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RVS 68 (2014) 315-354 «La scienza e la cultura sono un sussidio validissimo» (4M 1,5). «O Signore, tieni conto di quanto ci tocca soffrire in questo viaggio per mancanza d’istruzione!» (4M 1,9). «Voglia Iddio, sorelle, di farci la grazia di non deviare mai dalla conoscenza di noi stesse! Amen» (6M 10,7). P arlare di “porta per la speranza” è parlare di una realtà che può rendere possibile l’incontro con tanti uomini e donne del nostro tempo e, insieme, può essere una porta affinché tanti cercatori della verità possano raggiungere la meta che si propon- gono. Oggi è impossibile negare l’importanza e la ripercussione che la conoscenza di sé ha nella vita delle persone. Anzi, la si consi- dera uno degli elementi chiave nello sviluppo armonico e nella maturità Francisco Javier Sancho Fermín UNA PORTA PER LA SPERANZA: CONOSCENZA DI SÉ E ORAZIONE NEL CASTELLO INTERIORE ARTICOLI

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«La scienza e la cultura sono un sussidio validissimo» (4m 1,5).«O Signore, tieni conto di quanto ci tocca soffrire in questo viaggio

per mancanza d’istruzione!» (4M 1,9).«Voglia Iddio, sorelle, di farci la grazia di non deviare mai

dalla conoscenza di noi stesse! Amen» (6M 10,7).

Parlare di “porta per la speranza” è parlare di una realtà che può rendere possibile l’incontro con tanti uomini e donne del nostro tempo e, insieme, può essere una porta affinché

tanti cercatori della verità possano raggiungere la meta che si propon-gono. Oggi è impossibile negare l’importanza e la ripercussione che la conoscenza di sé ha nella vita delle persone. Anzi, la si consi-dera uno degli elementi chiave nello sviluppo armonico e nella maturità

F r a n c i s c o J av i e r S a n c h o F e r m í n

UNA PORTA PER LA SPERANZA:

CONOSCENZA DI SÉ E ORAZIONE NEL

CASTELLO INTERIORE

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dell’individuo. Sappiamo inoltre che una sana conoscenza di sé, che apre le porte all’accettazione di se stessi, è vitale per la realiz-zazione e la felicità della persona.

Questo è senza dubbio il compito più arduo che noi uomi-ni abbiamo nelle nostre mani. Il nostro sviluppo nella vita dipen-de in pratica da questo, anche se nella marcia quotidiana sembra che non gli si dia la dovuta importanza. È come se fosse un argo-mento evidente o una questione riguardante solo la psicologia e le terapie.

A partire dalla sua esperienza, Teresa non solo ha avuto l’acume di captare la centralità del tema, ma nell’osservazio-ne retrospettiva esperienziale cui sottopone la sua vita, che è il sostrato principale della sua dottrina, scopre che è la pietra ango-lare di tutto l’edificio, il fondamento senza il quale non sarebbe mai giunta né a una conversione né a un vero cambiamento di vita1.

Il titolo che diamo a questo contributo racchiude una duplice intenzione: da un lato, mostrare la centralità della conoscen-za di sé nell’opera teresiana e in tutto il processo spirituale, quasi fosse la pietra angolare sulla quale si deve costruire tutto l’edificio della persona, come ripete più volte Teresa: «quantunque costitu-isca per noi il fattore più importante» (1M 2,13); e dall’altro, scoprire che a partire da questo tema troviamo in lei una porta imprescindibile per il dialogo e l’incontro con qualsiasi persona

1 In effetti, già nel Libro della Vita appare con forza sconcertante la rilevanza che ha avuto nel suo processo la conoscenza di sé: «Tuttavia, la meditazione sulla conoscenza di sé non si deve mai tralasciare, perché non c’è anima che nel cammino dello spirito sia così gigante da non aver bisogno di ritornare spesso a essere bambina e a succhiare il latte materno (questo non lo si dimentichi mai, perché ha molta importanza), non essendoci uno stato di orazione così elevato che spesso non sia necessario rifarsi dal principio. La conoscenza di sé e dei propri peccati è il pane che in questo cammino dell’orazione si deve mangiare con tutti i cibi, anche con i più delicati, e senza di esso non ci si può sostenere» (V 13,15).

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– indipendentemente dalla sua credenza religiosa. E non solo, perché Teresa apre una porta per la “speranza” a tutti coloro che cercano con cuore sincero, a tutti quelli che si impegnano ad addentrarsi nella conoscenza del proprio sé: senza saperlo, sembra affermare categoricamente Teresa, essi sono molto avan-ti – a volte più di molti cristiani – in quello che implica e significa un autentico cammino e processo spirituale.

Teresa ha ovviamente la concettualizzazione antropologi-ca del suo tempo e difficilmente riesce a superare in tutti i suoi elementi questa visione antropologica e teologica. Ciononostan-te, lascia molte volte la porta socchiusa, nella speranza che il processo spirituale di tanta gente, di tanti giovani che apparen-temente sono «lontani dalla Chiesa», possa giungere a buon fine o trovarsi già in uno stadio ben avanzato nel percorso di crescita umano-spirituale. Questa può essere la chiave, anche pedagogi-ca, nell’ambito di una evangelizzazione che aspira a che la perso-na giunga alla pienezza che Dio desidera di ciascuno.

È sempre un tema fondamentale nelle sue opere, benché non vi si dedichi un paragrafo a parte o non si facciano grandi discorsi al riguardo2. Forse è nelle Mansioni dove appare in tutta la sua forza e supremo valore. Di questo ci occuperemo nelle seguenti pagine.

Infatti, il piano che accompagna tutto il processo che Tere-sa presenta nelle Mansioni, si fonda sia intuitivamente che espli-citamente sulla conoscenza di sé. Il cammino consiste nel conoscere le

2 Sul tema della conoscenza di sé in Teresa non si è scritto molto. Io ho avuto modo di scrivere sul tema in relazione al Libro della Vita: F.J. SancHo fermín, El conocimiento de sí en la meditación teresiana, in id. (a cura di), La meditación teresiana, CITeS-Universidad de la Mística, Ávila 20122, 51-90. Si veda anche il contributo di e. münzebrock, La importancia y relevancia del conocimiento de sí en el proceso espiritual de Teresa, a la luz del Libro de la Vida, in f.J. SancHo – r. cuartaS, El Libro de la Vida de Santa Teresa de Jesús. Actas del I Congreso Internacional Teresiano, Monte Carmelo-Universidad de la Mística-CITeS, Burgos 2011, 397ss.

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diverse stanze che troviamo nel nostro castello interiore. Non si tratta di un cammino “ad extra” ma “ad intra”. In pratica, già nel piano gene-rale dell’opera Teresa ci mostra che tutto il cammino spirituale si confonde con il “processo di conoscenza di sé”. Forse questo spiega il perché della sua insistenza e la ragione per cui non scri-va sulla questione un trattato esplicito, dal momento che ogni tappa del processo ne è continuamente costellata. Potremmo addirittura affermare che il dinamismo che Teresa porta avanti si basa su questo: aiutarci a conoscere l’interiorità che è ciascuno di noi, scoprire ciò che può accadere in essa e ciò che in essa incontreremo.

Scoprirci nella nostra “verità”

Nella vita e opera di Teresa il concetto di “verità” e “camminare in verità” emerge con forza lungo tutta la sua espe-rienza vissuta e scritta. Si riferisce non solo alla comprensione di ciò che per lei è l’“umiltà”, ma definisce un modo d’essere, o meglio, l’unico modo di essere davanti a sé, agli altri, alla vita e a Dio. Forse abbiamo qui la chiave per capire l’importanza che Teresa dà alla “conoscenza di sé”.

Questo conoscersi, scoprirsi nella verità, presenterà diverse connotazioni che possono aiutarci nella comprensione dell’autoco-noscenza. Chi è solito leggere gli scritti della Santa abulense, noterà subito la costante insistenza con cui lei si presenta: donna sprege-vole e peccatrice, sottolineando, quasi a mo’ di ritornello, la sua miseria. Tale “sensazione”, che la lettura dell’opera teresiana può provocare in un lettore distratto o capace di leggere tra le righe, può portarlo all’errata conclusione che la cosa più importante nel processo è riconoscere costantemente la “propria miseria”, quasi fosse l’unica condizione che caratterizza il soggetto davanti a Dio.

Ma questa conclusione, che può alterare completamente la comprensione di quanto Teresa vuole comunicarci, non è un assoluto nella comprensione che Teresa ha di sé e che ci presenta

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dell’essere umano in generale. Sì, certo, siamo miseria ma non si esaurisce qui ciò che siamo, né tanto meno è la dimensione del nostro essere ciò che ci definisce realmente. In questo senso, la dinamica che troviamo nell’opera delle Mansioni ci convincerà con sufficiente evidenza che, in fondo, la visione antropologica di Teresa è, al contrario, enormemente positiva.

E fin dalle prime righe del Castello interiore si trova conferma di questo. Teresa assume come punto di partenza dell’opera e del cammino che ci sta per proporre la presentazione di quello che siamo realmente, ciò che ci definisce: l’essere umano sta nella sua interiorità, nella sua anima (cioè, in ciò che sorregge e governa la sua vita), è un essere di una bellezza ineguagliabile, un essere che lungi dal mancare di senso o dall’essere vuoto dentro, è abitato da Dio; un essere, infine, che è a immagine e somiglianza di Dio (cf 1M 1,1). Non è possibile dire altro sulla grandezza e dignità dell’essere umano in così poche righe: «partendo da una base sufficientemente solida: considerare cioè la nostra anima come un castello monolitico, ricavato nel diamante, in cui vi siano molte mansioni (…). In effetti, sorelle, a rifletterci bene l’anima del giusto non è altro che un paradiso, dove il Signore afferma di trovare le sue delizie. Ora, quale aspetto immaginate possa presentare il luogo in cui viene a bearsi un Re così potente, così saggio, così puro e così ricco d’ogni bene? Io non trovo assolutamente nulla che sia paragonabile all’eccelsa bellezza e alla vasta capacità di un’anima. E in realtà le nostre intelligenze, per acute che siano, stentano davvero ad afferrarla, così come non possono arrivare a comprendere Dio, visto che Egli stesso afferma di averci creati a sua immagine e somiglianza» (1M 1,1).

Per ben tre volte Teresa ripete il vocabolo “bellezza”, che effettivamente contrasta con l’uso iterato della parola “miseria”. Questo testo è il punto di partenza in cui abbozza con una certa formalità la sua definizione dell’essere umano, da tener presente durante tutto il corso dell’opera. Il processo spirituale sarà infatti un approfondire e scoprire sempre di più questa grande “bellez-

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za” nascosta, che spesso per “nostra colpa” siamo incapaci di scoprire. Teresa colloca qui il quid della questione, e potremmo dire perfino la ragione per cui noi uomini siamo tanto miserabili: non conosciamo la grande dignità che c’è in noi.

Ma c’è ancora dell’altro. La descrizione che Teresa fa dell’essere umano, praticamente definito a partire da Dio, cioè a partire da una visione teologale, sintetizza l’essenza del processo che sta per presentarci: conoscere, riscattare e vivere la grandez-za di ciò che siamo. In questo senso, Teresa ci anticipa che la sua insistenza successiva sulla “conoscenza di sé” non si riduce a una percezione psicologista o semplicemente antropologica di ciò che siamo ma ci permette, a partire da certi interrogativi esistenziali, di camminare verso la pienezza, che è alla portata di tutti, perché è ciò che ci definisce come essere umani. Natural-mente nella consapevolezza che è impossibile realizzare questo cammino senza l’aiuto di Colui che ci ha creato e nel cui Essere scopriamo il nostro vero essere. E inoltre essa evidenzia quello che siamo nei confronti di Dio: esseri di un valore inestimabile, infinito, nei quali Dio ha riposto e ripone la sua fiducia: Dio ha fissato la sua dimora all’interno di ogni uomo, nonostante la sua condizione fragile e peccatrice.

Teresa risulta profondamente acuta e sapiente nel dare questo fondamento al cammino spirituale: camminare verso l’unione con Dio sarà un processo di umanizzazione, perché nell’“umano” si trova la grandezza di quello che siamo e di quel-lo che Dio ci ha dato e forgiato in ciascuno di noi. Una visione tanto positiva dell’essere umano, in Teresa, emerge solo quando, dopo aver percorso tutto il processo, arriva ad accorgersi che Dio ci unisce a sé accogliendo la nostra umanità, per elevarla e colmarla. E in questo cammino l’uomo acquista un protagoni-smo di collaborazione che è inscritto nel suo stesso essere. Per ciò Teresa ci inviterà continuamente a non restare nella “nostra miseria”, perché in questo modo non progrediremo mai, né mai raggiungeremo la dimora in cui abita il Re.

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Tale punto di partenza teresiano, che cambierà nel punto d’arrivo (cf M epilogo 3), ci apre alla comprensione e al bisogno che ella esprime in rapporto alla vita di preghiera. Non è qual-cosa di solo programmatico che possiamo riuscire a realizzare in base a una serie di test, ma piuttosto la conoscenza di sé sarà un processo esistenziale che andrà prendendo la forma non di un monologo, ma di un dialogo interiore con Colui che ci conosce realmente. Emerge qui la centralità dell’orazione e la concezio-ne che di essa ha Teresa, e che sottolinea: «la porta per entrare nel nostro castello è l’orazione e la meditazione. Non sto qui a specificare se mentale o vocale, perché, qualora si tratti d’auten-tica orazione, deve ovviamente andar associata alla meditazione. Infatti quella di chi non tiene presente, cosa chieda, chi sia lui che chiede e colui al quale si rivolge, io non la chiamo orazione, quantunque egli continui a biascicare con le labbra» (1M 1,7).

Qui si palesa anche quello che per Teresa deve caratteriz-zare qualsiasi tipo di orazione affinché sia autentica. Non bada né ai metodi né alle modalità, che ciascuno adotti quello che meglio si adatta al suo modo («Fate quindi ciò che più vi sprona ad amare» (4M 1,7)). In tre punti ella include la veridicità e l’au-tenticità e li riassume nella parola “considerazione”, cioè, presa di coscienza di:

- ciò che si dice- a chi lo si dice (conoscenza di Dio)- chi lo dice (conoscenza di sé).

È chiaro che non c’è orazione se manca uno solo di questi tre punti, specialmente la conoscenza di Dio e la conoscenza di sé, che è l’elemento essenziale per poter vivere e crescere in un’orazione autentica. Sono elementi che nel corso dell’ope-ra la Santa andrà definendo in modo sempre più chiaro e con maggiori dettagli. Se Teresa fa ciò dopo tanti anni di esperienza e a quasi 62 anni di età, è perché il suo vissuto e il suo rapporto con tanta gente l’ha portata a questa convinzione.

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Un altro elemento iniziale che è bene prendere in conside-razione è per chi scrive Teresa, un tema sempre controverso ma fondamentale nel momento di avvicinare i suoi scritti. Nel Prolo-go, sembra ridurre il suo pubblico esclusivamente alle sue mona-che (cf Prologo 4). Ma amplia subito la cerchia dei lettori ad un pubblico più vasto. Teresa vuole accompagnare tutti coloro che risolutamente si avventurano ad entrare nel proprio castello inte-riore. Sì, sembra escludere dalla sua concezione di fede i cristiani “imborghesiti e abbienti”, coloro che pensano di sapere già tutto e non camminano, né lasciano camminare gli altri:

Non parliamo quindi nemmeno a queste anime rattrappite, le quali, se non arriva il Signore in persona a comandar loro di alzarsi – come ha fatto col paralitico da trent’anni immobi-lizzato accanto alla piscina –, corrono serio pericolo e rischia-no di tirarsi addosso una tremenda sventura. Parliamo invece alle altre anime, a quelle che finiscono per entrare nel castello. Benché ingolfate nel mondo nutrono buoni desideri; di tanto in tanto si raccomandano a Dio e, seppure di sfuggita si sofferma-no a riflettere sul proprio stato di creature (1M 1,8).

È sicuramente interessante la percezione e la lettura psico-logica che Teresa fa di questo testo evangelico, ben in linea con la lettura data da alcuni autori attuali.

Fatti questi necessari preamboli, Teresa ci guiderà, con il suo stile, per il cammino dell’autoconoscenza. Cerchere-mo di lasciare che sia lei realmente a parlare. Per una migliore comprensione, noi tenteremo soltanto di dare una sistematizza-zione a tutta la ricchezza che al riguardo ci offre la Santa nelle Mansioni.

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Riuscire ad entrare. Sfide e difficoltà

La conoscenza di sé teresiana, o come anche è stata chia-mata “il socratismo teresiano”, non è un sistema metodologico che Teresa di Gesù ci dà nelle sue opere. Ma piuttosto, come ogni atto radicalmente umano, supera qualsiasi definizione e concettualizzazione metodica. Ciò non significa, tuttavia, che in Teresa, e nello specifico nelle Mansioni, non troviamo sufficienti elementi in grado di aiutarci a realizzare il processo. Sicuramen-te non in un modo sistematico, né metodologico. Come accade con il cammino della preghiera, Teresa dà regole che aiutano l’individuo a fare il proprio cammino, in rapporto più al modo di essere di ciascuna persona, che a una tavola di esercizi o dina-miche che corrono sempre il rischio di essere limitati.

Teresa afferma costantemente la sua convinzione sull’im-portanza profonda della questione: «dato che ho già disquisito altrove e a lungo sui danni che ci arreca il non comprendere bene la funzione dell’umiltà e dell’autoconoscenza, non mi ci soffermo neanche qui, quantunque costituisca per noi il fattore più importante. Voglia Iddio che almeno io abbia detto qualcosa che vi serva!» (1M 2,13).

Cammino, aiuti

Nel discorso teresiano scopriamo la convinzione su cosa consiste questo cammino, e che senza la considerazione di ciò che si è, il cammino rischia di non portare da nessuna parte o di costruirsi nel vuoto. Inoltre, anche nel caso in cui la persona non impostasse il cammino in base a ciò che implica, l’apertura alla conoscenza di sé può risultare lo stesso una chiave in grado di dinamizzare successivamente tutto il processo. Chi si apre alla conoscenza di sé, agevola la possibilità di non perdersi del tutto nel cammino: «aiutati in modo validissimo dalla conoscenza di sé e dalla constatazione che così non camminano affatto bene

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per infilare la porta d’ingresso. Finalmente entrano nei primi locali del pianterreno; ma assieme a loro vi penetra anche una frotta di animali nocivi, che non solo impediscono loro di vedere le bellezze del castello, ma non le lasciano nemmeno riposare un istante. È già tanto se sono riuscite ad entrare» (1M 1,8).

Teresa non si accontenta di certo che entriamo nel castello. Vuole che lo conosciamo per raggiungere la sua stanza centrale. Per questo è consapevole che non siamo di fronte ad un processo puramente umanista, ma che richiede, per poter avanzare spedi-to, una buona dose di fede e di crescita spirituale. Ciononostante, tutte le facoltà che configurano l’essere umano sono come porte o campanelli d’allarme per iniziare a valutare la sua importanza. Un passo illuminante al riguardo è il seguente:

perché, mentre da un lato, la ragione le prospetta quale illusione sia il pensare che tutti i beni di quaggiù non valgono nulla in confronto di quelli cui aspira, dall’altro la fede le insegna quale sia l’ideale che può appagarla. Sopravviene poi la memoria a ricordarle dove vanno a parare tutte le delizie terrene, richia-mandole la morte di parecchie persone di sua conoscenza che ne godettero a iosa, alcune delle quali ha visto lei stessa falciate da morte improvvisa e ben presto dimenticate da tutti; rimet-tendole sotto gli occhi la vicenda di altri pure da lei conosciuti mentre navigavano nella prosperità, finiti poi calpestati sotto terra, in una fossa sul cui cumulo forse anche lei è passata tante volte pensando all’ammasso di vermi brulicanti nel loro corpo: portandola infine a considerare tanti altri fatti che può sciori-narle davanti. Entra quindi in campo la volontà, che tende ad amare chi le ha elargito così innumerevoli regali e prove d’amo-re. Di conseguenza essa nutre il desiderio di contraccambiar-ne almeno qualcuna, specialmente quando tiene presente che questo vero amante non l’abbandona mai, ma le resta anzi sempre al fianco, dandole vita ed esistenza. Indi subentra l’in-telletto a farle capire che sicuramente non potrà acquistare un amico migliore neanche se vivesse per molti anni; che il mondo

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è pieno di falsità, e che i piaceri offertile dal demonio sono saturi di tribolazioni, angosce e contrasti: che fuori di questo castello – stia pur certa – non troverà né sicurezza né pace; che la smetta di andare vagando per le case altrui, perché la sua è già stracolma e, per godersela, basta volere; che provi a domandarsi chi mai possa trovare tutto quanto gli occorre standosene a casa sua, special-mente quando vi ospita un personaggio così ragguardevole che lo renderà padrone di tutte le sue sostanze, a meno che egli non voglia andarsene ramengo come il figliol prodigo, ridottosi a divorare il mangime dei porci (2M 1,4).

Un processo nel quale sono implicate, pertanto, tutte le facoltà umane, inclusa la stessa fede.

Un cammino che non è sicuramente facile, e nel quale la persona e il suo procedere saranno sempre condizionati dagli aiuti che potrà incontrare o ai quali deciderà di rivolgersi, perché possono influenzare il cammino sia in modo positivo che nega-tivo. Teresa insiste perciò sulla necessità di incontrare buoni appoggi e di cominciare a confidare nella grazia di Dio:

Illuminala, affinché veda chiaramente che ogni suo bene sta nel perseverare e nel fuggire le cattive compagnie. Utilissimo le sarà invece dialogare con quelli che si occupano di queste cose; acco-stare non soltanto coloro che si trovano già nelle stanze raggiun-te da lei, bensì anche coloro che dimostrano di essere arrivate in quelle più vicine al quartiere centrale; ciò le sarà infatti di gran-de aiuto, e a forza di conversare assieme, può perfino ottenere che la attirino accanto a loro» (2M 1,6).

Il fatto è che la conoscenza di sé non è questione che si possa ridurre solo all’interiorità della persona. Siamo esseri rela-zionali e la relazione è fondamentale, soprattutto con coloro che già ci conoscono. E così Teresa insiste:

è sommamente vantaggioso trattare con chi già conosce il mondo in tutte le sue pieghe per conoscere noi stessi. Siccome

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certe cose ci sembrano impossibili, il vederle divenute possibi-lissime e sopportate con tanta dolcezza da altri, è molto inco-raggiante: osservando il loro volo ci sentiamo spinti a tentare di volare anche noi, come fanno gli uccellini quando stanno impa-rando a librarsi in aria (3M 2,12).

Le mediazioni durante il cammino acquistano un valore importante di orientamento, discernimento, sostegno e coraggio.

Cammino difficile: croce

La storia personale di Teresa, almeno così come ce la rivela nel Libro della Vita, ci testimonia con fermezza non solo l’importanza e la centralità di questo cammino, ma le molteplici difficoltà e sofferenze che può comportare un processo di cono-scenza di sé, specialmente se la persona ha trascurato o accanto-nato questo impegno nel corso della sua vita. Può concretamente diventare una via purgativa e per la persona sarà in salita, un autentico cammino di croce.

In definitiva, il processo di conoscersi urta da subito con la condizione povera e miserabile della persona, alla quale sembre-rà di scoprire ad ogni passo soltanto quello che non le è di gradi-mento o che le risulta difficile d’accettare come sua verità. Eppu-re Teresa non smette di insistere sul fatto che questo cammino, benché purgativo, produce degli effetti necessari e benefici nella persona, fino a considerarlo quasi come la grazia principale. E questo non solo agli inizi; emerge anche, perfino con più forza, man mano che il processo ci conduce nelle stanze più interne. Ce ne porta un esempio nelle seste Mansioni:

perché è nettamente consapevole di non essere stata lei a combattere, in quanto tutte le armi con cui avrebbe potuto difendersi le ha viste luccicare in mano al nemico. Riconosce quindi miseramente la sua miseria, e arriva a constatare lo scar-sissimo potere che ci resta qualora Dio ci lasci allo sbaraglio.

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All’anima sembra ormai di non avere più bisogno nemmeno di riflettere per comprendere questa verità, perché l’esperienza fatta attraversando la burrasca con la consapevolezza di asso-luta impotenza, le ha mostrato chiaramente la nostra nullità e la pietosa miseria in cui ci dibattiamo. La grazia infatti – che certamente non le manca, se nell’infuriare della tormenta non offende Dio né lo offenderebbe per nessuna cosa al mondo – le resta ermeticamente celata al punto che lei prova l’impressio-ne di non avere in sé la più piccola scintilla di amor di Dio, né di averne mai avuto. Se ha compiuto un po’ di bene o Sua Maestà le ha concesso qualche favore, ora tutto le pare un vago sogno e un autentico abbaglio. Solo i peccati avverte con certez-za di averli commessi. O Gesù, che pena vedere un’anima così abbandonata cui – come ho detto – pressoché nulla giova qual-siasi consolazione della terra. Perciò, sorelle, se vi succederà talvolta di trovarvi in questo stato, non crediate che i ricchi e le persone libere da ogni impegno siano in grado di procurarsi maggior sollievo di voi, in circostanze analoghe. No, no. A me sembra avvenga come ai condannati a morte: quand’anche si sciorinassero davanti a loro tutti i piaceri esistenti al mondo, essi non basterebbero a confortarli, ché anzi ne accrescerebbero la sofferenza. Così nel caso nostro: la tribolazione viene dall’alto, e quindi a nulla servono i palliativi terreni. Il grande Iddio vuole che noi riconosciamo la sua legalità e la nostra miseria: ciò rive-ste un’altissima importanza per quello che avverrà in seguito (6M 1,10-12).

Ciononostante, tutto questo ha un effetto sommamente benefico per la persona. Può diventare perfino la base per rice-vere un dono maggiore:

Allora Dio forse le risponderà con le parole che un giorno disse ad una certa persona la quale, per lo stesso motivo, se ne stava tutta afflitta davanti ad un crocifisso rammaricandosi di non aver mai avuto niente da dargli né da lasciare per lui. Il Croci-fisso in persona la consolò dicendole che egli le porgeva tutti i

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dolori e i travagli sofferti nella sua Passione, affinché li facesse propri, per poi offrirli al Padre suo. E quell’anima, a quanto ho saputo da lei stessa, ne rimase così confortata ed arricchita da non potersene più dimenticare; ché anzi ogni qualvolta s’accen-tua in lei la coscienza della propria miseria, le basta rammenta-re quell’episodio per restarne rinvigorita e consolata (6M 5,6).

Conoscenza di sé che, pur passando per la croce, avvicina di più la persona a Dio, unendola più profondamente. È il bino-mio teresiano che si risolve in se stesso, benché sembri un para-dosso di contraddizioni: miseria dell’uomo, misericordia di Dio, i quali però non separano, ma uniscono maggiormente.

L’esperienza, per altro verso purificatrice e riparatrice, è tuttavia dolorosa, in quanto arriva nel più profondo dell’orgo-glio della persona. Man mano che la conoscenza si approfondi-sce, evidenzia di più la differenza, al tempo stesso che sottolinea la gratuità di un dono immeritato, soltanto frutto dell’infinita generosità di Dio. In definitiva, è per Teresa uno dei pilastri che reggono una salda vita di fede e d’amore:

Per la verità, a seconda delle volte, esso risulta ora più e ora meno acuto, e varia anche il modo in cui si fa sentire. L’ani-ma infatti non pensa tanto al castigo che dovrà subire a causa dei suoi peccati, quanto piuttosto alla sua estrema ingratitudi-ne nei confronti di colui al quale tanto deve e che tanto meri-ta di essere servito. Siccome mediante le magnificenze di cui è favorita ella giunge a conoscere sempre meglio la grandezza di Dio, si spaventa di essere stata così temeraria, piange il suo poco rispetto, giudica talmente insensata la sua follia da non smettere più di deplorarla, rammentando continuamente che per cose tanto abbiette ha abbandonato una così eccelsa Maestà. Ricor-da molto più spesso questo, che non le grazie di cui viene insi-gnita, siano pur grandi come quelle già descritte e come quelle che illustrerò in seguito. Ha infatti l’impressione che tali doni le giungano ad intervalli, come trasportati da un fiume in piena; mentre i peccati sono come un fondale limaccioso di melma,

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che riaffiora continuamente alla memoria costituendo per lei una pesante croce (6M 7,2).

La percezione esperienziale della croce si acuisce certa-mente man mano che si progredisce nella conoscenza di sé. La sofferenza insita nel processo non sempre rimanda alle stesse motivazioni. Nelle prime stanze si può attribuire alla spropor-zione con Dio, all’orgoglio o amor proprio che si vedono colpi-ti, allo scoprirsi più poveri di quanto si pensava o sembrava, al doversi togliere le maschere che avevano retto fino ad allora la vita… Il grado di sofferenza varia. E aumenta quanto più cresce l’unione: l’Altro è la fonte più profonda della conoscenza di sé: «sentendosi continuamente afflitta dal dolore e dalla confusione nel constatare il poco che riesce a fare rispetto al molto cui sareb-be obbligata: il che non è una lieve croce, bensì una durissima penitenza. E a proposito di penitenze che quest’anima pratica, più grandi esse sono, maggior diletto ne prova» (7M 2,9).

Teresa non smette di sottolineare questo aspetto per la sua importanza, e con l’intenzione di avvisare su ciò che implica il cammino e su ciò cui si va incontro. Cerca di non lasciar spazio né alla stupore né all’improvvisazione.

Tuttavia la croce non è solo sofferenza, è anche un dono e una grazia molto speciale. Così la considera Teresa in relazione alla conoscenza di sé:

Ritengo che non sia un atteggiamento sicuro per un’anima, sia pur favorita quanto si voglia da Dio, dimenticare di essersi trova-ta per qualche tempo in condizioni miserabili, perché questo ricordo, anche se penoso, risulta proficuo sotto molti aspet-ti. Chissà, forse a me sembra così perché sono stata talmente abbietta, perché non riesco a togliermelo dalla memoria. Quelle che invece sono state virtuose, non avranno rimorsi, benché di mancanze se ne commettano sempre finché viviamo in questo corpo mortale. A tale pena non arreca alcun sollievo il pensare che nostro Signore ha ormai perdonato e dimenticato i nostri

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peccati; anzi, il dolore si rincrudisce alla vista di tanta bontà, che non cessa di elargire grazie a chi non ha meritato altro che l’in-ferno. Io penso che questo doveva essere il più atroce martirio per san Pietro e la Maddalena, perché essi, accesi com’erano di ardente amore, favoriti di tante grazie, consapevoli della gran-dezza e della maestà di Dio, dovettero soffrirne assai duramente e con un sentimento di dolcissima pena (6M 7,4).

Pericoli e vantaggi del conoscersi o no

Teresa sottolinea, inoltre, l’importanza del tema a partire dai pericoli che comporta una chiusura alla conoscenza di sé, e dai vantaggi che ne deriveranno. In questo modo il lettore, colui che si avventura ad entrare nel castello, sa in anticipo le implica-zioni inerenti alla sua apertura o chiusura alla conoscenza di sé.

È importante, innanzitutto, che la persona non smetta mai di cercare di essere cosciente della situazione in cui viene a trovar-si. Ciò ci tiene lontano dai possibili fantasmi dell’autoinganno, e ci permette di procedere con passo fermo nel realismo del proprio cammino. Così per esempio, nelle seconde Mansioni, Teresa ci invi-ta a scoprire che cosa ci impedisce di abbandonarci al cammino:

Mi riferisco qui a coloro che hanno già cominciato a praticare l’orazione ed hanno capito quanto importi a non arrestarsi nelle prime mansioni, ma non possiedono ancora sufficiente risolu-tezza per evitare di rimanerne spesso arenati: tutto perché non fuggono le occasioni, esponendosi così ad un rischio pericoloso. È però già un sintomo di grande misericordia divina il fatto che, almeno saltuariamente, cerchino di scansare le serpi e il bestia-me velenoso, nella convinzione che è bene starne alla larga (2M 1,2).

Questo dinamismo di essere coscienti di ciò che ci allon-tana, di ciò che ci aiuta o ostacola, è parte del conoscersi. Per questo, secondo Teresa, il vero male e pericolo nella vita e nel cammino spirituale e della fede è il non conoscersi, il non abitarsi:

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Può forse esistere male maggiore del non riuscire ad ambientarci neanche in casa nostra? Come possiamo nutrire la speranza di trova-re riposo in campo altrui, quando non siamo in grado di raggiungere la tranquillità del nostro? In effetti, persino quei nostri veri amici, quei nostri stretti parenti con cui anche nolenti dobbiamo pur sempre vivere, che sono le potenze, sembrano farci la guerra, quasi spinte dal risentimento per quella mossa loro dai nostri vizi. Pace, pace, sorelle mie! Questa è la parola d’ordine del Signore, questo il monito da lui tante volte ripetuto ai suoi Apostoli. Una pace del genere, credetemi, se non l’abbiamo e non ci premuriamo di crearla in casa nostra, non la troveremo certo presso gli estranei. Per il sangue sparso per noi da Cristo, finisca una buona volta questa guerra! Lo chiedo a coloro che non hanno ancora cominciato a rientrare in sé; mentre a quelli che hanno già cominciato, chiedo che la prospettiva della lotta non assurga a motivo sufficiente per farli tornare indietro. Badino che la ricaduta è peggiore della caduta; e si profila ormai all’orizzonte la loro rovina; confidino nella misericordia di Dio, non in se stessi, e allora vedranno come Sua Maestà li condurrà da una mansione all’altra, collocandoli in un ambiente in cui gli animali nocivi non potranno né toccarli né molestarli mentre essi saranno invece in grado di assoggettarli tutti, beffandosi di loro e godendo addirittura fin da questa vita una quantità di benefici superiori a ogni desiderio (2M 1,9).

Il risultato, o il grande vantaggio, sarà che la persona inizia ad essere padrona di sé, e ad avere un migliore e maggiore controllo della sua vita.

Conoscersi non è un’azione astratta né generica. Teresa la riferisce a tutte le facoltà umane, al bisogno di conoscersi nei meccanismi del nostro pensiero, intelletto, ecc. Da qui potremo superare molti ostacoli che ci appaiono insormontabili, ma che hanno una risposta e una soluzione sulla base di una conoscen-za più autentica di sé, del funzionamento delle proprie facoltà: «per la maggior parte, tutte le inquietudini e tutte le sofferenze ci provengono dalla mancata conoscenza della nostra situazione» (4M 1,9).

Ai vantaggi sotto ogni punto di vista, Teresa evidenzia, in compenso, le conseguenze negative che ha per la vita il non

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camminare per la conoscenza di sé. Si può finire addirittura con l’automartirizzarsi senza neppure accorgersene:

Può darsi che tali miserie non infliggano a tutti tanta sofferenza e tanta ambascia quanta ne hanno inflitta per molti anni a me, che sono così meschina da lasciare l’impressione di aver quasi voluto vendicarmi di me stessa. Siccome la cosa a me ha causato tanta pena, penso che forse succederà altrettanto anche a voi: ecco perché ve ne parlo continuamente, sperando di riuscire una buona volta a farvi persuase che si tratta d’una sofferenza ineluttabile, per cui non dovrete restarne perennemente inquie-te e afflitte. Lasciamo stare questa battola da mulino e maci-niamo la nostra farina, tenendo in azione la nostra volontà e il nostro intelletto (4M 1,3).

Teresa considera il tema di gravissima importanza. È un dovere verso se stessi, ma anche verso Dio. Possiamo distorcere completamente il modo di vivere e intendere la religione: «è però necessario, e pure sua Maestà lo vuole, che ricorriamo ai mezzi idonei e arriviamo a conoscerci in fondo, per non imputare all’a-nima la colpa di ciò che è invece un semplice effetto dell’instabile fantasia, del substrato naturale e del demonio» (4M 1,14).

Atteggiamenti che bloccano

Siamo di fronte a una grande sfida che investe la persona nel corso di tutta la sua vita, dato che abbraccia tutto il suo esse-re e tutto il suo percorso. La consapevolezza che Teresa sembra avere della sua importanza, la induce a rivelare con insistenza quali atteggiamenti o situazioni della vita della persona posso-no bloccare, paralizzare e anche impedire la realizzazione del cammino. Il tutto si gioca qui.

Man mano che si avanza nel cammino dell’interiorità che ci ha portato a stadi sempre più profondi del nostro castel-lo, Teresa precisa alcuni atteggiamenti che bloccano e che al

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contempo sono frutto della scarsa conoscenza di sé. Corriamo il rischio di diventare veri “farisei”. È interessante vedere come Teresa sottolinei l’atteggiamento dell’autoinganno, quando cioè la persona cade nell’atteggiamento di credersi migliore e supe-riore agli altri, già in possesso di quelle realtà che la rendono, a suo avviso, più spirituale davanti agli altri: penitenze, perfezio-nismo, rettitudine morale, ecc. (cf 1M 2,16-17); o di pensare di essersi liberata di cose o persone che invece, in realtà, non è stata in grado di fare:

i demoni s’ingegnano a mettere in bella luce il groviglio di serpi delle attrattive del mondo, a far apparire i suoi piaceri quasi eterni, sottolineando la stima in cui si è tenuti tra la gente, richiamando alla mente parenti ed amici, esagerando il valore della salute nelle pratiche penitenziali (perché, all’atto di entra-re in questa dimora, l’anima comincia sempre a desiderare di farne qualcuna), e tirando in campo una miriade di altri ostacoli (2M 1,3).

Anche il cercare sicurezza in se stessi, nelle norme, Regola e Costituzioni, ecc. Teresa avvertirà più volte che non è in questo la perfezione. O pensare che per possedere già certe grazie spiri-tuali si è migliori degli altri. Teresa dirà che la perfezione consi-ste nella virtù, nell’amore per il prossimo.

Chi lascia il cammino della conoscenza di sé corre il rischio di “morire” anzitempo, cioè, di arenarsi nel cammino e di non procedere più:

Resta intanto sempre sottinteso che l’anima deve premurarsi di progredire nel servizio di nostro Signore e nella conoscenza di sé. Qualora infatti si limiti soltanto a ricevere tale grazia e, considerandosi ormai al sicuro, si abbandoni a una vita trasan-data, deviando dal sentiero del cielo tracciato dai comandamen-ti, le accadrà ciò che succede alla farfalla uscita dal baco da seta, che depone il seme per farne nascere altre, ma lei rimane morta

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per sempre. Dico che depone e sparge il seme perché, secondo me, Dio vuole che una grazia così segnalata non risulti conces-sa invano e che, se non se ne approfitta chi la riceve, possano giovarsene altri (5M 3,1).

E di restare nella vita come un cieco, e non per mancanza di luce, ma per la negligenza della persona che si ostina a non aprire gli occhi: «È per noi molto importante, sorelle, non figu-rarci l’anima come un’entità tenebrosa. Ordinariamente infat-ti, siccome non vediamo altra luce fuorché quella materiale e lo spirito è invisibile, ci facciamo l’idea che non esista una luce interiore, per cui dentro la nostra anima deve regnare una certa oscurità» (7M 1,3).

Ma il vero pericolo, oltre a quello di cadere nella trappola di non arrivare a conoscersi e ad essere realista, camminando con i piedi per terra, è che la persona può perdere il meglio della vita: il dono e la grandezza che ha ricevuto da Dio. Sarebbe come non far fruttificare i talenti: «Ciascuna di noi possiede un’anima; però, siccome non sappiamo apprezzarla quanto meriterebbe una creatura plasmata a immagine di Dio, non riusciamo nean-che a penetrare i grandi segreti racchiusi in essa» (7M 1,1).

Atteggiamenti che favoriscono

Di fronte a questa situazione stagnante, Teresa insiste sulla necessità di promuovere un’altra serie di atteggiamenti, capaci di aiutare la persona a restare sempre attiva nel cammino. Per questo, uno degli elementi che meglio favoriscono il dinamismo dell’autoconoscenza è il chiedersi il senso di ciò che si vive, di ciò che si ha tra le mani, il non passare indifferenti davanti alla propria vita e al suo significato. È eloquente la serie di interroga-tivi che Teresa solleva:

Ah, sorelle mie, è proprio un nulla quello che abbandoniamo, un nulla quello che facciamo e un nulla quello che potremmo

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fare, per un Dio generoso al punto di comunicarsi così ad un misero verme! E se nutriamo la speranza di godere tale bene ancora nella vita presente, cosa facciamo, in quali piccinerie ci attardiamo? Che cosa ha tanto potere da trattenerci, sia pure per un momento, dal cercare questo Signore, come faceva la Sposa, perlustrando le vie e le piazze? Oh, che beffa rappresenta tutto quello che il mondo ci offre, se non ci aiuta e non ci facilita il raggiungimento di questa meta! Quand’anche i suoi piaceri, le sue ricchezze, le sue delizie durassero per sempre e fossero tanto numerosi da superare ogni immaginazione, non sarebbe-ro altro che nauseante immondizia, messi a raffronto coi tesori che noi siamo destinati a godere senza fine! E anche questi sono un nulla, se paragonati alla felicità di possedere come proprietà nostra il Signore di tutti i tesori del cielo e della terra (6M 4,10)3.

Teresa sa bene che non è un cammino in cui aleggiano tepore e pusillanimità. È in gioco la cosa più importante per la persona: la propria vita, il suo compimento e il poter portare a termine il progetto di Dio. La virtù che Teresa decanta come necessaria per questo cammino è la “determinazione”, il “corag-gio”:

Anche in vista di tale impegno, che incute grande apprensione, l’anima ha bisogno di molto coraggio; e qualora il Signore non glielo concedesse, vivrebbe in perenne stato d’angoscia. Guar-dando infatti al tanto che Sua Maestà fa per lei, e rilevando poi di riflesso il poco che ella stessa fa al suo servizio in confronto a quanto sarebbe tenuta, si abbatte. Tanto più che anche quel

3 Molto simile all’esposizione di Giovanni della Croce nel Cantico spirituale: «O anime create per queste grandezze e ad esse chiamate, che cosa fate? In che cosa vi intrattenete? Le vostre aspirazioni sono bassezze e i vostri beni miserie. O misera cecità degli occhi dell’anima vostra, poiché siete ciechi davanti a tanta luce e davanti a così grandi voci sordi, senza accorgervi che mentre andate in cerca di grandezze e di gloria rimanete miseri e vili, ignari e indegni di tanto bene!».

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pochino è pieno di lacune, d’incrinature e di debolezze. Per non ricordare quanto imperfettamente agisce, quando fa un’opera buona, preferisce cercare di dimenticarla, rammentando invece i suoi peccati e rimettendosi alla misericordia di Dio. Siccome non ha mezzi per pagare, lo prega di supplirvi lui, con la pietà e la clemenza che ha sempre usato verso i peccatori (6M 5,5).

La maggiore grazia

Non dimentichiamo che non ci troviamo davanti a un elemento più o meno necessario e/o opzionale nel processo della vita di fede e della vita di orazione. Da questo dipende tutto o quasi tutto nel cammino, e senza di esso non c’è possibilità alcuna di passare da una stanza all’altra: «prima di accordarle [le grazie], il Signore dà sempre una profonda conoscenza di se stessi» (6M 9,15). Infatti, anche nel contesto delle seste mansio-ni Teresa lo presenta concretamente come una delle grandi e principali grazie, o meglio, come la grazia senza la quale le altre perdono di validità e autenticità: «Di conseguenza, sorelle, ritengo che per noi l’atteggiamento migliore sia quello di porci davanti al signore, considerando da un lato la sua misericordia e grandezza, dall’altro la nostra miseria, e lasciando a lui poi di darci quello che vuole: acqua o siccità, egli sa meglio di noi cosa ci convenga» (6M 6,9).

E per questo si pensa che sia una delle doti che il Signore dà negli sponsali, in quanto riempie la persona di beni, la fa camminare nel realismo della verità e diviene il criterio di auten-ticità del progresso nella vita spirituale e della fede:

Da tutto l’insieme si vede bene come non sia opera del demonio, e meno ancora dell’immaginazione. Il demonio infatti non potrebbe senz’altro inscenare un fenomeno che lascia nell’anima una così accentuata sensazione di pace, di serenità e di profitto. Non arri-verebbe soprattutto a produrre in grado così sublime i tre effetti seguenti: in primo luogo, la più esatta nozione della grandezza

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di Dio, perché quante più sono le manifestazioni che abbiamo di essa, tanto meglio riusciamo a comprenderla; in secondo luogo, la conoscenza di noi stessi e l’umiltà, che ci portano a constatare come un essere così meschino in confronto al Creatore di tante meraviglie abbia osato offenderlo, al punto di non osare più nemmeno guardarlo; in terzo luogo, la propensione a tenere in scarsissima considerazione tutte le cose della terra, tranne quelle che si possono indirizzare al servizio d’un Dio così eccelso. Questi sono i gioielli che lo Sposo comincia a regalare alla sposa, e sono tanto di valore che lei non mancherà certo di metterli al sicuro; questi primi incontri le restano infatti impressi nella memoria così a fondo, da risultarle indimenticabili fino al momento in cui li godrà eternamente. Il dimenticarli costituirebbe per lei una terri-bile sventura; ma per fortuna, lo Sposo che glieli elargisce, è anche tanto potente da concederle la grazia di non perderli (6M 5,10-11).

In quanto criterio di autenticità, Teresa non cessa di insi-stere sul fatto che ci troviamo davanti a uno dei frutti più auten-tici delle grazie più elevate. Così, per esempio, in rapporto agli effetti delle visioni intellettuali, dice: «È una grazia del signore che apporta sempre all’anima un senso di inferiorità, e quin-di un incitamento all’umiltà. Qualora provenisse dal demonio, succederebbe ovviamente tutto il contrario» (6M 8,4). «Ne viene che ella per via dei favori ricevuti non si stima affatto più degli altri, ma anzi ha la sensazione di essere quella che serve a Dio peggio di tutti quanti esistono sulla terra. Le sembra infatti di esservi impegnata più di chiunque altro, per cui ogni mancanza che commette le trapassa le viscere, e a ragion veduta» (6M 8,6)4.

4 Qualcosa di analogo affermava in riferimento agli effetti o frutti delle visioni immaginarie: «Bisogna quindi andarci con cautela, aspettare che il tempo mostri i frutti di queste apparizioni, osservando a distanza quale grado d’umiltà e quale solido corredo di virtù lascino nell’anima» (6M 9,11). Sottolinea ciò anche trattando delle estasi e dei rapimenti: «Non so a proposito di che cosa né a quale scopo ho detto questo, sorelle, perché ho parlato senza

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Scoprirci nella nostra “miseria”

La conoscenza di sé teresiana significa aprire man mano gli occhi al realismo della propria condizione umana. Implica il riconoscere in un primo momento la presenza della sporci-zia, delle bestie, del veleno, ecc. che non lascia vedere la luce: il peccato, o l’essere troppo legati alle cose del mondo o al proprio io:

riflettervi. Quelli esposti sono comunque gli indubbi effetti lasciati come strascico da queste sospensioni o estasi. Non sono desideri effimeri, bensì duraturi; e quando si presenta l’occasione di dimostrarlo, si rileva subito che non si tratta d’un corredo fittizio. Perché affermo che sono duraturi, se poi certe volte l’anima si sente così avvilita, così a terra, così impaurita, così fiacca da aver l’impressione di non possedere il coraggio d’intraprendere nulla? Io penso che in questi momenti il Signore l’abbandoni in balia della sua natura, sempre per suo maggior bene. Infatti, ella così comprende che, se ha avuto il coraggio di far qualcosa, esso le è stato dato da Sua Maestà; e lo percepisce con tale chiarezza da restarne annichilita, ma al contempo più compresa della grandezza e della misericordia di Dio, che ha voluto mostrare la sua magnificenza in una creatura tanto vile. Ordinariamente però, l’atteggiamento fondamentale dell’anima resta quello da noi indicato prima» (6M 6,5). Tutte le grazie straordinarie autentiche avrebbero come criterio di autenticità il far vedere se aiutano nella conoscenza di sé: «Quando ritiene che si tratti di favori e doni del Signore, osservi con attenzione se per il fatto di esserne insignita si consideri migliore; e qualora non rimanga tanto più confusa quanto più accese di tenerezza sono le parole che sente, creda pure che esse non sono improntate allo spirito di Dio. È assodato infatti che, quando sono autentiche, più il favore più l’anima sottovaluta se stessa, più sente bruciante il ricordo dei suoi peccati, più dimentica i suoi interessi, più applica volontà e memoria a cercare unicamente l’onore di Dio senza badare ai propri eventuali interessi, più teme di allontanarsi anche minimamente dal suo volere, più forte ha la certezza di non aver mai meritato quella grazia, bensì l’inferno. Se tutti i doni e le grazie che riceve nell’orazione producono questi effetti, l’anima vada pure avanti senza timore, confidando nella misericordia di Dio, che è fedele e non permetterà al demonio di ingannarla. Lungo il cammino per altro, una certa dose di timore è sempre bene mantenerla» (6M 3,17).

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Tenete presente ora che in queste prime mansioni non arriva quasi traccia della luce emanata dal palazzo ove risiede il Re. In effetti, sebbene esse non siano tanto oscure e buie come quando l’anima si trova in peccato, la luce vi penetra talmente smorzata da non poter nemmeno esser vista dal relativo inquilino, ossia da chi vi si è allogato; e ciò non per colpa del locale – non so come spiegarmi –, benché perché la fitta ridda, di serpi, di vipere e di bestie velenose entrate insieme a lui gli impedisce di scorgerla. È come se uno entrasse in una stanza inondata di sole, ma con gli occhi così impiastricciati di fango da non poterli quasi aprire. La camera è sì illuminata, ma egli non gode la luce per via di quel suo impedimento o, nel caso nostro, per via della saraban-da inscenata dagli animali nocivi che lo obbligano a chiudere gli occhi per non trovarsi costretto a veder che loro. Così a mio parere si trova ridotta un’anima che, pur non versando in catti-vo stato, vive talmente immersa nelle cose del mondo, talmente impastoiata nelle speculazioni economiche, negli affari o nella questioni d’onore – come già accennavo – da vedersi bloccata: nonostante voglia di fatto guardare davvero se stessa e gode-re della propria bellezza, non le permettono di farlo, sicché lei ha l’impressione di non poter neanche districarsi da tanti osta-coli. Eppure, per riuscire ad entrare nelle seconde mansioni, è quanto mai opportuno sbarazzarsi delle preoccupazioni e degli affari non indispensabili, ciascuno entro i limiti consentitigli dal proprio stato. È questo un passo così importante per arrivare al quartiere principale, che, se non si comincia subito a farlo, ritengo sia impossibile giungervi. Non solo, ma penso che non si riesca nemmeno a restare senza grave pericolo nel locale in cui ci si trova, pur essendo entrati nel castello, perché dibattendosi in un’accozzaglia di animali tanto velenosi è impossibile che una volta o l’altra non si venga morsi (1M 2,14).

L’apertura a riconoscersi nella propria verità non è, tutta-via, frutto di un’analisi metodica che uno può realizzare da solo. Occorre sempre l’aiuto della grazia di Dio, colui che svelerà realmente alla persona la sua identità. Non è strano allora che

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Teresa ci inviti a vedere in questo un gran dono offerto dalla misericordia di Dio, che benché doloroso, purifica l’io dal suo amor proprio e apre gli occhi alla gratuità del dono di Dio e del riconoscimento della sua misericordia:

Dio sovente, volendo che i suoi eletti prendano atto della loro miseria, li priva per un po’ del suo favore: non occorre altro perché conoscano immediatamente chi sono. Che anche questa sia una maniera di provarli lo si capisce subito, perché essi divengono nettamente consapevoli delle loro carenze, e a volte li affligge più il dover constatare di esser ancor così incapaci di dominare la sensibilità per le cose terrene, anche di scarsa importanza, che non lo stesso soffrire la contrarietà del momen-to. Tale consapevolezza, secondo me, è già un grande gesto della misericordia di Dio, perché, sebbene la risposta sia tutto-ra un’imperfezione, risulta quanto mai vantaggiosa agli effetti dell’umiltà (3M 2,2).

(…) in secondo luogo, la conoscenza di noi stessi e l’umiltà, che ci portano a constatare come un essere così meschino in confronto al Creatore di tante meraviglie abbia osato offender-lo, al punto di non osare più nemmeno guardarlo (6M 5,10).

Naturalmente il riconoscimento costante della propria miseria non deve diventare un valore assoluto per la persona. Il rischio è di paralizzarsi durante il cammino, di scoraggiarsi o di sprofondare nella propria debolezza. La nostra miseria è la piat-taforma che deve innalzarci alla contemplazione e all’incontro con i grandi tesori che Dio ha riposto nella persona. La miseria non esaurisce quello che siamo, né ci definisce:

Riconosciamo la nostra miseria e aspiriamo ad andare là dove «più nessuno può disprezzarci»: questo, come a volte mi ricor-do di aver udito, è ciò che dice la sposa dei Cantici, e io non trovo davvero in tutta la vita occasione migliore per applica-

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re tali parole, perché tutte le forme di disprezzo e di travaglio riscontrabili nel corso della nostra esistenza mi sembra che non arrivino ad uguagliare queste lotte interiori. Come ho già detto, qualsiasi sconvolgimento e qualsiasi lotta risultano sopportabili quando c’è la pace nell’ambiente in cui si vive; ma avviarsi di proposito per arrivare a riposare dai mille travagli disseminati nel mondo, sapere che il signore stesso sta preparandoci tale sollievo, e poi trovare l’ostacolo proprio in noi, non può ovvia-mente non riuscire assai doloroso e quasi intollerabile. Pertan-to, Signore, portaci là dove tali miserie non ci disprezzino più, perché alle volte sembra davvero che stiano mettendo l’anima alla berlina (4M 1,12).

Teresa insiste perciò che è in Dio, nella grandezza e nella bellezza che ci conosciamo realmente. E così ci invita ad avvici-narci a Colui che ci dice chi siamo veramente: «Di conseguenza, sorelle, ritengo che per noi l’atteggiamento migliore sia quello di porci davanti al Signore, considerando da un lato la sua miseri-cordia e grandezza, dall’altro la nostra miseria, e lasciando a lui poi di darci quello che vuole: acqua o siccità, egli sa meglio di noi cosa ci convenga. Così procederemo con animo disteso e il demonio non avrà tanto margine per tenderci imboscate» (6M 6,9). Conoscerci in Dio ci apre, inoltre, a conformarci sempre più alla sua volontà.

Comprenderci con gli occhi di Dio

Ne deriva che la conoscenza di sé non arriverà ad essere completa se la persona non si avvicina a Dio. In Lui ci viene rive-lata l’identità più profonda di quello che siamo, per puro dono e pura grazia del suo amore creatore: «in noi stessi si celano arca-ni segreti che neanche conosciamo» (4M 2,5). Secondo Teresa è lo stesso Dio che ci invita a questa conoscenza come via per raggiungere due obiettivi complementari: «nostro Signore vuole, in primo luogo, che l’anima non perda di vista la sua creaturalità

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mantenendosi sempre umile, e in secondo luogo, che compren-da meglio il molto cui va debitrice a Sua Maestà ringraziandolo per la grandezza della grazia che riceve» (7M 4,2). È a tal punto fondamentale questo cammino che Teresa non cesserà di pregare per questa intenzione: «Voglia Sua Maestà renderci consapevoli di quanto gli siamo costati e che “il servo non è da più del padro-ne”, che per godere la sua gloria dobbiamo lavorare» (2M 1,11).

Avvicinandosi a Dio, la persona perverrà a una conoscen-za maggiore. Ma non solo, imparerà ad agire secondo la positi-vità infinita che la caratterizza, anziché restare nella limitazione della sua miseria:

Oh, se si ferma nella conoscenza di sé! D’accordo: essa è tanto necessaria, che perfino le anime ammesse da Dio nel suo stes-so appartamento non devono mai trascurarla, per quanto alta sia la posizione da essa raggiunta. Del resto, non potrebbero lasciarla fuori programma neppure se volessero. L’umiltà infatti lavora sempre, come l’ape accudisce il miele nell’alveare, perché senza tale indefessa cura tutto va perduto. Ma teniamo presente pure che l’ape non tralascia di uscire in volo per succhiare il nettare dei fiori. Così anche l’anima: pur mantenendosi nella conoscenza di sé, mi creda e spicchi ogni tanto il volo, lancian-dosi a considerare la grandezza e la maestà del suo Dio. In questo modo scoprirà la propria miseria assai meglio che ripie-gandosi su se stessa, e riuscirà anche a sbarazzarsi dall’assedio degli animali nocivi che entrano nei primi locali, cioè in quelli costituiti dalla conoscenza di sé. Quand’anche, come ripeto, sia sempre un grande dono della misericordia di Dio che l’anima continui ad esercitarsi in essa, nel caso nostro ovviamente il di più val bene il meno, come si usa dire. Credete a me: lasciandoci portare dalla virtù di Dio, praticheremo la virtù in modo assai migliore che mantenendoci abbarbicate alla nostra creta (1M 2,8).

Teresa ci esorta ad aprirci a Dio in quanto via che ci permette di riconoscere la nostra condizione più vera. Chiuder-

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ci o ripiegaci in noi stessi non è da intendere soltanto in senso volontarista, perché si corrono molti pericoli se non ci si apre alla dimensione positiva di ciò che siamo:

Tutto ciò infatti, unitamente a tante altre fisime che potrei enumerare, sembra loro autentica umiltà, mentre in realtà proviene dal non essere riusciti a capirsi a fondo. Il bloccare lo sguardo su di sé distorce l’autoconoscenza, e se non usciamo mai da noi stessi non mi stupisco che ci sia da temere questo e altro ancora. Perciò insisto, figliole: puntiamo gli occhi a Cristo nostro bene e sui santi suoi, ché così impareremo la vera umiltà. Allora, come ho detto prima, anche il nostro intelletto dovrà necessariamente nobilitarsi, col risultato che la conoscenza di noi stessi non ci renderà neghittosi e vili. Questa dimora, pur essendo la prima, è già molto ricca e talmente preziosa che, se l’anima arriva a sbarazzarsi degli animali che ne infestano l’area, non mancherà di andare avanti. Sono davvero terribili gli intrighi e i raggiri posti in atto dal demonio per impedire alle anime di conoscersi e di individuare bene la strada che si propongono di battere (1M 2,11).

Per Teresa, è così importante che afferma che non sarà possibile entrare nel cielo senza la conoscenza di sé che ci apre alla conoscenza di Lui:

Ora, pretendere di entrare in cielo senza prima entrare in noi stessi per meglio conoscerci e prendere atto della nostra mise-ria, per constatare quanto dobbiamo a Dio e implorare insisten-temente la sua misericordia, è un’autentica pazzia. Il Signore stesso dice: «Nessuno salirà al Padre mio se non tramite me» (non so se dica proprio così, ma credo di sì); e ancora: «Chi vede me, vede il Padre mio». Pertanto, se noi non lo guardiamo mai, né mai consideriamo di quanto gli andiamo debitori, né ricor-diamo quale morte abbia subito per noi, non so davvero come possiamo conoscerlo e operare al suo servizio. È tanto ovvio, perché la fede senza le opere, e le opere dissociate dal valore

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insito nei meriti di Gesù Cristo nostro bene, che valore possono avere? E poi, chi ci scuoterà dal torpore, spingendoci ad amare il Signore? (2M 1,11).

L’unica ragione di tutto questo è che la nostra origine è Dio, siamo a sua immagine e somiglianza, e che l’unico che ci conosce veramente è Lui:

In mezzo alla serie di travagli e di incertezze da noi descritte, che riposo può avere la povera farfallina? Tutto contribuisce ad acuire ulteriormente in lei il desiderio di godersi lo Sposo; e Sua Maestà, da buon conoscitore della nostra debolezza, utilizza queste ed altre traversie per allenarla gradualmente a trovare il coraggio di accompagnarci a un così eccelso Signore e prender-lo come Sposo (6M 4,1).

Di fatti del genere potrei narrarne qui parecchi, perché, aven-do trattato con molte persone sante e dedite all’orazione, ne conosco un buon numero; ma affinché non pensiate che l’inte-ressata sia io, mi trattengo dal farlo. Quello che vi ho riportato, mi sembra utilissimo per farvi comprendere quanto gradisca il Signore che noi impariamo a conoscerci, sforzandoci continua-mente di guardare e riguardare la nostra miserabile indigenza, sino a convincerci di non possedere nulla che derivi da lui (6M 5,6).

In questo senso, quanto più ci addentriamo nella cono-scenza ed esperienza di Dio, più penetriamo in quello che vera-mente siamo. Il mistero della Trinità ci apre perciò a conoscerci ancor più: «il nostro buon Dio vuole ormai toglierle le squame dagli occhi, affinché veda e comprenda qualcosa della grazia che egli le accorda, seppure cogliendola in un modo singolare. Una volta insediata in questa dimora, si mostrano a lei in visione intellettuale, come in una specie di raffigurazione della verità, le tre Persone della Santissima Trinità» (7M 1,6).

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La presa di coscienza della nostra “grandezza” ci porta ad agire positivamente

Finora abbiamo assistito a una contrapposizione o anche a un apprezzamento antitetico degli elementi che definiscono la conoscenza di sé: miseria e grandezza. Entrambe le realtà fanno parte della verità di ciò che siamo. Siamo di fronte a una moneta con due facce, le quali appartengono entrambe all’essere della persona, benché in condizioni diverse. Nell’immagine che Tere-sa utilizza fin dall’inizio, il castello di diamante o di cristallo, la miseria non è parte integrante del castello, è qualcosa di ester-no, che lo può macchiare o oscurare, ma senza tramutare la sua natura. Ciò significa che quello che veramente ci identifica, e verso cui deve procedere la conoscenza, è la scoperta della gran-dezza, bellezza, del proprio castello in cui abita un Dio tanto grande. È qualcosa che si chiarisce man mano che prendiamo possesso del nostro castello e lasciamo che le bestie restino fuori: «Siccome queste dimore sono più prossime all’appartamento del Re, grande è la loro bellezza e le meraviglie che contengono sono così delicate da vedere e da comprendere, che l’intelletto non è in grado di fornire dei termini sufficienti a darne un’idea esatta e che non risulti tremendamente oscura per coloro che non ne hanno esperienza. Chi invece possiede tale conoscenza empirica, specialmente se essa è molto ricca, mi comprenderà benissimo» (4M 1,2).

Solo addentrandoci nella nostra vera natura e ripulendo i nostri occhi dalla miseria che ci impedisce di vederla, intone-remo l’inno di lode a Dio per il dono immenso che ci ha dato gratuitamente. Teresa ci insegna a vedere il positivo anche nella scoperta della nostra miseria e povertà:

Oh, cecità umana! Fino a quando, fino a quando i nostri occhi resteranno impiastricciati di terra? Quantunque tra noi essa non sia in apparenza tanta da accecarsi del tutto, io però scorgo

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dei grumoletti e delle pietruzze che, se noi li lasciamo aumenta-re, saranno sufficienti ad arrecarci un grave danno. Allora, per amor di Dio, sorelle, approfittiamo di questi difetti per cono-scere la nostra miseria e acquisire una maggiore capacità di vedere, come avvenne con il fango che il nostro Sposo adoperò per guarire il cieco. Vedendoci quindi tanto imperfette, premu-riamoci di intensificare le nostre suppliche affinché Sua Maestà si degni ricavare il bene anche dalle nostre miserie, mettendoci così in grado di accontentarlo in tutto (6M 4,11).

Diventa una costante nel cammino, incluso nel matrimo-nio spirituale. La persona continua a vedersi nella sua piccolezza e a sentire che il grande che c’è in lei è dono di Dio:

E siccome, stagliate sullo sfondo delle sue grandezze, hanno conosciuto meglio le loro miserie e quindi hanno anche rileva-ta con maggior nettezza di contorni la gravità dei loro peccati, spesso non osano nemmeno più alzare gli occhi, come il pubbli-cano. Altre volte si sentono invase dal desiderio di veder finire la loro vita per trovarsi al sicuro, anche se poi subito, rincuorate dall’amore che nutrono per Dio, bramano nuovamente vivere per servirlo, come si è detto, rimettendosi alla sua misericordia per tutto quanto le riguarda (7M 3,14).

All’inizio Teresa ci delineava lo scopo del cammino. Lo ripete alla conclusione dell’opera: conoscere la nostra identità che è a immagine e somiglianza di Dio: «Sebbene qui non si parli che di sette mansioni, ognuna di esse si suddivide in molte altre, ubicate in basso, in alto e ai lati, fornite di bei giardini, di fontane, di labirinti e di altri svaghi talmente deliziosi, da accen-dere in voi il desiderio di struggervi in lodi al gran Dio che li ha creati a sua immagine e somiglianza» (M epilogo 3).

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Virtù e conoscenza di sé

Dal discorso che stiamo portando avanti si comprende perché, per Teresa, la crescita nelle virtù è strettamente legata alla conoscenza di sé. Eccone alcuni esempi:

- L’umiltà-conoscenza aumenta nella vita con le virtù e l’unione con la sua volontà. È dono di Dio:

L’essenziale, credetemi, non sta nel portare o meno l’abito reli-gioso, bensì nello sforzarsi di praticare le virtù e di sottomettere totalmente la nostra volontà a quella di Dio, in modo che l’im-postazione della nostra vita rispecchi il disegno tracciato da Sua Maestà, e noi non pretendiamo che si faccia la nostra volontà ma la sua. Siccome a tanto non siamo ancora arrivati, ripeto quel che ho già detto: umiltà! Essa è l’unguento per le nostre ferite; se infatti ne avremo ancora una buona dose, ammesso pure che ritardi un pò il suo intervento, verrà sì quel celeste chirurgo che è Dio a guarirci (3M 2,6).

Dalla conoscenza di sé scaturisce la gioia per i doni dell’al-tro:

Ecco la vera unione con la sua volontà! E lo stesso deve avvenire in altri campi. Mettiamo che tu senta lodare molto una perso-na: devi rallegrarti molto più che se lodassero te. Qui oltretut-to la cosa risulta facile, perché, se uno è dotato di umiltà, prova sempre un accentuato disagio nel sentirsi lodare. Eppure, la gioia di veder conosciute le virtù delle consorelle riveste un alto valore; per cui, qualora scopriamo un difetto in qualcuna di loro dobbia-mo soffrirne come se fosse mostro e cercare di coprirlo (5M 3,11).

- L’amore per il prossimo:

Pensate sia di scarsa utilità che la vostra umiltà e la vostra morti-ficazione siano così grandi, che la vostra compiacenza e carità

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verso le vostre consorelle siano esemplari, che il vostro amore per il Signore diventi un fuoco capace di infiammarle tutte, e che le vostre virtù in genere servano a stimolarle di continuo? Rappresenterà invece un vantaggioso apporto e un graditissimo servizio prestato al Signore. Da quello che – per quanto vi è possibile – tradurrete in pratica, Sua Maestà comprenderà che sareste disposte anche a fare molto di più, e quindi vi premierà come se realmente gli guadagnaste molte anime (7M 4,14).

Forgiando l’umiltà

Ma la più grande virtù è per Teresa l’umiltà. E nella sua acquisizione si vede più chiaramente il legame tra virtù e cono-scenza di sé. Perciò ella insiste di non tralasciarlo mai:

Non so se vi ho spiegato bene il concetto. Il conoscersi infatti è così importante, che in tale campo non vorrei mai si avveras-sero cedimenti, per alte che vi libraste nei cieli; e ciò perché, fino quando saremo su questa terra, non v’è cosa che ci sia più indispensabile dell’umiltà. Torno quindi a ripetere che va molto bene, anzi arcibenissimo, cercar di entrare nella stanza dove si attua tale operazione, prima di volare alle altre. Questa infatti è la strada. E se possiamo viaggiare su un terreno piano e sicuro, perché dobbiamo esigere ali per volare? Occorre però cercare il modo di fare ulteriori progressi in questo campo. E a mio parere non arriveremo mai a conoscerci a fondo, qualora non ci premuriamo di conoscere Dio. Contemplando la sua gran-dezza, scopriamo la nostra miseria; considerando la sua purez-za, riconosceremo la nostra lordura; osservando la sua umiltà, vedremo quanto siamo lontani dall’essere umili (1M 2,9).

È la virtù mediante la quale otteniamo tutto da Dio: «umiltà, e ancora umiltà! È da questa infatti che il Signore si lascia vincere, concedendoci quanto andiamo a chiedergli. E il primo sintomo da cui potrete arguire se la possedete, è quello di non poter pensare neanche lontanamente di meritare tali favori

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e “gusti” del Signore, non osando nemmeno sperare di ottenerli in tutto il corso della vita» (4M 2,9).

L’umiltà sarà inoltre la fonte del coraggio, tanto necessario in questo cammino: «Sicché, sorelle mie, per affrontare questo impegno e le altre numerose traversie che coinvolgono l’anima portata dal Signore a tali altezze, occorre una buona dose di coraggio; a mio parere anzi, per sostenere l’onere derivante da questi ultimi obblighi, ne occorre una dose più alta che mai, se si ha un briciolo di umiltà. Auguriamoci che il Signore nella sua umiltà ce la conceda» (6M 5,6).

E dal momento che è un cammino affinché il Signore ci introduca nelle stanze che da soli non possiamo raggiungere:

D’accordo che non in tutte le mansioni potrete entrare con le sole vostre forze, per grandi che vi sembrino, se non ci pensa ad introdurvi lo stesso Signore del castello. Ed è appunto per questo che, nel caso incontraste qualche resistenza, vi consi-glio di non forzargli la mano, perché lo indisporreste in modo tale da portarlo a non permettervi più di entrare. Egli ha una speciale simpatia per l’umiltà. Se vi riterrete tali da non meri-tare neppure l’ingresso alle terze mansioni, otterrete ancor più presto il suo consenso a raggiungere le quinte. Continuando a recarvi premurosamente in esse, di lì potrete servirlo così bene da conseguire che v’introduca nella sua stessa dimora privata, dalla quale non uscirete mai più se non chiamate dalla prio-ra, la cui volontà questo nostro gran Signore vuol vedere da voi eseguita come la sua propria. Oltretutto, quand’anche per obbedienza doveste stare fuori molto tempo, al ritorno vi farà sempre trovare la porta aperta. Una volta poi abituate a goder-vi il castello, troverete distensive tutte le cose anche più ardue, grazie alla speranza di tornarvi, che nessuno vi può strappare (M Epilogo 2).

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Processo di liberazione e guarigione

Oltre ad essere un cammino nel rafforzamento delle virtù che configurano il vero seguace di Cristo, la conoscenza di sé prepara interiormente la persona a poter riuscire a vivere questa unione d’amore con Dio, che è la meta finale del cammino. Per poter amare la persona deve prima guarire e liberarsi da quello che la ostacola e le impedisce di affidarsi liberamente e comple-tamente:

per riuscire ad entrare nelle seconde mansioni, è quanto mai opportuno sbarazzarsi delle preoccupazioni e degli affari non indispensabili, ciascuno entro i limiti consentitigli dal proprio stato. È questo un passo così importante per arrivare al quar-tiere principale, che, se non si comincia subito a farlo, ritengo sia impossibile giungervi. Non solo, ma penso che non si riesca nemmeno a restare senza grave pericolo nel locale in cui ci si trova, pur essendo entrati nel castello, perché dibattendosi in un’accozzaglia di animali tanto velenosi è impossibile che una volta o l’altra non si venga morsi (1M 2,14).

Da qui che conoscersi è anche un essere vigili sulle vie che possono ingannarci, soprattutto per non voler rinunciare a ciò che ci appartiene, all’io e ad altri interessi che possono frapporsi:

Ora, che ne direste, figliole, se proprio le creature ormai svinco-late da tali pastoie come noi, che siamo già penetrate molto più addentro sin nelle dimore più segrete del castello, dovessero per loro colpa tornar ad uscirne per gettarsi nuovamente in questa baraonda? Va imputato infatti ai nostri peccati se purtroppo esistono tante persone cui Dio ha elargito molte grazie, che poi colpevolmente esse ributtano in questa pattumiera di miseria. Qua, sotto il profilo esteriore, noi siamo libere; nella sfera inte-riore pure, voglia Iddio che lo siamo, e se no ci liberi lui. Guar-datevi, figlie mie, dal farvi carico dei problemi altrui. Badate che sono ben poche le mansioni di questo castello in cui i demoni

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smettono di combattere. È vero che in alcune le guardie, che – come mi pare d’aver già fatto rilevare – sono le potenze, hanno forza sufficiente per poter lottare; ma dobbiamo far molta atten-zione a non allentare la vigilanza, per smascherare le insidie del demonio ed evitare che ci inganni camuffandosi da angelo di luce. Ha infatti a sua disposizione innumerevoli mezzi per danneggiarci, insinuandosi a poco a poco, così da non lasciarci percepire il male se non dopo avercelo fatto (1M 2,15).

Verso la trasformazione globale della persona

In definitiva, si esamina la radicale importanza del grande progetto che Dio ha per ogni uomo: salvarlo. Cioè, trasformarlo integralmente affinché possa vivere la pienezza a cui Dio lo ha chiamato dalla creazione.

Da qui l’insistenza sui vantaggi di tutto questo:

Adottando tale metodo si ricavano due vantaggi: primo, perché ovviamente una cosa bianca posta accanto ad una nera appare ancor più bianca, come viceversa la nera spicca di più affianca-ta alla bianca; secondo, perché la nostra intelligenza e volontà diventano più nobili e disposte ad ogni forma di bene, polariz-zandosi alternativamente su Dio e su di noi. Se non ci disinca-gliamo mai dal nostro fango di miserie, ce ne derivano molti inconvenienti. Parlando di coloro che vivono in peccato morta-le, dicevamo quanto siano nere e maleodoranti le rogge che ne promanano; così nel caso nostro (quantunque non siano iden-tiche a quelle, Dio ce ne liberi, giacché qui si tratta solo di un paragone), qualora ci manteniamo sempre immersi nella miseria della nostra terra, le acque di deflusso non usciranno mai depu-rate dal fango delle paure, della pusillanimità e della vigliacche-ria. L’anima sarà sempre assillata da dubbi deprimenti: chis-sà se mi guardano o non mi guardano; se andando per questa strada non mi succederà qualche guaio; se non sarà superbia per me osar intraprendere quell’opera; se è bene che una perso-na miserabile al par di me affronti un’iniziativa sublime come

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l’orazione; se non mi giudicheranno migliore per il fatto che non seguo la pista comune a tutti; se saprò rendermi conto che le esagerazioni non sono mai buone, neanche nel campo delle virtù; se dato che sono tanto peccatrice, non rischierò di cadere ancor più dall’alto; se magari non riuscirò più ad andare avanti, danneggiando così i buoni; se sono davvero convinta che una come me non ha bisogno di singolarismi (1M 2,10).

Vivere a partire dalla gratuità e dalla compassione

E infine, questo processo di conoscenza di sé va forgiando nella persona un modo di essere, uno stile di vita, analogo al modo di essere di Dio. Cioè, imparare a vivere nella e a partire dalla gratuità: «Se sono umili, si sentiranno spinte a ringraziarne il donatore» (3M 2,10).

Cambia il modo di guardarsi e di guardare gli altri:

Badiamo ai nostri difetti, e lasciamo stare quelli altrui. È tipico delle persone sicure di sé stupirsi di tutto, mentre forse sui punti essenziali potrebbero imparare molto da quelli stessi che si scan-dalizzano. Può darsi che nella compostezza esterna e nel modo di conversare li superiamo; ma per quanto anche ciò sia buono, il fattore più importante non è questo. Inoltre non c’è motivo di pretendere che tutti viaggino incolonnati per la nostra strada, e tanto meno di assumere atteggiamenti da maestri nella vita dello spirito quando magari non sappiamo neppure che cosa sia. In realtà, sorelle, con questi desideri del maggior bene delle anime che ci sembrano ispirati da Dio, rischiamo di commettere molti sbagli. È quindi meglio per noi attenerci a quanto prescri-ve la nostra Regola: «cercar di vivere sempre nel silenzio e nella speranza». Ci penserà il Signore ad avere cura delle loro anime. Una volta che da parte nostra non trascuriamo di supplicare Sua Maestà a provvedervi, col suo favore riusciremo loro molto utili (3M 2,13).

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Un modo corretto di guardare all’altro è sospendere il giudizio, guardarlo con la stessa compassione positiva con cui lo guarda Dio:

È davvero così per l’anima che non è in stato di grazia, lo ammet-to, e non per mancata presenza del Sole di giustizia che conti-nua a sussistere in essa mantenendola in essere, bensì per il fatto che essa è incapace di accogliere la luce, come credo d’aver già detto nelle prime mansioni, riferendomi a quanto aveva inteso in materia una certa persona. Queste anime sventurate sì che si trovano come in un carcere buio, legate mani e piedi, e quindi impossibilitate a fare alcunché di buono e di utile per acquistar merito, cieche e mute. Ben a ragione pertanto possiamo sentir-ne pietà, e rammentando che anche noi ci siamo trovate per un certo tempo nelle stesse condizioni, non dimenticare che il Signore può aver misericordia anche di loro (7M 1,3).

E tutto questo perché lo scopo della conoscenza di sé è: arrivare all’unione e servire (cf 7M 4).

Ecco ora, sorelle mie, quanto desidero che cerchiamo di raggiun-gere, e non per godere, bensì per attingervi la forza di servire il Signore: desideriamo e pratichiamo l’orazione, ma non preten-diamo d’imboccare una strada non battuta, giacché ci perde-remmo sul più bello. Oltretutto, sarebbe per noi davvero singo-lare pensare di ottenere da Dio queste grazie percorrendo una via diversa da quella seguita da lui e da tutti i santi: non ci passi neanche per la mente. Credetemi: Maria e Marta devono anda-re d’accordo per ospitare il Signore, tenerlo sempre con sé e non fargli l’affronto di rifiutargli da mangiare (7M 4,12).

Conclusione: Cammino verso l’unione con Dio

Il fine dell’uomo è l’unione d’amore con Dio suo creatore. Lì Teresa si è impegnata a condurci. Sa ciò che può essere utile o meno. Ma non ha dubbi riguardo alla centralità della cono-

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scenza di sé. È un mezzo alla portata di tutti. Chi si impegna a cercarlo, forse si sta già aprendo ad un incontro più profondo con Dio. Certo, l’uomo con le sue sole forze non raggiungerà la meta, ma se si impegna nella ricerca della verità, cerca indub-biamente Dio. E questo buon Dio non farà a meno di aprirgli le porte affinché raggiunga il suo obiettivo. È la porta della speran-za per un dialogo, per continuare a credere che, nonostante le apparenze, Dio non ha chiuso le strade per poter continuare ad essere cercato, anche senza esserne consapevole, da ogni uomo di buona volontà:

Io vorrei proprio spiegarmi meglio su questo argomento, ma purtrop-po non riesco a dirne altro. Dalle considerazioni sin qui fatte, sorel-le, impariamo che per conformarci almeno in qualche cosa al nostro Dio e Sposo sarà bene sforzarci sempre con impegno a camminare in questa verità. Non affermo soltanto che non dobbiamo mentire, giac-ché per fortuna e gloria di Dio vedo che nelle nostre case vi premurate tutte di non dire una bugia per nulla al mondo; ribadisco invece che dobbiamo camminare nella verità davanti a Dio e agli uomini in tutti i modi possi-bili, specialmente non pretendendo di essere considerate migliori di quelle che siamo, e di riflesso dando nelle nostre opere a Dio quello ch’è suo, a noi quello ch’è nostro, e cercando di mettere sempre e dappertutto in luce la verità. Così facendo, terremo in scarsa considerazione questo mondo, che è tutto un impasto di menzogna e falsità, e che come tale non dà garanzie di durata. Una volta mentre stavo conside-rando per quale ragione nostro Signore nutrisse tanta simpatia per la virtù dell’umiltà, mi venne in mente tutto d’un tratto e a mio parere senza nemmeno riflettervi apposta, la motivazione seguente: perché Dio è somma Verità, e l’umiltà sta appunto nel camminare nella veri-tà. È incontrovertibile verità che da parte nostra non abbiamo nulla di buono, ma unicamente miseria e nullità, al punto che chi non se ne dà per inteso cammina immerso nella menzogna. Chi invece lo compren-de più a fondo, più risulta gradito alla somma Verità, perché cammina in essa. Voglia Iddio, sorelle, farci la grazia di non deviare mai dalla conoscenza di noi stesse. Amen! (6M 10,6-7).