valori culturali, tutela dell'ambiente e modelli di sviluppo
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Tesi di LaureaTRANSCRIPT
FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHECorso di Laurea in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali
Tesi di laurea VALORI CULTURALI
TUTELA DELL’AMBIENTE MODELLI DI SVILUPPO
Relatore Candidato Maria Ruini Francesco De Marco
matr. 1128034
AA.2007/2008
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Indice
Presentazione p. 04
CAPITOLO IL’uomo e la natura
1.1 Dal mythos al logos p. 07 1.2 L’uomo, essere sociale p. 091.3 Evoluzione dell’uomo e teorie evoluzioniste p. 15
CAPITOLO IIL’uomo e la cultura
2.1 Il significato di cultura e l’approccio socio-antropologico p. 23 2.2 Varie scuole e correnti culturali p. 29 2.3 Le differenze culturali ed il relativismo p. 34
CAPITOLO IIIL’ambiente ed il rischio
3.1. L’ambiente e la cultura postmoderna p. 42 3.2. L’etica della responsabilità ed il paradigma dell’ambiente p. 46 3.3. L’ambiente come sistema p. 50 3.4 L’ambiente ed il rischio p. 53
CAPITOLO IVLa tutela e lo sviluppo
4.1. lo sviluppo sostenibile p. 594.2. le tappe storiche p. 64 4.3. La teoria dello sviluppo p. 694.4. La tutela e l’interazione socio-ambientale p. 71
Conclusione p. 76
Bibliografia p. 79
2
“Il fattore più importante nella formazione dell’esistenza è la creazione di un fine: quello di una comunità libera e di esseri umani felici, che con un continuo sforzo interiore lottino per liberarsi dall’eredità di istinti antisociali e distruttivi. In questa battaglia l’intelletto può costruire l’aiuto più potente”
(A. Einstein, Pensieri degli anni difficili, Boringhieri, Torino, 1965, p.148)
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Presentazione
Scrivo la presentazione del presente testo di studio dal titolo Valori
culturali, tutela dell’ambiente e modelli di sviluppo dopo essermi
appassionato alla ricerca dello studio dell’uomo, del suo agire e di come le
conseguenze delle sue azioni si riverberano nel nostro pianeta chiamato
Terra. Appositamente ho deciso di inserire nel primo capitolo una parte del
dialogo di Platone e Glaucone preso dal settimo libro della Repubblica al
quale ho operato una piccola revisione nel merito della vicenda: oggi la
luce ha invaso la caverna, prigionia dell’uomo e gli ha fatto scoprire la
voglia di rincorrere il sole e di liberarsi dalle oppressioni e dalle
diseguaglianze.
Così si compone la prima parte, dal mythos al logos e da questo alla
scoperta della teoria evoluzionista di Darwin. Il tratto fra i tre poli non è
stato certamente breve, e durante il percorso si sono alternate momenti
particolarmente difficili e periodi fiorenti.
In almeno quattro milioni di anni di storia, le tracce dell’umanità si
sono impresse nell’ambiente e si sono tramandate nelle culture. Così con un
occhio al passato e uno al presente ho osservato, con l’umiltà dello studente
alle prime armi e la consapevolezza di aver considerato una delle
infinitesime parti, questo strano umano primitivo e il suo successore
protagonista della modernità. Il confronto, seppur a prima vista possa
apparire bizzarro, mi ha lasciato perplesso e fiducioso. Perplesso perché se
mi catapultassi indietro nel tempo, non saprei proprio come poter
sopravvivere. Non sarei in grado di cacciare per procurarmi del cibo con le
rudimentali armi e probabilmente non saprei sopravvivere all’inverno
fabbricandomi una pelliccia. Ma fiducioso perché quell’uomo del passato
ha permesso non solo di vendere la carne nelle macellerie, di predisporre
4
ambienti caldi e confortevoli ma di superare lo spazio ed il tempo tramite la
comunicazione e l’interazione globalizzata.
Un ruolo importante durante questi processi è stato assunto dalla
cultura anzi dalle culture che sono state il mezzo attraverso il quale l’uomo
si è avvicinato al suo simile ed alla natura. Ogni interazione tra uomo e
natura deve tener conto della mediazione culturale1.
Nel secondo capitolo ho ribadito questo concetto e lo studio
dell’uomo è considerato alla luce del suo agire culturale. L’osservazione in
quest’ultimo caso cambia a proposito del tipo di approccio teorico
considerato. Ne sono stati inseriti vari per considerare, con una visione
d’insieme, il significato di cultura. A tal proposito ho più volte ripreso la
definizione di Edward Burnett Taylor, che è anche la prima del genere,
formulata nel lontano 1871. Penso sia ancora attuale, poiché nel nostro
viver quotidiano, nelle relazioni interumane, il riferimento al termine
cultura diventa sinonimo di conoscenza, arte, morale, diritto etc. In questo
studio ho però dato ampio spazio allo studio delle differenze culturali.
Nella piena considerazione delle culture altre, ho tentato di creare
una similitudine alla sovranità, elemento per eccellenza di distinzione dello
Stato.
È inevitabile non solo tutelare le culture altre considerandole, al pari
dello Stato, tutte sovrane ed è ineluttabile non soltanto l’individuazione dei
valori universali per la tutela della specie umana ma la determinazione di
sanzioni pacifiche per prevenire quei comportamenti dannosi.
Oggi lo spazio ed i luoghi, così come il tempo e le dimensioni
temporali, per parafrasare Bauman, sono diventati gli elementi di una
modernità liquida, si sono avvicinati e le culture sono entrate in contatto a
velocità stellari. Nell’immediatezza sappiamo e vediamo quello che fa il
nostro simile a New York, a Pechino ed Hong Kong.
1 C.A.Viano, Etica, Isedi, Milano 1975, pag. 156
5
Seguendo questa impostazione metodologica, ho affrontato un altro
tema attualissimo ovvero il rapporto tra l’uomo e l’ambiente. In una
primissima fase la capacità di modificare l’ambiente era assai limitata e
l’uomo poteva considerarsi alla stregua degli altri esseri viventi, in seguito
la sua capacità di adattare l’ambiente ai suoi bisogni e alle sue necessità è
cresciuta a ritmi vertiginosi. Perciò il primo uomo è “ecologico”: in quanto
a causa della mancanza dei mezzi tecnici non è in grado di turbare
l’equilibrio ambientale; l’altro, quello successivo è un uomo “tecnologico”:
grazie alle sue invenzioni e la sua capacità domina gli altri esseri viventi.
Tuttavia ha turbato profondamente l’ambiente ed i suoi equilibri.
L’inizio del processo comincia nel Neolitico allorquando iniziano gli
scambi fra tribù e l’uomo diventa capace di rompere il cordone ombelicale
che lo lega alla natura, acquisendo una relativa indipendenza da essa.
Scopre la possibilità di allevare animali, raffina le sue tecniche che gli
consentono di costruire un solido riparo, inventa l’agricoltura. Tutto ciò gli
permette di programmare la sua esistenza, non più lasciata al caso, ai miti,
agli déi ma organizzata su quanto anche artificialmente può procurarsi.
In ultima istanza, con l’analisi della teoria dello sviluppo ci siamo
resi consapevoli di come quello umano sia uno dei tanti sottosistemi che
compongono il sistema ecologico della natura. Tuttavia è un sottosistema
assai singolare. Esso, a differenza degli altri, può usare o abusare delle sue
relazioni con gli altri sottosistemi ed influire radicalmente sul loro destino2.
L’uomo, giunto ad incredibili livelli di sviluppo tecnologico, è
pervenuto alla capacità virtuale e reale di provocare perturbazioni
sostanziali, cioè irreversibili nell’equilibrio dei sottosistemi.
2 T. Manoldo, La speranza progettuale. Ambiente e società, Einaudi, Torino 1970 e 1971, pag.17
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CAPITOLO I
L’uomo e la natura
1. Dal mythos al lògos
“..paragona la nostra natura, per quanto concerne l'educazione e la mancanza di educazione, a un caso di questo genere. Pensa a uomini chiusi in una specie di caver-na sotterranea, che abbia l'ingresso aperto alla luce per tutta la lunghezza dell'antro; essi vi stanno fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e guardare solo in avanti, non potendo ruotare il capo per via della catena. Dietro di loro, alta e lontana, brilla la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale immagina che sia stato costruito un muricciolo,come i paraventi sopra i quali i burattinai, celati al pubblico, mettono in scena i loro spetta-coli». «Li vedo», disse. «Immagina allora degli uomini che portano lungo questo muricciolo oggetti d'ogni genere sporgenti dal margine, e statue e altre immagini in pietra e in legno delle più diverse fogge; alcuni portatori, com'è naturale, parlano, altri tacciono». «Che strana visione», esclamò, «e che strani prigionieri!». «Simili a noi», replicai: «innanzitutto credi che tali uomini abbiano visto di se stessi e dei compagni qualcos'altro che le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caver-na di fronte a loro?» «E come potrebbero», rispose, «se sono stati costretti per tutta la vita a tenere il capo immobile?»
Il dialogo di Platone e Glaucone – nel testo tratto dal settimo libro de
“La Repubblica” – rappresenta l’oscurità dell’uomo e della sua condizione,
e la continua ricerca verso la luce e la verità che l’essere umano in quanto
tale non deve mai smarrire.
Segnare un cammino, per sua natura impervio, è il destino di
quell’essere che ha cominciato a far parlare di sé, allorquando ha
cominciato a camminare su due gambe. Nel bene e nel male, quell’essere è
vissuto per più di quattro milioni di anni, duranti i quali ha scoperto modi
di vivere differenti. È passato dalla totale oscurità della notte, nella quale
ignorava cosa lui stesso fosse, alla luce del giorno, individuando significati
7
sempre nuovi e diversi della proprio esistenza. Il periodo intermedio tra la
notte ed il giorno, ha segnato (e segna) un assestamento nel quale gli occhi
dell’uomo, esposti alle prime luci dell’alba, ne sono rimasti traumatizzati.
La comprensione totale, se mai un giorno ci sarà, segnerà una nuova epoca.
Oggi, la soluzione dell’apparizione dell’uomo sulla terra sembra essere a
portata di mano. Poco più di un mese fa, i ricercatori e gli scienziati del
CERN di Ginevra hanno cercato di ritornare indietro nel tempo fino al big
ben, al fine di cercare l’origine dell’universo.
Sul quotidiano Il Messaggero del 10 e 20 settembre sono apparsi i
seguenti articoli:
Gli scienziati del CERN di Ginevra hanno ripreso l'esperimento per
scoprire i segreti della nascita dell'universo grazie al Large Hadron
Collider (Lhc), l'acceleratore più grande del mondo che è partito ieri
dopo 20 anni di incredibile lavoro del gotha della fisica
mondiale. Completato con successo il primo giro del fascio di protoni
iniettati è stato osservato un lampo, forse per interazione protone-
protone.
L'Lhc è l'acceleratore di particelle più grande e più potente del mondo:
nella galleria sotterranea circolare di 27 km di circonferenza, i fisici
intendono far circolare due fasci di particelle a oltre il 99,9% della
velocità della luce, per farli scontrare e creare una pioggia di nuove
particelle, da analizzare e studiare per tentare di scoprire i segreti del Big
Bang. Dopo 20 anni di preparativi, lo scorso 10 settembre il CERN
(Organizzazione europea per la ricerca nucleare) ha celebrato il primo
giro di un fascio di particelle lungo i 27 km dell'Lhc. Sono seguiti
esperimenti per sincronizzare i fasci di protone.
Obiettivo delle attività del Lhc è quello di andare indietro nel tempo fino
al Big Bang, la gigantesca esplosione che ha fatto nascere l'Universo 14
miliardi e più di anni fa. Un viaggio a ritroso nella storia della vita per
8
cercare la "particella di Dio", il bosone di Higgs. Con il suo lavoro, Lhc
andrà a caccia di quelle particelle che c'erano in quel primo potentissimo
respiro del cosmo e che gli scienziati, fino ad ora, non hanno mai potuto
vedere ma solo ipotizzare
Tuttavia, più sembra vicina la soluzione e più questa si allontana.
Risolto un mistero, se ne pone subito un altro, ed un altro ancora. Il genere
umano sembra essere un eterno navigante che, affacciato dall’oblò della
nave, scorge l’orizzonte con il desiderio di toccarlo. Chissà se prima o poi
riuscirà almeno a segnarne la distanza, ad avvicinarsi quel tanto che basta
per vedere appagata la sua voglia di verità. Forse come Colombo, non
approderà mai nelle Indie ma scoprirà l’America.
2. L’uomo, essere sociale
L’uomo, quell’essere che da almeno quattro milioni di anni3 si
evolve, individua nuovi spazi fisici e mentali, ne crea di altri come quelli
virtuali, riesce a muoversi e a spostarsi con velocità sempre maggiori,
comunica con i suoi simili attraverso un sistema complesso di linguaggi.
Egli ha sviluppato un elemento che l’ha accompagnato costantemente nel
corso della sua evoluzione e l’ha legato indissolubilmente al suo antenato
ed la suo successore: “la cultura”.
Nelle scienze sociali “la cultura” è sempre stata al centro di ampi
dibattiti: i diversi significati, infatti, non riflettono solo una diversa visione
del concetto in sé, ma un differente sguardo della realtà, una differente
interpretazione di essa e di conseguenza diverse categorie percettive.
3 Almeno quattro milioni di anni fa negli spostamenti, i pre-ominidi hanno cessato di appoggiare qualche volta le nocche, dando inizio così alla loro camminata, in modo eretto, anche se ancora molto curvi sulla schiena. Essi erano però più simili alle scimmie che all’uomo, avevano la fronte sfuggente, il cranio piccolo, la mandibola sporgente e il corpo tutto ricoperto dal pelo.
9
Già Guglielmo Ferrero4, nel creare una diretta correlazione tra natura
e cultura, affermava che:
era la paura nei confronti della natura misteriosa e minacciosa e nei
confronti dell’altro, visto come un possibile nemico [… ] che spinge
l’uomo a compiere una serie di sforzi per costruire artificialmente una
condizione di stabilità e di sicurezza. Tutta la civiltà non è che il solo
sforzo per uscire dalla precarietà dello stato di natura.5
Tuttavia, la prospettiva di Ferrero si limita a individuare nella paura
quella condizione che spinge l’uomo a fissare la natura attraverso la
cultura. Un’interpretazione diversa è invece fornita da Carlo Mongardini
nella “Conoscenza Sociologica”; scrive:
L’uomo si ritiene portatore di un’istanza superiore, che legittima il
tentativo di ordinare e incanalare gli accadimenti naturali verso i fini
che questa istanza gli assegna. Perciò si ritiene legittimato a resistere
alla natura, a modificarla, se possibile a riordinarla e persino a
violentarla, se necessario. 6
Il legame uomo – cultura – natura, nelle immagini fornite dagli
autori, sembra indissolubile ed in questo senso la cultura è il collante con la
natura che potrebbe sovvertire inesorabilmente l’uomo, qualora questo non
riesca a fissarla per poi imprigionarla ed infine plasmarla a suo totale
piacere, per il soddisfacimento dei suoi bisogni.
Sebbene il rapporto “natura – cultura” abbia acceso notevoli
dibattiti, abbia ispirato e creato scuole di pensiero, si può sostenere
l’ipotesi che sia stata la necessità, e non la paura, ad aver spinto già l’uomo
dell’antichità ad intraprendere un cammino che nel corso del tempo si è
polarizzato, ed alle cui estremità ha fissato il mythos ed il lògos. Il primo
4 Storico vissuto tra il 1871 e il 19425 Cfr. L. Pellicani, Il pensiero politico di Guglielmo Ferrero, in “Storia e Politica”, a. VIII, n.2 aprile – giugno 1969 6 C. Mongardini, La conoscenza sociologica, Ecig, Genova 2002, pag. 247 e segg.
10
inteso come la spiegazione “fantasiosa” di una realtà percepita ed il
secondo come l’esperienza del “vero”, la certezza della ragione scientifica.
Gli antichi greci cercarono di interpretare i cambiamenti visibili in natura,
di fornire delle spiegazioni, di trovare ciò che di perenne esiste per
discernerlo da ciò che è transeunte, non facendo più ricorso ai miti, ma alla
ragione e alla percezione, in alcuni casi cercando “l'arché” da cui tutto ha
origine. Inaspettatamente per quegli uomini, il solo fatto di dover
individuare una spiegazione a ciò che accade, ha traghettato l’umanità
verso una modernità “in continua evoluzione”, ha accesso la speranza, in
seno agli uomini, di uscire dalla caverna7, per abbracciare la luce e
abbandonare le ombre che per tanto tempo sono state gli unici anelli di
congiunzione con il mondo esterno.
Il fatto quindi che la cultura sia una dimensione presente in tutte le
collettività umane, sostiene la condizione di necessità che ogni uomo
avverte di trovare una rappresentazione del mondo tale da “garantirgli,
almeno nella maggior parte dei casi, la possibilità di dare una definizione
alla situazione in cui egli è inserito e di fornirgli un repertorio di azioni
atto ad interagire con il suo ambiente in modo adeguato”. 8
Per cui, analizzando la natura umana da un punto di vista culturale, si
presuppone che una determinata azione sociale, in una definita società,
possa spiegare molte delle caratteristiche strutturali di quella società9. In
ragione di ciò, nel cammino evolutivo, l’elemento che ha distinto l’uomo,
diversificandolo dal suo predecessore, è il modo di intendere il Creatore, il
creato e se stesso. Questa continua ricerca della comprensione giustificata
dal raggiungimento della verità, ha spinto l’individuo ad elaborare delle
strutture e delle istituzioni capaci di delineare e difendere ciò che è buono
7 Platone, La Repubblica, quindicesima edizione marzo 2006, BUR, RCS libri Spa, Milano, pag 487 e segg.8 M. Ruzzeddu, La cultura della natura umana, in M. Ruini (a cura di), Caleidoscopio, Bulzoni Roma 2008, pag. 28 9 Sul concetto di società vedi C. Mongardini, op. cit., pag. 11 e segg.
11
da ciò che non lo è. La sottile linea fluttuante di demarcazione tra
bene/male separa l’intendere la salvezza, l’identità ed i valori, da ciò che
può minarli e distruggerli. Qual è allora il minimo comune denominatore
dell’umanità? Il motivo che spinge l’uomo a scegliere una strada non è
dettato dalla volontà di proteggersi, tutelarsi, scegliere ed affrancarsi un
futuro certo?
Non a caso Hobbes afferma che l’uomo entra in società per sottrarsi
allo stato di natura. In quella condizione esso si presentava come un
animale che avrebbe potuto annientare il suo simile e quindi se stesso.
Così quell’essere, intraprende il cammino della socialità, scende
dalle montagne e si stanzia in pianura. Incomincia a coltivare la terra, affina
le armi per la caccia e per la pesca. Si stanzia insieme ai suoi simili e crea
quelle strutture idonee a fissare i propri valori; le istituzioni che Durkheim
designerà tali, quelle forme organizzate - famiglia, istruzione, giustizia –
tese a perseguire un fine sociale e una determinata funzione.
Le istituzioni si plasmano, e l’uomo, soggetto attivo del
cambiamento, si lascia infine attraversare dalla forza di reazione delle
stesse che non si annientano, ma si trasformano fino a riprendere vigore.
Infatti, se nel medioevo l’apparente dissoluzione dei pubblici poteri e
l’anarchia feudale avrebbe potuto ingannare l’errante, che giurava fedeltà al
signore, pur di avere una terra da controllare e dei contadini da soggiogare,
nell’età moderna le istituzioni si fortificano. Riprendono forza, perché
hanno imparato dagli errori del passato. I sovrani, infatti, non soltanto
rafforzano il loro potere, ma lo accentrano nella loro figura. Creano
strutture di governo complesse, caratterizzate da una grande divisione dei
compiti, per gestire e difendere il proprio territorio e la propria influenza.
Contestualmente però l’azione dell’uomo non si fa attendere. Infatti, con la
formazione degli Stati assoluti, sboccia paradossalmente il seme che li
condurrà al totale disfacimento. La storia dell’uomo, per parafrasare Marx,
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sembra storia di lotte tra azioni e reazioni, formazioni e dissoluzioni.
Nascite e morti tra uomini e istituzioni.
Sembra che, nei momenti di massima tensione sociale, l’uomo abbia
ritrovato una nuova forza, si sia liberato delle catene che ne tentavano di
bloccarne l’evoluzione ed ha conquistato la libertà di azione e di
pensiero.10
Il passaggio a epoche diverse e l’aumento demografico hanno
segnato una svolta nei rapporti umani, che sono passati dall’essere
caratterizzati da una solidarietà meccanica a un’organica. Durkheim nella
Divisione del Lavoro sociale – ne ha individuato i segni nella divisione del
lavoro che ed ha implicato la cooperazione cosciente e libera degli agenti
sociali, quindi lo sviluppo delle relazioni sociali e la nascita dello Stato
moderno centralizzato, gestionale, e la conseguente concezione
dell’individuo come persona.
In quest’ambito fioriscono le tutele giuridiche e le regolamentazioni,
prevale l’adozione di un diritto privato, un sistema definito che
comprende il diritto domestico, il diritto contrattuale, il diritto
commerciale, il diritto delle procedure, il diritto amministrativo e
costituzionale. Le relazioni regolate da tali diritti sono completamente
diverse dalle precedenti: esse esprimono un concorso positivo, una
cooperazione che deriva essenzialmente dalla divisione del lavoro.
L'individuo diventa consapevole del suo stato di dipendenza nei
confronti della società e del fatto che da questa provengono le forze che lo
trattengono e lo frenano. Questa situazione crea disagio perché seppur sia
vero che la società tutela l’individuo, il sacrificio che questo deve 10 Si consideri ad esempio la Rivoluzione Francese, come un fenomeno sia urbano sia rurale. Fu
l’emergenza di un bisogno di eguaglianza profonda a scardinare una società essenzialmente fondata sul privilegio. Il regno era articolato in strutture feudali e aveva fatto nascere numerosi abusi garantiti dalla legge. La Rivoluzione riuscì quindi a coinvolgere sia gli strati più abbienti, più ricchi, più colti, privilegiati, che quelli popolari, che da sempre sollecitavano istanze di uguaglianza. La popolazione intera si attaccò a quest’opportunità politica, improvvisa, imprevista, per richiedere ed esigere eguaglianza. Si veda l’intervista rilasciata dal prof. Paolo Viola, docente di Storia moderna all’Università di Palermo, il 25.04.2000 all’istituto scientifico “Copernico” di Napoli
13
sopportare è altissimo. Egli, infatti, si sente espropriato del proprio spazio
fisico a favore di un ruolo sociale e di una vita socialmente totalizzante. Lo
sviluppo delle istituzioni favorisce una “sorta di equilibrio fra fiducia e
rischio, sicurezza e pericolo”11. Ma la modernità fa tendere quel legame
sociale che teneva unite le popolazioni, soprattutto nell’ambito dei nuclei
familiari, e le organizzazioni nello spazio e nel tempo. La disaggregazione
familiare e comunitaria è andata di pari passo con la distanziazione12 spazio
temporale e con l’espressione di un allentamento e di una rarefazione
significativa dei rapporti sociali. La reazione dell’individuo di fronte al
sacrificio di se stesso e della propria appartenenza di gruppo, può rivelarsi
dannosa per la stessa socialità. Discostandosi dai valori sociali, l’uomo
deraglia verso una nuova socialità, diventa deviante. Così la rottura si
esteriorizza nella realtà, e la devianza diventa il comportamento attraverso
il quale gli individui sfuggono alla pressione sociale. Se per un verso le
norme, nella loro astrazione, definiscono il comportamento ideale degli
individui, il comportamento reale, col suo grado di conformità/difformità
dalla norma, determina la permanenza o l’evolversi delle condizioni che
rendono possibile, accettata e vincolante una determinata norma.13 In altri
termini potremmo dire che il comportamento reale è la reazione individuale
all’ideale proposto nella norma. Se si genera un consenso, ed in questa sede
si tralascia il tipo ed il grado di consenso, non si generano conseguenze. Ma
se il comportamento dell’individuo si realizza in un dissenso,m esso
provoca una reazione del gruppo sociale, volta a ristabilire l’ordine violato.
Tanto più il comportamento degli uomini si proietta nella devianza, tanto
più vicino sarà il punto di anomia. Quel punto cioè nel quale il gruppo
ritiene di non poter più accettare il comportamento difforme dalla norma e
associa ad esso una sanzione.
11 A. Giddens, Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna 1990, pag 10912 Ivi, p.11013 C. Mongardini, op. cit, pag .343
14
Gli effetti della devianza possono essere molteplici e di diversa
natura. Infatti, può rafforzare la norma e accrescere la coesione del gruppo.
Oltre ad un certo limite si giunge al declino della norma. Può generarsi
anche un altro effetto, l’innovazione poiché il comportamento deviante
spinge verso un’innovazione normativa e una costante revisione e difesa
dei valori, degli usi, della produzione culturale fino a quel momento
percepito dal gruppo sociale.14
3. Evoluzione dell’uomo e teorie evoluzioniste
Gli interrogativi che sovvengono sono numerosi e complessi proprio
in ragione della diversità che è percepita dal gruppo a seguito della
devianza quando questa sfocia in anomia. Merton definiva l’anomia
Un crollo della struttura culturale che si verifica specialmente quando
c’è una profonda disgiunzione tra norme e obiettivi culturali e capacità
socialmente strutturate dei membri del gruppo di agire in sintonia con
essi15
Diverso è il concetto di anomia per Durkheim, il quale ne La
Division du travail social la indicava come l’assenza di norme, riferita al
sistema economico entrato in crisi nel 1600. Ne Le Suicide del 1987, lo
stesso Durkheim riferisce il concetto di anomia alla incapacità di ottenere
un equilibrio e una garanzia alle aspirazioni del singolo da parte di norme
codificate che non paiono in grado di rispondere alle esigenze
dell’individuo.
In entrambi i casi, l’anomia è una condizione che può determinarsi,
come afferma Merton, nel conflitto fra mete culturali e strutture sociali
14 C. Mongardini, op. cit. pag 345 e segg.15 Cit in R. Daherendorf, la libertà che cambia, Laterza, Bari 1981, p.205
15
disponibili per conseguirle. Se ciò è vero, l’uomo deviante sposta lo
steccato dell’evoluzione a un livello superiore, e questo individuo è
comune a tutte le epoche. Perché l’uomo del presente si sente così lontano
da quello del passato, seppur questo ne abbia segnato la sua evoluzione? E
perché l’uomo considera se stesso diverso e migliore del suo simile? Vi può
essere una relazione tra questi due interrogativi?
Con curiosità le domande emergono nella mente, come fossero
proiettate in sovraimpressione su uno schermo. Con la stessa
predisposizione si cercherà di valutare in questa sede il significato che
l’uomo si è attribuito nel corso del tempo, di capirne la tensione e
l’evoluzione del suo stato.
La società dell’antichità classica si caratterizzava per l’assenza del
concetto di umanità16. In quest’epoca, l’individuo viveva vincoli di
solidarietà reciproca solo con persone con cui aveva legami parentali (nella
gens) o politici (nella civitas); coloro che erano esclusi da questi sistemi
venivano ad esser trattati come schiavi.
In seguito al Cristianesimo cominciò a diffondere l’idea che tutti gli
uomini fossero creature e figli di Dio accomunati da un uguale destino. Lo
stesso messaggio di Cristo, non essendo destinato ai soli ebrei, ma a
chiunque decidesse di accettarlo, costituiva il seme di quell’universalismo
che si accompagnava all’idea di umanità.17
Così, nel medio evo l’uomo riscopre la ragione, cui i classici avevano
fatto riferimento nella loro continua ricerca e percezione della realtà e della
natura18, e nutre per essa una grande fiducia. In quest’epoca l’uomo cercava
16 L'umanità è intesa come la natura, l'essenza dell'uomo; in quanto tale definisce il sentimento di fratellanza e solidarietà che unisce gli uomini fra loro, li rende solidali e consapevoli della partecipazione ad un destino comune. Vedi Nicola Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana lo Zingarelli 2008, Zanichelli editore, Piotello, Giugno 2007.
17 M. Ruzzeddu, in M. Ruini, (a cura di) op. cit, pag.29 18 Già Platone nel Teeteto, in Di Plati e Dardi Bembo (a cura di), Opere di Platone,Giuseppe Bettinelli,
1742, distingue tre accezioni in riferimento alla definizione del sapere come “credenza vera associata a un lògos: lògos è la manifestazione del pensiero attraverso i suoni articolati di una lingua; è il rendere conto di una cosa enumerando gli elementi, è l'enunciazione della differenza.
16
di difendere le verità di fede con l'uso della ragione. A tal fine, si preferì la
sistematizzazione del sapere già esistente rispetto all'elaborazione di nuove
conoscenze. Si cercò quindi di sviluppare un sapere armonico, integrando
la rivelazione cristiana con i sistemi filosofici del mondo greco - ellenistico,
convinti della loro compatibilità, e anzi vedendo nel sapere dei classici, in
particolare dei grandi pensatori come Socrate, Platone, Aristotele, Plotino,
un preludio delle verità di fede.
La crisi di questa corrente filosofica, nel XIV secolo, con autori
come Duns Scoto e soprattutto Guglielmo di Ockham, fu segnata da un
crollo di fiducia nella ragione e da un conseguente crescente fideismo che
portò alla fine del pensiero medioevale ed alla nascita del pensiero
moderno.
L'umanesimo ed il rinascimento furono dei poderosi tentativi di
rispondere a tale crisi, proponendo come modelli, gli "antichi", come
risposta al crollo di fiducia nella ragione umana. Il concetto di rinascimento
implica sì l'idea di un rinnovamento, ma di un rinnovamento che si
riaggancia a radici, a quelle classiche: é un tornare radicalmente alla cultura
classica latina e greca, cercando di dimenticare la “tragica” parentesi del
medioevo; anche in campo religioso si vuole tornare alle origini del
cristianesimo, al Vangelo, alle fonti antiche. Lutero stesso, il padre della
Riforma, é quindi assolutamente coerente con le teorie rinascimentali.
Giordano Bruno, filosofo dell’epoca, descriverà il rinascimento servendosi
dell’immagine di una pianta amputata, ma non ancora morta; il tronco é
ancora vivo e dopo secoli bui (il medioevo) ricomincia a germogliare. Per
la prima volta, si ha coscienza di un’avvenuta rottura con il mondo classico,
che va ripreso, pur nella consapevolezza che esso sia ben diverso. Il
concetto di umanesimo é diverso rispetto a quello di rinascimento; il modo
più semplice di intenderli, evitando di dire che essi appartengono a due
17
periodi distinti, é sostenere che essi si riferiscono a due aspetti diversi della
stessa cosa. Con il termine umanesimo ci riferiamo a determinati aspetti di
questo rinascere, e più precisamente alle “humanae litterae”: nel 1400
rinasce l'interesse per la letteratura latina che era andato perduto nel
medioevo. Umanesimo significa anche humanitas, che implica la centralità
dell’uomo in ogni campo; ciò non significa che egli sia al vertice della
realtà (dove invece ci sarà sempre Dio), bensì vuol dire che é al centro del
creato. L'uomo come essere assume un significato importantissimo: egli sta
a cavallo tra mondo razionale e mondo celeste, tra mondo spirituale e
mondo non spirituale, tra angeli e cose. Già Ficino aveva definito:
l' uomo copula mundi: l’uomo è ugualmente distante da Dio quanto dagli
strati bassi della creazione, è il centro di simmetria fra il mondo
inferiore e superiore. (…) l’uomo è posto in posizione centrale nel
sistema, è il termine medio, condizione unica e invidiabile che lascia
l’individuo libero di decidere che cosa voglia essere se tendere verso
l’alto (spiritualità) o il basso (corporeità).19
La centralità dell' uomo poi si manifesta nel cosiddetto "umanesimo
civile" , dove l'uomo adempie a funzioni politiche e sociali. Durante tale
periodo si sviluppa il passaggio da una visione teocentrica ad
un’antropocentrica nella quale, l’uomo in quanto tale, è posto al centro del
suo destino e riscopre la sua somiglianza con Dio. Espressiva è una
citazione di Pavel Florenskij:
L’arte del rinascimento, basata sulla prospettiva che mette l’uomo al
centro, subordina Dio all’uomo e perciò fa di Dio un riflesso, un’ombra
dell’anima. Dio viene ridotto ad una dimensione puramente psicologica
e concepito come uno specchio nel quale l’uomo si osserva e si
conosce.20
19 Ubaldo Nicola, Antologia di filosofia. Atlante illustrato del pensiero, Giunti, Firenze 2000, pag 228 20Cfr. N. Misler, Nella tradizione dell’arte russa, in AA. VV., Per Tarkovskij, Centro Sperimentale di Ci-
nematografia Roma 1988, pp. 43-53; P. Florenskij, in La prospettiva rovesciata e altri scritti, a cura di
18
Agli antipodi si pone la visione del Vasari, con il rifiuto della
prospettiva, anzi con la sua prospettiva rovesciata, che “muove dallo
sguardo di Dio sul mondo e non viceversa”.
Ed è proprio nel rinascimento e nell’umanesimo che si sedimenta un
profondo individualismo nel quale l’uomo non è un semplice individuo,
bensì un individuo unico impegnato in tutti i campi del sapere.
Sarà nell’epoca moderna, e particolarmente con l’illuminismo, che
l’uomo respinge tutto ciò che non supera la “critica della ragione”, così
come respinge le fondamenta delle strutture tradizionali in quanto tali e
non in virtù di una validità razionalmente riconosciuta. L’uomo si libera
dell’obbedienza alle Scritture, alle tradizioni religiose, ed affida al libero
pensiero i criteri per definire gli scopi individuali e collettivi da
raggiungere. Molti autori hanno fornito il loro contributo riflettendo sulla
qualità del genere umano (buono – cattivo) e sulla capacità di agire
dell’uomo.
Nel primo filone c’è Hobbes, che nel Leviatiano espone la propria
teoria della natura umana, una natura egoistica ed un uomo le cui azioni
sono volte alla sopravvivenza ed alla sopraffazione. L’uomo, nello stato di
natura è un essere cattivo che cerca di danneggiare gli altri - homo homini
lupus – sempre in guerra con l’altro. È per porre ordine e garantire la
propria sicurezza che esce dallo stato di natura ed entra nella società civile,
affidando questo potere a un superorganismo, lo Stato, cui spetta il diritto
di distinguere ciò che è bene da ciò che è male, spodestando dalle scelte
non soltanto i sudditi ma anche le religioni. Ottimistica è invece la visione
di Rousseau che vede una divaricazione sostanziale tra la società e la natura
umana. Egli afferma come l’uomo sia in natura un buon selvaggio ma che
N. Misler, Casa del libro, Roma 1983,pp. 73-135.
19
sia stato “corrotto in seguito dalla società civile e acculturata che lo
conduceva al vizio e alla mollezza”. Un’interpretazione ripresa in parte da
Freud che dirà due secoli dopo, sulla natura dell’uomo, “per il primitivo è
facile essere sano, mentre per l’uomo civilizzato è un compito difficile.”21
Nel secondo filone, quello che intende l’uomo nella sua capacità di
agire, specularmente collochiamo Kant, il quale ritiene che l’essere umano
si caratterizzi per la sua coscienza e non per la sua azione22, e Hegel che
con il suo idealismo, pone l’essere umano come l’unico in grado di porsi in
un rapporto dialettico nei confronti della realtà23.
Il dibattito sulla natura umana riceverà una drastica sterzata dal XX
secolo grazie al progredire delle nuove scienze ed al sorgere della teoria
evoluzionista. Già Morgan asseriva che lo sviluppo della società passa
attraverso tre fasi: stato selvaggio, barbarie e civiltà e queste tre distinte
condizioni sono connesse l’una con l’altra in una sequenza progressiva
tanto naturale quanto necessaria.
Secondo gli evoluzionisti, le istituzioni umane sono stratificate come
la terra e il loro succedersi avviene in modo uniforme, indipendentemente
dalle differenze di razza o di linguaggio. Ed è proprio con “L’origine della
specie” di Darwin che, nella seconda metà dell’800, si crea scompiglio tra
le varie comunità scientifiche. Secondo Darwin, infatti, il passaggio dal
semplice al complesso avviene senza l’aiuto di un’intelligenza superiore la
quale, fino a quel momento, sarebbe dovuta intervenire per modificare una
natura di per sé immutabile.
In seguito, con “L’origine dell’uomo” Darwin esclude l’intervento
divino nella comparsa dell’uomo, facendo a questi perdere lo status di
“essere superiore” a favore di un”essere evoluto”.
21 M. Ruini, Società del disagio e società del benessere: un percorso culturale, in F. Cappellini Vergara (a cura di), la promozione del benessere nella famiglia, nella scuola, nei servizi, F. Angeli, Milano, 2001, pag.9
22 L’azione politica collettiva connota i tratti distintivi dell’umanità23 L.F. Morgan, La società antica, Feltrinelli, Milano1974.
20
Il determinismo naturale solo in parte può spiegare l’eterogeneità
dell’uomo, il quale condividendo spazi fisici e sociali con comunità diverse
per lingua, etnia, cultura e religione ha costretto l’uomo a costruire delle
rappresentazioni che fornissero delle giustificazioni plausibili a tali
diversità24.
Si tratta allora di accettare un determinismo sociale tale che “solo
confrontandosi con sensibilità, credenze e abitudini diverse ci si accorge di
condividere certe idee e usanze con un determinato gruppo”25
Proprio partendo da queste ultime affermazioni, possiamo formulare
una possibile spiegazione al quesito che ci siamo posti, e intendere la
lontananza tra l’uomo del presente e quello del passato proprio nella
diversa concezione di vivere nella società. Pur considerando come minimo
comune denominatore l’uomo deviante, anello di congiunzione tra le
epoche, il diverso significato che l’uomo si è attribuito l’ha spinto non a
guardare al presente o al passato contiguo ma al futuro vicino. In ragione
di ciò, le mosse da un allontanamento sono forse prese in forza a una paura
d’involuzione sociale. tanto più vicino è il passato che ci può inghiottire.
Tanto questo è lontano, tanto minimo sarà il pericolo di un ritorno a esso. Il
passato remoto, considerato sempre con grande attenzione, guida gli
uomini a evitare gli errori commessi. Il passato prossimo lo spinge al
futuro. In quest’operazione si perde il contatto con il precedente e con tutto
quanto questo ha fatto per adire al miglioramento sociale. Così facendo,
l’uomo è proiettato al futuro e nel futuro si considera migliore del suo
simile rimasto ai margini del passato. E ciò porta a formulare l’ipotesi di
una trasmissibilità tra individui per cui, se il passato prossimo rappresenta
un pericolo d’involuzione, e questo periodo è associato all’azione di uomini
che hanno vissuto quell’epoca, allora tutti gli uomini che vivono condizioni
di vita disagiate nel presente, sono considerati più affini al passato. Ciò li 24 M. Ruzzeddu, in M. Ruini, (a cura di), op. cit, pag. 33 25 A.R. Ember, M. Ember, Antropologia culturale, Il Mulino, Bologna 2004, pag.25.
21
immerge nel pregiudizio, poiché le loro particolari condizioni sociali sono
intese come portatrici di malessere e di arretratezza e non di progresso.
22
CAPITOLO II
L’uomo e la cultura
1. Il significato di cultura e l’approccio socio-antropologico
Nel corso dei secoli, abbiamo potuto vedere come l’uomo ha evoluto
il suo modo di pensare, di intendere e di concepire la natura e l’altro 26. Egli
ha scoperto immagini diverse nell’altro e avendone paura, ha innalzato
barriere razziali ed etniche. La diversità culturale non è stata concepita
come peculiare all’uomo del luogo ma come sintomo d’inferiorità,
d’imperfezione e quindi soggetta a sopraffazione.27 Tuttavia, nel corso degli
ultimi due secoli si è sviluppata con maggiore intensità una tendenza (o
meglio) una corrente di pensiero che ha ribaltato questa
concettualizzazione, tendendo al supermento del pregiudizio razziale. Sono
sorti dei moti che hanno cercato di imporre una visione paritaria e
ugualitaria dell’essere uomo.28
Tuttavia se alcuni individui sono mossi nel loro agire dal pregiudizio
razziale, dal sentimento di diffidenza e di sopraffazione nei confronti del
“diverso”, merito ed emulazione dovrebbero suscitare coloro che hanno
profuso le loro energie a rafforzare il rapporto tra l’uomo ed il suo simile e
tra questi e la natura. Si pensi che già nelle tribù primitive, il legame tra gli
26 L’altro in questo caso è inteso come il simile dell’uomo che si differenzia da costui per cultura, razza, religione, etnia, estrazione sociale etc.
27 Tanti sono gli esempi storici che caratterizzano queste affermazioni, tra tutte si veda la tratta degli schiavi africani che assunse delle enormi proporzioni. Gli europei giustificarono un tale barbara azione, nell’inferiorità culturale e nella missione di civilizzazione.
28 Schiavitù e tratta degli schiavi sono nozioni che siamo soliti associare a epoche tanto buie quanto remote della storia dell'umanità. La comunità internazionale si è impegnata fin dai primi anni dell'Ottocento nella lotta contro questo genere di barbarie . I valori di libertà e di eguaglianza, su cui si fonda la società moderna, valori sanciti solennemente nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, sono ormai riconosciuti dalla totalità delle Nazioni.
23
uomini, soprattutto nei gruppi e nei clan, sia stato eretto a totem; e in esso
l’uomo si è plasmato. Si è fatto proteggere dall’animale totemico (cioè dal
legame con il suo simile e quindi dal suo simile) ed ha perseguito il fine
ultimo: tutelare se stesso29. Egli ha trasmesso ai suoi simili la conoscenza,
la tradizione, l’arte, la morale, il diritto, il costume e infine ha
indissolubilmente strappato al tempo il suo sapere e l’ha fissato nella
cultura.
La prima definizione antropologica di cultura che si allontana sia
dall'universalismo illuminista sia dalla visione etnocentrica della prima
antropologia si fa risalire a Edward Burnett Tylor, nel 1871, con la
pubblicazione in Inghilterra del libro “Primitive culture” che si apre con la
definizione di cultura intesa come quel complesso che include le
conoscenze, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi
altra capacità e abitudine che l'uomo acquisisce come membro di una
società.30
Il concetto di cultura è stato, nel corso di questo secolo, notevolmen-
te ampliato da Malinowski, Mauss e Lévi-Strauss, i quali ne hanno affer-
mato la dimensione relativista e la necessità di immergersi nel tessuto cul-
turale della comunità studiata per comprendere a pieno gli autentici signifi-
cati. La rivoluzione metodologica per una totale comprensione dei fenome-
ni culturali è stata in questo senso dettata da Malinowski che con gli “Argo-
nauti del Pacifico”, ha descritto la lunga esperienza vissuta alle Trobiand,
un gruppo d’isole a est della costa della Nuova Guinea. Per Malinowski il
segreto per comprendere lo spirito autentico degli indigeni sta nella combi-29 Le tribù primitive erano divise in gruppi o clan, ognuno dei quali era portatore di un “totem”, che di
solito era un animale commestibile, innocuo o pericoloso, e temuto; oppure, più raramente, era una pianta o un elemento naturale (pioggia, acqua) legato a tutto il clan da un rapporto particolare. Secondo la descrizione che ne fa Freud, il totem «è in primo luogo il capostipite del clan, ma ne è anche lo spirito tutelare e il soccorritore che trasmette oracoli alla sua gente e, se pur pericoloso agli altri, riconosce e risparmia i suoi figli. I membri del clan, per contro, soggiacciono all'obbligo sacro — pena una sanzione che vige di per sé — di non uccidere (o distruggere) il loro totem e di astenersi dal consumare la sua carne (o comunque dal trarne godimento)» vedi S. Freud, Totem e Tabù, del 1912 – 1913 pag.11
30 vedi anche C. Mongardini, op. cit, pag. 248
24
nazione di tre elementi: possedere reali obiettivi scientifici, isolarsi dalla
società dei bianchi e andare nei villaggi. Ed è nello “studio di campo” che
l’antropologo vede la cultura come “un tutto inscindibile, un sistema inte-
grato dove le parti sono in stretta relazione tra di loro”. Ciò che spiega un
fatto culturale non è la sua origine, ma la sua interrelazione con altri fatti
culturali all’interno della cultura come sistema. È insomma una realtà sui
generis e deve essere studiata come tale31. Essa scrive in un altro saggio
Malinowski,
è nello stesso tempo il meccanismo minimo per la soddisfazione dei più
elementari bisogni della natura animale dell’uomo, e anche un sistema
sempre in sviluppo e sempre crescente di nuovi fini, nuovi valori e nuove
possibilità creative.32
La cultura può essere così scissa in valori, simboli, significati, ma
anche in modelli di comportamento e ruoli sui quali si costituiscono i
rapporti sociali e le istituzioni, che fissano la vita collettiva e ne
costituiscono il territorio sociale. Il fatto che un sistema culturale sia
comune a tutti gli individui (di quel sistema) e tenda a definire le
aspettative reciproche e a stabilizzare la vita collettiva non significa però
che tutti gli individui sono nella stessa misura partecipi di esso, sia per una
diversa interiorizzazione di valori e sia per una diversa distribuzione dei
ruoli degli individui.
Al centro del significato di cultura trova così sempre più spazio l'idea
di quotidiano - e ciò che si sviluppa nel quotidiano: i ruoli, le aspettative, le
credenze, i miti, i riti e tutte le pratiche che strutturano l'agire quotidiano.
Non solo, con la cultura s’individua uno di strumento prescrittivo capace di
fornire un significato al mondo e agli individui (identità).
31 Malinowski scrive questa definizione di cultura nell’articolo Culture per l’Encycloppaedia Britannica vedi anche C. Mongardini, op. cit., pag 251
32 B. Malinowski, Man’s Culture and Man’s Behavior, in Id., Sex, Culture and Myth, Londra, 1963, p.196
25
Gli sviluppi più recenti dell'antropologia hanno posto alcuni accenti
critici su una tale visione di cultura, specie sulla sua dimensione statica
intesa come bagaglio di prescrizioni definite e necessarie alla definizione
del “noi”. Una tale concettualizzazione, infatti, acuirebbe le differenze,
renderebbe le culture come entità pure e statiche e non lascerebbe alcuno
spazio per l'autonomia individuale (per questo si parla d’individui iper-
culturizzati).
James Clifford ha introdotto, sulla scia di queste critiche, l'idea che
la cultura non è un bagaglio di modelli definiti, ma un insieme di
possibilità e vincoli che strutturano la realtà in un processo dinamico di
continua ibridazione con altre culture.33 In sostanza si passa da una visione
di cultura come “roots” ad una come “routes”.
Ed è ancora Clifford che in un altro suo saggio del 1997, “Routes.
Travel and Translation in the Late Twentieth Century”, avvicina lo studio
della cultura a concetti quali “strade” e “viaggio”: ove centrale diviene il
senso del passaggio di frontiera, del superamento del confine, del contatto
con nuovi mondi a significare la costante ibridazione al centro delle
culture nel mondo contemporaneo.
Un'altra nota definizione di cultura c’è fornita da Clifford Geertz, che
la accomuna ad una rete di significati che gli individui hanno creato e
continuano a ricreare, restandone così invischiati. Come spiega lo stesso
antropologo:
il concetto di cultura che esporrò [...] è essenzialmente un concetto se-
miotico. Ritenendo, insieme con Max Weber, che l’uomo è un animale
impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto, credo che la 33 Nel suo libro “The Predicament of Culture: Twentieth Century Ethnography, Literature, and Art”
scritto nel 1988 e tradotto in italiano col titolo “I frutti puri impazziscono: etnografia, letteratura e arte nel XX secolo”. Clifford sostiene l'impossibilità per un codice culturale di definirsi e presentarsi come puro in un mondo sempre più al centro di scambi e interazioni, dove le identità hanno perso le loro certezze e i luoghi sono sempre più permeabili a molteplici influssi culturali: le culture, allora, non sono da intendersi come entità stabili e originarie (roots), bensì come percorsi di significato in costante negoziazione a contatto con altri codici culturali (routes)
26
cultura consista in queste reti e che perciò la loro analisi non sia anzitut-
to una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza interpreta-
tiva in cerca di significato 34
Geertz chiarisce inoltre che per significato non intende una qualche
misteriosa proprietà delle cose custodita nelle menti degli uomini: si tratta
piuttosto di un prodotto sociale. La cultura, rete di significati, è pubblica
perché è prodotta ed esiste in pubblico, nelle interazioni locali tra uomini
che “badano alle loro pecore nelle loro vallate”.
La cultura, questa sorta di documento agito, è quindi pubblica come la
parodia di un ammiccamento [...] Benché contenga il mondo delle idee
non esiste nella testa di nessuno; benché non sia fisica, non è un’entità
occulta. [...] Una volta che il comportamento umano sia visto come azio-
ne simbolica [...] la questione se la cultura sia comportamento struttura-
to o forma mentale [...] non ha più senso. Quello che ci si deve chiedere
[...] [dei comportamenti] non è quale sia il loro status ontologico [...] si
tratta di cose di questo mondo [...] è quale sia il loro significato: [...] ciò
che viene detto quando avvengono o mediante la loro azione.35
Un concetto, in parte ripreso e riformulato da Hannerz, che intende la
cultura come una rete di significati continuamente riformulata dalle
interazioni e dalle pratiche sociali. Ulf Hannerz parla di networks come
momento culturale fondamentale della contemporaneità.
In quanto organizzazione sociale del significato, la cultura può essere
vista come una serie di interconnessioni estremamente complesse(..) un
network di prospettive, con una produzione continua di forme culturali
esplicite.36
Il punto centrale di quest’approccio è il rifiuto sia della visione
critica dell'imperialismo culturale, dove gli effetti della globalizzazione
34 C. Geerzt, Interpretazioni di culture, Il Mulino, Bologna, 1987, pag 4135 C. Geerzt, op. cit., pag 4736 Cfr. U. Hannerz, la complessità culturale, Il Mulino, Bologna, 1998 pag. 89
27
culturale ricadono a cascata nei vari contesti locali omologandoli, sia della
visione spesso normativa del particolarismo, che vede nel sorgere di
specificità culturali una forma di reazione agli effetti di una cultura
mondiale.
Anche in sociologia la cultura è sempre stata al centro dello studio,
seppure l'interesse non sia verso la comparazione con altre culture bensì dal
ruolo occupata all'interno del sistema sociale. Durkheim, ad esempio, pone
l'accento sulla dimensione morale e simbolica delle rappresentazioni
collettive come momento costituente la coesione necessaria a definire un
organismo sociale. Illuminanti sono al riguardo le analisi che Durkheim
dedica al fenomeno del totemismo e della religione. Il primo è visto come
legame che viene a intercorrere tra un simbolo o norma e l’identità di un
clan o gruppo di persone. Sulla base di tale legame, la compatibilità o
l’incompatibilità tra i diversi totem regola i rapporti tra i diversi clan,
giustificando interdizioni di tipo matrimoniale, alimentare, ecc. La
religione è considerata come una cosa eminentemente sociale. Le
rappresentazioni religiose sono delle manifestazioni collettive che
esprimono delle realtà generali; i riti sono delle maniere di agire che
nascono all’interno dei gruppi associati e che sono destinate a suscitare, a
mantenere o a riprodurre certi stati mentali di tali gruppi37.
Marx, al contrario, definisce la cultura come l'elemento
sovrastrutturale necessario a mantenere l'ordine sociale derivato dalla
ripartizione e proprietà dei mezzi materiali di produzione.
Tutti gli aspetti della conoscenza e del pensiero umano sono compresi in
questa posizione: Marx e tutti i sociologici classici dopo di lui
sostengono che (..) i saperi sono profondamente influenzati dalle forme
dominanti dell’organizzazione sociale: tutto quanto pertiene al pensiero
e alla conoscenza umana è determinato dalle attività produttive della
37 F. Crespi e F. Fornari, Introduzione alla sociologia della conoscenza, Donzelli Editore, Roma 1998, pag.83
28
società, che s’identificano con le strutture materiali del lavoro, le
istituzioni economiche e politiche, le forme della tecnologia38
Gramsci riprende l'approccio critico marxista e introduce il concetto di
egemonia culturale per identificare quei processi di dominio da parte di una
classe che impone la propria visione del mondo attraverso le pratiche
culturali. Chiara è la figura di Gramsci nel testo di Pietro Lucia:
In Gramsci si vede chiaramente il ruolo decisivo che deve assumere la
cultura per la costruzione dell’egemonia e per la formazione di un
blocco storico alternativo al blocco di potere che ha nelle mani le leve di
comando nell’economia e nello Stato39
Ma è lo stesso Gramsci che afferma come
I gruppi subalterni subiscono sempre l’iniziativa dei gruppi dominanti,
anche quando si ribellano e insorgono: solo la vittoria permanente
spezza, e non immediatamente, la subordinazione40
2. Varie scuole e correnti di culturali
Un altro approccio critico è stato affrontato con la Scuola di
Francoforte - tra gli altri Adorno, Horkheimer e Marcuse - i quali
introducono i termini d’industria culturale e di cultura di massa.
Rianimando l'idea illuminista di una cultura alta, la Scuola parla d’industria
culturale per indicare la produzione omologante di modelli culturali
attraverso i media e l'industria che favorirebbero una cultura e una società
38 Doyle E. McCarthy, La conoscenza come cultura: la nuova sociologia della conoscenza, Meltemi editore srl, Roma,2004, pag.4039 Piero Lucia, intellettuali italiani del secondo dopoguerra: impegno, crisi e speranza, Guida Editori, Napoli 2003, pag. 11940 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere,Einaudi, Torino 1977, pag. 1863
29
massificata, ossia uniforme, senza stimoli, priva di creatività in quanto
destinata a raggiungere il maggior numero di persone.
Attraverso i mass-media il potere sociale impone valori, comportamenti
e bisogni uniformi, amorfi e asettici, inconciliabili con i contenuti delle
autentiche esperienze di vita; nel facile e indifferenziato consumo
l’industria sociale ha perfidamente realizzato l’uomo come essere
generico, cioè l’apoteosi del tipo medio appartenente al culto di ciò che
è a buon prezzo.41
Dall’altra parte del continente, Appadurai, sottolinea il ruolo delle
informazioni, rivelandone i possibili effetti dannosi che queste possono
generare nella società e nella riformulazione delle culture:
le sofferenze della riproduzione culturale in un mondo globalmente
disgiunto non sono ovviamente alleviate dagli effetti dell’arte meccanica
(o mass media) perché questi media offrono potenti risorse per contro
nuclei identitari che i giovani possono utilizzare contro le aspirazioni o
i desideri dei loro genitori.42
Un'altra scuola, sorta nell’ambito accademico dell’università di
Chicago, si è interessata fra l’altro, all'analisi dei modelli culturali degli
emigrati negli Stati Uniti in termini d’integrazione e assimilazione:
l'approccio si rifà all'idea di una cultura statica, omogeneizzata che non
implica nei suoi rapporti l'ibridazione.
Questa Scuola individua in area metropolitana le linee fondamentali
di un’ecologia umana intesa come “lo studio delle relazioni spaziali e
temporali degli esseri umani in quanto influenzati dalle forze selettive,
distributive e adottive che agiscono nell’ambiente”43
41 J. Habermas, trad it, Teoria dell’agire comunicativo. Razionalità nell’azione e razionalizzazione sociale,Il Mulino, Bologna,1986 pag.496
42 A. Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi Editore srl, Roma 2001, pag.67 43 Park, Burgen, Mekenzie, La città, Comunita, Milano 1967
30
La corrente funzionalista, al contrario, pur con le divergenze dei casi
singoli, si è avvicinata alla cultura come funzione d’integrazione e di
trasmissione delle norme, delle aspettative, dei ruoli e dei fini sociali.
Evidente l'influsso durkheimiano ove l'idea di cultura si lega al processo di
socializzazione col quale la cultura è trasmessa e reiterata. Sta, infatti, alla
base dell’importante contributo di Durkheim alla sociologia della
conoscenza, (l’idea) secondo la quale l’intero complesso delle categorie
conoscitive ha una genesi sociale. Originario non è l’individuo, ma la
società, dalla quale soltanto assume significato l’interazione dei singoli.44
Con l'affermarsi della fenomenologia in sociologia, si sviluppa quella
corrente definita interazionismo simbolica e si amplia la funzione
dell’interazione nel paradigma di cultura . Secondo il G.H. Mead,
l'interazione simbolica, ossia lo scambio di segni e significati, mediante le
pratiche comunicative, è alla base dello sviluppo del sé; ove
il sé è (per Mead): il risultato dell’oggettivazione che l’individuo opera
di se stesso: così si costruisce in primo luogo attraverso i rapporti
sociali e si sviluppano gli atteggiamenti individuali particolari, ma
anche gli atteggiamenti dell’altro generalizzato. L’immagine che
l’individuo ha di sé è il prodotto della sua esperienza e delle forme di
mediazione simbolica che fanno parte della sua esperienza (...) in questa
prospettiva la società è concepita come precondizione essenziale non
solo del sé, ma anche della conoscenza.45
Il vantaggio di un tale approccio sta nel riconoscere sia un'autonomia
dell'individuo nell'interpretare i significati sia uno spazio dinamico dove la
cultura viene ogni volta riformulata e condivisa attraverso le pratiche.
44 Fabrizio Crespi e Fabrizio Fornari, Introduzione alla sociologia della conoscenza,Donzelli Editore, Roma, pag.80
45 Aurelia Marcarino, Sociologia dell’azione comunicativa, Guida Editori, Napoli, 1988, Pagg. 29 e 30
31
Sulla scia dell'interazionismo simbolico si sviluppa l'approccio
costruttivista46 di Berger e Luckmann e l'etnometodologia di Garfinkel,
entrambi concordi nel sostenere la percezione del reale come una
costruzione sociale. Specie nel primo caso, la cultura s’identifica con tutte
quelle pratiche che danno forma alla conoscenza: non esiste così una realtà
oggettiva, ma solo una realtà percepita, riflesso della cultura di
appartenenza. Berger e Luckmann nel saggio la realtà come costruzione
sociale (1996; tr. It. 1999) i due autori trattano in maniera sistematica il
tema della socializzazione e dei processi d’interiorizzazione intesa,
quest’ultima, coma la percezione o l’interpretazione immediata di un
evento oggettivo come esprimente un significato, cioè una manifestazione
di processi soggettivi di un altro che così diventa soggettivamente
significativo per me stesso.47
Pierre Bourdieu nel suo libro La distinzione. Critica sociale del
gusto (1983) riprende l'approccio critico ed affronta un aspetto centrale,
anche se spesso dimenticato o misconosciuto, del consumo culturale in
genere: l’organizzazione sociale dei gusti. Egli sottolinea come i gusti
culturali sono segni distintivi di una classe, la quale esprime una visione del
mondo e modelli culturali inconsci (habitus) che informano la distinzione
sociale.
Secondo Bourdieu il gusto (…) riferito a questo o quel genere di prodotti
culturali (il culturale è qui inteso in senso assolutamente ampio: si va
dal gusto estetico per un’immagine, ai prodotti gastronomici,
dall’arredamento della casa, ai gusti musicali, letterari ecc) è un
elemento tutt’altro che personale, cognitivo o psichico. Al contrario ciò
che guida ciascuno nella ricerca di percorsi di legittimità (..) è un fattore
eminentemente sociale e relazionale (…)non a caso, quando debbono 46 L’approccio costruttivista esercita un grande fascino anche nel campo della socializzazione delle
persone con “bisogni speciali” perché spinge l’osservazione oltre il già acquisito, e fa affiorare quegli aspetti delle dinamiche educative che sono l’opera ma di cui non si ha consapevolezza. A maggior ragione se l’ambito di realtà è rappresentato dalle persone disabili
47 Fabio Ferrucci, La disabilità come relazione sociale. Gli approcci sociologici tra natura e cultura, Rubbettino Editore srl, Soveria Mannella (CZ) 2004 Pag.121
32
giustificarsi, si affermano in forma, tutta negativa, attraverso il rifiuto
opposto a gusti diversi(…) ogni gusto si sente fondato per natura, e
praticamente lo è, dal momento che è habitus.48
La novità rispetto a Marx è che l'elemento culturale non è più una
sovrastruttura ma parte integrante della struttura. Tale visione ricorda in
qualche modo gli interessi ideali di Weber e le sue analisi sul ceto. Secondo
il sociologo tedesco, tuttavia, la distinzione in base al prestigio legato allo
status di una posizione sociale (il ceto), espresso in un'etica e in un'estetica
specifiche, non si sovrappone necessariamente alla posizione economica
come in Bourdieu.
Gli sviluppi più recenti della sociologia, riguardo alle trasformazioni
sociali degli ultimi decenni, si concentrano su due concetti fondamentali:
globalizzazione e post-modernità. Questi non devono essere considerati
come concetti separati ma come aspetti caratteristici della cultura nella
nostra particolare società.
Sempre più spazio, infatti, prende l'idea che gli effetti del villaggio
globale di McLuhan se inseriscano e si contamino con le specificità
culturali locali: gli effetti così sono di un’interdipendenza culturale, dove i
modelli si confrontano, si mischiano e si formano attraverso l'ibridazione
(glocalisation).
Così oggi ci ritroviamo a parlare di film orientali premiati a Cannes o
ancora dei diversi usi che internet ha conosciuto in India o in Corea o in
altre parti del mondo.
3. Le differenze culturali ed il relativismo
48 Cristina Grasseni, Antropologia ed epistemologia per lo studio della contemporaneità,Guaraldi, Rimini 2006, Pag.152
33
Altro elemento che suscita notevole discussione nel mondo
scientifico riguarda la convivenza di culture differenti all'interno degli stati
nazionali e del sistema mondo. Qui in generale s’individuano due approcci:
il multiculturalismo che rileva la presenza di diverse culture dai confini
labili e fra loro permeabili; e il relativismo che pone l’accento
l'incommensurabilità delle culture che rimangono così universi separati e
fra loro non comunicanti.
Ma volendo per un momento tralasciare la spiegazione epistemologi-
ca fornita dai due approcci, cosa ci viene in mente quando pensiamo o os-
serviamo culture altre, e che confrontiamo indegnamente con la nostra, ad
esempio quando osserviamo la vita degli indiani delle pianure, o quella vis-
suta all’interno dei villaggi africani, o quella affrontata dai beduini nel de-
serto?
In un bel saggio, scritto tra il 1924 ed il 1925 Ruth Fulton Benedict,
allieva di Franz Boas, antropologo, fondatore di una scuola di pensiero nota
come relativismo culturale o culturalismo scriveva:
“I matrilinei Zuni sono un popolo dove la sessualità è rilassata, la
gelosia maschile è molto attenuata, le case costruite dagli uomini
appartengono alle donne, il divorzio è semplice (basta mettere i ve-
stiti del marito fuori dalla porta) non comporta problemi, dove non
esiste senso di colpa legato al sesso, e l’omosessualità rappresenta
una condizione onorevole. La morte è vissuta con naturalezza e
senza sfoggio di terrore, l’omicidio è virtualmente inesistente, il
suicidio così violento che non è neanche contemplato. Salvo alcune
violazioni di carattere rituale, non esiste alcun crimine. Le contro-
versie economiche si risolvono senza grandi liti”.49
A questa descrizione, la Benedict ne affianca altre sempre legate a
popolazioni autoctone che individuano modelli di cultura caratterizzanti le 49 Benedict Ruth, Modelli di cultura, Feltrinelli, Milano 1960
34
popolazioni. Il suo libro Modelli di Cultura (1934) sviluppa l’idea secondo
la quale la “modellizzazione produce una forma culturale media per ogni
tipo di società”
Lo studio delle culture autoctone ci dovrebbe fornire una tolleranza
fortemente accresciuta verso la loro diversità ed un’abilità maggiore a sot-
toporre a giudizio i tratti dominanti della nostra civiltà 50.
La tolleranza presuppone la presenza di culture diverse, così come
appare diversa la nostra cultura agli occhi degli altri. Volgendo lo sguardo
al macrocosmo, avremmo dinanzi ai nostri occhi, non una cultura gerarchi-
camente posta a un livello superiore, che detta i canoni su cui compiere la
comparazione nei confronti delle altre culture ma culture sovrane, che si
adagiano orizzontalmente nei continenti, negli stati, nelle regioni, nelle pro-
vincie, nei comuni e nei villaggi del mondo. Potremmo definire la cultura
peculiare alla sovranità. Come uno Stato esercita, in un determinato territo-
rio e su un determinato popolo, la potestà di governo assoluta, esclusiva e
originaria, così la cultura in quel determinato territorio ha un carattere ori-
ginario, perché sorge con il sorgere della comunità, esclusivo e assoluto in
quanto i rapporti tra i membri della comunità, che sono stabiliti e regolati in
virtù delle conoscenze, credenze, arte, morale, diritto, e costume valgono
erga omnes e sono accettate in quanto poste dagli appartenenti alla medesi-
ma comunità. Se ciò è vero, non è più possibile affermare che esistano cul-
ture inferiori, barbare o antiche.
Inoltre se è proprio il principio di sovranità che detta le linee guida
nella gestione delle relazioni internazionali fra Stati, sostanziandosi nella
effettiva e concreta autonomia di ciascuno Stato, l’incontro fra culture di-
verse, deve svolgersi al pari, e deve ispirarsi a principi di riconoscimento,
tolleranza e tutela reciproca.
50Stocking, George W. Jr. (1992), The Ethnographer’s Magic and Other Essays in the History of Anthro-pology, University of Wisconsin Press, Madison & London., pag. 300
35
Così scriveva François Marie Arouet, noto come Voltaire:
La tolleranza è una conseguenza necessaria della nostra condizione
umana. Siamo tutti figli della fragilità: fallibili e inclini all'errore. Non
resta, dunque, che perdonarci vicendevolmente le nostre follie. È questa
la prima legge naturale: il principio a fondamento di tutti i diritti
umani". "Il diritto all'intolleranza è assurdo e barbaro: è il diritto delle
tigri; è anzi ben più orrido, perché le tigri non si fanno a pezzi che per
mangiare, e noi ci siamo sterminati per dei paragrafi51
Tuttavia, fino a tutto il XIX secolo, si riteneva che esistessero popoli
provvisti di cultura e popoli privi di essa. I gruppi etnici “diversi” da quelli
occidentali, seppur portatori di cultura, erano considerati popoli di natura,
"primitivi" o "barbari". Questa divisione così netta era dettata da una forma
di etnocentrismo dell’uomo occidentale52, autoproclamatosi unico detentore
del sapere "universale", in grado di proporre la propria cultura come termi-
ne di paragone per le altre.
Tale approccio si fonda principalmente sul confronto tra società mo-
derne e società tradizionali; e dal fatto che queste ultime assumono carat-
teristiche proprie del sottosviluppo. Tuttavia l'errore di valutazione nel con-
siderare una zona sottosviluppata nasce da un pregiudizio nell'utilizzo dei
parametri tipici a considerare un luogo sviluppato o sottosviluppato. Nel si-
stema socio-economico capitalista occidentale, vengono infatti impiegati,
per definire il grado di sviluppo, il reddito pro-capite, il livello di produzio-
ne, l'alfabetizzazione, il tasso di natalità e di mortalità.
Questa tendenza ad interpretare e valutare le culture altre, utilizzando
come metro di confronto la propria, diviene evidente presso gli europei
51 Voltaire, Trattato sulla tolleranza, Feltrinelli Editore, Milano 1995, pag.62 52L'etnocentrismo, nella sua accezione più moderna e comune, è la tendenza a giudicare le altre culture
ed interpretarle in base ai criteri della propria proiettando su di esse il nostro concetto di evoluzione, di progresso, di sviluppo e di benessere, basandosi su una visione criti-ca unilaterale. Il termine è stato introdotto nel primo decennio del XX secolo dal sociologo e antropologo statunitense William Graham Sumner nel 1906 nel suo im-portante Folkways.
36
dopo le grandi spedizioni geografiche, con la scoperta dell’America, delle
isole del Pacifico e dell'estremo oriente. Alcuni antropologi, ad esempio,
consideravano i popoli pre - letterati privi di qualsiasi forma di religione o
anche provvisti di una "mentalità pre-logica" (come sostenne l'antropologo-
filosofo Lucien Levy-Bruhl) semplicemente perché il loro modo di pensare
non corrispondeva a quello della cultura sviluppatasi nell’Europa occiden-
tale.53
Non stupisce, quindi, il fatto che i rappresentanti delle culture non
occidentali, ed in modo particolare i popoli privi di scrittura, siano stati in
passato ampiamente descritti come esseri immorali, illogici, a volte perfino
perversi.
Per difendere la sopravvivenza delle culture "primitive", che non
erano riconosciute, se non come esistenti ad uno stato inferiore di
evoluzione, si sviluppò all’inizio del '900 il cosiddetto "relativismo
culturale".
Gli assertori di tale teoria combattevano l’etnocentrismo, negando
l'esistenza di un'unità di misura universale per la comprensione dei valori
culturali, e affermando che ogni cultura sia portatrice d’istituzioni e
ideologie la cui validità poteva non aver significato al di fuori della cultura
stessa. Emerse un nuovo punto di vista che facilitò una profonda
comprensione e un più sottile apprezzamento nei confronti delle culture
diverse. Si comprese così che i bisogni umani universali potevano essere
soddisfatti con mezzi culturalmente diversi e, ciò che era considerato 53 In base alla teoria del "prelogismo", i primitivi sarebbero caratterizzati da una struttura psichica in cui
non vige il principio di non contraddizione, e in virtù della quale la loro mentalità, il rapporto soggetto/mondo, il rapporto naturale/sovrannaturale, sono differenti dai nostri. Per Levy-Bruhl è dunque metodologicamente sbagliato utilizzare le rappresentazioni collettive dell'uomo occidentale per interpretare sistemi logico-culturali affatto diversi. Al contrario, rifiutando l'impostazione eurocentrica, "l'attività mentale dei primitivi non sarà più interpretata in partenza come una forma rudimentale della nostra, come infantile e quasi patologica. Apparirà anzi come normale nelle condizioni in cui essa si esercita, come complessa e, a suo modo, sviluppata. La teoria del prelogismo costituisce il filo rosso che lega le maggiori opere di Levy-Bruhl, da Les fonctions mentales dans les sociétés inférieurs (1910) a La mentalité primitive (1922), fino a Le surnaturel et la nature dans la mentalité primitive (1931)
37
morale in una cultura poteva essere considerato amorale o eticamente
indifferente in un’altra. Presso alcune culture, per esempio, non è amorale
uccidere una bambina alla nascita o un uomo troppo anziano non più
produttivo, in una situazione in cui non è possibile ottenere cibo a
sufficienza per tutti.
L’idea che gli elementi di una cultura debbano essere compresi e
giudicati nell’ambito della stessa, porta alla conclusione che non si può
considerare una cultura superiore o inferiore a un’altra.
Nell’etnocentrismo è implicita una sopravvalutazione della società
cui si appartiene; vittime dell'etnocentrismo sono stati anche studiosi, quali
etnologi e antropologi che, soprattutto negli ultimi tempi, hanno fatto delle
popolazioni “primitive” un fertile oggetto di ricerca e di studio. Già Sumner
nel 1906 scriveva:
è vano immaginare che un uomo, anche se di “mentalità scientifica”,
possa spogliarsi dal pregiudizio o dalle opinioni preconcette per porsi in
un atteggiamento neutrale di indipendenza nei confronti dei mores: sa-
rebbe come se volesse sottrarsi alla gravità o alla pressione atmosferica.
In certo senso, dunque, l’etnocentrismo attribuisce al progresso e allo
sviluppo un valore irrinunciabile e necessario cui nessuna società può sot-
trarsi, così che il mutamento economico conseguente è considerato come
un fenomeno inevitabile e spesso indolore. Questa eccessiva fiducia nei
modelli evolutivi, a discapito di quelli non considerati tali, ha giustificato
azioni d’intolleranza. Non dimentichiamo, infatti, che sono state compiute,
nei secoli passati, azioni di intolleranza eticamente inaccettabili.
Il problema dell’etnocentrismo non riguarda solo avvenimenti acca-
duti in passato, ma investe anche fenomeni attuali, come l’integrazione tra i
popoli, la globalizzazione delle culture nell’odierna società occidentale, e
gli episodi drammatici di conflitto sociale. Va oltre al resto ricordato che
l’etnocentrismo è un fenomeno intrinseco di ogni comunità umana e di qua-
38
lunque cultura. Quando esso è socialmente controllato non può che contri-
buire alla coesione sociale del gruppo e ne assicura il mantenimento della
sua identità sociale.
Tuttavia il superamento dell’etnocentrismo occidentale era necessa-
rio per comprendere o spiegare le altre culture nelle loro particolarità stori-
che o funzionali. La professionalizzazione del fieldworker54, promossa da
Malinowski, poggiava esplicitamente sull’idea che solo una solida prepara-
zione teorica potesse permettere al ricercatore di avvicinarsi alle culture al-
tre, senza essere sopraffatto dai propri pregiudizi sui “primitivi” o sui “sel-
vaggi”. L’atteggiamento relativistico verso le differenze culturali costituiva
un pre-requisito della ricerca antropologica, un vantaggio metodologico che
l’antropologo professionale acquisiva sui dilettanti attraverso lo studio e la
preparazione teorica. La via verso l’elaborazione di una conoscenza scienti-
fica delle culture non viziata da idee e punti di vista preconcetti e svalutati-
vi.
È chiaro che l’etnocentrismo si presenta come un ostacolo alla com-
prensione, qualcosa che impedisce di cogliere altre razionalità o altre mora-
lità, sovrapponendo ai contesti culturali altri giudizi che in quei contesti
non hanno senso.
Oggi il criterio discriminante è più spesso la cultura (stili di vita, cre-
denze, costumi, storia, etc.): si dovrebbe perciò preferire l'espressione cul-
turocentrismo. Il principio etnocentrico non è più dichiarato nei documenti
ufficiali (come quelli di Hitler e di Perón) ma è praticato attraverso l'espor-
tazione dei modelli economici e dei valori culturali dell'occidente progredi-
to nel Terzo Mondo in via di sviluppo.
Un'attualizzazione dell'etnocentrismo è il pregiudizio eurocentrico
ovvero l'americanismo se si fa riferimento ai modelli di consumo. Parados-
54 L’uso del termine fieldwork sta ad indicare la ricerca sul campo e risale al Alfred Haddon, che lo mutò dalle scienze naturali, dove si era sviluppato sin dal diciottesimo secolo. La raccolta in loco di parole, costumi e artefatti sembrava la naturale raccolta di esemplari botanici, zoologici e minerali
39
salmente l'etnocentrismo può coesistere con l'accresciuto interesse delle
persone giovani e scolarizzate verso i popoli degli altri continenti, probabi-
le atteggiamento di risposta alla crescente omologazione a uno stile di vita
"occidentale".
Degli altri popoli si sa di più e si può vedere di più (viaggi, TV,
libri); questi movimenti volontari verso le altre culture non portano però ad
un’eliminazione automatica dei pregiudizi razziali, dei campanilismi e de-
gli atteggiamenti etnocentrici, poiché l’azione che si compie nell’osservare
gli altri è quella di paragonarli con noi stessi.
Il dibattito sul relativismo culturale è vivace e denso di stimoli intel-
lettuali. Da Herskovits in poi, si giunge alla precisazione di un’esigenza di
relativizzare il relativismo propugnata anche dal Papa teologo Ratzinger.
Dice Marco Aime, in difesa del relativismo e citando Toynbee:
essere relativisti oggi e qui significa semplicemente tenere conto della
storia, l’occidente non è mai stato l’unica parte importante del mondo,
l’occidente non è mai stato il solo attore della storia moderna nemmeno
dell’apogeo della sua potenza (e quest’apogeo è forse oramai passato)55
Preveggenza e criticità sono in questa citazione strettamente
connesse. Ne consegue una doverosa attenzione verso le diversità, le
alterità e verso tutto quello che rappresenta la sostenibilità di un mondo
nostro e di un mondo altro. Per tal motivo il concetto di ambiente
sostenibile è troppo scarno e insufficiente se non si lega alla parola quasi
assiomatica “cultura”. Cultura e sostenibilità dell’ambiente garantiscono e
tutelano una partecipazione allo sviluppo, che è doverosa e fondamentale
per la nostra civiltà.
55 M. Aime, Gli specchi di Gulliver, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pag.61
40
41
CAPITOLO III
L’ambiente ed il rischio
1. L’ ambiente e la cultura postmoderna
Ora è impossibile e perfino anacronistico parlare di "ambiente" senza
considerare la presenza umana. Ogni area del pianeta risente direttamente o
indirettamente della presenza antropica. Nei capitoli precedenti abbiamo
teorizzato come non sia possibile parlare di uomo senza associare a questo
il paradigma di cultura. Ne consegue che natura e cultura sono
immediatamente correlate per l’intermediazione dell’uomo.
Natura e cultura costituiscono, quindi, un insieme integrato e
retroagente: ogni azione dell'uno determina un "feedback", una risposta
dell'altro in base alla quale si determineranno nuove scelte e nuovi
comportamenti. Ad esempio, il feedback della componente "natura" alla
combustione di idrocarburi operata dall'uomo è costituito da un aumento
della temperatura che, come effetto, comporterà la desertificazione,
l’alterazione delle fasce climatiche, l’erosione del suolo, etc.
In tal caso il "feedback" è una reazione a una forte pressione, tesa ad
alterare gli equilibri naturali.
Anche la sociologia ha cominciato a interessarsene, dedicando
particolari studi sui disastri ecologici e sui loro effetti sociali. Oggi la
disciplina sociologica ha ampliato la sua attenzione verso l'ambiente e la
crisi ecologica mondiale, sviluppando diversi studi sull'argomento. Inoltre
ha considerato con attenzione il problema ambientale come uno dei fattori
che caratterizzano la società postmoderna.
42
Fra gli anni 60 - 70 si è fatta strada questa nuova concettualizzazione
di società: che è appunto la post-modernità.
Così Andrzej Kobylinski la qualifica:
sarà un’epoca che segue l’epoca moderna. (..) con la postmodernità ha
inizio la quarta – dopo antica, medioevo e moderna – grande epoca
dell’umanità(..) la distinzione tra moderno e post moderno porta con sé
un chiaro giudizio di valore; distinguendo tra moderno e postmoderno si
vuole dire che ci troviamo a disagio nel nostro tempo e che riteniamo di
aver anticipato il futuro. 56
Seppur legata ai caratteri della modernità, questa si esprime in una
dimensione diversa a causa di una serie di fenomeni di “ultima
generazione”: vita lavorativa caratterizzata da una molteplicità di
esperienze, crescita esponenziale del ruolo dei mass media, globalizzazione
a cui fa da contraltare il localismo, dissolvimento di punti universali di
riferimento:
Il passaggio dal moderno al postmoderno si può identificare con il
dissolversi delle certezze universali della ragione, con la crisi del
concetto di legge universale necessaria, con il moltiplicarsi dei
linguaggi, con la sfida della complessità e, soprattutto, con il
moltiplicarsi indefinito di tutti gli aspetti del nostro vivere. Essere post-
moderno significa accettare il compito di “decostruire” il mondo della
nostra vita.57
Ciò porta a pensare a una certa liquidità di valori:
"Uno dei tratti più impressionanti dell’attuale fase della modernità
sarebbe quello di non avere più nulla di “solido” o, in altre parole, la
56 Cfr per il significato postmodernità Andrzej Kobylinski, Modernità e postmodernità, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma, 1998, pag 43
57 S. Nicolosi, La fine della storia moderna, pag.64:
43
liquidità, intesa come un processo continuo di decomposizione, sembra
essere la mobile icona del mondo globalizzato58
Se da un lato la postmodernità, tra decostruzione e liquidità di valori,
sbriciola l’individuo dal proprio interno, la crisi ecologica e la problematica
ambientale riducono le chance di trovare riparo all’esterno.
Il tutto sembra avere risvolti negativi per l’uomo che, sempre più
imprigionato nella gabbia d’acciaio59, deve individuare ora e subito delle
soluzioni concrete.
Per molto tempo, per "ambiente" si è indicato il risultato di una serie
di processi essenzialmente naturali, considerati all'origine di tutto ciò che
circonda l’uomo. Non a caso il termine deriva dal latino "ambire": ossia
circondare, andare intorno60.
Nella semantica del termine, s’individua un senso di centralità
dell'uomo, considerato non come parte integrante della biosfera ma quale
componente esterna, capace di plasmare, gestire un "ambiente" creato
appositamente per la sua crescita materiale e spirituale, in virtù delle
superiori doti intellettive di cui è dotato.
Questa visione ha aperto la strada a una pericolosa azione antropica
ispirata a una visione economicista della vita, al cui vertice nella scala dei
valori, vi è il soddisfacimento ad ogni costo dei bisogni. Non
dimentichiamo che la crescita demografica e l'utilizzo di tecnologie dal
forte impatto hanno inciso alterando negativamente l'ambiente.
Fino al 1600 la crescita della popolazione mondiale era così lenta da
far registrare un aumento del 2-3% per ogni secolo: furono necessari ben
58 cfr Zygmunt Bauman in Modernità Liquida, Laterza Roma - Bari, 2006 59 Il concetto di gabbia d’acciaio è stato usato da Weber per indicare un individuo collocato nella cultura
moderna senza possibilità di cambiamento. Ivi la modernità era caratterizzata per un verso dalla spersonalizzazione dei rapporti nelle moltepliche sfere dell’organizzazione sociale, per l’altro dall’affermarsi di una razionalità formale per la quale i mezzi diventano essi stessi i fini. Cfr. C. Mogardini, op. cit., pag 588 e seg.
60 Cfr Dizionario etimologico, Rusconi Libri, Genova 2004
44
sedici secoli perché dai 250 milioni di abitanti all'inizio dell'era cristiana si
passasse a circa 500 milioni di abitanti. Da questo momento in poi il tempo
di raddoppio della popolazione è andato sempre diminuendo tanto che,
oggi, in alcuni Paesi del mondo, ci si avvicina al cosiddetto "limite
biologico" nella velocità di crescita di una popolazione (3-4% l'anno).
Secondo l'ONU si supereranno gli otto miliardi di abitanti intorno al 2025:
tali previsioni sono considerate attendibili dalla maggior parte degli
studiosi, a differenza di quelle che si spingono molto lontano e che non
possono prevedere quali mutamenti sociali, economici, culturali si
verificheranno. 61
Bisogna considerare le notevoli differenze che attualmente si
registrano fra Paesi avanzati, arrivati quasi al "punto zero" della crescita, e
Paesi in via di sviluppo che contribuiscono al 90% dell'incremento
demografico odierno. Nel 2025, secondo le previsioni dell'ONU, la Nigeria
ad esempio, avrà una popolazione superiore a quella degli Stati Uniti e
l'Africa supererà di tre volte l'Europa per numero di abitanti. Il
sovrappopolamento, unito ad arretratezza, analfabetismo e mancanza di
adeguate strutture igienico-sanitarie, costituisce sicuramente un grave
problema non solo per l'Africa a causa delle inevitabili conseguenze di tale
fenomeno a livello mondiale. Si verifica, infatti, uno squilibrio tra domanda
e offerta di risorse disponibili, dovuto anche all'utilizzo di circa l'80% delle
risorse energetiche mondiali da parte dei Paesi industrializzati. 62
Gli effetti provocati da una gestione inadeguata delle risorse naturali
e dei territori, la crescita demografica e le stime relative ai profondi
61 Fonte: “Associazione di protezione ambientale riconosciuta ai sensi dell'art. 13 legge n. 349/86” i dati sono consultabili al sito http://www.aiig.it
62 Fonte: “Associazione di protezione ambientale riconosciuta ai sensi dell'art. 13 legge n. 349/86” i dati sono consultabili al sito http://www.aiig.it
45
cambiamenti complessivi63 hanno fornito l'input per una "rivoluzione
copernicana" volta alla tutela ed allo sviluppo dell’ambiente.
2. L’etica della responsabilità ed il paradigma dell’ambiente
Seppur tutto ciò che circondi l’uomo costituisce l’ambiente, in esso
avviene una profonda e continua interazione tra componenti naturali ed
antropiche. In ogni territorio si sovrappongono visibilmente delle
trasformazioni determinate nei "tempi brevi" della storia e delle
modificazioni avvenute nei "tempi lunghi" della natura. Non solo,
l’ambiente si sviluppa e ha bisogno di:
- Un supporto spaziale, che serve a stabilizzare le comunicazioni
tra gli elementi;
- Un territorio, che è lo spazio da cui trae i suoi input;
- Inclusioni, che sono parti dell’ambiente fisico situate entro il
sistema
- Artefatti, che sono oggetti fisici costruiti dal sistema per i suoi
scopi.
63Fonte “Associazione di protezione ambientale riconosciuta ai sensi dell'art. 13 legge n. 349/86” scaricabile sul sito: http://www.aiig.it L'aumento della temperatura delle acque oceaniche sta determinando l'alterazione degli equilibri che consentono la persistenza della barriera corallina e la riproduzione di molte specie marine. Il rischio di estinzione interessa sia le specie animali e vegetali che vivono alle alte quote sia quelle presenti nelle aree semidesertiche in condizione estreme (le temperature più alte porteranno a compimento il processo di desertificazione già in atto). Con l'aumento dell'evaporazione, inoltre, si avrà una progressiva scomparsa delle zone umide e delle grandi foreste paludose del Borneo. La biodiversità, insomma, è un bene a rischio in tutte le aree del pianeta: molti organismi vivono in nicchie ecologiche caratterizzate da livelli di tolleranza ristretti per quanto riguarda la temperatura. Si possono facilmente dedurre i gravi effetti del "Global Change" sulla produttività agricola e zootecnica a livello mondiale. E' necessario, quindi, tenere sotto controllo gli indicatori del "Global Change" per comprendere le modalità di reazione del sistema Terra ai programmi finalizzati alla riduzione ed inversione di un fenomeno, l'effetto serra, che provocherebbe un impatto ambientale difficilmente controllabile e modifiche profonde a livello economico e strategico.
46
Tutto questi fattori si attivano coesistendo nel macrocosmo che è
appunto l’ambiente.
Ogni individuo, in qualsiasi parte della terra, contribuisce con la
costruzione di artefatti alla degradazione dell’ambiente e al
depauperamento delle risorse, per cui la responsabilità, la cautela, la
riflessione impongono un cambiamento di rotta attuabile attraverso una
gestione responsabile delle risorse.
Se, infatti, nella società postmoderna64 l’uomo opera un controllo
sugli spazi e sui processi naturali, e ciò può considerarsi una grande
conquista del genere umano, soggiogato per molto tempo alla natura
“divina”65, non può essere elusa la responsabilità che assume l’uomo in
qualità di “primus”. Non solo, come accennato in premessa, maggiore
attenzione deve essere posta all’ambiente che da ogni parte avvolge e
ingloba l’uomo”66 quest’essere che nasce, cresce si sviluppa e muore in
esso.
Già Hans Jonas, in simmetrica opposizione ad autori come Ernst
Bloch, che hanno favorito il pensiero utopistico di dominio della natura e di
progresso senza limiti, teorizzava il principio della responsabilità:
Essi non si sono accorti che – invece di produrre grandi trasformazioni
in positivo – hanno finito per minacciare la sopravvivenza stessa della
specie umana e di tutto il pianeta, prendendo sul serio le utopie e
trasformandole così da innocuo esercizio letterario o filosofico in
pericolosi programmi di stravolgimento del mondo67
64 Sul significato del termine cf il paragrafo 1 del capitolo III.65 Nella storia dell’Occidente è la natura aveva un ruolo dominante tra gli antichi. Per i greci, l’ordine del
mondo era un ordine necessario, e nella sua necessità ospitava in qualche modo il divino. I boschi erano pieni di ninfe, le cime dei monti erano la sede degli dei. L’uomo era un elemento della natura sottomesso alle sue sacre leggi.
66 Cosimo Quarta, Luisella Battaglia, Una nuova etica per l'ambiente, edizioni Dedalo, Bari 2006, pag. 6
67 Cfr H. Jonas, Il principio della responsabilità. Un’etica per la società tecnologia, Einaudi, Torino 1990, pag.3 e segg
47
Le utopie dell’uomo, (aggiungiamo noi) hanno però permesso uno
sviluppo della conoscenza in tutti i campi del sapere; ciò che ieri appariva
lontano oggi si trova a portata di mano. In Weber questa considerazione
emerge chiaramente. Egli, infatti, ha inteso individuare uno spirito positivo
nella natura dell’azione dell’uomo, la quale amplia continuamente lo scibile
con la ricerca dell’impossibile.
il possibile non sarebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre
l’impossibile68
L’atteggiamento di Jonas, sulla scelta in negativo, di evitare il
sommo male dell’autodistruzione dell’uomo (allorché non è possibile
trovare un accordo generalizzato su cosa sia e come si debba perseguire il
bene comune) si scontra quindi con l’etica della responsabilità di Max
Weber, fondata su una lungimiranza appassionata dell’uomo.
Nell’etica della responsabilità possiamo individuare un carattere
generale, nel quale da un lato si deve “non fare”, non depauperare, non
disperdere, le risorse naturali, e dall’altro si deva “fare”, cioè compiere
scelte a difesa, tutela e salvaguardia dell’ambiente. Seguendo queste
direttrici, in ultima istanza, l’uomo limiterà i danni causati da se stesso. Il
passo che deve necessariamente seguire per conseguire quest’obiettivo è
riconoscere la natura come forma di auto-riconoscimento.
Il riconoscimento ambientale diviene una forma di auto-riconoscimento.
Con l’antropizzazione, infatti, l’uomo imprime nella natura i significati
del proprio operare, secondo i modelli culturali che gli sono di volta in
volta propri69.
Non solo. L’auto-riconoscimento si deve completare nell’etica
della responsabilità al fine di perseguire efficacemente gli obiettivi di tutela
dell’ambiente. Ciò implica una conoscenza approfondita delle
68 M. Weber, La politica come professione, in Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1966, p.121
69 C. Quaranta, op. cit, pag. 66
48
problematiche ambientali e una sedimentazione delle stesse nei tessuti
culturali. Al riguardo, tanto è stato fatto, all'inizio del nuovo millennio, la
cura e la protezione dell'ambiente sono diventate delle priorità globali: gli
studi delle commissioni internazionali e gli appelli delle agenzie delle
Nazioni Unite hanno a più riprese richiamato l'attenzione dei governi verso
un inquinamento insostenibile per il nostro pianeta.70
Il tema dell'ambiente è entrato prepotentemente nelle agende di ogni
politico o scienziato e nei dibattiti di ogni giorno. Da tema di
approfondimento culturale, appannaggio esclusivo delle èlites, la tutela
dell’ambiente è considerata argomento prioritario nella vita di tutti.
Un segno sorprendete di questo passaggio lo abbiamo riscontrato
nell’assegnazione del premio Nobel per la pace nel 2007 ad Al Gore – ex
vice presidente americano con la seguente motivazione:
costruire e diffondere una conoscenza maggiore sui cambiamenti
climatici provocati dall'uomo e porre le basi per le misure necessarie a
contrastare tali cambiamenti.71
Episodio non unico; nel 2004 il Nobel fu assegnato a
un’ambientalista e pacifista keniana Wangari Maathai.
La natura diviene un progetto sociale, un’utopia che la società stessa
si propone di ricostruire, modellare e trasformare. Ciò apre una seconda
fase della modernità in cui i vari fattori di pericolosità fanno emergere la
società del rischio.
70 Nella sua IX edizione, il Rapporto Energia e Ambiente dell’ENEA sottolinea come alle questioni del-l’approvvigionamento, della sicurezza, del costo dell’energia, si possa rispondere efficacemente ren-dendo più equilibrato l’apporto delle diverse fonti, mentre alle sfide del cambiamento climatico e del-l’espansione dei consumi, sia necessario rispondere non solo con l’efficienza energetica e con la pro-mozione delle energie a emissione zero, ma soprattutto con l’accelerazione del cambiamento tecnolo-gico. Fonte Enea– Ente per le nuove tecnologie, l’energia è l’ambiente, consultabile al sito web: http://www.enea.it/produzione_scientifica/REA.html
71 Cfr l’articolo apparso sul Corriere della Sera del 12.10.2007 dal titolo Al Gore vince il Nobel per la pace
49
Se l’attuale società è dunque caratterizzata dalla fine della natura,
cioè dalla sua socializzazione, deve necessariamente ricomparire
nell’azione dell’uomo la responsabilità alla tutela dell’ambiente.
3. L’Ambiente come sistema
Al pari delle altre forme di vita, quella sociale si caratterizza per le
transazioni che avvengono tra il sistema e l’ambiente. Un sistema
semplicemente lo possiamo definire come un complesso di elementi in
interazione72. La società, adottando un’analisi struttural funzionale, la
definiamo come un insieme di funzioni che, intersecandosi e integrandosi,
adempiono lo scopo di rendere funzionante l’intero sistema sociale73.
Un sistema sociale è composto d’istituzioni, di relazioni, di ruoli e
di aspettative, che nascono in chi assume un determinato ruolo sociale.
Ogni sistema deve essere in grado di svolgere almeno quattro
funzioni:
1. Adattarsi all’ambiente; il sottosistema che svolge questa
funzione è quello economico.
2 Definire i propri obiettivi; il sottosistema che svolge questa
funzione è quello politico.
3 Integrare le parti; il sottosistema che svolge questa funzione è
quello giuridico e religioso.
4 Conservare la propria organizzazione; i sottosistemi che
svolgono questa funzione sono la famiglia e la scuola.74
Ma che rapporto stabiliamo tra sistema e ambiente?
72 Mazzoli L., L’impronta del sociale. La comunicazione fra teorie e tecnologie, Franco Angeli, Milano 2001.
73 Pietro Boccia, Socializzazione e controllo sociale, Editore Liguori, Napoli 200274 Pietro Boccia, op. cit, pag. 136 e segg.
50
Una risposta la individuiamo nel rapporto di Luhmann75. Il sociologo parte
dal presupposto che l’evoluzione della società consiste nell’aumento della
complessità e che quest’ultima, per essere analizzata, va “ridotta”
all’interno del rapporto sistema – ambiente – mondo.
Il mondo è inteso come la complessità interminabile, l’insieme delle
illimitate possibilità che comprende sia l’ambiente e sia il sistema in quanto
prodotto determinato. Il primo, l’ambiente, è concepito come l’insieme
delle possibilità determinabili, presenti in una situazione concreta; il
sistema si ritiene costituito in base all’effettiva selezione di alcune delle
possibilità determinabili dall’ambiente con l’esclusione di altre.
Per semplicità, possiamo considerare il mondo come un grande
contenitore ove sollevando il coperchio troveremmo due cubi, i nostri due
elementi, l’ambiente e il sistema, uno incluso nell’altro come nel gioco
delle scatole cinesi. Il primo è più grande del secondo e lo ricopre
completamente; il secondo, quello più piccolo, può scegliere come
collocarsi all’interno di quello più grande.
Ambiente e sistema sono quindi da intendere come livelli progressivi
di riduzione della complessità del mondo.
L’umanesimo di un tempo, alla luce di queste interpretazioni, non ha
dunque più la sua valenza significante. Luhmann scrive:
se l’uomo è considerato come parte dell’ambiente della società (anziché
come parte della società stessa) si modificano i presupposti di tutte le
problematiche poste dalla tradizione; e dunque anche i presupposti
dell’antico umanesimo.76
Interessante è l’approccio dei sistemi fornito dalla teoria generale
dei sistemi che rappresentano il superamento dell’analisi scientifica
75 Niklas Luhmann è uno dei rappresentanti più autorevoli e originali del pensiero sociologico tedesco contemporaneo: egli è il più grande “teorico dei sistemi”.
76 N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, il Mulino, Bologna 1990 pag 353 cfr a tal proposito P.P. Donati, Teoria relazionale della società,F. Angeli, Milano 1991
51
classica, la quale si limitava allo studio delle relazioni causa-effetto tra
variabili, portando alla nascita di uno schema astratto di riferimento per
l’unificazione delle varie scienze.
Questa teoria si fonda sul concetto dell’isomorfismo definito come
“corrispondenza biunivoca tra oggetti, in differenti sistemi, che preserva la
relazione tra oggetti”. I sistemi, infatti, possono differire tra loro in vari
aspetti ma possono rassomigliarsi strettamente per certe strutture e certi
processi di base. Per questo diventa possibile individuare un numero
ristretto di sistemi generali e pervenire quindi a un’unificazione della
scienza.
Una grande bipartizione dei sistemi prevede la divisione in:
1) controllati o cibernetici o formali
2) incontrollati o ecologici o informali.
I primi hanno un centro di controllo in grado di intervenire sui
sistemi mediante flussi d’informazioni che scorrono nei canali di
comunicazione. Siccome questi sono numerosi e complessi, occorre creare
un unico punto di controllo (selettore) in grado di operare su tutti.
Nel centro hanno sede le istituzioni, gli individui, i processi che
regolano il sistema. E’ da qui che si diramano come ragnatele i nervi del
potere che controllano il sistema e le periferie; quest’ultime sono
depauperate di risorse naturali, umane (forza lavoro) e finanziarie (capitali),
che sono attratte dalla maggiore possibilità di reddito al centro.
S’innesca quindi la spirale sviluppo – sottosviluppo in un processo
dicotomico che si trova a ogni livello del sistema socio – territoriale.
L’emergenza della problematicità centro-periferia a livello globale è
indice che la Terra si comporta come sistema chiuso, cioè non ha uno
spazio esterno con cui interagire creativamente e su cui scaricare le proprie
52
tensioni. L’aumento delle dimensioni assolute di un sistema comporterebbe
un sovraccarico dello stesso e un conseguente naturale decentramento dei
processi di controllo e di decisione.
4. L’ambiente ed il rischio
Possiamo affermare a questo punto che la questione ecologica
assume un’autentica centralità, poiché si ha la percezione di vivere
rischiosamente e c’è la necessità di correre ai ripari. I rischi cui è esposto
l’uomo moderno sono difficilmente comparabili con quelli dell’uomo
premoderno, in quanto qualitativamente differenti, sia nella loro origine che
nel modo in cui sono vissuti. Per l’uomo premoderno le minacce
derivavano prevalentemente dal mondo fisico: terremoti, eruzioni, uragani.
Per l’individuo moderno molti rischi sono connessi e prodotti dalle stesse
attività umane.
La stessa fenomenologia della paura è differente rispetto al passato.
Oggi le incertezze si giocano su una serie di tematiche che si legano alle
troppe contraddizioni del sociale. Ci legano anche a una globalizzazione
che si espande con velocità stellare e accelera effetti non voluti che
agiscono sulle condizioni di vita dell’uomo.
Generalmente per rischio s’intende:
non solo la possibilità che si manifesti un fenomeno(…) - secondo la
definizione proposta dall’Ufficio del Coordinatore delle Nazioni Unite
per il soccorso in caso di catastrofe – si tratta della probabilità di
perdita di valore di uno o più elementi (popolazione, manufatti, attività
sociali o economiche) esposti al pericolo degli effetti prodotti da un
particolare fenomeno naturale ritenuto pericoloso.77
77 U. Leone, La sicurezza fa chiasso: ambiente, rischio qualità della vita, Giuda Editori, Napoli 2004, pag 24
53
Una corrente della psicologia, il cognitivismo, definisce il rischio
come il “prodotto delle probabilità e delle conseguenze del verificarsi di
un certo evento avverso”.
Il rischio, secondo una definizione dell’UNESCO del 1972, è dato
dal prodotto di tre parametri: la pericolosità, la vulnerabilità e il valore
esposto:
R: H x Vu x Va
Nella quale H indica la pericolosità, Vu la vulnerabilità e Va il valore
esposto a rischio.
La pericolosità è la probabilità che, in un dato intervallo di tempo,
l’evento si verifichi con una definita intensità in una data area.
La vulnerabilità è la stima percentuale delle opere, costruite dall’uomo
che non è in grado di resistere all’evento considerato e della perdita
presumibile in vite umane.
Il valore esposto a rischio è valutato sia sulla perdita in vite umane che
dal prevedibile danno economico.78
Il concetto di pericolosità e quello di rischio spesso sono usati come
sinonimi, nonostante abbiano significati molto difformi: il rischio implica
una duplice potenzialità di guadagno o di perdita, che dipende dal ruolo
attivo dell’uomo. Il pericolo comporta una possibilità di danno, subìto
passivamente.
L’attività scientifica che ha come oggetto il rischio è strutturata nei
seguenti grandi ambiti tematici, tra cui ci sono aree di distinzione:
1. Rischio Tecnologico78 U. Leone, op. cit., pag 24 e segg.
54
2. Rischio Socio-Sanitario
3. Rischio Sociale
4. Rischio Ambientale.
L’aumento dei rischi che minacciano la società si lega nelle parole di
F.M. Emmanuele (presidente del World Social Summit, recentemente
svolto a Roma sui rischi planetari) al terrorismo, alle possibilità di guerre
nucleari, alla criminalità organizzata e non, alle catastrofi ambientali, alle
malattie provocate dai virus mutanti ma anche e soprattutto alla crescita
delle condizioni di incertezza che connotano lo sviluppo dei percorsi di vita
degli individui e che si traduce in un sentimento con cui sempre più ampie
parti di popolazione mondiale sono costrette a confrontarsi. È proprio su
questo ultimo aspetto che dobbiamo centrare l’attenzione perché si collega
strettamente ad ogni componente ambientale e sociale del pianeta
Proprio il rischio ambientale, per essere approfondito attentamente,
deve necessariamente considerare sia la componente umana che quella
naturale, perché il concetto stesso di rischio è strettamente collegato con la
possibilità di misurare un danno. Quindi un concetto che si riferisce quasi
esclusivamente all’uomo, ai suoi insediamenti ed alle sue attività
produttive.79 La componente umana determina dei rischi legati
all’inquinamento, mentre la componente naturale determina eventi come
terremoti, maremoti, dissesti ideologici. In entrambi i casi, l’uomo può
essere considerato il principale agente, poiché i suoi comportamenti sono in
grado di incidere sulle cause e accelerare i tempi dei rischi naturali.
I fattori di rischio antropico si considerano come le azioni che
direttamente possono determinare un’alterazione dello stato dell’ambiente
o di parti di esso. La “pressione antropica” può essere misurata
sistematizzando informazioni relative a diversi fattori quali la densità
79 U. Leone, op. cit., pag. 26 e seg.
55
demografica, l’abbandono di aree o centri abitati, la concentrazione urbana
dell’edificato ed i flussi turistici. Facendo riferimento ai dati reperiti dalle
numerose banche dati, è possibile elaborare la “Carta del Rischio
Antropico”80: documento di analisi delle fonti di rischio determinato dalla
pressione antropica e la relativa previsione dei possibili effetti di
quest’ultima sul territorio.
La Carta deve evidenziare, in particolare, le dinamiche di variazione
della presenza dell’uomo nelle aree oggetto di indagine, quantificando le
seguenti tendenze:
1) Abbandono delle aree;
2) Concentrazione di popolazione;
3) Pressione turistica.
La previsione del fenomeno consente di organizzare degli interventi
di prevenzione ed educazione, a sua volta suddivisa in informazione alla
popolazione e formazione degli informatori con l’obiettivo di definire
politiche ed azioni per il progressivo disinnesco del rischio.
Per dare invece una definizione di “area a rischio ambientale”, si può
partire dalla legge istitutiva del Ministero dell’Ambiente dell’8 luglio 1986
n. 394: ove
“gli ambiti territoriali e gli eventuali tratti marittimi prospicienti
caratterizzati da gravi alterazioni degli equilibri geologici nei corpi
idrici, nell’atmosfera o nel suolo, sono dichiarati “aree a elevato
pericolo di crisi ambientale”.
80 In Italia La "Carta del Rischio" è un sistema informativo realizzato dall'Istituto Centrale per il Restau-ro al fine di fornire agli Istituti e agli Enti statali e locali preposti alla tutela, salvaguardia e conserva-zione del patrimonio culturale, uno strumento di supporto per l'attività scientifica ed amministrativa. Lo strumento di base è costituito da un Sistema Informativo Territoriale (SIT), che è a oggi lo stru-mento tecnico più adatto per produrre rappresentazioni cartografiche tematiche integrate a dati alfanu-merici. Il primo SIT della Carta del Rischio è stato realizzato fra il 1992 e il 1996.
56
Per una corretta elaborazione di un Programma di Previsione è
necessario identificare dove si verificano delle situazioni di rischio
territoriale; come si manifesta un determinato rischio, quanto danno
causano all’ambiente e quando questo possa avvenire.
Per quantificare l’incidenza del rischio, con l’obiettivo di pianificare
interventi per la sua riduzione, è necessario individuare i campi di analisi,
considerando l’intervento di almeno quattro ordini di fattori:
1. delimitazione dell’ambito fenomenico entro cui s’intende condurre
l’analisi dei rischi;
2. Identificazione degli insiemi di eventi potenzialmente forieri di
effetti dannosi a ciascuno dei quali si cercherà di associare una probabilità
(P) di accadimento;
3. descrizione delle conseguenze e associazione a queste di una
misurazione della gravità del danno atteso (Magnitudo M);
4. Individuazione di criteri di valore che consentano di valutare
l’utilità delle attività potenzialmente rischiose che giustifichino
l’attribuzione di un’utilità in negativo alle conseguenze attese.
R = f(P,M)
In seguito alla valutazione dei fattori di rischio è necessario
predisporre misure d’intervento idonee ad affrontare almeno tre fasi,
complementari e interagenti, di manifestazione del rischio.
1. Prevenzione: Il rischio, in questa fase, è visto come potenzialità e
s’ipotizza di poterlo evitare o di evitare che si estenda.
57
2. Gestione: fase in cui è imminente una decisione che si ritiene
connessa all’attivazione di fonti di pericolo o per minimizzare le
conseguenze di eventi negativi già parzialmente attuali. Questa fase
comprende due nuclei tematici:
a) uno concernente la negoziazione e la partecipazione
nell’ambito di processi decisionali inerenti a scelte potenzialmente
rischiose - gestione partecipata;
b) uno riguardante la comunicazione e il ruolo dei mass media
nella formazione dell’opinione pubblica - comunicazione.
3. Reintegrazione: fase in cui gli effetti indesiderabili sono fenomeni
già accaduti, che hanno già operato danni e distruzioni. Il problema è
di mitigarne gli effetti e di ricostruire le condizioni sociali,
economiche e ambientali alterate.
58
CAPITOLO IV
La tutela e lo sviluppo
La salvaguardia dell’uomo stesso dipende da quanto questi, riesce a
ritornare in equilibrio con la natura.
Tale concetto guiderà quest’ultimo capitolo, dedicato esclusivamente
alla tutela e allo sviluppo sostenibile dell’ambiente, con il solo scopo di
individuare metodologie utili a migliorare l’esistenza umana.
Più che mai siamo convinti che la tutela dell’ambiente, così come lo
sviluppo sostenibile, sia una necessità più che un lusso.
1. Le origini dello sviluppo sostenibile
Nel 1824, durante la rivoluzione industriale, un ufficiale francese,
Sadi Carnot scrisse un libro intitolato Riflessioni sulla potenza motrice del
fuoco. Fu quella la data di nascita della formulazione teorica della
termodinamica.
I primi passi della termodinamica furono di dimostrare che gli atomi
e le molecole di un corpo sono in continua agitazione – agitazione termica
– e che quindi essi producono energia in forma microscopica detta energia
interna. Da qui l’idea di sfruttare l’energia interna dei corpi per ricavarne
lavoro cd. macchina termica.
In termodinamica abbiamo due postulati importanti:
I. L’energia non si crea né si distrugge;
59
II. La materia che entra nel sistema (ad esempio quella
proveniente dal sole) è in uno stato di bassa entropia, mentre
quella che ne esce è in stato di alta entropia.
Il primo principio, interpretato nell’ottica del pensiero fisiocratico,
significa che l’attività umana non è in grado di produrre nuova energia ma
solo di trasformare quella esistente.
Il secondo principio è spiegato da Georgescu-Roegen utilizzando i
concetti di energia libera, in relazione allo stato iniziale di bassa entropia e
di energia legata, in riferimento allo stato finale di alta entropia.81
L’energia libera è utilizzabile dall’uomo, quella legata non lo è più
perché è stata utilizzata in precedenza. Ciò significa che l’energia
utilizzabile, cioè a bassa entropia, è rara perché può essere utilizzata
dall’uomo una volta sola. L’unica fonte di energia illimitata è il sole che la
trasmette sotto forma di flusso infinito.82
Il secondo principio della termodinamica ci può indicare la strada da
percorrere affinché la vita sulla Terra possa continuare ad esistere. In
particolare il secondo principio, evidenzia la tendenza universale verso il
disordine (in termodinamica verso la massima entropia), che è anche
perdita dell’informazione e della disponibilità di energia utile. Questa
tendenza, chiamata da Clausius la morte termica, porta al cosiddetto
equilibrio termodinamico, che appunto provoca la morte dei sistemi
biologici e degli ecosistemi, attraverso la distruzione delle diversità.
Due sono le strade che posso portare a questa situazione:
1. Quando, scambiando energia sotto forma di calore, le differenze
di temperatura vengono meno, portando alla livellazione delle
energie e all’impossibilità pratica di fare qualsiasi cosa, perché lo
scambio di energia utile è impedito;81 D. Giardi e altri, Uomo ambiente e sviluppo, Geva edizioni, Roma 2006, pag 7682 D. Giardi e altri, op. cit¸ pag. 77 e segg.
60
2. Quando un sistema rimane isolato, consumando le proprie risorse,
porta a un grande aumento dell’entropia interna e, in ultima
analisi, alla propria autodistruzione.
Per questa ragione i sistemi viventi cercano di evitare la soluzione di
equilibrio termodinamico, mantenendosi il più lontano possibile da esso,
auto-organizzandosi grazie ai flussi di materia e di energia che ricevono
dall’esterno e da sistemi in condizioni di temperatura e di energie diverse
dalle loro. 83
Ne consegue che la globalizzazione, la distruzione della diversità, sia
biologiche che culturali, l’omologazione, il pensiero unico portano
ineluttabilmente alla morte termica, alla distruzione finale. La stessa sorta
segnerà quello Stato, o Paese, o Nazione che fa del proprio isolamento, del
rifiuto alla contaminazione culturale, un dogma politico.
Abbiamo già definito la terra come un sistema chiuso84, in quanto
presenta una serie di limiti che potremmo sintetizzare in vincoli: di
territorio, di assorbimento dei rifiuti e degli inquinamenti, di acqua, di aria,
d’ossigeno. Questi vincoli limitano l’aumento indiscriminato della
popolazione e della produzione. Infatti, se la popolazione aumenta, questa
ha bisogno di più cibo per sfamarsi. Per aumentare la produzione di cibo
dovrebbe aumentare la superficie di terra coltivabile o bisognerebbe
produrre di più per ogni ettaro di terreno utilizzato. Inevitabilmente si
andrebbe a impoverire i suoli, inquinare le falde acquifere, eutrofizzare i
mari, deforestare, e così via.
In questo quadro, avremmo inoltre la perdita della biodiversità, che
farà saltare gli equilibri del carbonio e dell’ossigeno - c.d. effetto serra –
83 E. Tiezzi e N. Marchettini, Che cos’è lo sviluppo sostenibile?Donzelli Editore, Roma 1999, pag 1084 Ibidem, pag. 47- 48
61
che provocherà un cambiamento climatico, il quale si andrebbe a
ripercuotere sull’agricoltura ed in ultima istanza sull’uomo85.
La storia della terra in quest’ottica, possiamo se non altro
considerarla storia dell’uomo che da oltre quattro milioni di anni si
evolve86. Una storia evolutiva dai caratteri stupefacenti e meravigliosi.
Grazie al flusso di energia solare e alla fotosintesi87, si sono sviluppate
numerose specie biologiche. La biodiversità diviene fondamentale per il
mantenimento della vita sulla terra proprio perché tutto è in relazione al
tutto, su questo pianeta.
La stessa vita dell’uomo e degli altri esseri viventi è subordinata a un
continuo flusso di energia proveniente dall’esterno, e questo flusso è
costituito proprio dall’energia solare catturata tramite fotosintesi.
Purtroppo con lo spreco energetico e con tecnologie non integrate
nella natura, l’uomo rischia di far saltare questo meccanismo vitale.
Il sole è un enorme macchina che produce energia e offre al pianeta
Terra la possibilità di ricevere grandi quantità di energia entropica negativa,
permettendo un bilancio globale complessivo che non contraddice il
secondo principio della termodinamica.
85 Il clima è generato da vari fattori, in primo luogo dall’energia trasmessa dal Sole alla Terra. Tal energia è trasformata in calore che scalda la terra e l’aria, fa evaporare l’acqua, o fonde la neve. Parte di questo calore è rinviato verso lo spazio, ma è assorbito da alcuni gas presenti in atmosfera detti gas serra, tra cui spicca l’anidride carbonica, che intrappolano l’energia solare, immettendo calore in tutte le direzioni e contribuendo ad un ulteriore riscaldamento del Pianeta. Tale fenomeno fisico prende il nome di effetto serra. Esso è un fenomeno naturale indispensabile per la vita, senza il quale la Terra avrebbe una tempe-ratura media di –18˚C. A questa condizione termica, il nostro Pianeta sarebbe molto diverso: le acque sarebbero congelate e non ci sarebbe vita, almeno nelle forme in cui oggi la conosciamo. Per contro, un’intensificazione dell’effetto serra, dovuto all’immissione eccessiva di gas da parte dell’uomo e di al-tri fattori, può provocare squilibri climatici di dimensione planetaria. Cfr Commissione Nazionale Ita-liana Unesco, Sviluppo sostenibile e cambiamenti climatici, Roma 2007, pag 6 e segg.
86 Vedi pag.487 La fotosintesi si rivela come quel processo con cui le piante catturano molecole povere di energia e in
agitazione disordinata dell’acqua e dell’anidride carbonica e grazie all’energia solare la organizza costruendo strutture complesse.
62
Ogni anno il sole invia sulla Terra una quantità enorme di energia
che il consumo annuo globale del pianeta è assolutamente trascurabile per
quanto minimo esso sia88.
Ma se il pianeta fosse circondato da una barriera adiabatica, che non
lasciasse uscire il calore degradato, il pianeta stesso si riscalderebbe fino ad
un punto tale che la vita cesserebbe di esistere: l’aumento di CO2 sta
portando a questa situazione.
Gli studi scientifici dimostrano largamente questo, l’atmosfera del
pianeta Venere, ricca di CO2, ha portato la temperatura su quel pianeta a
oltre 400° C e, a tale temperatura, la vita non è possibile. Noi essere umani,
siamo fatti in gran parte di acqua e bolliremmo al raggiungimento della
temperatura di 100° C.
La natura stessa ha relegato il carbonio nelle viscere della terra. Oggi
però le tecnologie stanno invertendo questo processo. Utilizzando il
petrolio e il carbone per muovere ogni cosa sulla terra, questi elementi non
potranno però mai essere energie rinnovabili.
È all’interno dei vincoli biofisici che si deve muovere la
programmazione economica, in sintonia con i ritmi della natura. I vincoli
definiscono la capacità di sostenere la popolazione e tutte le altre forme di
vita. Questa rappresenta la base della sostenibilità.
Vi è però una critica che è mossa a questa teoria detta bioeconomica:
la Terra non è un sistema chiuso bensì aperto, in quanto riceve energia dal
sole. Inoltre secondo tali critici i dati empirici confermano che a partire da
un dato livello di sviluppo, al centro della curva della crescita economica si
rileva sistematicamente un calo della curva delle emissioni inquinanti.
88 Potremmo dire che il sole invia una quantità di 260 tonnellate e l’uomo ne consuma 15 chilogrammi. Cfr E. Tiezzi e N. Marchettini, op. cit, pag 20
63
Questo fenomeno è noto con il nome di deinquinamento ma
purtroppo i dati a supporto di tale teoria non riguardano tutti i Paesi bensì
solo quelli a più alto tenore di crescita.89
2. Le tappe storiche
Nel 1962 fu pubblicato un libro che divenne un potente catalizzatore
dell’opinione pubblica: Primavera silenziosa90 di Trachel Carson che
metteva in guardia dai pericoli derivanti dall’uso indiscriminato degli
insetticidi e dei loro effetti all’agricoltura.
Con il dibattito che ne seguì, si ottenne il bando del DDT dai paesi
industrializzati. L’ecologismo dell’epoca si sposò perciò con una critica al
consumismo, alla cultura della produttività, prese di mira i simboli dell’uno
e dell’altra dando vita ai primi movimento hippy che opponevano
all’individualismo forme di solidarietà comunistico, all’economicismo
imperniato dell’avere, l’esigenza di un mondo improntato ai valore
dell’essere91.
In quel periodo nascevano anche le prime associazioni ambientaliste
come il WWF (1961) Friend of Herth (1969) e Greenpeace (1971)
La spinta dei movimenti giovanili alle problematiche ambientali
penetrarono nella società americana al punto che la politica non potrà più
eludere la tematica. L’allora presidente degli Usa, Richard Nixon nel 1970
esplicitamente sostenne la necessità di cominciare a porre rimedio ai danni
inferti alla natura.
89 D. Giardi e altri, op. cit, pag.7990 R. Carsons, Primavera silenziosa, Feltrinelli, Milano 196391 Un libro che ha indagato la dicotomia dell’avere/essere nella cultura degli anno 60 – 70 è stato quello
di E. Fromm, Avere o essere?, Mondadori, Milano, 1986
64
Da lì, a poco il tema dell’ambiente diventerà di dominio pubblico.
Quando uscirà il primo rapporto del Club di Roma92, la questione
ambientale investirà la società nel suo complesso. A quel rapporto seguì la
prima conferenza delle Nazioni Unite sul tema “Ambiente dell’uomo”. Era
il 1972. Il club di Roma pose l’accento sull’impossibilità di avere una
crescita materiale indefinita in un mondo dai limiti fisici finiti.93
Nella conferenza di Stoccolma del 1972 si riunirono 152 esperti di
cinquantotto paesi che stilarono un significativo studio sui problemi
ambientali del nostro pianeta.94
Nel 1987 Herman Daly e altri scienziati s’incontrarono per discutere
del passaggio dalla “capacità di sostenere” allo “sviluppo sostenibile”.
Pochi anni dopo la banca mondiale, nel maggio del 1990, organizza una
conferenza internazionale interdisciplinare su “Ecological Economics of
Sustainability” (I.S.E.E.) nella quale si gettano le basi di una nuova
disciplina l’eco-economia, per ridirezionare l’economia verso la comunità,
l’ambiente e un futuro sostenibile95
Poco prima della conferenza internazionale veniva posta un’altra
pietra miliare per il raggiungimento di uno sviluppo sostenibile con il
rapporto Bruntland96, stilato nel 1987.
La commissione mondiale delle Nazioni Unite su Ambiente e
Sviluppo, detta Commissione Brundtland, lavorò per due anni al fine di
individuare un giusto equilibrio tra la tutela dell'ambiente e lo sviluppo. La
92 In Italia nacque il Club di Roma per iniziativa di Aurelio Peccei, ex dirigente della Fiat e dell’Olivetti. Egli aveva avuto l’idea di fondare un cenacolo composto di un gruppo scelto e limitato di uomini di scienza, cultura e industria che avessero lo scopo di sensibilizzare il mondo dell’informazione, della politica e della cultura sui grandi problemi dell’umanità. Oltre a Peccei vi erano Adriano Buzzati Traverso, fondatore dell’istituto di Biofisica e Genetica di Napoli, la sociologa Eleonora Barbieri Masini, Altiero Spinelli, Umberto Colombo che diverrà presidente dell’Enea e Roberto Vacca
93 E. Caretto, Ambiente, sostenibilità e qualità della vita, Amaltea edizioni, Lecce 2002, pag 3694 B. Ward, R. Dubos, Una sola terra, Mondadori, Milano 197295 H. Daly e J.B. Cobb jr, For the Common good, Beacon Press, Boston 198996 Brundtland dal nome dell’allora primo ministro della Norvegia signora Gro Harlem Brundtland
65
commissione giunse alla conclusione che lo sviluppo avrebbe dovuto essere
sostenibile: ove per sostenibilità s’intese:
far sì che esso soddisfi i bisogni dell'attuale generazione senza
compromettere la capacità di quelle future di rispondere alle loro (…)
Lo sviluppo sostenibile, lungi dall'essere una definitiva condizione di
armonia, è piuttosto processo di cambiamento tale per cui lo
sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l'orientamento
dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi
coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali.
Questa dichiarazione pur sintetizzando alcuni aspetti importanti del
rapporto tra sviluppo economico, equità sociale, rispetto dell'ambiente, la
cosiddetta regola dell'equilibrio delle tre "E": ecologia, equità, economia,
non sembra essere lungimirante a sufficienza, poiché pone al centro della
questione non tanto l'ecosistema e quindi la sopravvivenza e il benessere di
tutte le specie viventi, ma piuttosto le sole generazioni umane.
Se da un lato lo sviluppo sostenibile impone di soddisfare i bisogni
fondamentali di tutti e di estendere a tutti la possibilità di attuare le proprie
aspirazioni a una vita migliore, dall'altro nella proposta persiste un’ottimi-
stica (per alcuni critici eccessiva) fiducia nella tecnologia che porterà ad
una nuova èra di crescita economica.
Comunque sia, un aspetto merita di essere sottolineato: la centralità
della partecipazione di tutti ed il soddisfacimento di bisogni essenziali che
esige non solo una nuova èra di crescita economica per nazioni in cui la
maggioranza degli abitanti siano poveri ma anche la garanzia che tali pove-
ri abbiamo la loro giusta parte delle risorse necessarie a sostenere tale cre-
scita.
Il rapporto Brundtland ha ispirato alcune importanti conferenze delle
Nazioni Unite, documenti di programmazione economica e legislazioni na-
zionali ed internazionali. Per favorire lo sviluppo sostenibile sono state
66
messe in atto molteplici attività ricollegabili alle politiche ambientali intra-
prese dai singoli Stati e dalle organizzazioni sovranazionali sia a specifiche
attività collegate ai vari settori dell'ambiente naturale.
Nel 1994, l'ICLEI (International Council for Local Environmental
Initiatives) ha fornito un'ulteriore definizione di sviluppo sostenibile: “Svi-
luppo che offre servizi ambientali, sociali ed economici di base a tutti i
membri di una comunità, senza minacciare l'operabilità dei sistemi natura-
li, edificato e sociale da cui dipende la fornitura di tali servizi”. Ciò signifi-
ca che le tre dimensioni economiche, sociali e ambientali sono strettamente
correlate, e ogni intervento di programmazione deve tenere conto delle re-
ciproche interrelazioni.
Nell’ambito di tale Convenzione Quadro, nel 1997, con il Protocollo
di Kyoto, è stabilita una riduzione media del 5,2 % di gas serra a carico di
tutti i Paesi industrializzati da realizzarsi nel periodo 2008-2012. L’accordo
di Kyoto non rappresentava un punto di arrivo, ma un cambio di ciclo per i
problemi del clima e dello sviluppo sostenibile. La realizzazione degli
obiettivi dell’accordo fu affidata, soprattutto, ai Paesi maggiormente re-
sponsabili dei gas serra: all’Unione Europea è assegnata una riduzione
delle emissioni pari all’8%, agli Stati Uniti del 7% ed al Giappone del 6%.
L’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto è stata più complessa di
quanto si auspicasse inizialmente. Per rendere operativo l’accordo raggiun-
to era indispensabile che esso, una volta sottoscritto, fosse ratificato da non
meno di cinquantacinque nazioni firmatarie e che quest’ultime fossero re-
sponsabili, complessivamente, del 55% delle emissioni inquinanti.
Questo target é stato raggiunto solo nel febbraio 2005, a seguito della
ratifica della Federazione Russa, mentre gli Usa, responsabili di quasi il
25% delle emissioni globali, ancora oggi, si astengono dal ratificare il trat-
tato.97
97 Commissione Nazionale Italiana Unesco, op. cit., Roma 2007, pag. 18 e segg.
67
Per raggiungere gli obiettivi, si decise di sviluppare politiche che ac-
centuassero:
- il risparmio energetico attraverso l'ottimizzazione sia nella fase di
produzione che negli usi finali (impianti, edifici e sistemi ad alta
efficienza, nonché educazione al consumo consapevole),
- lo sviluppo delle fonti alternative di energia invece del consumo massiccio
di combustibili fossili.
Nel 2001, l'UNESCO ha ampliato il concetto di sviluppo sostenibile
indicando che "la diversità culturale è necessaria per l'umanità quanto la
biodiversità per la natura (...) la diversità culturale è una delle radici dello
sviluppo inteso non solo come crescita economica, ma anche come un mez-
zo per condurre una esistenza più soddisfacente sul piano intellettuale,
emozionale, morale e spirituale".98
In questa visione, la diversità culturale diventa il quarto pilastro dello
sviluppo sostenibile, accanto al tradizionale equilibrio delle tre E (ecologia,
equità, economia del rapporto Brudtland)
L'evoluzione dei modelli organizzativi stanno recependo con forte at-
tenzione il tema dello sviluppo sostenibile. Una prova tangibile è la norma
ISO 9004, da decenni punto di riferimento internazionale per i sistemi di
gestione per la qualità in ambito aziendale e non. Essa fornisce "Linea gui-
da per il miglioramento delle prestazioni" al fine di raggiungere un succes-
so sostenibile.
Nella stessa norma è proposta la definizione di "sostenibile" come
"capacità di un'organizzazione o di un'attività di mantenere e sviluppare le
proprie prestazioni nel lungo periodo" attraverso un bilanciamento degli in-
teressi economico-finanziari con quelli ambientali.
98 Art 1 e 3, Dichiarazione Universale sulla Diversità Culturale, UNESCO, 2001
68
In Italia alla luce del DLgs n°152 del 03/04/2006 e delle modifiche
apportate dal Dlgs n° 4 del 16/01/2008 si intese come principio dello
sviluppo sostenibile: Ogni attività umana, giuridicamente rilevante ai sensi
del presente codice, deve conformarsi al principio dello sviluppo
sostenibile, al fine di garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle
generazioni attuali non possa compromettere la qualità della vita e le
possibilità delle generazioni future(…) Data la complessità delle relazioni
e delle interferenze tra natura e attività umane, il principio dello sviluppo
sostenibile deve consentire di individuare un equilibrato rapporto,
nell'ambito delle risorse ereditate, tra quelle da risparmiare e quelle da
trasmettere, affinché nell'ambito delle dinamiche della produzione e del
consumo si inserisca altresì il principio di solidarietà per salvaguardare e
per migliorare la qualità dell'ambiente anche futuro.
3. La teoria dello sviluppo sostenibile
Herman Daly è il padre della teoria della sostenibilità, che basa il suo
studio sulla seconda legge della termodinamica. Il concetto si basa
essenzialmente sui seguenti punti:
a) Esistenza dei vincoli in un pianeta finito, o meglio sul
riconoscimento che esiste una carrying capacity99 del pianeta
Terra.
b) Consapevolezza che la seconda legge della termodinamica pone
dei limiti agli usi e alle trasformazioni energetiche.
c) Economia dello stato stazionario100.99 Intesa come capacità di portare, di sostenere la popolazione.100 Stazionario significa simbiosi tra uomo e natura e sviluppo di un sistema che si basa sui flussi naturali
rinnovabili di energie e di risorse della natura, senza accelerare la crescita e la distruzione di risorse non rinnovabili e dell’ambiente. Se usiamo il termine di crescita per indicare un cambiamento quantitativo e sviluppo per riferirsi a una modifica qualitativa, allora possiamo dire che l’economia in
69
Nello stato stazionario Daly presuppone almeno due condizioni:
4. Equa ripartizione delle ricchezze e delle risorse terrestri
tra popoli ed esseri umani;
5. Controllo demografico delle nascite accompagnato alla
riforma del diritto di proprietà, poiché senza di questo si
ridurrà soltanto il numero dei poveri.
Lo stato stazionario è dunque visto come il fine necessario e
desiderabile dall’economia di tipo capitalista e rimarrà per lungo tempo uno
dei punti fissi della teoria economica. Oltre naturalmente a Daly, anche
Smith, Ricardo, Mill e Keynes, proporranno come unica soluzione possibile
all’inquinamento e allo sfruttamento crescente delle risorse il
raggiungimento dello stato stazionario, caratterizzato da popolazione
costante, produzione industriale costante e progresso dell’informazione e
dei servizi illimitato.101
Chi fa coincidere quindi il concetto di economia florida con
l’equilibrio economico e con la crescita del prodotto nazionale lordo
contraddice due fenomeni per così dire eclatanti nei paesi industrializzati:
crescente disoccupazione e un crescente degrado ambientale fino alla
distruzione delle risorse essenziali al mantenimento della vita.102 La ragione
principale la riscontriamo nel fatto che l’equilibrio economico non ha
niente a che vedere con l’equilibrio biofisico, che è invece alla base dello
sviluppo sostenibile.
Daly ritiene che solo ritornando ai fondamenti biofisici della natura
ed ai fondamenti morali della società, l’economia potrà affrontare la sfida
della complessità ecologica e della sostenibilità.
stato stazionario si sviluppa ma non cresce, proprio come la Terra di cui l’economia umana è un sottoinsieme. Cfr E. Tiezzi, op. cit, pag 28
101 D. Giardi e altri, Uomo ambiente e sviluppo, Geva edizioni, Roma 2006, pag 79102 Una piccola deroga a questa citazione l’abbiamo decritta a pag 58 tuttavia, abbiamo precisato che i
dati relativi al deinquinamento riguardano una piccola parte di Paesi, quelli cioè a più alto tenore di sviluppo.
70
Oggi si riscontra una nuova cultura dell’ambiente nelle nuove
categorie di comportamento dell’uomo volte alla tutela. A livello politico
molti Paesi realizzano le loro grandi opere, ed anche in Italia, valutando ab
origine l’impatto ambientale. Questo segna un passaggio di ciclo, un
elemento di discontinuità con il passato, che a oggi non è sufficientemente
sottolineato. Non sono poi così lontani gli anni durante i quali i sostenitori
della questione ideologica erano considerati detrattori del nuovo e delle
stesse idee di crescita economica e di progresso sociale. Numerosi sono gli
ambiti di attività, dove la “rivoluzione ambientale” ha dispiegato i suoi
effetti: l’agricoltura con il suo ramo biologico, il turismo con i parchi
naturali, l’industria con il ripensamento sui cicli produttivi finalizzati a
ottimizzare i processi c.d. Industria verde.
4. La tutela e l’interazione socio ambientale
Alla luce di questa nuova visione, l’uomo non deve più plasmare la
natura indiscriminatamente, poiché da questa attinge gli elementi per la
propria sopravvivenza. Inoltre la tecnologia ne può modificare
l’interdipendenza ma mai annullarla del tutto. I principi ecologici della
Scuola di Chicago consideravano che sia ogni soggetto interessato alla
propria sopravvivenza a modellare le sue relazioni verso direttrici
simbiotiche o di tipo competitivo nei confronti dei propri simili.
Questa teoria vedeva il comportamento umano in termini funzionali e
non ne considerava l’aspetto etico.
Vi è poi chi vede l’ambiente come misura astratta dello spazio, come
distanza fisica fra un soggetto e un altro. La distanza significa assenza e
condiziona le relazioni umane rendendole più fredde, la vicinanza invece,
71
afferma Simmel103, invece comporta compresenza e quindi rapporti diretti e
diffusi:
con persone assai vicine si è di solito (in termini) amichevoli o ostili e
l’indifferenza reciproca è esclusa in proporzione alla prossimità
spaziale.
L’ambiente non è solo uno strumento che rende possibile
l’interazione umana, esso è anche un concreto spazio fisico che misura lo
squilibrio delle relazioni umane. In questa visione dello spazio inteso come
territorio, l’azione collettiva s’inserisce in maniera conflittuale: è
rivendicazione di maggiore equità e reciprocità, cui gli uomini
tenderebbero in quanto nessuno ama essere sottomesso e tutti aspirano a
relazioni equilibrate.
Si aprono così quattro prospettive di analisi dell’interazione socio
ambientale: l’approccio ecologico, quello strategico dei movimenti,
l’approccio cognitivo e quello interattivo.
Nell’approccio ecologico l’azione collettiva riconosce un primato
esplicativo all’ambiente. I movimenti sociali si mobilitano a suo favore,
allorquando vedono minacciata la propria esistenza. Le azioni che
s’intendono svolgere sono effettuate mediante proteste comuni, diffusione
di critiche con l’utilizzo dei mass media; sono tutte azioni che scattano
quando la società percepisce di essere in pericolo.
Dagli anni ’80 con riguardo ai movimenti ambientalisti è da
sottolineare la tendenza al processo di istituzionalizzazione: in molte si
sono costituite in associazioni iscritte negli appositi registri, con lavoratori
il cui compito è la direzione delle organizzazioni di movimento
103 Geroge Simmel, (1858-1918) in qualità di sociologo ricordato per la sua sociologia formale, nella quale cerca di approfondire l’analisi socio psicologica delle forme, delle figure tipiche di ogni cultura e di quei processi attraverso i quali ogni individuo diventa membro e partecipe della vita associata
72
ambientalista. Circa la tipologia di azione delle entità collettive a difesa
dell’ambiente si può confrontare la tabella di seguito riportata.
1. Greenpeace coniuga l’organizzazione centralizzata ad un
frequente ricorso alla protesta. Si distingue in tutto il mondo per forme
clamorose di protesta.
2. Legambiente è un’associazione centralizzata cui si associa un non
frequente ricorso alla protesta. Oltre ad operare come lobby d’interesse
pubblico, Legambiente si è interessata nel corso degli anni all’educazione
ambientale.
73
Tipo di
OrganizzazioneRicorsoalla
Protesta
Centralizzat
a Decentrata
Frequente
1
gruppo professionale di protesta
3
gruppo partecipativo di
protestaes.
Greenpeace es. LAV
Infrequente
2
lobby di interesse
pubblico
4
gruppo di pressione di tipo
volontario
es. Legambiente
es. Amici della
Terra
3. La Lega antivivisezione è un tipo di organizzazione decentrata con
un frequente ricorso alla protesta organizzata attraverso gruppi autonomi
sparsi sul territorio che spesso ricorrono a forme di proteste spettacolari.
4. Gli Amici della Terra sono un gruppo di pressione decentrato
caratterizzato da azioni a favore dell’ambiente svolte da volontari.
Qui introduciamo la definizione di volontario, “quale animatore di un
servizio che è svolto dall’intera comunità”.104 e per l’intera collettività. È
insomma un individuo che liberamente ispira la sua vita a fini di
solidarietà”. Egli impegna energie, capacità, tempo ed eventuali risorse a
iniziative aperte alla leale collaborazione con le pubbliche istituzioni e le
forze sociali; condotte con adeguata formazione specifica. Risponde
proprio a questa figura la realtà generale dei gruppi ambientalisti in Italia,
anche se in realtà l’istituzionalizzazione dell’ambientalismo appare la
tendenza dominante in tutto lo scenario europeo.
Nell’approccio cognitivo l’ambientalismo sembra ben esprimere lo
spirito dell’attuale società postmoderna, in cui l’ambiente non è più un
condizionamento, né oggetto di una strategia ma piuttosto una sorta di
“spartiacque culturale” che divide e mobilita la società.
Secondo Eder, l’ambientalismo ha una capacità di incidere sul
pubblico in quanto pone al centro dell’attenzione proprio un bene
pubblico: tradizionalmente era la religione il fondamento dell’identità
collettiva, adesso alla comunità di credenti si sostituisce una comunità
associativa di essere umani, basata sull’espressività dei soggetti: sentimenti,
riflessività, convivialità.105 Ma l’approccio di Eder evidenzia anche come le
associazioni ambientaliste tendono a strutturarsi lungo un continuum ai cui
estremi stanno le associazioni che nascono allo scopo di “individualizzare
gli individui”, cui si oppongono altre che intendono le finalità ed il senso 104 C. De Luca, Il volontario per la formazione solidale, Rubbettino editore srl, Soveria Mannella (CZ) 2004, pag. 66105 Cfr G. Osti, La natura, gli altri, la società: il terzo settore per l’ambiente in Italia, FrancoAngeli,
Milano 1998, pag.73
74
dell’associarsi come legati all’affermarsi di una determinata relazionalità
umana ri-tribalizzazione delle cerchie sociali.
La ricerca di una “nuova relazionalità” da parte delle associazioni
ambientaliste deve fare i conti con il proprio processo storico: la
periodizzazione dell’ambientalismo.
1. L’ incompatibilità tra ambientalismo ed economia
2. Il concetto di sviluppo sostenibile cerca di conciliare le due
posizioni
3. Postambientalismo (attuale) caratterizzato dalla presenza di una
cultura d’ambiente nelle società occidentali.
Con l’approccio interattivo si ritiene che un movimento si qualifichi
per la presenza di una rete di relazioni informali tra una pluralità
d’individui, gruppi e organizzazioni. Queste reti alimentano un’identità
collettiva altrimenti detta solidarietà. La solidarietà del movimento si fonda
su una comune visione della realtà e su sequenze di scambi reciproci;
l’identità e lo scambio formano la rete, ossia il “movimento”.
Diani ritiene tale rete fondamentale per l’esistenza delle
organizzazioni: la scomparsa di essa comporta il venir meno del
movimento sociale. Particolare elemento della relazione è la reciprocità,
ossia lo scambio di oggetti che non hanno una chiara calcolabilità e
restituibilità, quindi gli scambi non avvengono in base ad un principio di
autorità o di mercato, ma secondo il principio della reciprocità che tiene
conto che la caratteristica di un comune reticolo ambientalista è data dal
fatto che l’ambiente è un dono continuamente scambiato fra i membri del
network.
Il bene naturale che si vuole difendere non è un fine, ma un fattore
che circola e crea legami di solidarietà.
75
Conclusione
Se la modernità ha prodotto una società civile individualistica e
artificiale la crisi attuale prelude una “reazione” in rapporto alla quale gli
osservatori esprimono pareri assai contrastanti: alcuni prevedono come
necessario un proseguimento e un’ulteriore spinta radicalizzante del
processo di individualizzazione. Per altri, le società occidentali si trovano a
fronteggiare la rilevante questione dell’identità collettiva: questo pare
segnalare la “fine dell’individualismo” e un ritorno di principi costruttivi
delle identità collettive.
A questo punto sorge un problema: quali sono i caratteri specifici di
questa “nuova relazionalità”? Sarebbe possibile selezionare molti punti di
partenza ma appare fondamentale: uscire dall’individualismo radicale per
costruire un tipo di relazione in cui “il bene che sta nella relazione non
consiste nel beneficio utilitaristico che l’individuo ne può trarre, bensì in
qualcos’altro che la relazione può fare per lui”. Tra queste relazioni
interumane e quelle dell’uomo con le cose in quanto natura esiste
un’interdipendenza che ci si augura possa mettere in moto la dinamica di
un nuovo senso di società civile “attraverso la natura”. Infatti, la
sostenibilità ambientale è alla base del conseguimento della sostenibilità
socio – economica: la seconda non può essere raggiunta a costo della
prima.
Se la globalizzazione ha rappresentato un elemento fondamentale per
l’evoluzione sociale e tecnologica, quindi per favorire alcuni modelli di
sviluppo, ciò non esclude che abbia lasciato tracce pesanti che hanno
influito proprio nei confronti di paesi altri e di culture altre.
Occorre allora ridefinire lo sviluppo e forse il parlare di sviluppo
sostenibile può apparire datato perché alla prova dei fatti non sono state
trovate risposte soddisfacenti. Il pensiero di una cultura dello sviluppo è il
fine di una politica sociale che deve considerare la cultura dello sviluppo
76
come referenziale alla salvaguardia dell’umanità. Come disse Ashis Nandy
già nel 1989
“il recupero degli altri sé, delle culture e delle comunità, se non definite
dalla coscienza globale dominante, può rivelarsi il primo compito della
critica sociale e dell’attivismo politico e la prima responsabilità di una
salutazione intellettuale nelle prime decadi del prossimo secolo”106
Il nostro modo di vivere, consumare, comportarsi, decide la velocità
del degrado entropico, la velocità con cui è dissipata l'energia utile e il
periodo di sopravvivenza della specie umana. Si arriva così al concetto di
sostenibilità, intesa come l'insieme di relazioni tra le attività umane, la loro
dinamica e la biosfera, con le sue dinamiche, generalmente più lente.
La terra va vista non come una nostra proprietà da sfruttare, ma come
un capitale naturale avuto in prestito dai nostri genitori per i nostri figli.107
Queste relazioni devono essere tali di permettere alla vita umana di
continuare, agli individui di soddisfare i loro bisogni e alle diverse culture
umane di svilupparsi, ma in modo tale che le variazioni apportate alla
natura dalle attività umane stiano entro certi limiti così da non distruggere il
contesto biofisico globale.
Se riusciremo ad arrivare a un'economia da equilibrio sostenibile
come indicato da Herman Daly, le future generazioni potranno avere
almeno le stesse opportunità che la nostra generazione ha avuto: è un
rapporto tra economia ed ecologia, in gran parte ancora da costruire, che
passa dalla strada dell'equilibrio sostenibile.
Giorgio Nebbia conclude il suo saggio Lo sviluppo sostenibile108, con
un'importante osservazione:
106 In A. Escobar, Immaginando un’era di postsviluppo, in R. Malighetti (a cura di), Oltre lo sviluppo. Le prospettive dell’antropologia, Meltemi, Roma 2005, pag 214 107 E. Tiezzi e N. Marchettini, Che cos’è lo sviluppo sostenibile?Donzelli Editore, Roma 1999, pag 25 108 G. Nebbia, Lo sviluppo sostenibile,Edizioni Cultura della Pace, Firenze 1991
77
Occorre avviare un grande movimento di liberazione per sconfiggere le
ingiustizie fra gli esseri umani e con la natura, una nuova protesta per la
sopravvivenza capace di farci passare dalla ideologia della crescita a
quella dello sviluppo.
Nessuno ci salverà se non le nostre mani, il nostro senso di
responsabilità verso le generazioni future, verso il "prossimo del futuro", di
cui non conosceremo mai il volto, ma cui la vita, la cui felicità dipende da
quello che noi faremo o non faremo domani e nei decenni futuri.
La costruzione di uno sviluppo sostenibile e la pace si conquistano
soltanto con la giustizia nell'uso dei beni della Terra, nostra unica casa
comune nello spazio, con una giustizia planetaria per un uomo planetario.
Senza giustizia nell'uso dei beni comuni della casa comune, del
pianeta Terra, non ci sarà mai pace.
78
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