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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CATANIA DIPARTIMENTO DI SCIENZE DEL FARMACO Scuola di Specializzazione in Farmacia Ospedaliera SILVIA CAFFARELLI EVOLUZIONE NEL TRATTAMENTO DEL CARCINOMA DELLA MAMMELLA HER2+: INNOVATIVA FORMULAZIONE SOTTOCUTANEA DELL’ANTICORPO MONOCLONALE TRASTUZUMAB ____________ TESI DI SPECIALIZZAZIONE _____________ Relatore: Chiar.ma Prof.ssa A. Copani Correlatore: Preg.ma Dott.ssa G. Fassari ANNO ACCADEMICO 2013-2014

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CATANIA

DIPARTIMENTO DI SCIENZE DEL FARMACO

Scuola di Specializzazione in Farmacia Ospedaliera

SILVIA CAFFARELLI

EVOLUZIONE NEL TRATTAMENTO DEL CARCINOMA

DELLA MAMMELLA HER2+: INNOVATIVA

FORMULAZIONE SOTTOCUTANEA DELL’ANTICORPO

MONOCLONALE TRASTUZUMAB

____________

TESI DI SPECIALIZZAZIONE _____________

Relatore:

Chiar.ma Prof.ssa A. Copani

Correlatore:

Preg.ma Dott.ssa G. Fassari

ANNO ACCADEMICO 2013-2014

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Sommario

INTRODUZIONE ................................................................................................... 4

CAPITOLO I ......................................................................................................... 10

1. Il carcinoma della mammella ........................................................................ 10

1.1 La mammella ............................................................................................... 10

1.2 Cos’è il tumore della mammella ................................................................. 11

1.3 Quali sono le tipologie di carcinoma della mammella ............................... 12

1.4 Classificazione del carcinoma mammario .................................................. 15

1.5 La stadiazione e il grading del carcinoma mammario: .............................. 16

1.6 L’importanza dell’esame istologico ............................................................ 18

1.7 Cause del carcinoma della mammella ........................................................ 20

1.8 Difetto genetico ereditario .......................................................................... 21

1.9 Sintomi ......................................................................................................... 22

1.10 Inquadramento clinico............................................................................... 23

1.11 Screening nella popolazione generale ...................................................... 27

1.12 Test HER-2 ................................................................................................ 27

CAPITOLO II ....................................................................................................... 32

2. Trattamenti per il cancro della mammella ........................................................ 32

2.1 Terapia classica .......................................................................................... 33

2.2 Terapia dei tumori invasivi con diametro inferiore o uguale ai 3 centimetri

........................................................................................................................... 34

2.3 Terapia dei tumori invasivi con diametro superiore ai 3 centimetri........... 41

2.4 Terapia dei tumori localmente avanzati ...................................................... 42

2.5 Terapia dei tumori metastatici .................................................................... 43

2.6 Terapia delle recidive loco-regionali .......................................................... 45

2.7 Terapia del carcinoma mammario nella donna anziana ............................ 46

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2.8 Terapie target .............................................................................................. 47

CAPITOLO III ...................................................................................................... 56

3. L’innovativa formulazione sottocutanea del mAb Trastuzumab ...................... 56

3.1 Studio HannaH ............................................................................................ 59

3.2 Studio PrefHer ............................................................................................. 65

3.3 Studio Time & Motion ................................................................................. 68

3.4 Studio SafHer .............................................................................................. 71

CONCLUSIONI .................................................................................................... 75

BIBLIOGRAFIA…………………………………………………………………78

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INTRODUZIONE

Il cancro alla mammella è la malattia più comune che colpisce le donne. La sua

incidenza è aumentata del 90 % tra 1971 e il 2010, sebbene il tasso di mortalità si

sia ridotto del 37% nel medesimo periodo. È il nemico numero 1 delle donne, un

“big killer”, implacabile responsabile di circa 11.000 decessi solo nel 2013. Un

tumore, quello della mammella, che non accenna ad arrestare la sua corsa. Non

considerando i carcinomi cutanei, il carcinoma mammario è la neoplasia più

diagnosticata nelle donne, in cui circa un tumore maligno ogni tre (29%) è un

tumore mammario. Considerando le frequenze nelle varie fasce d’età, i tumori

della mammella rappresentano il tumore più frequentemente diagnosticato tra le

donne sia nella fascia d’età 0-49 anni (41%), sia nella fascia 50-69 anni (35%), sia

in quella più anziana 70 anni (21%). Le differenze tra macro-aree osservate nel

periodo 2007-2010, che confermano una maggiore incidenza al Nord (123,4

casi/100.000 donne) rispetto al Centro (103,8 casi/100.000 donne) e al Sud-Isole

(93,1 casi/100.000 donne), esprimono la somma dei diversi fattori in gioco, dalla

diversa diffusione dello screening mammografico alle disomogeneità nella

presenza dei fattori di rischio. Negli ultimi 30 anni la ricerca ha fatto grandi passi

avanti tanto che il tasso di sopravvivenza ha registrato una risalita costante e

continua grazie alla prevenzione e al corretto iter diagnostico- terapeutico, oggi in

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Italia 9 pz su 10 sopravvivono. Importante quindi sviluppare una cultura della

prevenzione e della diagnosi precoce, perché possono davvero salvare la vita. La

mortalità per cancro si riduce del 35% tra le donne che praticano la mammografia

ogni 2 anni, ma nel nostro paese, purtroppo, esistono notevoli disuguaglianze

geografiche riguardo la partecipazione alle campagne di screening collettivo.

In Italia ogni anno si registrano circa 45.000 nuovi casi di tumore al seno (circa

140 nuovi casi ogni 100mila abitanti). Il dato più importante, però, è quello

relativo alla sopravvivenza a 5 anni, che è in aumento a livello globale: se nel

periodo tra il ‘90 e il ‘94 la sopravvivenza a 5 anni riguardava l’81% delle

pazienti, tra il 2004 e il 2006 siamo arrivati all’87% e ora possiamo stimarla poco

sotto al 90%. Sopravvivenza a 5 anni non sempre significa guarigione però è

evidente che si sta riuscendo ad aumentare di molto l’aspettativa di vita delle

donne. La mortalità per tumore al seno è in diminuzione ovunque, ma al Sud

diminuisce meno rispetto al Nord. Questo dato è legato ad una minore diffusione

dello screening nell’Italia meridionale. Ed un altro dato preoccupante è la

sopravvivenza a 1 anno e a 5 anni, inferiore al Sud rispetto al Nord: questo

significa, in pratica, che nelle nostre regioni non è tardiva solo la diagnosi, ma lo è

anche l’accesso alle cure. È un problema organizzativo, un problema di flussi dei

pazienti, di percorsi diagnostico-terapeutici (Linee giuda AIOM 28/10/2014).

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Conoscere i sintomi da valutare è importante, ma è ancora più importante arrivare

alla diagnosi prima che i sintomi si manifestino, perché questo significa, per la

paziente, avere maggiori probabilità di rientrare nei due terzi di donne che

guariscono. Il tumore della mammella è molto lento nella sua evoluzione: ci

impiega 10 anni per raggiungere la dimensione di 1 cm. Se lo si intercettasse

prima, quando è ancora di 5 mm o dà solo segni indiretti, come le

microcalcificazioni, si avrebbero maggiori speranze di ottenere la guarigione. Se

invece il tumore viene scoperto attraverso la presenza di un nodulo significa che

ha già raggiunto la dimensione di 1 cm e che ha avuto dai 7 ai 10 anni per

svilupparsi. Da quel momento in poi il nodulo inizierà ad essere duro,

cominciando a infiltrare la cute, a ritrarla verso l’interno, facendole assumere un

aspetto più lucido, “a buccia d’arancia”. Questo significa che siamo già in una

fase avanzata. Ma se le donne si sottoponessero periodicamente allo screening

mammografico si potrebbe evitare di arrivare a questa fase ed ottenere una

diagnosi “senza sintomi”. Un altro messaggio da ricordare è che se una donna si

accorge di avere qualcosa che non va, non deve aspettare ad andare dal medico,

ancora oggi arrivano all’osservazione tumori molto sviluppati dei quali le pazienti

non hanno parlato per paura delle conseguenze.

Il cancro alla mammella può essere caratterizzato da una crescita dipendente da

ormoni (estrogeno e progesterone) o per il coinvolgimento del human epidermal

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growth factors. La famiglia degli Human epidermal growth factors comprende i

recettori 1-2-3-4 (tirosin-chinasi che giocano un ruolo critico nella crescita

cellulare e sono frequentemente sovra-regolati in numerose forme di cancro

incluso il cancro della mammella (Browne et al., 2009)).

In modo particolare l’over-espressione o l’amplificazione del gene per il recettore

HER-2 è stato riscontrato nel 20-30 % di pazienti con cancro della mammella e

quindi classificate come sottotipo HER-2 positive a cui si associa una prognosi

peggiore, la seconda per gravità tra le possibili prognosi di cancro della mammella

perché correlata ad un minor grado di sopravvivenza libera da progressione e

totale (Slamon et al., 1987).

Il trastuzumab (Herceptin) è un anticorpo monoclonale umanizzato IgG1 che,

legandosi selettivamente al subdominio IV extra-cellulare della proteina

recettoriale HER-2, sarebbe in grado di esercitare effetti negativi sulla crescita di

cellule tumorali (questo è un esempio di Targeted Therapy nel cancro alla

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mammella). Il trastuzumab costituisce una terapia standard, dalla prima

immissione in commercio avvenuta nel 1998, per il cancro della mammella HER-

2+ sia nella forma precoce (EBC) che in quella metastatizzata (MBC), in cui viene

somministrato ogni 3 settimane (21 gg) per 18 cicli quando in un regime

adiuvante post intervento chirurgico o in combinazione con la chemioterapia

classica dove l’associazione sembra produrre degli ottimi risultati (Slamon et al.,

2001; Vogel et al., 2002).

La somministrazione ev di trastuzumab richiede una dose di carico con un tempo

di infusione di 90 minuti per la prima somministrazione seguita, se ben tollerato,

da successive somministrazioni (dosi di mantenimento), che si effettuano

nell’arco di 30 min. Prolungare il trattamento di mantenimento adiuvante per le

forme metastatiche richiede, indubbiamente, l’ulteriore impiego di risorse in

termini di personale sanitario, dispositivi ecc., in quanto è una pratica diffusa

l’impianto di cateteri venosi centrali (PORT) per far fronte a prolungate

somministrazioni infusionali, ma a rischio di infezioni o trombosi che sicuramente

possono aumentare i costi di gestione e ridurre la compliance del paziente.

La formulazione sottocutanea di trastuzumab che ha ricevuto parere positivo dal

CHMP con accesso all’autorizzazione per il Marketing Europeo nel settembre

2013, si presenta come una valida alternativa alla somministrazione trisettimanale

della formulazione ev di trastuzumab sia nel trattamento dell’EBC che del MBC.

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L’eccipiente chiave che rende possibile tutto questo è l’enzima ricombinante della

Ialuronidasi umana (rHuPH20), il quale degradando temporaneamente le fibre di

acido ialuronico dello strato sottocutaneo faciliterebbe così il passaggio del

farmaco (S. Hamizi et al., 2013) e la sua somministrazione in volumi maggiori.

Questa formulazione innovativa consente di ottimizzare le risorse disponibili

presso le varie realtà oncologiche in termini di costi e di tempo.

Una patologia, quella del cancro della mammella, dalle molteplici facce, dunque,

per combatterla è fondamentale una più approfondita conoscenza dei meccanismi

molecolari alla base delle diverse forme di tumore della mammella e l’avvento di

terapie mirate che agiscano contro specifici bersagli. Si deve indagare su che tipo

di tumore ci si trova ad affrontare per poter scegliere, fra le tante terapie

disponibili, quella più efficace in base alla singola paziente.

Quando la malattia, in stadio avanzato, non può perseguire la guarigione si lancia

la sfida della cronicizzazione della patologia, come se si mirasse a “congelare” la

malattia oncologica.

Perciò ricerca non significa soltanto accedere a farmaci dotati di nuovi

meccanismi d’azione che conferiscano un’ innovatività potenziale, ma significa

anche maggiore attenzione alla qualità della vita delle donne colpite da questo

tumore ed è proprio in questa direzione che si muovono i progressi fatti

nell’ambito delle modalità di somministrazione degli anticorpi monoclonali, quali

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importanti terapie mirate, la cui evoluzione sta proprio nella differente via di

somministrazione di una terapia biologica, oramai, stantard per le forme HER-2+,

con formulazioni sottocute che riducono i tempi di somministrazione e

costituiscono un ulteriore passo avanti per poter migliorare la qualità di vita delle

pazienti. Il futuro ha bisogno di tempo.

CAPITOLO I

1. Il carcinoma della mammella

Il cancro non è una malattia unica, non ha un’unica causa né un unico tipo di

trattamento: esistono oltre 200 tipi diversi di cancro, ognuno con un suo nome ed

una sua terapia.

1.1 La mammella

La mammella è costituita da cute, tessuto adiposo, tessuto connettivo e tessuto

ghiandolare. Quest’ultimo è suddiviso in lobi, dai quali si diparte una rete di dotti

che si diramano fino al capezzolo.

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Le mammelle non sono mai perfettamente uguali tra loro e si modificano nelle

diverse fasi del ciclo mestruale, risultando talvolta ‘nodose’ proprio prima della

mestruazione.

Al di sotto della cute, una ‘coda’ del tessuto mammario si estende fino al cavo

ascellare, che contiene un gruppo di linfonodi che fanno parte del sistema

linfatico. Altri gruppi di linfonodi sono, invece, localizzati sotto lo sterno e dietro

la clavicola (Understandig Cancer of the Breast; AIMaC 2014).

1.2 Cos’è il tumore della mammella

Con il termine tumore della mammella s’intendono ormai correntemente molte

diverse condizioni di malattia di quest’organo femminile. In realtà, come tutti i

tumori, anche quelli della mammella, possono essere benigni o maligni: i primi

sono chiamati anche fibroadenomi, i secondi sono sostanzialmente i carcinomi.

I fibroadenomi sono frequenti nelle donne giovani, soprattutto in quelle che non

hanno ancora avuto gravidanze. Non rappresentano un pericolo e si asportano

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chirurgicamente solo se crescono rapidamente di dimensioni oppure se cambiano

aspetto o forma.

I carcinomi sono i tumori maligni che colpiscono la ghiandola mammaria, un

complesso e sofisticato insieme di cellule molto ben organizzate fra loro e

programmate dalla natura per una sola e fondamentale funzione: produrre il latte

che nutrirà il neonato. Le cellule della ghiandola mammaria sono di due tipi:

Cellule lobulari, che producono il latte;

Cellule duttali, cosiddette perché formano i dotti (o condotti) che portano il

latte al capezzolo e quindi alla bocca del neonato.

Se la cellula che si trasforma in maligna appartiene a un lobulo, si avrà un

carcinoma lobulare; se la trasformazione maligna avviene in un dotto, si avrà un

carcinoma duttale. Il processo di trasformazione verso la malignità è relativamente

lento e caratterizzato da varie fasi: una prima fase in cui il carcinoma cresce nella

zona anatomica in cui ha avuto origine (primario) e per questo definito in situ,

seguita da una fase in cui diventa infiltrante della stessa zona e per questo definito

infiltrante (o invasivo).

1.3 Quali sono le tipologie di carcinoma della mammella

Sappiamo che non esiste un solo tipo di tumore al seno bensì una famiglia di

tumori molto diversi l’uno dall’altro. I sottotipi identificati devono essere

affrontati in maniera diversa e anche le ricerche devono seguire strade diverse.

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In seguito alle indagini di biologia molecolare sono stati individuati quattro

sottotipi di carcinomi:

“Luminali A”: neoplasie con espressione dei recettori ormonali (ER e PgR), a

prognosi favorevole;

“Luminali B”: neoplasie che, pur possedendo l’espressione dei recettori

ormonali, hanno un rischio di recidiva elevato, a causa dell’elevato indice

proliferativo correlato ad alta espressione dei geni di proliferazione;

“HER2”: presenza di un overespressione o amplificazione di HER2;

“Basal like”: tumori che chiamiamo triplo-negativi (negativi per ER, PgR e

HER2, assenza di espressione di tali tipologie recettoriali), ma caratterizzati da

una aumentata espressione delle citocheratine (mioepiteliali) basali (CK5/6 e

CK 17) che possono essere curati solo con la chemioterapia.

Il sottotipo HER2-positivo è quello che ha fatto registrare i migliori progressi

terapeutici grazie a farmaci mirati che vanno a colpire il recettore HER2,

capostipite è l’ormai conosciuto trastuzumab.

Fino a qualche decennio fa la diagnosi di tumore veniva formulata dal patologo

studiando al microscopio le cellule del nodulo duro asportato con l’intervento

chirurgico (oppure ‘esplorato’ con un ago sotto vuoto in grado di aspirare del

materiale biologico da esaminare). Per questo la terapia del tumore era sempre la

stessa: asportazione totale della mammella. Tuttavia, con l’evoluzione delle

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conoscenze scientifiche, il patologo è arrivato a distinguere il carcinoma in quattro

tipi e a mettere in guardia il chirurgo sulla loro sostanziale diversità.

Carcinoma lobulare in situ (intraepiteliale): non rappresenta un rischio per la

vita, perché la sua malignità è praticamente solo formale, nel senso che la

morfologia delle singole cellule è indicativa di una loro trasformazione,

equivalente a uno stato di precancerosi, vale a dire una dimostrazione

dell’esistenza di un rischio per la donna di ammalarsi di carcinoma mammario.

Questo tipo di tumore è indicato anche con la sigla LIN (che si rifà al nome

inglese e che sta per neoplasia intraepiteliale lobulare), che può diventare LIN1,

LIN2 o LIN3 a seconda del livello di evoluzione verso la malignità. La terapia si

limita alla semplice asportazione dell’area interessata dal tumore.

Carcinoma duttale in situ (intraepiteliale): anche questo tipo di tumore è

considerato una precancerosi, ma è già un pò più pericoloso del carcinoma

lobulare in situ, perché tende a riformarsi e a diventare infiltrante e non di rado

colpisce entrambe le mammelle. Deve essere curato con molta attenzione e non

sempre è possibile farlo facilmente, perché nella fase in situ non è palpabile. È il

radiologo che lo riconosce subito alla mammografia sotto forma di micro-

calcificazioni. La mammografia è l’unico esame che consente di diagnosticare la

malattia durante la lunga fase dell’infiltrazione.

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Carcinoma lobulare infiltrante: è un carcinoma della mammella in senso pieno

(il 10-15% dei casi). Tende a essere multicentrico e multifocale. È più raro del

carcinoma duttale. Per una diagnosi precisa e per programmare con accuratezza il

giusto tipo di intervento chirurgico è spesso necessaria, oltre alla mammografia,

anche la risonanza magnetica. La terapia è chirurgica.

Carcinoma duttale infiltrante: è il tipo di carcinoma mammario più comune e

frequente (70-80% dei casi). È generalmente concentrato in un unico nodulo che

cresce in un punto preciso della ghiandola mammaria. La terapia è soprattutto

chirurgica e l’intervento di chirurgia comprende anche l’asportazione parziale o

totale dei linfonodi ascellari.

1.4 Classificazione del carcinoma mammario

La classificazione del carcinoma si riferisce alle sue dimensioni e alle zone in cui

si è diffuso. Tale classificazione è utile perché dal tipo di tumore dipende il tipo di

trattamento a cui sottoporsi. In alcune persone, il tumore può diffondersi in altre

parti del corpo, attraverso il sangue o il sistema linfatico. Tale sistema è costituito

da una rete di linfonodi collegati in tutto l'organismo da minuscoli vasi detti vasi

linfatici. Nel sistema linfatico fluisce un liquido giallo (linfa) contenente i

linfociti, ossia le cellule che devono combattere le malattie. Il medico difatti

esamina i linfonodi vicini per classificare il tipo di tumore. Solitamente il

carcinoma della mammella si può classificare secondo quattro stadi. Parte dallo

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stadio 1 che identifica un tumore piccolo e localizzato, fino ad arrivare allo stadio

4 dove la malattia si è diffusa in altre parti del corpo. Se il tumore ha intaccato

altri organi del corpo il carcinoma viene definito come secondario o metastatico.

1.5 La stadiazione e il grading del carcinoma mammario:

La stadiazione del tumore si riferisce alle sue dimensioni e alle zone in cui si è

diffuso. Il grado di classificazione dà un’idea di quanto velocemente il cancro si

può diffondere.

Un sistema di stadiazione comunemente usato distingue due forme di carcinoma

della mammella, e precisamente:

Carcinoma duttale in situ (DCIS): solitamente è descritto come stadio 0. Si

sviluppa interamente nel lume dei dotti galattofori (i canali attraverso i quali il

latte giunge al capezzolo) senza invadere i tessuti circostanti. È anche detto non

infiltrante o intraduttale, in quanto le cellule tumorali non invadono il tessuto

mammario circostante e, di conseguenza, non si diffondono ad altre parti

dell’organismo. Il DCIS è quasi sempre curabile con il trattamento.

Carcinoma lobulare in situ (LCIS): deriva dalla proliferazione di cellule

neoplastiche nel rivestimento dei dotti intralobulari. Può essere bilaterale, ossia

interessare entrambe le mammelle. Si definisce anche non infiltrante in quanto le

cellule tumorali non si diffondono ai tessuti circostanti. Distinguiamo:

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• Stadio 1: tumore con diametro massimo non superiore a 2 cm.; i linfonodi

ascellari sono indenni e le cellule neoplastiche non si sono diffuse ad altri organi;

• Stadio 2: tumore con diametro massimo compreso tra 2 e 5 cm o i linfonodi

ascellari sono invasi, oppure rivela entrambe queste caratteristiche, ma le cellule

neoplastiche non si sono diffuse apparentemente ad altri organi;

• Stadio 3: tumore con diametro massimo fino a 5 cm ed è fisso alle strutture

vicine (cute o muscolo); i linfonodi sono usualmente invasi, ma le cellule

neoplastiche non si sono diffuse apparentemente oltre la mammella né ai linfonodi

ascellari;

• Stadio 4: tumore non importa di quale diametro, i linfonodi sono di solito invasi

e le cellule neoplastiche si sono diffuse ad altri siti corporei. In questo caso si

parla di carcinoma mammario metastatico.

Il grado è il termine tecnico che serve per descrivere le caratteristiche delle cellule

neoplastiche al microscopio. Il grado indica la rapidità con cui le cellule tumorali

possono infiltrarsi. Tre sono i gradi di classificazione del cancro della mammella e

precisamente:

• Grado 1 (grado basso): le cellule tumorali sono molto simili alle cellule normali

del tessuto mammario, di solito crescono lentamente e difficilmente si diffondono

a distanza;

• Grado 2 (grado medio);

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• Grado 3 (grado elevato): le cellule tumorali hanno un aspetto molto anomalo;

crescono più rapidamente e si diffondono a distanza.

Il cancro della mammella che ricompare dopo il trattamento iniziale è detto cancro

ricorrente della mammella.

Inoltre a supporto, per una corretta ed esaustiva catalogazione, vi è anche il

sistema di stadiazione e di classificazione clinica TNM che dà informazioni più

precise sul volume del tumore. Più precisamente:

T rappresenta la dimensione del tumore;

N rappresenta/informa se il tumore si è esteso sino ai linfonodi;

M rappresenta se il cancro ha intaccato anche altre parti del corpo come le ossa, il

fegato o i polmoni.

1.6 L’importanza dell’esame istologico

Solitamente un buon esame istologico di carcinoma mammario dà informazioni su

8 parametri:

Il tipo istologico (duttale, lobulare, ecc.);

Le dimensioni del tumore;

Il grado (G1, 2, 3);

La presenza o meno di cellule tumorali nei capillari sanguigni che circondano

il tumore (invasione vascolare);

La presenza o assenza di recettori ormonali (estrogeni e progestinici);

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Lo stato di salute dei linfonodi ascellari;

La percentuale di proliferazione, in pratica la velocità di crescita delle cellule

tumorali, indicata con la sigla Ki67 o MIB-1;

La positività o negatività di un test chiamato Her2 o c-erbB2, che caratterizza

ulteriormente le cellule tumorali.

Si ottiene in questo modo un ‘identikit’ del tumore e ciò è fondamentale per capire

bene quali siano le caratteristiche della malattia e individuare il trattamento più

adeguato. Da questo punto di vista, le variabili sono tante: tumori maligni, ma

poco aggressivi; tumori che crescono lentamente; oppure sensibili alle cure

ormonali; o che hanno già raggiunto i linfonodi ascellari; o che crescono

rapidamente e che dovranno quindi essere affrontati con determinazione con tutte

le armi terapeutiche possibili.

Ad esempio superficie delle cellule tumorali possono essere presenti i cosiddetti

recettori, proteine che favoriscono il legame con l’ormone estrogeno o con

l’ormone progesterone. In questo caso la terapia dopo l’intervento deve prevedere

l’uso di farmaci che contrastino l’azione di tali ormoni. Se l’esame istologico

dimostra che la malattia è decisamente dipendente dagli ormoni e poco aggressiva

(classificata come Luminal A), la terapia consiste, di solito, in compresse ad

effetto anti-ormonale per proteggere da una stimolazione che altrimenti

favorirebbe la crescita del tumore. Se la malattia è solo parzialmente di origine

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ormonale e cresce rapidamente (Luminal B), alla terapia anti-ormonale si devono

aggiungere dei cicli di chemioterapia precauzionale nei primi mesi dopo

l’intervento.

Se, invece, l’esame istologico dimostra che sulla superficie delle cellule tumorali

è presente una proteina recettoriale detta HER2, alle altre terapie è necessario

aggiungere un anticorpo monoclonale (come il trastuzumab).

Quando infine il tumore non ha né recettori per l’ormone estrogeno, né per quelli

del progesterone, né per l’HER2, si classifica come triplo negativo e richiede

molta attenzione, perché in alcuni casi può diventare più pericoloso degli altri.

1.7 Cause del carcinoma della mammella

Le cause del cancro della mammella non sono ancora del tutto chiare. Il rischio di

sviluppare il cancro della mammella è molto basso nelle donne giovani, ma il

rischio aumenta con l’età. Più della metà dei casi di carcinoma della mammella si

verificano in donne di età superiore a 65 anni. Il rischio di sviluppare la malattia

aumenta secondo i fattori sotto riportati:

- La donna ha già avuto un cancro della mammella;

- La donna ha avuto un cancro della mammella benigno (carcinoma lobulare in

situ o iperplasia lobulare atipica);

- La donna sta facendo una terapia ormonale sostitutiva (TSO) o l’ha fatta di

recente. Le giovani donne che fanno una cura ormonale sostitutiva a causa di una

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menopausa precoce o a causa della rimozione delle ovaie non hanno un crescente

rischio di cancro della mammella fino all’età di 50 anni. L’assunzione della pillola

anticoncezionale aumenta in minima parte la possibilità per la donna di sviluppare

il cancro della mammella;

- Le donne che non hanno figli o che hanno il primo figlio dopo 35 anni, sono di

poco più predisposte a sviluppare questo tipo di cancro rispetto a quelle che hanno

figli;

- Le donne che hanno la prima mestruazione precocemente o che hanno una

ritardata menopausa hanno un rischio maggiore di sviluppare il cancro della

mammella;

- Le donne che non hanno mai allattato al seno sono in minima parte più

predisposte di quelle che hanno allattato per più di un anno;

- Essere in sovrappeso una volta entrate in menopausa può aumentare il rischio di

cancro della mammella;

- Può aumentare il rischio l’assunzione di molti alcolici per più anni.

1.8 Difetto genetico ereditario

Un numero molto esiguo di casi di carcinoma della mammella è causato, invece,

da un difetto genetico ereditario. I geni anomali che possono determinare un

accresciuto rischio di sviluppare la malattia sono BRCA1 e BRCA2. I fattori che

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possono essere indicativi della potenziale presenza di un difetto genetico

ereditario sono:

• Diagnosi di cancro del seno in più parenti stretti della stessa famiglia;

• Diagnosi di altre forme di tumore, soprattutto dell’ovaio e del colon, nonché

della mammella, in componenti della stessa famiglia;

• Diagnosi di cancro del seno in un parente stretto al di sotto dei 40 anni;

• Diagnosi di cancro del seno bilaterale in un parente stretto.

1.9 Sintomi

Nella maggior parte delle donne, il carcinoma della mammella si manifesta come

una massa indolore nel seno. Ma altri segni possono includere:

- Variazioni nelle dimensioni e nella forma del seno;

- Ritrazione della pelle del seno;

- Ispessimento del tessuto mammario;

- Retrazione di un capezzolo;

- Formazione di una massa dietro al capezzolo;

- Un’irritazione (tipo eczema) del capezzolo;

- Perdite di sangue dal capezzolo (molto raro);

- Un gonfiore o un accumulo sotto l’ascella.

Il dolore al seno, generalmente, è molto raro come sintomo del carcinoma della

mammella. Infatti, molte donne che sono sane sentono il seno granuloso e

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morbido prima del ciclo. Alcuni tipi di tumori benigni possono, invece, provocare

dolore.

1.10 Inquadramento clinico

L’iter diagnostico generalmente ha inizio presso il medico di famiglia che,

sospetti una neoplasia, in seguito ad una visita prescriverà gli esami e le

radiografie che riterrà opportuni. Può far seguito un consulto o un trattamento

specialistico in ospedale o presso un centro oncologico. Ed il chirurgo oncologo

che effettuerà la visita vorrà conoscere la storia clinica prima di procedere alla

visita. Poi passerà, quindi, ad ispezionare e palpare le mammelle per rilevare se vi

sono noduli o addensamenti ghiandolari, dopo palperà sotto le ascelle e alla base

del collo per rilevare eventuali linfonodi aumentati di volume. Una radiografia del

torace ed esami del sangue possono essere eseguiti per controllare lo stato

generale. Di seguito vengono riportate e brevemente descritte tutte le metodiche

che servono per diagnosticare il carcinoma mammario e il chirurgo oncologo può

decidere di sottoporre la paziente ad uno solo o a più di questi esami strumentali.

Mammografia

Si tratta di un’indagine radiologica della mammella, che risulta particolarmente

utile per individuare modificazioni iniziali della ghiandola mammaria quando può

essere difficile palpare un nodulo. Durante l’esecuzione bisogna posizionare i seni

in modo che siano rivolti verso la macchina che emana i raggi X. Per ogni seno

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saranno eseguite due mammografie da diverse angolazioni. Per alcune donne la

mammografia è fastidiosa in quanto si deve esercitare una certa pressione sulle

mammelle, al fine di ottenere una chiara immagine del seno, ma ciò dura solo

pochi minuti e non è nocivo per la ghiandola mammaria. La mammografia viene

effettuata solitamente su donne di età superiore ai 35 anni. Nelle donne più

giovani il tessuto mammario è più denso e ciò rende difficoltoso cogliere qualche

cambiamento con la mammografia.

Ecografia

È una metodica indolore che dura solo qualche minuto. È una tecnica che utilizza

le riflessioni di un fascio di ultrasuoni per formare un’immagine degli organi

interni del nostro corpo. Di solito si esegue nelle donne di età inferiore a 35 anni,

le cui mammelle sono troppo dense per essere ben visualizzate alla mammografia.

Si usa anche per vedere se un nodulo è solido o contiene liquido (cisti). Le

mammelle vengono spalmate con un sottile strato di apposito gel; su tutta la

regione mammaria si fa, quindi, scorrere un piccolo strumento (sonda ecografica),

simile ad un microfono, che emette ultrasuoni. Le riflessioni di questo fascio di

ultrasuoni vengono convertite in immagini tramite un computer.

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Eco-color doppler

Alcuni tipi di ecografo sono in grado di visualizzare i vasi che alimentano il

nodulo e ciò può essere molto utile per differenziare le lesioni benigne da quelle

maligne. I vasi appaiono sul monitor sotto forma di colore rosso o blu.

Agoaspirato

È una procedura semplice e di breve durata che si esegue in ambulatorio. Un ago

sottile ed una siringa vengono usati per prelevare un campione di cellule dal

nodulo mammario; il campione viene quindi inviato in laboratorio per l’esame

citologico, ossia per vedere se contiene cellule maligne. Questa tecnica può essere

usata anche per drenare una cisti benigna. Essendo la ghiandola mammaria

sensibile, la procedura può risultare leggermente fastidiosa. A volte, soprattutto se

il nodulo è di piccole dimensioni, l’agoaspirato si esegue nel reparto di radiologia.

In questo caso, l’operatore esegue la procedura sotto controllo radiografico o

ecografico per verificare che la biopsia sia eseguita proprio nella lesione.

Macro-agobiopsia

Questa tecnica si esegue con un ago di calibro più grande di quello usato per

l’agoaspirato. Si effettua a volte in anestesia locale e consente di eseguire una

biopsia, ossia di prelevare un piccolo campione di tessuto dal nodulo, che viene

quindi inviato in laboratorio per individuare eventuali segni di carcinoma.

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Analisi del sangue

Le analisi del sangue servono per controllare le condizioni generali. Si

determineranno i valori dell’emocromo (conta delle cellule ematiche), della

funzione epato-renale e anche i livelli di alcuni marker, che sono particolari

sostanze chimiche che possono essere prodotte dalle cellule tumorali.

Biopsia escissionale

Questa tecnica si esegue con la paziente in anestesia generale o totale e consente

di prelevare l’intero nodulo, che viene poi inviato in laboratorio per l’esame

istologico. Ciò può significare essere ospedalizzate per una notte, ma in alcuni

centri la procedura viene eseguita come intervento ambulatoriale (o di day

surgery). Se il nodulo è troppo piccolo per essere palpabile, ma è stato

visualizzato alla radiografia o all’ecografia, il radiologo dovrà evidenziare l’area

interessata per agevolare il chirurgo nel rintracciare la lesione. A tale scopo, dopo

aver praticato un’anestesia locale, introdurrà un filo di repere molto sottile sotto

controllo radiografico o ecografico. Il filo metallico sarà la guida che il chirurgo

seguirà per reperire il nodulo. In alcuni centri si usa il radiorepere ossia la

somministrazione intra- e perilesionale di un isotopo radioattivo che consente poi

al chirurgo, al tavolo operatorio, di rilevare il nodulo per mezzo di un rilevatore di

radioattività e di individuare anche il linfonodo o i linfonodi ascellari che hanno

drenato la linfa dal nodulo ‘linfonodo sentinella’. In alcuni centri si usa un

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colorante vitale. Alcune unità altamente specializzate sono in grado di fornire un

servizio diagnostico, inclusi alcuni esami di laboratorio, in 24 ore, ma nei grandi

ospedali generali i tempi di attesa dei risultati degli accertamenti sono più lunghi.

1.11 Screening nella popolazione generale

Gli esami clinici e strumentali hanno, nell’ambito dello screening per carcinoma

mammario nella popolazione generale, le seguenti indicazioni in Italia:

- Nelle donne in fascia d’età 50-69 anni: la Rx-mammografia è raccomandata

con cadenza biennale;

- Nelle donne in fascia d’età 40-49 anni: la Rx- mammografia andrebbe eseguita

personalizzando la cadenza nel singolo individuo sulla base anche dei fattori di

rischio quali la storia familiare e la densità del tessuto mammario;

- Il Piano Nazionale italiano Prevenzione (http://www.ccm-

network.it/screening/intro_legislazione) suggerisce alle Regioni di considerare

l’estensione dell’invito alle donne con 45-49 anni d’età (con intervallo di 12-18

mesi);

- Nelle donne d’età uguale o superiore a 70 anni: non vi è nessuna evidenza di

efficacia della Rx-mammografia nello screening. Il PNP italiano suggerisce

alle Regioni italiane di considerare l’estensione dell’invito alle donne con 70-

74 anni d’età.

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1.12 Test HER-2

L’HER2 è un importante biomarker clinico, la sua positività, legata ad un over-

espressione o amplificazione, è associata ad una maggiore aggressività della

patologia, ad un alto rischio di recidiva e ad una scarsa sopravvivenza, quindi ad

una peggiore prognosi di cancro della mammella (Yeo W. 2012).

Per capire meglio come funziona l’HER2, prima di tutto è necessario sapere

qualcosa sui recettori e i fattori di crescita.

Recettori: sono particolari proteine presenti sulla superficie delle cellule. Altre

proteine o agenti chimici che circolano nel corpo possono attaccarsi a questi

recettori causando cambiamenti nelle cellule (per esempio, le rendono

riproducibili).

Fattori di crescita: sono agenti chimici che si attaccano ai recettori stimolando la

crescita delle cellule.

HER2, nello specifico, è una oncoproteina che ritroviamo espressa sulla superficie

di alcune cellule tumorali. È costituita da un particolare gene chiamato l’HER2/

neugene. Tale proteina è un recettore per un particolare fattore di crescita

chiamato fattore di crescita epidermico umano, che per natura si trova nel corpo

umano. Quando tale fattore di crescita si attacca ai recettori dell’HER2 presenti

sulle cellule tumorali, può provocare la loro crescita e divisione.

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Consta di un dominio extracellulare su cui si va a legare il farmaco (subdominio

IV), di domini lipofili transmembrana e di un dominio intracellulare funzionale

per l’attività tirosin-chinasica, per la trasmissione del segnale che regola i processi

di proliferazione tumorale mediante l’attivazione del pathwhay RAS/Raf,

MEK/MAPK e di inibizione dell’apoptosi mediante l’attivazione del pathway

PI3K/Akt (Hudis CA 2007).

L’attivazione di HER2 prevede la formazione di omo-eterodimeri con altre

proteine EGFR, questa dimerizzazione si traduce nell’autofosforilazione o trans

fosforilazione di specifici residui tirosinici presenti nei domini intracellulari di

proteine EGFR. Dalla dimerizzazione di HER2 si ha la dislocazione e rapida

degradazione di p27 Kip1 proteina inibitore del ciclo cellulare, portando così alla

progressione del ciclo cellulare.

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Alcune cellule tumorali esprimono più recettori HER2 rispetto ad altri. In questo

caso il tumore è, appunto, detto HER2-positivo. Si pensa che 1donna su 5 con il

cancro della mammella sia affetta da un tumore HER2-positivo.

I tumori che sono HER2-positivi tendono a crescere più velocemente rispetto ad

altri tipi di tumori della mammella. Quindi sapere che il tumore è di tipo HER2-

positivo a volte può influenzare la scelta della cura.

Della famiglia dei recettori EGFR, HER2 è l’unico membro che nelle linee guida

goda di un valore prognostico e predittivo riconosciuto, rappresentando così un

importante target terapeutico (Linee guida AIOM 2014). Ci sono, a tal proposito,

degli esami, appositi e specifici, che possono essere svolti per capire se una donna

ha un carcinoma della mammella HER2-positivo. L’esame può essere fatto

contemporaneamente ad un iniziale intervento chirurgico per il carcinoma della

mammella e/o può essere usato un campione di tessuto tumorale di una precedente

biopsia o di un precedente intervento chirurgico.

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I principali metodi usati per l’esame HER2 sono l’analisi immunoistochimica

(IHC) e l’ibridazione fluorescente in-situ (FISH). L’analisi Immunoistochimica

(IHC): può mostrare la quantità di proteina HER2 presente nel campione

tumorale. Il livello di HER2 viene calcolato su una scala da 0 a 3+:

- 0-1+ significa che è presente una normale quantità di proteina HER2 e il

risultato è HER2 negativo;

- 2+ significa che è presente una modica quantità di proteina HER2;

- 3+ significa che è presente una quantità di proteina HER2 superiore alla norma

e il risultato è HER2-positivo.

L’Ibridazione fluorescente in-situ (FISH): mentre nell’IHC si misura il livello di

proteina presente nel campione tumorale, con il metodo FISH si rileva la quantità

di HER2/neugene presente in ogni cellula. Questo è il gene responsabile della

sovrapproduzione di proteina HER2. Non ci sono scale di valutazione per l’esame

FISH, ma:

- Se il risultato è FISH-negativo, è presente un livello normale di gene;

- Se il risultato è FISH-positivo, è presente una eccessiva quantità di gene;

questo caso a volte è detto amplificazione del gene.

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CAPITOLO II

2. Trattamenti per il cancro della mammella

Il trattamento del carcinoma della mammella dipende da diversi fattori, tra i quali:

Lo stadio della malattia;

L’età;

Lo stato menopausale;

Le dimensioni del tumore;

Il grado;

Lo stato recettoriale (la presenza di recettori per certi ormoni o proteine, quali

HER2, sulla superficie delle cellule neoplastiche).

La maggior parte dei tumori maligni della mammella sono trattati con la chirurgia

così da rimuovere il tumore. Può essere rimosso tutto o solo una parte del tessuto

mammario. Se deve essere rimossa tutta la mammella, si può provvedere alla sua

ricostruzione o durante il primo intervento chirurgico o dopo. Qualche volta, per

ridurre il carcinoma prima dell’intervento, il paziente può essere sottoposto a

chemioterapia o terapia ormonale. Questa è detta terapia neoadiuvante. Dopo

l’intervento chirurgico può essere consigliata la radioterapia per essere sicuri che

nessuna cellula cancerogena sia ancora presente. Il medico valutando lo stadio e il

grado del tumore insieme ad altri fattori potrà dire qual è la probabilità di una

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recidiva o del diffondersi del tumore. I fattori che determinano la possibilità di

una recidiva includono:

La grandezza del tumore;

Se i linfonodi sotto le ascelle sono stati intaccati;

Il grado del tumore;

Se le cellule neoplastiche si sono diffuse nei vasi linfatici o nei vasi sanguigni

vicino al tumore (questo è controllato dal medico patologo);

Se le cellule hanno in superficie recettori per estrogeni o proteine particolari

(come l’ HER2).

Se la possibilità che il cancro si diffonda o che ci sia una recidiva è molto bassa,

allora non sono necessari trattamenti aggiuntivi. Comunque alla maggior parte

delle donne verrà consigliato di sottoporsi a chemioterapia o terapia ormonale per

ridurre la possibilità di una recidiva. Questo trattamento è detto terapia adiuvante,

post- chirurgia. Alcune donne possono essere sottoposte ad entrambi i trattamenti,

ma non contemporaneamente. Per le donne con un tumore HER2 positivo può

essere utile la somministrazione dell’Herceptin (Trastuzumab).

2.1 Terapia classica

Secondo vari studi epidemiologici il tumore della mammella rappresenta, nei

paesi occidentali, la neoplasia più frequente della donna. Nell’Europa occidentale

circa una donna su dieci manifesta clinicamente nel corso della propria vita un

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tumore mammario. Il carcinoma della mammella rappresenta inoltre la prima

causa di morte per tumore nel sesso femminile; nelle donne di età compresa tra i

35 e i 55 anni esso costituisce addirittura la causa di morte più importante in

assoluto, mentre in quelle con età superiore a 55 anni è la seconda causa dopo le

malattie cardiovascolari.

Questi brevi dati epidemiologici bastano da soli a comprendere l’importanza, per

il medico di Medicina Generale, di una conoscenza sufficientemente approfondita

delle problematiche inerenti le neoplasie della mammella (Senology- terapia del

tumore della mammella).

2.2 Terapia dei tumori invasivi con diametro inferiore o uguale ai 3 centimetri

I carcinomi mammari invasivi si distinguono dai carcinomi non invasivi o

carcinomi in-situ in quanto le cellule tumorali, all'esame istologico, non superano

la membrana basale.

I carcinomi mammari in situ (carcinoma lobulare in situ e carcinoma duttale in

situ) vengono considerati patologie ancora localizzate, per cui la terapia è in

genere conservativa (tranne nelle forme multifocali) e non prevede di norma

l'esecuzione della linfoadenectomia; la radioterapia inoltre è effettuata solo nei

pazienti con carcinoma duttale (e non lobulare) in situ trattati con chirurgia

conservativa.

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I tumori mammari invasivi di piccole dimensioni (diametro fino a 3 centimetri)

rappresentano attualmente la quota maggiore di neoplasie della mammella che si

presentano all’attenzione clinica. Essi vengono trattati chirurgicamente con

tecnica conservativa, ricorrendo alla quadrantectomia, procedura chirurgica messa

a punto da Veronesi all’Istituto dei Tumori di Milano negli anni settanta. Il

risultato cosmetico nella gran parte dei casi è eccellente; i risultati a lungo termine

di vari studi randomizzati non dimostrano peraltro differenze statisticamente

rilevanti nella percentuale di ricadute locali o a distanza e nella sopravvivenza

globale tra quadrantectomia e mastectomia radicale.

La quadrantectomia consiste in un’ampia resezione della neoplasia e del tessuto

circostante, così da asportare un intero quadrante della mammella, con la porzione

corrispondente della cute e della fascia pettorale. L’exeresi chirurgica deve essere

sufficientemente ampia da asportare anche 2 centimetri di parenchima

macroscopicamente sano intorno alla lesione neoplastica.

Alla quadrantectomia si associa contemporaneamente la dissezione completa dei

linfonodi ascellari (linfoadenectomia ascellare). La dissezione linfonodale

dell’ascella viene praticata, negli interventi conservativi, in continuità con la

exeresi mammaria solamente quando il tumore è localizzato nei quadranti

superiori esterni delle mammelle; in caso contrario la linfoadenectomia viene

praticata con una incisione separata.

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Al fine di evitare gli esiti invalidanti della linfoadenectomia ascellare (edema e

parestesie dell’arto superiore omolaterale, difficoltà ai movimenti del cingolo

scapolare) si sta oggi sperimentando, nelle pazienti con neoplasia in fase iniziale,

una tecnica chirurgica conservativa detta del "linfonodo sentinella". Poiché la

diffusione metastatica ai linfonodi ascellari avviene in modo regolare e

progressivo, senza cioè di solito salti di livello, dal I al II e quindi al III livello

ascellare, si è pensato, nelle donne con tumori di diametro inferiore ad 1

centimetro e quindi a basso rischio (5-10%) di metastasi linfonodali, di asportare

con una piccola incisione solo il primo linfonodo di drenaggio regionale,

individuato intraoperatoriamente con una sonda radioguidata, dopo iniezione

intratumorale di albumina umana marcata con 99mTc. In sostanza il chirurgo,

dopo aver iniettato alcune ore prima dell’intervento, con un ago da 25G,

dell’albumina marcata in corrispondenza della lesione mammaria, è in grado al

momento dell’intervento chirurgico di identificare, con una sonda capace di

rilevare il punto di massima radioattività in sede ascellare, il primo linfonodo di

drenaggio (linfonodo sentinella) e di asportarlo in modo selettivo. La negatività

istologica per metastasi di tale linfonodo (esaminato intraoperatoriamente con

esame estemporaneo su sezioni criostatiche quando si decida per un intervento in

unica seduta; analizzato viceversa in modo differito su sezioni di preparato fissato

in formalina e incluso in paraffina quando si opti per un eventuale intervento di

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linfoadenectomia ascellare posticipato in seconda seduta) è altamente predittiva

(valore predittivo tra il 96 ed il 100%) della negatività istologica di tutti gli altri

linfonodi ascellari e consente quindi di evitare la dissezione ascellare completa,

con le inevitabili complicanze precoci e tardive connesse con questa procedura.

La positività istologica del linfonodo sentinella è, invece, naturalmente indice di

diffusione regionale della neoplasia e determina il ricorso alla linfoadenectomia

ascellare completa.

Dopo l’intervento di chirurgia conservativa e linfoadenectomia, la mammella

residua (ma non l’ascella, per il pericolo di danni radioindotti alle strutture

vascolari e nervose) viene irradiata, al fine di ridurre il rischio di recidive tumorali

locali, anche in considerazione della frequente multicentricità delle neoplasie

mammarie. Il trattamento radioterapico consiste nell’erogazione a tutta la

mammella residua di una dose di 50-60 Gy (misurazione della quantità di

radiazioni utilizzata in grigio) nell’arco di circa sei settimane; viene aggiunta poi

una dose supplementare di 15-20 Gy sull’area tumorale, al fine di garantire una

maggiore radicalità.

In centri di ricerca oncologica di avanguardia viene oggi praticata la radioterapia

intraoperatoria (IORT), che, con l'utilizzo di acceleratori lineari mobili, forniti di

un braccio robotico direzionabile sul campo chirurgico, consente di erogare in

corrispondenza del letto tumorale una elevata dose di radiazioni in una unica

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frazione, nel corso stesso dell'intervento chirurgico. Ciò permette un trattamento

radioterapico adiuvante precoce, preciso e mirato, evitando o riducendo gli effetti

collaterali derivanti dall'irradiazione dei tessuti sani interposti.

Dopo il trattamento QUART (quadrantectomia, dissezione ascellare, radioterapia),

le ulteriori fasi della terapia di una neoplasia mammaria variano in rapporto al

dato istopatologico-clinico di maggior rilievo per la prognosi della patologia

oncologica della mammella: la presenza o l’assenza di metastasi linfonodali. Si è

evidenziato che il 50% delle pazienti con tumore mammario presenta nuovi segni

di neoplasia, locali o a distanza, entro i primi tre anni dall’intervento se i linfonodi

ascellari sono positivi e addirittura entro due anni se il loro numero è maggiore di

10. La presenza di metastasi linfonodali è perciò elemento indicativo di una

neoplasia più aggressiva o comunque non più probabilmente localizzata e

suggerisce quindi la necessità di aggiungere alla terapia locoregionale un ulteriore

trattamento sistemico chemioterapico e/o ormonoterapico.

Tumori con interessamento linfonodale. La positività dei linfonodi ascellari

(N+) è indicativa del fatto che il tumore ha iniziato una diffusione sistemica ed è

quindi probabile l’esistenza in sedi periferiche di microfocolai metastatici, non

ancora rilevabili clinicamente. È logico quindi che una terapia solamente

locoregionale non fornisce in questi casi sufficienti garanzie di radicalità

oncologica. Le pazienti con linfonodi positivi all’esame istologico vengono perciò

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indirizzate ad un trattamento farmacologico chemioterapico sistemico

precauzionale. Si parla di chemioterapia adiuvante, cioè di chemioterapia post-

chirurgica in assenza di evidenza clinica di localizzazioni metastatiche periferiche.

I dati di follow-up a 10 e 15 anni dimostrano che la terapia adiuvante determina

una riduzione costante del rischio di recidiva o di morte pari a circa il 25%. La

chemioterapia adiuvante viene in genere iniziata due-tre settimane dopo

l’intervento chirurgico; nei casi in cui si debba procedere a chemioterapia

adiuvante la radioterapia post-chirurgica viene spesso effettuata dopo aver

completato il trattamento farmacologico, al fine di evitare una sommazione di

effetti mielotossici (la dilazione della radioterapia sei mesi dopo l’intervento

chirurgico non aumenta il rischio di recidive locali); va comunque sottolineato che

la radioterapia è comunque compatibile con la contemporanea somministrazione

di trattamenti adiuvanti sistemici. La terapia adiuvante più utilizzata (benché

vengano sempre più frequentemente presi in considerazione schemi terapeutici

contenenti antarcicline) è ancora oggi la combinazione CMF

(ciclofosfamide+metotrexate+fluorouracile). Il CMF classico è stato disegnato

con l’obiettivo di ripetere il successo ottenuto con il regime MOPP nella terapia

del linfoma di Hodgkin e, come quest’ultimo, prevede due settimane di

trattamento e due settimane di intervallo, prima del ciclo successivo. La

ciclofosfamide viene assunta per via orale nei giorni 1-14, mentre il metotrexate e

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il fluorouracile vengono somministrati per via endovenosa nei giorni 1 e 8, con

cicli ripetuti ogni 28 giorni per un totale di 6 cicli. Nel trattamento chemioterapico

adiuvante stanno assumendo comunque sempre maggiore importanza gli schemi

terapeutici contenenti antracicline (adriamicina, epirubicina). È stato, inoltre,

valorizzato il ruolo adiuvante dei taxani. In caso di positività del tumore per i

recettori degli estrogeni ER (indici di ormonosensibilità della neoplasia), alla

chemioterapia viene fatta seguire una ormonoterapia adiuvante (che può in ogni

caso anche essere attivata già pochi giorni dopo l'intervento chirurgico). Si utilizza

a questo proposito una sostanza ad azione antiestrogenica a livello mammario, il

tamoxifene, che viene somministrato per via orale a dosi giornaliere di 20 mg per

un periodo di 5 anni.

Tumori senza interessamento linfonodale. La negatività dei linfonodi ascellari

(N-) viene considerata l’indice più significativo di una estensione ancora solo

locale della neoplasia. Per tale motivo, nelle pazienti in cui l’esame istologico dei

linfonodi asportati chirurgicamente non riveli la presenza di cellule neoplastiche,

l’iter diagnostico-terapeutico si può concludere dopo il trattamento QUART,

anche se oggi prevale la tendenza a somministrare comunque a scopo

precauzionale, nelle pazienti con recettori estrogenici positivi, tamoxifene a dosi

giornaliere di 20 mg per 5 anni. Va tuttavia sottolineato che, secondo le più

recenti osservazioni, nell’ambito delle pazienti con negatività dei linfonodi

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ascellari (N-), generalmente considerate a "buona prognosi" rispetto a quelle N+,

esiste un gruppo, valutabile intorno al 30%, nelle quali il rischio di recidiva è

elevato e sovrapponibile a quello delle donne N+: si tratta delle pazienti con età

inferiore ai 35 anni e/o con diametro tumorale superiore a 2 centimetri e/o con

neoplasia di grado istologico 3 e/o con recettori per gli estrogeni negativi. Queste

donne vengono oggi equiparate alle donne con positività dei linfonodi ascellari e

vengono perciò indirizzate a chemioterapia adiuvante con 6 cicli di CMF e,

successivamente, in caso di positività dei recettori estrogenici, ad ormonoterapia

adiuvante con tamoxifene per 5 anni.

2.3 Terapia dei tumori invasivi con diametro superiore ai 3 centimetri

Il trattamento dei tumori con diametro superiore ai tre centimetri prevede come

prima opzione la mastectomia completa con dissezione ascellare totale, con o

senza ricostruzione immediata o ritardata della mammella. Non è attualmente

previsto in questo caso (a meno di un interessamento linfonodale importante) il

trattamento radioterapico sulla parete toracica, mentre sono indicate la

chemioterapia adiuvante postchirurgica con CMF per un totale di 6 cicli e la

ormonoterapia adiuvante con tamoxifene per 5 anni nei casi ER+.

Nell’intento di consentire anche a queste pazienti un trattamento chirurgico

conservativo, è possibile ricorrere ad una seconda opzione, che prevede

una chemioterapia primaria prechirurgica citoriduttiva (chemioterapia

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neoadiuvante) con tre cicli di CMF o FAC (fluorouracile, adriamicina,

ciclofosfamide) o FEC (fluorouracile, epirubicina, ciclofosfamide) o con cicli di

combinazioni farmacologiche che prevedono l'utilizzo di taxani, al fine di ridurre

le dimensioni del tumore al disotto dei tre centimetri. Una volta constatata la

regressione dimensionale della neoplasia, si procede a trattamento QUART con

quadrantectomia, svuotamento ascellare e radioterapia della parte di mammella

residua, seguito da terapia adiuvante con 6 cicli di CMF e ormonoterapia con

tamoxifene per 5 anni nei casi ER+.

2.4 Terapia dei tumori localmente avanzati

Per carcinoma mammario localmente avanzato si intende una neoplasia con

estensione diretta alla cute e/o alla parete toracica (T4).

Viene compreso in questa categoria il cosiddetto carcinoma infiammatorio,

caratterizzato clinicamente da un diffuso indurimento della cute mammaria, a

bordo erisipeloide: si tratta di un tumore a rapida comparsa ed evoluzione,

caratterizzato istologicamente dall’infiltrazione dei linfatici del derma. La

sopravvivenza a 5 anni è del 20-30% per le pazienti con carcinoma localmente

avanzato senza segni di carcinoma infiammatorio e del 10% o meno per le

pazienti con carcinoma infiammatorio.

Fino a qualche anno fa queste neoplasie venivano considerate inoperabili ed erano

trattate solamente con una combinazione di radio e chemioterapia.

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Nella maggior parte delle pazienti la strategia moderna contempla invece una

chemioterapia primaria neoadiuvante citoriduttiva con CMF, FAC o FEC, seguita

da mastectomia radicale (cioè con asportazione anche dei muscoli pettorali) e

linfoadenectomia ascellare, da radioterapia sulla parete toracica e da chemio ed

ormonoterapia adiuvanti. Con tale approccio multimodale si sono riportate

sopravvivenze del 40-60% a 5 anni.

2.5 Terapia dei tumori metastatici

Il carcinoma mammario metastatizzato in modo clinicamente evidenziabile ai

tessuti periferici viene considerato una patologia da trattare con finalità di

palliazione.

Le sedi più frequenti di metastasi sono i tessuti molli, lo scheletro, i polmoni e il

fegato. Il trattamento antineoplastico con ormonoterapia e/o chemioterapia è in

grado nella maggior parte dei casi di prolungare la sopravvivenza, di indurre una

provvisoria regressione tumorale parziale o completa e di migliorare la qualità

della vita.

La scelta del trattamento tra ormonoterapia (con antiestrogeni come il tamoxifene

o, in seconda e terza battuta, con inibitori dell'aromatasi come l’anastrozolo - in

pazienti in postmenopausa - con analoghi dell’RH-LH come il goserelin - in

pazienti in premenopausa - e con progestinici come il medrossiprogesterone

acetato) e chemioterapia (con schemi classici come il CMF, il FAC, il FEC o con

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le nuove combinazioni di taxani ed antracicline) va fatta sulla base della

conoscenza dei dati clinici e biologici della neoplasia, dell’intervallo libero da

malattia tra trattamento del tumore primitivo e comparsa delle metastasi, del

numero e delle sedi delle localizzazioni metastatiche. Devono essere trattate con

chemioterapia le donne con malattia aggressiva e rapidamente evolutiva, con

breve intervallo libero da malattia dopo l’intervento chirurgico e con

localizzazioni metastatiche viscerali, anche al sistema nervoso centrale. La

ormonoterapia deve essere invece preferita per localizzazioni esclusivamente

ossee o ai tessuti molli (in genere a lenta evoluzione), nelle donne con lungo

intervallo libero da malattia dopo l’intervento chirurgico e con recettori ormonali

positivi o sconosciuti. In caso di recettori ormonali negativi è comunque da

preferire la chemioterapia, anche quando le metastasi non siano viscerali. Non vi è

al momento attuale indicazione alla associazione di ormonoterapia e

chemioterapia per il trattamento delle metastasi.

Ancora non del tutto definito è il problema della chemioterapia ad alte dosi, che

consiste nella somministrazione di agenti antineoplastici a dosi da 2 a 20 volte

superiori rispetto a quelle standard, con reinfusione di cellule staminali autologhe

per ricostituire il midollo osseo. Vari studi clinici non hanno in ogni caso

evidenziato risultati clinici migliori in pazienti con carcinoma metastatico trattate

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con chemioterapia ad alte dosi, rispetto a quelle trattate con chemioterapia a dosi

standard.

Alcuni recenti studi clinici dimostrano che l'aggiunta di Trastuzumab (un

anticorpo monoclonale diretto contro il recettore per lo human epidermal growth

factor HER2, noto anche come c-ErbB2) alla chemioterapia, in pazienti con

carcinoma mammario metastatico che iperesprime HER2, è associata ad una

sopravvivenza superiore a quella ottenuta con l'utilizzo della sola chemioterapia.

Tuttavia, il Trastuzumab può determinare cardiotossicità, in particolare in

associazione alle antracicline, per cui il suo utilizzo deve essere attentamente

ponderato.

2.6 Terapia delle recidive loco-regionali

La comparsa di una recidiva locoregionale di carcinoma mammario (evidenza

clinica di ripresa di malattia a carico delle stazioni linfatiche di drenaggio e/o della

parete toracica dopo mastectomia totale o radicale, a carico della mammella

residua dopo terapia conservativa) è un evento frequentemente riscontrabile nella

pratica clinica. Il significato prognostico delle recidive locoregionali varia in base

alla loro estensione e localizzazione e alle caratteristiche di aggressività del

tumore primitivo. In genere si riconosce una prognosi migliore per le pazienti che

vanno incontro a recidive intramammarie isolate e chirurgicamente aggredibili

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(50-70% di sopravvivenza a 5 anni), mentre negli altri casi la recidive è spesso il

preludio alla comparsa di lesioni metastatiche periferiche.

In caso di recidiva intramammaria o ascellare la terapia è chirurgica (asportazione

in toto della mammella nelle pazienti precedentemente trattate con

quadrantectomia, asportazione della massa ascellare in caso di recidiva in tale

sede); negli altri casi si ricorre alla radioterapia della regione toracica ed

eventualmente delle stazioni linfatiche di drenaggio. Talora al trattamento locale

della recidiva si fa seguire comunque un trattamento precauzionale sistemico

chemioterapico e/o ormonoterapico.

2.7 Terapia del carcinoma mammario nella donna anziana

Il trattamento del cancro mammario nella donna sopra i 70 anni deve tener conto

dello stadio della neoplasia, dello stato generale della paziente e delle patologie

associate.

Per le forme operabili l’approccio terapeutico è generalmente di tipo chirurgico,

come nelle altre fasce di età. Quando non esistano controindicazioni è da preferire

l’anestesia generale, che consente di associare, alla quadrantectomia o alla

mastectomia, la linfoadenectomia. In presenza di ostacoli alla anestesia generale si

ricorre ad un intervento di tumorectomia o quadrantectomia in anestesia locale.

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In pazienti di età molto avanzata le indicazioni al trattamento radioterapico

postchirurgico devono essere valutate caso per caso, sulla base del rischio di

recidiva locale e dell’aspettativa di vita.

Per quanto riguarda il trattamento farmacologico sistemico si tende in genere a

preferire la ormonoterapia con tamoxifene, alla dose di 20 mg al giorno da

proseguire per 5 anni, anche nelle donne con recettori negativi (nelle quali pure la

terapia riesce a dare risultati sufficientemente buoni); il trattamento

chemioterapico è da riservare a casi particolari.

2.8 Terapie target

Costituiscono la nuova frontiera nella cura dei tumori e consistono in una

farmacologia altamente specializzata basata sulla specifica malattia e sul singolo

difetto molecolare, andando a colpire in maniera mirata i fattori biologici

responsabili della crescita e della diffusione del tumore.

Negli ultimi anni la ricerca sui nuovi farmaci antineoplastici ha suscitato grandi

speranze ed aspettative per terapie più specifiche e meno tossiche in ambito

oncologico. In particolare, i recenti avanzamenti nella biologia molecolare

consentono di studiare la differente espressione dei geni coinvolti nelle neoplasie

(genomica) e delle proteine da essi prodotte (proteomica) al fine di determinare un

dettagliato profilo molecolare delle neoplasie. La conseguente applicazione

clinico-terapeutica di questi studi sta già consentendo di personalizzare le terapie

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in base alla caratterizzazione biomolecolare del tumore, utilizzando farmaci

selettivi che agiscono sui differenti bersagli espressi dallo stesso, colpendo, cioè le

singole molecole alterate (fattori di crescita, recettori, enzimi…) responsabili della

crescita e della diffusione incontrollata delle cellule tumorali, della loro resistenza

alle terapie tradizionali e della produzione di nuovi vasi sanguigni. Questi nuovi

farmaci, spesso detti “a bersaglio (target)” o “biologici” o ancora “intelligenti”,

da soli o in combinazione con le terapie tradizionali (chemio-, radio-,

ormonoterapia), permetteranno pertanto di combattere direttamente il tumore,

risparmiando le cellule normali dell’organismo, con conseguente minore tossicità.

Caratteristiche peculiari e vantaggiose di questi nuovi farmaci sono rappresentate,

pertanto, da:

1. Azione selettiva su particolari substrati delle cellule tumorali;

2. Modesta insorgenza di effetti indesiderati anche nel caso di impiego prolungato

nel tempo;

3. Possibilità di essere somministrati, in alcuni casi, per via orale mantenendo il

paziente in ambito ambulatoriale;

4. Possibilità di utilizzo in associazione con terapie tradizionali.

Per contro, questi nuovi farmaci a bersaglio presentano importanti restrizioni al

loro impiego determinate dal loro spettro d’azione che è ovviamente limitato a

quei sottogruppi di tumori che presentano specifiche alterazioni molecolari.

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Anticorpi monoclonali

La terapia con anticorpi monoclonali è un esempio di immunoterapia passiva che

permette di agire selettivamente contro gli antigeni, più o meno specifici delle

cellule tumorali, stimolandone l’eliminazione con meccanismo di immunità

cellulo-mediata o umorale.

Gli anticorpi monoclonali vengono prodotti da un singolo clone plasmacellulare

con identico sito di legame per uno stesso epitopo antigenico specifico.

Generalmente possiedono la parte costante di natura umana, mentre la parte che

riconosce l’antigene è di origine murina (rappresenta solo il5-10% in quelli

umanizzati). Data questa loro struttura e l’elevata specificità, questi farmaci

presentano una tossicità decisamente inferiore rispetto alla maggior parte dei

chemioterapici convenzionali.

I principali effetti collaterali, comuni a tutti questi agenti, sono le reazioni di tipo

allergico, con comparsa di sintomi simil-influenzali, calo di pressione e nausea,

eruzione cutanea. Per tale motivo la prima dose del trattamento si somministra

lentamente, nell’arco di diverse ore, mentre le dosi successive possono essere

infuse in tempi più brevi. Gli anticorpi monoclonali possono essere utilizzati in

monoterapia oppure associati ad altri agenti antineoplastici (derivati del platino,

taxani, antracicline) per aumentarne l’efficacia, senza alcuna interferenza sul

profilo farmacocinetico. Essi possono anche essere coniugati ad altri agenti

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terapeutici (tossine, agenti citotossici, isotopi radioattivi) per fungere da carriers

diretti specificatamente verso un bersaglio molecolare.

Più nel dettaglio analizzerò gli aspetti principali di uno dei più importanti tra

questi nuovi farmaci, già utilizzato nella corrente pratica clinica oncologica.

Il Trastuzumab

Bersaglio e Meccanismo d’azione È un anticorpo monoclonale ricombinante

murino umanizzato IgG1, diretto contro HER-2, un recettore di membrana ad

attività tirosin-chinasica, appartenente alla famiglia dei recettori per il fattore di

crescita epidermico (Epidermal Growth Factor Receptor-EGFR e simili) a cui si

lega con elevata specificità ed affinità in corrispondenza del subdominio IV

extracellulare.

Il Trastuzumab sembrerebbe sfruttare 4 distinti meccanismi d’azione per

combattere le forme di cancro HER2+:

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Agirebbe come potente mediatore della citotossicità anticorpo dipendente

cellulo mediata (ADCC) (in maniera preferenziale sulle cellule tumorali);

Prevenendo la formazione della versione troncata e, quindi, attiva di HER2,

quale è la p95HER2;

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Inibendo il clivaggio proteolitico e quindi la dimerizzazione di HER2

impedendo così la segnalazione ligando-dipendente funzionale alla promozione

della proliferazione cellulare e alla regolazione negativa del processo

apoptotico;

Inibendo l’angiogenesi regolata da HER2 (Le XF, Mao W., Lu C., 2008).

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L’iperespressione di HER2 è stata riscontrata/osservata nel 20 %-30 % dei tumori

mammari primari.

Indicazioni: il Trastuzumab è indicato per il trattamento di pazienti con carcinoma

mammario precoce e/o metastatico con iperespressione di HER2:

a. In monoterapia per il trattamento di pazienti che hanno ricevuto almeno due

regimi chemioterapici per la malattia metastatica.

b. In associazione al paclitaxel per il trattamento di pazienti che non sono stati

sottoposti a chemioterapia per la malattia metastatica e per i quali non è indicato il

trattamento con antracicline.

La misurazione dell’espressione di HER2 è obbligatoria prima di iniziare la

terapia con Trastuzumab. Essa viene effettuata tramite un esame immuno-

istochimico di sezioni tumorali fissate. Recentemente il farmaco ha dimostrato

una notevole efficacia anche in fase adiuvante, ovvero dopo l’intervento

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chirurgico radicale, tanto da avere ottenuto l’approvazione anche per questa

indicazione per cui è spesso utilizzato.

Attualmente, quindi, il trastuzumab viene utilizzato nelle donne affette da tumore

al seno HER2 positivo, da solo o in associazione nel trattamento neoadiuvante,

adiuvante e metastatico. Esistono, tra l’altro, dati favorevoli di attività anche in

associazione con vinorelbina, derivati del platino e capecitabina, nonché agenti

endocrini come anastrozolo.

Inoltre sono in corso numerosi studi per valutare l’impiego del farmaco, oltre che,

nelle neoplasie mammarie per altre indicazioni o in altre neoplasie (es. carcinomi

gastrici metastatici).

Gli effetti indesiderati più comuni descritti dopo infusione di trastuzumab (>10%)

sono il dolore addominale, astenia, dolore al torace, febbre, cefalea, diarrea,

nausea, vomito, artralgia/mialgie ed eruzioni cutanee.

Meno frequente (circa 1-3%), ma potenzialmente pericoloso, è l’effetto

cardiotossico con riduzione della frazione di eiezione ventricolare, soprattutto

quando l’anticorpo viene somministrato in associazione con i taxani e in pazienti

pre-trattate con antracicline. Poiché l’effetto cardiotossico legato al trastuzumab è

generalmente reversibile dopo sospensione del trattamento, la maggior parte delle

pazienti riesce a riprendere il trattamento con trastuzumab sotto stretto

monitoraggio cardiologico.

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Modalità di somministrazione: si somministra per via endovenosa o in un regime

a cadenza settimanale (che prevede una dose di carico calcolata 4mg/kg, seguita

da dosi di mantenimento calcolati a 2mg/Kg) (Harries M., Smith I., 2002; Baselga

J., 2001) o trisettimanale -Q21- (che prevede una dose di carico calcolata a

8mg/Kg, seguita da dosi di mantenimento a 6mg/Kg) (Baselga J.; Carbonell X.,

2005) per un anno di trattamento (diventato regime standard, in quanto più

efficace rispetto ad un trattamento a 2 anni, in termini di rapporto beneficio-

rischio) (Goldhirsch A. et al, 2013). Si è dimostrato efficace nel ridurre il rischio

di forme recidivanti del 33-52%, nel prolungare la sopravvivenza libera da

progressione nel 35% delle pazienti con EBC e nel rallentare il tempo di

progressione (nel MBC) (Genetech, Inc 2013).

Benefici simili sono stati osservati nel setting neoadiuvante/adiuvante quando la

somministrazione ev di trastuzumab viene effettuata in combinazione con la

chemioterapia classica (taxani/antracicline) prima dell’intervento chirurgico e in

monoterapia successivamente all’intervento per una durata totale del trattamento

di un anno (Roche products limited 2013).

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CAPITOLO III

3. L’innovativa formulazione sottocutanea del mAb Trastuzumab

Nel recente 2012 è stata studiata e sviluppata una nuova formulazione di

trastuzumab, quale farmaco di riferimento per il trattamento delle neoplasie

mammarie HER2+, adatta alla somministrazione sottocutanea (sc).

Al fine di raggiungere con la via di somministrazione sc il medesimo dosaggio di

farmaco della formulazione ev, da ricostituire e portare alla concentrazione di 21

mg/ml (a cui corrisponda, quindi, anche la medesima concentrazione e una

sovrapponibile farmacocinetica) si è passati ad una concentrazione di 120 mg/ml,

di farmaco già ricostituito, per la quale è stata messa a punto una strategia di

ottimizzazione dell’assorbimento, con aumento, tra l’altro, del volume di farmaco

che può essere veicolato per questa via, resa possibile mediante la coformulazione

con 2000 Units (U/ml) rHuPH20 (ialuronidasi umana ricombinante) consentendo,

così, il passaggio e l’assorbimento di proteine anticorpali terapeutiche maggiori,

per volumi e dimensioni (Adler M., Grauschopf U. et al,; 2011).

Il concetto di partenza per la selezione della dose idonea alla somministrazione sc

è stato il raggiungimento della medesima saturazione del sito recettoriale, che si

registra con la formulazione ev.

È stata raggiunta una Ctrough, al 7° ciclo prechirurgico in neoadiuvante, del 30 %

superiore con il sc rispetto all’ev e la proporzione di pazienti che ha raggiunto la

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pCR nel gruppo del sc è stata non inferiore a quella raggiunta dal gruppo dell’ev.

Il tempo medio di risposta è stato di 6 settimane in entrambi i gruppi trattati

(all’incirca dopo il 2° ciclo di trattamento).

In dose fissa di 600mg (Houcercade F., Potelleret 2014), dosaggio scelto testando

in pz sani un range tra i 6mg/Kg e i 10mg/Kg di farmaco ed in pz HER2+ con

EBC è stato testato in un range che andava dagli 8mg/Kg ai 12 mg/Kg (Wynne C.,

Harvey 2012), è stato possibile individuare nel dosaggio di 8mg/Kg (in relazione

ad un peso medio di 70 Kg) quello ottimale al fine di garantire un profilo PK, di

efficacia, sicurezza e tollerabilità sovrapponibili a quelli della formulazione

endovenosa (Roche Products Limited 2013; Shpilberg O., Jackisch C., 2013).

Potenzialmente questa nuova formulazione può:

Ridurre il carico di lavoro per i professionisti sanitari coinvolti nei vari steps;

Ridurre il carico di ansia in una paziente per il peso psicologico che esercita

l’idea di doversi sottoporre ad un trattamento oncologico;

Ridurre gli errori di terapia (es quelli legati al calcolo della dose o legati alla

manipolazione stessa, in quanto già ricostituito);

Ridurre i costi associati alla preparazione e somministrazione, nonché

all’eventuale gestione di cateteri venosi centrali impiantati e l’uso dei

dispositivi sanitari necessari ed all’assenza di residuo di farmaco;

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Ridurre l’attesa in ospedale ed il tempo trascorso in DH, aumentando al

contempo la velocità di rotazione delle poltrone.

Questa nuova formulazione potrebbe offrire alla paziente un miglioramento in

termini di comodità, aumentandone quindi la compliance e, per il SSN, un minore

impiego delle risorse economiche, rispetto alla formulazione endovenosa (ev).

Sono più di 80mila le pazienti che ricevono regimi di trattamento con tale farmaco

ogni anno in Europa. L'utilizzo di trastuzumab per iniezione sottocutanea è stato

supportato dai risultati di un importante studio clinico comparativo HannaH

(studio registrativo dello stesso), in cui questa formulazione è stata, appunto,

comparata con quella infusionale endovenosa, nei pazienti con diagnosi di

carcinoma mammario HER2-positivo sottoposti a trattamento di chemioterapia

primaria. I risultati conclusivi hanno dimostrato come la formulazione sottocute,

associata alla chemioterapia, fosse non inferiore a quella somministrata per via

endovenosa.

Questa formulazione può essere somministrata manualmente, mediante siringa ed

ago ipodermico 27G o, in alternativa, mediante un dispositivo per

l’autosomministrazione monouso (SID) messo a punto dalla Roche, capace di

somministrare 5 ml di farmaco nell’arco di circa 5 minuti (Rottner M. Roche plan

2010). L’utilità del SID, che è stata investigata durante lo studio SafHer, permette

un rilascio all’incirca di 1-2 ml al minuto, flusso il quale è stato stabilito sulla base

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dello studio che ha avuto come obiettivo l’individuazione della dose ottimale. Il

SID è alimentato a batteria ed è fornito di un sistema di fuoriuscita e ritrazione

dell’ago automatica, va fatto aderire sulla porzione superiore della coscia

mediante lo strato adesivo.

L’efficacia della formulazione sottocute (sc) di trastuzumab rispetto alla

formulazione endovena (ev), nel trattamento neoadiuvante/adiuvante di pazienti

con cancro della mammella HER2+, è stata valutata nello studio HannaH

(enHANced treatment with NeoAdjuvant Herceptin) (Ismael G. et al., 2012),

mentre lo studio PrefHer (Preference for Herceptin SC or IV Administration), i

cui risultati sono stati presentati all’ ECC 2013, ha valutato la preferenza delle

pazienti riguardo all’uso della formulazione sottocute rispetto all’endovena (Pivot

X et al., 2013).

3.1 Studio HannaH

Nel presente studio sono stati messi a confronto il profilo farmacocinetico,

l’efficacia e la sicurezza della somministrazione sc vs ev di trastuzumab in

pazienti con tumore della mammella HER2+ in fase precoce. Gli autori hanno

voluto dimostrare la non-inferiorità della formulazione sc rispetto a quella ev.

È lo studio registrativo che ha confermato la dose di 600 mg (120mg/ml) per via

sottocutanea, quale valida alternativa al trattamento per via endovenosa. La

quantità di farmaco che viene veicolata ed assorbita, seppur più lentamente, in

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seguito a somministrazione sottocutanea è sufficiente/adeguata a determinare la

medesima esposizione sistemica al farmaco (saturazione recettoriale) che si ha

quando il farmaco è somministrato per via ev calcolata a 6mg/kg nelle dosi di

mantenimento.

Lo studio HannaH (enHANced treatment with NeoAdjuvant Herceptin) è un trial

di fase III, randomizzato, multicentrico, internazionale, in aperto, come setting

neoadiuvante/adiuvante.

I criteri d’inclusione erano: età >18 anni (pazienti per lo più tra 45- 50 anni),

patologia HER2+ (IHC3+ o FISH+), nuova diagnosi di malattia, adenocarcinoma

infiltrante della mammella (stadio clinico I-IIIC) con tumore primitivo >1 cm

all’ecografia o >2 cm alla palpazione, un punteggio basale all’Eastern

Cooperative Oncology Group performance status pari a 0 o 1, frazione di eiezione

del ventricolo sinistro al tempo zero >55% (la misurazione doveva essere

effettuata tramite ecocardiografia transtoracica o tridimensionale). I criteri di

esclusione: malattia metastatica primaria. Le pazienti affette da neoplasia

mammaria HER2+, operabile, localmente avanzata o infiammatoria sono state

randomizzate (1:1) a ricevere 8 cicli di chemioterapia in regime neoadiuvante in

associazione a trastuzumab ogni tre settimane ev (8 mg/kg dose di carico, 6 mg/kg

dose di mantenimento) vs sc (dose fissa di 600 mg, in un volume pari a 5 ml, con

10000 U di rHuPH-20). La rHuPH-20 (ialuronidasi umana ricombinante), è un

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enzima in grado di degradare temporaneamente l’acido ialuronico interstiziale

(l’unico modificabile per l’elevato turnover con un’emivita di 12h, entro 24 si

ripristina la condizione iniziale) (Bywatter EGL, Holborow EJ, 1951) a livello

sottocutaneo, creando un canale di 200 nm di diametro, così da aumentare le

dimensioni delle proteine che possono attraversarlo come gli mAb ed il volume (5

ml contro 1-2 ml solitamente somministrabili per questa via) (Frost GI, 2007) di

farmaco che può essere somministrato per via sc e favorirne il

trasporto/raggiungimento nel/del torrente circolatorio. La cui sicurezza clinica è

stata testata e dimostrata confermando le finalità ed evidenziandone l’efficacia (B.

Bittner, W.F. Richter, 2012). L’iniezione richiede circa cinque minuti di tempo e

può essere effettuata nello studio del medico curante o a domicilio ogni tre

settimane. Il farmaco viene iniettato sc a livello della coscia (alternando la destra

con la sinistra ad ogni successiva somministrazione e ad almeno 2,5 cm di

distanza dal precedente sito di iniezione, mai in zone arrossate o indurite).

La chemioterapia consisteva in quattro cicli di docetaxel (75 mg/m2) ogni tre

settimane, seguiti da quattro cicli di 5-fluorouracile (500 mg/m2), epirubicina (75

mg/m2) e ciclofosfamide (500 mg/m2) ogni tre settimane. Dopo l’intervento

chirurgico le pazienti hanno continuato il trattamento con trastuzumab sino a

completare il primo anno di trattamento. Il follow-up è stato protratto sino a 24

mesi dalla fine del trattamento o fino alla recidiva di malattia (nel caso in cui

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questa insorgesse precedentemente). La durata media del follow-up è stata di 12,2

mesi (range 1,0–20,8) nel gruppo ev vs 12,4 (0,3–20,4) in quello sc. Gli end-point

co-primari sono stati: la minima concentrazione plasmatica raggiunta dal farmaco

prima della somministrazione dell’ottavo ciclo di terapia precedente all’intervento

chirurgico o Ctrough (limite di non-inferiorità per il quoziente tra gruppi 0,80) (in

generale si intende con Ctrough la concentrazione plasmatica più bassa di un

farmaco che segue la somministrazione di una dose; nello studio è stata scelta la

minima concentrazione plasmatica raggiunta dal farmaco prima della

somministrazione dell’ottavo ciclo di terapia precedente all’intervento chirurgico

perché più rappresentativa della concentrazione del farmaco allo steady-state) e la

risposta patologica completa (pCR), definita come assenza di cellule neoplastiche

invasive a livello mammario. Era invece consentito un carcinoma duttale in situ

residuo (limite di non-inferiorità per la differenza tra gruppi -12,5%). Entrambi gli

end-point primari sono stati analizzati nella popolazione per-protocol. Gli end-

point secondari sono stati: profilo farmacocinetico, pCR totale o tpCR (assenza di

cellule neoplastiche invasive a livello mammario e dei linfonodi ipsilaterali),

numero di pazienti che hanno raggiunto una risposta globale (risposta clinica

completa o parziale), tempo di risposta (tempo intercorso fra la somministrazione

della prima dose del farmaco e la risposta clinica completa o parziale),

sopravvivenza libera da eventi (tempo intercorso fra la randomizzazione e

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recidiva, progressione (locale, regionale, a distanza o controlaterale) di malattia o

morte per tutte le cause), sopravvivenza globale, sicurezza, tollerabilità ed

immunogenicità.

Dal 19 ottobre 2009 al 1 dicembre 2010 sono stati arruolate, in 81 diversi centri

(17 in Europa, 12 in Asia, 17 in Sud America ed America Centrale, 1 in Nord

America, 4 in Africa), 596 pazienti, delle quali 299 sono state randomizzate a

ricevere trastuzumab ev vs 297 trattate con trastuzumab sc. Le caratteristiche

demografiche della popolazione, del trattamento e del tumore sono state ben

bilanciate nei due gruppi di studio, sia nella popolazione per-protocol che in

quella intention-to-treat. Al momento dell’analisi primaria, 116 pazienti per ogni

gruppo avevano completato l’intero trattamento e nessuna aveva terminato il

follow-up. Per lo studio dei parametri farmacocinetici, sono stati inclusi

nell’analisi per-protocol 235 vs 234 pazienti nel gruppo randomizzato a ricevere

trastuzumab ev vs sc, rispettivamente. La Ctrough media geometrica era pari a

51,8 µg/ml (coefficiente di variazione 52,5%) nel gruppo randomizzato a ricevere

il farmaco ev vs 69,0 µg/ml (55,8%) sc. Il quoziente geometrico medio fra

Ctrough nella somministrazione sc ed ev è risultato pari a 1,33, con limite

inferiore maggiore del margine di non-inferiorità prestabilito. Per l’analisi

d’efficacia, sono state incluse nella popolazione per-protocol 263 vs 260 pazienti

trastuzumab ev vs sc, rispettivamente. Centosette (40,7%) su 263 vs 118 (45,4%)

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su 260 pazienti trattate con trastuzumab ev e sc, rispettivamente, hanno raggiunto

la pCR. La differenza fra i gruppi relativamente al numero di pCR è pari a 4,7%;

il limite inferiore per la differenza fra i due gruppi è risultato essere superiore al

margine di non-inferiorità prestabilito. La pCR è stata raggiunta, nella

popolazione intention-to-treat, da 124 (42,2%) su 294 pazienti del gruppo sc vs

111 (37,4%) su 297 pazienti che hanno ricevuto il farmaco ev. Trastuzumab sc ha

dimostrato, quindi, di essere non-inferiore a trastuzumab ev per entrambi gli end-

point primari.

Per gli end-point secondari relativi al profilo farmacocinetici, questi si sono

dimostrati sovrapponibili fra i due gruppi di randomizzazione, tranne la media

geometrica della Cmax prechirurgica (settimo ciclo di trattamento), superiore

nelle pazienti che avevano ricevuto trastuzumab ev. Gli end-point secondari di

efficacia hanno dato i seguenti risultati: la tpCR era sovrapponibile nei due

gruppi, così come la risposta globale al trattamento ed il tempo in cui questa è

stata raggiunta. I dati relativi alla sopravvivenza libera da eventi e globale erano

ancora statisticamente poco significativi per poterne trarre risultati attendibili.

L’incidenza di eventi avversi di qualsiasi grado è stata simile nei due gruppi di

trattamento (280 [93,9%] su 298 pazienti nel gruppo ev vs 289 [97,3%] su 297 nel

gruppo sc); quelli manifestatisi più frequentemente sono stati: alopecia (62,8% vs

62,6%); nausea (48,7% vs 48,5%); neutropenia (46,3% vs 44,1%); diarrea (36,6%

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vs 33,7%); astenia (25,2% vs 24,6%); maggiore affaticabilità (26,5% vs 22,6%).

Un numero maggiore di pazienti randomizzate a ricevere il farmaco sc ha

sviluppato eventi avversi gravi (20,9%), rispetto a quelle arruolati nel gruppo ev

(12,4%); la differenza numerica registrata tra i gruppi è da attribuirsi ad infezioni

o infestazioni (8,1% vs 4,4%). I più frequenti eventi avversi di grado 3-5 (con

incidenza simile nei due gruppi) sono stati: neutropenia (33,2% ev vs 29,0% sc);

leucopenia (5,7% vs 4,0%); neutropenia febbrile (3,4% vs 5,7%). Si sono

registrati 4 decessi a seguito dello sviluppo di eventi avversi, di cui 2, entrambi

nel gruppo sc, sono stati considerati in relazione al trattamento: 1 nel gruppo ev e

3 in quello sc; tutti insorti in regime neoadiuvante. Rispetto al controllo basale

10/295 (3,4%) pazienti del gruppo ev vs 20/295 (6,8%) del gruppo sc avevano

sviluppato anticorpi anti-trastuzumab, mentre 34/295 (11,5%) pazienti del gruppo

sc avevano sviluppato anticorpi anti-rHuPH-20; questo non ha modificato i

due end-point primari ed il profilo di sicurezza.

3.2 Studio PrefHer

Il PrefHer è uno studio internazionale, randomizzato, multicentrico, in crossover

di fase II, disegnato per determinare le preferenze delle pazienti per quanto

riguarda la via di somministrazione di trastuzumab. Si tratta di uno dei primi studi

in assoluto che ha avuto come obiettivo la valutazione della preferenza dei

pazienti per una terapia tumorale.

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Sono state arruolate nello studio, che ha coinvolto più di 70 centri in 12 Paesi,

oltre 400 pazienti con carcinoma mammario precoce HER2-positivo. Sono state

incluse, anche, pazienti naive al trattamento con trastuzumab, per cui è stata fatta

una stratificazione naive/non naive. Le pazienti sottoposte a trattamento adiuvante

con trastuzumab sono state randomizzate a ricevere quattro cicli di trastuzumab

somministrato per via sottocutanea, seguiti da quattro cicli di trastuzumab

somministrati per via endovenosa, o in sequenza inversa, in due bracci dello

studio:

- Le pazienti della coorte 1 (124 pz tra i 51-55 anni, di cui il 24-25% naive)

hanno ricevuto quattro cicli ogni 3 settimane (Q21) di trastuzumab

sottocutaneo tramite un dispositivo di iniezione monouso adatto

all’autosomministrazione (SID) e quattro cicli (Q21) di trastuzumab IV.

- Le pazienti della coorte 2 (121 pz tra i 50-53 anni,di cui il 17-18% naive)

hanno ricevuto quattro cicli di trastuzumab sottocutaneo tramite siringa

manuale e quattro cicli di trastuzumab ev.

Grazie a questo studio sono stati elaborati dati circa le preferenze delle pazienti, la

soddisfazione del personale sanitario e i risultati di sicurezza raccolti dalle coorti 1

e 2, quando trastuzumab sc è stato somministrato con iniezione manuale. Le

pazienti sono state randomizzate a 4 cicli di terapia adiuvante con trastuzumab

600 mg sc, in dose fissa, seguita da 4 cicli di trastuzumab ev standard, o

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viceversa. Endpoint primario era la percentuale di preferenza globale per le due

formulazioni (sc vs ev), ottenuta dopo colloquio (intervista telefonica) con le

pazienti nella popolazione 'intention-to-treat' (ITT) valutabile. I ricercatori

coinvolti nello studio PrefHer (in Italia, il gruppo dell'Istituto Europeo di

Oncologia di Milano) hanno randomizzato in totale 245 pazienti prima a

trastuzumab sc e quindi alla somministrazione ev, mentre altre 243 hanno ricevuto

la sequenza inversa (popolazioni ITT valutabili: rispettivamente di 235 e 232

pazienti). La via sc è risultata essere preferita da 415 donne su 467 (88.9%),

mentre solo 45 pazienti su 467 hanno preferito la somministrazione ev (9.6%) e 7

su 467 non hanno indicato alcuna preferenza (1.5%). Eventi avversi sono stati

riportati dai clinici e si sono manifestati in 292 donne su 479 (61.0%) e 245 su

478 (51.3%) rispettivamente durante i periodi di somministrazione sc ed ev

combinati; 16 pazienti (3.3%) in ciascun gruppo hanno sviluppato eventi avversi

di grado 3, nessuno invece di grado 4 - 5. In conclusione, lo studio PrefHer ha

evidenziato una preferenza convincente e consistente delle pazienti per la

formulazione di trastuzumab per via sottocutanea, rispetto alla endovenosa,

indipendentemente dalla somministrazione con dispositivo automatizzato di

rilascio monouso o iniezione manuale. La via sottocutanea è stata ben tollerata e i

parametri di sicurezza erano in accordo con quanto osservato in precedenti studi,

compreso lo studio HannaH. Nessuna nuova indicazione di sicurezza è stata

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evidenziata rispetto al già noto profilo per la via endovenosa nel tumore

mammario iniziale. Gli studi PrefHer e HannaH confermano dunque che

trastuzumab per via sottocutanea costituisce un'opzione validata e preferita alla

via endovenosa per migliorare il trattamento delle pazienti con tumore mammario

HER2-positivo.

3.3 Studio Time & Motion

Parallelamente allo studio PrefHer, è stato condotto un sottostudio osservazionale,

prospettico e multicentrico “Time and Motion” che ha voluto analizzare i tempi

impiegati dal personale sanitario nelle attività relative a ciascuna sessione di

trattamento delle pazienti. Poiché il costo ed il tempo diventano, una volta

appurati efficacia e tollerabilità della nuova formulazione, gli elementi

determinanti nelle scelte attuali e future.

Il tempo di trattamento per paziente viene calcolato come la somma dei tempi

medi di attività con trastuzumab ev rispetto a trastuzumab per via sottocutanea. Il

disegno dello studio è stato finalizzato a descrivere la significativa differenza nel

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tempo e nei costi tra l’infusione endovenosa e l’iniezione sottocutanea

(approssimativamente il tempo necessario per la preparazione e somministrazione

della formulazione endovenosa è 3 volte più lungo di quello richiesto con quella

sottocutanea).

Secondo lo studio, la nuova formulazione sottocutanea di trastuzumab per il

trattamento del carcinoma mammario HER2 -positivo, riduce sia i tempi di

somministrazione sia il tempo che il personale medico e infermieristico dedicano

alla terapia, contribuendo in questo modo ad aumentare l’efficienza dell’ospedale.

Ma non solo: quasi tutte le pazienti (92%) hanno preferito la formulazione

sottocutanea, perché meno invasiva.

Motivazioni principali della preferenza espressa sono:

Risparmio di tempo (si riduce del 58% il tempo trascorso dalle pz nell’unità di

oncologia e di 6volte la loro permanenza sedute in poltrona);

La somministrazione risulta meno invasiva e dolorosa, minori irritazioni;

Più confortevole, aumenta la compliance delle pz, riducendone lo stato d’ansia;

Migliora la qualità di vita delle pz.

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Obiettivo primario: quantificare i costi associati all’uso di risorse sanitarie

indispensabili per la somministrazione del trastuzumab sc nel trattamento di pz

con EBC HER2+ entro il setting dello studio PrefHer;

Obiettivo secondario: quantificare i costi associati al consumo di risorse sanitarie

per la preparazione e somministrazione di trastuzumab ev in pz con EBC HER2+

entro il setting dello studio PrefHer.Vivere con il carcinoma della mammella è

impegnativo ed è importante riuscire a condurre, durante il trattamento, una vita il

più normale possibile, questa consente di ottimizzare il tempo prezioso dei team

di assistenza sanitaria (risparmio di produttività e risorse).

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3.4 Studio SafHer

Studio di fase III prospettico, a due coorti, non randomizzato, multicentrico,

internazionale, in aperto, condotto su circa 2.500 pazienti affetti da EBC HER-2-

positivo, già sottoposti a escissione del tumore. Volto a valutare la sicurezza di

trastuzumab per via sottocutanea, in somministrazione assistita e

autosomministrazione, come terapia adiuvante, in pazienti affetti da tumore

mammario in fase iniziale, HER2-positivo, operabile.

Lo studio è volto, anche, a valutare la gestione ed il gradimento del dispositivo per

l’autosomministrazione e quale sia l’impatto di questo diverso metodo di

somministrazione sulla qualità della vita delle pazienti.

Obiettivo primario dello studio è valutare la sicurezza complessiva e la

tollerabilità di trastuzumab per via sottocutanea (sc) nel tumore mammario in fase

iniziale (EBC) HER- 2-positivo, in somministrazione assistita mediante siringa e

ago convenzionali (formulazione in flaconcino, già ricostituito) e in

somministrazione assistita con o senza auto-somministrazione mediante un

dispositivo di iniezione monouso (SID, Single-Use Device) del regime standard.

Gli obiettivi secondari dello studio consistono nella valutazione dei seguenti

parametri:

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Efficacia (entrambe le coorti) o Sopravvivenza libera da malattia (DFS, Disease-

Free Survival) o Sopravvivenza globale (OS, Overall Survival);

Soddisfazione dei pazienti relativa alla somministrazione sc di trastuzumab

mediante SID (pazienti della Coorte B passati all'auto-somministrazione del

farmaco in studio).

L'obiettivo esplorativo di questo studio è valutare l'immunogenicità di

trastuzumab e della ialuronidasi umana ricombinante (rHuPH20) in un

sottogruppo di pazienti trattati con trastuzumab per via SC mediante il dispositivo

SID (Coorte B) presso i centri selezionati.

Coorte A (circa 1.800 pazienti): trastuzumab SC a una dose fissa di 600 mg, in

somministrazione assistita nella coscia in un arco temporale massimo di 5

minuti, utilizzando siringhe manuali convenzionali con aghi ipodermici, per un

totale di 18 cicli (ogni 3 settimane);

Coorte B (circa 700 pazienti): trastuzumab SC a una dose fissa di 600 mg,

dapprima in somministrazione assistita, poi in auto-somministrazione (in un

gruppo di pazienti selezionati) nella coscia in un arco temporale massimo di 5

minuti, utilizzando un SID, per un totale di 18 cicli (ogni 3 settimane). Per

essere arruolati nella Coorte B i pazienti devono essere disposti ad auto-

somministrarsi il farmaco in studio seguendo le istruzioni fornite con il SID e

le istruzioni personalizzate fornite da un professionista sanitario durante la

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prima somministrazione assistita. Dopo almeno una somministrazione assistita

i pazienti ritenuti dallo sperimentatore in grado di auto-somministrarsi il

farmaco in studio utilizzando il SID potranno somministrarsi da soli le restanti

dosi SC di trastuzumab sotto diretta supervisione di un professionista sanitario.

Un sottogruppo di pazienti della Coorte B che avranno effettuato con successo

almeno 2 auto-somministrazioni del farmaco in studio dovranno compilare un

questionario sul grado di soddisfazione relativo al SID. Ai pazienti non ritenuti

in grado di autosomministrarsi il farmaco in studio tutte le dosi di trastuzumab

sc saranno somministrate da un professionista sanitario qualificato (medico o

infermiere).

Oltre alle valutazioni di efficacia e sicurezza, presso alcuni centri vengono svolti

anche test di farmacocinetica (PK) e immunogenicità per rilevare l'eventuale

sviluppo di autoanticorpi (HAHA) contro trastuzumab o rHuPH20 nei pazienti

trattati con trastuzumab per via sc mediante SID. I pazienti saranno sottoposti a

una visita di follow-up della sicurezza 4 settimane dopo aver ricevuto l'ultima

dose del trattamento in studio ed a un ulteriore follow-up secondo la Linea guida

del 2006 per il follow-up nel tumore mammario nel contesto adiuvante, emanata

dall'American Society of Clinical Oncology (Khatcheressian et al. 2006). Tutti i

pazienti saranno sottoposti a un follow-up per rilevare un'eventuale recidiva

tumorale e la sopravvivenza fino al termine dello studio (ossia fino a quando tutti i

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pazienti saranno stati sottoposti a un follow-up minimo di 24 mesi). Il follow-up

avrà una durata di almeno 24 mesi dopo l'ultima dose del trattamento in studio,

eccetto in presenza di una delle seguenti circostanze: revoca del consenso, perdita

al follow-up o decesso. Dopo progressione della malattia i pazienti saranno seguiti

secondo la prassi locale e sottoposti al solo follow-up della sopravvivenza.

Questo studio dovrebbe quindi fornire utili informazioni circa la tollerabilità ed

immunogenicità inerenti la formulazione sottocutanea. Poiché lo studio non si è

ancora concluso i dati tendo ad essere statisticamente, ancora, poco significativi

per poterli sfruttare per delle considerazioni.

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CONCLUSIONI

Trastuzumab sc, somministrato alla dose fissa di 600 mg (non richiede una dose di

carico) ogni tre settimane (tempo di infusione non superiore a 5 min), ha un

profilo farmacocinetico ed un’efficacia, in termini di pCR, non inferiori a

trastuzumab ev (le risposte del tumore alle due modalità di somministrazione del

farmaco sono sovrapponibili in termini di efficacia: 40,7% dei casi trattati per via

endovenosa verso 45,4% di quelli trattati con somministrazione sottocutanea), con

un altrettanto simile profilo di sicurezza. La somministrazione di trastuzumab sc

può, quindi, essere considerata quale valida alternativa terapeutica nel trattamento

delle neoplasie mammarie HER2-positive con un reale valore aggiunto. Inoltre,

non é previsto il calcolo della dose in funzione del peso del paziente. In più, la

paziente sembra sentire meno il carico psicologico di essere sottoposta a un

trattamento oncologico, andando incontro ad una maggiore compliance. Il

risparmio di tempo e la semplificazione della procedura rientrano sicuramente tra i

principali vantaggi. Intanto la somministrazione di trastuzumab per via

sottocutanea non richiede personale infermieristico specializzato; inoltre si

risparmia in termini di consumo di materiale e si evita l’errore del calcolo della

dose (trastuzumab sottocute si somministra a dose fissa). Inoltre, c’è meno lavoro

per le Unità di preparazione dei farmaci antiblastici della farmacia ospedaliera

(viene meno lo step della ricostituzione del farmaco, quindi della manipolazione

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dello stesso con un abbattimento dei rischi ad essa correlati). Infine, fatto non

certo trascurabile, non vi è più residuo di farmaco nel flaconcino, da scartare come

rifiuto ospedaliero e non esiste più la necessità di organizzare turni per

l’occupazione della sedia infusionale, evidenziando il netto risparmio relativo

all’impianto di dispositivi per la somministrazione endovenosa (cateteri centrali o

cateteri centrali ad inserzione periferica) che con la somministrazione sottocutanea

non risultano più necessari. Infine riducendo considerevolmente il tempo di

preparazione del farmaco e di somministrazione si potrebbe auspicare, per un day

hospital con alti volumi d'accesso, di trattare un numero molto più alto di pazienti,

rispetto all'infusionale, nello stesso arco di tempo. Non vi è attesa per la poltrona

d'infusione, somministrazione e degenza più brevi. Tutto ciò significa che le

donne trascorrono meno tempo in ospedale. Per il futuro si potrebbero prevedere

minori accessi ospedalieri, intravedendo la possibilità di trattamenti gestiti a

domicilio.

Il beneficio maggiore sarebbe, appunto, arrivare all’autosomministrazione, questa

è la prospettiva futura, magari la prima dose potrebbe essere praticata in ospedale

a maggiore garanzia e sicurezza della paziente, le successive a domicilio. Per

l'autosomministrazione dei farmaci molto dipenderà dagli Enti regolatori e dalla

'compliance' delle pazienti le cui preferenze, come evidenziato dallo studio

PrefHer, sono per circa il 90% delle donne, per la via sottocutanea. Risultati che

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dimostrano come la nuova formulazione sc di trastuzumab riduca effettivamente i

tempi di somministrazione ed in generale di gestione della paziente da parte del

personale sanitario medico ed infermieristico dedicato alla terapia contribuendo ad

un aumento dell’efficienza della struttura ospedaliera. Si determina una maggiore

aderenza terapeutica, in quanto ,la donna, costretta a convivere con tale patologia,

viene a trovarsi in una condizione meno disagiata, mostrando una diversa capacità

e forza psicologica di combattere questo male.

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