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UNA TERZA MANIERA DI REALIZZARE IL REATO: L’INTERRUZIONE DI SERIE CAUSALI DI SALVATAGGIO 1 . Enrique Gimbernat Ordeig Cattedratico di Diritto Penale presso l’Università Complutense di Madrid SOMMARIO: I. L’interruzione di serie causali di salvataggio proprie. A. Esposizione della problematica. B. Soluzioni proposte dalla dottrina per questo gruppo di casi. C. Presa di posizione. – II. L’interruzione di serie causali di salvataggio altrui. A. Esposizione del problema 1. La questione in dottrina. 2. La problematica in giurisprudenza. B. Soluzioni proposte dalla dogmatica. 1. L’azione d’interruzione costituisce un reato commissivo e l’evento deve essere imputato a detta azione poiché tra questo e quella esiste una relazione causale. 2. L’azione di interruzione costituisce un reato commissivo e, nonostante tra essa e l’evento non esista una relazione di causalità, l’agente deve rispondere del risultato provocato, perché con una probabilità che vicina alla certezza esso non si sarebbe prodotto se l’autore non avesse interrotto la serie causale di salvataggio. 3. Nell’interruzione di una serie causale di salvataggio altrui non esiste né un reato di azione né una relazione di causalità, ma l’autore deve rispondere ugualmente dell’evento poiché ha realizzato un’omissione impropria. C. Critica. 1. Critica di coloro che l’imputazione dell’evento all’azione d’interruzione configurerebbe un reato di azione in relazione causale con la lesione del bene giuridico. 2. Critica di coloro che, negando la relazione di causalità tra l’interruzione della serie causale di salvataggio altrui e l’evento, ed avvalendosi di un procedimento analogo a quello che vige nell’omissione impropria, imputano il risultato a detta interruzione, quando senza di questa e con una probabilità vicina alla certezza, esso non si sarebbe prodotto. 3. Critica alla soluzione dell’omissione impropria. D. Presa di posizione. 1. Introduzione. 2. Un terzo modo di realizzazione del reato a fianco di quello commissivo ed omissivo: l’interruzione di serie di salvataggio. 3. Nuovamente: l’interruzione di serie causali di salvataggio proprie. 4. Anche l’interruzione di serie di salvataggio altrui deve essere sottoposta a soluzioni differenziate. a) Interruzione realizzata da un non-garante della serie causale di salvataggio che un altro non-garante ha iniziato o sta per iniziare. b) Interruzione da parte di un non-garante della serie causale di salvataggio che è stata iniziata, o sta per 1 Traduzione del Dott. Virio Guido Stipa. 1

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UNA TERZA MANIERA DI REALIZZARE IL REATO: L’INTERRUZIONE DI SERIE CAUSALI DI SALVATAGGIO1.

Enrique Gimbernat Ordeig Cattedratico di Diritto Penale presso l’Università Complutense di Madrid

SOMMARIO: I. L’interruzione di serie causali di salvataggio proprie. A. Esposizione della problematica. B. Soluzioni proposte dalla dottrina per questo gruppo di casi. C. Presa di posizione. – II. L’interruzione di serie causali di salvataggio altrui. A. Esposizione del problema 1. La questione in dottrina. 2. La problematica in giurisprudenza. B. Soluzioni proposte dalla dogmatica. 1. L’azione d’interruzione costituisce un reato commissivo e l’evento deve essere imputato a detta azione poiché tra questo e quella esiste una relazione causale. 2. L’azione di interruzione costituisce un reato commissivo e, nonostante tra essa e l’evento non esista una relazione di causalità, l’agente deve rispondere del risultato provocato, perché con una probabilità che vicina alla certezza esso non si sarebbe prodotto se l’autore non avesse interrotto la serie causale di salvataggio. 3. Nell’interruzione di una serie causale di salvataggio altrui non esiste né un reato di azione né una relazione di causalità, ma l’autore deve rispondere ugualmente dell’evento poiché ha realizzato un’omissione impropria. C. Critica. 1. Critica di coloro che l’imputazione dell’evento all’azione d’interruzione configurerebbe un reato di azione in relazione causale con la lesione del bene giuridico. 2. Critica di coloro che, negando la relazione di causalità tra l’interruzione della serie causale di salvataggio altrui e l’evento, ed avvalendosi di un procedimento analogo a quello che vige nell’omissione impropria, imputano il risultato a detta interruzione, quando senza di questa e con una probabilità vicina alla certezza, esso non si sarebbe prodotto. 3. Critica alla soluzione dell’omissione impropria. D. Presa di posizione. 1. Introduzione. 2. Un terzo modo di realizzazione del reato a fianco di quello commissivo ed omissivo: l’interruzione di serie di salvataggio. 3. Nuovamente: l’interruzione di serie causali di salvataggio proprie. 4. Anche l’interruzione di serie di salvataggio altrui deve essere sottoposta a soluzioni differenziate. a) Interruzione realizzata da un non-garante della serie causale di salvataggio che un altro non-garante ha iniziato o sta per iniziare. b) Interruzione da parte di un non-garante della serie causale di salvataggio che è stata iniziata, o sta per essere iniziata da un garante c) Interruzione da parte di un garante della serie causale di salvataggio che un non-garante ha iniziato o sta per iniziare. d) Nuovamente: l’interruzione di serie causali di salvataggio nella giurisprudenza spagnola. – III la disconnessione di apparati medici che mantengono in vita un malato. A. Esposizione del problema. Le diverse soluzioni. B. Presa di posizione.

I. L’INTERRUZIONE DI SERIE DI SALVATAGGIO PROPRIE

A. Esposizione della problematica

All’interno di questo gruppo di casi bisogna includere quelli nei quali l’autore ha attivato una serie causale di salvataggio, che è divenuta da lui indipendente e che, se non interrotta, preserverà l’integrità del bene giuridico protetto. Come esempi di tali casi si possono menzionare quello di chi, dopo aver consegnato all’ufficio postale la lettera nella quale denuncia la prossima realizzazione di un qualche reato menzionato nell’art. 450.2 CP, la reclama con successo, impedendo così che arrivi a conoscenza della polizia2, o di chi, dopo aver lanciato un salvagente legato ad una corda, che si va avvicinando a chi si dibatte nell’acqua per non annegare, lo ritira prima che l’altro –nel quale ha riconosciuto un nemico– possa aggrapparsi ad esso per tenersi a galla.

1 Traduzione del Dott. Virio Guido Stipa.2 L’esempio viene da Overbeck, GS 1922, pag. 328.

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In tali casi, dal momento che la denuncia alle autorità della fattispecie punibile pianificata è già stata realizzata, e siccome il processo causale in aiuto di chi si dibatte in acqua è già stato innescato, per tornare alla situazione di non-denuncia, e di non-aiuto è necessario un comportamento attivo del soggetto che annulli la concatenazione causale di salvataggio che egli stesso aveva generato e che era divenuta da lui indipendente. Ovviamente anche questo terzo sottogruppo consiste in una interruzione di una serie causale di salvataggio del quale ci occuperemo infra II. Eppure abbiamo preferito un trattamento differenziato delle due modalità di interruzione, giacché, dal momento che così come esiste la quasi unanimità sul fatto che nell’interruzione di serie causali realizzate da un terzo, questi commette un reato commissivo e deve essergli imputato l’evento tipico –se un terzo svia il salvagente che A ha lanciato a B, e questi muore annegato, egli risponderebbe, conseguentemente, di un reato commissivo contro la vita– in cambio, quando chi interrompe tale serie è la stessa persona che lo ha innescato, la dottrina si divide tra coloro che ritengono che tale comportamento debba esser qualificato come omissivo improprio e coloro che pensano che –come avviene nell’interruzione di serie causali altrui– ci si trovi di fronte ad un reato commissivo contro il bene giuridico che risulta lesionato.

B. Soluzioni proposte dalla dottrina per risolvere di tali tipologie di casi

1. Se il soggetto si fosse limitato a rimanere inattivo dal principio: se non avesse fatto nulla per aiutare chi si trovava in mare in una situazione di estremo bisogno, se avesse rinunciato ab initio a comunicare alla polizia, affinché questa lo impedisse, che sarebbe stato commesso un fatto criminoso, la classificazione di tali comportamenti negativi solo permetterebbe una qualifica: il soggetto che solo omette risponderebbe unicamente di un’omissione di soccorso, nel primo caso, e di omissione del dovere di denunciare determinati delitti, nel secondo. Il problema che si pone è se tale qualifica debba subire un qualche modifica per il fatto che la situazione di non-ausilio e non-denuncia non si è prodotta a conseguenza di una mera inattività, ma poiché, dopo che il soggetto, in un primo momento e per mezzo di una condotta attiva, ha cercato di rimediare alla situazione critica, cambia idea ed annulla la serie causale che egli stesso ha posto in marcia, ritirando il salvagente o la lettera di denuncia che si trova già nell’ufficio postale.

2. Nella classificazione di tali ipotesi la dottrina si trova divisa. Secondo una corrente, l’interruzione di una serie di salvataggio da parte della stessa persona che lo ha innescato configurerebbe unicamente un’omissione propria. Secondo altri autori, in cambio, tali ipotesi non dovrebbero avere una qualifica diversa da quella alla quale si riconducono le ipotesi di interruzione di serie causali di salvataggio altrui; perciò, chi ritira il salvagente che previamente aveva lanciato e che si dirigeva verso colui che stava annegando, risponderebbe, non già di una omissione di soccorso, ma di un reato commissivo contro la vita, e chi richieda la lettera nella quale aveva previamente denunciato la imminente realizzazione di un omicidio, qualora la persona in pericolo risultasse effettivamente uccisa risponderebbe, non di una omissione dell’obbligo di denuncia di determinati reati, ma di complicità attiva in detto assassinio3. Un’ultima tesi, del tutto minoritaria, coincide con la prima quanto a che ci si trovi di fronte ad un reato omissivo, e con la seconda sul fatto che il soggetto debba rispondere dell’evento, però non perché abbia commesso un reato commissivo, ma invece uno omissivo improprio.

a) A favore della prima soluzione: che nell’interruzione di una serie causale propria il soggetto debba rispondere solo di un’omissione propria, si sono manifestati, tra altri; v. Overebeck4; Armin

3 Nel sistema spagnolo si definisce “assassinio” un omicidio aggravato da talune circostanze. N.d.T.4 Cfr. n. 2, pag. 328

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Kaufmann5; Androulakis6 ; Roxin7; Behrendt8; Jakobs9; Otto10; Schönke/Schröeder/Stree11; Seelmann12 e Rudolphi13.

Ad ogni modo, Roxin stabilisce un “punto di non ritorno” a partire del quale l’interruzione della propria serie causale di salvataggio convertirebbe il comportamento in un reato di azione, che, nel caso di chi finisce per annegare, sarebbe contro la vita: “se si vuol formulare l’idea in modo astratto, potrebbe dirsi che l’omettere commissivo si trasforma in un reato commissivo nel momento in cui la serie causale di salvataggio ha raggiunto la sfera della vittima. A tal fine non è necessario che chi soffre il pericolo abbia fisicamente ‹nelle mani› il mezzo di salvezza. Sarà sufficiente che la denuncia del delitto si trovi nella casella postale del minacciato o che chi stava annegando avesse potuto aggrapparsi, senza aiuto esterno, alla corda di salvezza”14.

b) Di fronte a tale orientamento, un altro settore, ugualmente numeroso, sostiene che in queste ipotesi di interruzione della propria serie causale di salvataggio, l’autore debba rispondere –per esempio, nel caso del salvagente, e se chi stava annegando perisce– di un reato contro la vita eseguito commissivamente, giacché sarebbe irrilevante che la serie causale di salvataggio sia stata innescata dalla stessa persona che poi la interrompe, o messa in moto da un terzo, ipotesi quest’ultima sulla quale esiste un amplio accordo quanto a che egli realizzi un reato commissivo al quale deve essere ricondotta la lesione del bene giuridico (v. immediatamente infra II). In tal senso si sono espressi, tra gli altri: Langer15, Engisch16, Samson17, Schmidhäuser18, Blei19, Maurach/Gössel20; Baumann/Mitsch21; e Stratenwerth22

5 V. Die Dogmatik de Unterlassungsdelikte, 1959, p. 108: “Conseguentemente, il tentativo interrotto [Armin Kaufmann si riferisce all’esempio di chi richiede all’ufficio postale la lettera nella quale si denunciava che sarebbe commesso un fatto criminoso] di realizzare l’azione dovuta non ha conseguenze dogmatiche: non modifica in nulla l’esistenza di un’omissione tipica”.6 V. Studien zur Problematik der unechten Unterlassungsdelikte, 1963, pag. 1557 V. Engisch-FS, 1969, pag. 382/383: “nel nostro esempio quello che succede è che chi agisce disfa il suo proprio tentativo di salvarsi, con la conseguenza che la situazione è la stessa di chi non avesse agito dall’inizio. L’applicazione di energie positive e negative si neutralizza, di modo che il nostro autore non deve ricevere un trattamento diverso da chi da un principio, ha mostrato la sua volontà di agire per salvarsi. Da questi esempi può discendere il principio generale che un agire, quando si manifesta come il desistenza del compimento di un mandato, deve essere sussunto nel tipo di omissione il cui mandato si è infranto con un intervento attivo. Ciò non vuol dire che un fare diventi un omettere; la nostra conclusione va interpretata, piuttosto, nel senso che la fattispecie di mandato contiene, come norma secondaria, la proibizione di un fare come quello descritto a produzione dell’evento”.8 Die Unterlassung im Strafrecht, 1979, pag. 190 n. 170.9 Cfr. Strafrecht, AT, 2ª ed., 1991, 7/62.10 V. Grundkurs Strafrecht, Allgemeine Strafrechtslehre, 6ª ed., 1996, § 9 n. m. 21.11 Cfr. StGB, 26 ed., 2001, § 13 n. m. 16012 V. NK, situazione: 10ª del, 2001, § 13 n. m. 2513 Cfr. SK, del 16: abril de 2001, § 13 n. m. 4714 Roxin (n.7), p. 387. nello stesso senso: Baumann/Weber, Strafrecht AT, 9ª ed., 1985, pag. 239; Jakobs (n. 9), 7/63 n. 108; Kühl, Strafrecht AT, 3ª ed., 2000, § 18 n. m. 21; Schönke/Schröder/Stree (n. 11), § 13 n. m. 160; Seelmann (n. 12), § 13 n. m. 25; Rudolphi (n. 13), § 13 n. m. 47.15 Cfr. Das Sonderverbrechen, 1972, pag. 499 n. 3.

16 Cfr. Gallas-FS, 1973, pag. 183.17 Cfr. Welzel-FS, 1974, pag. 582 ss.18 V. Strafrecht AT, Lehrbuch, 2ª ed., 1975, 16/108: “Al lanciare il salvagente, A ha realizzato l’apporto richiesto dalla situazione di necessità di X. Con il suo comportamento successivo [ritirare il salvagente] A compie un intervento che peggiora la situazione di X. Ed ora concorre, di già, conseguentemente, un reato commissivo che non richiede una posizione di garante dell’autore … L’evento deve venir imputato oggettivamente ad A, giacché, senza il suo intervento posteriore, X si sarebbe salvato; A deve esser condannato per omicidio”. V. Nello stesso senso lo stesso autore Strafrecht AT, Studienbuch, 1982, 12/5319 Cfr. Strafrecht I, AT, Studienbuch, 18 ed., 1983, pag. 312.20 Cfr. Maurach/Gössel/Zipf, Strafrecht AT, tomo 2, 7ª ed., 1989, § 45 n. m. 45.21 V. Baumann/Weber/Mitsch, Strafrecht AT, 10ª ed., 1995, § 13 n. m. 31.

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c) Per concludere, Silva23 ritiene che in tali casi la rottura della serie di salvataggio propria motivi un obbligo di garanzia per ingerenza, e che, dunque, si debba imputare all’autore una commissione per omissione.

C. Presa di posizione

A mio avviso, e sottoscrivendo la direzione dottrinale già esposta supra B 2 a), tutti i casi che ivi si includono debbono essere considerati come omissioni proprie, però, non perché ci si trovi qui dinanzi ad una così detta “omissione per commissione” è dire: dinanzi ad un agire sussumibile mediatamente in un reato omissivo, ma piuttosto perché si sia in presenza di un comportamento che rientra direttamente nella previsione dell’art. 195, in quanto il senso letterale possibile dell’espressione non-soccorrere può comprendere anche certi comportamenti attivi: chi ritira la tavola che previamente aveva lanciato verso chi stava annegando, mediante tale azione “non-sta-soccorrendo” la persona bisognosa. Quanto al resto, e contrariamente a quanto sostenuto da Roxin ed i suoi seguaci24, queste ipotesi non meritano qualifica diversa in funzione di se la tavola si sia più o meno avvicinata a chi sta a punto di annegare: il momento decisivo che converte l’interruzione della serie causale di salvataggio in un autentico reato commissivo in relazione causale con l’evento lesivo, e, come si esporrà più avanti affrontando il problema della “disconnessione di strumenti medici che mantengono in vita il paziente” (infra III), è quello in cui il processo causale ha smesso di essere potenziale (indipendentemente da se tale potenzialità fosse maggiore o minore poiché la tavola era più o meno vicina a chi stesse annegando), ed è divenuto reale; se, infatti, si strappa via al soggetto passivo il salvagente, al quale è già afferrato, sarà questo comportamento attivo –come in ogni altro reato commissivo– quello che avrà prodotto l’evento tipico.

Per quanto riguarda la tesi riportata supra B 2 b) secondo la quale ci troveremmo, come accade nei casi di interruzione di serie causali altrui, in presenza di un reato commissivo mi rimetto alla critica che, contro tale posizione, esporrò più avanti, e nella quale sottoporrò ad una trattazione unitaria l’interruzione di serie causali di salvataggio, senza ulteriori qualifiche; a parer mio l’elemento determinante non è che dette serie causali siano proprie o altrui, ma piuttosto che, in ciò che viene interrotto, ci sia o meno un obbligo di garanzia di evitare l’evento.

Per la critica alla concezione di Silva, esposta in B 2 c), che vorrebbe che tali ipotesi si qualificassero di omissione impropria, pure mi rimetto a quello che si dirà infra II C 3. Ad ogni modo l’argomentazione di Silva, secondo la quale tale commissione per omissione sarebbe basata su di una posizione di garanzia per ingerenza (per l’ingerenza di aver lanciato la tavola) non può convincere, ciò che caratterizza tale posizione di garanzia è che l’omettente ha elevato, per mezzo di un’attività precedente (per esempio scavando una buca, che non segnala in vista di quando arriverà il buio, e nella quale qualcuno cade rompendosi una gamba), il rischio di produzione dell’evento, mentre qui accade tutto il contrario: mediante un’attività precedente (che poi egli interrompe) l’autore aveva fatto diminuire (al porre in moto una serie causale di salvataggio) il pericolo di lesione del bene giuridico.

Con quanto detto non do per concluso lo studio dell’interruzione di serie causali di salvataggio proprie, giacché, dopo essermi occupato della rottura di serie causali altrui, tornerò sul tema infra II

22 V. Strafrecht AT, I, 4ª ed., 2000, § 13 n. m. 3: “Se l’autore ha creato, prima, occasioni di salvezza … che, posteriormente, annulla, allora si tratta di un intervento su di un ‹processo causale di salvataggio›, è dire: di un caso di omissione”.23 Cfr. El delito de omisión, 1986, p. 223; nello stesso senso, lo stesso, CDJ XXIII, 1994, pag. 30/31. come vedremo infra II B 3, Silva sostiene la stessa soluzione in caso di interruzione di serie di salvataggio altrui. 24 V. supra n. 14.

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D 3, occupandomi di questo gruppo di casi avvalendomi di ulteriori conclusioni estratte da detta analisi.

II. INTERRUZIONE DI SERIE CAUSALI DI SALVATAGGIO ALTRUI

Esposizione del problema

L’interruzione di una serie causale di salvataggio altrui, è caratterizzata dal fatto che un processo causale che si va ad intraprendere o che si trova già in marcia, e che avrebbe potuto evitare la lesione del bene giuridico, viene interrotto per mezzo del movimento corporale di un terzo.

1. La questione in dottrina

Oltre al caso del salvagente che si approssima ad un bagnante che si trova in pericolo e che viene ritirato da un terzo (interruzione a posteriori di una serie causale di salvataggio), presentato per la prima volta da Traeger25, nella variante in cui B impedisce che A arrivi ad innescare la serie causale di salvataggio, trattenendolo con la forza prima che riesca a lanciare il salvagente che potrebbe salvare X dal morire annegato (rottura ab initio del processo di salvataggio), altre ipotesi che appartengono a questo gruppo di casi sono le seguenti:

- Un terzo impedisce all’infermiere di somministrare l’antidoto a colui al quale per errore, è stato iniettato un prodotto che nell’overdose realizzata è divenuto letale26.

- Chi si dirigeva a denunciare un reato viene trattenuto violentemente dal farlo da un altro soggetto27.

- Quando A va a somministrare a B la medicina contenuta in una fiala che salverebbe la vita

di questi, C distrugge la fiala tirandola al suolo28.

- Quando il camionista A si prepara a trasportare all’ospedale B che ha sofferto un infarto C si appropria delle chiavi di accensione del veicolo, rendendo impossibile il soccorso29.

- A, che vorrebbe avvisare un ambulanza affinché si trasporti all’ospedale chi ha sofferto un incidente non può farlo perché il proprietario della casa gli impedisce di utilizzare il telefono30.

- Un terzo minaccia A qualora persista nel tentativo di salvare un’altra persona, al ché il minacciato rinuncia a prestare soccorso31.

25 Cfr. De Kausalbegriff im Straf- und Zivilrecht, 1904, pag. 65.26 L’esempio fu utilizzato per la prima volta, per quanto ne sappia, da v. Rohland, VD AT, I, 1908, pag. 14, e riappare continuamente, con alcune varianti, nella posteriore discussione.27 L’esempio viene, come tanti altri, da v. Overbeck (n. 2), pag. 331.28 L’esempio viene da Armin Kaufmann (n. 5), pag. 196.29 L’esempio viene da Meyer-Bahlburg, Beitrag zur Erörterung der Unterlassungsdelikte, tesi dottorale di Amburgo, 1962, pag. 16.30 L’esempio viene da Meyer-Bahlburg (n. 29), pag. 16.31 L’esempio viene da Armin Kaufmann (n. 5), pag. 196.

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- Nel luogo di un incidente A si prepara a soccorrere chi lo ha sofferto (X), ma desiste perché un terzo, lo inganna e gli dice, mentendo, che X è già stato trasportato in ospedale32.

2. La problematica nella giurisprudenza

Dal momento che la scoperta –e con ciò la trattazione teorica– di questo gruppo di casi non si realizza che in un’epoca tutto sommato recente, dal momento che non se ne conosceva l’esistenza, né nella giurisprudenza spagnola, né in quella tedesca, si trovano casi reali che siano stati esaminati dai tribunali dalla prospettiva della “interruzione di una serie causale di salvataggio altrui”. Tuttavia, ciò non vuol dire che non si siano dovuti sommettere a giudizio casi che presentavano queste caratteristiche, per quanto non si riconoscessero nei fatti provati, dal momento che una delle maniere di ottenere la lesione di un bene giuridico è proprio quella di togliere di mezzo una serie causale che avrebbe potuto preservarlo dalla lesione stessa.

Limitandomi alla giurisprudenza spagnola, esporrò quattro esempi, nei quali, nonostante il Tribunale Supremo, non era cosciente di ciò, in realtà si trattava di ipotesi di interruzione di serie causali di salvataggio altrui:

a) La sentenza del TS dell’8 di Novembre del 1961, A. 3812, si occupa del caso nel quale una donna, con il proposito di togliersi la vita, ingerì una soluzione concentrata di acido cloridrico, manifestando, poi, il desiderio di essere visitata da un medico e di sopravvivere. Il marito Francisco, vedendo nel tentativo di suicidio l’opportunità di ereditare la fortuna della sua facoltosa sposa, mise in atto varie condotte volte ad interrompere la “serie causale di salvataggio altrui” portata avanti dal medico giunto ad assistere la donna. “Francisco”, può leggersi nella sentenza, “dichiarò [mentendo] al medico che la consorte aveva sputato l’acido appena giuntole in bocca, mostrando a questi persino delle tracce sul pavimento”, convincendo il dottore che “l’ingestione era stata nulla o scarsissima”, ottenne che questa non fosse trasportata urgentemente in ospedale, dove sarebbe stata soccorsa dall’intossicazione ma morisse, successivamente, a causa dell’avvelenamento. In risposta al ricorso del Pubblico Ministero (PM) che riteneva che i fatti dovessero essere considerati come un parricidio33 doloso, il TS confermò la condanna dell’Udienza Provinciale di aiuto al suicidio.

Indipendentemente da come debba qualificarsi la condotta, ciò che pare ovvio è che ci troviamo di fronte ad un caso paradigmatico di “interruzione di una serie causale di salvataggio altrui”, poiché l’azione del marito non è diretta a provocare direttamente la morte –questa si produce, piuttosto per l’ingestione di acido cloridrico che la vittima si era direttamente somministrata–, ma l’effetto di questa è quello di interrompere una catena causale già iniziata –il trattamento medico– che non arriva a svilupparsi nella sua posteriore e logica evoluzione di una terapia ospedaliera d’urgenza, a conseguenza dell’azione ingannevole alla quale l’autore sottopone il medico.

b) La sentenza del TS del 27 di Giugno del 1997, A. 4987, affronta il caso nel quale i genitori -testimoni di Geova- di un bambino di 13 anni gravemente malato, ed “in situazione di rischio emorragico”, ricoverarono l’8 di Settembre del 1994 il figlio in un primo ospedale, nel quale i medici prescrissero, per neutralizzare la suddetta emorragia, una trasfusione di sei centimetri di ………….” alla qual cosa i genitori si opposero “manifestando … che la loro religione non consente l’accettazione di una trasfusione di sangue”; i medici acconsentirono a che i genitori portassero il figlio a casa dove rimase fino al 12 di Settembre dello stesso anno, data in cui, dal momento che la situazione continuava ad essere grave, lo trasportarono ad un secondo ospedale: l’Ospedale Universitario Materno-Pediatrico di Vall D’Ebron di Barcellona, nel quale altri medici “considerarono urgente … l’applicazione di una trasfusione per neutralizzare il rischio di una

32 L’esempio viene da Armin Kaufmann (n. 5), pag. 196.33 Si definiva “parricidio” (con aggravio di pena), nel sistema penale spagnolo, anche l’omicidio tra coniugi. N.d.T.

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Page 7: UNA TERZA MANIERA DI REALIZZARE IL REATO: …€¦  · Web viewMa la dottrina non s’è accorta –per lo meno per quanto riesco a vedere– che l’interruzione di serie di salvataggio

emorragia”, i genitori di nuovo addussero che “le loro convinzioni religiose gli impedivano di accettare una trasfusione” ed abbandonarono l’ospedale per trasportare il malato in quello “General de Cataluña” ove i medici reiterarono l’inesistenza di un trattamento alternativo e la necessità della trasfusione che fu nuovamente ricusata dagli accusati…, che tornarono nel loro domicilio all’una di notte del giorno 13 di Settembre”. Da ultimo in virtù di una decisione del Giudice Istruttorio di Fraga il giorno dopo, dopo aver ricevuto un referto medico, il minore venne trasportato coattivamente in un Ospedale di Saragozza “nel quale giunse alle ore 23.30 dello stesso giorno 14 con segni clinici di decerebrazione per emorragia cerebrale, e morì alle ore 21.30 del giorno 15 di Settembre del 1994”.

Il Tribunale Supremo condannò i genitori per omicidio commissivo per omissione con dolo eventuale affermando che “risulta ben evidente che i genitori, che si trovavano nell’esercizio della patria potestà, avevano obbligo di garanzia rispetto alla salute del figlio”. Ma, in realtà, non ci si trova dinanzi ad un reato omissivo (improprio), dal momento che i genitori non si limitano a rimanere inattivi dinanzi alla malattia del figlio, astenendosi dal ricoverarlo in ospedale, ma, al contrario, ed eseguendo tre condotte attive, interrompono serie causali di salvataggio, che i medici dei tre ospedali, per mezzo delle trasfusioni di sangue professionalmente indicate, erano disposti ad intraprendere; trasfusioni che, secondo quanto consta nella sentenza, avrebbero comportato, almeno a breve termine, “una alta possibilità di sopravvivenza” del malato.

C) Nella sentenza del 30 di marzo del 2001, a 1672, il TS si occupa di un fatto nel quale il ricorrente, Oscar, “con il fine di facilitare l’aggressione esercitata da Gerardo [sulla vittima José Ángel] si interpose tra egli e gli amici di José Ángel e, agitando un coltello che muoveva in maniera violenta da un lato all’altro, evitò che gli amici di José Ángel si avvicinassero al luogo dell’aggressione e con ciò questi furono costretti a ritirarsi per il timore di soffrire qualche ferita da taglio”.Il TS confermò la sentenza di Oscar come complice di un reato di lesioni, senza fermarsi ad analizzare che qui la partecipazione delittuosa aveva adottato la forma di una interruzione di una serie causale di salvataggio, giacché l’apporto di lui alle lesioni realizzate dall’autore materiale era consistito nell’impedire le attuazioni di terzi che avrebbero potuto evitare le aggressioni che soffrì la vittima.

d) Infine anche la sentenza del TS del 5 di ottobre del 2001, A 9045, si riferisce ad una caso di concorso di persone nel reato. Secondo la relazione dei fatti provati, l’autore materiale, D., penetrò per via vaginale con violenza la vittima, Eva, mentre “Ch. [compagno di D] trattenne il marito [di Eva] Harald di modo che non potesse aiutare sua moglie”. Come nella decisione anteriore, anche qui ci troviamo dinanzi ad una partecipazione nel reato consistente nell’interruzione del (ab initio) di una serie casale di salvataggio, poiché la condanna di Ch. da parte del TS come cooperatore necessario in un reato di violenza sessuale si fonda sul fatto che “se non avesse operato come fece Harald avrebbe aiutato Eva e avrebbe potuto impedire la summenzionata penetrazione forzata”.

B. Soluzioni proposte dalla dogmatica

La dottrina assolutamente dominante non ha dubbi su come debbano essere qualificate tali interruzioni (ab initio o a posteriori) di serie causali di salvataggio altrui: come reati di azione34 ai quali imputare le eventuali lesioni prodotte a beni giuridici. Conseguentemente per esempio: se A impedisce che B soccorra X, trattenendolo colla forza, minacciandolo, impedendogli di utilizzare il

34 Minoritariamente, Arthur Kaufmann/Hassemer, Silva e Seelmann ritengono che ci si trovi qui di fronte a reati omissivi impropri (v. infra 3). V. Overbeck (n. 2), pag. 331, Meyer-Bahlburg, GA 1968, pag. 51, e Herzberg, Die Unterlassung im Strafrecht und das Garantenprinzip, 1972, pag. 44, ritengono anche loro in esigua minoranza che chi interrompe serie causali di salvataggio altrui debba rispondere solo di una omissione propria.

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telefono, ingannandolo, dicendo che X è già stato soccorso, A risponderebbe di un reato di omicidio commissivo35, e ciò indipendentemente da che colui al quale si impedisce di realizzare l’azione di soccorso sia garante o solo sia tenuto ad agire, come omettente proprio, in base all’art. 195 CP, e, pure, indipendentemente da se sia garante o meno chi interrompa la serie causale di salvataggio36.

Nel prosieguo, e partendo dalla base che la totalità, in pratica, degli autori considera l’interruzione di serie causali di salvataggio altrui reati di azione ai quali imputare l’evento tipico, nel caso in cui esso si produca, si espongono le due correnti vigenti maggioritarie in dottrina in funzione a che il fondamento di detta imputazione sia o che tali interruzioni hanno causato effettivamente l’evento (infra 1), o che, pur ammettendo che tale relazione causale non esiste, nonostante ciò si giunga alla analoga conclusione, argomentando, col principio –analogo a quello della (quasi)causalità dell’omissione impropria– per cui sopprimendo mentalmente l’azione di interruzione, l’evento tipico, con una probabilità vicina alla certezza, non avrebbe a verificarsi (infra 2)37. Infine (infra 3), ci occuperemo di una tesi minoritaria che, come le altre due, pure, perviene all’imputazione dell’evento a chi interrompe il corso causale di salvataggio, ma ritenendo che ci si trovi dinanzi ad un caso di omissione (impropria).

1. L’azione d’interruzione costituisce un reato commissivo, e l’evento deve essere imputato a detta azione perché tra questa e quello esiste una relazione di causalità. Considerano che all’azione d’interruzione di una serie causale di salvataggio altrui debba imputarsi l’evento, perché tra quella e questo esiste una effettiva relazione di causalità, tra gli altri: Traeger38, v. Roland39, Frank40, Engisch41, v.Liszt/Schmidt42, Mezger43, Armin Kaufmann44, Stree45, Rodríguez

35 O per un tentativo di omicidio se X, nonostante ciò e con altri mezzi riesce a salvare la vita.36 Cfr., in tal senso per tutti: Armin Kaufmann (n. 5), pag. 196 ss.; Maurach/Gössel (n. 20), § 46 n. m. 50; Roxin, Täterschaft und Tatherrschaft, 7ª ed., 2000, pag. 472.37 Jescheck (LK, 11 ed., 1993 ss., antes del § 13 n. m. 90), Otto (n. 10, § 9 n. m. 8), Köhler (Strafrecht AT, 1997, pag. 215), Wessels/Beulke (Strafrecht AT, 30 ed., 2000, n. m. 700), e Kühl (Strafrecht AT, 3ª ed., 2000, § 18 n. m. 20), tra gli altri, senza alcun fondamento, vale a dire: senza specificare se tra interruzione della serie causale di salvataggio ed evento esista o meno relazione di causalità, si limitano ad affermare che in tali casi siamo dinanzi ad un reato di azione che l’evento deve essere imputato a chi interrompe tale serie.38 Cfr. n. 25, pag. 605.39 V. n. 26, pag. 363.40 Cfr. StGB, 18 ed., 1931, pag. 17.41 V. Die Kausalität als Merkmal de strafrechtlichen Tatbestände, 1931, pag. 27/28: “Ricordiamo l’esempio in cui un guardiano dei binari ferroviari sia narcotizzato o legato, e non possa più azionare lo scambio. Si può pensare, inoltre, che qualcuno che stia per salvare chi annega sia trattenuto … Dal momento che possiamo dire che queste persone, per mezzo di un comportamento appropriato, avrebbero impedito certe modifiche che si sarebbero prodotte successivamente, (lo scontro, l’annegamento), quegli interventi di sviamento (come negazione di una negazione di, è dire: come negazione dell’impedimento dell’evento) e l’evento tipico configurano tra loro una relazione conforme alle leggi della natura, e, con ciò pure, il comportamento che si vuol esaminare e l’evento prodottosi”.42 Cfr. Lehrbuch des Deutschen Strafrechts, tomo I, 26 ed., 1932, pag. 170 n. 1: “La causazione del non impedimento è un agire positivo, non un’omissione. Esempio: A trattiene violentemente B che vuol salvare C”.43 V. Strafrecht, Ein Lehrbuch, 2ª ed. 1933 (=3ª ed., 1949), pag. 133 n. 13: “… è naturale che l’inibizione di un impulso o l’impedimento dell’impedimento dell’evento non è un omettere ma un agire positivo”.44 V. n. 5, pag. 190. Cfr. anche, pag. 195 ss, e lo stesso, von Weber-FS, 1963, pag. 219 n. 29.45 Cfr. Hellmuth Mayer-FS, 1966, pag. 158.

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Mourullo46, Nickel47, Samson48, Puppe49, Baummann/Mitsch50, Jakobs51, Cerezo52; Muñoz Conde53; Kühl54l; e Rudolphi55. Le contraddizioni di coloro che affermano esserci una relazione di causalità nell’omissione appaiono chiare, come in nessuna altro autore, in Roxin. Egli, dopo aver affermato che “nei reati commissivi, in generale, non influisce nella causalità nessun processo causale ipotetico”, stabilisce, ciononostante, “una piccola limitazione”56 per l’ipotesi d’interruzione di serie causali di salvataggio, ove, effettivamente, per poter stabilire una connessione materiale tra azione di interruzione ed evento, c’è da avvalersi della considerazione ipotetica per la quale se A non avesse trattenuto la tavola che la corrente trasportava verso B, l’evento (della) morte di lui –perché con maggiore o minor probabilità avrebbe potuto aggrapparsi al salvagente–, non si sarebbe prodotto. In altre parole: se si vuol stabilire una relazione causale tra azione d’interruzione ed evento morte, è imprescindibile considerare la serie causale ipotetica –e non–reale– di ciò che sarebbe successo se –non essendo intervenuto A– la corrente avesse continuato ad avvicinare la tavola a chi era sul punto di annegare.

Roxin espone così che nel reato commissivo d’interruzione di serie di salvataggio c’è relazione di causalità, e che essa debba essere stabilita considerando il processo ipotetico che sarebbe accaduto se quella azione non si fosse realizzata: “Il caso più difficile per la teoria dell’equivalenza è rappresentato dalla constatazione (poco frequente in pratica) dell’impedimento di processi di salvataggio. L’autore trattiene una camera d’aria o un cane che si dirige verso chi si dibatte nell’acqua: la vittima, che altrimenti si sarebbe salvata, perisce annegando. O: qualcuno distrugge una medicina che è l’unica in grado di salvare un’altra persona; o qualcuno taglia il tubo dell’impianto antincendio che avrebbe spento il fuoco. C’è unanimità nel ritenere che in tali casi chi agisce debba essere condannato come autore di un reato commissivo consumato, qualora il processo causale che egli ha impedito avrebbe evitato l’evento tipico con una probabilità vicina alla certezza. Ciò che presenta dubbi è come si possa dimostrare la causalità dell’agente. Essa manca se per causalità intendiamo una ‹forza attiva› dinamica causante l’evento. Nei nostri esempi solo sarebbero causali l’acqua, la malattia, il fuoco, mentre l’azione umana non compare nel processo causale ma solo allontana da esso potenziali ostacoli. A volte si fa discendere da argomentazioni similari l’inidoneità del principio causale. Tuttavia una concezione così ‹metafisica› della causalità non è del

46 Cfr. La omisión del deber de socorro en el Código Penal, 1966, p. 295.47 Cfr. Die Problematik de unechten Unterlassungsdelikte im Hinblick auf den Grundsatz “nullum crimen sine lege” (Art. 103 Abs. 2 GG), 1972, pag. 44.48 Cfr. n. 17, pag. 591.49 V. ZStW 92 (1980), pag. 903 ss.; la stessa, NK, situazione: 10ª del, 2001, prima del § 13 n. m. 9850 Cfr. n. 21, § 15 n. m. 31: “I casi nei quali l’autore, mediante un intervento attivo, impedisce il successo di un avvenimento già iniziato di impedimento di un evento, non presentano nessun tipo di problema giuridico specifico di omissione. Si tratta di un reato commissivo se, senza quell’intervento, l’evento tipico sarebbe stato evitato dal tentativo di salvataggio. Perché in tal caso l’intervento impediente il salvataggio è causale rispetto all’evento tipico” (corsivo nel testo originale).51 Cfr. n. 9, 7/22.52 V. Curso de Derecho penal español PG, II, 6ª ed., 1998, pag. 55/56.53 Cfr. Muñoz Conde/García Arán, Derecho penal PG, 4ª ed., 2000, pag. 273.54 Cfr. n. 14, § 18 n. m. 36.55 Cfr. n. 13, prima del § 1 n. m. 4: “Con l’aiuto della condizione conforme a leggi della natura può concepirsi senza sforzo, la causalità nell’interruzione di serie causali di salvataggio. Se A interrompe una serie causale d salvataggio, se, per esempio, impedisce a B di salvare C –che sta annegando–, o se trattiene una tavola che la corrente invia verso C, e con la quale C si sarebbe salvato, l’azione di questi si trova in relazione conforme a leggi causali con l’annegamento di C in quanto ha interrotto un processo causale che, secondo il nostro sapere empirico, avrebbe evitato l’evento tipico” V. anche dello stesso autore, Die Gleichstellungsproblematik der unechten Unterlassungsdelikte und der Gedanke de Ingerenz, 1966, pag. 115.56 Roxin, Strafrecht AT I, 3ª ed., 1997, § 11 n. m. 22, corsivo aggiunto. Nel § 11 n. m. 52 Roxin torna ad affermare: “Come già sappiamo nella causalità dei rati commissivi i processi causali ipotetici sono in generale irrilevanti”, volendo dire con la espressione “in generale” che nell’interruzione di serie di salvataggio bisogna stabilire una “piccola limitazione” perché lì sì che sono rilevanti tali procedimenti ipotetici.

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Diritto. Esso si accontenta della successione di avvenimenti secondo le leggi naturali. L’impedimento dell’evento di salvataggio è condizionato alle leggi della natura, tanto quanto quello avrebbe evitato l’evento d’accordo colle leggi generali. Se fosse diversamente, l’agente non potrebbe avere successo con un piano perfettamente congeniato. Certamente questa costellazione, paragonata con tutti gli altri casi di causalità commissiva, presenta la peculiarità per cui, per rilevarla bisogna ricorrere ad un processo causale ipotetico: il salvataggio che si sarebbe verificato se l’agente non avesse agito. Ma ciò non può essere una confutazione ma solo una puntualizzazione del principio per cui la connessione reale di avvenimenti non può mai essere sostituita da processi causali ipotetici; qui non si sostituisce l’azione dell’autore con un processo causale che si aggiunge mentalmente, ma unicamente si completa. Dentro la cornice di tale completamento c’è da tener conto, ad ogni modo, di tutte le circostanze ipotetiche: e così, per esempio, l’autore non è causale quando versa sprecandolo il siero che avrebbe salvato la vita, ‹se questo, in ogni caso sarebbe andato distrutto per l’azione del calore nel volo che lo trasportava all’agonizzante B›”57.

2. L’azione di interruzione costituisce un reato commissivo, e, nonostante tra quella e l’evento non ci sia una relazione di causalità, l’agente non deve rispondere di detto evento, poiché, con una probabilità vicina alla certezza, quello non si sarebbe verificato se l’autore non avesse interrotto la serie causale di salvataggio

Rispetto alla posizione di questi autori, un altro settore della dottrina, molto meno numeroso, considera che tra l’interruzione di una serie di salvataggio e l’evento non esista causalità reale ma solo ipotetica, dal momento che, in generale, dato che nella commissione per omissione la dottrina dominante si accontenta, per imputare l’evento, di che con l’azione omessa si sarebbe potuto evitarlo, non presenterebbe molte difficoltà, in base agli stessi presupposti, imputare l’evento tipico all’azione che interrompe la serie di salvataggio che, ipoteticamente, avrebbe evitato l’evento. In tal senso si manifestano, tra gli altri, Grünwald58; Kahrs59 e Schmidhäuser60.

3. Nell’interruzione di serie causali di salvataggio altrui non esiste né un reato di azione, né una relazione di causalità, ma l’autore deve rispondere ugualmente dell’evento perché ha realizzato un’omissione impropria

Infine, Silva ritiene che nell’interruzione di serie causali non ci sia né una relazione di causalità61, né un reato di azione, tuttavia sostiene, insieme alla dottrina assolutamente dominante, che chi interrompe detto processo, deve rispondere dell’evento, per commissione per omissione, poiché quella interruzione stabilirebbe una posizione di garanzia per ingerenza di colui che ha realizzato l’interruzione stessa62.57 Roxin (n. 56), § 11 nn. mm. 32 e 33, corsivo nel testo originale.58 Cfr. Das unechte Unterlassungsdelikt –Seine Abweichungen vom Handlungsdelikt-, tesi dottorale dei Göttingen, 1956, pag. 11 n. 5: “L’interruzione di una serie causale di salvataggio, in generale si reputa, senza difficoltà, come causale rispetto all’evento, nonostante pure qui, a partire dall’interruzione, si pronunci un giudizio su una successione pensata di avvenimenti pensati. L’affermazione che una ‹serie causale di salvataggio› sarebbe causale rispetto all’evento, è incorretta. Tale errore è per lo più innocuo; all’inizio figura in una catena causale reale che si origina a partire da una manifestazione di volontà, vale a dire di un’azione, e ad essa si applica una valutazione identica a quella dell’azione che causa un evento. Però esiste una peculiarità: l’apprezzamento della causalità, che è di tipo ipotetico a partire dal ‹punto di interruzione› anche in questo caso è un giudizio di probabilità”59 V. Das Vermeidbarkeitsprinzip und die condicio-sine-qua-non-Formel im Strafrecht,1968, pag. 217 (“Se [l’autore] ha agito attivamente, ostacolando chi fosse disposto a soccorrere, e se il suo comportamento giuridicamente ineccepibile fosse consistito nel rimanere passivo, è responsabile dell’evento nonostante non l’abbia causato in un senso scientifico-naturale”) e passim.60 Cfr. n. 18 (Lehrbuch), 8/76.61 Cfr. n. 23 (1986, pag. 228 ss.; 1994, pag. 33/34)62 Cfr. n. 23 (1986), pag. 240 ss. Para Arthur Kaufmann/Hassemer, JuS 1964, pag. 156, chi interrompe una serie causale di salvataggio altrui risponde, come ritiene la dottrina dominante, dell’evento, ma non perché commetta un reato di azione, ma uno, -così come sostiene anche Silva- di omissione impropria. Cfr. anche Seelmann (n. 12), § 13 n. m. 35:

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C. Critica

Indipendentemente dalla soluzione che possa darsi all’interruzione di serie di salvataggio altrui, problematica della quale mi occuperò infra D 4, quello che già si può dire è che delle tre argomentazioni che fino ad ora la dottrina ha fornito per spiegare perché all’autore si debba imputare l’evento, nessuna può davvero convincere.

1. Critica di coloro che argomentano che l’imputazione dell’evento all’azione di interruzione configurerebbe un reato di azione in relazione causale con la lesione del bene giuridico

Per questa corrente dottrinale il soggetto, all’impedire, ab initio o a posteriori, una serie causale di salvataggio starebbe commettendo un reato commissivo puro e semplice. Certo è che in tali ipotesi ci troviamo dinanzi ad un comportamento positivo nella misura in cui il soggetto non si astiene, ma anzi compie un movimento corporale; però tale ultima circostanza non legittima ad affermare che ciò di cui qui si tratta sia un reato commissivo come qualunque altro. Poiché i reati commissivi, che fino ad ora abbiamo conosciuto, non solo sono caratterizzati dal fatto che si compie un movimento corporale, ma anche da che tale movimento si trova in relazione causale fisico-naturale con l’evento: lo sparo (movimento corporale di A) è ciò che, al penetrare nel cuore della vittima, provoca materialmente la morte di questa. In cambio nell’interruzione di serie di salvataggio il movimento muscolare non causa fisico-naturalmente la morte, ma solo impedisce che un processo che avrebbe potuto salvare la vita di un’altra persona entri in gioco: esiste una differenza ontologica essenziale tra quello che fino ad ora si era considerato in Diritto Penale un indubitabile reato di azione (A annega B, sommergendogli la testa fino a che non perisca asfissiato), e ciò che ora ci si vorrebbe far passare per reato di azione: se A impedisce che ad X arrivi il salvagente che B ha lanciato per riscattarlo, A non lo ha fatto annegare materialmente, ma solo ha impedito che il processo causale che avrebbe potuto, con più o meno alta probabilità, salvarlo dispiegasse i suoi effetti; dipendendo, il verificarsi dell’evento, dalla forza d’animo di X e lo stato più o meno agitato del mare, il che significa, tra l’altro, che mentre nel reato commissivo tradizionale esiste certezza che sia il movimento muscolare ciò che ha prodotto nel mondo esterno l’evento tipico, in tali presunti reati commissivi non è possibile accreditare che la lesione sofferta dal bene giuridico possa ricondursi, con certezza assoluta, al movimento corporale di interruzione del corso di salvataggio.

Certamente tra gli autori che affermano che in tali ipotesi ci si trovi di fronte ad un reato commissivo in relazione causale con l’evento, figurano coloro che considerano le condizioni negative –nelle omissioni– causali rispetto all’evento, pertanto, per tali autori, non sarebbe così inconseguente sostenere che chi impedisce la condizione che avrebbe evitato l’evento pone, con ciò, una condizione negativa di tale evento. L’incoerenza è manifesta, invece, in quegli atri autori che, nonostante considerino che le condizioni negative non figurino in connessione materiale con l’evento, stabiliscono, poi, un’eccezione in tali casi, per la quale l’interruzione di serie di salvataggio, sarebbe causale alla lesione del bene giuridico, nonostante tale interruzione potrebbe, al più esser considerata solo come condizione negativa63.

Conseguentemente e per concludere: equiparare la causalità del reato tradizionale di azione con l’interruzione di serie di salvataggio altrui presuppone includere in uno stesso concetto (reato commissivo) due fenomeni completamente diversi, che solo hanno in comune che, in entrambi i casi, l’autore realizza un movimento muscolare: però, mentre in quello esiste una causalità fisico-

“In mancanza della conditio sina qua non qui [nell’interruzione di corsi causali altrui] bisogna partire da un’omissione.63 Su tale contraddizione ha posto attenzione, a ragione, anche Puppe, ZStW 92 (1980), pag. 898: “Questo lo riconoscono anche i nemici della inclusione della negativa nelle spiegazioni causali quando nell’interruzione delle serie causali di salvataggio … fondano l’imputazione in ultima istanza su di un <fatto negativo>”

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naturale tra questo movimento e l’evento tipico (la morte di B è riconducibile materialmente ad A che ha sommerso il capo di B nell’acqua fino ad asfissiarlo: causalità reale e non ipotetica), nell’interruzione di serie di salvataggio, questa non costituisce un’applicazione di energia che si trasforma meccanicamente nella produzione dell’evento, ma si limita ad impedire l’entrata in gioco di una concatenazione causale che, forse, avrebbe impedito l’evento. E come una condizione negativa non è causa materiale del risultato, per cui, come ho cercato di dimostrare in altra sede64, le omissioni non sono causalmente connesse con quello, neppure può essere causale un intervento attivo la cui efficacia nel mondo esterno si esaurisca nella permanenza di una condizione anch’essa negativa dell’evento: si esaurisce nel fatto che l’avvelenato non possa ingerire l’antidoto, o che il salvagente non arrivi a chi sta annegando. Quanto al resto, ed a differenza della causalità reale dell’autentico reato commissivo, ove la connessione tra azione ed evento può stabilirsi con assoluta certezza (A è morto perché B gli ha sparato), nell’interruzione di serie di salvataggio è necessario avvalersi della speculazione ipotetica su se l’evento si sarebbe o meno verificato nel caso in cui la serie non fosse stata interrotta. Con ciò appaiono tutti i problemi di imputazione dell’evento caratteristici dell’omissione impropria (avrebbe conservato la vita il malato A, se B non avesse impedito al medico C di soccorrerlo, oppure la morte, tenendo conto della gravità del male, sarebbe sopravvenuta ad ogni modo, anche senza interruzione della serie di salvataggio?) e coi quali, come ho esposto in altra sede65, si devono scontrare tutti i procedimenti fino ad ora ideati per porre in collegamento una condizione negativa con una modifica del mondo esterno (bisogna esigere probabilità vicina alla certezza? O certezza dell’impedimento dell’evento? O solo diminuzione del rischio di lesione?).

2. Critica di coloro che, negando la relazione di causalità tra interruzione della serie causale di salvataggio altrui e l’evento, avvalendosi di un procedimento analogo a quello utilizzato per l’omissione impropria, imputano l’evento a tale interruzione, quando, senza di essa, la lesione, con una probabilità vicina alla certezza, non si sarebbe verificata

Come abbiamo visto questo secondo orientamento dottrinale stima, ugualmente, che l’interruzione di una serie causale di salvataggio configuri un reato commissivo al quale imputare l’evento verificatosi. Ma tale imputazione non deriverebbe da che ci troviamo qui di fonte ad un movimento muscolare causante l’evento, ma dalla circostanza per la quale, se si sopprimesse mentalmente l’intervento di interruzione, l’evento (morte) non avrebbe a verificarsi giacché alla vittima sarebbe stato possibile afferrare il salvagente. La motivazione del perché in tali ipotesi, nonostante si riconosca l’assenza di causalità fisico-naturale tra azione ed evento, questo possa venir ricondotto a quella si stabilisce in base ad un procedimento analogo a quello che regge nell’omissione impropria: se in questa, nonostante l’inattività non causi l’evento, si risponde del verificarsi dello stesso, perché l’azione omessa, con una probabilità vicina alla certezza, avrebbe impedito la lesione, non ci sarebbe inconveniente nell’argomentare in maniera analoga nei casi di interruzione di serie di salvataggio che: se il soggetto non avesse agito –non avesse interrotto il corso di salvataggio– con una probabilità vicina alla certezza neppure l’evento si sarebbe verificato.

Contro tale tesi ci sono due cose da obiettare.

In primo luogo, che al doversi far leva su di un processo causale ipotetico (si sarebbe evitato l’evento se l’autore non avesse interrotto la serie causale di salvataggio?), ci si deve scontrare con tutti gli inconvenienti che si presentano, come esposto in altra sede66, a tutti coloro che nell’omissione impropria operano con una formula più o meno adattata della conditio sine qua non,

64 Cfr. Gimbernat, ADPCP 2000, pag. 41 ss.65 V. Gimbernat (n. 64), pag. 49 ss.66 V. Gimbernat (n. 64), pag. 49 ss.

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e con i quali si devono scontrare pure –come appena visto supra 1– coloro che sostengono che tra interruzione del corso salvatore ed evento tipico esiste una effettiva causalità materiale.

Ed in secondo luogo che, a differenza della tesi criticata supra 1, che, quand’anche sbagliata, per lo meno offre una argomentazione, poiché seppure fosse vero –il che non è– che l’interruzione di una serie di salvataggio causa materialmente l’evento, dunque, in consonanza con i principi che reggono nei reati commissivi, sarebbe fuori discussione che l’autore debba rispondere dell’evento, in cambio l’orientamento dottrinale in questione non si cura affatto del fatto che, d’accordo coi principi che reggono nell’omissione impropria, non basta che l’azione omessa avrebbe evitato l’evento, ma si esige pure che l’autore si trovi in posizione di obbligo di garanzia, si dovrebbe, perciò, spiegare –la qual cosa fino ad ora, per quanto ne sappia, non si è neanche tentata– per quale ragione si debba equiparare ad un garante, analogicamente, chi, senza esserlo, si limita ad interferire attivamente in una serie di salvataggio.

3. Critica alla soluzione dell’omissione impropria

Come abbiamo visto supra B 3, Silva sostiene che in questi casi l’autore deve rispondere dell’evento, perché all’interrompere la serie di salvataggio diviene garante per ingerenza, per tanto all’omettere posteriormente l’azione che avrebbe evitato l’evento, detto evento, seguendo le regole della commissione per omissione, deve essergli imputato come se egli stesso lo avesse causato con un movimento corporale.

Ma neppure questa tesi può convincere. L’ingerenza è caratterizzata dal fatto che un agire precedente –per esempio, scavare una buca– obbliga l’autore ad agire per evitare i danni che possano derivare da questa azione previa di tipo pericoloso –nel nostro esempio: a segnalarla durante la notte–. Ma se il soggetto interrompe la serie di salvataggio (ad es.) perché spara –affondandolo– contro il salvagente che stava avvicinandosi a chi stava annegando, o perché distrugge la fiala che contiene la medicina che potrebbe salvare la vita del malato, la sua ulteriore inattività –che Silva vorrebbe vincolare all’imputazione dell’evento– non può motivare un’omissione impropria. L’omissione, infatti –come tipo di comportamento passivo, in generale–67

è caratterizzata dal fatto che il soggetto tralascia di compiere un’azione possibile che avrebbe evitato l’evento. E naturalmente, se il salvagente è già affondato, se la fiala è già stata distrutta, non esiste neppure la possibilità di salvare, mediante un’azione possibile, il bene giuridico, e, perciò, riguardo all’autore non concorre, concettualmente, nessuna omissione alla quale poter vincolare la responsabilità per l’evento medesimo.

D. Presa di posizione

1. Introduzione

Per risolvere tutti i problemi posti, la cosa migliore è partire da elementi fattici la cui qualifica ultima sia, intuitivamente, fuori discussione, quand’anche non si sappia come motivarla. Se una persona, mediante inganno, violenza o intimidazione, evita che una madre alimenti suo figlio, lasciandolo morire, se una persona, ricorrendo a mezzi analoghi, impedisce che un medico pratichi un’operazione ad un malato grave, che si spegne senza che gli si sia potuta praticare la terapia adeguata, è ovvio che queste persone che hanno ostacolato le serie di salvataggio altrui debbano rispondere degli eventi verificatisi (morte del bambino, decesso del paziente).

2. Un terzo modo di realizzazione del reato a fianco di quello commissivo ed omissivo: l’interruzione di serie di salvataggio.

67 V. Gimbernat, Estudios de Derecho penal, 3ª ed., 1990, pag. 186 ss.

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Lo sconcerto della dottrina dinanzi a questo gruppo di casi appare patente al constatare che essa, in pratica unanimemente [supra B 1 e 2], sostiene di esser qui in presenza di un reato di azione nonostante, come già detto, l’interruzione di serie causali di salvataggio presenti una struttura distinta da quella del reato commissivo, dal momento che in tal caso è il movimento corporale che ha causato fisico-naturalmente l’evento (si uccide qualcuno mediante un colpo d’arma da fuoco al cervello) e pertanto esiste la certezza che esso sia quello che ha determinato l’evento morte, mentre nell’interruzione di serie causali di salvataggio altrui l’azione non causa fisico-naturalmente l’evento (chi trattiene il chirurgo non realizza materialmente la morte del paziente, che è deceduto a causa del male), ma si limita ad evitare un’azione ipotetica: l’intervento potenziale del chirurgo, che con una probabilità più o meno vicina alla certezza, avrebbe evitato l’evento, pertanto neanche qui –a differenza di ciò che accade nel reato commissivo– esiste la certezza che la morte possa ricondursi al movimento corporale di interruzione.

La tesi minoritaria di Silva (supra B 3) secondo la quale ci troveremmo dinanzi ad un caso di omissione impropria, e che, conseguentemente, si potrebbe imputare l’evento verificatosi a chi esegue l’azione di interruzione della serie di salvataggio, elude le contraddizioni di coloro che sostengono che tali ipotesi configurano un reato di azione, ma al prezzo di considerare commissione per omissione un gruppo di casi che posseggono una struttura diversa da quella dell’omissione impropria, infatti, mentre in questa il garante si limita a non-eseguire un’azione che potrebbe aver evitato un evento, le ipotesi delle quali ci stiamo occupando si caratterizzano perché l’autore è un non-garante che, inoltre, realizza dolosamente un’azione alla quale viene ricondotto l’evento68.

Ma dopotutto, nonostante la loro scarsa forza di convinzione, le soluzioni proposte sia dalla teoria dominante sia da Silva, possiedono una giustificazione. Poiché, se concordemente all’apparato dogmatico vigente, la fattispecie di omicidio (“uccidere”), solo può realizzarsi in due modi, vale a dire: o mediante un’azione causante l’evento, o omettendo l’azione dovuta, si dovrà includere nell’una (reato commissivo) o nell’altra (reato omissivo improprio) categoria l’interruzione delle serie causali di salvataggio altrui per poter giustificare per quale ragione anche in tali ipotesi al soggetto venga imputato l’evento.

Ma se l’interruzione di tali serie causali è un’azione che non costituisce un reato di azione, perché il soggetto non causa materialmente l’evento, e neppure uno di omissione impropria, perché il soggetto non si limita a non-fare, ma, al contrario, fa un qualcosa al quale è riconducibile l’evento, ciò vuol dire che esiste una terza forma, diversa dalle due anteriori, di realizzare il reato: quella di interrompere serie causali di salvataggio altrui, una terza forma che, nonostante la sua incomparabilmente minor importanza pratica –perché la maniera abituale di realizzare un tipo di risultato è, o per mezzo di un’azione che lo causa, o per mezzo di un’omissione impropria–, deve venir analizzata a parte, per potersi determinare quando e per quali motivi, si possa dire che un’interruzione di serie di salvataggio è sussumibile, per esempio nella descrizione legale dell’omicidio.

3. Nuovamente: l’interruzione di serie di salvataggio proprie

Una volta stabilito che in questo caso siamo dinanzi ad una terza forma di realizzazione del reato, differente dal reato commissivo, e pure da quello omissivo improprio, la prima cosa da dire è che, contrariamente a quanto sostiene la dottrina dominante, la linea divisoria nelle interruzioni di serie di salvataggio non separa, da un punto di vista materiale, quei casi in cui si interrompe la propria, da quegli altri nei quali si interrompe la serie altrui, dal momento che tanto nell’una, quanto nell’altra, si può realizzare l’evento previsto nella fattispecie legale.

68 Per un’ulteriore critica della tesi di Silva cfr. supra C 3.

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Nell’interruzione di serie di salvataggio proprie il trattamento indifferenziato –ed erroneo– che la dottrina dominante riserva loro deriva dal fatto che la dottrina stessa si è posta solo parzialmente i problemi, dal momento che tutte le ipotesi che si adoperano nella discussione dottrinaria si riferiscono ad un omettente proprio che interrompe una serie causale posta in essere da lui stesso, e che era diretta a soddisfare l’obbligo strettamente giuridico penale imposto, o dall’art. 195 (il non garante ritira il salvagente che aveva lanciato a chi stava annegando), o l’art. 450.2 CP (il non garante dopo aver consegnato alle poste la lettera nella quale denuncia l’imminente commissione di uno dei reati a cui si richiamati dall’art. 450.2, la reclama con successo, impedendo così che il contenuto arrivi a conoscenza della polizia), e perciò la dottrina si divide, -prescindendo dalla soluzione proposta da Silva [supra I B 2 c)], secondo la quale questi casi integrano un’omissione impropria- sostenendo alcuni che qui saremmo di fronte ad una omissione impropria [supra I B 2 a)] ed altri che l’interruzione di serie di salvataggio proprie deve ricevere lo stesso trattamento giuridico penale di quelli altrui, e che, conseguentemente, la qualifica corretta sarebbe quella di considerarli reati commissivi nei quali si risponderebbe dell’evento verificatosi [supra I B 2 b)].

Ma la dottrina non s’è accorta –per lo meno per quanto riesco a vedere– che l’interruzione di serie di salvataggio proprie non è solo immaginabile in ipotesi nelle quali chi interrompe tale corso è un non-garante, ma anche in altre nelle quali chi interrompe è nella condizione propria del garante; per esempio: la madre che si rende conto che il suo figliolo in tenera età sta annegando in un lago isolato, e dopo aver lanciato un salvagente legato ad una corda, quando il piccolo prevedibilmente avrebbe potuto salvarsi aggrappandosi a quello, lo ritira lasciandolo morire. Quando chi realizza tale condotta di interruzione è un non garante, ho gia detto supra I C che non vi è ostacolo grammaticale –o materiale– a sostenere che questo comportamento costituisce un non-ausilio, e che perciò, può sussumersi, senza ulteriori difficoltà nel tipo dell’art. 195. Ma nel caso del quale ci stiamo occupando ora la condotta della madre deve essere sussunta non in una semplice omissione del dovere di soccorso, ma in un reato contro la vita, e con ciò, nel verbo tipico “uccidere”. Se si accetta la tesi che ho esposto in altre pubblicazioni69 secondo la quale saremmo dinanzi ad un’omissione impropria solo “quando il [garante] incaricato di vigilare una fonte di pericolo preesistente omette di applicare le misure precauzionali opportune affinché questa focolaio di pericolo, che posteriormente causa l’evento, non si trasformi da consentito in antigiuridico, o –nel caso in cui si siano già oltrepassate le frontiere del rischio consentito– riportarlo al livello conforme a Diritto”70, allora è evidente che esiste una identità strutturale tra l’omissione della madre che non lancia il salvagente per salvare il suo figliolo in tenera età che sta annegando nel lago nel quale egli è accidentalmente caduto (un caso indubbio di omissione impropria, perché il garante non ha applicato la misura di precauzione che, date le circostanze, avrebbe mantenuto il “focolaio di pericolo: bambino” all’interno del rischio consentito), e l’azione della garante di interrompere una serie di salvataggio propria, poiché, lanciando il salvagente, il “focolaio di pericolo bambino” che era a suo carico, si stava mantenendo dentro di ciò che, date le drammatiche circostanze dell’ipotesi, potrebbe considerarsi il rischio consentito, rischio che si vede destabilizzato, convertendosi in proibito, e sfociando allora nella lesione del bene giuridico vita, quando la madre, al ritirare il salvagente, decide di interrompere la serie di salvataggio che ella stessa aveva messo in marcia.

Detto in altre parole: dal momento che un garante può destabilizzare un focolaio di pericolo, facendolo passare da consentito a proibito, in due maniere distinte, vale a dire: o non applicando la misura di sicurezza dovuta (omissione impropria), o interrompendo attivamente una serie di salvataggio propria che aveva creato –o, se si dà il caso, ricreato– il livello di rischio consentito, ne discende che se tale focolaio di pericolo al di là del rischio consentito dal Diritto sfocia in una

69 Per esempio in Gimbernat, RDPC 4 (1999), pp. 525-553; lo stesso, Moderne tendenze nella scienza del Diritto penale e in criminologia, 2001, pag. 365 ss.70 Gimbernat (n. 69, 2001), pag. 366.

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lesione di un bene giuridico (il bambino annega) di tale evento deve rispondere penalmente, in entrambi i casi, il garante, poiché è alla sua propria inattività (nella commissione per omissione) o alla sua attività (nell’interruzione di serie salvataggio proprie) ciò a cui ricondurre legalmente la trasformazione del pericolo da lecito in illecito.

4. Anche l’interruzione di serie di salvataggio altrui deve essere sottoposta a soluzioni differenziate

Una volta che abbiamo differenziato, all’interno dell’interruzione di serie causali di salvataggio proprie, tra quelli che costituiscono un’omissione propria, perché chi esegue l’interruzione è un non garante (il privato non garante decide di ritirare il salvagente che aveva previamente lanciato a chi stava annegando), e quegli altri che presuppongono il tipo di omicidio o di assassinio (“uccidere”), per mezzo di una terza forma di realizzazione tipica –propriamente quella di interruzione di serie causale di salvataggio– dal momento che tale interruzione viene realizzata da un garante (la madre-garante, effettua la stessa condotta di ritiro del salvagente, che avrebbe potuto aver evitato la morte, per annegamento, del bambino in tenera età), diviene possibile abbordare la soluzione o le soluzioni da darsi rispetto all’interruzione di serie di salvataggio altrui.

A differenza di quanto accade nell’interruzione di serie di salvataggio proprie ove, come già notato, la dottrina porta avanti solamente esempi di non-garanti che interrompono un processo da loro stessi posto in marcia, nell’ipotesi di serie di salvataggio altrui i casi oggetto di discussione in dottrina comprendono tanto ipotesi in cui è un non-garante ad interrompere la serie di salvataggio di un altro non-garante (C si impossessa della chiave di accensione del veicolo, quando il camionista A [non-garante] si disponeva a trasportar in ospedale il soggetto infartuato B; B impedisce colla forza ad A [non-garante] di lanciare il salvagente che potrebbe salvare X dal morire annegato), quanto ipotesi in cui il protagonista dell’interruzione continua ad essere un non-garante, ma in cui la serie di salvataggio che si interrompe è quella che un garante ha iniziato o si accinge ad iniziare (A impedisce all’infermiere B [garante] di somministrare all’intossicato un antidoto che potrebbe salvargli la vita; un privato agisce con violenza su di un impiegato addetto al controllo dei binari [garante] ottenendo che egli non possa far scendere le barriere del passaggio a livello). Per la dottrina dominante, tuttavia, tale distinzione non ha nessuna ripercussione pratica –per questo, probabilmente, non era stata stabilita fino ad ora–, poiché sia se la serie di salvataggio che si interrompe stia per essere –o sia stata– eseguita da un non-garante quanto che lo sia da un garante la soluzione che si propone è unitaria: chi interrompe questa serie di salvataggio realizza, con ciò, un reato commissivo e risponde, per tanto, dell’evento tipico sopravvenuto71.

Indipendentemente dal se nell’interruzione di serie causali di salvataggio altrui l’evento debba essere imputato a chi interrompe tale serie, quella che, ad ogni modo, deve venir respinta è l’impostazione per cui da ciò si evinca di trovarci qui in presenza di un reato commissivo: come già detto supra C 1 e E 2, bisogna sostenere, invece, che qui non concorre un reato di azione, ma, al massimo, una terza e nuova forma di realizzare il tipo: la forma dell’interruzione di serie causali, ragion per cui è necessario continuare ad approfondire tale ulteriore modalità di realizzazione del reato per poter determinare quando e perché si possa imputare l’evento a detta interruzione. A tale scopo, ci sono da distinguere tre varianti di interruzione di serie causali altrui: interruzione realizzata da un non-garante di un processo iniziato da un altro non-garante, interruzione realizzata da un non-garante di un processo innescato da un garante, ed interruzione realizzata da un garante di una concatenazione causale messa in moto da un non-garante.

71 Qui di seguito, e trattandosi di una tesi minoritaria, prescindo da quella formulata da Silva per la quale ci troveremmo in questo caso di fronte ad una omissione impropria, e di quella della quale mi sono occupato rifiutandola supra D 3.

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a) Interruzione realizzata da un non-garante della serie causale di salvataggio che un altro non-garante ha iniziato o sta per iniziare.Quando un non-garante interrompe la serie causale di salvataggio che un altro non-garante ha iniziato o che sta a punto di essere iniziata (C si appropria della chiave di accensione del veicolo, quando il camionista non-garante A era a punto di trasportare in ospedale B colto da infarto), a mio avviso la condotta di quello deve essere qualificata come omissione propria secondo l’art. 195. Ciò perché il soggetto colto da infarto non costituiva un focolaio di pericolo preesistente né sotto le attenzioni di chi stava per soccorrerlo (il camionista) né di chi interrompe l’azione di salvataggio di lui (al quale sottrae la chiave di accensione del veicolo), pertanto su nessuno dei due incombeva la responsabilità per la quale un pericolo generato dalla natura (l’infarto) si debba mantenere entro il rischio consentito: con l’assistenza medica. Per tanto in tal caso l’azione di interruzione del processo causale non può sussumersi nel verbo tipico “uccidere”, dal momento che, non equivale materialmente né a quella di chi, per mezzo di un movimento corporale, causi fisico-naturalmente la morte, né all’inattività dell’omettente improprio che deve prestarsi al controllo di un focolaio di pericolo mantenendolo nei limiti del rischio consentito, per esempio: il medico che, col dolo specifico di uccidere, non presta attenzione al paziente che è sotto la sua cura: l’interruzione della serie causale altrui da parte di C deve essere considerata, conseguentemente, un non-aiuto al malato, che realizza il tipo dell’omissione di soccorso, poiché, come si è esposto anteriormente IC a), eccezionalmente è possibile sussumere direttamente determinati comportamenti attivi (come è il caso di interruzione positiva della catena causale di salvataggio che un non-garante stava per intraprendere) nell’art. 195, senza che ciò presupponga vulnerare il senso grammaticale possibile del testo legale.

b) Interruzione da parte di un non-garante della serie causale di salvataggio che è stata iniziata, o sta per essere iniziata da un garante

Quando un non-garante interrompe la serie causale di salvataggio che un garante ha iniziato o sta per iniziare (A impedisce all’infermiere B [garante] di somministrare all’intossicato –che poi muore a conseguenza dell’ingestione del prodotto tossico– l’antidoto che potrebbe salvargli la vita; un privato agisce con violenza sul ferroviere addetto al controllo dei binari [garante] derivandone l’impossibilità di questi di abbassare le barrire del passaggio a livello con conseguente collisione tra treno ed automobile nella quale l’autista di quest’ultima rimanga ucciso), la condotta del primo, nella terza forma di realizzazione del reato, per interruzione della serie causale di salvataggio, deve essere sussunta all’interno della sfera semantica del verbo “uccidere”. È certo che il non garante non ha causato fisico-naturalmente l’evento morte, e che neppure, per definizione ed indipendentemente dal fatto che non abbia omesso nulla, ma al contrario che abbia agito interrompendo una serie di salvataggio, non aveva alcun obbligo extrapenale di mantenere il corrispondente focolaio di pericolo all’interno del rischio consentito. Ma, all’impedire l’azione del garante (dell’infermiere o del ferroviere), che invece aveva sì l’obbligo, e che l’avrebbe assolto –o che lo stava già assolvendo–, ha svolto un ruolo nella vicenda delittuosa che deve essere sussunto nella condotta tipica di “uccidere”, dal momento che, chi è responsabile del fatto che chi avesse l’obbligo di agire non possa assolverlo (perché lo si inganna, o minaccia, o costringe colla forza), assume, con ciò, il dovere del garante corrispondente di mantenere il focolaio di pericolo all’interno del rischio consentito, in quanto la circostanza per la quale egli non abbia potuto compiere il suo dovere è riconducibile, solo ed esclusivamente, a chi ha interrotto la serie di salvataggio altrui.

c) Interruzione compiuta da parte di un garante della serie causale di salvataggio che un non garante ha iniziato o sta per iniziare

Queste ipotesi non sono mai state esaminate, in dettaglio, dalla dottrina, la qual cosa, naturalmente, non può meravigliare, dal momento che se, d’accordo con la teoria dominante, l’interruzione di

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serie di salvataggio altrui fonda sempre la responsabilità per l’evento verificatosi, allora è del tutto indifferente che chi interrompa una tale serie sia o meno in posizione di garanzia.

In cambio, secondo la tesi che qui difendiamo, nell’interruzione di serie causali di salvataggio altrui c’è da esaminare separatamente ciascuna delle varianti che possano presentarsi, e, dal momento che fino ad ora sono pervenuto alla conclusione che, nelle ipotesi nelle quali un non-garante interrompa la serie di salvataggio propria di un altro non-garante, quello deve rispondere per omissione impropria, e che, negli altri casi nei quali sia un non-garante colui che interrompe il processo causale proprio di un garante, il primo deve rispondere per l’evento sopravvenuto, la terza variante che rimane da esaminare è quella nella quale sia un garante chi impedisce l’azione di salvataggio di un non-garante.

Come esempio di tale gruppo di casi si può fornire quello del padre che non sa nuotare (in posizione di garanzia) che impedisce colla forza che un privato non-garante si getti nella piscina per salvare dall’annegamento suo figlio. Che il padre debba rispondere di un reato contro la vita, se egli annega, è di facile dimostrazione. Perché se il padre, come garante, deve stare attento a che il focolaio di pericolo del bambino non subisca una destabilizzazione verso il rischio proibito che sfoci in una lesione del bene giuridico a suo carico, è evidente che il mancato compimento di tale obbligo può manifestarsi in due modi: o omettendo di lanciarsi nella piscina per salvare suo figlio, se egli sa nuotare, o impedendo che qualcun altro lo faccia nel caso in cui egli non sia in grado.

Per altro, se il garante che impedisce una serie di salvataggio che un non-garante ha iniziato o sta per iniziare risponde dell’evento, a fortiori incorrerà nella stessa responsabilità se un'altra persona, che ricopre la posizione di garante, stava per o stava già eseguendo detto processo, ipotesi, questa ultima, profilata nell’esempio del padre (garante) che, tramite inganno, coazione o violenza, impedisce che suo figlio continui ad essere trattato dal medico (anch’egli garante) per una grave malattia.

d) Nuovamente: l’interruzione di serie causali di salvataggio nella giurisprudenza spagnola

Anteriormente (supra II A 2) abbiamo esposto quattro casi risolti dal Tribunale Supremo che devono essere inquadrati all’interno dell’interruzione di serie causali di salvataggio.

Nell’ipotesi del marito che inganna il medico che si accinge ad assistere sua moglie –che aveva previamente ingerito un veleno, desistendo successivamente dal proposito di suicidarsi– interrompendo così un trattamento (una serie causale di salvataggio) che avrebbe potuto ristabilire la salute della donna, ci troviamo dinanzi ad un caso nel quale questa serie causale di salvataggio stava per essere iniziata da un medico che avrebbe assunto le cure della paziente (che sarebbe stata iniziata, dunque, da un garante), per tanto la condotta del marito72, in consonanza con quanto esposto supra 4 b) (interruzione da parte di un non-garante di una serie causale di salvataggio che un garante ha iniziato o sta per iniziare) costituisce un omicidio consumato, che non è stato realizzato né per mezzo di un reato di azione (la moglie non muore a seguito di un movimento corporale dell’autore in relazione causale con l’evento morte: muore a conseguenza di una intossicazione che la vittima si è provocata da sola), né mediante uno di omissione (il marito non si limita a permanere inattivo dinanzi all’autoavvelenamento), ma proprio per mezzo di una terza forma, nuova e diversa, di realizzare il reato.

72 Per la dottrina dominante, il marito che interrompe la serie causale sarebbe pure, insieme al medico, in posizione di garanzia. Contrariamente, tuttavia, Gimbernat (riferimenti supra n. 69), per coloro secondo i quali i familiari solo commettono un’omissione impropria quando hanno assunto previamente le cure di un altro familiare che versa in una situazione preesistente di vulnerabilità (per esempio, il figlio piccolo che non può alimentarsi da sé, o l’adulto malato le cui cure sono state affidate anteriormente ai figli o al coniuge).

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Nel caso dei genitori Testimoni di Geova che interrompono in tre diversi ospedali le trasfusioni di sangue che i medici avrebbero praticato al figlio, tanto i genitori –che sono tenuti alla cura del bambino minore d’età– quanto i medici –che si sono fatti carico dell’assistenza del malato–, sono in posizione di garanzia, e perciò ci troviamo di fronte ad una interruzione di serie causale di salvataggio da parte di un garante su di un altro garante. D’accordo con quanto esposto sopra 4 c) in fine, i genitori sono responsabili di un omicidio doloso consumato; pero non come aveva ritenuto il Tribunale Supremo, commissivo per omissione (giacché i genitori non si limitano a rimanere inattivi dinanzi alla malattia del figlio, ma, per mezzo di una azione interrompono la serie causale di salvataggio che avrebbe potuto condurre alla cura di questo) né un reato di azione (posto che il malato decede per la sua malattia, e non a conseguenza di un processo causale dispiegato da un movimento corporale dei genitori): l’omicidio si realizza in virtù di un comportamento tipico diverso, che non coincide nella sua struttura né col reato di azione né con quello omissivo improprio.

Quando la condotta del complice consiste nell’impedire che un terzo o terzi possano difendere la vittima dal suo aggressore, così come accade nel caso della sentenza del TS del 30 di marzo del 2001 e in quella del TS del 5 di ottobre del 2001 [ supra II A 2 c) e d) ], tale comportamento -indipendentemente dal fatto che su chi interrompe la serie causale di salvataggio e su chi si disponeva ad iniziarlo concorresse o meno una posizione di garanzia – è sussumibile, senz’altro, e senza forzare per nulla il senso letterale possibile delle parole, nell’art. 28 a) (cooperazione necessaria) o nell’art. 29 (complicità) del Codice Penale, giacché all’impedire che altre persone possano aiutare la vittima, con ciò stanno cooperando nell’esecuzione delle lesioni, nel primo caso, e nella violenza sessuale, nel secondo. Però tale cooperazione non consiste in un movimento corporale in relazione causale con l’evento, (come nel caso del cooperatore che fornisce la mazza da baseball col quale l’autore materiale colpisce la vittima), e neppure in una inattività (come la madre che non fa nulla per evitare che il padre violenti la loro figlia), ma in una terza modalità di partecipazione caratterizzata dal fatto che si facilita (e coopera a) l’esecuzione del fatto principale interrompendo attivamente interventi di terzi che avrebbero potuto evitare il risultato.

III. Della disconnessione di apparati medici che mantengono in vita un paziente

A. Esposizione del problema. Le diverse soluzioni

1) Negli anni 60 del secolo passato, ed a conseguenza dei progressi della medicina, e delle capacità delle unità di terapia intensiva di poter mantenere in vita pazienti privi di speranze, che fino ad allora e senza l’aiuto di questi moderni mezzi di rianimazione, non avrebbero potuto sopravvivere, la dottrina penale si è chiesta fino a che punto sia lecito disconnettere le attrezzature mediche che stanno mantenendo in vita il paziente (tubi, sonde, cateteri, respiratori) per impedire il prolungamento inutile di un’agonia di chi, tuttavia, non è ancora morto poiché presenta ancora attività cerebrale.

D’accordo coi concetti penali tradizionali, tale disconnessione realizzata su di un paziente costituirebbe un indubbio reato di azione in relazione causale con la morte, e, conseguentemente, con il suo movimento corporale, il medico si renderebbe responsabile di un assassinio commissivo. Tale posizione è difesa ancora nel 1968, senza problemi, da Bockelmann, che polemizzava colle tesi che furono presentate, quello stesso anno, da Glein, e delle quali ci occuperemo qui di seguito.

Bockelmann scrive quanto segue73: “Cos’è un intervento attivo omicida? Lo è solo l’iniezione di veleno lo è solo la pugnalata o l’incisione? Disfare un bendaggio, o togliere i punti di sutura che dovrebbero contenere l’emorragia, in tutta certezza pure lo sono. Perciò è chiaro che la

73 Strafrecht des Arztes, 1968, pag. 112.

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disconnessione di un rianimatore in un momento nel quale non è ancora sicuro se si è prodotta la perdita irreversibile della funzione cerebrale è ugualmente un’azione attiva di uccisione e non solo l’omissione di ulteriori misure dirette al prolungamento della vita”. E conclude Bockelmann74: “Perché, prescindendo dalla differenza tra agire ed omettere, il dovere del medico di mantenere la vita non scompare neppure dinanzi alla vita che non merita di essere vissuta. Non solo perché il concetto di vita non meritevole di essere vissuta è moralmente e giuridico-politicamente sospetto, ma perché, ad ogni modo, è troppo indeterminato perché si possa basare su di esso un’argomentazione giuridica convincente”.

Con tali argomenti Bockelmann cerca di controbattere una tesi appena formulata da Geilen75: “Se, per esempio, si manifesta che il cervello è danneggiato in maniera irreversibile, e che, in conseguenza, non c’è possibilità che il paziente possa recuperare alcuna funzione vitale spontanea, o possa riprendere coscienza, allora la desistenza da ulteriori tentativi di rianimazione –anche per un concetto di morte che non si identifichi colla morte cerebrale– costituisce una forma consentita di eutanasia passiva”. E, continua Geilen76: “Vorrebbe dire dare troppa importanza a ciò che appare in un primo piano, convertire il movimento corporale isolato [la disconnessione] nel centro della motivazione dell’apertura del procedimento penale. Così come il medico ‹omette› quando interrompe una misura di rianimazione già iniziata con movimenti di massaggio, o quando prescinde dal ripetere l’amministrazione di iniezioni che mantengono in vita il paziente, pure si tratta solo di ‹omettere› quando interrompe, in un piano tecnico superiore, il lavoro di una macchina. Per il medico la macchina non è altro che la sua stessa ‹mano allungata› … In ultima istanza, quello che deve essere decisivo è se lasciare o meno alla natura di compiere il suo corso. Se è questo il caso, allora si tratta – senza prestar bada alle circostanze concorrenti che figurano in maggiore o minor misura in primo piano – di un comportamento omissivo, con la costruttiva conseguenza che si possa ricorrere alla mancanza del dovere di agire per regolare la punibilità”77.

2) La tesi di Geilen di considerare la disconnessione di apparecchiature per la rianimazione un’omissione ha avuto un gran successo nella bibliografia posteriore, e può considerarsi dominante.

74 (n. 73), pag. 114.75 FamRZ 1968, pag. 126.76 (n. 75), pag. 126 n. 35.77 Pochi mesi dopo Gelein, JZ 1968, pag. 151, torna ad insistere sulle su tesi: “con riferimento all’ultimo punto, quindi, ed nonostante l’attività fenotipica, (disconnessione dell’apparecchio di rianimazione) il <senso sociale> del comportamento è quello di omettere. I fatti non devono essere istruiti in maniera diversa dall’interruzione di un trattamento manuale già iniziato. Così come il medico solamente <omette> quando interrompe una respirazione artificiale iniziata con movimenti di massaggio, o quando rinuncia a ripetere la somministrazione di iniezioni di rianimazione, allo stesso modo solo realizza un <omettere> quando, su di un piano tecnico superiore, interrompe il lavoro di una macchina. Per il medico l’apparecchio altro non è che la sua <mano allungata>.

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Ad essa hanno aderito, tra gli altri, Roxin78; Schünemann79; Engisch80; Schmidhäuser81 Silva82; Jakobs83; Jescheck84; Köherl85; Wessels/Beulke86; Kühl87; e Schönke/Schröder/Stree88.

3) Di fronte a questi autori, altri opinano che la disconnessione di apparecchi che mantengono artificialmente in vita il paziente, costituisce un’azione in relazione di causalità con la morte: questa è la posizione difesa da Bockelmann, e, tra altri: Samson89; Sax90; Bockelmann/Volk91; Baumann/Mitsch92; Jescheck/Weigend93; Tómas-Valiente94; Rudolphi95.

B. Presa di posizione

La disconnessione del respiratore presuppone un movimento corporale in relazione di causalità fisico–naturale con l’evento tipico di morte, e costituisce, conseguentemente, un reato commissivo. Questo comportamento non contiene nessuno degli elementi che caratterizzano l’omissione: perché, il medico non rimane inattivo, ma invece “applica un’energia in direzione della lesione del bene giuridico vita” (al disconnettere), e perché tra la condotta e l’evento non esiste la relazione ipotetica caratteristica dell’omissione, ma quella del tutto reale e fisico–naturale, per la quale a conseguenza di quella disconnessione, sono cessate le funzioni artificiali cardiorespiratorie che la macchina somministrava come sostituto, provocandosi così la morte del paziente. In altre parole: l’azione eseguita ha causato fisico-naturalmente e con tutta certezza, lo spegnimento della macchina, e, lo spegnimento della macchina, che non “stava per mantenere in vita”, ma invece, manteneva effettivamente già in vita il paziente, è ciò che ha causato a sua volta fisico-naturalmente e con assoluta certezza la morte del paziente.

78 (n. 7) pag. 398: “Perché le cose stanno in tale maniera che quando si manifesta la assoluta mancanza di prospettive di ulteriori sforzi di rianimazione, al medico che conosce questa situazione sarebbe permesso <di smettere> di praticare, dal principio, il prolungamento inutile ed artificiale della vita. In tal caso, invece, la disconnessione della macchina cuore-polmone si presenta come l’abbandono di un tentativo non dovuto di evitare l’evento o come desistenza da un’azione di prolungamento della vita che, a causa della disperata situazione, non viene più richiesta. Secondo i criteri anteriormente assunti, questo è un caso indubbio di omissione impune realizzata mediante un agire …”.79 V. Grund und Grenzen der unechten Unterlassungsdelikte, 1971, pag. 283/284 n. 21.80 V. n. 16, pag. 177 ss.81 V. n. 18 (1975, 16/107; 1982, 12/54).82 V. n. 23 (1986, pag. 254 ss.; 1994, pag. 37 ss).83 Cfr. n. 9, 7/64.84 V. n. 37, prima del § 13 n. m. 90.85 Cfr. n. 37, pag. 215.86 V. n. 37, n. m. 703.87 (n. 37), pag. 646/647: “In cambio dal punto di vista di una considerazione di valore ciò che è decisivo è la circostanza per cui premere il pulsante ha portato all’omissione di ulteriori sforzi di salvezza. Questa classificazione del comportamento del medico di omissione del mancato impedimento dell’evento si poggia sul paragone della cassazione di un massaggio cardiaco manuale, dove, in tal caso, chi presta aiuto solo ha smesso di continuare ad aiutare”.88 Cfr. n. 11, § 13 n. m. 160.89 (n. 17), pag. 601: “Il medico che disconnette un apparecchio che sta funzionando indipendentemente causa la morte concreta del paziente … Che il medico realizzi con ciò, allo stesso tempo, un reato di omicidio, sarebbe solo una conseguenza inevitabile se si sostenesse che esiste una proibizione illimitata di causazione attiva della morte in ogni circostanza”.90 Cfr. JZ 1975, passim (pag. 141)91 Cfr. Strafrecht AT, 4ª ed., 1987, pag. 148/149.92 (n. 21), § 15 n. m. 33: “Il medico che, per l’inutilità di un ulteriore trattamento, premendo il pulsante spegne il respiratore, commette un omicidio commissivo, quando il paziente,, se non fosse perché s’è premuto il pulsante, sarebbe vissuto per lo meno un altro secondo”.93 V. Lehrbuch des Strafrechts AT, 5ª ed., 1996, pag. 604.94 Cfr. La disponibilidad de la propia vida en el Derecho penal, 1999, pag. 489.95 Cfr. n. 13, § 13 n. m. 47. Juanatey, Derecho, suicidio y eutanasia, 1994, pag. 323, ritiene ecletticamente che “la condotta del soggetto che disconnette un apparecchio di rianimazione può essere descritta indistintamente come un’azione positiva o una omissione”.

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Ciò che è decisivo qui, come scrive giustamente Sax96, è che “nel caso della disconnessione del respiratore la causalità salvatrice sta già dispiegando la sua efficacia”. E, quando l’esistenza di una determinata situazione deve essere ridotta ad un fattore che sta già dispiegando la propria efficacia, se si ritira tale fattore, esiste una causalità fisico naturale tra detta ritirata e la modifica nel mondo esterno che sopravviene perché, mancando l’energia, si altera lo status quo.

Se l’energia che mantiene a galla in mare chi non sa nuotare, è il salvagente al quale è aggrappato, la ritirata di questo da parte di un terzo, sarà quello che in tutta certezza avrà prodotto fisico- naturalmente la morte per annegamento della vittima; e se l’alpinista non è ancora precipitato perché sospeso ad una corda, chi la tagli commetterà un reato commissivo in sicura relazione di causalità con la caduta nel vuoto e la conseguente morte dello sventurato, allo stesso modo che, come con tutta la ragione afferma Bockelmann97, esiste un intervento attivo (e non omissivo) omicida nel “disfacimento del bendaggio, o [nel] riaprire i punti di sutura che dovrebbero contenere l’emorragia”.

Ma dal momento che stiamo parlando di “disconnessioni”, sceglieremo un esempio che abbia a che vedere con “prese elettriche”. Se davvero fosse un’omissione la disconnessione della macchina cuore-polmone –e come possa classificarsi come inattività il movimento corporale di disconnettere supera l’umana comprensione– dunque, se staccassi la presa del mio p.c., il fatto che questo si spenga, applicando lo stesso principio, pure dovrebbe essere riconducibile ad una inattività, la qual cosa supporrebbe una descrizione dell’avvenimento in questione che non avrebbe nulla a che vedere con quanto successo nella realtà: poiché, naturalmente il computer s’è spento perché, per mezzo di un’azione, ho separato le due prese (maschio e femmina) la qual cosa ha fatto si che nel mondo esterno si producesse l’interruzione della corrente che manteneva in funzionamento l’apparecchio.

Lo strano successo della tesi per la quale la disconnessione di apparecchi di rianimazione debba essere considerata un’omissione può venir spiegata solo, come già indicato, dal fatto che negli anni 60, quando si formula per la prima volta, a causa dei progressi medici dei reparti di terapia intensiva acquisisce un’importanza pratica fino ad allora sconosciuta il problema dell’eutanasia, e fino a che punto si possa esigere di mantenere vivo, per mezzo dei moderni apparecchi medici, malati che, pur non essendo clinicamente morti, siano senza speranza o abbiano perduto in maniera irreversibile la coscienza senza possibilità alcuna di recupero delle funzioni vitali a causa del danno irreparabile che ha sofferto o hanno sofferto uno o più organi.

Ovviamente è perfettamente legittimo sostenere che in tali casi di eutanasia la disconnessione attiva di un respiratore il medico debba essere esente da responsabilità criminale. Ma tale esenzione non può basarsi nell’artificiosa ed arbitrariamente falsa costruzione per la quale ci troveremmo in presenza di un’omissione, ma piuttosto osservando che, partendo dalla considerazione che qui concorre un’azione –come effettivamente concorre– e, così come propongono per es. Samson98,

96 JZ 1975, pag. 141, corsivo nel testo originale.97 (n. 73), pag. 112.98 (n. 17), pp. 602/603: “...ciò di cui si tratta, in realtà, è la questione di quando il postulato di una protezione formalizzata e illimitata della vita diviene inumana”.

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Sax99, Otto100, Baumann/Mitsch101, e Rudolphi102, in tali ipotesi estreme il medico non è tenuto a mantenere in vita il paziente a tutti i costi.

Quanto al resto, che l’eutanasia passiva –all’interno della quale vi è da includere, tanto da un punto di vista medico103, come giuridico penale104, la non applicazione di misure artificiali di prolungamento della vita, indipendentemente dal fatto che tale prolungamento abbia la sua origine nella omissione di praticare tecniche di rianimazione o nell’azione di sospendere attivamente un’assistenza medica già iniziata in un’unità di vigilanza intensiva– sia un comportamento impune, tanto secondo il Diritto applicabile fino al CP del 1995, quanto posteriormente all’entrata in vigore di questo, è qualcosa che ho cercato di dimostrare in altre pubblicazioni105. Ma tale problema non necessita di essere trattato qui, poiché non riguarda la tipicità dell’azione o dell’omissione, ma solo l’eventuale giustificazione di comportamenti attivi in sé tipici.

99 (n. 96), p. 148: “In vista delle possibilità moderne di mantenere meccanicamente ed artificialmente una vita che già non funziona e non può tornare a funzionare autonomamente, la domanda che si impone è se sia anche da esigersi giuridicamente tutto quello che sotto questo aspetto è <fattibile> dal punto di vista medico”.100 NJW 1980, p. 424 n. 66: “non c’è bisogno di interpretare la disconnessione di un apparecchio di rianimazione, per accelerare la morte di un malato senza speranze, come una omissione … per fondare l’impunità del medico che agisce. Ciò che è decisivo qui è se il medico è obbligato a prolungare, in qualunque circostanza, la vita del paziente. Se non è così, allora è indifferente, per motivare l’impunità che si contempli il suo comportamento come un agire o un omettere”. V. pure, lo stesso (n. 10), § 9 nn. mm. 4 y 5.101 Cfr. n. 21, § 15 n. m. 33.102 V. n. 13, antes del § 13 n. m. 47.103 Cfr., per tutti, Hipólito Durán, L’eutanasia, in: Dilemas éticos de la medicina actual, Gafo (ed.), 1986, pag. 121: “Eutanasia passiva o negativa. È l’atto di sopprimere, durante l’assistenza ad un malato, i mezzi tecnici che potrebbero prolungare oltre ogni necessità la vita”.104 V., per tutti, Gimbernat (n. 67), pag. 52: “Eutanasia passiva, quando il medico decide di non prolungare la situazione del paziente e sospende l’assistenza, o omettendo trattare la polmonite che si presenta nel malato di cancro terminale, o ritirando il respiratore del politraumatizzato che non potrà più recuperare la coscienza” (corsivo aggiunto)105 Cfr. Gimbernat (n. 67), pag. 52 ss.; lo stesso, Código Penal, 10ª ed., 2004, pag. 49/50.

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