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VIRUS DELL'EPATITE C Caratteristiche generali: Il virus dell’epatite C (HCV) è un virus a RNA appartenente alla famiglia Flaviviridae, genere Hepacivirus, scoperto nel 1989 e che, secondo le stime della WHO (Word Health Organization), oggi sarebbe causa di epatite cronica in circa 71 milioni di persone nel mondo [1]. Struttura e morfologia [2]: HCV appare come un virus sferico, di piccole dimensioni, costituito da un nucleocapside a simmetria icosaedrica, rivestito da un involucro pericapsidico, in cui sono inserite le glicoproteine virus specifiche E1 e E2). Il suo genoma è costituito da un singolo filamento di RNA a polarità positiva, lungo 9,6 kb e contente: 1

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 VIRUS DELL'EPATITE C

Caratteristiche generali: Il virus dell’epatite C (HCV) è un virus

a RNA appartenente alla famiglia Flaviviridae, genere

Hepacivirus, scoperto nel 1989 e che, secondo le stime della

WHO (Word Health Organization), oggi sarebbe causa di epatite

cronica in circa 71 milioni di persone nel mondo [1].

Struttura e morfologia [2]: HCV appare come un virus sferico,

di piccole dimensioni, costituito da un nucleocapside a simmetria

icosaedrica, rivestito da un involucro pericapsidico, in cui sono

inserite le glicoproteine virus specifiche E1 e E2).

Il suo genoma è costituito da un singolo filamento di RNA a

polarità positiva, lungo 9,6 kb e contente:

5’ NTR: sequenza di circa 340 nucleotidi, non tradotta e

altamente conservata, che si trova all’estremità 5’. Tale

regione contiene una sequenza nucleotidica che si comporta

come una regione IRES (Internal Ribosome Entry Site), in

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quanto coinvolta nei processi di traduzione della poliproteina

mediante interazione diretta con la subunità ribosomiale 40S.

3’ NTR: sequenza di 200-235 nucleotidi, non tradotta,

all’estremità 3’.

Un unico open reading frame (ORF), fiancheggiato dalle due

regioni

non codificanti, che codifica per una poliproteina precursore,

di circa 3000 aminoacidi, da cui originano, per scissione

proteolitica a opera di proteasi virali e cellulari, i singoli

polipeptidi virali.

All’estremità 5’ dell’ORF ritroviamo la regione strutturale, che

comprende i geni per capside ed envelope (C, E1 ed E2). Il gene

C codifica per la proteina core (p21), in grado di legarsi all’RNA

genomico grazie alla basicità conferitale dai residui di arginina e

lisina, formando così il nucleocapside virale. La proteina core

sembra essere coinvolta in diversi processi cellulari, come il

metabolismo lipidico, l’apoptosi, la trasformazione e la

proliferazione cellulare. I geni E1 ed E2 codificano per le

glicoproteine E1 ed E2 (gp35 e gp70), altamente glicosilate ed

espresse sull’involucro capsidico.

Il gene NS1: codifica per p7, una proteina a basso peso

molecolare, localizzata alla giunzione tra la regione strutturale e

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non, che forma canali ionici ed è probabilmente essenziale per

l’assemblaggio di particelle virali.

All’estremità 3’ dell’ORF si trova la regione non strutturale che

comprende i geni per le proteine funzionali (NS2, NS3, NS4 e

NS5). Il gene NS3 codifica per una proteina multifunzionale (p70)

con attività proteasica, elicasica e NTPasica. In cooperazione con

NS2, dà luogo alla serina proteasi NS2/3, responsabile del taglio

proteolitico tra NS2 e NS3. Il gene NS4 codifica per una proteina

processata in NS4a (p8) che è un cofattore per l’attività

proteolitica di NS3, e NS4b (p27), proteina associata alla

membrana del RE. La serina proteasi NS3- 4A, influenza la

risposta innata del sistema immunitario dell’ospite, inibendo la

segnalazione di RIG-1 e TLR3. Il gene NS5 codifica per una

proteina che viene processata in NS5a (p59), una fosfoproteina e

NS5b (p68) che è la RNA polimerasi-RNA dipendente (RpRd).

RpRd non possiede attività di ‘correttore di bozze’ e non è in

grado di riparare gli errori di incorporazione dei nucleotidi

durante la replicazione virale, cosa che comporta un’enorme

varietà genetica di HCV, tanto da definire il virus, una

quasispecie. Questa variabilità consente di eludere il sistema

immunitario, impedisce la produzione di un vaccino efficace e

determina una diversa sensibilità alla terapia. Le regioni più

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altamente mutate sono: HVR1 e 2 (regioni ipervariabili 1 e 2) di

E2 e ISDR (Interferon Sensitivity Determining Region) di NS5a.

Oggi si classifica l’HCV in 7 genotipi, indicati da numeri arabi e

con un’identità nucleotidica di almeno il 70% e 67 sottotipi,

identificati con lettere e con identità nucleotidica di almeno 80%.

I genotipi 1 e 3 sono quelli con prevalenza maggiore

(rispettivamente 46% e 30% delle infezioni). In numerosi paesi

dell’Europa il genotipo 1 è il più diffuso. [3]

Modalità di trasmissione [1]: il virus si trasmette per via

parenterale e la percentuale delle varie modalità di infezione è

cambiata durante gli anni. In passato la principale causa

d’infezione da HCV era la trasfusione di sangue infetto, oggi

praticamente eliminata grazie all’introduzione di metodiche di

screening nei donatori di sangue (ricerca anticorpi anti-HCV e

ricerca dell’RNA virale). Tra le modalità prevalenti oggi si

riscontrano: l’abuso di droghe con somministrazione endovenosa,

i rapporti sessuali non protetti, trasmissione verticale madre-

figlio ed esposizione accidentale di personale sanitario.

Ciclo replicativo: il virus circola nel sangue dei pazienti infetti

sotto forma di virioni associati a LDL/VLDL (low density

lipoproteins/very low density lipoproteins). Gli epatociti

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rappresentano il bersaglio primario, ma è possibile anche

l’infezione di altri tipi cellulari quali le cellule mononucleate di

sangue periferico (PBMC). L’ingresso del virus nelle cellule

necessità di numerosi fattori: inizialmente le particelle di HCV

associate alle lipoproteine si attaccano alla superficie degli

epatociti grazie al loro legame con i glicosamminoglicani, con il

recettore per le LDL e con il recettore scavenger SR-B1. La

capacità di trasferimento del colesterolo di SR-B1 espone il sito di

legame per CD-81, localizzato in un regioni determinanti della

glicoproteina E2 dell’HCV. Il complesso virus-CD81 trasloca

quindi alle giunzioni strette, dove co-recettori come Claudina ed

Occludina 1 inducono l’endocitosi mediata da recettore [4]. La

penetrazione comporta l’endocitosi del virus in vescicole

intracellulari e, grazie a meccanismi pH dipendenti, si ha la

fusione delle membrane cellulare e virale e l’uscita del

nucleocapside nel citoplasma (scapsidazione).

L’RNA (+) genomico viene direttamente tradotto in una

poliproteina che viene processata da proteasi cellulari e virali,

con conseguente produzione di proteine strutturali e non

strutturali. Le fasi successive della replicazione avvengono in

prossimità di particolari alterazioni di membrana, originate

probabilmente dal reticolo endoplasmatico, note come

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membranous web, la cui formazione sembra essere indotta dalla

proteina virale NS4B [5]. L’ RNA-polimerasi-RNA dipendente virus-

specifica avvia la sintesi di un filamento di RNA antigenomico

(minus strand) utilizzando come stampo il genoma virale e in un

secondo tempo sintetizza sull’ intermedio replicativo un

filamento di RNA genomico (plus strand). Le nuove particelle

virali acquisiscono l’involucro esterno dal reticolo endoplasmatico

della cellula ospite, dove vengono inserite le glicoproteine E1 ed

E2. Si verifica poi un passaggio nell’ apparato di Golgi, il quale

consente la maturazione finale della particella virale con la

glicosilazione di E1 e E2. Il virione esce poi dalla cellula per

esocitosi. [6]

Risposta del sistema immunitario [7]: la risposta dell’ospite è

nella maggioranza dei casi inefficiente, infatti solo un 20-30% dei

pazienti riescono a guarire dopo l’infezione acuta.

L’immunità innata è la prima ad agire. Alcuni PAMPS (pathogen-

associated molecular patterns) prodotti dalla replicazione virale

vengono riconosciuti da recettori quali RIG-1 (retinoic acid

induced gene-1) e TLR3 (toll-like receptor 3) e viene attivata la

produzione di interferoni (IFN), geni stimolati dall’interferone

(IGS, IFN-stimulated genes) e altre citochine. Le proteine

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prodotte da HCV sembrano in grado di interferire con questo

processo. In particolare, la non risoluzione dell’infezione sembra

spesso associata ad alcuni polimorfismi di un gene che codifica

per l’interferone λ3 (IFNL3, previamente denominato IL-28B). I

linfociti T, mediatori della risposta cellulare adattativa, vengono attivati

spesso con ritardo e giocano un ruolo sia protettivo che

patologico. Vi è un generale consenso circa il ruolo, importante nella

patogenesi del danno epatico da HCV, delle cellule T CD4+ helper attivate

dal virus, che a loro volta stimolano attraverso la produzione di citochine,

la risposta da parte di cellule T CD8+ citotossiche, HCV specifiche. Diversi

fattori contribuiscono alla cronicizzazione dell’infezione da HCV: difetti

proliferativi delle cellule CD4+, mutazioni negli epitopi virali che

costituiscono il bersaglio dei linfociti T CD-8+ possono consentire

al virus di eludere la clearance immuno-mediata e la

sovraregolazione dei recettori inibitori per le cellule T

funzionalmente deteriorate.

Diagnosi dell’infezione da HCV [8]: si basa su test sierologici.

La ricerca degli anticorpi anti-HCV, con test immunoenzimatici,

ha una sensibilità molto elevata, ma presenta come

inconveniente una risposta negativa durante il periodo di

‘finestra immunologica’, quando questi anticorpi ancora non si

sono sviluppati, ma l’infezione è in atto.

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La ricerca del genoma virale (HCV-RNA) viene eseguita con

tecniche molecolari molto sensibili, quali la RT-PCR (Reverse

Transcriptase- Polymerase Chain Reaction) e la TMA

(Transcription Mediated Amplification). La tecnologia PCR real –

time consente anche di eseguire test quantitativi di HCV-RNA,

utili per monitorare la risposta al trattamento antivirale. La

determinazione del genotipo virale, eseguita con tecnologia

biomolecolare, è importante nella decisione terapeutica, dato che

i diversi genotipi mostrano una differente sensibilità ai farmaci.

Manifestazioni epatiche: l’epatite in fase acuta passa

frequentemente inosservata, in quanto solitamente

paucisintomatica o asintomatica e l’infezione viene diagnosticata

quando è già in fase cronica, dove può portare allo sviluppo di

patologie come cirrosi ed epatocarcinoma.

Cirrosi [8]: patologia nella quale la normale architettura epatica

è alterata dall’accumulo di tessuto connettivale che impedisce il

normale funzionamento del fegato. Nell’arco di 20-30 anni, il 20-

30% dei pazienti con epatite cronica da HCV tende ad evolvere

verso un quadro di cirrosi. La velocità di evoluzione può essere

influenzata da diversi fattori sia non modificabili (sesso maschile

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o femminile dopo la menopausa, lungo tempo d’infezione) che

modificabili (alcol, fumo di cannabis, obesità).

Carcinoma epatocellulare (HCC) [9]: è la più frequente

neoplasia epatica. L’HCV può favorire la sua insorgenza sia

stimolando la cirrosi, sia, seppur infrequentemente, senza

sviluppo di cirrosi. L’HCC si riscontra in circa tra 1- 4 % dei

pazienti con HCV e può essere favorito dagli altri fattori di rischio

per HCC, quali l’infezione da virus dell’epatite B, l’abuso di alcol e

l’aflatossina.

Manifestazioni extraepatiche [10]

Crioglobulinemia mista (CM): è una vasculite dei piccoli vasi,

che può essere classificata in tipo II o III, a seconda della

presenza di IgG policlonali associate rispettivamente ad IgM

monoclonali (II) o policlonali (III) con attività tipo fattore

reumatoide (FR).

La CM è causata nell’80% dei casi da HCV, responsabile di alcuni

fattori che ne predispongono lo sviluppo. L’interazione tra il virus

e i linfociti modula direttamente la funzione delle cellule B, con

conseguente attivazione policlonale ed espansione di cellule B

secernenti IgM con attività di fattore reumatoide. Anche il

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polimorfismo del complesso maggiore di istocompatibilità HLA-II,

può predisporre all’ HCV-CM. HLA-DR11 è associata a vasculite

crioglobulinemica, mentre HLA-DR7 sembra essere protettivo.

Questa vasculite colpisce principalmente la cute, le articolazioni

(artralgie), il sistema nervoso periferico e i reni.

La cute è l’organo più colpito e il sintomo principale è la porpora

palpabile, ma possono verificarsi anche il fenomeno di Raynaud e

l’acrocianosi, le quali possono evolvere in ulcere cutanee

croniche.

Il coinvolgimento renale si manifesta con una glomerulonefrite

membrano-proliferativa acuta o cronica, con proteinuria,

macroematuria e gradi variabili di insufficienza renale.

Le manifestazioni neurologiche variano dalla neuropatia

sensoriale pura alla polineuropatia sensoriale-motoria, che si

manifesta con dolore, parestesia, dapprima asimmetrica e

successivamente simmetrica.

Circa il 10% dei pazienti mostra complicanze rischiose per la vita

come emorragia polmonare, ischemia gastrointestinale o

coinvolgimento cardiaco. La diagnosi viene effettuata mediante il

riscontro di precipitati proteici nel siero del paziente, mantenuto

a 4° C per almeno 7 giorni, che si dissolvono quando riscaldati a

37°C.

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Le manifestazioni vasculitiche HCV-indotte e la stessa

crioglobulinemia mista rispondono alla clearance del virus. Nei

pazienti che hanno una recidiva di infezione HCV di solito

ricompare la CM. Il trattamento principale della CM è

rappresentato dalla terapia antivirale, ma per malattia grave, si

può valutare anche l’utilizzo di Rituximab (anticorpo monoclonale

anti CD-20, proteina espressa dai linfociti B) e/o di plasmaferesi.

Malattie linfoproliferative a cellule B: l’incidenza di queste

patologie è aumentata in pazienti con infezione da HCV. In

particolare, frequente il riscontro di linfomi non Hodgkin: linfoma

della zona marginale (MZL), linfoma diffuso a grandi cellule B

(DLB-CL) e il linfoma linfoplasmacitico (LPL). [11,12].

Il linfoma della zona marginale è un linfoma non-Hodgkin B a

basso grado di malignità o indolente, che origina dalla

proliferazione di cellule linfatiche della zona marginale della

milza, dei linfonodi, o del tessuto linfatico associato alle mucose

(MALT, Mucosa-Associated Lymphoid Tissue). La classificazione

internazionale dei linfomi della WHO (World Health Organization)

distingue 3 tipi di linfoma dalla zona marginale a seconda del sito

di origine: linfoma splenico della zona marginale, linfoma

primitivamente linfonodale della zona marginale e linfoma della

zona marginale extranodale tipo MALT (Maltoma). Le cellule

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neoplastiche sono rappresentate da linfociti B maturi, positivi per

CD20 e negativi per CD10, CD20 e CD5. [13]

Il linfoma diffuso a grandi cellule B è un linfoma aggressivo, a

rapida progressione. I DLB-CL sono spesso composti da un

insieme di cellule simil-centroblastiche e immunoblastiche.

Queste cellule esprimono tipicamente i marcatori delle cellule B,

quali CD19, CD20 e CD22. Si possono differenziare due sottotipi

numerosi di questa neoplasia: i linfomi a grandi cellule B ad

origine dal centro germinativo (sottotipo GCB, con prognosi più

favorevole) e linfomi a grandi cellule B ad origine da cellule B

attivate (sottotipo ABC). [13]

Il linfoma linfoplasmacitico: include l’immunocitoma e la malattia

di Waldenström [11]. Questi linfomi sono accompagnati dalla

presenza dell’immunoglobulina monoclonale di tipo IgM a livello

sierico, con attività di autoanticorpo o di crioglobulina. Si può

accompagnare anche la sindrome da iperviscosità, con sintomi,

soprattutto neurologici, dovuti ad un ridotto e più lento flusso

ematico nell’albero vascolare, specialmente nei piccoli vasi.

I linfomi sono patologie nelle quali il sintomo più frequentemente

segnalato è l’aumento di volume dei linfonodi di una o più

stazioni linfonodali superficiali. I linfonodi si presentano duri,

indolenti, con morfologia rotondeggiante ed adesi ai piani

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sottostanti. Quando la patologia colpisce linfonodi più profondi si

può avere una sintomatologia di tipo compressivo, come tosse,

dispnea o sindrome della vena cava superiore per i linfomi del

mediastino. Spesso si associano anche sintomi generici, quali

febbre, calo ponderale, astenia ingravescente e sudorazione

notturna. La certezza diagnostica richiede l’esame bioptico. La

terapia dei linfomi non-Hodgkin si avvale spesso del protocollo R-

CHOP (Rituximab- Ciclofosfamide- Adriamicina- Vincristina-

Prednisone), ma si stanno sviluppando sempre di più farmaci

specifici da poter eventualmente associare (inibitori di Blc-2,

inibitori di proteasoma).

Terapia dell’infezione da Epatite C: [9] mira ad ottenere una

risposta virologica sostenuta (Sustained Virological Response,

SVR), intesa come una riduzione dell’HCV-RNA a livelli non

rilevabili dalla PCR, misurato dopo 12 settimane (SVR12) e dopo

24 settimane (SVR24) dalla fine della terapia. I trattamenti sono

andati incontro a numerose modifiche durante gli ultimi 20 anni,

da quando si è iniziato ad usare l’interferone-α (IFN-α).

Associazione PEG IFN e ribavirina: la terapia con interferone

attiva la via di trasduzione JAK-STAT, inibita da proteine espresse

in corso di epatite C, che culmina nella stimolazione di geni

cellulari e nella produzione di proteine ad attività antivirale.

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Inizialmente l’IFN-α veniva somministrato per via sottocutanea, 3

volte a settimana, per 12 mesi, con i tassi di SVR di circa il 20%.

Questo è stato soppiantato dall’uso degli IFN peghilati (PEG IFN),

che hanno un tempo di eliminazione 7 volte più lungo,

permettendo una somministrazione settimanale e garantendo

concentrazioni del farmaco più stabili e durature nel tempo.

L’associazione con la ribavirina, un nucleoside della guanina,

assunta per visa orale giornalmente, ha incrementato i tassi di

SVR fino al 55% (soprattutto genotipi 2 e 3, meno negli 1 e 4), a

scapito di una minore tollerabilità della terapia. Alcuni effetti

collaterali, tra cui il più importante è l’emolisi, hanno ridotto la

compliance dei pz alla terapia. [9, 14]

Inibitori della proteasi di prima generazione (2011-2013):

Telaprevir e boceprevir hanno come bersaglio la proteasi NS3-4A,

la loro combinazione in triplice terapia, con PEG IFN e ribavirina,

ha migliorato la risposta virologica sostenuta di un 20-30%.

Questo trattamento era riservato ai pazienti con genotipo 1 di

HCV, meno responsivi alla sola terapia con PEG IFN e ribavirina,

ad eccezione di quelli con cirrosi scompensata. Sfortunatamente,

il loro utilizzo è stato limitato da numerosi effetti collaterali e

interazioni farmacologiche. [14]

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Nuovi Agenti Antivirali Diretti (DAA, direct-acting antiviral

drugs): introdotti nel 2014-2015. I regimi terapeutici si basano

sulla combinazione dei seguenti farmaci:

- Sofosbuvir, inibitore nucleotidico della RNA polimerasi NS5B;

- Simeprevir, inibitore di NS3-4A;

- Daclatasvi, inibitore della proteina NS5A;

- Ledipasvir, inibitore della proteina NS 5A, spesso in

associazione con sofosbuvir;

- Ombitasvir: inibitore di NS5A;

-Associazione paritaprevir-ritonavir, inibitore di NS3-4A, anche in

associazione con ombitasvir;

-Dasabuvir: inibitore non nucleosidico di NS5B.

Molti regimi terapeutici prevedono ancora l’associazione della

ribavirina ai DAA, specialmente nei pazienti cirrotici, dove questo

farmaco si è dimostrato efficace nel ridurre il rischio di recidiva

virologica dopo sospensione della terapia.

La scelta del trattamento antivirale dipende dal genotipo virale,

dallo stadio di malattia, dal compenso clinico e dall’eventuale

presenza di comorbidità e/o terapie concomitanti. Attualmente,

tutti gli schemi terapeutici si associano a tassi globali di SVR

superiori al 95%, con risposta più deludente in pazienti con

genotipo 3 e quelli con cirrosi scompensata terminale.

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Le controindicazioni al trattamento con farmaci ad azione

antivirale diretta sono rare e sono rappresentate dall’epatopatia

scompensata e dallo stato di gravidanza o incapacità a

contraccezione efficace. La ribavirina inoltre presenta alcune

controindicazioni, tra le quali si riscontrano condizioni di anemia,

malattie cardiovascolari severe, sovraccarico marziale. [9]

RECETTORE PER L’ANTIGENE DEI LINFOCITI B

Struttura recettore BCR: il recettore delle cellule B si compone

di due parti. Una è la frazione che lega il ligando

(una molecola immunoglobulinica legata alla

membrana), l’altra è la frazione di trasduzione del

segnale. Quest’ultima è un eterodimero chiamato

Ig-α/Ig-β (CD79), tenuto insieme da ponti disolfuro.

Ogni membro del dimero attraversa la membrana

plasmatica e ha una coda citoplasmatica recante

un ITAM (immunoreceptor tyrosine-based activation

motif).

Struttura di un’immunoglobulina: le immunoglobuline sono

una parte fondamentale dell’immunità umorale, soprattutto per il

riconoscimento dei patogeni capsulati. Si riconoscono 5 tipi

principali (IgA, IgD, IgE, IgG, IgM) con alcuni sottotipi (IgG1, IgG2,

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IgG3, IgG4, IgA1, IgA2). Tutte le Ig condividono però la stessa

struttura di base con:

Due identiche catene pesanti: con un dominio N-terminale

variabile, e 3 o 4 domini costanti (CH1-CH3/4). Le catene

pesanti possono essere differenziate in 5 classi (α δ, ε, γ,

µ), corrispondenti ai tipi principali di immunoglobuline

Due identiche catene leggere: con un dominio N-terminale

variabile e un dominio C-terminale costante. Le catene

leggere possono essere di due tipi: λ o κ. [16]

Configurazione Germinativa dei loci genici per le Ig: è

caratterizzata dalla segregazione spaziale di numerose sequenze

codificanti per i domini variabili e da un numero relativamente

basso di sequenze codificanti per i domini costanti dei diversi

recettori. I singoli linfociti sono generati grazie all’unione di

distinte sequenze codificanti per le regioni variabili e costanti.

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Tre loci separati, ognuno su un diverso cromosoma, codificano

rispettivamente per le catene pesanti (Locus della catena H:

cromosoma 14) e per le catene leggere (Locus della catena κ:

cromosoma 2; Locus della catena λ: cromosoma 22) delle Ig.

Si riscontrano diversi cluster di geni:

Geni per la regione variabile (V): si trovano all’estremità 5’,

ognuno è costituito da circa 300bp. Il numero dei geni

cambia nei diversi loci: 35 geni V per la catena κ, 30 geni V

per la catena λ e 45 per le catene pesanti.

I segmenti genici V sono distribuiti in un’ampia regione di

DNA di circa 2000kb.

All’estremità 5’ di ogni segmento V è presente un esone

leader che codifica i 20-30 residui N-terminali della

proteina (sequenza leader). È la sequenza segnale

presente in tutte le proteine neosintetizzate secrete o

transmembrana, che guida i polipeptidi nascenti dai

ribosomi al reticolo endoplasmatico, dove poi viene

rimossa venendo a mancare nella proteina matura. A

monte di ogni esone leader c’è un promotore per il gene V

Geni per la regione giunzione (J): si trovano in posizione 3’

rispetto ai geni V, strettamente associati agli esoni che

codificano per la regione costante localizzati più a valle.

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Sono in genere lunghi 30-50 bp e separati da sequenze non

codificanti

Geni per la regione diversità (D): si trovano solo nel locus

della catena pesante, tra i geni V e J

Geni per regione costante (C): nell’uomo il locus della

catena leggera κ ha un singolo gene (Cκ), mentre il locus

per la catena leggera λ ha 4 geni funzionali (C λ) e il locus

per la catena pesante ne ha 9 (CH), localizzati in modo tale

da codificare i 9 diversi isotipi e sottotipi delle Ig. I geni Cκ e

C λ sono composti ognuno da un solo esone che codifica per

l’intera catena leggera. Invece, ogni gene CH è composto

da 5 o 6 esoni; 3 o 4 di questi codificano per la sequenza

CH della catena pesante delle Ig, mentre 2 esoni di

dimensioni minori codificano per la porzione

carbossiterminale della forma di membrana, inclusi i

domini transmembrana e citoplasmatico.

Nelle catene leggere il dominio V: è codificato da VJ.

Nelle catene pesanti il dominio V: è codificato dai segmenti

genici VDJ.

Terza regione ipervariabile o regione che determina la

complementarietà (CDR3): è una regione fondamentale per la

diversità dei vari linfociti.

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Nei domini V di Ig H, CDR3 è formata da residui giunzionali a

cavallo dei segmenti V e D o D e J riarrangiati, così come le

stesse sequenze geniche dei segmenti genici D e J.

Nelle catene leggere è formata da residui giunzionali a cavallo

dei segmenti V e J riarrangiati, così come dalle sequenze geniche

dei segmenti genici J. [17]

Ricombinazione V(D)J: l’organizzazione dei loci per le Ig nella

configurazione germinativa, come descritta finora, è presente in

tutti i tipi cellulari dell’organismo. In tale configurazione i geni

non possono essere trascritti in mRNA funzionanti. Il processo di

ricombinazione prevede la scelta casuale di un gene V, un

segmento J e un segmento D (quando presente) e il loro

riarrangiamento a formare un singolo esone V(D)J che codificherà

per la regione variabile di un recettore per l’antigene specifico di

ogni singolo linfocita. Nei loci per la catena leggera, un singolo

evento di riarrangiamento unisce casualmente un gene V ad un

segmento J. Nei loci per le Ig H servono due eventi di

riarrangiamento distinti: un primo, che ricongiunge segmento D a

J, e un secondo, che ricongiunge il neoformato segmento DJ a un

segmento V.

Le proteine che orchestrano la ricombinazione agiscono

riconoscendo specifiche sequenze di DNA definite sequenze

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segnale della ricombinazione (RSS), localizzate all’estremità 3’

dei segmenti V, all’estremità 5’ dei segmenti J e alle due

estremità dei segmenti D. Queste sequenze sono presenti solo

nei geni per le Ig e per TCR, motivo per cui la ricombinazione VDJ

non può avvenire in altri geni.

Le RSS sono costituite da due sequenze altamente conservate:

- eptamero (7 nucleotidi): localizzata vicino alla sequenza

codificante, seguita da uno spaziatore di 12 o 23 nucleotidi

non conservati. Gli spaziatori corrispondono ad 1 o 2 giri di

elica di DNA e presumibilmente portano i due eptameri in

posizione tale da poter essere simultaneamente accessibili

agli enzimi di ricombinazione.

- nonamero (9 nucleotidi ricchi in AT)

La ricombinazione si verifica solo se uno dei due segmenti è

affiancato da uno spaziatore di 12 nucleotidi e l’altro da uno

spaziatore di 23 nucleotidi (regola 12/23), di modo che vengano

ricombinati sono gli adeguati segmenti genici.

Il meccanismo di base è una ricombinazione non omologa del

DNA, regolata dall’attività coordinata di diversi enzimi, alcuni dei

quali si trovano solo nei linfociti in corso di maturazione, mentre

altri sono ubiquitari, riconducibili a enzimi di riparazione del DNA.

È probabile che nei linfociti in maturazione l’accessibilità dei loci

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dei geni per le Ig sia regolata da diversi meccanismi, incluse le

modificazioni epigenetiche della struttura della cromatina e dello

stesso DNA, e dall’attività di trascrizione basale degli stessi loci

genetici.

Si possono distinguere 4 eventi che avvengono in ordine

sequenziale:

1. Sinapsi: parti del cromosoma sono rese accessibili ai

componenti del processo di ricombinazione. Due distinti

segmenti genici codificanti e le loro RSS adiacenti vengono

poste in contatto grazie alla formazione di strutture ad

anello;

2. Taglio: mediante reazione enzimatica, alle giunzioni RSS e

sequenze codificanti, si operano tagli della doppia elica del

DNA, con formazione dell’hairpin (forcina) mediati dal

complesso RAG1 e RAG2 (geni attivanti la ricombinazione).

RAG1 e RAG2 sono specificamente attivi sono nella fase di

maturazione delle cellule linfoidi e servono anche nella

fase di formazione della sinpasi);

3. Apertura dell’hairpin e processamento: un’endonucleasi

(artemis) apre l’hairpin alla terminazione delle sequenze

codificanti, che vengono modificate dall’aggiunta o

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rimozione di nucleotidi, al fine di aumentare il livello di

diversificazione;

4. Unione delle terminazioni generate dal taglio con

meccanismi di unione delle estremità non omologhe,

grazie ad enzimi ubiquitari (Ku70 e Ku80, DNA-PK).

Una delle conseguenze della ricombinazione è che le sequenze

promotrici, localizzate al 5’ dei geni V, vengono portate in

contiguità a sequenze enhancer situate a valle, negli introni J-C e

al 3’ dei geni della regione C. Tali sequenze enhancer spingono al

massimo la trascrizione delle sequenze promotrici dei geni V ed

hanno un ruolo essenziale nella trascrizione ad alta velocità dei

geni V riarrangiati nei linfociti. Poiché nei geni per le Ig e il TCR

avvengono molteplici eventi di ricombinazione del DNA e poiché

questi geni diventano funzionalmente attività solo dopo la loro

ricombinazione, i geni appartenenti ad altri loci possono essere

qui erroneamente traslocati e trascritti in modo abnorme, come

avviene nei tumori dei linfociti B e T. [17,18]

Gli errori nella ricombinazione V(D)J si associano frequentemente

a traslocazioni cromosomiche, inserzione o delezioni di basi.

Queste aberrazioni possono comportate un’aumentata

trascrizione degli oncogeni e probabilmente rappresentano uno

dei fattori eziologici dello sviluppo dei tumori linfoidi. Gli errori

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osservati nelle neoplasie linfoidi si dividono in due grandi gruppi:

errori nel riconoscimento del target ed errori nell’unione dei

segmenti.

Gli errori nel riconoscimento del target sono dovuti alla presenza

di sequenze cRSS (cryptic RSS), ovvero sequenze di DNA che

assomigliano alle sequenze RSS e vengono riconosciute dal

complesso RAG.

Gli errori nell’unione dei segmenti comportano l’unione di alcuni

segmenti prodotti con meccanismi RAG-dipendenti a segmenti

prodotti con altri meccanismi. [18]

Diversificazione dei linfociti B: è dovuta al riarrangiamento

casuale dei geni per le Ig (diversità combinatoriale) e

all’aggiunta/rimozione di sequenze addizionali alle estremità dei

segmenti genici riarrangiati (diversità giunzionale). Quest’ultima

è quella che dà il maggiore contributo alla diversificazione dei

recettori per gli antigeni. La rimozione di nucleotidi dall’estremità

della sequenza germinativa avviene ad opera di endonucleasi.

L’aggiunta di sequenze nucleotidiche nei siti di giunzione dipenda

da artemis, la quale scinde l’hairpin in maniera asimmetrica,

cosicché un tratto di DNA rimane più corto e viene esteso con

nucleotidi complementari (nucleotidi P, palindromici) a quelli del

tratto di DNA più lungo, prima della giunzione dei due segmenti

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genetici. Inoltre si può avere l’aggiunta casuale di un massimo di

20 nucleotidi (nucleotidi N), mediata dall’enzima trasferasi

terminale dei deossinucletidi [TdT].

A causa della diversità giunzionale, gli anticorpi mostrano la

massima variabilità in corrispondenza delle giunzioni delle

regioni V e C che formano la terza regione ipervariabile (CDR3).

Queste regioni sono anche le più importanti nella determinazione

della specificità del legame con l’antigene. Siccome ogni clone

linfocitario esprime un’unica regione CDR3, la sequenza di

nucleotidi nel sito di ricombinazione V(D)J funziona come

marcatore clonale specifico. [17]

BIBLIOGRAFIA

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