utilizzare gli occhi della mente e quelli del cuore, l‘intelletto razionale e l’anima dei sentimenti”.

Una politica che sia la più lontana da quella politique politicienne lungamente praticata in questi anni e fatta di esasperato tatticismo, di costante compromesso, di esangui ed estetizzanti discussioni se centro sinistra andasse scritto con il trattino oppure no.

Una politica che esca dai palazzi e si ponga il problema della partecipazione, del dialogo con la società. Per non rimanere ancora una volta sorpresa dinanzi a quattro milioni di italiani in fila in una domenica d’autunno o a trecentomila donne che, senza alcun sostegno organizzativo, manifestano in una fredda e piovosa giornata invernale.

E’ questa una domanda di rappresentanza alta e civile che va accolta, cullata, tutelata, sostenuta.

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A questa politica la CGIL chiede un nuovo impegno etico e valoriale, una radicale trasformazione del nostro capitalismo e del modello di sviluppo. Ad essa offre la propria elaborazione congressuale unitaria per riprogettare il paese, partendo dalle condizioni di maggior disagio e di più acuta sofferenza, come, ad esempio, il Mezzogiorno.

È in quest’area, infatti che, a causa della composizione duale della nostra economia, si registrano condizioni di estrema precarietà e di più allarmante debolezza. La decelerazione dei consumi interni si è focalizzata anche nei cosiddetti “beni salario”, ovvero alimentazione e abbigliamento. Situazione tipica di una economia di guerra.

L’occupazione è in declino ed evidenzia lo scoraggiamento che induce le fasce

più deboli dell’offerta della forza lavoro, i giovani e le donne, a ritirarsi dal mercato, a chiedere asilo al sommerso, a riprendere massicciamente la strada dell’emigrazione.

Miseria, disoccupazione, precarietà, perdita della speranza, oltre ad incrementare le file della malavita, costituiscono una miscela esplosiva che sta producendo effetti devastanti.

Occorrono immediate misure straordinarie per sconfiggere la criminalità organizzata, potenziare le infrastrutture, incentivare il superamento della frammentazione produttiva, favorire il grado di integrazione internazionale – in particolare europea.

Si rende indispensabile un sistema sinergico di provvedimenti che dovranno riguardare lo sviluppo della logistica, le politiche di vantaggio fiscale, la ricerca di base, l’innovazione, il potenziamento del sistema universitario e dei centri di ricerca.

In questo necessario progetto di rilancio, il Mediterraneo è centrale.

L’ampliamento del transito delle merci provenienti dall’estremo oriente, infatti, sta progressivamente mutando la posizione del Mezzogiorno da periferia a porta d’accesso all’Europa.

E’ indispensabile una programmazione di interventi coordinata, che sappia coinvolgere una pluralità di soggetti, a cominciare dal sistema creditizio.

Prima di procedere ad analizzare quali siano i contributi che le banche dovranno dare per lo sviluppo dell’economia meridionale, è necessario sgomberare il campo da alcune parole d’ordine che continuano ad inquinare il dibattito in proposito.

Dinanzi alla progressiva scomparsa delle grandi banche del Sud, chi grida alla colonizzazione bancaria da parte del Nord, agita gli stereotipi concettuali e linguistici tipici del ribellismo delle plebi meridionali.

E’ di incontestabile evidenza che la crisi delle grandi istituzioni creditizie del Mezzogiorno non è stato il prodotto della voglia di dominio delle banche del Centro-Nord, bensì l’effetto doloroso, ma inevitabile, di una serie di oggettivi fattori. Le vere cause sono state la liberalizzazione del mercato bancario, l’accresciuta concorrenza,

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la storica ridotta efficienza delle grandi banche del Sud, la loro dipendenza dalla politica, la crisi economica degli anni Novanta, il decremento del flusso dei trasferimenti dell’Amministrazione Centrale.

Analogamente rivendicare e sostenere, come fa demagogicamente il ministro Tremonti, la necessità di una banca del Sud è meridionalismo becero e straccione. Tipico di chi intende perpetuare comportamenti opportunistici da parte delle imprese, il parassitismo delle classi dirigenti meridionali, l’eterna subalternità e dipendenza economica del Mezzogiorno.

Le domande che, invece, dobbiamo porci sono se l’intervento dei grandi istituti

del settentrione abbia determinato il drenaggio di risorse dal Sud e il loro trasferimento in altre aree e se è migliorato o peggiorato l’accesso al credito per le imprese.

La ricerca empirica ha mostrato, in modo indiscutibile, che la maggiore o minore presenza al Sud non è determinante nel finanziamento all’economia locale. Ci sono, infatti, banche settentrionali che investono nel mezzogiorno più di quanto vi raccolgono e banche con sede al sud che fanno l’esatto contrario. Inoltre, sono inequivocabili i miglioramenti ottenuti in termini di equilibrio di bilancio, di efficienza economica e gestionale, di potenziamento dell’offerta di servizi finanziari alle famiglie. La dinamica del credito erogato al Sud è più elevata che nel resto del Paese, mentre i tassi registrano una diminuzione della forbice, anche se questo non vuol dire che tutto vada per il meglio.

La PMI continua a lamentare un’offerta di credito inadeguata, la richiesta di garanzie eccessive, la spersonalizzazione del rapporto e difficoltà nell’interlocuzione. L’articolazione dei canali distributivi si è dimostrata insufficiente per favorire lo sviluppo, mentre i servizi finanziari sono inadeguati in termini quantitativi e qualitativi. Vi è un fortissimo spostamento del credito dalle famiglie produttive verso quelle consumatrici e verso le imprese finanziarie.

In base a questa realtà sono indispensabili interventi e cambi di indirizzi strategici tali da favorire, in modo strutturale e permanente, lo sviluppo del Mezzogiorno.

La battaglia deve essere articolata su due fronti ai quali possono e devono dare risposta positiva i due segmenti creditizi che in questo momento si fronteggiano: banche regionali, popolari, di credito cooperativo e i grandi gruppi.

E’ acclarato che le piccole imprese traggono vantaggi dall’instaurare rapporti stabili e duraturi con una banca di riferimento. La riduzione dell’asimmetria informativa, infatti, fa superare il razionamento del credito e diminuire i costi delle transazioni. Questa funzione può essere egregiamente adempiuta dalle banche locali, popolari e dal credito cooperativo che – per il loro insediamento territoriale, per il loro modello relazionale, per la conoscenza dei mercati locali – rappresentano il partner ideale e maggiormente attrezzato.

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Tuttavia, l’elevata frammentazione delle imprese del Mezzogiorno, il modello prevalentemente familiare, la scarsa tecnologia, la ridotta capacità di innovazione, richiedono alle banche compiti aggiuntivi e finalizzati al rafforzamento ed alla crescita dimensionale delle imprese. Corporate finance, assett management, affiancamento sui mercati internazionali, sono i compiti che dovrebbero essere svolti dalle grandi banche, soprattutto da quelle che hanno acquisito ed incorporato istituti meridionali. Queste attività richiedono, in forma prioritaria ed esclusiva, che sui territori siano presenti strutture pensanti e decisionali. In tal modo si riuscirebbe a determinare quella offerta taylor made, ovvero ritagliata sulle specifiche esigenze dell’impresa che, per la tipizzazione del modello produttivo meridionale, è indispensabile condizione per il successo.

Se il Mezzogiorno rappresenta il punto più acuto di crisi è l’intera nazione che

pretende, oltre al risanamento economico, un nuovo costume etico e politico, a partire dalla deriva delle istituzioni. In questo senso la vicenda di Antonio Fazio ha caratteri di pedagogica esemplarità.

Rudyard Kipling in letteratura e John Huston nel cinema ci hanno raccontato e descritto un uomo che volle farsi re, in Italia abbiamo avuto l’uomo che si è fatto Governatore.

La storia di questi mesi racchiude e sintetizza i limiti, le contraddizioni, le fragilità istituzionali, le povertà culturali di un paese che non è e non riesce a diventare normale. Per sottrarre la Banca d’Italia all’intrusione della politica, si dette un mandato illimitato al governatore. Fazio lo ha trasformato in un potere decisionale assoluto, in una prassi autoreferenziale, dando in questo modo luogo non ad un’Autorità di garanzia, ma ad un’autocrazia. E così, nel suo meschino arroccamento a difesa delle proprie prerogative e sinecure, circondato da una corte di autentici nani morali, insieme con il peggiore e più compromesso banchiere dopo Calvi e Sindona, ha trascinato una intera e autorevole istituzione nel fango e il paese nel ridicolo.

Il suo progetto, però, andava oltre ed era finalizzato al sovvertimento della gerarchia economica e della legalità. Sì, perché i vari Gnutti, Fiorani, Coppola, Consorte, Sacchetti, Lonati non rappresentano la variabile antropologica dell’italiano ingordo, incolto, spregiudicato e affarista, ma con il coinvolgimento di Fazio e le equivoche protezioni politiche, hanno messo in campo un disegno di potere per sovvertire l’establishment. Si è trattato di un tentativo che ha riportato alle nostre narici l’odore acre e sulfureo di umide sacrestie, di felpate logge massoniche, di rancide cucine da retrobottega, del familismo come aggregazione di interessi particolaristici e cupidigia di potere.

Nel contempo l’ascesa irresistibile di Fiorani e dei suoi soci ha dimostrato in modo cartesiano l’inadeguatezza, se non l’assenza, in Italia, di una vera classe dirigente. Chi ha scambiato per decenni protezione con inefficienza, assistenza con improduttività, chi si è nutrito di costanti patronages partitici non può essere e non si

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sente classe dirigente, non avverte su di sé la responsabilità dell’interesse generale, la necessità di regole certe e di autorità veramente indipendenti che le facciano rispettare. I nostri poteri forti sono poteri mediocri, incapaci di definire una visione organica della società alla quale dedicare e sacrificare le intelligenze migliori e le risorse più ampie.

Fazio, però, non è stato il solo a rendere palese la penosa decadenza delle nostre

istituzioni, basta pensare a Pera e Casini. E’ nostro primario interesse che le istituzioni siano forti, autonome, determinanti, perché lo Stato riprenda ad essere il luogo dell’eticità ed il garante del futuro. Le dinamiche società moderne sono connotate da una pluralità di soggetti, d’interessi e di poteri. E’ inevitabile che questo contesto, se non diretto e orientato, finisca inevitabilmente per organizzarsi in autonomie sempre più spinte, se non confliggenti tra loro. Le nostre istituzioni devono recuperare autorevolezza, influenza e poteri per innervare il Paese e diffondere valori, conoscenze, norme.

Per questo noi chiediamo, a partire dalle autorità di controllo, vigilanza e

regolamentazione, che venga a cessare la logica destrutturante dello spoils system, che le autorità siano dotate di mezzi finanziari adeguati e non da reperire nel mercato, che le nomine avvengano considerando solo l’indipendenza, la professionalità e la moralità dei candidati.

Il personale addetto deve essere potenziato negli organici, rafforzato nelle competenze, soprattutto deve essere stabile ed assunto per le specifiche funzioni. Siamo contrari alla pratica dei distacchi che, oltre a creare avanzamenti di carriera per clientes, non sempre corrisponde all’utilizzo di competenze reali e verificate e serve per lo più a costruire reti ramificate di amici a protezione del “capo”.

Noi vogliamo che nelle stanze non circolino gli inquilini degli uffici, ma persone competenti, coerenti con la missione, intangibili alle pressioni. Banca d’Italia, Consob, Isvap, Antitrust, Autorità delle telecomunicazioni devono ritrovare il senso originale della loro costituzione, devono costantemente ispirarsi a principi di intransigente autonomia, devono ripristinare processi decisionali collegiali e trasparenti.

Attendiamo da loro una stagione di coraggio, d’indipendenza, di orgoglio: vigileremo perché ciò accada.

Se per le nostre Istituzioni pretendiamo una ripresa di rango morale, di

autorevolezza e di efficienza, per il nostro sistema produttivo rivendichiamo un radicale cambiamento che ponga il lavoro al centro dell’attività imprenditoriale ed economica. Un lavoro al quale il riconoscimento collettivo del suo valore sociale garantisca stabilità, crescita professionale, adeguata retribuzione.

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E’ solo partendo dalla qualità del lavoro che può essere innescato un processo di rinnovamento e di riqualificazione delle nostre imprese che, oggi, appaiono gravemente carenti negli assetti proprietari, nel patrimonio, nella dimensione e nella specializzazione industriale.

Il nostro Paese registra, infatti, un deficit nelle regole di governo delle imprese, negli assetti proprietari delle stesse, nella trasparenza dei mercati, nella dimensione dell’apparato produttivo e nella sua specializzazione, nella qualità dei servizi all’impresa e alle famiglie. La politica del laissez faire laissez passer, di questi ultimi anni, ha dato luogo ad un ibrido poco liberalizzato, generoso nella rendita, inefficiente nel segmento statale, debole con i grandi gruppi, irridente con i risparmiatori. Il monopolio pubblico è stato sostituito con quello privato.

Al sistema inglese completamente privatizzato e liberalizzato, a quello semipubblico francese o fatto di campioni nazionali, come in Germania e Spagna, noi opponiamo il modello italico capace solo di produrre inefficienze e sprechi.

L’insufficienza delle regole di governance, l’elevatissimo grado di concentrazione della proprietà nelle società non quotate, l’elevata persistenza delle famiglie, il meccanismo del controllo a catena, i patti para-sociali, le clausole statutarie rendono gli assetti proprietari opachi, confusi, intrecciati con il rischio endemico del conflitto di interessi. Non a caso autorevoli analisti, con pittoresca ma efficace espressione, parlano di kamasutra proprietario.

E’ evidente che occorre un intervento legislativo urgente ed autenticamente

riformatore, ma è altrettanto indispensabile che l’attuale apparato regolamentare e normativo sia fatto rigorosamente rispettare dalle nostre autorità di controllo e di Borsa.

Chiarezza nella proprietà, contendibilità trasparente nei mercati, accessibilità al capitale di rischio, non sono un paradigma liberista, ma la condizione primaria per il rafforzamento e l’emancipazione delle nostre imprese.

La nostra struttura produttiva ed i nostri servizi accentueranno la deriva di grave declino e di progressiva residualità se continueremo ad avere e tollerare l’azione di concerto, l’elusione dell’OPA, l’affarismo immobiliare, l’uso di informazioni privilegiate per arricchimenti personali, i bilanci fatti con lo sbianchettatore. Che dire, poi, dello strabismo dei controllori, della proprietà concentrata nelle mani di una sola persona, del 46% di SRL, dell’autoreferenzialità del management premiato da lucrosissime stock options?

Cattive privatizzazioni, poca liberalizzazione, scarsa contendibilità sono co-fattori della crisi, ma non sono gli elementi determinanti delle gravi insufficienze del nostro sistema manifatturiero e della nostra industria dei servizi.

Quello che colloca in una sede sempre più periferica la nostra industria è il modello di capitalismo molecolare, se non individuale, che la contraddistingue. Oltre un milione di partite IVA, più di centotrentacinquemila imprese piccole o

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piccolissime, tremilacinquecento medie, non sono l’indice di una vitalità produttiva, di una flessibilità ad alto valore competitivo. Significano, invece, pochi investimenti fissi per addetto, minore forza lavoro qualificata, bassa tecnologia, eccesso di standardizzazione, meno investimenti in capitale umano, grandi difficoltà nei mercati internazionali.

Non è questa la risposta per difenderci dal neofordismo dei Paesi emergenti o da quello high-tech dei Paesi più avanzati.

Per uscire dalla crisi occorre che il nostro sistema produttivo venga adeguato ai

cambiamenti della specializzazione internazionale. Stimolando la vocazione industriale, intrecciando, in modo indissolubile, una nuova qualità del sistema paese, con una politica economica efficace e modernizzante e con la trasparenza dei mercati.

Il nostro modello fortemente sbilanciato verso i settori ad alta intensità di manodopera poco qualificata è entrato in caduta libera per l’arrivo sul mercato di paesi come la Cina e l’India. La risposta del ministro Tremonti è stata il tentativo di ripristinare i dazi o di escludere la Cina dall’organizzazione mondiale del commercio: una misura per continuare a conservare la nostra specializzazione produttiva ad un livello miserabile.

E’ indispensabile, invece, avviare politiche industriali finalizzate alla crescita ed alla internazionalizzazione, favorire il contributo del mercato dei capitali utilizzando le leve del private equity e del venture capital. Finalizzare i fondi disponibili, ma non utilizzati, a sostegno del capitale di rischio con interventi di natura fiscale che, tassando la rendita finanziaria, rendano possibili incentivi selezionati. Come è necessaria, la riorganizzazione dimensionale, proprietaria e settoriale delle imprese, l’efficienza dei servizi, l’alta qualità delle infrastrutture.

Affamare la rendita, demotivare la standardizzazione, investire nell’innovazione, favorire il cambiamento, sono i punti di attacco immediato per recuperare competitività.

Occorrono investimenti consistenti nella ricerca, nella scuola, nelle attività

innovative, nella qualità e sofisticazione del prodotto, nell’innovazione tecnologica, per impedire l’erosione delle nostre quote di mercato.

Esemplare in tal senso è la storia della Svezia, Danimarca e Finlandia. Questi Paesi hanno conosciuto, negli anni Novanta, gravi crisi, con la perdita di campioni nazionali quali Volvo, Saab, Pharmacia. Ebbene, pur registrando un livello di tassazione superiore al 50%, svettano, oggi, in cima alle classifiche della competitività e fanno registrare tassi di crescita tra i più alti. La loro ricetta è stata: investimento del 4% del PIL in innovazione e ricerca, creazione di parchi scientifici, incentivazione delle imprese ad alta tecnologia, attivazione di ammortizzatori sociali e di politiche attive per il lavoro. Ecco la realizzazione della distruzione creativa di Joseph Schumpeter.

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Tra le imprese trovano peculiare collocazione quelle cooperative. Di queste

molto si è discusso negli ultimi mesi. Temi ed argomentazioni hanno travalicato la realtà ed il senso della misura, da un lato e dall’altro. Considerare la cooperazione come un settore ontologicamente etico e senza macchie è errato quanto definirla come un pericoloso percettore di vantaggi fiscali usati, per torbide finalità.

Quella della cooperazione è una storia di grande successo che nasce da un’idea straordinaria. Associare in un patto di reciprocità produttori, distributori e consumatori, destinando il surplus a finalità solidaristiche e mutualistiche. È la realizzazione di un sogno utopico.

Oggi, però, l’orientamento al profitto, l’efficienza mercatistica, la qualità dei servizi, l’accumulazione finanziaria, la tipologia del rapporto di lavoro fanno, della grande impresa cooperativa un modello tipicamente capitalistico.

Vengono così a porsi due problemi che richiedono discussioni meditate e soluzioni adeguate. Il primo è se imprese molto sviluppate, con grandi investimenti, con complesse procedure tecniche, operative e gestionali, capaci di muovere nel mercato ingenti flussi finanziari possano continuare ad essere gestite in modo autoreferenziale, con manager cresciuti in casa, con regole di governance tipiche del modello originario. Il secondo è se l’accumulazione prodotta debba essere indirizzata verso operazioni finanziarie capaci di generare ulteriori utili o se debba essere ridistribuita, in forme rinnovate, sulla base dei principi e dei valori fondativi della cooperazione.

Due esempi per rendere ancora più espliciti i termini della questione: UNIPOL, il terzo gruppo assicurativo in Italia può avere un management proveniente esclusivamente dal mondo della cooperazione e una società di certificazione di bilancio che è anch’essa una cooperativa? E’ giusto canalizzare le risorse accumulate ed indebitarsi paurosamente verso temerari progetti di espansione come l’OPA su BNL?

E’ evidente che le imprese cooperative di grandi dimensioni devono adeguare la loro governance introducendo consiglieri indipendenti, costituendo un sistema di checks and balances tale da avere un’attività regolata e trasparente, separando i poteri gestionali da quelli di indirizzo e controllo, impedendo l’accentramento di poteri e decisioni, dotandosi di manager con esperienze diversificate e maturate in ambienti competitivi, adeguandosi alle norme societarie comuni.

L’utilizzo dell’accumulazione ha, a nostro avviso, un’unica risposta. Il mondo cooperativo deve continuare a fare un saldo, imprescindibile riferimento ai suoi valori sociali e mutualistici e sulla base di questi utilizzare il surplus in forme coerenti.

Le avventure finanziarie per i rischi intrinseci che hanno, per la fascinazione seduttiva che esercitano, per la possibilità di creare ricchezza in pochissimo tempo, ma slegata dall’economia reale, non possono far parte dell’orizzonte cooperativo.

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Il nostro sistema creditizio nel corso degli ultimi anni ha effettuato corpose concentrazioni, avviato innovazioni di processo e di prodotto, investito in tecnologia, allineato gli indicatori di efficienza alla media europea, portato la redditività a livelli vertiginosi.

Pur tuttavia, dobbiamo chiederci se la “lunga marcia verso la terra promessa” della totale emancipazione, della coerenza verso le regole di mercato, della trasparenza verso utenti e risparmiatori, dell’allocazione equa e funzionale delle risorse disponibili, della creazione di valore per tutti gli stakeholders dell’elevata capacità di servizio verso le imprese e la famiglia, sia giunta al termine.

Pur avendo avuto dai lavoratori e dal sindacato disponibilità e sacrificio costante, pur essendo stati noi, in questo viaggio, vedette, guide, esploratori, generosi fornitori di carriaggi, dobbiamo prendere atto che “la terra promessa” non è stata raggiunta.

“Il mondo bancario ha cambiato pelle, ma ha conservato gli antichi vizi. (…) Oggi i grandi gruppi assomigliano sempre più a enormi supermarket con un imperativo categorico: vendere i maggiori volumi ai prezzi più alti”. Non sono, queste, le parole di un no global animato da odio viscerale verso le banche, ma il passaggio centrale di un autorevole fondo de «Il Sole 24» ore di un mese fa.

Analogamente se ascoltassimo un vigoroso e sanguigno oratore affermare “le aziende hanno la convinzione che le banche non siano sempre eque nell’erogazione del credito e soprattutto non funzionino secondo la logica aziendale del rischio, ma autoproteggendosi. (…) I dipendenti avvertono l’incombere della gerarchia, di una direzione centrale che detta regole talvolta oscure o minacciose”. Ci verrebbe da pensare ad un sindacalista arrabbiato e pugnace, invece, si tratta del direttore generale di ABI che commenta, per gli associati, una ricerca fatta effettuare da Eurisko ed Etnolab.

I nostri Istituti si trovano ancora a metà del guado. La crescita dimensionale ha portato alla costituzione di imprese di media

grandezza, abili e capaci nel presidiare in modo difensivo i segmenti del mercato domestico, ma non in grado di competere a livello internazionale.

Gli assetti proprietari sono resi opachi e confusi da intrecci azionari e partecipazioni incrociate, dalla costante crescita del numero di imprenditori industriali e finanziari nel capitale delle banche con evidenti e latenti conflitti di interesse. Ben sette dei primi dieci gruppi bancari per dimensione dell’attivo hanno tra i propri azionisti di riferimento uno o più gruppi industriali e, almeno in cinque casi, gli azionisti industriali hanno posizioni di elevato indebitamento nei confronti del gruppo bancario partecipato.

L’allocazione delle risorse, pur avendo registrato un forte slancio in soccorso di alcune grandi imprese industriali, avviene ancora in forme tradizionali e non idonee a sostenere lo sviluppo innovativo dell’economia italiana.

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L’offerta di credito, pur abbondante e continua, privilegia l’indebitamento a breve, la richiesta di garanzie reali e personali a copertura quasi totale degli affidamenti, eroga i finanziamenti tramite conto corrente.

Gli altri limiti sono la persistente debolezza nei servizi di gestione finanziaria e di riorganizzazione societaria, gli alti costi per l’accesso al mercato dei capitali, il mediocre sistema relazionale fondato più su elementi informali e discrezionali che sulla oggettiva qualità dei progetti. Lo scarso coraggio nel favorire gli investimenti in innovazione, in ricerca scientifica, in infrastrutture materiali e sociali, confinano il ruolo delle banche negli angusti spazi tradizionali, piuttosto che promuoverle come motori dello sviluppo e della riqualificazione del nostro sistema produttivo.

La focalizzazione nel breve periodo, la creazione di valore esclusivamente per gli azionisti, producono effetti stabilizzanti e altamente remunerativi per il management, ma distorcono la funzione sociale dell’impresa, favoriscono i comportamenti speculativi, impoveriscono le aziende con continui processi di ristrutturazioni ed esternalizzazioni.

Il paradigma che ne consegue è: azionisti remunerati ed appagati, manager

strapagati e premiati, imprese più povere in capitali e risorse umane, competizione avventurosa ed esasperata, economia poco sorretta.

Esemplari, in tal senso, sono i dati di Mediobanca sui dividendi distribuiti dal maggio 2004 al maggio 2005. Un fiabesco fiume di danaro pari a 23 miliardi di euro si è riversato nelle tasche degli azionisti. Il corollario è stato: ingenti stock-options per il top management, con cifre che rappresentano, per i lavoratori del settore, un mortificante riferimento e che ingenerano nei risparmiatori – se rapportate agli ultimi scandali finanziari – dubbi severi.

Ci permettiamo di ricordare che è un’equazione fallace e ingannevole quella che fa corrispondere al massimo valore per gli azionisti il massimo del benessere sociale.

Ci sembra opportuno ricordare, poi, che se si confrontano i dati relativi al ROE con i risultati delle indagini di customer satisfaction fatte da ABI ed Eurisko, si evidenzia in modo indiscutibile che quanto più cresce il ROE tanto più l’indice di soddisfazione della clientela diminuisce. E quello dei lavoratori? Quello lo misuriamo noi ogni giorno ed è veramente molto basso.

Noi vorremmo che ABI e le banche tenessero in gran buon conto le nostre

obiezioni, perché non provengono da studiosi che, come scriveva Wolfgang Goethe, “sono confinati nel loro studio e vedono il mondo solamente il dì di festa, solo col cannocchiale, oppure da lontano”, ma da persone che vivono nella quotidianità tra i lavoratori ed i clienti, che ne percepiscono gli umori, le paure, le aspirazioni, che registrano giorno dopo giorno lo iato che si allarga tra banche, dipendenti, risparmiatori.

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Per questo chiediamo di finalizzare il massimo sforzo per recuperare credibilità, partendo da una sincera riflessione sul modus operandi ed innescando un cambio profondo nelle scelte.

Se, secondo una ricerca «Newfin-Bocconi», il 53% degli addetti chiede come primo provvedimento che “vengano trattati meglio i clienti”, il segnale è chiaro ed inequivocabile.

Altrettanto indicativi sono i risultati di una ricerca effettuata da «Forrester Research», condotta su 23.000 consumatori di prodotti finanziari in sette Paesi. Alla domanda: “siete soddisfatti della vostra banca?” Ha risposto di sì il 64% degli intervistati degli altri Paesi e il 39% degli italiani. Alla successiva che chiedeva:” la tua banca ti tratta onestamente?” Ha risposto positivamente solo l’11% degli italiani.

E’ Alan Greenspan a sostenere che per il credito la reputazione è tutto e rappresenta un eccezionale valore di mercato. E’ Joseph Stiglitz che ha definito i cinque precetti nell’azione economica: “onestà, equilibrio, giustizia sociale, corretta informazione, responsabilità”.

Cirio, Parmalat, Argentina, Finmak, Finpart, Giacomelli, Bipop, B.P.I., For you, My way, non sono il ritornello di un brano melodico, ma una scansione martellante che parla di risparmiatori depauperati, del mancato funzionamento dei controlli, dell’esasperazione commerciale, dei risultati nel brevissimo periodo, del ROE hic et nunc, della subordinazione degli interessi collettivi alla redditività aziendale.

Le cifre che sono state bruciate in queste avventure sono impressionanti, tenendo conto in modo ottimistico dei recuperi attuali ed ipotizzabili per il futuro, gli analisti indicano in oltre 14 miliardi di euro il risparmio bruciato. E’ necessaria una netta inversione di rotta.

Noi chiediamo alle banche di agire in modo socialmente responsabile, di uscire

dall’avvitamento della creazione di valore per i soli azionisti. Di non considerare la massimizzazione dei profitti un moloch al quale sacrificare vittime sempre più numerose. Di superare l’ossessione della commercializzazione. Di riscoprirsi motori dello sviluppo, di ricostruire con la clientela un rapporto di fiducia. Di valorizzare professionalmente ed economicamente la risorsa umana. Di contribuire a costruire nel Paese un clima di speranza.

Non siamo afflitti da antimodernismo quando esprimiamo le nostre critiche perché per farlo abbiamo usato Deming, Becker, Simon, maestri del pensiero economico liberale.

Sulla base di questi presupposti noi rivendichiamo che le aziende diventino luoghi in cui “ decisori cooperanti cercano soluzioni soddisfacenti per l’organizzazione di cui fanno parte “ . Ispirandoci a questo patrimonio di pensiero noi vorremmo che le banche “fossero consapevoli che le differenze di capitale umano sono molto più esplicative rispetto alle differenze di capitale reale” e che “ la qualità

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del prodotto e del servizio è intimamente connessa alla qualità dell’azienda, della sua organizzazione e del suo management”.

La nostra azione è stata sempre improntata ad acquisire nelle banche questa rivoluzione copernicana teorizzata da pensatori liberali a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta.

Analogamente noi ci battiamo per la responsabilizzazione delle aziende verso i differenti interessi sociali coinvolti e perché l’efficienza e l’efficacia non siano variabili dipendenti del profitto, ma divengano innalzamento della qualità dei prodotti, dei servizi alla clientela, del contenimento dei costi verso l’utenza.

Se è nostro primario interesse lo sviluppo equo e responsabile noi possiamo solo essere contrari a delocalizzazioni che, invece di contribuire ad incrementare i sistemi di welfare , protezione ambientale e i diritti dei lavoratori, siano realizzate per approfittare delle condizioni di debolezza della legislazione sociale dei Paesi coinvolti.

Anche su ABI ci interroghiamo e riflettiamo se l’attuale composizione e la sua governance corrispondono ai mutamenti del sistema creditizio.

Voglio, però, preliminarmente rivolgere il mio saluto a Maurizio Sella che quest’anno, per il limite invalicabile del numero dei mandati, lascerà la Presidenza.

Sella è stato un negoziatore roccioso, ha navigato nei marosi del settore, ha preservato l’indipendenza della sua associazione dagli assalti del governo, ha provato con sincerità a recuperare una corretta dialettica sindacale nelle aziende riottose e cupamente padronali come CREDEM e B.P.I. Ha interpretato il suo ruolo con le caratteristiche del gentiluomo piemontese integro ed onesto e con la caratura di sincero democratico. La sua è stata una sfida che ci ha impegnati su terreni non tradizionali per il sindacato, alla quale abbiamo risposto con aperture altrettanto non convenzionali. A Sella, che salutiamo con stima ed in amicizia, auguriamo ancora una lunga marcia in istituzioni anche più prestigiose.

Ma i limiti ed i problemi di ABI permangono. Ci chiediamo se la costituzione dei gruppi creditizi non richieda un ammodernamento delle attuali regole di governance, se il voto di un associato con 27.000 dipendenti debba continuare a pesare come quello di uno con 200 addetti. Se la costituzione dell’esecutivo non sia troppo federativa, se il peso delle piccole banche non sia eccessivo, se le sfide che il nuovo governatore porrà certamente al sistema non richiederanno una associazione più flessibile, più agile, più pronta ad un rapido cambio di passo.

Siamo convinti che o si danno risposte, serie e coerenti a queste problematiche o le politiche dei gruppi tenderanno ad essere autonome, meno legate ad ABI ed assisteremo ad una segmentazione della rappresentanza delle banche.

Noi siamo contrari a tutto ciò e auspichiamo che una riforma ci sia e in tempi rapidi, che i grandi gruppi si parlino e trovino intese proficue tra loro, che ritornino ad essere più presenti e protagonisti in ABI anche per concordare sul nome di un nuovo presidente che faccia la sintesi più ampia e sia di grande rappresentatività.

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La nuova fase di riorganizzazione che il settore del credito si appresta a vivere,

l’estensione e la profondità dei prevedibili processi di esternalizzazione, di societarizzazione, di internazionalizzazione, l’ulteriore deriva commerciale, l’esasperazione della concorrenza in territori saturi di sportelli bancari , dovranno essere affrontati da un sindacato forte, autorevole, coeso, profondamente radicato nella consapevolezza dei lavoratori e legittimato da un rapporto democratico costante e sempre esigibile. L’esperienza di questi anni è stata produttiva. Con FIBA, FALCRI, UILCA e DIRCREDITO siamo riusciti a far condividere e sottoscrivere ad ABI un protocollo sullo sviluppo sostenibile che delinea le responsabilità delle imprese bancarie verso tutti i portatori di interesse a cominciare dagli utenti. Insieme con loro abbiamo acquisito un soddisfacente contratto, mentre la FABI ci irrideva dalle pagine dei giornali e ci contestava nelle assemblee . Ancora insieme abbiamo affrontato con successo le crisi aziendali, criticato, a ragione e con coraggio, Fazio e la sua gestione illegittima e immorale delle OPA bancarie. Abbiamo contribuito in modo determinante perché negli intensi e continui processi societari e riorganizzativi gli interessi ed i diritti dei lavoratori fossero tutelati con equità e senza precarizzazioni. E’ un bilancio molto positivo sancito da uno straordinario consenso e che ha visto tutte le organizzazioni rafforzarsi in termini di iscritti e di insediamento, nonostante la concorrenza aggressiva della FABI. Ritenevamo che con questi alleati avremmo condiviso il futuro e difficile cammino, ma il patto politico ed organizzativo tra la CISL e la FABI modifica radicalmente il contesto dei rapporti unitari. Senza voler entrare nella libera e legittima autonomia decisionale di un’altra confederazione, riteniamo opportuno ricordare come la FABI in questi anni si sia segnalata per i continui e pesanti attacchi soprattutto alla FIBA/CISL ed al suo segretario generale, per una offerta di servizi poco pertinente con la funzione di rappresentanza sindacale e finalizzata alla sottrazione di iscritti alle altre organizzazioni, per la sottoscrizione di accordi aziendali in peius in banche – come il CREDEM e la BPL – dove maggiore era lo sfruttamento, minori i diritti Senza considerare il costante fiancheggiamento a Fiorani nelle sue scalate al punto da avere un dirigente territoriale nel CdA di una delle aziende del suo gruppo.

E’ sufficiente una lettera di intenti e un patronage partitico per sanare tutto ciò? Noi riteniamo di no. Per questo abbiamo sostenuto e continuiamo a sostenere, insieme con DIRCREDITO FALCRI UILCA, che l’evoluzione della FABI vada monitorata con attenzione nelle sue scelte congressuali, nei comportamenti dei suoi gruppi dirigenti, nelle opzioni che progressivamente nel tempo praticherà nella politica dei servizi e nelle aziende.

Non è mai esistita una preclusione regressiva od umorale, o un’antistorica conventio ad escludendum, ma una valutazione attenta ed equilibrata sui fatti e sui comportamenti. Per tali meditate e serene ragioni non soggiaceremo mai supinamente alle politiche di potenza ed ai potentati né a quella dei fatti compiuti.

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Ci permettiamo, poi, di rammentare che fu per un analogo patto politico ed organizzativo con FEDERDIRIGENTI che la FABI, su proposta della FIBA/CISL, fu esclusa dall’ alleanza sindacale. La motivazione era chiara: costituzione di posizione dominante nel rapporto unitario, eccesso di concentrazione, modificazione degli equilibri.

Quanto a noi, al di là delle scelte della CISL e della FIBA, riconfermiamo la netta contrarietà ai tentativi di costruire con partiti, aziende, pezzi di sindacato confederale e di categoria, un blocco che faccia del moderatismo la sua linea politica e la sua strategia rivendicativa.

Il “Patto per l’Italia” è un’esperienza che ha già chiarito, in modo definitivo, qual è l’orizzonte di simili iniziative. Noi continuiamo a credere nell’autonomia sindacale, nella difesa della contrattazione collettiva nazionale, nel rafforzamento di quella integrativa e nel considerare unico parametro di riferimento i diritti e gli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori.

La nostra attenzione verso i C.d.A., gli accordi consociativi, gli schieramenti, le velleità egemoniche è pari allo zero assoluto. Noi siamo solidali ed unitari per motivazioni ideali e prassi politica. Riteniamo che solo un riformismo forte e socialmente orientato offra ruolo e senso all’attività sindacale.

Questo riformismo nella nostra categoria, si traduce in presidio irrinunciabile dell’area contrattuale e nella sua estensione ai nuovi processi societari, nell’intransigente indisponibilità ad ogni tentativo di precarizzazione del lavoro, nell’estensione dei poteri contrattuali in azienda, nel controllo rigoroso della prestazione lavorativa, nel pungolo costante nei confronti di banche ed assicurazioni perché si impegnino in un processo virtuoso a sostegno dell’economia nazionale.

Con modestia e spirito unitario chiediamo alle organizzazioni nostre ospiti di darci delle risposte su questo percorso e su queste scelte.

Il settore assicurativo ha vissuto anch’esso una lunga fase di razionalizzazione

e di riorganizzazione contrassegnata da una esemplificazione del numero delle aziende, da profondi mutamenti negli assetti proprietari, da significative revisioni degli standard operativi e gestionali, da una forte riduzione dei costi, nonché dall’innovazione dei canali distributivi.

Dopo un periodo di stasi, in cui l’ulteriore concentrazione è avvenuta più per la vendita di partecipazioni di società minori da parte dei grandi gruppi, che per rilevanti operazioni di mercato, la scena è tornata ad animarsi.

La fusione di RAS con ALLIANZ in una società di diritto europeo, la costituzione da parte del S.PAOLO-IMI di un nuovo maxi-polo del ramo vita, il tentativo fallito, da parte di UNIPOL, di costruire un conglomerato assicurativo e bancario, indicano una ripresa di effervescenza. I prodromi di questo cambiamento

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erano leggibili nel vorticoso avvicendamento nel top management delle compagnie che si è verificato nel corso dell’ultimo anno.

I risultati economici del settore sono stati di eccellenza registrando un + 10,6% nel 2003, + 4,2% nel 2004, + 12% nei primi nove mesi del 2005. Il rapporto tra l’insieme delle spese ed i premi incassati è pari a 96 su 100, ovvero per ogni cento euro di premi incassati, ne vengono spesi solo novantasei per il rimborso dei sinistri ed i costi di gestione. Le spese di acquisizione dei contratti sono diminuite di un terzo rispetto al 1998, mentre quelle di amministrazione sono scese della metà.

La diminuzione del personale, tendenza invertita solo nel 2005, oltre a comportare un rialzo del rapporto premi-addetti, ha influito significativamente sui costi.

La redditività è stata negli ultimi anni crescente, sostenuta anche dal margine di sottoscrizione, ovvero della gestione al netto di proventi finanziari.

L’incidenza del totale dei premi sul PIL è passato dal 5,8% al 7,6% ed hanno concorso a questo risultato sia l’andamento positivo del ramo vita con uno +6,4%, sia quello del ramo danni con +3,6%. E’ chiaro, così, che mentre la nostra economia languiva ed il paese declinava, banche ed assicurazioni rimpinguavano doviziosamente le loro casseforti.

I dati illustrati potrebbero farci pensare che ci troviamo dinanzi ad imprese

adeguatamente competitive tra loro, totalmente rispettose della legislazione e delle norme e che operano in un mercato pienamente liberalizzato e con soddisfazione dei clienti.

Non è così. Il mercato assicurativo è notoriamente un “mercato di accomodamento”, dove la concorrenza si esplica in forme molto morbide. Non a caso, i profitti complessivi si posizionano ad un livello intermedio, con oscillazioni poco rilevanti e la liberalizzazione non ha prodotto alcun abbassamento dei prezzi.

L’orientamento commerciale prevalente è ancora verso il prodotto e non verso il cliente, del quale non si tiene adeguatamente conto della propensione al rischio. Infatti, le contestazioni si riferiscono all’assenza o alla poco evidenza di indicazioni circa le garanzie, i costi ed i rischi eventuali.

Le nostre obiezioni sono documentate. L’ISVAP, nel corso del 2004, ha proceduto a 7.600 provvedimenti sanzionatori di cui 6.000 per la violazione della normativa in materia di trasparenza. Cinquantotto imprese sono state indagate per violazioni commerciali, di quindici prodotti è stata bloccata la produzione e di altri quarantadue è stata inibita la commercializzazione.

La politica commerciale vede ancora il ramo danni non adeguato alle potenzialità e nel suo ambito fortemente prevalente la RCA. Ciò è dovuto alla povertà dei prodotti, ma anche a scelte che tendono ad escludere settori ed attività che vengono ritenuti più rischiosi come gli incidenti domestici, i rischi professionali ed industriali, il credito e la salute. E’ evidente il paradosso: in Italia abbiamo

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assicurazioni che non assicurano e che stentano ad assecondare il processo di crescita del sistema produttivo e di quello dei servizi.

Le tariffe continuano a lievitare senza alcun riferimento reale e nel segmento RCA si registrano arbitrìi che in molte zone del sud non consentono ai nuclei familiari monoreddito di stipulare polizze per la loro altissima esosità.

Le relazioni sindacali, al di là di costanti dichiarazioni di volontà concertative, virano decisamente verso il basso. I demandi previsti dalla sottoscrizione dell’ultimo CCNL non sono stati onorati. La mancata verifica economica, il non avvio della long term care, le assunzioni effettuate in aziende leader del settore con l’utilizzo delle forme più odiose della Legge 30, configurano una difficoltà obiettiva ed ascrivibile solo ad una controparte poco attenta alle ragioni del sindacato ed agli interessi dei lavoratori.

Ci attendiamo una netta correzione di rotta a partire dal confronto sulla nuova piattaforma che sarà presentata da qui a poco. I contenuti di questa dovranno essere ancorati ad alcune priorità come l’estensione dell’area contrattuale; l’abolizione di ogni precarietà occupazionale; la riunificazione della filiera produttiva delle imprese; il progressivo superamento della parte terza del contratto; l’istituzione di un nuovo livello di confronto aziendale che riguardi la rete agenziale.

Intendo, poi, esprimere la più grande solidarietà alle lavoratrici ed ai lavoratori

dell’ANAGINA che aspettano da tempo il rinnovo del contratto e che vedono giorno dopo giorno peggiorare le condizioni lavorative e mortificate le loro legittime aspettative. Decideremo, nei prossimi giorni, le necessarie iniziative per porre fine a questa incredibile ed incresciosa situazione.

Abbiamo accolto con favore la nomina di Mario Draghi a governatore e siamo

certi che riporterà la Banca d’Italia ad un rapidissimo recupero di credibilità ed autorevolezza, ricollocandola tra le istituzioni più rappresentative. La sua competenza indiscussa, l’eccellente reputazione, il consenso internazionale, la lunga esperienza maturata in gangli vitali dello Stato sono garanzia di successo e danno certezza sulla autonomia e indipendenza della Banca d’Italia. I problemi che dovrà affrontare sono enormi sia sul piano interno che su quello esterno.

Una legge di tutela del risparmio, arrivata con grande ritardo, ansimante, piena di contraddizioni ed inquinata dalle norme sul falso in bilancio non lo aiuterà certamente. Dovrà da subito affrontare un problema vitale come il conflitto di interessi.

Toccherà, infatti, alla Banca d’Italia riformare e regolamentare il rapporto banca-impresa definendo anche la soglia tra le posizioni di rischio dei soggetti comunque collegati alla banca ed il patrimonio di vigilanza. Come è urgente, anche per la spinta delle istituzioni comunitarie, rimodellare la governance delle banche

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popolari in modo tale da renderle più compatibili con l’evoluzione e l’integrazione dei mercati.

Anche sul piano interno i problemi sono molteplici e complessi. E’ necessario avviare il ricambio, riformare il direttorio, rinnovare la struttura gerontocratica di cui Fazio si era circondato. Direzione generale e vigilanza attendono la nomina di personalità indiscusse, competenti e, soprattutto, indipendenti.

L’attuale dimensione e l’integrità organizzativa andranno difese creando nuove funzioni, coerenti con la missione e tali da consentire il pieno utilizzo delle eccellenti risorse professionali esistenti nell’Istituto. L’avvento dell’Eurosistema, l’informatizzazione, i mutamenti della funzione di vigilanza hanno inciso pesantemente sul personale e richiedono interventi organizzativi estesi.

Questione di rilevante significato sarà l’impostazione delle relazioni sindacali. Usciamo da una fase di scontro durissimo, abbiamo dovuto fare ripetutamente ricorso all’Autorità Giudiziaria per far valere i nostri diritti. La funzione contrattuale del sindacato è stata negata ed attaccata. Rivendichiamo un rapido rientro nella normalità, il ripristino di rapporti con il sindacato equilibrati e corretti, la chiusura del contratto, l’apertura di tavoli che ci consentano di esprimerci e di confrontarci sui progetti di riforma e sui processi di riorganizzazione.

Abbiamo sollevato per primi la questione Fazio, per primi ne abbiamo chiesto le dimissioni. Abbiamo sempre sottolineato che i lavoratori e le lavoratrici della Banca d’Italia rappresentano un alto e forte bastione di conoscenze e di capacità, ma soprattutto di moralità e che l’etica del civil servant ha sempre improntato l’attività di gran parte dei dirigenti e di tutto il personale.

Il nuovo governatore potrà contare su di loro per dimostrare a tutta l’Italia ed agli altri paesi il recupero di prestigio, di capacità di persuasione e di stile di vita nella consapevolezza che i valori non sono assoggettabili allo scrutinio dei mercati, né alle reti di amicizia.

Alle compagne ed ai compagni della riscossione va un riconoscimento

particolare non solo per il modo convinto, sereno e generoso con il quale confluirono, nel 1972, nella FIDAC, ma soprattutto per aver da sempre condotto una battaglia contro l’elusione e l’evasione fiscale. Le grandi manifestazioni, gli scioperi per la riforma del settore contro i gabellieri e le gabelle erano finalizzati all’efficienza del sistema in modo da renderlo un efficace strumento operativo, per garantire anche in questo paese l’ottimizzazione e l’equità del prelievo fiscale. Ma la riforma è stata incompleta, soffocata, da un lato, dalla volontà politica di non colpire con severità l’area dell’evasione e, dall’altro, da un disinteresse progressivo e strisciante delle banche verso un comparto che non corrispondeva più, come un tempo, lauti compensi a fronte di pochi investimenti e nessun rischio. L’insensibilità verso la fiscalità locale, la non adozione di strumenti tali da intercettare nuove fette di mercato, l’adagiarsi

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sulla rendita di posizione e sul meccanismo della clausola di salvaguardia, hanno trasformato il settore in una sorta di porto delle nebbie. I soli momenti di agitazione e di fibrillazione avvenivano in occasione dell’organizzazione dell’azione hobbistica, per assicurarsi l’erogazione di fine anno. In questo modo, il declino costante ha comportato anche pesanti processi di ristrutturazione in termini di occupazione e di riduzione dei costi. Se, oggi, dovessimo descrivere figurativamente il comparto ci verrebbe in mente un giovane forte, volitivo, ambizioso trasformatosi per pigrizia ed inettitudine in un Oblomov decadente ed impotente.

Tuttavia, la prevista riforma, inserita nella Legge finanziaria, non ci rassicura né sul terreno delle garanzie per i lavoratori, né su quello di una seria volontà di lotta all’evasione. Numerose le zone di ombra, grandi e motivate le perplessità, tanti i nodi gordiani. Dove verranno reperite le risorse per il recupero dell’evasione? Dove quelle per consentire alle banche di uscire dal settore sanando le ingenti somme pregresse non riscosse? Quali saranno le innovazioni normative e tecniche che renderanno efficiente e certa l’attività riscossiva? Se “cartelle pazze” ha rappresentato la norma in questi anni, cosa ci aspetta in assenza di investimenti tecnologici e di indicazioni operative nella fase di transizione? Come intersecherà “Riscossione Spa” con le società fiscali che le Amministrazioni locali stanno creando per riscuotere i tributi di competenza? Quale futuro professionale e retributivo è riservato ai dipendenti? Se è vero, infatti, che la riforma garantisce per il momento le tabelle e le norme in essere, nulla è detto circa gli assetti contrattuali successivi. Inoltre, anche la dimensione finalistica della legge, ovvero un fisco più giusto e con meno evasione, sembra essere, ad un’attenta lettura, più una delle solite demagogiche affermazioni di Tremonti, piuttosto che una seria incisiva possibilità.

Per tali motivi sarà necessario monitorare con grande attenzione le varie fasi, definire un impianto progettuale a tutela dei lavoratori e capace di porre finalmente in un nesso armonico libertà, responsabilità, tasse e coesione sociale.

Da europeisti convinti auspichiamo per UNI un ruolo diverso. I processi transnazionali sempre più corposi e dinamici richiederebbero, a nostro avviso, modalità organizzative e di funzionamento differenti da parte di UNI.

Il primo quesito che si pone è se l’attuale articolazione per zone e per regioni sia in grado di reggere il cambiamento.

Le zone, costituite da una aggregazione sindacale basata su affinità di modelli linguistici, culturali e di relazioni industriali, appaiono decisamente statiche. Come in un mercato protetto, infatti, vengono favoriti comportamenti di autotutela dei più forti, inibita una dialettica libera ed aperta, indotte rendite di posizione sindacale a causa di una rappresentanza di interessi molto chiusa.

I confini delle zone sono, storicamente datati, che tendono a cristallizzare le dinamiche nazionali. Noi siamo per il superamento delle zone e per una loro radicale modifica.

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Una società aperta, una società in continua evoluzione richiede un sindacato transnazionale capace di aggregarsi intorno ad assi culturali, modelli relazionali, piattaforme programmatiche e contenuti politici.

Siamo, altresì, convinti che ai primi posti dell’agenda di UNI vada collocato il superamento dell’orizzonte strettamente e geograficamente europeo.

Vanno intensificate, legittimate e sostenute le relazioni con i sindacati della Riva Sud del Mediterraneo con l’obiettivo di fornire il nostro autonomo contributo al processo di Partenariato Euromediterraneo. Anche su questo argomento ci chiediamo se valga la pena conservare tra UNI Europa ed UNI Africa rigidi confini organizzativi, funzionali e statutari.

Nel merito della nostra attività osserviamo come sia in corso da parte del Parlamento Europeo e della Commissione un tentativo di favorire una deriva liberista, annullando il modello sociale europeo, minandolo anche ideologicamente negandone l’esistenza e la funzionalità. Dobbiamo reagire con grande determinazione e con durissime battaglie come stiamo facendo contro la Direttiva sui Servizi.

Infine, non possiamo continuare ad eludere una discussione forte e franca sulla Costituzione europea, sui referendum nazionali e sul posizionamento dei sindacati. Sappiamo benissimo che è una questione delicata e potenzialmente lacerante, ma ugualmente non ci possiamo sottrarre perché inerisce il tema di fondo: quali politiche vogliamo realizzare con i sindacati affiliati ad UNI Finanza ed UNI Europa?

Da Bernadette aspettiamo parole chiare ed indicazioni precise.

La CGIL celebra quest’ anno il suo centenario. E’ una storia straordinaria della quale noi facciamo parte con onore. E’ la storia di chi ha vissuto il sindacato come autonomia, progetto, forza

unificante. Sin dai primi momenti costitutivi, quando le Società di Mutuo Soccorso e quelle

Operaie, fondavano le Camere del Lavoro il carattere distintivo è stato quello di essere e di sentirsi classe generale e di finalizzare, a questo scopo, idee, scelte, prassi.

La giustizia sociale, la libertà, il progresso sono stati i temi che hanno ispirato la nostra azione. Ci siamo mossi facendoci sempre carico della prospettiva, del bene e del meglio per il Paese, costruendo nel presente il futuro.

Abbiamo supplito le carenze dello Stato e l’assenza di un’autentica classe dirigente.

Le nostre scelte sono state inequivocabilmente proiettate all’affermazione della democrazia, della pace, della fratellanza e della solidarietà tra i popoli.

Abbiamo compiuto un cammino lungo, duro, irto di difficoltà. Per le nostre coerenze abbiamo pagato un alto contributo di sangue.

Per questo siamo stati, siamo e rimarremo determinanti per il nostro Paese. Abbiatelo sempre per certo: la Storia siamo noi.

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La FISAC/CGIL ha sempre condiviso questa impostazione ideale e ne ha tratto l’ispirazione per il suo agire.

Il nostro lavoro ha contribuito alla modernizzazione dei nostri settori. Con le idee, le prassi contrattuali e negoziali, con il consenso dei lavoratori li

abbiamo aiutati ad emanciparsi, a rafforzarsi, a liberarsi dalle tentazioni corporative ed isolazioniste.

Ci siamo sempre rapportati con le altre sigle sindacali con lealtà e rispetto. Siamo una organizzazione serena e pacata, ma anche pronta a tutte le sfide, pur

sperando ed impegnandoci perché non ce ne siano. La coerenza, l’eticità delle nostre battaglie ci hanno portato in una posizione

dalla quale non intendiamo arretrare di un millimetro. Lo affermiamo nella sede più alta, quella congressuale, lo confermiamo a tutti

gli interlocutori presenti ed a quelli che ospiteremo domani. Il futuro ci impone nuove prove e noi dobbiamo esser pronti a dar loro risposta.

Per far questo dobbiamo partire dal nostro passato. Dobbiamo riappropriarci della nostra storia per rielaborarla ed assumerla come

codice genetico, identità, appartenenza sottraendola alla museificazione. Il passato non può essere interpretato in chiave memorialistica, agiografica

perché significherebbe chiuderlo in una teca, smaterializzarlo, confinarlo nel limbo del “come eravamo”.

Chi ha partecipato ai congressi ed ha letto tutta la pubblicistica che, a livello territoriale, è stata prodotta con minuziosa capacità di ricostruzione storica, si è reso conto della straordinaria attualità di molte tematiche e di come le compagne ed i compagni ne tenessero conto nei loro interventi per avanzare proposte ed iniziative.

Anche noi, per la nostra riforma organizzativa, faremo così: ritorneremo alle esperienze precedenti per attualizzarle e trovarne ispirazione.

Da sempre la FISAC/CGIL, nelle fasi di transizione che precedevano le svolte, ha scelto di ripartire dall’anello più esposto e più vicino alle lavoratrici ed ai lavoratori, per rafforzarsi, trovare nuova linfa ed essere pronto al nuovo.

Per questo va superata da subito una visione miope e riduttiva per la quale la prospettiva della Conferenza di organizzazione si risolverebbe in un ricambio generazionale.

E’ questo un tema certamente ineludibile, ma non sufficiente. Saremo, invece, impegnati in una sostanziale trasformazione per trovare un

nuovo equilibrio politico ed organizzativo che consenta la ridistribuzione di poteri e risorse.

Di questo processo sono certo che le donne saranno le interpreti più sensibili, più determinate, più coraggiose. Il loro protagonismo è sempre più autorevole e le pone costantemente all’avanguardia, costringendoci ad una continua rincorsa emulativa e ad un ripensamento del nostro modo di essere e di fare. Vederle all’opera

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RELAZIONE INTRODUTTIVA VI CONGRESSO FISAC/CGIL

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nelle condizioni più difficili, nelle trattative più defatiganti, nelle interlocuzioni più aspre rappresenta un autentico percorso formativo su come il nostro lavoro possa essere svolto con intelligenza, passione e pragmatismo.

Vederle sempre più numerose nella FISAC/CGIL è motivo di grande conforto per il domani.

Tutta la lunga e partecipata fase congressuale, il fervore delle strutture, la miriade delle iniziative e la loro qualità hanno confermato la straordinaria vitalità della nostra Organizzazione, ma hanno chiaramente indicato che il nostro modello di funzionamento deve essere rivisto.

Gruppi, aziende e territori dovranno avere un equilibrio maggiore, un’interdipendenza più stretta anche nella composizione dei gruppi dirigenti, ma, soprattutto, dovremo cercare e definire insieme strumenti per valorizzare la rappresentanza sindacale nella dimensione più ramificata e capillare. Occorre garantire processi democratici più ampi, più partecipati, più esigibili: i comitati degli iscritti ritorneranno ad essere il baricentro della nostra Organizzazione.

Se le parole d’ordine delle imprese sono concentrare, verticalizzare, gerarchizzare le nostre possono solo essere diffusione, partecipazione, orizzontalità. Questo non per un ideologico od estetizzante antagonismo, ma perché le fasi di dura trasformazione che dovremo ancora attraversare andranno affrontate con gruppi dirigenti informati e partecipi, ma soprattutto consapevoli della trasparenza e della oggettività dei percorsi decisionali. La stessa segreteria nazionale non potrà sottrarsi ad una significativa revisione del suo modus operandi.

Lo spirito di servizio, l’umiltà, la modestia, la capacità di ascolto anche verso le voci più flebili e periferiche saranno la cifra alla quale informare il lavoro.

La centralità e la forza della federazione nazionale non sono il frutto dell’accumulazione di saperi e di poteri, né dell’interlocuzione con le parti datoriali, ma del riconoscimento generale, del consenso più largo.

L’inclusione, valore fondante per la CGIL e per noi, non ha sfumature o chiaroscuri. O è, o non è.

A tal fine occorre un più forte impegno culturale, politico ed organizzativo. Per questo gli anni a venire saranno impegnativi e appassionanti. Non ci aspetta una ordinaria transizione, ma una radicale innovazione. Sono certo che su questo obiettivo ci sarà la generosa disponibilità, la ferma

determinazione, l’appassionata partecipazione, la costante abnegazione di tutti noi. Per questo siamo sereni verso il futuro. Noi non abbiamo idoli da temere, dei da servire, paure da esorcizzare. Noi ci muoviamo nelle strade del mondo come abbiamo sempre fatto, avendo,

kantianamente, la legge morale nei nostri cuori ed il cielo stellato sopra di noi. Bari, 6 febbraio 2006

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Romano Prodi Candidato premier per l'Unione

testo integrale

Care amiche, cari amici. Si, dobbiamo riprogettare l'Italia. Avete trovato uno slogan bello. Ma è molto più di uno slogan. E' un impegno. Un impegno gravosissimo su questo non possiamo farci illusioni. E questo impegno ce lo assumiamo insieme. Senza neanche bisogno di discutere molto abbiamo raggiunto lo stesso tipo di conclusione sullo stato economico e sociale del Paese. Non credo di sbagliarmi se affermo inoltre che vi sia anche concordanza sulle ricette e le politiche che dopo mesi di lavoro abbiamo proposto nel nostro programma. Dobbiamo far ripartire l'Italia se vogliamo dare risposte adeguate ai tanti problemi della nostra società, creare di nuovo occupazione e benessere, offrire serenità e sicurezza alle famiglie, dare un lavoro vero ai giovani, permettere alle nostre imprese e ai prodotti italiani di tornare ad affermarsi nel mondo. E dobbiamo farlo con assoluta urgenza. Io non uso a cuor leggero la parola declino. Ma neppure posso ignorare che negli ultimi cinque anni tutti gli indicatori sono peggiorati. La manifestazione più evidente del declino è l'abbassamento del tasso di crescita della produttività. Esso negli ultimi cinque qnni -unico paese europeo- ha addirittura assunto valori negativi. Sono gli anni del governo della destra, che ha accompagnato il declino senza contrastarlo, o perché non ha compreso la natura strutturale della crisi che viviamo, o perché non ha avuto la capacità, la voglia, la forza di affrontarne le principali manifestaizoni con poltiche adeguate. Nessun artificio polemico, nessun diversivo propagandistico può mascherare questo fatto. E allo stesso tempo è stato creato un disastro finanziario che costituisce una pesante eredità, purtroppo dovremo fare i conti, che condizionerà il nostro operato. Abbiamo comunque già dato prova di saper affrontare le sfide e i problemi. Nella scorsa legislatura abbiamo realizzato il più grande risanamento finanziario, che ha liberato risorse e che ci ha fatto entrare con merito nell'euro. Quello che abbiamo fatto con tanta fatica è stato spazzato via da un governo che ha pervicacemente insistito su una politica che ha costantemente peggiorato lo stato di salute della nostra economia e aumentato le disuguaglianze sociali. Di qui la prima indicazione. Una politica dei due tempi, che faccia precedre il risanamento finanziario agli interventi per lo sviluppo e la redistribuzine del reddito, non è possibile. Non è possibile perchè se l'economia non torna a crescere diventa inattuabile il risanamento stesso. Ci avviteremmo in una spirale tale da condurre il sistema economico sull'orlo del collasso. L'Italia, voglio affermarlo subito con assoluta convinzione, ha le energie e le capacità per superare la crisi. L'Italia ha bisogno di ritrovarefiducia in se stessa, di ripartire puntando sulle sue grandi potenzialità, di ritrovare il gusto della vittoria. Noi alla sconfitta, a un ineluttabile declino, non ci stiamo. Ma per tornare a crescere, per tornare a vincere, sono indispensabili una grande mobilitazione di tutti i cittadini e cambiamenti profondi nei comportamenti che tengono assieme l'economia e la società. Non bastano piccoli aggiustamenti, occorrono riforme radicali (come ha detto Epifani: "un programma ambizioso"). Non potremo ottenere una ripresa di competitività complessiva del sistema senza profonde innovazioni del sistema produttivo, senza un percettibile miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei cittadini, senza un'attenzione nuova alla qualità della vita delle famiglie. E non troveremo le energie per ripartire se non recuperiamo coesione sociale e slancio, se non costruiamo una nuova e più moderna cittadinanza basata sull'etica individuale e collettiva, sull'equità e la responsabilità. Il governo della destrra ci lascia in eredità un paese diviso. Gli italiani sono divisi tra chi ha tanto e chi ha poco; tra chi si è sfacciatamente arricchito e chi si è impoverito; tra chi ha evaso il fisco ed è stato premiato con una raffica di condoni, e chi ha pagato le tasse fino all'ultimo euro; tra chi si è sentito ampiamente confortato dall'azione del governo e i tanti che sono stati abbandonati. Ma un paese spaccato dalle

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diseguaglianze è un paese cattivo, che non ha futuro. Perciò che deve essere chiaro che è finito il tempo dei condoni, dei facili arricchimenti, dell'evasione fiscale: deve tornare il tempo della giustizia, della solidarietà, dello stare insieme, il tempo del rispetto per il lavoro e per lo studio. In questi anni la politica della destra ha radicato l'idea che evadere l'obbligo fiscale sia la normalità. Noi intendiamo ripristinare anche in questo campo la cultura della responsabilità. Noi lanceremo una lotta feroce all'evasione fiscale e contributiva che in Italia, sotto l'occhio complice della destra ha raggiunto livelli che non si riscontrano in nessun paese civile. Il livello è tale che anche solo il recupero di un terzo dell'evasione risolverebbe molti dei nostri problemi. Lotta all'evasione, dunque, come condizione innanzi tutto di equità, ma anche di efficienza del sistema. Ma l'Italia è anche il paese in cui viene riconosciuto un vantaggio fiscale alla rendita mentre viene penalizzato il reddito prodotto dall'impresa e dal lavoro. Questa è una perversione dei valori che devono animare una moderna società civile. E allora agiremo per rendere uniforme il sistema di tassazione delle rendite finanziarie, escludendo però i redditi prodotti dai piccoli patrimoni frutto del risparmio familiare. E al tempo stesso intendiamo ridurre subito, e sensibilimente, l'eccessivo carico contributivo sul lavoro dipendente, in una misura che ho già avuto modo di quantificare in cinque punti nel primo anno di legislatura. Vogliamo dare una scossa, una frustata al sistema produttivo. Anch'io credo che bisogna partire dal lavoro. Abbiamo proposto una riduzine del cuneo fiscale che andando a beneficio sia delle imprese che dei lavoratori, sarà capace di riagganciarci alla ripresa europea, di avviare un nuovo ciclo di investimenti, di stimolare una ripresa dei consumi. Una riduzione che attenuando di molto la convenienza dei contratti atipici contribuirà a contrarre l'area del precariato. Infatti, abbiamo proposto un'armonizzazione dei carichi contributivi sui diversi tipi di contratto. Voglio dirlo con chiarezza, non siamo contro la flessibilità che serve alle imprese per essere competitive. Siamo però assolutamente contrari a quella flessibilità che, in nome della riduzione dei costi, si traduce in precarietà. Dovremo e saremo capaci di armonizzare flessibilità e stabilità superando, attraverso significative modifiche di quella che è impropriamente chiamata legge Biagi, una inaccettabile precarietà permanente che sta penalizzando una intera generazione di giovani. Una generazione che rischia di essere frustrata nelle sue aspirazioni e di essere condannata ad un domani di pensioni miserevoli. La nuova competizione internazionale, la precarietà del mercato del lavoro e la preoccupazione sulla tenuta dello stato sociale vanno affrontate ridando qualità allo sviluppo, trasparenza e credibilità ai conti pubblici e modernizzando lo stato sociale, ribadendo l'impegno a dare a tutti accesso alla salute, a una buona scuola, a un lavoro di qualità, a una vecchiaia dignitosa. Ma possiamo fare tutto questo solo se il paese ritornerà a crescere sul serio. Dunque, dobbiamo far ripartire l'Italia. Sono ormai 25 anni che il tasso di crescita è in diminuzione. Siamo passati dal 3,6 per cento degli anni '70 allo 0,7 del periodo 2001-2004, allo 0 dell'anno appena concluso. Crescita 0 significa un paese fermo. A partire dal 2001 inoltre è avvenuta una forte redistribuzione della ricchezza che ha penalizzato larghe fasce della popolazione, che hanno visto progressivamente peggiorare le proprie condizioni economiche. La mia priorità è invertire queste tendenze per tornare a crescere in maniera sostenuta, nel mentre viene ripristinato un più corretto e sostenibile equilibrio tra i prezzi e i redditi delle famiglie. Solo con un elevato tasso di sviluppo potremo dare risposta ai bisogni di una popolazione che invecchia e alle speranze di affermazione di tanti giovani e donne. E potremo tornare a conseguirlo agendo su più fronti: ridurre, come ho detto, i costi delle attività economiche, rimodellare il sistema delle imprese, puntare sulla coesione sociale come fattore di sviluppo, liberare energie e risorse. Ridotti i costi delle attività economiche, dovremo affrontare con decisione il problema della struttura del nostro sistema produttivo, concentrato in settori con basso valore aggiunto, con una dimensione delle imprese troppo piccole e un tasso di internazionalizzazione troppo basso. Siamo e dobbiamo restare un grande paese

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industriale e quindi occorre una nuova politica industriale. Ci concentreremo su quattro elementi: 1) il trasferimento tecnologico per aumentare il tasso di innovazione delle produzioni; 2) la crescita dimensionale delle imprese con interventi fiscali e normative che favoriscano le fusioni, le acquisizioni, la nascita di gruppi e il consolidamento delle filiere; 3) l'internazionalizzazione con sostegni concreti alle imprese che esportano e che affrontano nuovi mercati e con una politica attiva per favorire gli investimenti delle imprese italiane all'estero e delle imprese estere in italia; 4) la nascita e lo sviluppo di imprese in nuovi settori anche con grandi progetti di ricerca cofinanziati dal settore pubblico. Uno dei perni della nuova politica industriale è il rilancio del ruolo dei territori nella formazione di economie e di risorse fondamentali per la produzine, con la riorganizzazione dei ristretti e la costruzione di reti di servizi avanzati per le imprese. Fronte essenziale su cui agire, come ho detto, è quello della coesione sociale come fattore di sviluppo. La coesione sociale è un elemento fondante della qualità civile di una società, un patrimonio che era stato faticosamente costruito e che negli ultimi anni è stato dilapidato. Noi dobbiamo ricostruirlo, ma in una ottica nuova. L'insieme dei servizi sociali, la sanità, la scuola, la previdenza, la stessa distribuzione dei redditi, non sono, nella nuova ottica solo il risultato di politiche di redistribuzione, ma parte integrante di un progetto di sviluppo civile, sociale ed economico del paese. Non possiamo pensare di competere riducendo il livello delle tutele e dei servizi sociali né aumentando gli squilibri nei redditi, ma al contrario, dobbiamo valorizzare i fattori di equilibrio e di coesione della nostra società per favorirne la crescita. I due settori più importanti sono la sanità e la scuola. La sanità non è solo un costo: è un grande settore che occupa centinaia di migliaia di persone qualificate, che produce tecnologia e innovazione. Finché continueremo a considerarlo un costo, l'ottica dominante resterà quella dei tagli. Se invece lo percepiremo come un settore importante della nostra società, fermo restando l'impegno ad un razionale ed efficiente impiego delle risorse, potremo dedicare la nostra attenzione allo sviluppo e alla valorizzazione delle competenze e delle grandi potenzialità. Per il futuro dell'Italia e per il suo sviluppo l'elemento principale è l'istruzione, fattore essenziale per la crescita civile, e nell'età della conoscenza elemento fondamentale per lo sviluppo del paese. dobbiamo investire in conoscenza diffusa, in quantità ed efficacia dei percorsi formativi, cominciando dalle scuole per l'infanzia fino ai livelli più alti restituendo valori e dignità all'istruzione tecnica (mortificati dalla riforma attuata da questo governo) e creando centri di eccellenza. Siamo consapevoli che la scuola è una macchina complessa che ha bisogno di un progetto condiviso e di lungo periodo per dispiegare l'efficacia della sua azione educativa. Dopo dieci anni di riforme e contro riforme è giunto il momento di mettere in ordine e dare stabilità valorizzando a pieno l'autonomia degli istituti e il ruolo degli insegnanti. Ma è chiaro che la riforma attuata in questa legislatura andrà radicalmente cambiata in alcuni dei suoi aspetti. E la competitivtà economica del paese richiede un grande salto in avanti in tutti i settori della ricerca e della innovazione tecnologica. Investire in formazione-ricerca in particolare nelle discipline scientifiche-tecnologiche è l'unico modo per recuperare consistenti squilibri economici e sociali. Vogliamo dare spazio ai giovani nell'università e nella ricerca perché l'Italia ha bisogno di giovani che insegnino e che facciano ricerca con stabilità e libertà e vogliamo stimolare decisamente le lauree in discipline sientifico-tecnologiche anche in relazione al rilancio e alla creazione di distretti tecnologichi collegati con le università, gli enti di ricerca e le realtà produttive del paese. La società e l'economia italiane sono in declino anche perché non valorizzano appieno le risorse umane - giovani, donne, immigrati - oltre che ambientali e territoriali di cui il paese è ricco. Sono energie e risorse che occorre liberare. In Italia i giovani giungono più tardi dei loro coetanei europei sul mercato del lavoro, sono costretti ad una lunga fase di precarietà che per molti rischia di trasformarsi in una condizione permanente. Questi fattori negativi vanno rimossi. I giovani devono accedere al laovoro con anticipo rispetto ad oggi avendo completato il ciclo di

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studi in tempi più brevi. La flessibiltà è stata interpretata come precarizzazione che non ha aumentato la capacità competitiva del sistema ma lo ha impoverito. In realtà, la società italiana, ha bisogno di meno precarietà ai livelli medio bassi di impiego, mentre necessita di una cospicua iniezione di competizione ai livelli medio alti. Una competizione che premi il talento individuale e la capacità di lavoro, la creatività e la capacità di leadership in una parola il merito. Una competizione orientata a ristabilire il principio di responsabilità. In questi anni la mobilità sociale in Italia si è praticamente arrestata. Dobbiamo farla ripartire perché una società senza mobilità è una società seduta retta da gerarchie sociali consolidate che demotiva le energie nuove e perpetua disuguaglianze inaccettabili. Le donne in Italia partecipano al mercato del lavoro in misura molto minore rispetto agli altri paesi industrializzati, sono penalizzate nei salari e nelle carriere e poco rappresentate nelle istituzioni e nelle sedi decisionali, nonostante il loro livello di scolarità sia in linea con le medie europee. Questa discriminazione priva il paese di una grande ricchezza. I punti chiave da risolvere sono l'accesso, la permanenza nel mondo del lavoro dopo la maternità e le prospettive di carriere e di realizzazione professionale. Va affrontato in maniera decisa il rapporto tra impegno familiare e lavoro, rimuovendo uno degli ostacoli alla natalità e garantendo alle donne e alle imprese una permanente rete di servizi e di normative per sostenere la conciliabilità delle funzioni familiari e lavorative. Per questo, riconoscendo il valore sociale della maternità e della paternità vogliamo dotare ogni bambino di un reddito che aiuti la famiglia fino al raggiungimento della maggiore età e che tenga presente le esigenze delle famiglie numerose. E ci poniamo l'biettivo, nell'arco della prossima legislatura, di aggiungere 3000 asili nido a quelli oggi esistenti. E anche l'immigrazione è una risorsa non pienamente utilizzata. Interi settori dell'economia italiana - agricoltura, alcuni comparti dell'industria, turismo, edilizia e ristorazione - sarebbero già paralizzati senza il contributo di lavoratori stranieri. I timori degli italiani per la competizione sul lavoro e nell'accesso ai servizi sociali non possono essere ignorati, ma possono essere superati con un'immigrazione ordinata e coontrollata numericamente che non leda i diritti di nessuno. Gli assurdi sistemi di accesso e il non governo della qualità dell'immigrazione favoriscono la clandestinità e impediscono la stabilizzaizone e l'inserimento degli immigrati nella nostra società. La Bossi-Fini si è dimostrata una legge demagogica, iniqua, inefficace. Le parole d'ordine di questo governo in materia di immigrazione sono state: chiudere, emarginare, criminalizzare. Noi le sostituiremo con una nuova politica centrata su questi obiettivi: governare, accogliere, costruire convivenza, garantire diritti ed esigere doveri. Il tetto numerico va mantenuto perché il processo va governato, ma dobbiamo rivedere la politica delle quote per una immigrazione di qualità che accolga senza creare clandestinità. Insieme alla selezione dei flussi occorre promuovere e favorire la piena integrazione fino alla cittadinanza. Chi nasce e cresce in Italia deve essere considerato cittadino italiano a tutti gli effetti. Ma anche chi non è nato in Italia e vive e lavora in questo paese deve sapere, se lo desidera e lo vuole, che anche per lui c'è un posto di cittadino. L'acquisizione della cittadinanza italiana deve poter essere un traguardo certo, perché è anche il più efficace strumento di integrazione di cui una democrazia dispone. Qualche giorno fa ho letto l'anticipazione di un libro di tre studiosi che analizza il linguaggio di Berlusconi. Il frutto di questa analisi s'intitola, appropriatamente, "Parole in libertà". Ebbene, analizzando 111 interventi nell'arco di molti anni, i tre studiosi hanno notato, per quanto riguarda il mondo del lavoro, che i riferimenti di Berlusconi a questa sfera non contemplano mai la parola "diritti", mentre appare con frequenza quella di "bisognosi", il che esprimerebbe una visione sociale per cui le dame di carità siano in fondo più utili del sindacato. Per chi pensa che i diritti siano dei lacci che impediscono il pieno dispiegarsi della straordinaria forza del mercato il sindacato è una palla al piede. Noi crediamo invece che i diritti, il loro rispetto, la loro difesa e il loro allargamento siano un motore dello sviluppo. Per questo crediamo che un sindacato forte e unitario costituisca un elemento

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importantissimo nel garantire l'equilibrio indispensabile a far progredire una società complessa come quella italiana. Certo, il ruolo del sindacato è anzitutto legato ai diritti, alla loro tutela. Ma siamo giunti ad un punto in cui non possiamo pensare che tutelare significhi conservare. Difendere ed allargare i diritti ad un buon lavoro, ad una buona qualità della vita, ad un buon salario, ad una pensione dignitosa, richiede oggi una disponibilità al cambiamento anch'essa radicale. Per questo l'Italia ha bisogno di un sindacato che sia anche portatore di doveri.Di doveri individuali e collettivi, di una nuova etica della responsabilità. Un sindacato che sia allo stesso tempo rappresentante di una parte ma impegnato su obiettivi generali e condivisi. Non chiedo a nessuno di abdicare al proprio ruolo e tanto meno di surrogare il ruolo della politifca. Chiedo al sindacato di continuare ad essere un interlocutore forte, esigente, responsabile ed autonomo. Un sindacato forte è indispensabile non solo per il sistema delle imprese, ma anche per il governo del paese, per poter quindi riattivare il prezioso strumento della concertazione che con grande miopia e cinismo è stato accantonato. Possiamo e dobbiamo lavorare assieme e dobbiamo farlo per il bene nostro, dei nostri figli e dell'Italia.