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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano Corso di Laurea in Medicina Veterinaria Dipartimento di Scienze Veterinarie per la Salute, la Produzione Animale e la Sicurezza Alimentare (VESPA) SPERIMENTAZIONE IN VITRO DELL’EFFETTO ACARICIDA E ACAROREPELLENTE DI ALCUNE PIANTE MEDICINALI IN USO PRESSO I CAMPI DI RIFUGIATI SAHRAWI IN ALGERIA Relatore: Chiar.mo Prof. Roberto VILLA Correlatore: Dr. Alberto ZORLONI Tesi di Laurea di: Carmen LAVANGA Matr. 554192 Anno Accademico 2011-2012

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO

Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano

Corso di Laurea in Medicina Veterinaria

Dipartimento di Scienze Veterinarie per la Salute, la Produzione

Animale e la Sicurezza Alimentare (VESPA)

SPERIMENTAZIONE IN VITRO DELL’EFFETTO

ACARICIDA E ACAROREPELLENTE DI ALCUNE

PIANTE MEDICINALI IN USO PRESSO I CAMPI DI

RIFUGIATI SAHRAWI IN ALGERIA

Relatore: Chiar.mo Prof. Roberto VILLA

Correlatore: Dr. Alberto ZORLONI

Tesi di Laurea di:

Carmen LAVANGA

Matr. 554192

Anno Accademico 2011-2012

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A Carmen

e ai suoi nonni

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I

INDICE

1. Introduzione 1

1.1 Conoscenze indigene, etnoveterinaria e fitoterapia 1

1.2 Contesto socio-politico 3

1.3 Contesto ambientale-veterinario 5

1.4 Ectoparassiti di frequente riscontro 7

2. Scopo del lavoro 10

3. Materiali e metodi 11

3.1 Interviste 11

3.2 Euphorbiaceae 13

3.3 Asclepiadaceae 17

3.4 Lattice 19

3.5 Citrullus colocynthis 21

3.6 Hammada scoparia 23

3.7 Cistanche phelypaea 24

3.8 Raccolta delle piante 25

3.9 Estrazione 26

3.10 Raccolta e conservazione delle zecche 28

3.11 Test di repellenza 29

3.12 Test di tossicità 30

4. Risultati 32

4.1 Test di repellenza 32

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II

4.1.1 Euphorbia officinarum ed Euphorbia balsamifera 32

4.1.2 Citrullus colocynthis 36

4.1.3 Pergularia tomentosa 39

4.2 Test di tossicità 48

4.2.1 Euphorbia officinarum ed Euphorbia balsamifera 48

4.2.2 Citrullus colocynthis 49

4.2.3 Pergularia tomentosa 53

5. Discussione 57

6. Bibliografia 59

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1. INTRODUZIONE

1.1 CONOSCENZE INDIGENE, ETNOVETERINARIA E

FITOTERAPIA

Il patrimonio delle conoscenze indigene, fino a poco tempo fa di quasi esclusivo

interesse antropologico, negli ultimi decenni è stato preso sempre più in

considerazione anche nell’ambito della ricerca scientifica e dei progetti di

cooperazione internazionale. Le varie osservazioni succedutesi nel corso degli anni

’90 (Warren, 1991; Johnson, 1992; Langill, 1999) hanno messo in rilievo come tali

conoscenze rivestano un notevole valore pratico e siano in continua evoluzione per

consentire alle varie comunità un costante adattamento alle spesso difficili condizioni

ambientali. Pertanto, un opportuno approfondimento, comprendente esperimenti di

validazione eseguiti secondo i parametri di una corretta metodologia della ricerca,

può fornire elementi utili a un loro migliore utilizzo e a un’eventuale riproducibilità

in altri contesti.

Per la notevole importanza che il rapporto uomo-animale ha sempre avuto nelle

varie società rurali, le pratiche veterinarie tradizionali, sia zootecniche che

preventivo-terapeutiche, sono fra gli argomenti di maggior interesse nell’ambito

delle conoscenze indigene (McCorkle, 1995). Riunite sotto il termine di

“etnoveterinaria”, tali pratiche sono inizialmente state accolte con un certo

scetticismo da una parte della comunità scientifica internazionale. Tuttavia, secondo

l’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa l’80% della popolazione mondiale

residente nei Paesi in via di sviluppo si appoggia costantemente alle cure tradizionali

(Plotkin, 1992), e un’analoga percentuale è riscontrabile anche in campo veterinario

(McCorkle et al.,1996). A seguito dell’esecuzione di studi scientifici

metodologicamente corretti, l’importanza della ricerca etnoveterinaria è oggi

universalmente riconosciuta e la sua utilità è stata estesa anche ai Paesi

industrializzati (Danø and Bøgh, 1999).

Sia in medicina umana che veterinaria, le pratiche tradizionali si basano in larga

parte sull’uso di sostanze fitoterapiche, mentre i prodotti di origine animale e

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minerale hanno un utilizzo proporzionalmente minore e spesso rivestono il ruolo di

estrattori, veicoli o eccipienti. Seppur molto meno efficaci rispetto ai farmaci

industriali, le preparazioni tradizionali hanno il vantaggio di poter essere preparate

sul posto, di non comportare consistenti esborsi in denaro, di presentare solitamente

effetti secondari di minor entità, di essere localmente ben conosciute e quindi

difficilmente assunte in maniera inappropriata, di non richiedere particolari

avvertenze riguardo al dosaggio e quindi di poter essere facilmente utilizzate anche

da chi non sa leggere e non dispone di utensili graduati. L’attività farmacologica di

un estratto vegetale è dovuta a un insieme di principi attivi e di coadiuvanti che

esplicano la loro azione in maniera composita. Pertanto, l’instaurazione di fenomeni

di resistenza risulta un’evenienza remota rispetto a quanto si osserva nel caso di

farmaci industriali basati sull’attività di singoli principi attivi. La loro rapida

metabolizzazione da parte dell’organismo, inoltre, minimizza i problemi legati ai

residui negli alimenti di origine animale (Eloff e McGaw, 2009). Non va infine

dimenticato che, soprattutto in contesti caratterizzati da uno scarso controllo da parte

degli organi istituzionali, il commercio del farmaco avviene per lo più attraverso

canali informali che non offrono alcuna garanzia di adeguato trasporto e

conservazione delle forniture farmaceutiche. Le cose sono poi aggravate dalla

presenza di organizzazioni illegali che contribuiscono alla diffusione di farmaci

scaduti, a volte contenenti una ridotta quantità di principio attivo, o addirittura falsi.

Un importante argomento a supporto della valorizzazione delle pratiche

etnoveterinarie è fornito dalla constatazione che la disgregazione sociale è una delle

cause principali di sottosviluppo. Con i notevoli cambiamenti osservati negli ultimi

anni a carico di parecchie società tradizionali, molte persone sono state private dei

punti di riferimento socio-culturali che avevano permesso loro di affrontare

contingenze avverse di vario tipo (periodi climatici sfavorevoli, epidemie, scontri

armati, ecc.). A causa dei confusi mutamenti ai quali sono state sottoposte, tali

società hanno perso le capacità tradizionali di un’autonoma risposta alle suddette

avversità, senza che venisse loro fornita un’effettiva possibilità di poter utilizzare

metodi e strumenti moderni. Pertanto, un numero crescente di individui si trova oggi

a incrementare la popolazione delle baraccopoli che gonfiano i centri urbani di varie

città africane, asiatiche o latinoamericane, o a cercare di emigrare illegalmente nei

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Paesi industrializzati. Di fronte al fallimento di molti progetti di sviluppo,

all’aumentata incidenza di emergenze umanitarie e alla drastica riduzione dei fondi

erogati per la cooperazione internazionale, risulta oggi più realistico cercare di

salvaguardare il più possibile le capacità locali di far fronte autonomamente alle

evenienze avverse.

1.2 CONTESTO SOCIO-POLITICO

La ricerca si è svolta in parte nei cosiddetti “Territori liberati” del Sahara

Occidentale (ex Sahara Spagnolo), in parte nei campi profughi della popolazione

sahrawi allestiti nell’estremità occidentale dell’Algeria.

Nel 1975, subito dopo l’ottenimento

dell’indipendenza dalla Spagna, il

territorio del Sahara Occidentale è stato

suddiviso fra Marocco e Mauritania. Per

tutta risposta, la popolazione di etnia

sahrawi ivi residente ha dato vita a un

movimento di lotta armata portato avanti

dal pre-esistente Fronte Polisario,

rivendicante l’indipendenza del Paese e il

riconoscimento dell’autoproclamata

Repubblica Araba Sahrawi Democratica

(RASD). Con il ritiro della Mauritania, nel

1979, il Marocco è divenuto l’unico Stato a occupare il territorio sahrawi. Nel 1984,

a seguito del riconoscimento della RASD da parte dell’Organizzazione dell’Unità

Africana, il Marocco per protesta è uscito da quest’ultima e, nonostante il parere

contrario delle Nazioni Unite, ha continuato a occupare il Paese. A causa dei

conseguenti scontri armati fra il Fronte Polisario e l’esercito marocchino, il Sahara

Occidentale si è trovato diviso in due parti di grandezza disuguale. Un’ampia fascia

affacciata sull’Oceano Atlantico è occupata dal Marocco, che ha provveduto a

installarvi più di 300mila persone. Si tratta della parte più ricca del territorio,

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caratterizzata dalla presenza di ingenti giacimenti di fosfati e da importanti risorse

ittiche. Una sottile area interna, invece, è costituita dai Territori liberati, presidiati

dalle milizie del Fronte Polisario che rivendicano l’indipendenza della RASD. Per

meglio separare le due zone, fra il 1982 e il 1987 il Marocco ha costruito un muro di

sabbia, variamente fortificato e protetto da campi minati e guardie armate, della

lunghezza di 2700 chilometri.

A partire dal 1990, le Nazioni Unite hanno cercato di organizzare un referendum che

consentisse alla popolazione locale di decidere fra l’indipendenza e l’annessione al

Marocco. Tuttavia, non si è mai riusciti a trovare un accordo sugli aventi diritto al

voto, a causa della fuga all’estero di molti sahrawi, dell’arrivo di un elevato numero

di marocchini trasferiti sul posto dalle autorità di Rabat, e dalla ferma opposizione di

queste ultime che non vogliono rinunciare allo sfruttamento delle importanti risorse

ittiche e minerarie della zona. Pur favorevole in linea di principio alle rivendicazioni

sahrawi, la comunità internazionale ha di fatto avallato l’attuale situazione. Infatti,

come ben ribadito anche in sede parlamentare italiana (Atto Camera 5/04003), risulta

politicamente inopportuno contrariare il Marocco per non rischiare di diminuire la

sua collaborazione nella lotta al terrorismo internazionale e nel controllo dei flussi

migratori verso l’Europa occidentale.

Pertanto, la posizione dei governi europei è quella di limitarsi a offrire supporto

umanitario alle ondate di profughi sahrawi che, a seguito dei combattimenti, si sono

rifugiati nei campi allestiti nell’ovest dell’Algeria, nei pressi della cittadina di

Tindouf. Si spera in tal modo che, con il passar del tempo, le nuove generazioni

sahrawi mettano da parte l’obiettivo dell’indipendenza e si accontentino

dell’autonomia regionale che il Marocco sembra disposto a concedere. Frattanto, le

150mila persone stipate in tali campi si sono ormai rassegnate a vivere di aiuti senza

poter offrire ai loro giovani altra scelta se non quella dell’emigrazione.

In un tale contesto, la salvaguardia di ogni risorsa autonoma assume una

fondamentale valenza sia socio-culturale che tecnico-pratica. Fra le numerose

Organizzazioni Non Governative (ONG) intervenute sul posto nel corso degli anni,

Africa 70, con sede a Monza, è stata quella che si è occupata elettivamente degli

interventi veterinari. Presente in loco dal 1999, ha iniziato a operare sulla base di una

missione di valutazione effettuata nel 1996 da alcuni membri dell Società Italiana

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Veterinari tropicalisti (SIVtro). Nel corso del suo impegno decennale, Africa 70 ha

maturato un’approfondita conoscenza della situazione locale e di quale dovessero

essere le priorità veterinarie in una realtà così complessa. In particolare, ha svolto

alcune indagini sulle pratiche etnoveterinarie sahrawi (Volpato, 2003, 2004 e 2006).

Su queste premesse, grazie a un finanziamento del Comune di Milano, nel 2009 ha

dato avvio al progetto di sviluppo denominato Salvaguardia e valorizzazione della

medicina tradizionale sahrawi, nell’ambito del quale è stata realizzata la presente

ricerca.

1.3 CONTESTO AMBIENTALE-VETERINARIO

Fin dai secoli remoti, l’uomo ha portato con sé

i propri animali durante i grandi trasferimenti di

popolazione. Tale fenomeno ha ovviamente

riguardato anche i sahrawi, la cui società

tradizionale è strutturata attorno alle regole

ancestrali che regolano il nomadismo pastorale

in varie parti dell’Africa. Non vi è dunque da stupirsi se nei campi profughi in

Algeria sono allevati circa 30mila ovini, altrettanti caprini e quasi 1700 dromedari; vi

sono poi circa 150 asini utilizzati soprattutto per il trasporto dell’acqua, 220 cani e

670 capi di pollame (censimento effettuato nel 2007 a cura della Direzione

Veterinaria Nazionale della RASD). La presenza di questi animali è importante sia

come fonte di proteine nobili sia per il profondo valore sociale che il bestiame

rappresenta per una civiltà imperniata su regole e valori di tipo pastorale.

Naturalmente, in un’ambiente desertico

caratterizzato da temperature fino a 50 °C,

da una piovosità inferiore ai 50-100 mm

annui e da una conseguente mancanza di

copertura erbosa, le sparute forme vegetali

presenti non consentono di soddisfare alcuna

esigenza foraggera. Pertanto, gli animali

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presenti nei campi vengono nutriti con gli scarti degli aiuti alimentari ricevuti per la

popolazione umana, la cui assenza di fibra spinge i ruminanti a ingerire stracci,

plastica e carta che si trovano sparsi un po’ ovunque.

Secondo i dati forniti dalla Direzione Veterinaria della RASD, le patologie di più

frequente riscontro negli animali allevati localmente sono causate dalle pessime

condizioni zootecniche, essendo infatti rappresentate per il 40% da ectoparassitosi

(favorite dal sovraffollamento e dalle cattive condizioni igieniche dei ricoveri

costruiti con materiali di recupero) e per il 32% da disturbi a carico dell’apparato

digerente, spesso esitanti in forme di clostridiosi (Broglia et al., 2005; Broglia e

Volpato, 2008).

Situazione un po’ migliore si presenta per i capi che, nelle due stagioni

relativamente piovose di settembre-ottobre e marzo-aprile, vengono spostati nei

Territori liberati e nel nord della Mauritania, dove si rinviene temporaneamente una

copertura vegetale discreta. Tuttavia, questi trasferimenti, unitamente all’arrivo nei

campi di un gran numero di ovini in occasione della festività dell’Aid El Adha

(celebrata, 70 giorni dopo la fine del Ramadan, con il consumo di carne ovina, a

ricordare la vicenda di Abramo e del figlio Isacco), non permettono di mantenere una

situazione epidemiologica stabile.

Oltre che attraverso la promozione di

migliori condizioni zootecniche

(obiettivo non certo agevole, trattandosi

di campi profughi), le patologie di

frequente riscontro sono combattute con

campagne vaccinali per limitare gli

episodi di clostridiosi, e, per quanto

riguarda le ectoparassitosi, l’utilizzo di

prodotti di sintesi fra cui soprattutto il Foxim (Sebacil®

), un estere fosforico che, a

parte le considerazioni sul costo, richiede di essere diluito in acqua alla

concentrazione opportuna e di essere applicato mediante l’uso di indumenti

protettivi; necessita inoltre di 18 giorni di sospensione prima della macellazione, e

non deve essere utilizzato negli animali in lattazione. Per evitare tali inconvenienti,

che riducono in maniera inopportuna la già limitata disponibilità di proteine animali,

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e sottopongono persone e animali a rischi di intossicazione, Africa 70, in

collaborazione con la Direzione Veterinaria della RASD, ha deciso di valutare

l’impiego di piante con proprietà acaricide già utilizzate nella medicina tradizionale

sahrawi.

1.4 ECTOPARASSITI DI FREQUENTE RISCONTRO

I parassiti esterni di maggiore riscontro nei campi profughi sahrawi sono

rappresentati da Hyalomma dromedarii e Sarcoptes scabiei nei dromedari, e da

Melophagus ovinus negli ovi-caprini. Fra le forme parassitarie considerate

localmente meno importanti, vanno ricordate le miasi nasali provocate dalle larve di

Cephalopina titillator (Volpato, 2006). Mentre gli altri parassiti non presentano

particolari peculiarità in loco, H. dromedarii costituisce un notevole esempio di

evoluzione biologica per far fronte a condizioni climatiche estreme.

Le zecche del genere Hyalomma, infatti, sono fra le meglio adattate ai climi aridi e

semiaridi in Africa, Asia ed Europa (Hoogstraal, 1956). Delle oltre 30 specie

conosciute, almeno la metà è vettore di agenti patogeni per l’uomo e gli animali. La

capacità di resistere a periodi secchi di lunga durata si è sviluppata sia mediante la

selezione di determinate caratteristiche anatomiche sia attraverso modificazioni del

comportamento e del ciclo vitale. Queste zecche presentano infatti un corpo

relativamente grande, in grado di poter resistere meglio alla disidratazione, e

un’appendice rostrale piuttosto lunga, così da poter penetrare in profondità anche in

parti di cute spessa. Sembra inoltre che abbiano maggiori capacità di assorbire

l’umidità dell’aria rispetto alle altre zecche ixodidi (Lees, 1946 e 1947; Hafez et al.,

1970; Kahl e Knülle, 1988). Grazie a queste eccezionali capacità di adattamento, la

dinamica della loro popolazione non viene influenzata dalla piovosità, dalla

temperatura e dall’umidità relativa (Al-Khalifa et al., 2002). Riescono a resistere per

lungo tempo nel suolo sabbioso, in attesa dell’arrivo di un ospite adatto.

Analogamente ad alcune specie del genere Amblyomma, grazie ai lunghi arti si

spostano attivamente verso l’ospite quando questi viene a trovarsi a due-tre metri di

distanza. Oltre alle vibrazioni del terreno, sembrano essere attivati anche dall’ombra,

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dall’odore e dall’anidride carbonica espirata dall’ospite (Barré et al., 1997). I

recettori chemio-olfattivi sono ubicati a livello di organo di Haller, sulla superficie

dorsale del tarso del primo paio di arti (Hess e Vlimant, 1986; Sonenshine et al.,

2002; Sonenshine, 2005).

H. dromedarii è diffuso nelle zone desertiche e semidesertiche dall’India all’Africa

boreale, ed è ritenuta la zecca ixodide meglio adattata alle regioni desertiche africane

(Pegram et al., 1981). Solitamente di colore marrone scuro, presenta lunghi arti con

anelli più chiari nella parte distale di ogni elemento tarsale (Hoogstral e Kaiser,

1958). Il maschio mostra quattro striature in leggero rilievo nella parte posteriore

dello scuto; si distingue dalle altre specie africane di Hyalomma per il fatto di avere

ampie placche subanali non allineate con quelle adanali, i peritremi incurvati e le

lunghe piastre stigmatiche che si prolungano dorsalmente. La femmina viene invece

differenziata per i margini del poro genitale a forma di V molto stretta (Walker et al.,

2003; Apanaskevich et al., 2008). Allo stadio adulto parassita principalmente il

dromedario, ma può incontrarsi anche su altri ruminanti, equini e cani. Sull’uomo,

invece, vengono rilevate con maggior frequenza le forme immature (Khalil et al.,

1981).

Il ciclo è solitamente a due o tre ospiti. Nel primo caso, il più frequente, l’ospite

dell’adulto è soprattutto il dromedario mentre gli stadi immaturi parassitano in

genere piccoli roditori, leporidi, istrici e uccelli, ma, soprattutto allo stadio ninfale,

possono ritrovarsi anche sugli stessi ospiti degli adulti. In aree particolarmente

secche, il ciclo può ridursi a un solo ospite (Berdyev, 1980). Le sedi preferite

dall’adulto sono il piatto delle coscie, le aree declivi, la mammella e la zona

perigenitale (Walker et al., 2003; Apanaskevich et al., 2008). Trattandosi di una

zecca relativamente grossa, che non di rado supera, nell’adulto digiuno, i 5 millimetri

di lunghezza (Apanaskevich et al., 2008), può causare dolori e zoppie (Hoogstraal,

1985), nonché diversi gradi di anemia e perdita di peso (Pegram e Osterwijk, 1990;

De Castro et al., 1997). Nelle soluzioni di continuo, provocate a livello cutaneo,

possono penetrare Dermatophilus congolensis (Al-Shammery e Fetoh, 2011),

responsabile della dermatofilosi bovina, ed essere deposti vari agenti di miasi

(Minjauw e Mcleod, 2003).

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H. dromedarii può essere vettore di parassiti ematici, e la trasmissione trans-stadiale

di Theileria annulata è stata osservata (Bhattacharyulu et al., 1975; Um el Hassan et

al., 1983). Leibisch et al. (1989) lo considerano possibile vettore di theileriosi

bovina, così come Soulsby (1986) e Hamed et al. (2011) lo ritengono vettore di

Theileria camelensis. Babesia ovis e Theileria ovis sono state isolate dalle ghiandole

salivari (Mazyad e Khalaf, 2002), mentre Al-Khalifa et al. (2002) riportano

l’isolamento di tripanosomi e di Coxiella burnetii, agente della Febbre Q.

Analogamente, l’isolamento di varie specie di Theileria, Babesia e Anaplasma è

stato riportato da El Kady (1998). Può inoltre albergare Rickettsia prowazeki (Bird et

al., 1967), R. aeschlimannii e R. africae (Morita et al., 2004). In Africa settentrionale

è vettore di Babesia caballi e Theileria equi (ex Babesia equi), gli agenti della

piroplasmosi equina (Brandt, 2009). Awad et al. (1981) sono riusciti a realizzare la

trasmissione della peste equina tramite adulti di H. dromedarii portatori del virus,

osservando anche un passaggio trans-stadiale ma non trans-ovarico. Può infine

veicolare l’agente della febbre emorragica Crimean-Congo (EFSA, 2010), il Bhanja

virus (Hubálek, 2009) e altre arbovirosi umane e animali con sintomatologia analoga

(Hoogstraal, 1979; Hogstraal et al., 1981; Khalil et al., 1981). I nomadi sahrawi,

tuttavia, non considerano molto importanti le malattie veicolate da zecche (Volpato,

2006).

Hyalomma dromedarii - maschio Hyalomma dromedarii - femmina

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2 SCOPO DEL LAVORO

Il recupero delle pratiche tradizionali del popolo sahrawi, attraverso prove

scientifiche atte a supportare la loro reale efficacia, consentirebbe di conservare

conoscenze antiche e preziose, offrendo nuovi punti di riferimento e fiducia in una

cultura messa a dura prova dalla condizione di rifugiati in cui si trovano a vivere.

La validazione scientifica derivante dalle prove di laboratorio porterebbe a vantaggi

economici, permetterebbe ai veterinari locali di preparare composti fitoterapici

efficaci, senza la necessità di dipendere dagli aiuti umanitari o dall’acquisto di

farmaci molto costosi dall’estero.

Un’approfondita conoscenza dell’attività farmacologica delle piante locali ne

consentirebbe un corretto impiego terapeutico, evitando gli effetti tossici derivanti da

un uso improprio di farmaci commerciali.

Scopo del nostro lavoro è stato pertanto quello di:

indagare sulle piante utilizzate dai pastori nomadi sahrawi per la cura del bestiame,

in particolare quelle contro gli ectoparassiti;

verificare le proprietà acaricide e acaro repellenti di alcune piante indicateci dai

pastori sahrawi, selezionando quelle più facilmente reperibili sul territorio;

raccogliere informazioni utili per future sperimentazioni in vitro e in vivo.

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3 MATERIALI E METODI

Nella scelta dei materiali e metodi impiegati, si è deciso di optare per strumentazioni

e tecniche facilmente riproducibili in loco. La sperimentazione è infatti avvenuta nel

piccolo laboratorio della Direzione Veterinaria Nazionale (sita nel campo profughi di

Rabuni, nell’Algeria occidentale) in collaborazione con il personale locale. Oltre

all’obiettivo della valutazione dell’efficacia acaricida e acaro-repellente delle specie

vegetali utilizzate dai guaritori tradizionali sahrawi, lo scopo del lavoro è stato quello

di verificare se e in quale misura fosse possibile eseguire, al riguardo, una

sperimentazione scientificamente corretta in un contesto particolarmente disagiato

come quello in questione.

3.1 INTERVISTE

Per meglio apprendere i sistemi tradizionali

usati dai nomadi sahrawi nel controllo delle

ectoparassitosi, nel mese di aprile 2009 è stata

effettuata una missione investigativa nei

Territori liberati. Trattandosi di una zona

occupata dai militari della RASD, ogni

spostamento è avvenuto previa autorizzazione

delle autorità competenti e con l’accompagnamento dei militari stessi, esperti

conoscitori di quella zona desertica, degli spostamenti dei nomadi e dell’eventuale

presenza di mine o altri pericoli legati al conflitto. I pernottamenti sono stati

effettuati in piccole caserme militari, in punti d’appoggio siti nei pressi di riserve

idriche o nelle tende dei nomadi intervistati. Oltre che per le precarie condizioni di

alloggio, la missione si è rivelata particolarmente ardua per le difficili condizioni

climatiche, essendo pressoché sempre stati accompagnati da un forte vento. Gli

spostamenti, benché avvenuti in fuoristrada, sono risultati faticosi, sia per le asperità

del terreno che per le lunghe distanze; forature, problemi meccanici e difficoltà di

orientamento hanno fatto il resto.

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In totale sono state intervistate 14 persone (10 uomini e 4 donne), ognuna di esse

esperta in terapie tradizionali veterinarie. Trattandosi di nomadi, i trasferimenti fra

l’una e l’altra hanno richiesto molto tempo. Per le interviste, avvenute in hassaniya

(la lingua locale, utilizzata anche in Mauritania e in parte dei Paesi confinanti), ci si è

avvalsi di un traduttore che parlava anche lo spagnolo. La metodologia scelta è stata

quella delle domande aperte, a partire però da una traccia di intervista, secondo la

modalità sviluppatasi a partire dalle esperienze di Rensis Likert (Converse e

Schuman, 1974; Converse, 1984; Tusini, 2006). In tal modo si è cercato di conciliare

due opposte esigenze: quella di raccogliere il più ampio ventaglio di informazioni

nell’unità di tempo, e quella di evitare che gli intervistati divagassero troppo.

A seguito delle interviste, si è appreso che le piante più utilizzate nel controllo delle

ectoparassitosi appartengono alle Euphorbiaceae (Euphorbia balsamifera, E.

officinalis ed E. calyptrata) e alle Asclepiadaceae (Pergularia tomentosa e

Calotropis procera), due famiglie che condividono un abbondante presenza di lattice

in quasi tutte le specie. Citrullus colocynthis (Cucurbitaceae), Hammada scoparia

(Chenopodiaceae) e Cistanche phelypaea (Orobanchaceae), specie prive di lattice,

sono invece ritenute efficaci dopo aver assunto una consistenza lattiginosa, in

particolar modo attraverso la decozione, e impiegate soprattutto per trattare la rogna.

L’osservazione che il succo di C. colocynthis dovesse venir riscaldato prima

dell’utilizzo nel trattamento della rogna del dromedario era del resto già presente

nell’Erbario Figurato di Giovanni Negri (1948). Inoltre, nel secondo libro biblico dei

Re, il colocinto ha la proprietà di rendere immangiabili le preparazioni cotte in

pentola (Scarpa, 2009).

Fra le specie utilizzate solo sporadicamente, vi sono Atriplex halimus, Cleome

amblyocarpa, Senecio anteuphorbium, Lycium intricatum e Launaea spp. A queste

va aggiunto Mesembryanthemum theurkauffii che, solitamente usato nei casi di

dermatomicosi, viene talvolta impiegato contro i pidocchi. In aggiunta a quelle

indicate da noi, Volpato (2006) segnala anche altre piante utilizzate dai sahrawi nella

terapia della rogna: Acacia tortilis, Anabasis articulata, Euphorbia granulata, Rhus

tripartita, Salsola tetraendra, Terfezia ovalispora e Zygophyllum gaetulum.

Risulta evidente che i nomadi sahrawi hanno imparato a utilizzare piante diverse

così da accrescere le probabilità di trovarne di adatte in un contesto ambientale arido.

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In generale, per il controllo delle ectoparassitosi indicano come efficaci le piante

contenenti lattice, e talvolta considerano la quantità di quest’ultimo come

direttamente proporzionale all’effetto acaricida o insetticida. Vengono utilizzate

anche piante con lattice in quantità molto limitata o addirittura assente, ma in tali casi

esse vengono sottoposte ad aggiunta di oli o grassi animali o vegetali, oppure trattate

in modo da fare loro assumere una consistenza lattiginosa. A questo proposito, la

decozione è a volta preceduta da un abbrustolimento delle foglie. Considerato il forte

accento posto dai guaritori tradizionali sull’importanza del lattice nei preparati

acaricidi, si può ipotizzare che questi ultimi esplichino un’azione almeno in parte

meccanica.

Analogamente, i guaritori stessi attribuiscono eventuali effetti antimicotici alla

presenza di sostanze gelatinose naturalmente presenti nei vegetali raccolti, o

formatesi a seguito di decozione o infusione.

3.2 EUPHORBIACEAE

Le Euphorbiaceae sono una delle maggiori famiglie di piante fiorenti, annoverando

più di 8000 specie e oltre 300 generi. Fra questi, il genere Euphorbia è molto

cospicuo, comprendendo oltre 2000 specie, parecchie delle quali succulente

(Webster, 1994). Il nome deriva dal greco Euforbo, medico di re Giuba II della

Mauritania romana (sita nella parte settentrionale dell’attuale Marocco) (Plinio il

Vecchio, 77), con il significato di “ben nutrito”, e potrebbe derivare dall’aspetto

succulento di alcune piante. La variabilità morfologica delle euforbie è molto ampia,

con specie di apparenza erbacea, arbustiva o arborea. La maggior parte si ritrova

nelle zone tropicali e subtropicali di Africa e America.

A prescindere dagli aspetti alquanto diversi, sono per lo più accomunate dalla

presenza di lattice biancastro, caustico e irritante, che cola dalle lesioni della pianta e

coagula dopo alcuni minuti di esposizione all’aria. Il lattice consiste in un’emulsione

appiccicosa e opaca che essuda in seguito a un danno tissulare dei tessuti vegetali.

Può ritrovarsi in ogni parte aerea della pianta (ma in molti casi anche a livello

radicale) e, a differenza delle resine, non proviene da spazi intercellulari ma da

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cellule specializzate, chiamate latticiferi (Mahlberg, 1993), che formano strutture

simil-vascolari e sono presenti in oltre 20mila specie fiorenti (Metcalf, 1967; Farrell

et al., 1991; Hunter, 1994), cioè nel 6% di quelle presenti nei climi temperati e nel

14% di quelle che crescono in ambiente tropicale (Lewinsohn, 1991).

Le piante del genere Euphorbia sono in genere molto resistenti alla siccità e alle

malattie, richiedono una cura minimale quando coltivate e si adattano facilmente a

vari tipi di suolo, compreso quelli a salinità relativamente elevata (Gogerty, 1977). In

coltivazione, si riproducono facilmente attraverso le parti potate, ma bisogna avere

l’accortezza di lasciare che il lattice secchi completamente sulla superficie di taglio,

prima di ripiantare la parte nel terreno (Calvin, 1980).

Il lattice di Euphorbia spp. contiene alcaloidi, terpenoidi, diversi metaboliti e

numerosi composti ad azione enzimatica (Webster, 1994; Langenheim, 2003).

L’effetto combinato di queste sostanze è ritenuto fornire un importante contributo

alla difesa della pianta nel respingere e uccidere organismi fitopatogeni, e nel

riparare le parti lesionate (Ko et al., 2003; Pintus et al., 2010; Medda et al., 2011). Il

lattice coagula rapidamente dopo esposizione all’aria (Agrawal e Konno, 2009).

Il lattice di Euphorbia spp. è ricco anche di triterpeni (Mazoir et al., 2008), alcuni dei

quali hanno mostrato proprietà citotossiche (Smith-Kielland et al., 1996),

antinfiammatorie (Fernandez-Arche et al., 2010), antiprotozoarie (Mazoir et al.,

2011) e molluschicide (Mata et al., 2011), queste ultime sostenute anche da diterpeni

(Singh et al., 2010).

La combinazione di esteri di- e triterpenici è variabile fra le specie, determinando i

conseguenti diversi livelli di tossicità. Venendo a contatto con le mucose animali, e

in una certa misura anche con la cute, il lattice di Euphorbia spp. causa fenomeni

infiammatori molto dolorosi (Freitas et al., 1981; Webster, 1986). Soprattutto nel

caso di certe specie, sono sufficienti quantità davvero minime a causare notevoli

complicanze flogistiche a occhi e gola, a volte anche solo a seguito di particelle

inalate durante operazioni di potatura in serre o altri ambienti chiusi. Comprendendo

anche varie frazioni insolubili, piccole parti di lattice coagulate su abiti o suppellettili

possono provocare severi fenomeni di irritazione anche a distanza di tempo. Per

rimuovere tali sostanze non è sufficiente l’acqua, ma è necessario impiegare

emulsificanti come sapone o latte.

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Il lattice di Euphorbia favorisce la crescita dei tumori. Può causare vomito e crampi

allo stomaco, arrivando fino alla perforazione gastrica o intestinale (Bigoniya et al.,

2010).

Il tipo di incidente relativo al lattice di Euphorbia spp. riportato con maggior

frequenza in letteratura consiste in un suo contatto accidentale, diretto o indiretto

(tramite mani o abiti non adeguatamente lavati), con gli occhi. Il quadro clinico è

generalmente quello di una cherato-uveite molto dolorosa, con conseguente

compromissione della capacità visiva, arrossamento ed edema della congiuntiva, e

rigonfiamento delle palpebre; tali sintomi regrediscono di solito completamente

nell’arco di 1-2 settimane (Eke et al., 2000; Basak et al., 2009). Al riguardo, viene

raccomandato un lavaggio con ringer lattato, seguito da un trattamento locale con

antibiotici e corticosteroidi (Hsueh et al., 2004; Merani et al., 2007; Lam et al.,

2009). Karimi et al. (2010) hanno riportato i benefici effetti astringenti e anti-

infiammatori dell’applicazione topica di un cataplasma di patate, come terapia di

supporto.

Nel meccanismo di difesa delle Euphorbiaceae attraverso il lattice, in combinazione

con fosfatasi e amino-ossidasi, sembrano avere particolare importanza alcuni enzimi

ad azione perossidasica in grado di proteggere la cellula vegetale nelle situazioni di

stress ossidativo con conseguente formazione di perossido d’idrogeno,

potenzialmente dannoso al DNA e alle proteine. Allo stesso tempo, l’azione

regolatrice delle perossidasi risulta fondamentale poiché il perossido d’idrogeno

modula la produzione di proteine vegetali implicate nella difesa da fitopatogeni, e

stimola la chiusura degli stomi in situazioni di siccità (Medda et al., 2003; Mura et

al., 2005; Pintus, 2008; Pintus et al., 2011).

Riguardo ai composti terpenici, il contributo all’azione tossica del lattice è dovuto in

gran parte ai diterpeni, soprattutto quelli con scheletro di tipo abietanico, tigliano e

ingenano (Shi et al., 2008). In particolare, l’effetto altamente irritante sembra dovuto

all’azione della resiniferatossina (Szallasi e Blumberg, 1989 e 1990; Appendino e

Szallasi, 1997), un diterpene capsaicina-analogo (attivo quindi sui recettori

vanilloidi, importanti modulatori dei meccanismi nocicettivi) (Yang et al., 2010)

isolato nel 1975 da E. resinifera (Hergenhahn et al., 1975). A differenza degli esteri

del forbolo e dell’ingenolo, anch’essi diterpeni contenuti nelle Euphorbiaceae

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(Opferkuch ed Hecker, 1982; Hergenhahn et al., 1984; Vogg et al., 1999), la

resiniferatossina non ha effetti favorenti la crescita dei tumori (Driedger e Blumberg,

1980).

E. officinarum ha un caratteristico aspetto

cactiforme, e nel Sahara occidentale si

trova spesso addossata a grossi blocchi di

pietra. I sahrawi la chiamano daghmus e,

preparata in diversi modi, la assumono per

via orale nella cura di un’ampia varietà di

affezioni: digestive, respiratorie ed

elmintiche (a seguito delle forti contrazioni intestinali che provoca). L’uso topico,

invece, è ritenuto utile per trattare i problemi cutanei in

generale (Volpato, 2008).

E. calyptrata ha invece un aspetto erbaceo e, nell’area

sahariana, cresce soprattutto in corrispondenza delle

zone declivi in cui, durante le sporadiche piogge, viene

a raccogliersi una certa quantità di acqua. Localmente

viene chiamata rammadah. I sahrawi la impiegano nei

casi di affezioni respiratorie, e le riconoscono anche

proprietà digestive e lassative; inoltre, la utilizzano

topicamente per alleviare i dolori articolari o reumatici (Volpato, 2008).

E. balsamifera, il cui nome locale è

fernan, si presenta come un arbusto dal

fusto legnoso e dalla fitta ramatura; ogni

ramo termina con una rosetta di foglie

oblunghe. Fra le Euphorbiaceae utilizzate

dai sahrawi, è forse quella più

strettamente associata ai trattamenti

contro i parassiti esterni. A tale proposito, ci è stata indicata da ben 10 delle 14

persone da noi intervistate.

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3.3 ASCLEPIADACEAE

Le Asclepiadaceae sono una grande famiglia comprendente circa 250 generi e 2000

specie botaniche (erbe, liane e cespugli, più raramente alberi veri e propri), presenti

soprattutto in ambiente tropicale e subtropicale, pressoché tutte produttrici di un

lattice biancastro (Wiart, 2006). Quest’ultima caratteristica rende ragione del nome

(milkweed) con cui vengono comunemente indicate alcune di tali piante in lingua

inglese, mentre il nome scientifico deriva da Asclepios, il dio greco della medicina

(Morhardt e Morhardt, 2004). Sulla base di studi genetici, alcuni autori suggeriscono

di classificarle come una sottofamiglia delle Apocynaceae (Sennblad e Bremer,

1996). Sono facilmente coltivate a partire dagli steli recisi (Bailey e Bailey, 1976).

Pergularia tomentosa, chiamata localmente

ghalqa, è un arbusto di circa un metro di

altezza, presente sia nei terreni sabbiosi che in

quelli pietrosi di tutto il Sahara (Volpato,

2008). Nei dintorni dei campi di rifugiati

sahrawi, si riscontra spesso in corrispondenza

dei punti di scarico e di accumulo di materiale

organico (Volpato, 2003). Il nome del genere

si riferisce alla facilità con cui i suoi rami

flessibili possono essere intrecciati per fabbricare pergolati, mentre quello della

specie indica la fine peluria che ne ricopre gli steli e le foglie.

Calotropis procera, che i sahrawi chiamano tursha, è un grosso arbusto che può

superare i tre metri di altezza, originario

dell’Africa e del Medio Oriente ma oggi

rinvenibile anche in America Latina e

nelle isole caraibiche (Rahman e

Wilcock, 1991). Il nome del genere

deriva dal greco, e significa “di

bell’aspetto”, mentre quello della specie

vuol dire semplicemente “alta”.

Il lattice di C. procera contiene proteasi

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ad attività coagulante (Shivaprasad et al., 2009 e 2011), tradizionalmente utilizzate

anche come caglio vegetale (Raheem et al., 2007).

C. procera e P. tomentosa hanno mostrato attività antifungina e molluschicida,

dovute alla presenza di cardenolidi (Larshini et al., 1997; Hussein et al., 1999;

Bekheet et al., 2011) con proprietà citotossiche (Sehgal et al., 2006; Piacente et al.,

2009; Al-Sarar et al., 2012). L’attività insetticida di entrambe le piante è stata

ampiamente documentata (Samira et al., 2004; Rashmi et al., 2011). In aggiunta,

hanno mostrato proprietà antibatteriche (Dangoggo et al., 2002; Nenaah e Ahmed,

2011) e anticancerose (Al-Said et al., 1989; Choedon et al., 2006, Hamed et al.,

2006). C. procera è stata indagata per i suoi effetti analgesici (Dewan et al., 2000),

antinfiammatori (Alencar et al., 2004) ed epatotossici (Padhy et al., 2007).

L’avvelenamento da tannini contenuti in P. tomentosa e utilizzati nei processi di

concia tradizionale delle pelli, è stato segnalato da Abiola et al. (2003) nei ruminanti

in Niger.

P. tomentosa, molto comune in tutto il deserto del Sahara, è una delle piante meglio

conosciute e utilizzate nella farmacopea tradizionale sahrawi. Il suo uso più noto è

quello che avviene nei casi di morso di serpente, applicando un composto di foglie

sulla ferita. Tra i nomadi sahrawi, infatti, è molto diffuso un aneddoto, che riferisce

della lotta tra un varano (Varanus griseus), del quale si conosce l’utilizzo della coda

come arma di difesa e offesa, e un serpente velenoso (Cerastes cerastes). Secondo

questo racconto, il varano si rifugerebbe sotto un cespuglio di P. tomentosa per

strofinare la coda, ferita durante il combattimento, contro i rami della pianta, così da

favorire l’emissione di lattice. L’azione terapeutica di quest’ultimo permetterebbe al

varano di tornare, dopo ogni morso, alla lotta contro il serpente. A volte, tuttavia, il

medesimo racconto fa riferimento anche ad altre piante contenenti lattice (Volpato,

2008).

I pastori strofinano le foglie sul pelo dei ruminanti per combattere la rogna, mentre

altri ritengono che integrare la dieta del dromedario con P. tomentosa favorirebbe la

guarigione da tale parassitosi. Alcuni pestano le foglie nel mortaio e le strofinano

sulla cute dell’animale infestato da pidocchi.

In medicina umana, questa pianta trova applicazione nei processi infiammatori delle

vie respiratorie profonde, come polmoniti, bronchiti, pleuriti, e nella tosse

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persistente. Le foglie e gli steli vengono fatti essiccare per preparare decotti da

consumarsi giornalmente per sette giorni. Frizioni e cataplasmi di foglie di P.

tomentosa sono utilizzati contro le punture di insetti e per rinforzare la crescita dei

capelli. Decotti e impiastri trovano applicazione nei vari disturbi dermatologici,

come ascessi, foruncoli, ulcere, cisti, eczema, acari, tigna, rogna, orticaria e prurito.

P. tomentosa, macinata o in pasta, applicata nelle narici combatterebbe la cefalea,

così come il succo ottenuto dalle foglie o le gocce di lattice instillate nel sacco

congiuntivale. Le radici macerate avrebbero invece un’azione rigenerante e

stimolante nei casi di cachessia e astenia. Il lattice applicato sulla mammella

favorirebbe la produzione di latte.

I sahrawi forniscono ai dromedari piccole quantità di P. tomentosa e C. procera con

il duplice scopo di somministrare un complemento alimentare e, allo stesso tempo,

un prodotto in grado di tenere bassa la carica elmintica intestinale (Volpato, 2004).

Tuttavia, nei casi di abbondante somministrazione, la tossicità dei cardenolidi e degli

alcaloidi contenuti in queste piante può esitare in forme di intossicazione anche

mortali (Volpato, 2006). Degno di nota è il fatto che il dromedario accetta di

assumere queste piante solo se essiccate.

3.4 LATTICE

Essendo evidente l’effetto difensivo del lattice sugli artropodi erbivori, il suo

utilizzo nella lotta ad acari e insetti è molto diffuso nelle varie culture tradizionali ed

è stato ampiamente preso in esame dalla ricerca scientifica. La grande difformità di

risultati, variabili a seconda della specie

vegetale e dell’artropodo considerato, è dovuta

all’elevato numero e diversa concentrazione di

principi attivi nei lattici delle diverse piante

(Konno, 2011). Si possono dunque osservare

effetti per lo più di tipo tossico, oppure

deterrente, o ancora prevalentemente meccanico,

dovuti questi ultimi all’elevata appiccicosità del

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lattice (Agrawal e Konno, 2009). Tale molteplicità di effetti è ben conosciuta nelle

culture tradizionali e sfruttata a fini pratici. Ad esempio, i pigmei congolesi del

gruppo Akoa utilizzano il lattice di Euphorbia spp. con il duplice intento di

aumentare la tossicità delle preparazioni velenose e di farle meglio aderire alla punta

delle frecce utilizzate per la caccia (Jones, 2007).

L’appiccicosità del lattice è dovuta alla presenza di gomma naturale (cis-1,4-

polyisoprene), responsabile anche del colore biancastro. Coagulando rapidamente a

contatto con l’aria, le particelle di gomma risultano molto efficaci nel riparare le

ferite vegetali (Bauer e Speck, 2011) e nell’aderire al corpo degli invertebrati

(Agrawal e Konno, 2009). A seguito di tale adesione, il lattice blocca i movimenti sia

locomotori che buccali degli artropodi, impedendo loro

di nutrirsi della pianta stessa. Pertanto, alcuni insetti

erbivori hanno selezionato una modalità di interruzione

dei dotti latticiferi con conseguente riduzione della

pressione al loro interno e quindi della quantità di

lattice che affluisce, in modo da potersi alimentare con

le parti vegetali a valle della soluzione di continuo

(Dussourd e Eisner, 1987). La coagulazione del lattice è

un processo mediato dalla presenza in esso di lecitine e

altre proteine ad azione legante sui carboidrati, solitamente tossiche per gli insetti

(Van Damme et al., 1998; Fouquaert et al., 2008).

Oltre che attraverso il meccanismo di adesione, il lattice interviene danneggiando la

cuticola e vari tessuti degli insetti a seguito dell’azione di enzimi ad attività

proteolitica e antiossidativa (Van der Hoorn e Jones, 2004; Domsalla e Melzig, 2008;

Agrawal e Konno, 2009; De Freitas et al., 2010; Upadhyay, 2011). L’azione

insetticida di tali enzimi è stata ben documentata per diversi tipi di lattice, fra cui

quello di C. procera (Freitas et al., 2007; Ramos et al., 2007).

Nelle Euphorbiacee sono state segnalate polifenol ossidasi

(Wititsuwannakul et al., 2002), fosfatasi e chitinasi (Lynn e

Clevette-Radford, 1987).

I sahrawi indicano con il termine Umm Lbena (Madre del

Latte) molte piante contenenti lattice, fra cui le

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Euphorbiaceae, le Asclepiadaceae e le Asteraceae del genere Launaea. Tuttavia,

nella lotta contro le zecche, non si affidano solo alle proprietà meccaniche del lattice:

Volpato (2006) segnala anche la pratica di fumigazioni trisettimanali eseguite con

acqua salata nella quale sono state bollite E. balsamifera e P. tomentosa.

3.5 CITRULLUS COLOCYNTHIS

Citrullus colocynthis è una cucurbitacea

che cresce nei suoli aridi e semi-aridi dal

sub-continente indiano all’Africa

settentrionale (IUCN, 2005). È

caratterizzato da steli striscianti e grossi

frutti, duri e amari, responsabili sia del

nome del genere (per la similitudine con

grossi limoni) sia del nome comune in

lingua inglese: bitter apple. Il nome

della specie, invece, deriva dal latino

colo (che qui può essere inteso nei suoi molteplici significati di abitare, coltivare e

venerare) e Cynthus (il monte dell’isola di Delo su cui sarebbe nato Apollo, che per

tale motivo era chiamato anche Cynthius). Interessante anche il nome dato alla pianta

dai sahrawi: hadgit lehmar, cioè “melone dell’asino”, a indicare la specie animale

che non disdegna cibarsene. Hendrickx et al. (2004) segnalano d’altronde che, in

Egitto, solo gli asini assumono tale frutto, ignorato invece dagli ovi-caprini.

Precisano inoltre che, in forma immatura, può essere conservato per un paio di mesi

senza perdere del tutto la propria umidità. Questa osservazione conferma la difficoltà

da noi incontrata nei relativi processi di essiccazione.

La pianta è facilmente coltivabile a partire dai semi, e il terreno non richiede

particolari attenzioni. Contiene un’apprezzabile quantità di alcaloidi, saponine,

flavonoidi e componenti fenolici, e possiede anche un alto contenuto minerale e

vitaminico, dovuto soprattutto alla presenza di riboflavina, tiamina e acido ascorbico

(Sultan et al., 2010).

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In medicina tradizionale, viene molto usata come lassativo irritante (IUCM, 2005).

C. colocynthis ha destato un largo interesse per i suoi effetti ipoglicemizzanti

(Agarwal et al., 2012; Patel et al., 2012; Rekha e Naidu, 2012), dovuti a componenti

saponosidici (Houcine et al., 2011). Inoltre, ha mostrato proprietà antitumorali

(Kumar et al., 2011; Ayyad et al., 2012), antimicrobiche (Marzouk et al., 2010a;

Najafi et al., 2010; Sharma et al., 2010; Marzouk et al., 2011b), antifungine

(Marzouk et al., 2010a), antinfiammatorie e analgesiche (Marzouk et al., 2010b;

Marzouk et al., 2011a).

La bollitura del colocinto, fino a ottenere un composto denso da utilizzare per

combattere le pediculosi animali, viene effettuata anche in alcune zone aride del

Pakistan (Arshad et al., 2002).

L’effetto acaricida di preparazioni simili è segnalato in varie parti dell’Africa

settentrionale (Curasson, 1947; Naegelé, 1950; Osborn, 1968; Bernus, 1969; Boulos,

1983; Agab, 1998; Hammiche e Maiza, 2006). Proprietà insetticide del colocinto

sono state riportate da Rahuman (2011).

I sahrawi ne utilizzano i semi bolliti, essiccati e poi pelati, per produrre una farina da

consumarsi nei periodi di carenza alimentare.

Inoltre, per trattare le infezioni genito-urinarie

maschili e i parassiti intestinali, ne assumono

anche il frutto, dopo averlo bollito e reso meno

amaro mescolandolo con farina di frumento

(Volpato, 2008). Degno di nota il fatto che

analogamente, nella Bibbia, il profeta Eliseo

rende commestibile una minestra contenente colocinti, aggiungendovi della farina

(Scarpa, 2009). Il succo dei frutti viene bollito dai sahrawi per effettuare delle

inalazioni utili al trattamento delle forme respiratorie (Volpato, 2008).

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3.6 HAMMADA SCOPARIA

Hammada scoparia è una chenopodiacea

arbustiva mediterranea, diffusa anche nel

Medio-Oriente e molto comune in tutta l’area

sahariana nord-occidentale (Ben Salah et al.,

2002; Volpato, 2008). Presenta rami

succulenti con foglie atrofizzate e fuse fra

loro sugli steli, mentre i fiori sono privi di

petali e si addensano a formare piccole estremità appuntite (IUCN, 2005). Il nome

del genere deriva dal termine arabo con cui viene indicato il deserto pietroso, mentre

il nome della specie indica la facilità con cui si possono fabbricare ramazze a partire

dai suoi rami essiccati. La pianta ha dimostrato avere proprietà antiossidanti ed

epatoprotettive (Bourogaa et al., 2012), nonché contenere alcaloidi ad azione

molluschicida (Mezghani et al., 2009), antimicrobica, antiplasmodica e antivirale

(El-Shazly e Wink, 2003). Possiede anche flavonoidi ad azione antitumorale (Ben

Salah et al., 2002; Bourogaa et al., 2011). Inoltre, il suo estratto acquoso ha mostrato

proprietà larvicide (Sathiyamoorthy et al., 1997). Sintomi nervosi con tremori agli

arti, accompagnati da debolezza, sono stati segnalati nei casi di avvelenamento

animale (IUCN, 2005).

In tutto il Nordafrica viene chiamata remth, e

i sahrawi la utilizzano sottoforma di infuso per

alleviare i dolori reumatici e articolari;

triturata e mescolata con acqua fredda, la

tengono in bocca per qualche minuto per

diminuire i sintomi di stomatite o i problemi

dentali; eseguono anche fumigazioni nei casi

di affezioni respiratorie, e applicazioni topiche contro i morsi di serpente o le punture

di ragno (Volpato, 2006 e 2008). Nei casi di rogna dei dromedari, la fanno bollire

fino a farle assumere una consistenza maggiore, poi la applicano tramite spugnaggi

da sola o in miscela con altre piante (Volpato, 2006). Il suo utilizzo per trattare la

rogna del dromedario è stato riportato anche in Arabia Saudita (Abbas et al., 2002).

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Il fatto che, come segnala Volpato (2006), viene utilizzata dai sahrawi anche per

trattare diverse altre forme cutanee, può far supporre un suo effetto almeno in parte

sintomatico.

3.7 CISTANCHE PHELYPAEA

Cistanche phelypaea, appartenente

alla famiglia delle Orobanchaceae,

è una pianta perenne, eretta, priva

di rami, che raramente raggiunge il

metro di altezza. Lo stelo è molto

spesso, fino a 5 cm, mentre le

foglie lanceolate hanno dimensioni

alquanto ridotte. Molto frequente

nel Sahara algerino, può trovarsi

anche in altre zone del Nord Africa e di tutto il bacino Mediterraneo, compreso

dunque i Paesi dell’Europa meridionale e del Vicino Oriente. È famosa in virtù dei

suoi vistosissimi fiori gialli che formano una densa spiga lungo quasi tutta l’altezza

della pianta, e sbocciano subito dopo le piogge. Questa caratteristica è alla base dei

molti racconti sul “deserto fiorito” che si possono leggere da più parti, e spesso si

osserva in primavera. Cresce bene in regioni con climi molto aridi, con precipitazioni

annuali al di sotto dei 100 mm, e sopporta anche una certa salinità del suolo. Si tratta

di una pianta parassita obbligata: mancando di clorofilla ed essendo priva di radici,

per le esigenze di acqua e principi nutritivi si attacca a quelle di altre piante (Tamarix

gallica, Calligonum comosum, Pulicaria spp., e altre ) tramite piccoli tuberi (IUCN,

2005). Può essere coltivata in serra, fornendole altre piante a cui connettersi (Farah e

Al-Subaie, 2006).

Il nome con cui viene chiamata dai sahrawi, dhenoun, è comune a tutto il mondo

arabo, seppur con qualche lieve differenza di pronuncia da una zona all’altra. La

parte bassa dello stelo viene raccolta subito dopo le piogge, finemente triturata e

assunta per os come terapia di varie affezioni intestinali esitanti in diarrea. È ritenuta

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avere anche effetti diuretici e afrodisiaci. Viene poi applicata localmente per trattare

ferite, ascessi e contusioni. Può inoltre venire aggiunta in varie preparazioni di pani

tradizionali diffusi in molte parti del Sahara (IUCN, 2005).

La pianta contiene composti fenilici e glicosidici (Lahloub et al., 1993), lipidi

bioattivi e acidi grassi (Ramadan et al., 2011).

3.8 RACCOLTA DELLE PIANTE

Nella parte settentrionale dei Territori liberati, vicino

alle aree in cui si trovavano le persone intervistate,

sono stati raccolti il fusto cactiforme e il lattice di E.

officinarum, nonché le foglie e il lattice (in quantità

molto modesta, ottenuto mediante incisioni del fusto

legnoso) di E. balsamifera. Attorno ai campi profughi

in Algeria, dove crescono in relativa abbondanza, sono invece stati raccolti le foglie

di P. tomentosa e i frutti di C. colocynthis. La scelta delle parti vegetali è stata

compiuta sulla base di quanto tradizionalmente utilizzato.

L’identificazione delle specie vegetali è stata effettuata grazie ai precedenti studi

organizzati da Africa 70 nell’ambito del progetto “Sanità Animale nelle Tendopoli

Sahrawi” (Volpato, 2006 e 2008).

La raccolta e ogni successiva manipolazione sono state eseguite indossando guanti in

lattice, così da evitare contaminazioni dovute a funghi o batteri presenti sulla pelle.

Inoltre, per prevenire eventuali sviluppi fungini, il materiale vegetale è stato

trasportato in contenitori di cartone e steso a seccare su fogli di carta in luogo

ventilato, al riparo dal sole.

Essiccazione delle piante Essiccazione di C.colocynthis

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3.9 ESTRAZIONE

Dopo l’essiccamento, il materiale vegetale è stato finemente macinato e sottoposto a

estrazione con esano, acetone, acqua ed etanolo. Quest’ultimo è stato usato per la sua

relativa facilità di reperimento sul posto. L’acetone è stato scelto per il suo largo

spettro di estrazione, comprendente sia componenti idrofile che lipofile, la possibilità

di essere miscelato con acqua, la sua rapida volatilità e la sua bassa tossicità (Eloff,

1998). L’esano, a causa della tossicità intrinseca, è stato escluso dalle prove di

tossicità ma è stato impiegato negli esami di repellenza per la sua capacità di estrarre

i componenti altamente volatili non polari, frequentemente responsabili dei fenomeni

di repellenza (Zorloni, 2007). L’utilizzo di questi due ultimi estrattori nei campi

profughi sahrawi è tuttavia da considerarsi esclusivamente legato a un’attività di

ricerca scientifica, in quanto essi devono essere importati dall’estero a costi non

accessibili ai guaritori tradizionali locali. Inoltre, deve essere attentamente valutato il

rischio dell’impiego di acetone, sotto forma di perossido, nella fabbricazione di

miscele esplosive, con conseguente necessità di precauzioni straordinarie in un

contesto passibile di inflitrazione da parte di gruppi terroristici *.

Il materiale vegetale è stato diluito al 10% nell’estrattore scelto

(20mg in 200 ml di solvente), poi agitato per 20 minuti a mano.

Dopo aver eliminato il supernatante tramite passaggio attraverso

carta filtro, il filtrato è stato essiccato a temperatura ambiente.

Dopo pesatura con bilancia di precisione, l’estratto è stato

ricostituito nello stesso solvente usato per l’estrazione, alla

diluizione richiesta per le prove di laboratorio. La concentrazione

degli estratti non è stata mai superiore al 20%, poiché oltre tale

valore il materiale si presentava troppo denso per potersi

distribuire in modo uniforme sul corpo della zecca o sulle carte filtro delle bacchette

di vetro.

* Nell’edificio di Rabuni in cui, nel 2009, abbiamo alloggiato durante la fase di esecuzione degli

esami di laboratorio, il 23 ottobre 2011 è stata rapita la volontaria italiana Rossella Urru, rimasta poi

nelle mani dei sequestratori per quasi 9 mesi.

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Filtrazione

Estratto ottenuto dopo filtrazione Ricostituzione dell’estratto

Estratto ricostituito Estratto ricostituito

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3.10 RACCOLTA E CONSERVAZIONE DELLE ZECCHE

Le zecche utilizzate per le prove sperimentali sono

state raccolte dalle pelli dei dromedari lasciate sul

terreno dopo lo scuoiamento degli animali

macellati. Le zecche rimaste invece per un certo

tempo negli anfratti del suolo sabbioso si sono

mostrate molto più deboli, rendendo impraticabile

un confronto delle relative prove di laboratorio con quelle effettuate impiegando

zecche più vitali. La disponibilità di queste ultime, dunque, è stata molto soggetta al

ritmo di arrivo dei dromedari destinati alla macellazione. Pertanto, non sempre se ne

è potuto disporre della quantità desiderata. In tali casi, si è preferito eseguire gli

esami con un numero minore di zecche, rispetto a quanto auspicato, preferendo

ridurre il grado di significatività del campione rispetto al rischio di inficiarne del

tutto l’attendibilità. Quando il numero delle zecche lo ha consentito, il test è stato

ripetuto 5 volte per ogni estratto, coinvolgendo quindi un totale di 50 zecche.

In tutti i casi, si sono raccolti esemplari adulti e digiuni, di entrambi i sessi, di H.

dromedarii.

Se non subito impiegate, le zecche sono state

mantenute in contenitori, provvisti di tappo

perforato per consentire un normale ricambio di

aria, posti in una cassa cubica di vetro (realizzata

localmente da un artigiano algerino), delle

dimensioni di 30 cm di lato. Sul fondo della cassa,

al di sotto del ripiano sollevato su cui si trovavano

i contenitori con le zecche, è stata versata una

soluzione salina satura. Tale precauzione è stata presa per conservare le zecche in un

ambiente a elevata umidità (80 ± 10%). Particolare attenzione è stata prestata alla

manipolazione delle zecche, in modo da evitare danni all’apparato locomotore che

potessero compromettere una corretta valutazione dei risultati.

Considerato il fine pratico del presente lavoro, consistente nel cercare di valutare le

possibilità di utilizzo di acaricidi naturali da parte dei rifugiati sahrawi, gli esami di

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laboratorio si sono concentrati soprattutto sulle foglie di Pergularia tomentosa e sui

frutti di Citrullus colocynthis, entrambi facilmente rinvenibili nei dintorni dei campi

profughi in Algeria.

3.11 TEST DI REPELLENZA

La prova di laboratorio usata per evidenziare eventuali fenomeni di repellenza da

parte degli estratti ottenuti dalle piante raccolte, è stata tratta dai lavori di Nchu (2004

e 2005) e Zorloni (2007), ed è stata scelta in quanto non richiede apparecchiature

costose ed è facilmente realizzabile in condizioni

disagiate. Si basa sulla naturale propensione di molti

generi di ixodidi ad arrampicarsi sugli steli di erba

nell’attesa del passaggio di un ospite adatto,

tendenza che viene mantenuta anche quando, in

laboratorio, si forniscono loro delle bacchette di

vetro (Browning, 1976; Mwangi et al., 1995;

Ndungu et al., 1995; Lwande et al., 1999). Tale

tendenza non si osserva in ugual modo in tutti i

generi, ed è molto poco rilevabile nelle zecche del

genere Amblyomma (Nchu, 2004).

Nel test da noi impiegato, due bacchette di vetro del diametro di 6 mm e della

lunghezza di 20 cm sono state inserite vicino alle due opposte estremità di un

supporto quadrangolare di polistirolo, delle dimensioni di 20 x 5 x 3 cm. Tale

supporto è stato inserito al centro di una bacinella rettangolare, delle dimensioni di

30 x 20 x 6 cm, per mezzo di una striscia di nastro biadesivo. Le due estremità delle

bacchette sono state ricoperte di carta filtro per la lunghezza di 4 cm, ed impregnate

uniformemente con un ml di estratto da testare (nel caso di una bacchetta) e con un

ml del semplice estrattore (nel caso dell’altra). Nella bacinella è stata versata acqua

fino a un livello di poco inferiore rispetto all’altezza del supporto, al centro del quale

sono state poste dieci zecche.

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Il test si basa sul fatto che, non potendo allontanarsi per la presenza dell’acqua, le

zecche si arrampicano per lo più sulle bacchette di vetro, fino a raccogliersi sulle

estremità superiori. Nel caso di estratti repellenti, la loro scelta si orienta in larga

parte sulle bacchette con presenza del solo estrattore, le quali fungono quindi da

controllo per essere certi che il solvente stesso non abbia proprietà repellenti (in tal

caso, le zecche rimarrebbero sulla piattaforma). Se gli estratti non sono repellenti, le

zecche salgono indifferentemente sulle due bacchette. Se la salita avviene invece

soprattutto sulla bacchetta con l’estratto, si può ipotizzare un effetto di attrazione.

La posizione delle zecche è stata registrata dopo

30’ e 60’. Dopo tale tempo, infatti, si osservano

solo pochi spostamenti (Zorloni, 2007). Gli

esami risultano tanto più significativi quanto più

è elevato il numero delle zecche che sale sulle

bacchette di vetro. Pertanto, nei casi in cui le

zecche si sono mostrate poco vitali, e solo poche di esse sono salite sulle bacchette di

vetro, i risultati sono da considerarsi a significatività molto bassa o nulla.

3.12 TEST DI TOSSICITA’

Il test di tossicità è stato eseguito immergendo

dieci zecche nei lattici o negli estratti da testare, o

versando su di loro diverse quantità di questi. La

tossicità è stata valutata dopo 24 e 48 ore, durante

le quali le zecche sono state conservate nei

contenitori posti nella cassa di vetro. Il grado di

tossicità è stato valutato osservando i movimenti

delle zecche trattate: quelle che si muovevano in modo non alterato sono state

considerate normali, quelle che presentavano movimenti sensibilmente rallentati

sono state considerate deboli, quelle che presentavano una quasi totale assenza o

un’incoordinazione dei movimenti, tali da non riuscire a compiere un percorso

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lineare, sono state considerate molto deboli, quelle che non presentavano alcun

movimento dopo essere state scaldate tra i palmi delle mani ed essere state sottoposte

per 30” a stimolazioni dell’organo di Haller a base di CO2 (alito), sono state

considerate morte.

Per ogni estratto utilizzato, è stata verificata anche la tossicità dell’estrattore

versando un’analoga quantità di questo sulle zecche. I test di immersione non sono

stati utilizzati con gli estratti di acetone a causa degli effetti tossici di tale solvente

quando impiegato in simili prove (Chagas et al., 2003; Freitas and Fernandes, 2005;

Gonçalves et al., 2007), mentre non risulta tossico a seguito di contatto (Nchu et al.,

2005) o di applicazioni topiche di piccole quantità (Williams, 1993; Porter et al.,

1995; Zorloni, 2007). Analogamente, il contatto con etanolo non risulta tossico sulle

zecche ixodidi (Nchu et al., 2005; Resende et al., 2012).

Nei nostri test di controllo in cui l’estrattore è stato utilizzato puro, una tossicità si è

manifestata, sia nel caso dell’acetone che dell’etanolo, nel 10% delle zecche trattate

con dosi uguali o superiori a 6 μl, quantità che

comportano un’immersione completa della zecca

nel liquido. A partire da tale dosaggio, quindi, i

risultati ottenuti con questi due estrattori

potrebbero ascriversi ad un’azione combinata

della loro tossicità con quella dovuta ai

componenti vegetali.

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32

4 RISULTATI

4.1 TEST DI REPELLENZA

I risultati degli esami di repellenza sono stati espressi mediante un Indice di

Repellenza (IR), calcolato secondo la formula:

[(NC – NT)/(NC + NT)] x 100

dove NC si riferisce al numero delle zecche registrate sulla bacchetta di controllo e NT

al numero di zecche registrate su quella con l’estratto da testare (Pascual-Villalobos e

Robledo, 1998; Lwande et al., 1999).

4.1.1 Euphorbia Officinarum ed Euphorbia balsamifera

Euphorbia officinarum – Esano 10%

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 5 2 3

60’ 4 3 3

2 30’ 2 5 3

60’ 2 5 3

3 30’ 6 1 3

60’ 4 3 3

4 30’ 7 3 0

60’ 4 5 1

5 30’ 4 5 1

60’ 4 5 1

TOTALE 30’ 24 16 10

60’ 18 21 11

Indice di Repellenza Dopo 30’ -23,08

Dopo 60’ -31,25

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Euphorbia balsamifera – Esano 10%

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 6 1 3

60’ 5 2 3

2 30’ 4 2 4

60’ 4 2 4

3 30’ 7 2 1

60’ 7 2 1

4 30’ 6 3 1

60’ 5 5 0

5 30’ 6 4 0

60’ 6 2 2

TOTALE 30’ 29 12 9

60’ 27 13 10

Indice di Repellenza Dopo 30’ -14,28

Dopo 60’ -13,04

Euphorbia officinarum – Acetone 10%

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 6 2 2

60’ 4 4 2

2 30’ 7 3 0

60’ 7 3 0

3 30’ 5 0 5

60’ 3 0 7

4 30’ 6 2 2

60’ 4 3 3

5 30’ 9 0 1

60’ 6 2 2

TOTALE 30’ 33 7 10

60’ 24 12 14

Indice di Repellenza Dopo 30’ 17,65

Dopo 60’ 7,69

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Euphorbia balsamifera – Acetone 10%

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 8 0 2

60’ 8 0 2

2 30’ 10 0 0

60’ 10 0 0

3 30’ 10 0 0

60’ 10 0 0

4 30’ 8 0 2

60’ 8 0 2

5 30’ 7 0 3

60’ 7 0 3

TOTALE 30’ 43 0 7

60’ 43 0 7

Indice di Repellenza Dopo 30’ 100 (non significativo)

Dopo 60’ 100 (non significativo)

Euphorbia officinarum – Acqua distillata 10%

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 6 2 2

60’ 6 2 2

2 30’ 3 4 3

60’ 3 4 3

3 30’ 4 3 3

60’ 2 3 5

4 30’ 7 2 1

60’ 6 3 1

5 30’ 6 1 3

60’ 6 1 3

TOTALE 30’ 26 12 12

60’ 23 13 14

Indice di Repellenza Dopo 30’ 0

Dopo 60’ 3,70

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Euphorbia balsamifera – Acqua distillata 10%

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 7 3 0

60’ 7 3 0

2 30’ 7 1 2

60’ 7 1 2

3 30’ 8 1 1

60’ 8 1 1

4 30’ 8 0 2

60’ 7 0 3

5 30’ 8 0 2

60’ 7 0 3

TOTALE 30’ 38 5 7

60’ 36 5 9

Indice di Repellenza Dopo 30’ 16,67 (non significativo)

Dopo 60’ 28,57 (non significativo)

E. officinarum ed E. balsamifera sembrano possedere alcuni componenti,

probabilmente volatili, debolmente attrattivi nei confronti delle zecche. Questi,

tuttavia, non sembrano essere presenti negli estratti acquosi o a base di acetone.

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4.1.2. Citrullus colocynthis

Citrullus colocynthis – Esano 10%

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 1 3 6

60’ 0 4 6

2 30’ 3 3 4

60’ 2 3 5

3 30’ 3 3 4

60’ 3 3 4

4 30’ 1 2 7

60’ 1 1 8

5 30’ 7 1 2

60’ 5 2 3

TOTALE 30’ 15 12 23

60’ 11 13 26

Indice di Repellenza Dopo 30’ 31,43

Dopo 60’ 33,33

Citrullus colocynthis - Acetone 10%

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 7 1 2

60’ 5 3 2

2 30’ 5 3 2

60’ 3 4 3

3 30’ 4 4 2

60’ 3 4 3

4 30’ 2 3 5

60’ 2 3 5

5 30’ 2 7 1

60’ 6 3 1

TOTALE 30’ 20 18 12

60’ 19 17 14

Indice di Repellenza Dopo 30’ -20,00

Dopo 60’ -9,68

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Citrullus colocynthis – Etanolo 10%

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 7 2 1

60’ 5 3 2

2 30’ 8 2 0

60’ 5 4 1

3 30’ 5 5 0

60’ 4 6 0

4 30’ 7 1 2

60’ 7 1 2

5 30’ 9 0 1

60’ 7 2 1

TOTALE 30’ 36 10 4

60’ 28 16 6

Indice di Repellenza Dopo 30’ -37,50

Dopo 60’ -45,45

Citrullus colocynthis – Acqua distillata 10%

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 2 4 4

60’ 2 4 4

2 30’ 6 1 3

60’ 5 2 3

3 30’ 6 1 3

60’ 4 3 3

4 30’ 6 3 1

60’ 4 5 1

5 30’ 2 5 3

60’ 2 5 3

TOTALE 30’ 22 14 14

60’ 17 19 14

Indice di Repellenza Dopo 30’ 0

Dopo 60’ -15,15

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Citrullus colocynthis – Liquido del Decotto tradizionale

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 6 1 3

60’ 5 1 4

2 30’ 3 1 6

60’ 2 2 6

3 30’ 6 1 3

60’ 4 2 4

4 30’ 7 0 3

60’ 4 1 5

5 30’ 5 0 5

60’ 3 2 5

TOTALE 30’ 27 3 20

60’ 18 8 24

Indice di Repellenza Dopo 30’ 73,91

Dopo 60’ 50,00

Citrullus colocynthis – Estratto di decotto al 10%

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 5 1 4

60’ 3 3 4

2 30’ 7 2 1

60’ 5 3 2

3 30’ 4 4 2

60’ 4 4 2

4 30’ 8 2 0

60’ 7 3 0

5 30’ 9 0 1

60’ 5 2 3

TOTALE 30’ 33 9 8

60’ 24 15 11

Indice di Repellenza Dopo 30’ -5,88

Dopo 60’ -15,38

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Il frutto di C. colocynthis sembra contenere alcuni componenti debolmente repellenti

nei confronti delle zecche, estraibili tuttavia solo con esano. Per il resto, sembra che

siano i componenti debolmente attrattivi a prevalere. La relativa repellenza del

liquido ottenuto tramite filtrazione del decotto, sembra essere dovuta alla gelatinosità

dello stesso. Infatti, una volta ricostituito un estratto acquoso dello stesso, tale

repellenza si inverte.

4.1.3.Pergularia tomentosa

Pergularia tomentosa – Esano 10% (Test 1)

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 3 6 1

60’ 1 8 1

2 30’ 3 4 3

60’ 4 4 2

3 30’ 3 4 3

60’ 1 5 4

4 30’ 3 1 6

60’ 2 1 7

5 30’ 4 3 3

60’ 4 3 3

TOTALE 30’ 16 18 16

60’ 12 21 17

Indice di Repellenza Dopo 30’ -5,88

Dopo 60’ -10,53

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40

Pergularia tomentosa – Esano 10% (Test 2)

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 7 1 2

60’ 7 1 2

2 30’ 6 4 0

60’ 4 5 1

3 30’ 7 1 2

60’ 7 1 2

4 30’ 7 1 2

60’ 5 4 1

5 30’ 5 3 2

60’ 6 1 3

TOTALE 30’ 32 10 8

60’ 29 12 9

Indice di Repellenza Dopo 30’ -11,11

Dopo 60’ -14,28

Pergularia tomentosa – Acetone 10% (Test 1)

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 6 2 2

60’ 6 2 2

2 30’ 9 1 0

60’ 9 1 0

3 30’ 8 0 2

60’ 9 0 1

4 30’ 8 1 1

60’ 8 1 1

5 30’ 7 2 1

60’ 6 2 2

TOTALE 30’ 38 6 6

60’ 38 6 6

Indice di Repellenza Dopo 30’ 0 (non significativo)

Dopo 60’ 0 (non significativo)

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41

Pergularia tomentosa – Acetone 10% (Test 2)

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 4 5 1

60’ 1 5 4

2 30’ 7 1 2

60’ 2 6 2

3 30’ 6 0 4

60’ 5 3 2

4 30’ 4 4 2

60’ 2 3 5

5 30’ 6 0 4

60’ 4 4 2

TOTALE 30’ 27 10 13

60’ 14 21 15

Indice di Repellenza Dopo 30’ 13,04

Dopo 60’ -16,67

Pergularia tomentosa – Etanolo 10%

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 2 3 5

60’ 2 3 5

2 30’ 7 0 3

60’ 5 1 4

3 30’ 4 3 3

60’ 4 4 2

4 30’ 3 3 4

60’ 3 3 4

5 30’ 3 5 2

60’ 0 5 5

TOTALE 30’ 19 14 17

60’ 14 16 20

Indice di Repellenza Dopo 30’ 9,68

Dopo 60’ 11,11

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42

Pergularia tomentosa – Acqua distillata 10%

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 4 4 2

60’ 2 4 4

2 30’ 2 7 1

60’ 2 7 1

3 30’ 6 0 4

60’ 2 1 7

4 30’ 1 3 6

60’ 1 2 7

5 30’ 4 3 3

60’ 2 3 5

TOTALE 30’ 17 17 16

60’ 9 17 24

Indice di Repellenza Dopo 30’ -3,03

Dopo 60’ 17,07

Pergularia tomentosa – Acqua di rubinetto 10%

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 2 2 6

60’ 2 2 6

2 30’ 6 1 3

60’ 6 1 3

3 30’ 6 1 3

60’ 6 1 3

4 30’ 4 2 4

60’ 4 2 4

5 30’ 8 1 1

60’ 8 1 1

TOTALE 30’ 26 7 17

60’ 26 7 17

Indice di Repellenza Dopo 30’ 41,67

Dopo 60’ 41,67

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43

Pergularia tomentosa – Foglie intere in acqua di rubinetto al 10%

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 4 2 4

60’ 5 0 5

2 30’ 7 2 1

60’ 5 3 2

3 30’ 2 0 8

60’ 1 0 9

4 30’ 6 3 1

60’ 6 1 3

5 30’ 6 1 3

60’ 6 3 1

TOTALE 30’ 25 8 17

60’ 23 7 20

Indice di Repellenza Dopo 30’ 36,00

Dopo 60’ 48,15

Pergularia tomentosa – Decotto di foglie macinate al 10%

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 4 1 5

60’ 4 1 5

2 30’ 6 3 1

60’ 5 4 1

3 30’ 8 2 0

60’ 8 2 0

4 30’ 6 3 1

60’ 4 6 0

5 30’ 8 2 0

60’ 8 2 0

TOTALE 30’ 32 11 7

60’ 29 15 6

Indice di Repellenza Dopo 30’ -22,22

Dopo 60’ -42,86

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44

Pergularia tomentosa – Decotto di foglie intere al 10%

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 9 0 1

60’ 8 2 0

2 30’ 3 4 3

60’ 3 4 3

3 30’ 8 1 1

60’ 4 4 2

4 30’ 9 0 1

60’ 9 0 1

5 30’ 6 3 1

60’ 5 4 1

TOTALE 30’ 35 8 7

60’ 29 14 7

Indice di Repellenza Dopo 30’ -6,67

Dopo 60’ -33,33

Pergularia tomentosa – Sedimento di decotto al 10% (Test 1)

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 4 5 1

60’ 4 5 1

2 30’ 2 3 5

60’ 1 4 5

3 30’ 5 0 5

60’ 5 0 5

4 30’ 5 2 3

60’ 4 2 4

5 30’ 5 1 4

60’ 5 1 4

TOTALE 30’ 21 11 18

60’ 19 12 19

Indice di Repellenza Dopo 30’ 24,14

Dopo 60’ 22,58

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45

Pergularia tomentosa - Sedimento di decotto al 10% (Test 2)

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 6 2 2

60’ 5 3 2

2 30’ 5 3 2

60’ 5 3 2

3 30’ 7 1 2

60’ 3 4 3

4 30’ 4 1 5

60’ 4 1 5

5 30’ 6 1 3

60’ 7 0 3

TOTALE 30’ 28 8 14

60’ 24 11 15

Indice di Repellenza Dopo 30’ 27,27

Dopo 60’ 15,38

Pergularia tomentosa - Sedimento di infuso al 10% (Test 1)

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 9 0 1

60’ 8 1 1

2 30’ 8 1 1

60’ 7 2 1

3 30’ 7 0 3

60’ 5 1 4

4 30’ 6 1 3

60’ 4 0 6

5 30’ 5 2 3

60’ 5 2 3

TOTALE 30’ 35 4 11

60’ 29 6 15

Indice di Repellenza Dopo 30’ 46,67

Dopo 60’ 42,86

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46

Pergularia tomentosa - Sedimento di infuso al 10% (Test 2)

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 5 3 2

60’ 4 3 3

2 30’ 8 1 1

60’ 8 1 1

3 30’ 5 2 3

60’ 5 2 3

4 30’ 9 1 0

60’ 8 2 0

5 30’ 8 1 1

60’ 8 1 1

TOTALE 30’ 35 8 7

60’ 33 9 8

Indice di Repellenza Dopo 30’ -6,67 (poco significativo)

Dopo 60’ -5,88 (poco significativo)

Pergularia tomentosa – Infuso di foglie intere al 10%

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 9 0 1

60’ 6 1 3

2 30’ 2 4 4

60’ 1 5 4

3 30’ 5 3 2

60’ 4 4 2

4 30’ 3 5 2

60’ 3 5 2

5 30’ 6 2 2

60’ 6 2 2

TOTALE 30’ 25 14 11

60’ 20 17 13

Indice di Repellenza Dopo 30’ -12,00

Dopo 60’ -13,33

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47

Pergularia tomentosa – Infuso di foglie macinate al 10%

Gruppo Tempo Base Test Controllo

1 30’ 4 3 3

60’ 4 3 3

2 30’ 8 0 2

60’ 7 0 3

3 30’ 5 0 5

60’ 5 0 5

4 30’ 8 2 0

60’ 5 3 2

5 30’ 5 3 2

60’ 8 2 0

TOTALE 30’ 30 8 12

60’ 29 8 13

Indice di Repellenza Dopo 30’ 20,00

Dopo 60’ 23,81

Il fatto che l’assai debole attrattività degli estratti con esano e acetone si inverta e si

trasformi in un’assai debole repellenza nel caso dei praparati a base di etanolo e

acqua distillata, può essere dovuta a un’assenza di effetti attrattivi o repellenti di

rilievo da parte di P. tomentosa. La relativa repellenza mostrata dai due estratti a

base di acqua del rubinetto, ma confermata solo in minima parte dall’estratto a base

di acqua distillata, potrebbe essere dovuta alla presenza di composti ad azione

potabilizzante nell’acqua distribuita nei campi profughi sahrawi (proveniente dalla

città algerina di Tindouf, sita a circa 25 km di distanza). La relativa attrattività

osservata nel caso dei due decotti, che sembra ridursi notevolmente o invertirsi nel

caso degli infusi e del sedimento di decotto ricostituito, potrebbe essere dovuta a

composti che si liberano solo attraverso decozione. Tuttavia, il relativamente basso

numero di zecche salite sulle bacchette non permette di trarre conclusioni sicure.

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48

4.2 Test di tossicità

4.2.1 E.officinarum ed E.balsamifera

- Lattice intero.

Dieci zecche sono state completamente immerse nel lattice di E. officinarum e dieci

in quello di E. balsamifera. Dopo 24 ore, entrambi i gruppi si presentavano avvolti in

un coagulo semi-solido di lattice e non mostravano alcun movimento. Mediante un

delicato lavoro, ogni zecca è stata ripulita del lattice che la ricopriva. Delle 20 zecche

utilizzate, 19 hanno ripreso a muoversi normalmente e solo una (tra quelle immerse

nel lattice di E. balsamifera), mostrava un certo rallentamento dei movimenti, per cui

è stata classificata come debole.

Estratto di E. officinarum in acqua distillata

Risultati dopo 24 ore:

Quantità e

Concentrazione T N D MD M MD+M %MD+M

4 μl al 10% 30 28 1 0 1 1 3,3

6 μl al 10% 30 27 1 0 2 2 6,6

8 μl al 10% 30 27 1 1 1 2 6,6

10 μl al 10% 30 28 0 0 2 2 6,6

Immersione 10 5 1 1 3 4 40

Estratto di E. officinarum in acetone

Risultati dopo 24 ore:

Quantità e

Concentrazione T N D MD M MD+M %MD+M

4 μl al 10% 50 35 1 0 14 14 28

4 μl al 5% 50 40 1 0 9 9 18

4 μl al 2,5% 25 17 1 1 6 7 28

4 μl all’1,25% 25 22 0 0 3 3 12

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49

Risultati dopo 48 ore:

Quantità e

Concentrazione T N D MD M MD+M %MD+M

4 μl al 10% 50 23 3 2 22 24 48

4 μl al 5% 50 35 0 2 13 15 30

4 μl al 2,5% 25 18 1 2 4 6 24

4 μl all’1,25% 25 20 1 1 3 4 16

L’azione tossica sulle zecche dei componenti bioattivi presenti in E. officinarum,

sembra richiedere un certo tempo prima di potersi osservare con una certa intensità.

Questi, tuttavia, vengono estratti in misura minima dall’acqua. Alla luce dell’esame

in immersione nel lattice intero, si può ipotizzare che la mortalità del 40% registrata

nel caso dell’estratto acquoso, si sarebbe verosimilmente dimostrata in larga parte

apparente se si fosse provveduto, come nel caso dell’utilizzo del lattice, a

un’accurata liberazione delle zecche dal materiale colloso in cui risultavano

inglobate. Pertanto, si può ipotizzare che, nel caso di lattice applicato topicamente tal

quale, l’azione dei componenti bioattivi di E. officinarum e di E. balsamifera risulti

minoritaria rispetto all’azione meccanica.

4.2.2 C.colocynthis

- Decotto di C. colocynthis, preparato secondo le istruzioni dei nomadi sahrawi (1 kg

di frutti tagliati a fette della grossezza di una noce e bolliti per 60’ in 3 litri d’acqua),

poi filtrato ed eliminato il surnatante.

Risultati dopo 24 ore:

Quantità T N D MD M MD+M %MD+M

4 μl 30 29 0 0 1 1 3%

6 μl 30 29 0 1 0 1 3%

8 μl 30 30 0 0 0 0 0

10 μl 30 22 0 5 3 8 26,6%

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50

Risultati dopo 48 ore:

Quantità T N D MD M MD+M %MD+M

4 μl 30 29 0 0 1 1 3%

6 μl 30 27 0 2 1 3 10%

8 μl 30 28 0 1 1 2 6,6%

10 μl 30 25 0 1 4 5 16,6%

Appare chiaro che il decotto tradizionale di C. colocynthis è fortemente dose

dipendente, e presenta una certa efficacia solo se la zecca ne risulta pressoché

immersa, e solo dopo un certo tempo. Tuttavia, visto che alcune zecche, le quali

avevano mostrato una forte debolezza dopo 24 ore, si sono riprese durante il secondo

giorno, va tenuta in conto la possibilità di un’azione in larga parte meccanica che

viene a cessare nei casi in cui le zecche riescano a liberarsi, attraverso il movimento,

del preparato.

Per cercare di diminuire l’affetto meccanico dovuto alla sostanza gelatinosa che si

forma con la cottura dei frutti, concentrando maggiormente nel contempo gli

eventuali componenti bioattivi presenti, sono state eseguite le seguenti prove:

Estratto di decotto di C. colocynthis al 10% in acqua del rubinetto

Risultati dopo 24 ore:

Quantità T N D MD M MD+M %MD+M

4 μl 40 36 0 1 3 4 10%

6 μl 40 27 5 2 6 8 20%

8 μl 40 33 1 2 4 6 15%

10 μl 40 34 0 4 2 6 15%

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51

Estratto di decotto di C. colocynthis al 10% in acqua distillata

Risultati dopo 24 ore:

Quantità T N D MD M MD+M %MD+M

4 μl 40 31 2 3 4 7 17,5%

6 μl 40 31 4 3 2 5 12,5%

8 μl 40 33 1 3 3 6 15%

10 μl 40 36 2 1 1 2 5%

Risultati dopo 48 ore:

Quantità T N D MD M MD+M %MD+M

4 μl 40 30 0 3 7 10 25%

6 μl 40 30 0 2 8 10 25%

8 μl 40 33 2 0 5 5 12,5%

10 μl 40 33 2 1 4 5 12,5%

Rispetto al preparato tradizionale, alle dosi più basse si è evidenziato un effetto

tossico leggermente maggiore, probabilmente dovuto alla maggior concentrazione di

sostanze bioattive, ma alle dosi più alte si è invece osservato una diminuzione

dell’effetto tossico, probabilmente dovuta a una perdita dell’effetto meccanico. Il

rilievo, apparentemente paradossale, di una minor tossicità dell’estratto acquoso alle

dosi maggiori rispetto alle minori, potrebbe essere dovuto al fatto che una maggior

presenza di liquido, in cui viene avvolta la zecca, comporta una minor coagulazione

dello stesso in tempi brevi e quindi un minor effetto meccanico. Non si sono

osservate differenze significative fra l’utilizzo dell’acqua del rubinetto e quello

dell’acqua distillata.

Per cercare di escludere pressoché del tutto l’effetto meccanico, massimizzando nel

contempo la quantità di componenti bioattivi di C. colocynthis, è stata eseguita la

seguente prova.

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52

Estratto di C. colocynthis al 20% in acetone

Risultati dopo 24 ore:

Quantità T N D MD M MD+M %MD+M

2 μl 50 39 0 0 11 11 22%

4 μl 50 32 0 1 17 18 36%

6 μl 50 12 0 1 37 38 76%

8 μl 40 11 0 0 29 29 72,5%

10 μl 10 1 0 0 9 9 90%

Risultati dopo 48 ore:

Quantità T N D MD M MD+M %MD+M

2 μl 50 39 0 0 11 11 22%

4 μl 50 32 0 0 18 18 36%

6 μl 50 10 1 1 38 39 78%

8 μl 40 10 0 0 30 30 75%

10 μl 10 1 0 0 0 9 90%

Tale esame ha confermato la dipendenza dalla dose, ma non è stata rilevata una

particolare differenza fra il primo e il secondo giorno. Analogamente a quanto

osservato per le Euphorbiacee, si potrebbe dedurre che, conformemente a quanto

riportato in bibliografia, il C. colocynthis presenta sostanze bioattive ad azione

tossica sugli artropodi. Tuttavia, per quanto riguarda il preparato tradizionale in uso

presso i nomadi sahrawi, l’estrazione di tali componenti in acqua è piuttosto ridotta,

mentre risulta prevalente l’azione meccanica dovuta alla formazione di un composto

colloso.

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53

4.2.3 P.tomentosa

Estratto di decotto di P. tomentosa al 10% in acqua distillata

Risultati dopo 24 ore:

Quantità T N D MD M MD+M %MD+M

4 μl 50 25 3 5 17 22 44%

6 μl 50 26 1 2 21 23 46%

8 μl 50 15 1 5 29 34 68%

10 μl 50 9 2 3 36 39 78%

Risultati dopo 48 ore:

Quantità T N D MD M MD+M %MD+M

4 μl 50 16 2 3 29 32 64%

6 μl 50 11 1 8 30 38 76%

8 μl 50 1 0 1 48 49 98%

10 μl 50 2 0 3 45 48 96%

Infuso in acqua fredda di P. tomentosa al 10%

Risultati dopo 24 ore:

Quantità T N D MD M MD+M %MD+M

4 μl 40 29 3 3 5 8 20%

6 μl 40 15 2 7 16 23 57,5%

8 μl 40 18 0 2 20 22 55%

10 μl 40 14 2 0 24 24 60%

Risultati dopo 48 ore:

Quantità T N D MD M MD+M %MD+M

4 μl 40 18 3 8 11 19 47,5%

6 μl 40 7 4 3 26 29 72,5%

8 μl 40 3 1 0 36 36 90%

10 μl 40 1 2 0 37 37 92,5%

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Il fatto che l’elevata tossicità per le zecche mostrata dal decotto di foglie di P.

tomentosa sia in parte confermata anche dall’infuso a freddo, potrebbe essere dovuto

alla presenza di componenti bioattivi estraibili anche in acqua, la cui azione verrebbe

a sommarsi all’azione meccanica.

Estratto di P. tomentosa in acetone

Risultati dopo 24 ore:

Quantità e

Concentrazione T N D MD M MD+M %MD+M

4 μl al 20% 50 18 2 2 28 30 60%

4 μl al 10% 50 31 0 10 9 19 38%

4 μl al 5% 50 42 3 0 5 5 10%

4 μl al 2,5% 25 23 0 0 2 2 8%

4 μl all’1,25% 25 24 0 0 1 1 4%

Risultati dopo 48 ore:

Quantità e

Concentrazione T N D MD M MD+M %MD+M

4 μl al 20% 50 5 0 2 43 45 90%

4 μl al 10% 50 23 0 3 24 27 54%

4 μl al 5% 50 38 0 2 10 12 24%

4 μl al 2,5% 25 23 0 0 2 2 8%

4 μl all’1,25% 25 22 0 0 3 3 12%

La dose di 4 μl è stata scelta perché consente di ricoprire completamente il corpo

delle zecche adulte di H. dromedarii di maggiori dimensioni. Nel caso degli

esemplari adulti che presentano dimensioni un po’ minori (perché il tempo di

nutrizione della ninfa è stato relativamente ridotto), tuttavia, si può verificare un

effetto immersione, con conseguente tossicità dell’estrattore. Questi dati sembrano

confermare la presenza di componenti bioattivi tossici nelle foglie di P. tomentosa,

mostrando inoltre una certa influenza del fattore tempo sull’effetto acaricida.

A questo punto, per cercare di determinare una quantità approssimativa media in

grado di estrinsecare tossività nei confronti della zecca, si è utilizzato l’estratto alla

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concentrazione più efficace (20%), a dosi maggiori e minori di quella sopra

impiegata (4 μl). Nelle due tabelle di seguito, viene comunque riportato il dato della

prova con 4 μl, già mostrato nelle due tabelle precedenti.

Risultati dopo 24 ore:

Quantità T N D MD M MD+M %MD+M

2 μl 50 28 4 6 12 18 36%

4 μl 50 18 2 2 28 30 60%

6 μl 50 3 1 0 46 46 92%

8 μl 50 2 1 1 46 47 94%

Risultati dopo 48 ore:

Quantità e

Concentrazione T N D MD M MD+M %MD+M

2 μl 50 13 1 6 30 36 72

4 μl 50 5 0 2 43 45 90

6 μl 50 0 0 0 50 50 100

8 μl 50 1 0 0 49 49 98

Sembra dunque che l’estratto in acetone di P. tomentosa al 20% sia in grado di

causare marcata tossicità nel 90% degli adulti di H. dromedarii in 24 ore se in

quantità di almeno 6 μl per zecca e in 48 ore se in quantità di almeno 4 μl per zecca.

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Estratto di P. tomentosa al 10% in etanolo

Questo esame è stato eseguito per valutare l’utilizzo di un estrattore relativamente

facile da reperire nei campi sahrawi.

Risultati dopo 24 ore:

Quantità T N D MD M MD+M %MD+M

2 μl 50 39 0 7 4 11 22%

4 μl 50 23 0 12 15 27 54%

6 μl 50 20 2 5 23 28 56%

8 μl 50 18 3 6 23 29 58%

10 μl 50 15 0 3 32 35 70%

Risultati dopo 48 ore:

Quantità T N D MD M MD+M %MD+M

2 μl 50 23 2 6 19 25 50%

4 μl 50 1 1 4 44 48 96%

6 μl 50 7 0 6 37 43 86%

8 μl 50 0 0 1 49 50 100%

10 μl 50 0 0 2 48 50 100%

Si evince dunque che i componenti bioattivi di P. tomentosa ad attività tossica sulle

zecche sono estraibili anche con etanolo. La diversa partita di zecche utilizzata non

consente tuttavia un corretto raffronto con i valori ottenuti impiegando gli estratti in

acetone. Inoltre, gli elevati gradi di tossicità rilevati dopo 48 ore potrebbero essere

dovuti, oltre che a una debolezza delle zecche utilizzate, all’effetto aggiuntivo della

tossicità intrinseca dell’etanolo.

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5 DISCUSSIONE

Le interviste effettuate nei cosiddetti “Territori liberati” hanno messo in risalto la

notevole importanza attribuita dai guaritori tradizionali sahrawi alla conservazione

del patrimonio indigeno di conoscenze etnoveterinarie. Per un popolo nomade

pastorale, le conoscenze etnoveterinarie rappresentano un’importante risorsa

finalizzata alla sopravvivenza e quindi uno dei principali pilastri socio-culturali

attorno ai quali si struttura la vita quotidiana.

Tuttavia, tale visione si riscontra solo scarsamente fra le persone cresciute nei campi

di rifugiati. Pertanto, i giovani formati presso la scuola veterinaria finanziata da

Africa 70 dimostrano una comprensibile tendenza a orientarsi verso i mezzi di cura e

prevenzione utilizzati nelle società europee.

Trattandosi di un lavoro realizzato nell’ambito di un progetto di sviluppo, la

presente ricerca ha inteso verificare le effettive possibilità di sperimentazione nelle

condizioni specifiche dei campi profughi sahrawi. L’appoggio offerto dalla locale

Direzione Veterinaria Nazionale ha consentito che gli esami venissero effettuati

presso le strutture di sua pertinenza, con l’ausilio di un laboratorista locale. Tuttavia,

la disponibilità limitata di dromedari non ha consentito un regolare rifornimento di

zecche e non ha permesso di effettuare esami in vivo in forma significativa.

Le condizioni logistiche alquanto precarie, contrassegnate da frequenti interruzioni

nell’erogazione dell’acqua e della corrente elettrica, hanno reso difficile la regolare

esecuzione delle prove di laboratorio. Inoltre, l’irregolarità nella disponibilità di

zecche ha comportato una bassa possibilità di raffronto quantitativo fra i diversi

esami di laboratorio eseguiti a una certa distanza di tempo l’uno dall’altro. Pertanto, i

valori ottenuti dovrebbero essere valutati solo dal punto di vista qualitativo, a

differenza di quanto è invece possibile fare nei casi in cui le zecche vengono allevate

su animali di laboratorio (Bailey, 1960; Konnai et al., 2008).

Per quanto riguarda le prove di repellenza, la percentuale di zecche salite sulle

bacchette è risultata molto più bassa rispetto a quanto osservato in analoghi lavori

(Nchu, 2004; Zorloni, 2007). Si può dunque ipotizzare che H. dromedarii,

analogamente a quanto osservato per il genere Amblyomma (Nchu, 2004), sia poco

adatto a essere impiegato nei test di repellenza che prevedono la salita su bacchette di

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vetro, a causa delle sue grandi dimensioni e della sua strategia di spostamento attivo

verso l’ospite, che non utilizza la salita su steli d’erba. Nondimeno, Hyalomma

marginatus rufipes, un’altra zecca dello stesso genere e di dimensioni analoghe, è

stato largamente utilizzato in test simili (Mkolo e Magano, 2007; Magano et al.,

2011 a e b).

Le opportunità e i limiti dei vari tipi di test di repellenza utilizzati nei confronti delle

zecche sono peraltro stati evidenziati da Dautel (2004) e da Bissinger e Roe (2010).

La necessità di migliorare i termini di riferimento e le metodologie utilizzate per

determinare i diversi gradi di repellenza in tali test, è stata recentemente sollevata da

Halos et al. (2012).

In ogni caso, nessuno dei preparati da noi testati ha evidenziato rilevanti proprietà di

acaro-repellenza o di acaro-attrazione, se non in test di bassa significatività a causa

del numero molto ridotto di zecche salite sulle bacchette di vetro.

Per quanto riguarda gli esami di tossicità, i risultati da noi ottenuti suggeriscono

l’importanza di poter differenziare gli effetti meccanici da quelli farmacologici dei

preparati. Anche se tale esigenza viene trascurata nella pratica tradizionale, risulta

tuttavia prioritaria per intraprendere un miglioramento e una standardizzazione delle

procedure di produzione, conservazione e utilizzo dei composti etnoveterinari.

Considerata l’elevata presenza di P. tomentosa nelle aree circostante i campi

profughi sahrawi e la possibilità di estrarne componenti tossici anche con acqua,

ulteriori ricerche dovrebbero concentrarsi in particolare su tale pianta, specialmente

riguardo a un suo uso contro i pidocchi che, nei campi profughi sahrawi,

costituiscono un grande problema per la loro azione anemizzante sul bestiame ovi-

caprino, alimentato inadeguatamente e allevato in spazi angusti. A tale proposito, si

ritiene interessante proporre l’esecuzione di una sperimentazione in vivo, da

effettuarsi a cura del personale veterinario locale formato nella scuola veterinaria

realizzata da Africa 70.

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